Ainur

di Moiraine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Favole della buonanotte ***
Capitolo 2: *** Ribelle ***
Capitolo 3: *** Anar ***
Capitolo 4: *** Non proprio unica ***
Capitolo 5: *** Calore ***
Capitolo 6: *** Indiziata ***
Capitolo 7: *** Intrusa ***
Capitolo 8: *** Paura ***
Capitolo 9: *** Mahtar ***
Capitolo 10: *** Il pacco ***
Capitolo 11: *** La scia continua ***
Capitolo 12: *** Pensieri ***
Capitolo 13: *** Il detective Yetille ***
Capitolo 14: *** Risveglio ***
Capitolo 15: *** Gioia ***
Capitolo 16: *** Finalmente libera ***
Capitolo 17: *** Allarme ***
Capitolo 18: *** Andiamo ***
Capitolo 19: *** Lei ***
Capitolo 20: *** L’assassino ***
Capitolo 21: *** L'incubo ***
Capitolo 22: *** Il racconto ***
Capitolo 23: *** Beccata ***
Capitolo 24: *** La punizione ***
Capitolo 25: *** Spiegazioni ***
Capitolo 26: *** Novità ***
Capitolo 27: *** La storia di Anar ***
Capitolo 28: *** L'istituto ***
Capitolo 29: *** Il sogno ***
Capitolo 30: *** Questione di sangue ***
Capitolo 31: *** Waldeaz Ur ***
Capitolo 32: *** Lo stregone ***
Capitolo 33: *** La festa di Dragville ***
Capitolo 34: *** La pozione ***
Capitolo 35: *** Un tuffo nel passato ***
Capitolo 36: *** L'incontro ***
Capitolo 37: *** L'uomo eccentrico ***
Capitolo 38: *** La spiegazione dello stregone ***
Capitolo 39: *** Paura e confusione ***
Capitolo 40: *** La storia del rosso ***
Capitolo 41: *** Melyanna ***



Capitolo 1
*** Favole della buonanotte ***


Favole della buonanotte

 

Era una fredda notte di dicembre e per le gelide vie di Dragville non si percepiva anima viva. Soltanto una piccola bambina osava sfidare il vento impetuoso che, nonostante piegasse gli alberi, non riusciva minimamente a scalfire quella creaturina all’apparenza tanto fragile.
Ainur camminava lentamente, i capelli bagnati dalla pioggia che le si incollavano al viso scoprendo delle strane e piccole orecchie appuntite, tenendo stretto tra le braccia un coniglietto di pezza bianco dallo sguardo troppo furbo e vigile per essere soltanto il frutto del lavoro di un’abile giocattolaio.
La bambina guardò il cielo e sorrise malinconica, emettendo un flebile sospiro. Poi avvicinò la boccuccia all’orecchio del coniglio sussurrandogli qualcosa e sembrò che anche quello le stesse sussurrando.
Sospirando una seconda volta, si fermò sopra un ponte  a guardare la striscia ghiacciata del fiume che le passava di sotto. La pioggia batteva sempre più forte e Ainur era sempre più fradicia, ma tuttavia si ostinava a restare lì immobile ad osservare curiosa uno strano animaletto nero che si era appena accasciato sul ghiaccio. Continuò a fissarlo con sempre maggiore intensità fin quando quello, improvvisamente, non distese le ali e spiccò il volo in cerca del suo riparo asciutto.
Ainur sorrise soddisfatta di se stessa e, dopo aver guardato nuovamente il cielo, riprese a camminare.
Non c’era nessuno a quell’ora a parte lei, che osava affrontare il gelido inverno, eppure lei era certa che qualcuno dovesse esserci poiché lei lo stava cercando. Con un’espressione troppo paziente e quieta per appartenere ad una normale bambina continuò a camminare consapevole che nulla sarebbe riuscito ad ostacolare il suo avanzare.  E quando intravide la sagoma sfocata di un uomo in lontananza, sorrise ingenuamente e gli si avvicinò.
L’uomo, ubriaco fradicio, si accorse di una bambinetta che gli si faceva incontro con un sorriso; una bambina, apparentemente di sette anni, da sola che teneva stretto tra le braccia un coniglietto di pezza. Dov’erano i suoi genitori? E per quale motivo non erano con lei?
«Ti sei persa?» le chiese con un tono brusco quando gli si fu avvicinata. Ainur lo guardò un po’ delusa e, alzando le spalle, riprese a camminare passando oltre quell’uomo che la guardava incredulo e confuso. Non lo aveva degnato neanche di un saluto.
«I tuoi genitori non ti hanno insegnato le buone maniere?» le chiese l’ubriacone afferrandola dal piccolo polso per farla voltare.
Fece la mossa più sbagliata che avesse mai potuto fare in tutta la sua vita. La bambina si voltò a guardarlo con un’espressione furiosa, quasi diabolica. L’uomo si scompose un attimo sotto quello sguardò infuocato e, nel giro di pochi secondi, si accasciò al terreno privo di vita. Ainur lo guardò come se fosse soltanto spazzatura e senza degnarlo di una sepoltura riprese a camminare lentamente, lasciandolo lì, disteso in mezzo alla strada, come indizio del suo passaggio.
Un secondo uomo, invece, la seguiva da molto tempo ormai e aveva assistito alle manifestazioni del suo potere in grado di poter aiutare chi era ormai vicino alla morte, ma allo stesso tempo in grado di togliere la vita. Un potere meraviglioso e mostruoso allo stesso tempo, che rendeva Ainur terrificante agli occhi di quell’uomo che, nonostante avesse affrontato e sconfitto molti demoni, restava comunque pietrificato davanti alla fragile bambina.
Improvvisamente, Ainur si bloccò; il coniglietto stava indicando qualcosa, o meglio qualcuno, che prima stava alle sue spalle.
«Melurnh ed» sussurrò in una lingua oscura, ormai da troppo tempo dimenticata e l’uomo capì che era proprio a lui che si stava riferendo. Così, preso un profondo respiro, uscì dal suo nascondiglio per avvicinarsi a quella bambina diabolica. Si fermò a pochi centimetri da lei che lo guardava incuriosita e tranquilla.
Vista da vicino non era poi così terrificante; anzi, era una bambina bellissima. Aveva la pelle candida e perlacea ad eccezione delle guance , leggermente chiazzate di rosso; aveva capelli lunghi fino alle spalle che, bagnati, le si incollavano al viso e due grandi occhi dorati; le labbra piccole e perfette mostravano una serenità ed una quiete che l’uomo non aveva mai visto in nessun viso; ma ciò che più lo stupì, erano le piccole orecchie appuntite che le sbucavano ai lati della testa.
Ainur continuava a fissare l’uomo con curiosità. Perché l’aveva seguita sotto la pioggia fredda? E per quale motivo non aveva paura di lei dopo aver assistito alla morte dell’ubriaco?
L’uomo le si inginocchiò di fronte e la guardò dritto negli occhi, intenerito. Quella bambina non era malvagia; pericolosa sì, ma non cattiva. Spostò lo sguardo sul suo coniglio bianco.
«Come si chiama?» le chiese.
«Vortha» gli rispose e l’uomo si stupì.
«Perché ha un nome così brutto?» le chiese, curioso del perché una bambina dovesse chiamare il proprio pupazzo “morte”.
«Perché è proprio ciò che vuole» gli rispose tranquilla.
«È lui che ti dice di uccidere?».
«».
Allora l’uomo, di scatto, le tolse Vortha di mano e lo lanciò lontano. La bambina lo guardò indifferente ma, dopo qualche secondo, iniziò ad urlare scatenando lampi e fulmini, fin quando non si accasciò esausta tra le braccia del suo salvatore.

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Capitolo 2
*** Ribelle ***


Ribelle
                                                                
Era una tranquilla mattina di ottobre; la scuola era iniziata già da qualche giorno quindi, come era di consuetudine in quel periodo, Estel se ne stava davanti al cancello dell’edificio in attesa che arrivassero Shaza e Aira, le sue due migliori amiche.
Mentre aspettava si era seduta ai piedi di un albero per ripassare nuovamente tutto da capo. Era ormai da due settimane che si preparava a quel giorno e, finalmente, il momento era arrivato. Si sentiva eccitata ed emozionata come ogni volta che si avvicinava il momento di entrare in azione e sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene in maniera sempre più veloce. Aveva controllato tutto e tutto stava filando secondo i piani; anche il ritardo di Shaza e Aira rientrava nel piano, ormai erano troppo prevedibili quindi Estel si era dovuta munire di qualche minuto extra in modo da poter iniziare tutto in perfetto orario.
Erano le sette e mezza quando finalmente le due arrivarono. 
«Finalmente» disse Estel loro con un sorrisetto, fingendosi infastidita per la lunga attesa.
«Scusaci, ma Shaza ha perso un’ora per decidere cosa indossare» le disse Aira, una ragazza dai lunghi capelli rossi, con un’espressione scontrosa  e al tempo stesso infastidita.
«Non è assolutamente vero! Avevo tutto pronto, sei tu che hai perso tempo con il tuo Maraud!» le disse Shaza storcendo le labbra come se stesse baciando un ragazzo invisibile.
«Non c’entra niente Maraud!» disse la rossa difendendo il proprio ragazzo, stringendo i pugni e lanciandole un’occhiataccia.
«Se non foste rimasti mezz’ora a sbaciucchiarvi forse..» Shaza fu interrotta da un pugno ben assestato della rossa che la colpì in pieno sulla testa. Si zittì per qualche secondo, il tempo di tenersi e massaggiarsi la testa dolorante; dopodiché iniziò a gridare con molta più forza di prima.
Mentre le due continuavano a battibeccare, Estel sbuffò e, nell’attesa che il litigio finisse, controllò nuovamente ciò che aveva preparato la notte prima, appuntando gli ultimi ritocchi. Aveva passato settimane a studiare quel piano e finalmente era arrivato il momento di metterlo in atto.
Guardò l’orologio; erano ormai le otto. Si voltò verso le sue amiche con un sorriso, desiderosa di condividere quel momento adrenalinico con loro, ma il suo desiderio si spense nel notare che quelle stavano ancora litigando. Sbuffando si mise in mezzo per dividerle, buscandole a sua volta.
«Volete smetterla?!» urlò spazientita spingendole; «Sono ormai le otto!».
Le due si calmarono di botto, come se il tempo si fosse fermato; si guardarono (un’ultima volta in cagnesco) e, finalmente, rivolsero alla loro amica quello sguardo emozionato che tanto Estel aveva sperato di vedere. Si guardarono tutte e tre eccitate e si appostarono dietro l’albero, per aspettare.
Quel giorno sarebbero state scattate le foto per l’annuario scolastico, quindi era il giorno migliore per intervenire. Estel e le sue amiche, fin dalle elementari, erano sempre state oggetto degli insulti o delle marachelle di una certa Tuima, la solita principessina della classe che, viziata come poteva esserlo soltanto la figlia unica di due ricconi, credeva di poter fare o dire tutto ciò che voleva. Ma con Estel aveva, come si usa dire, preso un muro di faccia. Non era una di quelle che si lasciava intimidire facilmente; anzi, l’unica cosa in grado di poterla intimidire erano i fulmini, ma per fortuna era riuscita a tenere segreta questa sua paura.
Estel e Tuima erano sempre state l’una contro l’altra e quella a vincere sul piano “legale” era sempre Tuima, mentre Estel vinceva sul piano dell’orgoglio; il che le bastava perché faceva ingelosire tanto la sua avversaria.
Ovviamente, Tuima non poteva essere punita dato che era l’alunna prediletta di tutta la scuola, e quella che ci andava di mezzo, naturalmente, era sempre Estel, tutto il contrario di quella che potrebbe essere definita una studentessa modello. Era una di quelle che pensava che la scuola fosse solo una perdita di tempo e che tanto valeva sprecare questo tempo divertendosi e facendo stupidaggini, soprattutto se quelle stupidaggini erano dirette e organizzate contro Tuima. Quindi, a causa di questi suoi divertimenti quotidiani, passava il più delle ore scolastiche nell’aula delle punizioni che ormai per lei era diventata come una seconda casa.
Era la tipica ribelle disposta a fare qualunque cosa pur di potersi godere la vita e, come tutti i ribelli, nascondeva un passato misterioso di cui neanche lei sapeva molto. Era sempre stata presa in giro, soprattutto da Tuima, per via delle sue orecchie appuntite, veramente troppo strane per appartenere ad un essere umano normale, però lei non si era mai fatta abbattere da questo. Anzi, a lei piacevano le sue orecchie perché la rendevano unica e speciale in mezzo a quel gregge di pecore pronte a vestirsi tutte allo stesso modo per via della moda e senza un briciolo di personalità.
 
Estel si sporse l’ennesima volta da dietro il tronco per controllare se stesse arrivando qualcuno e, finalmente intravide la persona che stavano aspettando. Guardò l’orologio e sorrise soddisfatta; era in perfetto orario.
Come da piano, Tuima si fermò davanti al cancello della scuola. Aveva lunghi capelli castani che le arrivavano fin sotto la vita e un corpo degno di una modella. In viso, poi, era davvero bella: aveva due occhi verdi brillanti e delle labbra carnose e rosse (per il rossetto che mai osava dimenticare di mettersi). Per l’occasione aveva indossato un vestitino turchese che le arriva poco sopra il ginocchio e che le si stringeva sotto il seno, e un candido cappotto bianco che si intonava con il colore degli stivaletti.
«Guardate com’è carina» disse Shaza in un sussurro, indicandola furtivamente.
«Già, quel vestitino è davvero bello» disse Aira annuendo lentamente.
«Quasi, quasi, mi viene voglia di lasciar perdere il piano» sussurrò Estel guardando intensamente la sua preda. Le due amiche la guardarono immediatamente, sconvolte.
«Ma..» sussurrò Shaza, stupita. Estel le guardò e, si portò velocemente una mano davanti alla bocca per evitare di scoppiare a ridere.
«Guardate che facce che avete» disse loro ridacchiando. Le due la guardarono senza accennare minimamente un sorriso. «Sembra quasi che non mi conosciate! È ovvio che stavo scherzando!» disse loro, scuotendo la testa; era incredibile che le sue amiche avessero creduto così facilmente al suo scherzo. Quelle la guardarono per qualche secondo e si lasciarono sfuggire un sospiro di sollievo.
«Sei una stupida!» la insultò Shaza, imbronciandosi, e lei ridacchiò nuovamente. Era sul punto di risponderle a tono, quando però Aira la interruppe, indicando con l’indice il punto in cui si trovava Tuima. Shaza ed Estel si voltarono immediatamente per controllare.
«È arrivato» disse Estel seriamente. Le altre due annuirono concentrate. Secondo il programma, Tuima avrebbe aspettato davanti al cancello l’arrivo del suo ragazzo che era comparso oltre l’angolo della scuola proprio in quel momento e, tranquillamente, le stava andando in contro. Era a un metro da lei, quando..
«Ora!» sussurrò Estel e Aira, immediatamente, scoccò la sua freccia che andò a colpire e infilzare il palloncino pieno di pittura verde (il colore preferito di Tuima) che era stato incastrato nella chioma dell’albero sovrastante la ragazza inerme. La pittura cadde e cosparse Tuima dalla testa a piedi.
Proprio in quel momento, e proprio secondo il loro programma, suonò la campanella  della scuola e, come le pecore riunite dal richiamo del pastore, gli studenti affluirono da tutte le parti ammirando la meravigliosa opera d’arte di cui Estel, Aira e Shaza erano le artiste.
 
Ridendo come il resto della scuola, le tre colpevoli uscirono dal loro nascondiglio senza dare nell’occhio e tranquillamente si avvicinarono al cancello della scuola, come se niente fosse, fingendosi curiose di scoprire cosa era successo.
«Tu!» urlò Tuima contro Estel, non appena la riconobbe tra la folla di studenti. Quella si bloccò e la guardò, fingendosi confusa.
«Io?» le chiese innocentemente, indicandosi con l’indice.
«Sei stata tu! Come hai osato?» le urlò rossa in viso dall’imbarazzo, sbattendo i piedi per terra. Il suo ragazzo si era dileguato tra la folla senza lasciare traccia.
«Cosa avrei fatto, scusa? Non sei sempre verde d’invidia di solito?» le chiese con un sorrisetto.
«Io ti faccio espellere!» le urlò quella, cercando di pulirsi di dosso la pittura.
«Con quali prove? E poi credevo che il verde fosse il tuo colore preferito» le disse sorridendo, scrollando le spalle.
«Sei una stronza!». Estel si finse offesa e scosse la testa.
«Ed io che stavo quasi per complimentarmi con te, per come il colore si intona ai tuoi occhi.. non ti meriti niente» le disse scuotendo la testa e incrociando le braccia, guardandola con uno sguardo offeso. Alle sue spalle Shaza e Aira, trattenevano a stento le risate.
Tuima aprì la bocca, molto probabilmente per insultarla di nuovo, ma venne interrotto da una presenza già ben programmata.
«Estel». Una voce, diversa da quella della mora-verde e da quelle delle sue amiche, ma comunque ben familiare, la chiamò facendole aumentare il sorriso che sfoggiava con fierezza.
«Oh è lei signor Maiwe» disse, voltandosi, al professore che la controllava durante ogni punizione. Era un uomo abbastanza ingenuo e magrolino, un qualcuno da poter modellare a proprio piacimento.
«Seguimi» le disse cercando di suonare severo, incollando i suoi occhi castani in quelli dorati della ragazza.
«Perché?» gli chiese quella, confusa (almeno apparentemente).
«Per ciò che hai fatto a Tuima» le disse il professore incrociando le braccia.
«Come fa a dire che sono stata io?» gli chiese alzando un sopracciglio.
«Se stata tu?» le chiese guardandola di sottecchi ben sapendo che quello sguardo non avrebbe sortito nessun particolare effetto.
«No» gli rispose, infatti, tranquillamente.
«Professore, è ovvio che sia stata lei!» gli urlò Tuima ancora verde mentre i vari studenti continuavano a ridere.
«Voi andate tutti nelle vostre classi, la campanella è suonata già da un pezzo» urlò alla marmaglia ancora raggruppata intorno a Tuima ed Estel, senza ottenere alcun effettivo risultato. Scosse la testa e si rivolse alla ragazza colorata di vede.
«Lo so» le disse, annuendo lentamente. Poi si avvicinò alla colpevole e, messale una mano sulla spalla, cominciò a camminare verso l’aula delle punizioni, mentre la martire, sacrificata per il bene delle sue amiche, si voltava verso Tuima per salutarla con un sorrisetto trionfante. 

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Capitolo 3
*** Anar ***


Anar
 
Estel seguì il professore lungo il corridoio che portava nell’aula delle punizioni. Era ancora soddisfatta per la riuscita del suo piano e sorrideva tra se orgogliosa. Si che per colpa del suo scherzo adesso era costretta a subirsi due blocchi di punizione, però era sempre meglio che partecipare ad una lezione di letteratura latina, dove sicuramente avrebbe dovuto lottare con il sonno per riuscire a tenere gli occhi aperti.
«Cosa vuoi dimostrare con i tuoi scherzi, Estel?» le chiese all’improvviso il professore, interrompendo le sue fantasie. Le dava le spalle e stava ancora continuando a camminare. Si muoveva velocemente ed era così magro che le gambe sembravano annegare nei pantaloni di velluto marrone.
«Assolutamente nulla» gli rispose quella, tranquillamente. «Tuima continua a fare dispetti alla maggior parte degli alunni di questa scuola; io mi sono semplicemente immolata come eroina» gli disse scrollando le spalle, con un sorrisetto.
«Fare l’eroina non ti impedisce di impegnarti nello studio; eppure è così. Perchè? Hai tantissime insufficienze; per non parlare poi delle tue assenze! Se continui così rischi di perdere l’anno!» le disse, voltandosi di botto per guardarla negli occhi, con l’intento di intimidirla, ma ovviamente il gesto non subì l’effetto desiderato.
«Non credo sia un problema» gli disse scrollando le spalle, impassibile. Erano ormai arrivati davanti alla porta dell’aula delle punizioni. 
«E ai tuoi genitori non ci pensi?» le disse lentamente. Lei si bloccò per qualche secondo, dopodichè lo oltrepassò ed entrò in classe senza aggiungere una parola, lasciandoselo alle spalle a borbottare.
 
Stranamente quel giorno l’aula delle punizioni ospitava già qualcuno. Di solito, Estel era la prima a metterci piede a inizio giornata e quindi era abituata a vedere la classe deserta; invece, notare che quel giorno non era stata lei ad avere il primato l’aveva incuriosita e indispettita al tempo stesso, dato che il nuovo arrivato era andato a sedersi proprio nel banchetto che di solito usava lei.
Borbottò qualcosa e con un sospiro si avvicinò al suo posto. Il ragazzo che l’aveva occupato sembrava essersi addormentato, poiché teneva la testa poggiata pesantemente sulle braccia, incrociate sopra il banco, e gli occhi chiusi. La testa era coperta da un pesante cappellino di lana bianca; indossava una felpa verde e un paio di jeans dello stesso colore del copricapo. Da sotto il tessuto della felpa i suoi muscoli sembravano enormi, ma molto probabilmente era soltanto un gioco della vista; Estel avrebbe voluto tanto toccarli per vedere se in realtà fossero veri.
«Scusa?» gli disse, di botto, cercando di svegliarlo.
Quello aprì lentamente gli occhi e con la stessa lentezza, alzò il capo dal banco per vedere chi l’avesse svegliato. Quando i suoi occhi incontrarono quelli di Estel, si lasciò sfuggire un sorriso.
«Posso fare qualcosa per te?» le chiese con un sorrisetto, veramente carino. Lei sbuffò.
«Alzati» gli disse secca, incrociando le braccia sul petto. Quello la guardò e il suo sorriso si spense. Si raddrizzò sulla sedia e alzò le braccia verso il soffitto per stiracchiarle, mettendo nuovamente in moto la fantasia della ragazza sui suoi muscoli.
«Perché dovrei?» le chiese confuso, guardandola di sottecchi. Lei si riscosse e lo guardò dritto negli occhi. Le sue iridi erano verdi. Lei odiava gli occhi verdi: sua madre, Tuima.. tutte le persone con gli occhi verdi che aveva conosciuto fino a quel momento erano persone senza le quali si poteva vivere sicuramente meglio. Quindi perché quel ragazzo avrebbe dovuto fare differenza? Anche se i suoi occhi aveva qualcosa di diverso..
«Questo è il mio posto» gli disse semplicemente, corrugando la fronte.
«E dove l’hai comprato che è tuo?» le chiese quello corrugando a sua volta le sopracciglia. Lei sollevò un sopracciglio, il destro con l’esattezza, e sospirò.
«L’ho rubato esattamente due giorni fa dall’aula di chimica» gli disse tranquillamente, massaggiandosi il collo. Quello la guardò per qualche secondo, ma non si lasciò scomporre da una simile affermazione.
«Beh, non vedo il tuo nome scritto da nessuna parte» le disse fingendo di controllare attentamente la superficie del banco. Lei sbuffò.
«Allora mi sa che hai bisogno di un paio d’occhiali» gli disse, spostando la mano che il ragazzo teneva sul banco e indicandogli il nome che c’era nascosto sotto.
«Estel?» le chiese quello incredulo, girando la testa per leggere bene il nome.
«Esatto; adesso togliti dai piedi» le disse acida, lasciando cadere il proprio zaino ai piedi del banchetto. Il ragazzo la guardò incredulo, sbattendo parecchie volte le palpebre.
«Non ci penso nemmeno» gli disse mettendosi comodo e ritornando a poggiare la testa sulle proprie braccia incrociate.
«Ti ho detto di alzarti!» gli disse lei in un sussurro, iniziando a perdere la pazienza. Quel ragazzo era veramente fastidioso! Per quale motivo non doveva alzarsi e lasciarla sedere, dato che quello era il suo posto?! 
«Fammi alzare tu, bulletta» le rispose alzando la testa di botto e guardandola con un’espressione di sfida e un sorrisetto provocatorio. A quelle parole Estel si bloccò. Che cosa stava facendo? Si stava comportando esattamente come avrebbe fatto Tuima con un qualsiasi studente che si sarebbe seduto al suo posto: l’unica differenza era che lei aveva le orecchie a punta.
Di malavoglia, sbuffò e si sedette nel banco accanto, abbassandosi il cappello in modo da evitare che quel ragazzo notasse la forma particolare delle sue orecchie. Odiava il fatto che quel ragazzo l’avesse indirettamente paragonata ad una delle persone che più disprezzava nella sua vita; lo odiava perché, nonostante avesse gli occhi verdi, si era comportato esattamente come avrebbe fatto lei, di solito, in presenza di un bullo.
«Scusa..» sussurrò con un tono di voce bassissimo, volgendo il capo nella direzione opposta a quella in cui si trovava il ragazzo, sicura che quello probabilmente non l’avrebbe mai sentita. Si stupì parecchio nel notare che invece era tutto il contrario.
«Non bastano delle semplici scuse, quando fai la bulla» le disse il ragazzo, costringendola a farla voltare per osservarlo. Si era alzato in piedi e aveva lasciato libero il posto in cui prima sedeva.
Estel lo guardò stupita e confusa.
«Perché ti alzi?» gli chiese, guardandolo curiosa, mentre le si avvicinava.
«Perché mi ha chiesto scusa» le disse quello come se fosse una cosa ovvia, prendendole una mano per farla alzare e sedere al posto giusto.
«In questo modo, invece, mi fai pensare che delle semplici scuse bastino» gli disse con un sorrisetto mettendosi comoda sulla sua sedia. Il ragazzo si sedette nella sedia accanto e sbadigliò.
«A volte» le rispose, con un sorriso che lei, spontaneamente, ricambiò. Il gesto però, la lasciò stupefatta per qualche secondo; per lei non era normale sorridere con tanta spontaneità con persone che non fossero le sue due migliori amiche o il suo tutore. Cosa c’era di diverso in quel ragazzo? Cosa aveva di particolare?
«Quindi ti chiami Estel» le disse quello, all’improvviso, facendola quasi sussultare. Lei lo guardò e annuì, lentamente, cercando di prestare più attenzione alle proprie reazioni.
«Esatto; e il tuo nome?» gli chiese curiosa, guardandolo dritto negli occhi.
«Anar» le disse con un sorriso. Lei annuì e lo guardò di sottecchi.
«Perché sei qui, Anar? O almeno, perché così presto? Di solito questa stanza di prima mattina è vuota» gli disse, guardandolo incuriosita. Lui la guardò attentamente.
«Questo mi porta a pensare che passi molto tempo in questa stanza, specialmente di mattina» le disse con un sorriso, guardandola dritto negli occhi. Lei lo guardò crucciata e sbuffò.
«Beh, non ti interessa» gli disse incrociando le braccia.
«Allora perché a te dovrebbe interessare cosa mi ha portato in questa stanza stamattina?» le chiese scrollando le spalle, con un sorrisetto.
«Infatti, non mi interessa» gli disse sbuffando e guardando la lavagna, dove il professore stava scrivendo: “Silenzio.. per favore..”. Ridacchiò mentalmente, ma la stanza risuonò invece di una ristata più forte e sonora. Incredula si voltò e guardò Anar con gli occhi spalancati.
«Sai, fai delle espressioni incredibili, davvero» le disse ridendo; «Mi stai facendo morire dal ridere» le disse guardandola dritto negli occhi, continuando a ridere. Lei lo guardò incredula, senza sapere se arrabbiarsi o ridere. Poi decise che era meglio arrabbiarsi.
«Che cosa vorresti dire?» gli chiese, alzando un sopracciglio e stringendo le labbra. Lui la guardò e, lentamente, smise di ridere.
«Non lo so, ma mi fai ridere» le disse scrollando le spalle, continuando a sorridere. Lei sbuffò e tornò a guardare la lavagna. Quel ragazzo era davvero molto strano.
«Comunque, ho bucato le ruote dell’auto di un mio professore» le disse all’improvviso scrollando le spalle. «È uno che non sopporto proprio, che mi manda in questa stanza per cose stupide; quindi ho pensato fosse giunto il momento di punire anche lui e di farmi punire per qualcosa che avesse un senso» le disse guardando a sua volta la lavagna. Estel lo guardò stupita; non si aspettava che le dicesse davvero perché era finito nell’aula delle punizioni e sicuramente non si aspettava un motivo del genere.
«Io ho dipinto una mia compagna di verde» disse invece lei. La sua “marachella” sembrava una bazzecola in confronto a quella del compagno. Il ragazzo la guardò perplesso.
«Quindi sei davvero una bulla» le disse, fingendosi stupito. Lei lo guardò male e sbuffò.
«Ho semplicemente punito la bulla» gli disse guardandolo dritto negli occhi.
«Perché che ti ha fatto?» le chiese sinceramente curioso, guardandola. Lei lo guardò incredula e alzò un sopracciglio. Perché avrebbe dovuto raccontare tutta la storia a un ragazzo che neanche conosceva e che per giunta sembrava particolarmente strano?
Poi sbuffò e scosse la testa; la risposta già la conosceva ed era facile da capire; semplicemente era strana anche lei.
«Beh, diciamo che ha cercato di “spaventarmi”» disse, mimando con le mani il segno delle virgolette. Anar la guardò confuso.
«In che senso?» le chiese, sistemandosi sulla sedia, in modo da esserle il più vicino possibile. Lei indietreggiò impercettibilmente con la schiena, ma non staccò lo sguardo dai suoi occhi. Scrollò le spalle.
«Devi sapere che lei è una bulla che si prende sempre gioco di tutti coloro che sono più deboli di lei, una cosa che a me da tremendamente fastidio. Così, ogni volta che so che si è comportata male con qualcuno, organizzo qualcosa per punirla a modo mio» gli disse con un sorrisetto, con lo sguardo fisso sulle proprie mani; «Lei però, dopo un po’ si è stufata e mi ha spedito un orsacchiotto con le zampe tagliate, come per farmi capire che o la finivo di mettermi in mezzo a ciò che faceva, o me l’avrebbe fatta finire lei» gli disse scrollando le spalle con un’espressione desolata. Anar la guardava incredulo e quasi sconvolto. «Purtroppo però, mi sembra che non abbia ben capito con chi ha a che fare. Ci vuole molto più di un animaletto di pezza per spaventarmi» disse sorridendo tranquillamente. Il ragazzo la guardò con una strana espressione per qualche secondo, dopodichè scosse la testa e sorrise.
«Beh, certo che questa ragazza è davvero..» cercò di dire.
«Stronza? Mafiosa? Subdola?» gli suggerì lei guardandolo attentamente.
«Stavo per dire cattiva» le disse lui guardandola di sottecchi e alzando un sopracciglio, «Ma credo che anche le tue alternative vadano bene».
«Ovvio» esclamò lei sorridendo.
Anar le sorrise, lasciandosi sfuggire un sonoro sbadiglio.
«Credo che dormirò un po’» le disse piegandosi sul banco. Estel annuì e si sistemò sulla sedia.
«Buona dormita allora» gli disse con un sorriso, ma non finì neanche di parlare che già quello stava dormendo.
 
Erano passate quasi due ore da quando il professor Maiwe l’aveva portata nell’aula delle punizioni, eppure il tempo sembrava essere volato.
Anar a prima vista era un ragazzo simpatico, ed era la prima persona, a parte Aira e Shaza, con cui era riuscita a ridere e sorridere spontaneamente. Cosa a suo riguardo molto strana, dato che il ragazzo aveva anche gli occhi verdi; eppure sembrava diverso dal resto dei ragazzi che aveva conosciuto. Era più.. beh, aveva qualcosa di particolare che la incuriosiva.
Sospirò e, dato che Anar stava dormendo, si voltò leggermente per osservarlo più attentamente. Dormiva tranquillo e sembrava sereno come un bambino. Anche guardandolo in quel modo sembrava diverso, anche se non riusciva a spiegarsi perché. Sapeva che molto probabilmente, una volta che la loro punizione fosse finita, si sarebbero salutati per mai più rivedersi; eppure sentiva che c’era qualcosa in quel ragazzo; qualcosa che gliel’avrebbe tenuto vicino, anche se non riusciva a spiegarsi cosa fosse. Poi però si lasciò sfuggire un sospiro, stringendo le labbra. Forse la risposta stava nel fatto che lei non voleva che sparisse per sempre, ma voleva invece imparare a conoscerlo, perché a prima vista sembrava speciale e voleva scoprire se lo era davvero. E poi, Anar era davvero un bel ragazzo: aveva degli occhi verdi, scuri e chiari allo stesso tempo e profondi come due pozzi senza fine; aveva un naso perfetto e la bocca carnosa che, anche adesso mentre dormiva, mostrava un sorriso meraviglioso; i capelli erano nascosti sotto il cappello ma lei se li immaginò chiari, non biondi però.
«Cosa stai guardando?» le chiese quello all’improvviso, facendola sussultare.
«Ma sei scemo?!» le urlò lei, portandosi una mano al petto; «Ero convinta che stessi dormendo, stupido!» lo insultò, lanciandogli uno sguardo infuocato.
Anar rise e si stiracchiò sulla sedia, guardandola di sottecchi. Anche se probabilmente non aveva dormito, aveva i segni delle mani, su cui aveva poggiato la testa, ben in mostra sul viso; dei segni che gli davano un’aria infantile e tenere allo stesso tempo.
«Mi dispiace, ma tu perché mi stavi osservando così attentamente? Mi hai incuriosito» le disse scrollando le spalle e massaggiandosi la faccia, per cancellare i segni del sonno. Lei si imbronciò e sbuffò, incrociano le braccia.
«Mi chiedevo di che colore avessi i capelli» gli disse come se niente fosse, senza guardarlo. Lui rimase in silenzio per qualche secondo.
«Perché?» le chiese confuso, portandosi le mani sul cappello, quasi avesse paura che la compagna glielo avrebbe tolto a forza.
«Curiosità» gli disse con un sorriso, inarcando un sopracciglio. Lui spostò lo sguardo sulla lavagna, con un’espressione preoccupata sul viso.
«Beh, sono chiari» tagliò corto.
«Biondi?» gli chiese, alzando un sopracciglio.
«No» le disse, scrollando le spalle. Lei sorrise, soddisfatta, a quelle parole.
«Menomale, odio i capelli biondi» sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Il ragazzo la guardò. «E non dirmi che sembra una cosa stupida, dato che credi che i miei siano biondi, perché non lo sono. E poi più che altro, non mi piace l’abbinamento occhi chiari, capelli biondi, capisci? E i miei occhi sono nocciola, non sono chiari, quindi anche se avessi i capelli biondi non sarebbe un problema così grande» gli disse in fretta scrollando le spalle. «Capisci?» gli chiese guardandolo di botto.
Anar la guardò, confuso, perplesso e stupito per qualche secondo. Dopodichè si lasciò sfuggire un sorriso e la guardò con una strana luce nello sguardo.
«Non ho mai pensato che i tuoi capelli fossero biondi» le disse scrollando le spalle. «Più che altro a me sembrano quasi dorati» le disse come se niente fosse. Estel lo guardò allibita e incredula, mentre una strana sensazione di calore iniziava a pervaderle il viso. Quello poteva sembrare benissimo un complimento, e se lo era davvero, era il primo che riceveva in tutta la sua vita; perlomeno il primo che riceveva da un ragazzo che non conosceva. Scosse la testa e cercò di non lasciarsi influenzare dalla cosa.
«Quindi?» gli chiese in fretta, senza guardarlo.
«Quindi cosa?» le chiese Anar confuso. Lei sospirò, mantenendo ancora lo sguardo fisso sulla lavagna.
«Di che colore sono i tuoi capelli?» gli chiese di botto. Lui rimase in silenzio per qualche secondo.
«Rossicci» disse dopo un po’ velocemente.
«Davvero? Fammeli vedere» gli disse lei incuriosita con un sorriso da bambina, lasciando perdere all’improvviso la strana sensazione di calore che aveva sentito poco prima. Lui la guardò incredulo, tenendosi stretto il cappello.
«No» le disse, con una voce che non ammetteva repliche.
«Perché no?» gli chiese lei, confusa, mettendo il broncio.
«Un giorno te li farò vedere» le disse con un sorrisetto, facendole l’occhiolino.
«Perché non ora?» gli chiese senza far notare il sorriso che spontaneamente le era comparso sul viso davanti alla promessa silenziosa di un loro futuro incontro.
«Perché non siamo soli» le disse con un sorrisetto malizioso.
«Perché dovremmo essere da soli?» gli chiese sbuffando, incrociando le braccia.
«Perché non voglio che mi vedano tutti» sussurrò in tono sensuale. Estel lo guardò accigliata e, dopo qualche secondo scoppiò a ridere. Anar la guardò incredulo, rosso in viso come un peperone.
«Ti vergogni?» gli chiese ridendo, guardandolo, incredula.
«Certo che no!» sbuffò quello, ancora più rosso.
«E allora fammeli vedere adesso» gli disse con un sorriso di sfida.
 
Anar la guardò. Non poteva permettersi di farsi sfidare da quella ragazzetta di qualche anno più piccola di lui. Non poteva lasciarsi prendere in giro in quella maniera!
Così, dopo un lungo respiro, si tolse il cappello.
 

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Capitolo 4
*** Non proprio unica ***


Non proprio unica
 
Estel rimase per qualche secondo immobile e incredula, con Anar, imbarazzato, che cercava di non concentrarsi sulla sua espressione esterrefatta. Poi, contrariamente a quanto il ragazzo aveva segretamente sperato, iniziò a ridere come una stupida.
«Non ci credo» gli disse con le lacrime agli occhi, indicandogli la testa con l’indice. Anar incrociò le braccia e le voltò le spalle, per nascondere il rossore che a poco, a poco gli stava colorando le guance. «Più che rossicci, come li hai definiti tu, a me sembrano rosa» gli disse ridacchiando. A quelle parole lui si voltò di scattò, guardandola con un’espressione incredula e stupita.
«È solo questo che ti fa ridere?» le chiese fissandola incredulo, prendendosi tra le dita una ciocca di capelli. Lei lo fissò e annuì, sorridendogli. Sapeva perfettamente a cosa Anar si stesse riferendo, ma per lei era qualcosa di assolutamente normale.
«A te sembra normale avere i capelli rosa?» gli chiese, ridacchiando, cercando di non concentrare la discussione sul vero particolare che imbarazzava il ragazzo appena conosciuto.
«Lì ho così da sempre» sbuffò incrociando le braccia, come se niente fosse; poi però, si concentrò sui suoi occhi, con uno sguardo serio. «Sul serio non ti stupiscono.. queste?» le chiese toccandosi appena la punta  delle orecchie che, proprio come quelle di Estel, erano appuntite. Lei scosse la testa con un sorriso gentile.
«Non sei il primo che incontro che ha le orecchie da elfo» gli rispose tranquilla, facendogli spalancare gli occhi per lo stupore.
«Davvero? Chi ce le ha a parte me?» le chiese con un tono di voce strano, quasi leggermente preoccupato. Lei lo osservò per qualche secondo, confusa dalla sua strana reazione. Per quale motivo era così interessato a conoscere le persone con le orecchie a punta? Forse cercava conforto in chi si trovava nella sua stessa situazione?
Sbuffò, convincendosi del fatto che il motivo reale non le interessava, e con un sospiro si tolse il cappello.
Anar rimase di stucco. Aveva gli occhi spalancati e non li staccava dalle sue orecchie da elfo, il che la infastidiva parecchio. Sembrava quasi che avesse visto un fantasma, perché era improvvisamente impallidito.
Estel lo guardò incredula e indossò nuovamente il cappello, pensando che così il ragazzo finalmente avrebbe distolto lo sguardo. E così fu.
«Non ci posso credere..» le disse lentamente, sbattendo nuovamente le palpebre.
«Tutto ok? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma» gli disse ridacchiando per cercare di alleggerire l’atmosfera che si era venuta a creare. Lui la guardò per qualche secondo con un’espressione indecifrabile, dopodiché sorrise.
«Scusami» le disse, grattandosi la testa nervosamente, «È che sei la prima persona, all’infuori di me, che ha le orecchie a punta» le disse scrollando le spalle; «E poi.. il fatto che sei una ragazza.. mi ha portato a pensare a… quella favola» le disse lentamente, guardandola con uno sguardo attento e serio e sottolineando con la voce la parola “quella”.
Lei lo guardò e sospirò, lasciandosi sfuggire una risata liberatoria.
«È solo per questo?» gli chiese tranquilla, «Ti giuro che mi hai fatto realmente spaventare. Non riuscivo a capire che cosa ti stava succedendo» gli disse guardandolo con un sorrisetto gentile. Lui la guardò corrugando la fronte.
«Conosci la storia?» le chiese, guardandola con attenzione.
«Certo» gli disse lei, scrollando le spalle.
«E il fatto che hai le orecchie appuntite non ti ci  fa pensare?». Lei lo guardò per qualche secondo, e scosse la testa.  
«Ce le ho così da sempre» gli disse, «All’inizio forse un po’ ci pensavo, anzi molti bambini mi allontanavano perché avevano paura di queste» disse toccandosi la punta delle orecchie; «Però con il tempo, crescendo, ho capito che io non posso essere Ainur» disse con un sorrisino poco convincente. In realtà Estel, in un primo momento della sua vita, era cresciuta con la consapevolezza di essere Ainur. I suoi genitori la trattavano come un mostro e i bambini dell’asilo o delle elementari, avevano avuto paura di passare del tempo insieme a lei. Aveva sofferto molto a causa di quella favola, però, alla fine, era questo che restava: una favola, ed appunto come le aveva detto una volta il suo tutore: “Esistono le creature fantastiche e i mostri, ma non i personaggi che sono stati inventati dagli uomini dopo aver sentito parlare dei loro avvistamenti”. Quindi Ainur non poteva esistere. E comunque, anche se la forma delle sue orecchie l’aveva costretta ad una vita difficile, da un lato lei era contenta, poiché le davano un aspetto unico e la rendevano speciale, diversa e separata dal resto della massa. «Ainur non esiste, quindi non vedo perché debba preoccuparmi di questa favola» disse al ragazzo con un sorriso.
 
Anar la guardò confuso per qualche secondo; ma come.. lei non sapeva?
«Perché credi che abbiamo le orecchie in questo modo?» le chiese con un sorriso, come se stessero semplicemente parlando di una loro curiosità, ma con l’intento di capire cosa lei realmente pensasse. Estel ci pensò su per qualche secondo. Aveva lo sguardo concentrato sul soffitto dell’aula e si era portata un indice sotto il mento. Borbottò qualcosa fra se e se, dopodiché scrollò le spalle.
«Non ne ho idea..» gli rispose sinceramente. Lui la guardò incredulo, sbattendo le palpebre; sembrava realmente sincera mentre parlava.
«E se fossimo, che so, qualche creatura strana?» le disse, ridacchiando, come se stesse semplicemente ipotizzando una follia. Lei lo guardò e rise.
«Elfi, per esempio? Oppure folletti?» gli chiese con un’espressione divertita; «Beh, credo che mi piacerebbe essere un elfo; sinceramente, credo possa essere interessante, sarei sicuramente dotata di qualche potere particolare, tipo, che so, l’immortalità!» gli disse, fantasticando, con gli occhi che brillavano di fantasia. «Però, non credo di esserlo, malgrado le orecchie a punta. Purtroppo sono solo un volgare essere umano» gli disse scrollando le spalle e mordendosi il labbro inferiore, come a fingersi dispiaciuta.
«E come fai ad esserne sicura?» le chiese, scrollando le spalle. «Voglio dire, le orecchie appuntite ce le abbiamo». Lei lo guardò con una strana espressione, come se stesse realmente considerando l’ipotesi che con molte probabilità lui fosse pazzo.
«Beh, credo che anche i miei genitori avrebbero dovuto essere elfi, non credi?» gli chiese con un sorrisetto tirato. Lui la guardò accigliato.
«Intendi dire che non hanno le orecchie a punta?» le chiese, spalancando gli occhi.
«No» gli rispose, preoccupata. «Dovrebbero?». Lui la guardò attentamente. Poi però iniziò a pensare che molto probabilmente Estel non sapeva nulla dell’esistenza di strane creature e che con molte probabilità le sue orecchie erano soltanto una malformazione. Alla fine, non poteva nascere una creatura particolare da dei genitori umani.
«Non so» le rispose ridacchiando, cercando di smorzare un po’ la tensione che si era creata. Anche Estel rise, di una risata quasi liberatoria, cercando di nascondere l’ansia che le era cresciuta durante la discussione.
Anar però era ancora confuso. Se Estel era chi lui pensava che fosse, allora era un bel casino anche se lei non sembrava sapere nulla. E poi chi erano i suoi genitori? E com’era possibile che non le avessero detto nulla? Sicuramente loro dovevano sapere qualcosa, ma fin a che punto erano stati sinceri con la propria figlia?
Voleva continuare a parlarle, a farle domande, ma aveva paura di passare per pazzo e non voleva che lei si allontanasse per questo. Voleva studiarla attentamente e conoscerla. Così sospirò e si sistemò sulla sedia, come per farle credere che la discussione fosse finita lì.
Poggiò le braccia sul banco e prese in mano il cappellino bianco. Stranamente, in quel momento non sentiva la necessità di indossarlo; strano, dato che gli unici momenti in cui portava la testa scoperta erano quelli che trascorreva chiuso in casa; ma probabilmente era la presenza di Estel a renderlo più tranquillo.
«Tu ci credi nell’esistenza di queste creature?» gli chiese all’improvviso la ragazza, interrompendo i suoi pensieri. Anar la guardò incredulo e quasi rise. Alla fine era stata lei a iniziare la discussione che lui avrebbe tanto voluto fare. «Elfi dico».
«Si» le rispose tranquillamente, scrollando le spalle, come se fosse una cosa normale credere nell’esistenza di essere inesistenti. «Perché non dovrei? Non ho nessuna prova che mi dice che non esistono» le disse con un sorriso. Lei lo guardò, stupita.
«Non hai prove neanche del contrario» gli disse, sollevando un sopracciglio. Lui si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito.
«Appunto; non ho prove da nessuna delle due parti, quindi perché dovrei saltare subito alla conclusione più conveniente? Non avrebbe senso» le disse scrollando le spalle. «Non possiamo affermare con certezza che esistano, ma non possiamo fare neanche il contrario. Quindi, dato che ho la possibilità di scegliere se crederci o meno, io decido di crederci» le disse con un sorriso, facendole l’occhiolino. Lei lo guardò, incredula.
«Quello che dici ha un senso, però alcune di queste creature vanno contro la logica del nostro mondo, della vita stessa!» gli disse, con un tono di voce un po’ elevato; «Voglio dire, alcune delle creature di cui si narra sono immortali! Nessun essere può essere immortale!» gli disse ridendo. Anar la guardò attentamente e scosse la testa, con un sorriso. Non aveva senso continuare quella discussione. Estel non voleva credere nell’esistenza di creature sovrannaturali.
«Tu ci credi?» le chiese semplicemente, scrollando le spalle. Lei lo guardò per qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore, come se non sapesse cosa rispondere.
«No» disse infine; «O meglio, credo solo nell’esistenza degli alieni e dei fantasmi, ma tutto il resto per me è soltanto una favola; niente elfi, folletti, vampiri, maghi o cose del genere. Non ci credo» gli disse semplicemente, scrollando le spalle; dopodiché spostò lo sguardo sulla lavagna e rimase in silenzio, come a volergli far capire che la discussione fosse ormai finita. 
 
Sia Estel che Anar, allora, indossarono nuovamente i cappelli, sospirando.
Estel guardò il ragazzo che le era seduto accanto. Sembrava una brava persona eppure, più stava in sua compagnia, più era convinta che stesse nascondendo qualcosa; aveva un non so che di strano. Perché, per esempio, le aveva fatto tutte quelle domande, apparentemente innocenti? Chi era, in realtà, Anar? Che cosa nascondeva?
Era immersa nella miriade di pensieri sul ragazzo dai capelli rosa, quando improvvisamente, la campana destinata ad essere usata solo in casa di estremo pericolo, iniziò a suonare.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo curioso e preoccupato, mentre il professore aveva iniziato ad urlare parole incomprensibili, mimando con le mani il gesto di uscire dalla classe. Estel lo guardò incredula con un sopracciglio alzato, mentre Anar sbuffò e si massaggiò le tempie, con fare stanco. Che motivo aveva il professore di essere così isterico? Alla fine poteva semplicemente trattarsi di un’esercitazione; anche se, a pensarci bene, negli ultimi giorni, non era passata nessuna circolare di avvertimento.
Il professore si avvicinò ai due ragazzi ed iniziò ad urlare più forte, cercando di sovrastare il suono della campana. Stava cercando di costringere Anar ad alzarsi dalla sedia, quando questo lo colpì in piena testa, con un pugno, addormentandolo. Sospirò, come se fosse infastidito dalla situazione, si alzò e si issò il signor Maiwe su una spalla, con la stessa facilità con cui avrebbe sollevato un palloncino. Estel lo guardò sconvolta, con la bocca spalancata.
«Mi dava sui nervi» le disse semplicemente, scrollando le spalle.
«Ma l’hai quasi ucciso!» gli urlò quella, ancora incredula.
«Cazzate» sbuffò il rosato, e si incamminò verso l’uscita, mentre Estel se ne stava ancora seduta, paralizzata dallo stupore. «Che dici, vieni?» le chiese fermandosi di botto, davanti all’entrata della classe. Lei si riscosse e, dopo aver sbattuto le palpebre parecchie volte, si affrettò a raggiungere il ragazzo che, sbuffante, l’aspettava.
 
Anar camminava tranquillamente, senza fretta, e sembrava non sentir minimamente il peso del professore. Era così tranquillo che sembrava quasi non aver sentito il suono della campanella. Estel, invece, era un tantino preoccupata, e tentava di camminare il più velocemente possibile, cercando allo stesso tempo di spronare Anar a fare altrettanto.
«Perché ti preoccupi tanto?» le chiese quello, ad un tratto, fermandosi. Lei lo imitò e sbuffò, incrociando le braccia.
«E tu invece, perché non ti preoccupi affatto?» gli chiese, prendendolo da una mano per farlo muovere. «Non so se l’hai notato, ma la campanella d’emergenza continua a suonare» gli disse, cercando di farlo muovere.
«Sarà soltanto un’esercitazione» sbuffò lui, lasciando la mano di Estel per sistemarsi il professore sull’altra spalla.
«Come fai ad esserne convinto?» gli chiese, sbuffando.
«Lo so e basta» disse deciso, e non appena pronunciò quelle parole alle loro spalle risuonò l’eco di un’esplosione. I due si lanciarono uno sguardo spaventato e iniziarono a correre.
«Lo sai e basta, eh?!» gli urlò Estel, correndo il più veloce possibile.
«Mi sono sbagliato!» le urlò quello correndo insieme a lei, tenendosi stretto il professore, per evitare che durante la corsa  cadesse per terra. Alle loro spalle risuonò un secondo botto, più vicino del primo, che fece tremare tutto l’edificio. Estel, a causa del terremoto, perse l’equilibrio e cadde per terra, sbattendo un ginocchio contro il pavimento di marmo. Era successo tutto così in fretta che non si era resa conto di essere caduta, se non quando percepì un bruciore al ginocchio sinistro. Si sedette premendo forte sulla ferita, per qualche secondo, come per cercare di fermare il sangue che aveva iniziato a scender fuori; ma, senza pensare al dolore che provava, si alzò in piedi e riprese a correre, con il ginocchio che la pregava di fermarsi ad ogni passo.
Anar, che si era fermato per vedere cosa le fosse successo, la guardò stupito quando si accorse che nonostante la ferita aveva ripreso a correre. Ma non rimase imbambolato a pensare al perché una ragazza si fosse comportata in quel modo; anzi, riprese a correre, lasciandosi le esplosioni alle spalle.
Così, finalmente, dopo gli ultimi sforzi, raggiunsero il cortile interno della scuola che, ovviamente, fatta eccezione per un paio di alberi e qualche cespuglio, era deserto. Esplosioni non se ne sentivano più, ormai da parecchi minuti, quindi ne approfittarono per fermarsi un po’ a riprendere fiato. Anar poggiò il professore ai piedi di un albero e si lasciò cadere per terra spalancando braccia e gambe; mentre Estel si lasciò andare contro il tronco dello stesso albero e si sedette sull’erba, con il fiatone. In quel momento non le interessava niente del ginocchio ferito; la sua unica preoccupazione era cercare di riprendere abbastanza fiato per iniziare nuovamente a correre. Alla fine non sapevano se le esplosioni erano davvero finite, e starsene tranquilli a prendersi il sole era una cosa particolarmente stupida. Quindi chiuse gli occhi e cercò di calmare il suo cuore che martellava come se fosse impazzito.
Restarono entrambi in silenzio per qualche secondo, fin quando Anar non si alzò, rumorosamente. Evidentemente si era riposato abbastanza, al contrario di Estel che invece se ne stava ancora con gli occhi chiusi. Dopo un paio di minuti, però, anche lei decise di essersi riposata abbastanza, e cercò di poggiare le mani sull’erba per aiutarsi ad alzare, quando, la sua mano, finì stranamente con l’incontrarne un'altra. 
«Anar.. hai la mano freddissima..» sussurrò lentamente, stupita dei brividi che le aveva procurato quel semplice contatto.
«Guarda che non mi stai toccando la mano» le disse il ragazzo, con voce perplessa.
«Cosa?» gli chiese quella confusa. Aprì gli occhi e si voltò per controllare chi stesse tenendo per mano, consapevole del fatto che non poteva essere il professore, dato che quello era seduto dall’altra parte del tronco, e per poco non le venne un infarto.
Spostò subito la sua mano e si alzò di scatto, perdendo l’equilibro e cadendo nuovamente per terra. Spostò immediatamente lo sguardo verso l’albero e iniziò a indietreggiare fin quando con la schiena non venne bloccata da qualcosa. Si voltò, spaventata e guardò con gli occhi spalancati il ragazzo che le stava davanti.
Anar si piegò accanto a lei, con uno sguardo preoccupato.
«Che è successo?» le chiese dolcemente, cercando di tranquillizzarla. Lei indicò il posto dov’era seduta poco prima, con un indice tremante, incapace di parlare. Si sentiva una stupida per come stava reagendo, ma non poteva farne a meno. Era rimasta completamente sconvolta!
 
Anar si alzò e lentamente si avvicinò al tronco dove, ancora addormentato, era poggiato il signor Maiwe. Inizialmente non vide niente di particolare, ma guardando attentamente, notò come una pietra chiara che usciva leggermente da un cespuglio. Si chinò per guardare più attentamente e notò che quella pietra chiara era in realtà una mano e che dietro il cespuglio, nascosto dalle foglie, c’era il corpo al quale apparteneva: il corpo di una ragazzina che teneva, stretto in mano, un piccolo telecomando nero.
Non appena lo vide, fece una smorfia al tempo stesso nauseata, confusa e terrorizzata. Poi però, si chinò sul corpo per controllare se fosse ormai privo di vita, e non appena strinse il polso di quel corpicino esile, capì che non c’era più niente da fare.
Scosse la testa e si allontanò dal cadavere con un’espressione indecifrabile. Era terrorizzato; ma la cosa che lo spaventava, non era il fatto che nel cortile della scuola ci fosse una ragazza morta o che probabilmente l’assassino fosse ancora nei paraggi; non erano state neanche le esplosioni a mettergli paura; l’unica cosa che lo terrorizzava era il fatto che al limite del cortile, nascosto dall’erba alta, ci fosse il cadavere di una ragazza con gli occhi spalancati a fissare il nulla eterno e sulla cui fronte, a grandi lettere, era inciso il nome “Vortha”.
 

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Capitolo 5
*** Calore ***


Calore
 
Anar ed Estel erano ancora immobili davanti all’orrendo scenario. Nessuno dei due era in grado di dire una parola, tanto erano traumatizzati da ciò che continuavano a vedere.
Estel non riusciva a non pensare ad altro che al viso di quella ragazza che la fissava. Aveva uno sguardo terrorizzato come se prima di morire avesse implorato l’aiuto di un qualcuno che, purtroppo, non era arrivato in tempo. Gli occhi chiari, nonostante ormai non potessero vedere più nulla, sembravano scavarle dentro, fino a raggiungerle l’anima e lei si sentiva impotente. Non poteva fare nulla per lei e non poteva far nulla neanche per evitare che continuasse a contorcerle l’anima.
Si sentiva come se qualcuno le fosse entrato dentro e avesse preso a pugni non solo tutti i suoi organi vitali, ma anche la sua parte più pura che non aveva mai rivelato a nessuno: la sua anima che ormai era prigioniera di quello sguardo.
 
Anar, ancora traumatizzato, mosse lentamente la testa e prese un profondo respiro, per cercare di calmarsi. Non era il caso di lasciarsi prendere dal panico proprio in quel momento. Ne aveva viste di tutti i colori, quindi doveva cercare di contenersi; si che quella era la prima volta che si trovava di fronte a un cadavere, e soprattutto era la prima volta che si trovava davanti a qualcosa in cui era coinvolta Ainur.
Cercò di obbligarsi a restare calmo e a non perdere la testa. Non poteva far nulla in quel momento e in quei panni; l’unica cosa che gli era concessa, era di aspettare. Alla prima occasione avrebbe chiamato Mahtar e con lui avrebbe trovato il modo migliore per affrontare correttamente la situazione.
Sospirò e si massaggiò le tempie, cercando di non pensare, ma stranamente, in quel momento il suo cervello sembrava pervaso dall’adrenalina. Migliaia di pensieri diversi gli affollavano la mente; ipotesi folli e idee pazzesche, che non riusciva a mettere da parte. Non riusciva, per esempio, ad annullare e cancellare la convinzione che Estel fosse coinvolta in quella catastrofe. Era una coincidenza che lo stesso giorno in cui conosceva una ragazza con le orecchie appuntite, usciva fuori un cadavere collegato alla favola di Ainur?
Scosse la testa; il suo cuore gli diceva che stava esagerando e che Estel, ovviamente, era innocente; però il suo cervello lo indirizzava su una strada completamente diversa.
Sospirò e si voltò, in modo da poter fissare la sua nuova amica e cercare di trovare nel suo sguardo le risposte ai mille interrogativi che gli opprimevano la testa; ma non appena incrociò i suoi occhi, non appena vide la paura e la disperazione celate dietro il velo sottile del suo sguardo, capì che lei non poteva essere Ainur. I sentimenti che cercava di nascondere erano troppo forti e sinceri; e più passava il tempo, più le sue teorie e le sue paure iniziavano a sfumare. 
Ma allora perché la ragazza trovata morta, aveva impresso sulla fronte quel nome? Chi gliel’aveva scritto e soprattutto perché chiunque fosse stato aveva cercato di far ricadere la colpa sul personaggio di una favola? Su Vortha, il coniglio diabolico che, secondo la storia, ordinava ad Ainur di uccidere?
Anar scosse la testa; non riusciva a pensare in compagnia del cadavere, ma soprattutto non riusciva a trovare neanche una risposta. Prese un profondo respiro e raggiunse Estel, ancora immobile sull’erba morbida del cortile. Le si inginocchiò accanto e le mise una mano sulla testa, cercando in quel modo di darle un po’ di conforto.
 
Estel alzò lo sguardo e guardò con occhi lucidi il ragazzo che le stava davanti. Aveva una faccia orribile, segnata dalla paura e forse da una violenta lotta interiore. Aveva gli occhi lucidi e circondati da un’aura cupa, eppure in quel momento era inginocchiato davanti a lei e cercava di darle conforto.
Lei, dal canto suo, stava per scoppiare, ma non voleva farlo di fronte ad un ragazzo che neanche conosceva. O meglio, voleva farlo perché sentiva la necessità di sfogarsi, però non voleva che Anar la vedesse piangere. Lei non piangeva mai, era una ragazza forte; non poteva lasciarsi andare soltanto per aver visto un cadavere!
Però, improvvisamente, il rosato la prese dalle spalle e la strinse forte contro il suo petto, abbracciandola e carezzandole dolcemente i capelli.
Estel spalancò gli occhi stupita dal quel gesto improvviso, anche se la cosa che di più la meravigliò fu il fatto che tra quelle braccia che neanche conosceva lei si sentiva sicura. Aveva trovato nell’abbraccio di Anar un calore che non aveva mai incontrato neanche nell’abbraccio del suo tutore. E tra quelle braccia ospitali, calde e sicure, lei si sciolse.
Lacrime iniziarono a rigarle il viso; lacrime che, gocciolando dal mento, finivano tutte sulla felpa di Anar che, in silenzio, continuava ad abbracciarla, sussurrandole talvolta delle parole incomprensibili all’orecchio, in un tono così delicato che, anche se non riusciva a capirne il significato, riusciva comunque a trarne conforto.
Dopo qualche minuto, finalmente, smise di piangere e strofinò il viso contro la felpa del ragazzo, in modo da asciugarsi gli occhi e da cancellare le tracce del suo pianto. Anche se si era lasciata andare in sua compagnia, non voleva fargli vedere il suo viso stravolto. Però, Anar, staccandola dolcemente dal suo petto, la costrinse ad alzare il viso per guardarla negli occhi.
Lei lo guardò con una strana espressione, confusa perché non riusciva a spiegarsi il suo strano comportamento. Anar non sembrava una persona capace di abbracciare la gente che non conosce in maniera improvvisa e disinvolta.
Quello le sorrise, intenerito dal suo aspetto da bambina, e le asciugò quelle poche lacrime che ancora le bagnavano le guance. Lei lo guardò negli occhi, facendogli notare che, quella luce oscura nata dopo aver visto il cadavere, non aveva ancora abbandonato il suo sguardo. Allora le sorrise più intensamente e davanti a quel sorriso, le guance della ragazza si chiazzarono leggermente di rosso, facendole accennare un sorrisino e cancellando definitivamente l’ultima traccia di negatività che le oscurava il cuore.
Allora, Anar si alzò e le porse una mano in modo da aiutarla ad alzarsi. Estel accettò l’aiuto con un sorriso e si issò in piedi, lanciando un veloce sguardo al punto in cui si trovava il cadavere. Anche se si era sfogata, non voleva dire che la presenza di un morto la rendeva più tranquilla. Continuava a sentirsi strana; non più spaventata, ma sentiva di non essere tranquilla.
Una volta alzata, però, una fitta lancinante, le fece ricordare di avere un ginocchio ferito e, forse, ancora sanguinante. Strinse un occhio per non gridare e si guardò la gamba, attentamente. Rimase stupita, quando si accorse che tutto il suo jeans, chiaro e candido all’inizio, adesso era completamente sporco di sangue. Prese un profondo respiro e cercò di non concentrarsi sul dolore che le provocava ogni suo singolo movimento, anche perché non voleva che Anar notasse la sua sofferenza. Anche se aveva pianto in sua presenza, restava comunque una donna forte!
Mentre lei faceva questi pensieri e cercava di calarsi nella parte della ragazza forte che non conosce il dolore, Anar era andato a recuperare il professore che, ancora addormentato, se ne stava sdraiato ai piedi dell’albero. Era incredibile che con un solo pugno fosse riuscito a metterlo completamente KO!
Una volta issatoselo sulla spalla destra, si diresse nuovamente verso Estel.
Lei, quando Anar gli fu accanto, sorrise e cominciò a camminare cercando di ignorare il dolore, ma dopo neanche tre passi sentì il rosato sbuffare. Si voltò curiosa verso il ragazzo e lo guardò con aria innocente.
«Che c’è?» gli chiese.
«Puoi anche dirmelo che ti fa male il ginocchio» le disse incrociando le braccia. Si era davvero offeso?
«Non mi fa male» mentì Estel, scuotendo la testa.
«Sì, invece. Vedo che zoppichi e comunque ho notato anche il sangue» sbuffò, spostando il professore sulla spalla sinistra.
«Non è niente..» tagliò corto lei. Anar sbuffò di nuovo.
«Bugiarda» le disse, guardandola attentamente negli occhi.
«Perché ti ostini a dire che mi fa male?» gli disse lei, fermandosi di botto.
«Perché lo so» le disse, scrollando semplicemente le spalle.
«Come sapevi che quella di prima era solo un’esercitazione?» lo provocò, incrociando le braccia e sollevando un sopracciglio. Anar sbuffò nuovamente e iniziò a camminare, molto più velocemente di prima, lasciandola indietro.
«Ti saluto» le urlò, ormai distante, muovendo una mano come per salutarla.
«Dove stai andando!? Aspettami!» gli urlò lei, sbattendo per terra la gamba buona. Ma il suo gesto non sortì nessun effetto; Anar se n’era ormai andato.
Estel sbuffò e mosse una gamba per riprendere a camminare, ma il ginocchio le cedette facendola arrivare per terra. Digrignando i denti dal dolore, cercò di non urlare tutti gli insulti che le passavano in mente, diretti contro quel ragazzo che l’aveva lasciata da sola. E poi non riusciva a spiegarsi a una cosa molto importante:  come era stato possibile che per correre il suo ginocchio l’aveva sostenuta, mentre adesso la stava abbandonando?!
Quando finalmente sbollì la rabbia, sentì un brivido percorrerle tutta la schiena. Si voltò e fissò il punto in cui si trovava il cadavere. Dalla sua angolazione, dato che era nascosto dietro un cespuglio, non riusciva a vederlo e quindi non poteva accertarsi che fosse realmente ancora al suo posto. Ovviamente era così, ma in quel momento nella sua mente iniziarono a passare varie scene di film che aveva visto da bambina; scene in cui i morti si rialzavano in piedi, diventati ormai zombi.
Sapeva che una cosa del genere non sarebbe mai successa nella realtà eppure si sentiva intimorita. Deglutì rumorosamente e cercò di alzarsi senza perdere di vista il punto in cui si trovava il corpo della ragazza quando, improvvisamente, si sentì toccare a una spalla. Fece un balzò indietro – non seppe neanche lei come –, spaventata e urlò, alzando lo sguardo. Riconobbe subito la figura che gli stava davanti.
«Ma sei scemo?!» urlò ad Anar che la guardava ridendo.
«Dovresti vedere la tua faccia!» esclamò quello ridendo rumorosamente.
«Mi hai fatto prendere un colpo, cretino!» lo insultò, cercando di colpirlo con un pugno.
«Non rientrava nei miei piani» le disse cercando di fermare le proprie risate. Estel sbuffò, incrociando le braccia.
«Stupido..» gli sussurrò arrabbiata. Lui la guardò con un sorriso e le si inginocchiò accanto.
«Dai, non era mia intenzione farti spaventare» le disse ridacchiando. Lei sbuffò.
«Perché sei qui?» gli chiese senza guardarlo. Lui sospirò.
«Mi dispiace averti lasciata indietro da sola..» le sussurrò. Estel si voltò a guardarlo.
«Ti dispiace?» gli chiese incredula. Non si sarebbe mai aspettata un simile gesto da parte sua. Neanche si conoscevano..
«Si..» le disse quello lentamente.
«Ma non hai fatto niente di che..» gli disse lei, scrollando le spalle. Voleva capire se le sue fossero scuse sincere, o se le diceva soltanto perché era giusto farlo.
«Ti ho lasciata insieme a.. lei.. e ti ho fatta spaventare..» sussurrò, guardandola, con le labbra strette. Lei lo guardò, con un’espressione intenerita.
«Sei uno scemo» gli disse con un sorriso.
«Come?» le chiese quello confuso.
«Sei uno scemo» ripeté ridacchiando.
«Uno scemo!? Non solo uno ti chiede scusa per averti lasciata da sola e tu lo insulti, pure?» le chiese incredulo, spalancando gli occhi.
«Non ti ho insultato, ti ho solo detto che sei scemo» gli disse, provando ad alzarsi. Anar la guardò stupito e si lasciò scappare un sorrisino. Poi si alzò e, inaspettatamente, la issò tra le braccia.
«Ma.. sei scemo, davvero?!» gli urlò Estel, arrossendo intensamente.
«Perché? Ti sto solo dando una mano» le disse quello con un sorrisetto.
«Posso camminare!» urlò, iniziando a colpirlo sulle braccia per farsi mettere giù. Anar la guardò incredulo, facendola scendere di nuovo per terra.
«Avanti, allora; fa pure da sola!» le disse trafiggendola con uno sguardo infuocato. Lei rimase ammaliata per qualche secondo, poi però si riprese e scosse la testa.
«Certo..» sussurrò voltandogli le spalle e, senza aggiungere un’altra parola, si diressero entrambi verso il cancello della scuola dove trovarono il resto degli studenti e dei professori, insieme al signor Maiwe che finalmente si era risvegliato.
 
 
 

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Capitolo 6
*** Indiziata ***


Indiziata
 
Davanti al cancello della scuola, ormai semidistrutta, si erano radunati tutti gli studenti e i professori: i primi, spaventati, si guardavano intorno cercando di spiegarsi il perché di quelle esplosioni all’interno della struttura scolastica: c’era chi gridava, chi piangeva, chi si guardava in giro spaventato, e chi invece lo faceva con fare incuriosito. I secondi, al contrario, cercavano di mantenere il controllo della situazione, trattenendosi dall’uscire fuori di testa come aveva fatto invece la maggior parte dei loro alunni, e tutti, chi istericamente, chi invece con più calma, continuavano a chiamare gli elenchi delle varie classi per vedere se qualcuno mancasse all’appello.
Quando Estel, insieme ad Anar, raggiunse il cancello della scuola, venne investita da Aira e Shaza, preoccupate per la prolungata assenza della loro amica.
«Finalmente!» urlò Shaza in lacrime, stringendola forte.
«Credevamo che non fossi riuscita a scappare» le disse Aira asciugandosi quell’unica  lacrimuccia che le era sfuggita. Estel sorrise loro e le abbracciò forte, cercando di tranquillizzarle. Fortunatamente lei aveva già dato, quindi riuscì a non lasciarsi contagiare dalla commozione delle due amiche.
«Dai ragazze, non fate così» disse loro cercando di calmarle; «Sto bene» disse facendo l’occhiolino. Le due le sorrisero contente, ma dopo qualche secondo la loro espressione mutò.
«Ma che diamine ti è successo alla gamba?» le chiese Shaza, incredula, indicandole il jeans sporco.
«Sei tutta sporca di sangue!» le disse Aira, preoccupata, inginocchiandosi per controllarle la ferita.
«Sangue? Dove?» chiese una voce familiare, dalla massa di studenti che li circondava. Pochi secondi di attesa e, dalla mandria di ragazzi radunati nel cortile, uscì quello che assomigliava vagamente al professor Maiwe. Aveva l’aria stanca e preoccupata e girava per il cortile con in mano bende e disinfettante. Appena si accorse che la ragazza ferita era proprio Estel, si irrigidì e fece una smorfia.
«Dov’è il tuo amichetto?» le chiese, con uno strano tono di voce, guardandosi attorno con fare paranoico. Estel lo guardò incredula; il professore sembrava fosse terrorizzato da Anar e che volesse evitare di starci vicino o di incontrarlo.
 
Anar, dal canto suo, se ne restava nascosto per non farsi riconoscere, sghignazzando di fronte al comportamento isterico del suo professore. Un uomo sulla quarantina, abbastanza ingenuo e malleabile, che era rimasto traumatizzato dal pugno di uno studente che, perfidamente, pensava fosse giusto approfittare di quel momento per divertirsi un po’. Aveva assorbito troppo nervosismo e tensione quel giorno e l’unico modo per sbollire un po’, a suo avviso, era quello di farsi quattro risate.
Così, di soppiatto si allontanò dal gruppetto per non farsi vedere dal professore, per poi appostarsi, a braccia incrociate, alle spalle della sua vittima.
«Mi cercava prof?» gli chiese cercando di mantenere un tono pesante. Il poveretto, colto di sorpresa, sussultò e si voltò di botto. Istintivamente, si portò una mano alla testa, nel punto in cui era stato colpito dal pugno, e fece una smorfia di dolore.
Cercò, comunque, di non sembrare spaventato e, imitando la posa sicura del suo studente, incrociò le braccia e sbuffò.
«Sei nei guai» gli disse cercando di mantenere un tono autoritario e aggressivo.
«Io? E perché?» gli quello chiese scrollando le spalle.
«Perché hai colpito un tuo professore» gli rispose quello guardandolo in viso.
«Ma l’ho fatto per lei» gli disse indicandolo. «Sembrava che fosse uscito pazzo quindi ho deciso di aiutarla» gli disse come se niente fosse.
«Ti sembra normale colpire un tuo professore?!» gli urlò quello, perdendo la pazienza, indicandosi la testa dolorante.
Anar irrigidì i muscoli delle braccia, che assunsero un aspetto minaccioso, e lo trafisse con uno sguardo infuocato. Il professore si ritrasse spaventato di fronte allo scintillio che aveva visto negli occhi del suo studente e decise che era meglio fingere che ciò che Anar gli avesse detto fosse vero. Così deglutì e tossì, nervosamente. Il ragazzo sospirò.
«Ha ragione prof; non avrei dovuto colpirla, ma sono sincero quando dico che l’ho fatto per aiutarla. Vede facendole perdere i sensi ho evitato che lei andasse nel panico e che di conseguenza facesse qualcosa di stupido» gli disse sinceramente, scrollando le spalle e annuendo come se stesse parlando con uno stupido.
Il professore restò sconvolto di fronte a quelle parole; quel ragazzo lo stava insultando tranquillamente e a viso aperto! Gli stava dando dello stupido!
«Come ti permetti..?!» sussurrò arrabbiato.
«Professore, mi creda» gli disse all’improvviso Estel, intromettendosi nella discussione. Il signor Maiwe la guardò curioso e afflitto. «Anar non voleva prendersi gioco di lei; l’ha fatto seriamente per aiutarla» gli disse con lo sguardo più sincero che riuscì a imitare.
Il professore la guardò negli occhi e sbuffò. Ormai conosceva bene quella ragazza. Era più o meno da tre anni che cercava di farle cambiare testa, eppure non ci era mai riuscito; era una ragazza dal carattere troppo difficile per poterlo trasformare. Eppure ormai aveva imparato a riconoscere le sue menzogne e quello che le aveva appena detto suonava come sincero.
Si passò una mano tra i capelli e sospirò.
«D’accordo, farò finta che non sia successo nulla» disse guardando Anar di sottecchi. Questo gli sorrise e fece per abbracciarlo, ma il professore si ritrasse spaventato. Il ragazzo non poté fare a meno di ridacchiare, ma comunque si scusò e si mantenne a distanza.
«Allora, perché sono venuto qui?» si chiese il signor Maiwe grattandosi la testa, quando Anar gli fu abbastanza lontano da poterlo far stare tranquillo.
«Deve scrivere nell’elenco della mia classe che sono presente» gli disse Estel indicando una cartelletta che usciva fuori dal suo marsupio. Il professore la guardò e annuì, segnando subito un visto accanto al suo nome.
«E poi è venuto qui per il suo ginocchio» gli disse Shaza indicandogli la gamba ferita dell’amica. Lui annuì e passò subito a curarle il ginocchio. Per farlo dovette strapparle i jeans lasciandola abbastanza scoperta e facendole passare nella mente una serie di parole poco educate volte a maledirlo silenziosamente. Alla fine, imbarazzata, cercò di sistemare al meglio ciò che restava dei suoi pantaloni, cercando di nascondersi da Anar che, in silenzio e sempre distante, cercava di trattenere una risata.
«Smettila!» gli urlò, rossa d’imbarazzo, sbattendo un piede per terra. Shaza ed Aira guardarono, incuriosite, quel ragazzo che fino a quel momento le aveva affascinate.
«E lui chi è?» chiese Aira con un sorrisetto.
«Un ragazzo che ho conosciuto nell’aula della punizioni..» sussurrò Estel arrabbiata.
«Piacere, il mio nome è Anar» si presentò con un sorrisetto malizioso, incrociando le braccia, come per mettere in risalto i propri bicipiti.
«Piacere» risposero le due migliori amiche di Estel che, spazientita da tutti e tre, si allontanò sbuffando.
 
Una volta rimasta sola, cercò un adulto con cui parlare; un adulto di cui sapeva di potersi fidare. Così, dato che non poteva fidarsi di nessun adulto che avesse a che fare con la scuola, prese il telefono e chiamò l’unico in grado di poterla aiutare.
«Pronto?» rispose una voce maschile dall’altra parte del telefono.
«Pronto; devo parlarti di una cosa urgente. Puoi venire un momento a scuola?» gli chiese in fretta, mordendosi il labbro inferiore.
«Arrivo subito» rispose l’altro e con quelle poche parole la discussione si concluse.
Cinque minuti dopo la telefonata, un uomo vestito di nero e con i capelli rossicci si avvicinò ad Estel, scatenando la curiosità di molti studenti. Quello che rimase più stupito di tutti però fu Anar, che gli si avvicinò con uno sguardo sospetto.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese curioso, sollevando le sopracciglia. Il rosso lo guardò confuso e incrociò le braccia.
«Anar? Non mi avevi detto che oggi non saresti andato a scuola?» gli chiese l’uomo guardandolo insospettito.
«Ho avuto un problemino..» gli disse scrollando le spalle; «Cosa ci fai qui?».
 Mentre i due continuavano a parlare, Estel li guardava esterrefatta.
«Voi due vi conoscete?» chiese loro in un sussurro, indicando entrambi.
«Certo» sbuffò Anar incrociando le braccia.
«È sotto la mia custodia» le disse l’uomo con un sorrisetto, scompigliandogli i capelli.
«Sotto la tua custodia?» gli chiese lei curiosa.
«Si..» sbuffò Anar cercando di cambiare argomento e allontanando la mano dell’uomo dalla propria testa. Estel lo guardò confusa e curiosa.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese nuovamente, Anar.
«Mi ha chiamato Estel» gli rispose l’uomo come se niente fosse e a quelle parole il rosato si voltò a guardare la ragazza, confuso.
«Perché, tu la conosci?» gli chiese guardandolo incredulo.
«Si, sono il suo tutore..» gli rispose, inarcando la fronte.
«Il suo tutore!?» urlò incredulo. Davanti a quella sua reazione, l’uomo gli tirò un pugno sulla testa, infastidito. Il ragazzo non poté fare a meno di zittirsi, tenendosi con le mani la testa dolorante. Estel lo guardò e sorrise, dato che in quella condizione gli ricordava tanto il signor Maiwe.
«Allora, di cosa volevi parlarmi?» chiese l’uomo ad Estel, guardandola attentamente. Lei lo guardò e prese un profondo respiro. Inizialmente si era dimenticata del perché l’avesse chiamato, ma in quel momento le stava ritornando tutto in mente.
«Beh, ti starai chiedendo che cosa è successo qui» gli disse, indicando il cortile circostante pieno di studenti e professori. L’uomo, o meglio Mahtar, si guardò intorno e scrollò le spalle, indifferente.
«Avete fatto qualche esercitazione?» gli chiese, tranquillo. Estel ed Anar scossero la testa contemporaneamente, insospettendolo. Effettivamente dalla loro posizione non si notava che una buona parte della scuola non esisteva più, quindi era normale che ancora Mahtar non avesse capito perché la ragazza l’avesse chiamato.
«Da qui non si vede, ma la maggior parte della scuola è saltata in aria» gli disse il rosato, guardandolo con uno sguardo serio. Mahtar li guardò attentamente per qualche secondo, annuendo. Estel sorrise, soddisfatta.
«Qualcuno si è fatto male?» chiese, guardandoli con serietà. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo di intesa, dopo il quale Estel annuì.
«Vedi..» iniziò a parlare, ma quasi istantaneamente le parole le si bloccarono in gola. Non riusciva a parlare del cadavere che aveva visto; era come immobilizzata. Strinse e pugni e cercò di dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscivano soltanto parole senza senso. Anar, vedendola in difficoltà, ben sapendo cosa volesse dirgli, le poggiò una mano su una spalla per darle forza.
«C’è una cosa che dobbiamo farti vedere» disse al rosso, sostituendo l’amica. Estel lo ringraziò con lo sguardo e, insieme a lui, si diresse verso il luogo in cui avevano ritrovato il cadavere.
 
Camminarono velocemente, anche se Estel non aveva nessuna voglia di rivedere il viso di quella ragazza. E quando arrivarono, si avvicinarono all’albero e mostrarono a Mahtar il corpo della povera vittima. L’uomo lo guardò attentamente per qualche minuto, dopodiché guardò i due ragazzi con uno sguardo preoccupato.
Guardò Estel, che se ne stava in disparte con le braccia incrociate, e le si avvicinò lentamente. Quando le fu vicino, le poggiò una mano sulla testa per cercare di confortarla. Quella si voltò e lo guardò con una strana luce negli occhi. L’uomo le sorrise e l’abbracciò forte per cercare di confortarla.
In quell’abbraccio Estel ritrovò l’energia che aveva perso durante tutta la mattina. Sorrise al suo tutore e con lui ed Anar, ritornò nel cortile esterno della scuola.
Qui Mahtar convocò i professori e chiamò la polizia per metterli al corrente di quanto fosse successo. Di fronte al ritrovamento del cadavere, i poliziotti vollero interrogare tutti gli studenti e i professori. Fu così che una ventina di classi furono occupate dalle autorità, in modo da cercare di interrogare tutti entro la fine della giornata. E finalmente, dato che fortunatamente la scuola contava poco più di due centinaia di alunni, verso sera, tutti furono liberi di ritornare presso le rispettive famiglie.
Secondo il detective Yetille, il detective ufficiale della stazione locale, l’assassino non poteva essere uno studente, ma era convinto che la ragazza fosse stata uccisa da qualcos’altro; qualcosa conosciuto soltanto come una favola. 
I professori però, conoscendo la favola alla quale il detective si riferiva, erano convinti che la scritta Vortha fosse stata incisa per indicare il colpevole e quindi il possessore del coniglio. Nella fiaba il coniglio era il giocattolo di una bambina con le orecchie a punta; quindi la colpevole poteva essere soltanto una persona: Estel.
Di fronte a quell’accusa, Mahtar si infiammò e la difese con tutto se stesso, riuscendo a convincere sia la polizia che il detective della sua innocenza, dato che il tutto poteva semplicemente trattarsi di un modo per sviare le indagini; però, comunque, per i professori restava l’indiziata principale.
 
Quella notte Estel appena tornata a casa, fu rimproverata dai suoi genitori per aver tardato tanto e fu messa in punizione per aver presumibilmente ucciso quella ragazza.
Nascosta nell’oscurità della sua stanza, Estel decise che era arrivato il momento di cambiare vita e, dopo aver raccolto tutto ciò che poteva tornarle utile dentro uno zaino, scappò di casa saltando fuori dalla finestra della sua stanza. 

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Capitolo 7
*** Intrusa ***


Intrusa
 
Era ormai notte fonda e le poche luci che c’erano provenivano dalla luna che, placidamente se ne stava immobile in mezzo al cielo, e dai pochi lampioni sparsi per la strada. Non un rumore, non un fruscio rompevano il silenzio che la notte aveva portato con sé calando sulla terra.
Tutti, ormai da tempo, erano al caldo sotto le coperte dei propri letti. L’unica che, come sempre controcorrente, in quel momento non era a casa sua, era Estel.
Camminava lentamente tra le strade di Dragville, senza fretta, poiché non aveva una meta ben precisa da raggiungere. Poteva andare ovunque volesse, tranne che a casa sua. Anzi, sinceramente parlando, lei non aveva una casa propria; non l’aveva mai avuta.
I suoi genitori erano sempre stati abbastanza severi con lei e non soltanto sul piano dell’educazione. L’ultimo abbraccio che le aveva dato suo padre.. sinceramente non ricordava che suo padre l’avesse mai abbracciata. E sua madre poi.. era la donna più cattiva che avesse mai visto sulla faccia della terra. Non la ascoltava, non le prestava attenzione, non le importava nulla di lei; era soltanto una figura come il padre che occupava quell’edificio che loro chiamavano casa.
Sinceramente, non aveva mai realmente accettato il fatto di essere figlia loro, eppure, purtroppo, la natura spesso giocava brutti scherzi e lei era stata una delle sue vittime. Si era ritrovata in una famiglia che la odiava, con delle orecchie a punta che le facevano odiare il resto del mondo. L’unico raggio di sole nella sua vita erano Aira e Shaza, le sue due migliori amiche con le quali sapeva di poter fare qualunque cosa, e Mahtar che per lei rappresentava il vero padre.
Lo conosceva da quando era bambina e le era sempre stato accanto, soprattutto nei momenti di difficoltà. La ascoltava, le parlava, le raccontava le fiabe e giocavano sempre insieme. Insomma, lui le voleva bene davvero. Una volta compiuti dieci anni, Mahtar, dato che lei non studiava, si comportava male e spesso scappava di casa, era diventato il suo tutore; così lei, fortunatamente, venne obbligata a passare tutti i pomeriggi, una volta uscita da scuola, insieme a lui. In questo modo, restava lontana dai suoi genitori, fonte di sofferenza, e poteva godersi il pomeriggio insieme al suo paparino adottivo. Questo però spesso, a causa del suo lavoro (un lavoro incredibile..), era costretto a non poterle fare compagnia, allora lei si sdraiava su uno dei divanetti della sua biblioteca e passava le giornate a leggere. 
A pensarci bene comunque, Mahtar aveva sempre avuto un atteggiamento paterno e, ogni volta che lei doveva lasciarlo per tornare in quella che era definita la sua vera casa, si rabbuiava come se non volesse che tornasse dai suoi genitori. Spesso, lei aveva sperato che Mahtar la costringesse a restare con lui o che magari le chiedesse l’affidamento per allontanarla da quella casa che odiava, da quelle persone che la odiavano. Eppure non era mai successo; o almeno, non era ancora successo.
Estel continuò a camminare con lo zaino in spalla, guardando il cielo, fin quando non inciampò nel marciapiede. Alzandosi notò di essere arrivata di fronte ad un’abitazione familiare. Forse il suo inconscio l’aveva portata lì, perché adesso che era a pochi metri di distanza dal portone, sapeva che era proprio lì che voleva andare.
Si avvicinò all’entrata e, dopo qualche esitazione, suonò il campanello. Qualche minuto di attesa, qualche imprecazione e la porta si aprì. Passarono alcuni secondi, prima che Estel si rendesse conto di chi effettivamente avesse davanti. Che cavolo ci faceva lui, lì?!
«Estel?» le chiese Anar confuso, sbadigliando. Indossava soltanto un paio di boxer, per l’esattezza grigi.
«Ti sembra questo il modo di presentarsi?» gli chiese lei, colpendolo con un pugno.
«Ma sei scema?!» le urlò lui, bloccandole il polso pronto a colpirlo di nuovo.
«Che ci fai qui?!» si urlarono a vicenda. Rimasero in silenzio per qualche secondo, guardandosi negli occhi con sguardi infuocati. Poi però sbuffarono entrambi.
«Ci vivo» le rispose Anar lasciandole libero il braccio. Lei sollevò un sopracciglio, incredula.
«Non ti ho mai visto prima..» gli disse, incrociando le braccia.
«Solo perché di pomeriggio non sono mai a casa» gli disse lui scrollando le spalle, sbadigliando e incrociando le braccia a sua volta. E in quel momento, per la prima volta, Estel li vide. I suoi muscoli sui cui tanto aveva fantasticato, erano lì in bella mostra proprio davanti a lei; ed erano esattamente come li aveva immaginati: asciutti e abbastanza sviluppati, e gli davano l’aria di essere forte.
Davanti allo sguardo imbambolato della ragazza, Anar tossicchiò con una risatina, alla quale lei reagì arrossendo leggermente.
«Tu che ci fai qui?» le chiese, sorridendo di un sorriso veramente bello. A quelle parole lei abbassò istintivamente lo sguardo, sospirando.
«Sono scappata di casa..» sussurrò, sperando che quello non la sentisse; non perché il pensiero di aver abbandonato i suoi genitori la rattristasse, ma poiché Anar era uno sconosciuto, non conosceva la sua storia, e lei non aveva nessuna intenzione di parlarne.
Rimasero in silenzio per qualche secondo dopodichè, Anar sospirò.
«Vieni dentro; Mahtar non è in casa quindi puoi dormire nel suo letto per stanotte» le disse spostandosi per lasciarla passare. Gli occhi di Estel si accesero di gioia e gratitudine, e con un sorriso verso quel ragazzo che l’aveva aiutata, di nuovo, entrò dentro casa lasciando cadere lo zaino accanto al divano. Si lasciò sfuggire un sospiro e si sdraiò sul tappeto accanto al caminetto acceso.
 
Anar la guardò con un sorriso divertito. Quella ragazza si dimostrava sempre più strana eppure con lei, per quel poco tempo che avevano passato insieme, si divertiva, anche se due volte su tre trovavano il pretesto per litigare. Era strana; sicuramente aveva la sindrome del dover sembrare forte a qualunque costo, anche se non ne conosceva il motivo; e questo invece gliela rendeva sicuramente più fragile. Non sapeva bene il motivo, ma vedeva in quella ragazza qualcuno di cui doversi prendere cura. Ovviamente quelle cose non gliele avrebbe mai dette, dato che lei, sicuramente, era convinta di essere forte; e sotto un certo punto di vista forse lo era davvero, anche se essere forte significa troppe cose per essere riassunto brevemente nel riuscire a sorridere di fronte a qualunque problema in modo da affrontare lucidamente la questione, o nell’essere in grado di aiutare i più deboli e punire i prepotenti. 
Anar scosse la testa e osservò attentamente la ragazza dalle orecchie appuntite. In quel momento le sembrava quasi una bambina, che stanca, si addormenta persino sul tappeto, certa del fatto che sarebbe stata portata a letto, in braccio, dal proprio papà.
 
«Perché ti sei sdraiata per terra?» le chiese il rosato, incuriosito.
«Vatti a mettere un paio di pantaloni» gli rispose lei, chiudendo gli occhi e poggiando il viso sulle braccia incrociate. Quella casa era davvero degna di essere chiamata in quel modo; ogni volta che Estel ci metteva piede si sentiva sempre al sicuro e amata; avrebbe trascorso volentieri il resto della sua vita lì insieme al suo “vero” padre; e, magari sì, anche in compagnia di Anar.
Questo sbuffò e si allontanò dalla stanza, per poi ritornare con indosso un paio di pantaloncini neri.
«Allora?» le chiese sedendosi accanto a lei, sul tappeto.
«Allora cosa?» gli chiese quella curiosa, restando con gli occhi chiusi.
«Allora perché ti sei sdraiata sul tappeto?» le chiese con un sorrisetto. Aveva quasi la tentazione di carezzarle la testa.
«È più caldo qui..» sussurrò quella, soffocando un leggero sbadiglio. Stava quasi per addormentarsi. Il tappeto su cui era sdraiata, era talmente caldo e sicuro che non riusciva a non avere sonno.
«Hai sonno?» le chiese Anar in un sussurro.
«Si..» sussurrò lei, sempre più vicina all’addormentarsi.
Anar la guardò e si fece sfuggire un sorriso addolcito. Quella ragazza riusciva a sorprenderlo come non ci era riuscito mai nessuno. Sapeva essere così spontanea che a volte sembrava davvero una bambina.
«Mi dispiace» le sussurrò con un sorrisetto.
«Di cosa?» gli chiese lei curiosa, con un tono di voce bassissimo.
«Non puoi dormire» le disse scuotendola e facendola voltare.
«Perché?» gli chiese sedendosi di botto con gli occhi spalancati.
«Perché non hai fatto dormire me» le disse scrollando le spalle.
«Ma non era mia intenzione svegliarti!» esclamò lei, spalancando la bocca.
«Ah giusto, ti aspettavi che venisse ad aprirti un fantasma?» le chiese ridacchiando.
Estel sbuffò e incrociò le braccia sul petto.
«No..» disse senza guardarlo. «Mi aspettavo che mi aprisse Mahtar».
Anar sospirò.
«Mi dispiace» le disse. «Ma ci sono io, quindi dovrai accontentarti di me». La ragazza sbuffò nuovamente, guardando le fiamme che scoppiettavano dentro al camino. Ad un tratto le parole di Anar parvero incuriosirla. Perché Anar viveva lì? Alla fine sì era sotto la custodia di Mahtar, ma questo non significava che doveva vivere insieme a lui.
«Perché vivi qui?» gli chiese allora, incuriosita. A quella domanda a bruciapelo, Anar strinse i pugni e si soffermò a guardare le frange del tappeto. Estel ebbe l’impressione di aver osato troppo e cercò quindi di scusarsi, ma il ragazzo le sorrise intenerito.
«I miei genitori.. loro mi hanno abbandonato. Quando sono nato, sono rimasti spaventati dalle mie orecchie. Pensavano che fossi un demonio e quindi hanno tentato di uccidermi annegandomi nel fiume» sussurrò con lo sguardo perso nel suo passato, con un tono di voce bassissimo e pacato. «Per fortuna Mahtar mi ha visto cadere nell’acqua così si è tuffato, mi ha salvato e mi ha tenuto con sé, come se fosse davvero mio padre. Mi ha insegnato a camminare, a scrivere e a parlare anche se l’educarmi si è rivelato un compito complicato» continuò, lasciandosi sfuggire una risatina all’affiorare di un ricordo d’infanzia.
«Perché?» le chiese Estel con un sorriso incuriosito.
«Perché dice che quando dovevo scrivere, scrivevo simboli strani anziché le lettere giuste e che spesso anziché camminare correvo e saltavo come se fossi davvero un demone; però lui non si è mai fatto scoraggiare. Mi ha tenuto con sé, mi ha raccontato tante storie, mi ha aiutato a diventare forte, mi ha spiegato tutto sul suo lavoro e mi ha aiutato affinché potessi lavorare con lui; mi ha cresciuto facendomi diventare ciò che sono oggi» le disse soddisfatto, facendole l’occhiolino. Lei lo guardò stupita, all’idea che anche lui facesse lo stesso lavoro incredibile di Mahtar. Ma per ora decise di lasciar perdere quest’argomento e di concentrarsi sulle ultime parole del ragazzo.
«E cosa sei oggi?» gli chiese lei con un sorrisetto, provocandolo.
«Sicuramente, non sono un demone» le rispose ridendo e scuotendo la testa.
«Ne sei sicuro?» gli chiese ridacchiando, sollevando un sopracciglio.
«Certo!» le rispose quello dandole una spintarella e facendola cadere distesa sul tappeto. Iniziarono a ridere entrambi e ogni risata era quasi come uno sfogo; alla fine, quasi stanchi per il troppo ridere, cercarono di tranquillizzarsi con un respiro profondo. Rimasero a sorridere in silenzio per qualche secondo ancora, prima di iniziare nuovamente a parlare. 
«Sei felice?» chiese ad un tratto Estel ad Anar, guardando le fiamme che scoppiettavano dentro al camino. Il ragazzo la guardò per qualche secondo, con uno strano tipo di espressione. Poi sospirò e sorrise.
«Si» le rispose convinto. «Probabilmente, quelli che hanno tentato di annegarmi non erano neanche i miei veri genitori» le disse, scrollando le spalle.
«Come fai a dirlo?» gli chiese curiosa, sorridendo e guardandolo di sottecchi.
«Lo so e basta» le disse ed Estel sospirò.
«Antipatico» sussurrò e lui le sorrise.
«Tu invece? Perché sei scappata di casa?» le chiese curioso, con un tono di voce attento. Estel rimase zitta per qualche secondo. Non aveva mai parlato, con nessuno, dei suoi genitori ; a parte con Mahtar, ovviamente. Però le riusciva quasi spontaneo parlarne con Anar.
«Io» sussurrò, stringendo i pugni. Voleva dire tante cose, ma non sapeva come fare dato che Anar era la prima persona, estranea, con cui stava per parlare dei suoi genitori. «Odio i miei genitori» disse, infine, scrollando le spalle, con un sospiro. «Se avessero potuto, mi avrebbero gettato nel fiume» sussurrò stringendo i pugni. «Loro mi odiano; mi credono strana e pericolosa e soltanto perché ho queste orecchie a punta che gli ricordano Ainur! Vorrebbero sbarazzarsi di me, ne sono sicura.. non lo fanno solo perché c’è Mahtar che mi sorveglia.. se non ci fosse stato lui non so dove sarei in questo momento..» sussurrò con lo sguardo basso.
Il rosato la guardò per qualche secondo in silenzio; dopodichè sorrise e scrollò le spalle.
«A quanto pare, il nostro Mahtar raccoglie sotto la sua custodia tuti i ragazzi con le orecchie a punta e con una storia difficile» disse alla ragazza con un sorrisetto.
«A quanto pare sì» sussurrò quella con un sorriso timido.  
«Ma tu.. tu ci credi a quella favola?» le chiese Anar curioso, a bruciapelo, conscio già dentro di sé della risposta. La ragazza lo guardò stupita.
«Mi stai chiedendo se credo nell’esistenza di una bambina che se ne va in giro con un coniglio diabolico che le ordina di uccidere?» gli chiese incredula.
«Esatto..» le rispose quello come se nulla fosse.
«No» gli rispose convinta.
«Io si..» le disse lui, serio.
«Perché?» gli chiese curiosa.
«Perché la ragazza di oggi è stata assassinata proprio da quel coniglio». 

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Capitolo 8
*** Paura ***


Paura
 
Estel guardò stupita il ragazzo che le era seduto accanto. Come poteva essere così convinto di quello che diceva? Vortha.. era impossibile che esistesse davvero!
«Tu..» gli sussurrò, incapace di credere alle sue parole.
«Lo so e basta» le rispose in fretta. Estel lo guardò immobile per pochi secondi, dopodiché esplose.
«Com’è possibile che sia sempre e solo questa la tua risposta?! Perché non le spieghi le cose anziché dire che le sai e basta?!» gli urlò alzandosi in piedi. Il ragazzo la guardò dal tappeto e sospirò.
«Perché non te le posso spiegare» le rispose tranquillamente. La ragazza sbuffò e senza più degnarlo di uno sguardo se ne andò nella stanza di Mahtar sussurrando un “buonanotte” che Anar riuscì a sentire tranquillamente.
 
Erano svariati i motivi per il quale Anar non poteva spiegarle la sua teoria; ma probabilmente con il tempo lei li avrebbe capiti da sola. Non aveva bisogno di lui che glieli spiegasse. Doveva soltanto essere paziente, anche perché se lui avesse parlato sicuramente si sarebbe sentita come se le fosse caduto il mondo addosso.
Il rosato sospirò e si grattò la testa con un sospiro. Non era quello il momento di pensare a cose del genere; erano già passate da un pezzo le undici e lui si sentiva particolarmente stanco: sia fisicamente che mentalmente. Vedere quella ragazza morta l’aveva scosso e se a questo si aggiungeva anche l’intromissione di Vortha e della favola, la sua salute mentale poteva andare letteralmente a farsi benedire. 
Scosse la testa e sbadigliò apertamente, senza portarsi la mano davanti alla bocca; poi si alzò e lentamente si diresse verso la sua stanza.
 
Estel, nel frattempo, camminava avanti e indietro per la stanza di Mahtar, cercando di smaltire la rabbia. Anar, nonostante fosse soltanto un giorno che lo conoscesse, la faceva diventare matta! Era presuntuoso e permaloso, e ad ogni domanda rispondeva con la stessa affermazione: “lo so e basta”. Che testardo!
Estel si sedette sul materasso, ispirando profondamente, per calmarsi. Era vero che Anar sapeva essere un gran rompiscatole, ma era anche vero che con lei sapeva essere anche gentile e dolce, quando gli capitava. Per esempio, non ci aveva pensato due volte ad abbracciarla quella mattina nel cortile della scuola, quando era rimasta sconvolta dalla vista del cadavere e non aveva esitato minimamente, quella sera, per ospitarla in casa propria nonostante la conoscesse da pochissimo tempo. Era davvero una bella persona.
La ragazza sospirò e si sdraiò pesantemente sul materasso. Era stata un po’ dura con lui in effetti, ma non poteva farci nulla. Anche lei era testarda e presuntuosa quindi quando accadeva qualcosa che non le andava a genio, si arrabbiava e cominciava ad urlare. Sinceramente si, era un po’ strana anche lei.
Estel sospirò nuovamente e chiuse gli occhi, cercando di addormentarsi; però, non appena cercò di rilassarsi, le riaffiorava il ricordo di Anar che con i suoi discorsi le aveva fatto ritornare in testa il viso della ragazza. Aprì gli occhi e cercò di distrarsi guardando i strani disegni che ricoprivano il soffitto della stanza, ma ogni qualvolta chiudeva gli occhi, incontrava quelli della ragazza che, indifferenti, iniziavano a scavarle dentro l’anima. E nonostante lei si sentisse al sicuro in quella casa, in quel momento si sentì inerme e scoperta, e quindi, senza pensarci più d’una volta, si alzò in piedi e uscì dalla stanza.
 
La porta della camera si aprì delicatamente. Anar era sdraiato sul letto e incredibilmente era ancora sveglio. Appena sentì la porta aprirsi si sedette di botto e puntò, con un sorriso, lo sguardo sulla minuta figura che si affacciava dalla soglia.
«Posso fare qualcosa per te?» chiese ad Estel, maliziosamente, sdraiandosi nuovamente. Lei sbuffò e si chiuse la porta alle spalle. Come ogni volta che aveva paura di qualcuno, si sentiva spiata e osservata, soprattutto alle spalle; quindi preferiva tenerle coperte.
Con un respiro profondo, la ragazza si avvicinò al letto e incrociò le braccia.
«Posso dormire con te?» chiese ad Anar senza guardarlo, arrossendo leggermente.
«Perché?» gli chiese quello con un sorrisetto, malgrado comprendesse già la risposta. Estel lo guardò in silenzio. Era troppo orgogliosa per ammettere di avere paura, eppure non aveva nessuna intenzione di dormire da sola.
«Lo so io» gli rispose guardando il materasso.
«Lo sai tu?» le chiese confuso e incredulo.
«Lo so io, e basta» gli rispose, secca. Anar la guardò e si mise a ridere.
«Non puoi usare la mia tecnica contro di me» le disse ridacchiando, facendole uno spazio sul materasso.
Lei lo guardò, incredula di essere riuscita a convincerlo così facilmente, e gli sorrise contenta. Si tolse le scarpe e si mise in fretta sotto le coperte.
Nel letto insieme ad Anar si sentiva già meglio, eppure non era ancora veramente tranquilla poiché, dato dormiva su un fianco, non voleva dare le spalle alla porta.
Così alzò il viso e guardò il rosato.
«Facciamo a cambio di posto?» gli chiese con un sorrisetto, dato che il lato dove dormiva lui era poggiato al muro.
«Perché?» le chiese confuso.
«Così» lo pregò.
«Va bene» sospirò il ragazzo. Estel sorrise e fece per alzarsi, ma Anar la prese dai fianchi e la issò e, una volta spostatosi al suo posto, la poggiò delicatamente sul materasso accanto al muro.
La ragazza arrossì leggermente e lo guardò in viso: stava sorridendo.
«Grazie» gli disse in un sussurro, con le guance chiazzate di rosso. «Ma non prendermi mai più in braccio» gli disse colpendolo su una spalla. Lui rise e si sistemò comodamente sotto le coperte. Non aveva fatto chissà quale movimento, eppure Estel, nel muoversi delle coperte, notò che il ragazzo si era nuovamente spogliato e che ora indossava un semplice paio di boxer. Cercò di tranquillizzarsi e per fortuna Anar tossicchiò intromettendosi così nel filo dei suoi pensieri sconci.  
«Sei più tranquilla ora?» le chiese quello dolcemente. Estel spalancò gli occhi e lo guardò con la faccia ormai diventata di un bordeaux particolarmente scuro. Sospirò e non fu mai tanto più grata al buio che nascondeva al rosato il colore del suo viso.
«Non capisco cosa intendi dire» gli disse chiudendo gli occhi e sdraiandosi, dandogli le spalle. Sapeva che il ragazzo era semplicemente in mutande, eppure non aveva paura di stare in un letto da sola con lui. Percepiva di potersi fidare.
«Va bene, fai finta di niente; ma tanto io lo so» le disse quello con un sorrisetto. Anche lei sorrise e, in poco tempo, entrambi si addormentarono.
 
Durante la notte, Estel si mosse sotto le coperte, preda di un incubo e riuscì a calmarsi soltanto quando, inaspettatamente, Anar le mise un braccio intorno alla vita stringendola a sé. Il calore e la sicurezza di quelle braccia vinsero anche gli incubi che si allontanarono, smettendo di tormentarla.
E, come avida di quelle braccia che la proteggevano, Estel si strinse a lui fino a poggiargli la testa sul petto in modo da sentire il suo cuore che, tranquillamente, batteva a ritmo di una ninnananna. 

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Capitolo 9
*** Mahtar ***


Mahtar

 
Era notte fonda. Anar ed Estel dormivano già da un pezzo quando Mahtar fece il suo ritorno.
Senza fare rumore, poggiò la sua pistola sul tavolo della cucina e si sedette con un sospiro sulla poltrona davanti al camino. Si massaggiò le tempie, lentamente.
L'uomo faceva parte di un’organizzazione segreta che si occupava di risolvere casi intrigati, misteriosi, oscuri e sanguinari e di portare a termine missioni pericolose, avventurose e, a volte, spaventose. Spesso il suo lavoro toccava campi paranormali, alieni e leggendari; motivo appunto per il quale il governo locale cercava in tutti i modi di sciogliere la sua organizzazione. Fortunatamente, la Foole era troppo potente sia sul piano della forza che su quello del denaro; possedevano infatti armi rivoluzionarie e uniche delle quali il governo sapeva ben poco, e le varie missioni fruttavano tantissimo. Per questo, nonostante vari uomini potenti cercassero di distruggerla, la Foole resisteva.
L’organizzazione era divisa in varie squadre speciali che si differenziavano tra di loro per i vari livelli di esperienza che in tutto erano venti. Mahtar era il capo della squadra speciale Wingold, di livello diciassette. 
Quella notte era stato chiamato dai capi della polizia, con l’urgenza di dover lavorare sul caso di una ragazza ritrovata morta in mezzo alla strada che portava al parco; la vittima aveva inciso sulla fronte il nome “Vortha”.
Era il secondo cadavere che veniva trovato in quelle condizioni, quindi l’investigatore Yetille aveva considerato necessario l’intervento della Foole,  dato che entrambe le scritte si ricollegavano ad una leggenda.
Mahtar, dal canto suo, era convinto che il vero colpevole fosse davvero quel coniglio diabolico; ma sapeva che stava agendo da solo, avido di voler ricongiungersi con la sua vera proprietaria. Sapeva anche che, se non veniva fermato in tempo e riusciva a ritrovare Ainur, avrebbe dato inizio a veri cataclismi.
L’uomo dai capelli rossi sospirò e si gratto la testa, esasperato. Tutto dipendeva da lui e dalla sua squadra, eppure non aveva la minima idea di dove potesse essersi cacciato quel coniglio. Si rallegrava un po’ con la magra consolazione che Ainur ancora fosse salva.
In quel momento, sentì uno squillo provenire dalla stanza di Anar; uno squillo che sapeva non appartenesse al cellulare del ragazzo.
Sotto le coperte Estel si mosse e, imprecando, cercò di prendere il cellulare che le squillava dentro la tasca. Con un sospiro, senza neanche aprire gli occhi per vedere chi fosse, prese la chiamata.
«Pronto?» chiese assonnata.
«Estel..». Dall’altra parte del telefono c’era Shaza, che parlava con un tono di voce basso e spaventato.
«Shaza.. cos’è successo?» le chiese sedendosi di botto, svegliando Anar. Quello la guardò intontito per qualche secondo, ma, dopo aver notato la sua espressione preoccupata, la guardò serio.
«Stavo per rientrare a casa dalla festa quando ho visto una lucina provenire dalla cassetta della posta; mi sono avvicinata e l’ho aperta e lì ho trovato un pacco..» le disse cercando di restare calma.
«Un pacco? E l’hai aperto?» le chiese Estel alzandosi e indossando le scarpe. Anche Anar la imitò, vestendosi in fretta.
«Si..» le disse in un sussurro.
«E cosa c’era?».
«Un coniglio di pezza bianco con la testa sporca di sangue..». A quelle parole Shaza iniziò a piangere spaventata ed Estel si bloccò incredula.
Per quale motivo la sua amica aveva ricevuto il coniglio assassino? Era soltanto uno scherzo di cattivo gusto da parte di qualche cretino?
«Sto arrivando..» le disse e con quelle parole chiuse la chiamata. Uscì dalla stanza di Anar e raggiunse il salotto dove vide Mahtar che la guardò curioso.
Prima di chiederle cosa ci facesse in casa sua, la guardò confuso.
«Dove stai andando?» le chiese alzandosi.
«Da Shaza.. ha trovato un coniglio bianco e ha paura..» gli disse, indossando il giubbotto. L’uomo e il ragazzo la guardarono con uno sguardo talmente tanto terrorizzato che riuscirono a spaventare anche lei.
«Vengo con te» dissero contemporaneamente ed Estel non osò contraddire anche perché in loro compagnia si sentiva più sicura. Annuì soltanto e insieme ad Anar e Mahtar, si diresse verso la casa dell’amica.
«Perché eri a casa mia?» chiese all’improvviso Mahtar cercando di distruggere l’atmosfera carica di tensione che si era creata.
«Sono scappata di casa..» gli disse in fretta Estel. Lui la guardò e sospirò.
«Mi aspettavo che prima o poi srebbe successo. sussurrò.
«Potevi invitarmi subito a casa tua.. tu dov’eri?».
«A lavoro..» sbuffò.
«Cos’è successo?».
«Un’altra ragazza è stata ritrovata morta con la scritta Vortha sulla fronte e il detective ha ritenuto necessario che fosse la mia squadra ad occuparsene».
«Una seconda ragazza è stata uccisa?» gli chiese Anar incredulo.
«Già.. dal resoconto che hanno dato i genitori di entrambe le vittime, prima di essere uccisa ogni ragazza ha trovato il coniglio bianco. Non so se è soltanto una coincidenza, ma io credo davvero che sia il coniglio della leggenda».
«Che cosa?» le chiese Estel, stupita.
«Non è così assurdo; anche io credo che sia lui l’assassino» disse Anar ed Estel li guardò sconvolta.
«Voi due avete qualche problema..» sussurrò scuotendo la testa.
«Comunque, quelle che vi ho fornito erano informazioni riservate, quindi fate come se io non avessi detto nulla» disse Mahtar guardandoli serio. I due annuirono e in silenzio, finalmente, raggiunsero casa di Shaza.

 

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Capitolo 10
*** Il pacco ***


Il pacco

 
Estel suonò il campanello e, quasi istantaneamente, il portone di casa si aprì. Davanti ai tre comparve Shaza, il viso arrossato dalle lacrime e gli occhi spalancati dalla paura.
«Sei qui..» sussurrò, correndo tra le braccia dell’amica, che iniziò a carezzarle i capelli per cercare di tranquillizzarla.
«Adesso è tutto apposto; ci siamo noi» le disse con un sorriso. Lei annuì e, tirando su col naso, sciolse l’abbraccio e si asciugò gli occhi.
«Possiamo vederlo?» le chiese Anar, gentilmente. Lei rabbrividì solo al pensiero, ma annuì e li fece entrare dentro casa chiudendosi la porta alle spalle.
«I tuoi genitori non ci sono?» le chiese Mahtar stupito. Lei scosse la testa.
«Lavorano..» sussurrò.
«Che lavoro fanno?».
«Lavorano nella polizia.. questa sera hanno ricevuto una telefonata che li obbligava a raggiungere la centrale immediatamente, così mi hanno avvertita e se ne sono andati».
«Nella polizia..» sussurrò Mahtar, un po’ confuso. Se anche i genitori di quella ragazza erano stati chiamati per il suo stesso motivo, sarebbero dovuti tornare da un pezzo ormai; ma allora perché non erano ancora arrivati?
Preoccupato, iniziò a guardarsi intorno con circospetto in attesa che i due arrivassero. Rimase comunque in silenzio; non era il caso di spaventare quella ragazza più del dovuto, e poi non era neanche sicuro che i due poliziotti fossero stati chiamati per il suo stesso motivo. Ma se non da quello, da quale caso urgente erano stati obbligati a lasciare la propria casa nel mezzo della notte?
Scosse la testa e scambiò uno sguardo con Anar; anche lui aveva un brutto presentimento e sembrava condividere ciò che l'uomo stava pensando. Si scambiarono un secondo sguardo e, con un sospiro, si voltarono verso Estel che, camminava in silenzio a fianco dell’amica.
Shaza si fermò di botto davanti alla porta della sua camera. Si mise da parte e lasciò passare i suoi ospiti che, senza timore, si diressero verso il pacco azzurro che era poggiato sulle coperte.
Estel, Anar e Mahtar si sporsero e storsero il viso in una smorfia disgustata. Nella confezione c’era un coniglio bianco di pezza con la testa e le zampe sporche di sangue. Anar ed Estel si tapparono il naso sofferenti; lui aveva uno sguardo nauseato, lei confuso. Mahtar li guardò comprensivo.
«A quanto pare, avete entrambi un olfatto sensibile; è normale che l’odore eccessivo del sangue vi disgusti e vi causi sofferenza» disse alla ragazza, stupita.
«Ma questo è sangue.. fresco?» chiese. L’uomo annuì.
«Dobbiamo farlo analizzare..» disse Anar alzandosi per allontanarsi da quell’odore.
«Lo faremo.. secondo me qui troveremo tracce del DNA di entrambe le ragazze» disse il rosso.
«Ne sono convinto anche io..» disse il rosato. Le ragazze li guardarono incredule.
«Fatemi capire bene.. questo dovrebbe essere Vortha?!» urlò Estel. Mahtar la trafisse con uno sguardo di rimprovero.
«È probabile..» le rispose.
«Ma.. ma.. è impossibile!».
«Non tanto quanto pensi..».
«Ma allora.. uccidiamolo!». L’uomo e il ragazzo si fissarono con uno sguardo serio; il rosso scosse la testa e il rosato sospirò.
«Non possiamo..» le disse Anar poggiandole una mano sulla spalla destra.
«Perché no?» gli chiese lei, confusa.
«Dobbiamo prima trovare la sua padrona».
«Intendi Ainur?».
«Esatto» le disse Mahtar.
«E perché?».
«Non sappiamo che effetti potrebbe avere su di lei la morte del conigli
o». Estel lo guardò confusa e accigliata.
«Che..
?». Anar sospirò.
«Non sappiamo fino a che punto i due siano legati insieme; quindi uccidendo lui, potremmo uccidere anche lei..» le disse, paziente.
«E allora?» gli chiese perplessa. Lui la guardò sconvolto.
«Allora? Vuoi uccidere un’altra ragazza innocente?! Ainur non è cattiva!».
La ragazza incrociò le braccia e sbuffò.
«Non è neanche detto che sia veramente il coniglio della favola» sussurrò, senza guardarlo negli occhi. Il ragazzo prese un lungo respiro per non urlarle addosso e cercò di calmarsi.
«Molto probabilmente lo è».
«Ma non avete risposte certe?! Solo probabilità! Non si aiuta nessuno senza risolvere i dubbi!» urlò sbattendo i piedi per terra.
«La vuoi smettere di lamentarti e di comportarti come una bambina?! Se sapessimo le risposte, le avremmo già date, non credi?! Credi sia bello avere la testa piena di dubbi che sai di non poter risolvere?» le urlò lui, ormai preda della rabbia.
«Non mi sto lamentando! Sto solo cercando di aiutare una mia amica che probabilmente ha ricevuto una proposta di morte! Credi che le basti un semplice “è probabile” per aiutarla?!».
«Mi sto impegnando al massimo per aiutare la tua amica, ma se non sono sicuro della risposta, non dico di saperla! A cosa servirebbe dirle che è al sicuro quando invece è tutto il contrario?! Le mentirei soltanto!».
Estel sbuffò. I due continuarono a guardarsi digrignando i denti; entrambi con gli occhi accesi e scintillanti di rabbia.
Fu proprio durante quella pausa che Shaza urlò. Estel ed Anar si voltarono verso la ragazza e spalancarono gli occhi. Il coniglio, che fino a qualche secondo prima era rimasto disteso nella scatola, le era saltato addosso e stava cercando di perforarla con una siringa.
Anar si mosse velocemente. Si avvicinò a Shaza e con un calcio allontanò il coniglio, facendolo sbattere contro una parete. Estel lo raggiunse e lo schiacciò a terra con un piede, cercando di immobilizzarlo. Quello le conficcò la siringa nella caviglia ma, prima che riuscisse a iniettarle dentro le vene tutto il liquido che conteneva, fu schiacciato da qualcosa di pesante.
Confusa Estel alzò lo sguardo e vide Anar che, girato di spalle, si era piombato sul coniglio. Lo sentì sbuffare e sospirare. Poi si voltò verso di lei e la guardò con uno sguardo serio.
«Come stai?» le chiese preoccupato come se si aspettasse di vederla cadere distesa sul pavimento.
«Bene» gli rispose. Lui annuì e si voltò a guardare Shaza che, appiattita contro il pavimento, piangeva in silenzio, terrorizzata.

 

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Capitolo 11
*** La scia continua ***


La scia continua

 
«Come stai?» chiese Estel dolcemente all’amica spaventata.
«Quello.. quello.. voleva uccidermi!» urlò, scoppiando in lacrime a abbracciando l’amica che le stava accanto. Estel l’abbracciò e rimase in silenzio. Magari avrebbe potuto dirle che ormai era finito tutto e che poteva stare tranquilla, ma c’era qualcosa che non la convinceva. Non era sicura che il peggio fosse passato.
Anar si avvicinò al coniglio ormai distrutto e lo prese in mano, dopo avergli staccato la siringa dalle dita. Lo osservò attentamente e spalancò gli occhi incredulo.
Quello non era Vortha! Era un piccolo coniglio robotico! Chi aveva potuto costruire una simile macchina omicida, all’apparenza tanto innocente?! E per quale motivo poi se la prendeva con delle ragazze indifese? Chiunque fosse l’organizzatore di tutto quanto, per quale motivo lo stava facendo? Cosa aveva contro quelle ragazze?
Ci fu un rumore di passi che percorrevano il corridoio e dopo qualche minuto entrò Mahtar.
«Cos’è successo?» chiese preoccupato, avvicinandosi al rosato. Il ragazzo lo guardò arrabbiato. Dov’era stato fino a quel momento?! Poi alle sue spalle sentii i passi di altre persone e, quando nella stanza entrarono altri due adulti, capì che era andato ad aspettare i genitori di Shaza per avvertirli di ciò che stava accadendo.
«Il coniglio ha attaccato Shaza, ma siamo intervenuti presto» gli rispose impassibile.
«Vortha?» gli chiese l’uomo stupito.
«No.. uno stupido robot!» urlò, gettando con forza il coniglio contro il pavimento. Il suo gesto fece sussultare entrambe le ragazze. Shaza alzò il viso e incontrò lo sguardo di due persone che ben conosceva e amava.
«Mamma.. papà..» urlò saltando tra le braccia dei genitori. Quelli, contenti che la figlia stesse bene, sospirarono e si rilassarono.
Erano stati spaventati tutta la notte. Erano stati chiamati dal commissario per un caso urgente e avevano dovuto lasciare la propria figlia. Credevano che non le fosse successo niente, ma c’era qualcosa che li preoccupata e che li aveva spinti a tornare a casa il più presto possibile. Il loro timore era stato realizzato.
«Calmati» sussurrò Estel, alzandosi e raggiungendo Anar.
«Calmarmi? Non capisci, Estel, tu non puoi capire!» le urlò con uno sguardo furioso. Lei arretrò spaventata e abbassò lo sguardo.
«Che cosa?» gli chiese in un sussurro. Il ragazzo la guardò per qualche istante in silenzio; gli occhi scintillanti e spalancati dalla rabbia. Sapere di averla attaccata in quel modo lo faceva sentire un verme, anche perché lei non c’entrava niente ed era stupido prendersela con lei.
«Scusami» le sussurrò pentito, muovendosi verso di lei. Estel alzò lo sguardo e lo guardò dritto negli occhi.
«Scusato..» gli sussurrò accennando un sorriso. Lui le sorrise stanco e sospirò. Mahtar gli diede una pacca sulla spalla.
«Riusciremo a risolvere tutto» gli disse. Il ragazzo annuì e lo guardò come se nel suo sguardo potesse trovare la conferma che ciò che aveva appena detto fosse vero. Però, sapeva benissimo che il rosso parlava soltanto per confortarlo; alla fine, la pista che avevano seguito fino a quel momento si era rivelata sbagliata e dovevano cominciare tutto da capo. Il coniglio che avevano rintracciato era quello sbagliato e di Vortha non c’era ancora traccia. Trovarlo sarebbe stato difficile, ma l’avrebbero acciuffato.. dovevano farlo per lei..
Estel li guardò e si lasciò sfuggire un sospiro.
«Dovremmo chiamare la polizia» sussurrò.
«Sta arrivando» le disse il padre di Shaza. Tutti restarono in silenzio.
«Andiamo in cucina: credo che sia necessaria una bella tazza di caldo caffè fumante» disse la poliziotta. Nessuno parlò, ma in silenzio tutti quanti abbandonarono quella camera. Raggiunsero la cucina e si sedettero intorno al tavolo.
«Lei è il famoso Mahtar, dico bene?» chiese l’uomo al rosso, improvvisamente. Questo annuì con un sorriso.
«Posso chiedervi qual è stata l’urgenza che vi ha costretti ad uscire stanotte?» gli chiese. L’uomo guardò sua moglie e, ad un suo cenno del capo, sospirò.
«Vede.. è stato ritrovato il corpo di una ragazza con stampato sulla fronte il nome Vortha. A quanto ne so, è il terzo cadavere ritrovato, e mia figlia sarebbe dovuto essere il quarto» gli rispose, rabbrividendo.
«Un’altra ragazza?» gli chiese Anar disgustato. La donna annuì.
«Il commissario crede che sia tutta opera di qualche maniaco della leggenda di Ainur» disse, versando il caffè nelle tazze. Il ragazzo la guardò stizzito.
«Hanno qualche idea di chi possa essere il colpevole?» chiese Estel curiosa.
«Nessuna..» sussurrò il poliziotto amareggiato.
«Tu hai qualche idea?» chiese la donna a Mahtar. Il rosso la guardò e sospirò.
«Fino a poco tempo fa ero convinto si trattasse di Vortha, ma adesso che ho scoperto che il coniglio assassino è un robot non so da che parte sbattere la testa» sussurrò prendendo con un sorriso la tazza che la donna gli stava offrendo.
«Quelle sono soltanto baggianate» sussurrò la poliziotta, sedendosi accanto al marito. Anar sotto il tavolo, strinse i pugni dalla rabbia, ma cercò di non far notare a nessuno la sua reazione. Però, Estel se ne accorse e, automaticamente, gli strinse la mano per farlo calmare. Il ragazzo la guardo incredulo, e lei, seppur rossa in viso, manteneva un’espressione seria senza avere però il coraggio di guardarlo negli occhi.
Sospirarono entrambi e Anar rilassò i muscoli contratti delle sue dita che, al leggero toccò della ragazza, si era automaticamente rilassati. Stiracchiò le dita e le portò a chiudersi intorno alla mano della ragazza che era corsa subito in suo aiuto.
Voleva ringraziarla e sorriderle. Era strano, ma, anche se si conoscevano da pochissimo tempo, lui si sentiva particolarmente legato a lei, così strana e particolare e che, come lui, aveva le orecchie appuntite.
La guardò e in quel momento accadde qualcosa di strano. Estel si accasciò contro il tavolo e rimase immobile. I vari presenti si accorsero del suo malessere soltanto dopo aver sentito il tonfo sordo della sua testa che sbatteva contro la superficie di legno.
«Estel?» le chiese Anar, preoccupato, alzandole il viso. Si aspettava chissà quale tipo di risposta pur sospettando che quella non gli avrebbe risposto. I suoi sospetti erano giusti, poiché Estel era priva di sensi e non riusciva neanche ad ascoltare le parole del suo giovane amico che, disperate, imploravano che lei si risvegliasse.
 

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Capitolo 12
*** Pensieri ***


Pensieri

 
Estel aprì gli occhi e si guardò intorno spaesata. Le faceva male la testa e sentiva intorno a sé un disgustoso odore di sangue. Intorno a lei era tutto buio. Non si ricordava nemmeno cosa le fosse successo.
Perché si trovava in quel posto desolato e sconosciuto? E da cove veniva quella puzza che la nauseava a tal punto da farle credere che si sarebbe messa a vomitare?
Si sedette e cercò di intravedere qualcosa nel buio che la circondava. C’era silenzio; un dannato silenzio che la stava facendo impazzire, così opprimente da sfondarle i timpani. Non riusciva a vedere o sentire nulla; si sentiva però osservata da qualcuno che con lo sguardo le trapassava le spalle. Nonostante si voltasse però, la strana presenza era sempre dietro di lei. La puzza si fece sempre più insistente e all’improvviso dall’ombra apparvero tante mani pallide pronte ad afferrarla: mani di morte, spesso macchiate di sangue.
Si alzò di botto e, spaventata, cercò di scappare lontano da quel posto, di trovare una via d’uscita. Ma era come se non si stesse muovendo affatto. Le mani erano sempre a pochi centimetri da lei, pronte ad acchiapparla in qualunque momento.
Cercò di allontanarle, ma aveva paura di toccarle per spingerle via. Credeva che quelle avessero potuto approfittare del momento per condurla insieme a loro nell’ombra; e questo la terrorizzava.
Sentì il suo cuore iniziare a batterle forte come se fosse impazzito davvero e sentì tutto il corpo tremarle. Non sapeva cosa doveva fare, o dove doveva andare; qualunque posto sarebbe stato sbagliato poiché era sicura che il battito esagerato del suo cuore avrebbe rivelato a tutti la sua posizione. Così, cercò di calmarlo, ma più pensava a quelle mani, più la paura aumentava e più si il suo battito accelerava.
«Perché..?» sussurrò all’improvviso una voce facendola sussultare. Si guardò intorno, ma nel buio intorno a lei, non intravide nessuno. La voce si ripeté sempre più vicina, come un eco che si diffonde rapidamente in una conca vuota. La domanda le fu soffiata dentro l’orecchio e lei si irrigidì spaventata, mentre le lacrime iniziarono a scenderle giù per le guance, senza controllo.
Avrebbe voluto urlare e chiedere l’aiuto di qualcuno, ma le si era fermata la voce in gola. Aveva paura di quella voce, di quella presenza e di quelle mani che ancora non avevano rivelato nessun corpo. Chi era che parlava? E cosa voleva da lei?
All’improvviso, qualcuno le toccò una spalla e, spaventata, si girò di botto urlando. Davanti a lei, ritrovò il cadavere della ragazza che era stata ritrovata nel cortile della scuola. Aveva la scritta sulla fronte ancora sanguinante e gli occhi neri spalancati ad osservarla. Gli stessi occhi che erano riusciti a scavarle dentro l’anima e che l’avevano resa immediatamente vulnerabile. Il cadavere spalancò la bocca mostrando ad Estel le labbra e la lingua che erano diventate nere. Tutta la sua pelle era ormai bianca e secca anche se la ferita non si era ancora rimarginata. Il sangue le colava sul tutto il viso dandole un aspetto sinistro e macchiandole anche i vestiti ancora stranamente puliti.
Estel indietreggiò spaventata, anche se sinceramente non riusciva a muovere neanche un muscolo. Quella ragazza era morta eppure adesso era in piedi davanti a lei, con il viso già deformato dalla morte e con lo sguardo severo e accusatorio.
Alzò la mano cadaverica e le puntò l’indice contro.
«Perché..?» chiese debolmente, cercando di scavare con gli occhi sempre più in profondità nell’animo ormai messo a nudo di Estel. Questa, terrorizzata, smise di piangere e rimase immobile dov’era, incapace di muoversi o di proferire parola.
«Perché?!» le urlò questa volta la morta muovendo un passo contro di lei. Fermò il suo viso a pochi centimetri da quello di Estel che non riuscì neanche a spostarsi. Era agganciata allo sguardo della ragazza cadaverica. Da quella vicinanza, poté notare che gli occhi della morta non c’erano più e che lei stava fissando soltanto le sue orbite vuote. Orbite che comunque, facevano credere che quella ragazza potesse ancora vederci normalmente.
«Cosa vuoi da me?» riuscì infine a chiederle Estel, sussurrando velocemente. La ragazza spalancò la bocca e le urlò addosso. Poi le mise le mani bianche di morte intorno al collo, stringendo sempre più forte. Stava cercando di ucciderla.
Estel lottò per staccarsi quella ragazza di dosso, ma, nonostante fosse morta, aveva una forza incredibile e non riusciva a muoverle neanche un singolo dito. Si sentì mancare le forze e l’ossigeno era sempre di meno.
Poi però, una luce la accecò per un millesimo di secondo e in quell’istante riuscì ad ottenere le forze necessarie per allontanare la morta, con un calcio. Quella cadde a terra, mentre Estel, stanca, cercava di riprendere fiato.
La ragazza-cadavere si alzò in fretta e si avvicinò nuovamente alla sua nemica: anima dannata che cerca pace nella distruzione di colei che l’ha distrutta.
Estel, spaventata di fronte all’avanzare della ragazza, indietreggiò sempre di più fin quando non finì con lo sbattere contro qualcosa. Si voltò terrorizzata da ciò che potesse aver ostacolato la sua fuga e impallidì ancor più di quanto già era. A bloccarla erano state delle chiare e bianche mani cadaveriche. Urlò demoralizzata e nuove lacrime le rigarono le guance.
Le braccia rivelarono presto i loro padroni ed Estel non poté che chiudere gli occhi e aspettare, ormai rassegnata, che le tre ragazze ritrovate morte con la scritta “Vortha” stampata sulla fronte compissero il loro destino.
E, ormai arresasi, si lasciò travolgere da quelle mani bianche che, asfissianti, le negavano l’ossigeno.

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Capitolo 13
*** Il detective Yetille ***


Il detective Yetille

 
Due uomini, in silenzio, restavano seduti l’uno di fronte all’altro in una delle stanze più appartate dell’ospedale di Dragville. Uno di essi sospirò e poggiò i gomiti sulla superficie di legno del tavolo che li separava.
«Come sta?» chiese il detective Yetille al rosso che, stanco, si massaggiava le tempie.
«Dicono che si riprenderà presto.. ma sono tre giorni che dorme..» sussurrò Mahtar aprendo gli occhi per fissare il suo collega; il detective aveva la fronte corrugata in un’espressione preoccupata e continuata a giocherellare con le proprie dita come a voler suggerire il grado del proprio nervosismo.
«Mi dispiace..» sussurrò all’improvviso incrociando le braccia e volgendo lo sguardo verso la finestra.
«Ti dispiace?» gli chiese il rosso confuso, corrugando la fronte.
«Vedi.. mi sento colpevole di quello che le è successo. Se non l’avessi accusata, magari..» sussurrò stringendo forte i pugni, tremante di nervosismo.
«Non dire scemenze, Yetille. Anzi, se tu non l’avessi accusata, lei non sarebbe fuggita di casa per venire da me, dalla sua amica ci sarebbe andata da sola e probabilmente adesso sarebbero morte entrambe» sussurrò incrociando le dita e poggiandoci sopra il mento.
Entrambi restarono in silenzio. Sospirarono. Il detective sembrava sull’orlo di una crisi di nervi e Mahtar, il cui stato d’animo era abbastanza simile a quello del collega, prese un profondo respiro per cercare di calmarsi. Si alzò e si avvicinò alla grande finestra.
Era ormai calata la notte e i lampioni illuminavano fiocamente il cortile dell’ospedale lasciando dietro di sé delle lunghe e tetre ombre. Sembrava quasi un paesaggio oscuro e diabolico, ma il silenzio della notte infondeva uno snervante senso di quiete. Lì fuori tutto era calmo e silenzioso; e quella pace, così disgustosamente placida, fece infuriare il rosso che, tremando, iniziò a stringere i pugni. Lui era lì fuori da qualche parte, nascosto tra quelle forme silenziose e immobili; probabilmente aspettava il momento migliore per entrare in azione; ma lui, Mahtar, non aveva più armi per scovarlo. Tutta la sua fatica era stata inutile e la consapevolezza di questo lo faceva infuriare e deprimere allo stesso tempo. Sospirò e si sedette nuovamente di fronte al detective che, in silenzio, continuava a guardarlo con uno sguardo preoccupato.
«Siamo di nuovo al punto di partenza..» sussurrò,  appoggiandosi contro lo schienale della sedia, incrociando le braccia. Il suo collega ne imitò la posizione.
«Già.. abbiamo seguito per tantissimo tempo una pista inutile; ero convinto che ormai avessimo trovato davvero Vortha e che la missione si fosse conclusa..» disse Yetille, in un sussurro, demoralizzato.
«Anche io..» sibilò Mahtar frustrato.
«Adesso non abbiamo neanche un indizio dal quale partire! Come dovremmo fare?! Secondo me dovremmo lasciar perdere, non siamo in grado di portare a termine questa missione!» urlò furioso, sbattendo un pugno sul tavolo. Il rosso lo guardò accigliato.
«Stai scherzando, vero? Facciamo parte della Foole, e la Foole non si arrende mai! Dovresti saperlo ormai; è da più di sette anni che fai parte dell’organizzazione! E poi io cosa dovrei dire alla mia squadra? Anar come minimo mi prenderebbe a pugni e non lo biasimerei affatto» borbottò con un’espressione seria e dura.
«Quel ragazzo è troppo impulsivo e audace..» sbuffò Yetille.
«Ha coraggio! È disposto a fare qualunque cosa pur di portare a termine la missione che gli è stata affidata e pur di non infangare il nome della Foole! Ha solo diciotto anni, ed è uno dei membri più forti che abbia mai incontrato. Molti avrebbero da imparare da uno come lui; anche tu, se dici che non vale la pena di continuare a lavorare» gli disse trafiggendolo con uno sguardo di rimprovero.
Il detective lo guardò incredulo e stupito. Faceva parte dell’organizzazione da più di sette anni e non poteva sentirsi dire che doveva imparare da un ragazzino che si era unito alla Foole da meno di un anno. Era imperdonabile!
Quel ragazzo era subito entrato a far parte della squadra speciale Wingold di diciassettesimo livello! Era impossibile che già le sua abilità fossero adeguate a quella squadra, eppure Mahtar era riuscito a farlo aggregare. E lui? Lui era da sette anni che cercava di entrare nella Wingold senza ottenere nessun risultato! E questo non era un qualcosa di riservato soltanto alla Wingold; nessuna squadra speciale aveva accettato la sua domanda d’ammissione. Era inammissibile, quindi, che un ragazzino, a differenza sua, fosse riuscito ad unirsi subito senza neanche un anno di esperienza.
Sospirò e lanciò un’occhiataccia al suo collega.
«Almeno io sono entrato grazie alle mia abilità e non ad una raccomandazione» borbottò incrociando le braccia. Mahtar lo guardò come se l’avesse appena insultato.
«Raccomandazione?! Tu sei uno stupido! Anar è riuscito ad aggregarsi alla mia squadra speciale soltanto per le sue abilità e qualità! Qualità che tu non avrai mai e che ti impediscono di poterti aggregare a qualunque altra squadra! Lui è coraggioso, leale, sincero, umile, forte, impulsivo, testardo! Riesce a farsi propri tutti i problemi delle persone che ama e riesce in questo modo ad aiutare tutti quanti! Non gli importa se lui ci soffre; lo fa star bene vedere felici le persone che ama; ed è questo che l’ha reso degno di far parte della mia squadra!» gli urlò il rosso, infuriato, sbattendo, animatamente, i pugni sul tavolo. Il detective lo guardò accigliato.
«È soltanto un ragazzino..» sussurrò incapace di dire altro di fronte alle parole del collega.
«No; è un uomo» disse con decisione.
Entrambi rimasero in silenzio, senza guardarsi, ma volgendo lo sguardo verso la finestra.
Mahtar era arrabbiato. Yetille aveva osato dire che Anar era entrato nella Foole grazie ad una sua raccomandazione e questa era un’enorme fesseria! Il ragazzo aveva lottato tre anni prima di riuscire a convincerlo a partecipare alla prova d’ammissione: una prova difficile, pericolosa e troppo realistica per un ragazzo di diciassette anni che non aveva mai combattuto o preso una pistola in mano e che non si era mai trovato in pericolo o in situazioni tragiche e pericolose come quella. Nonostante le difficoltà, però Anar aveva insistito e alla fine era riuscito a superarla in maniera impeccabile. Si era dimostrato astuto, intelligente, forte, agile, coraggioso e anche protettivo quando aveva rischiato di perdere un braccio per salvare una delle organizzatrici della prova che accidentalmente era diventata il bersaglio di uno dei robot-killer preparati a sparare a vista.
Era impossibile pensare che fosse entrato grazie ad una raccomandazione; e il fatto che il detective, uomo che lui stesso stimava, non avesse riconosciuto le sue abilità lo faceva arrabbiare.
Nonostante la rabbia però, si sentiva un po’ in colpa per aver sottinteso nel suo discorso che Yetille fosse un buon a nulla. Così, dopo un profondo respiro, sospirò.
«Mi dispiace..» borbottò e il detective lo guardò incredulo.
«Ti dispiace? E di cosa? Sono io che dovrei scusarmi..» gli disse quello abbassando lo sguardo.
«Di averti attaccato e di averti fatto sentire insignificante. Se fai parte della Foole è perché anche tu hai queste qualità, anche se le tieni celate. Dovresti farle uscire un po’ e vedrai che riuscirai ad aggregarti a qualsiasi squadra speciale; magari anche alla Wingold» sussurrò, accennando un sorriso.
Yetille lo guardò stupito; gli occhi accesi di gratitudine e commozione. Per anni aveva sperato che il rosso gli rivolgesse quelle parole; per anni aveva sperato di sentirsi anche lui parte di quella grande organizzazione e degno di farne parte. Guardò il collega e gli sorrise rincuorato.
«Ti ringrazio, Mahtar. Prima o poi riuscirò a sentirmi degno della Foole e dovrò tutto a te e.. e si, anche a quel ragazzino. Mi dispiace di aver insinuato che tu l’abbia raccomandato, ma era l’unica consolazione che riuscivo a darmi. È imbarazzante il fatto che un ragazzino mi superi senza avere neanche un anno di esperienza. Ma adesso so perché lui è migliore di me e riuscirò a superarlo, un giorno!» esclamò con convinzione.
«Forse ci riuscirai» gli disse il rosso sorridendo paternamente.
Entrambi si scambiarono uno sguardo di intesa e si sorrisero soddisfatti.  
In quel preciso istante, però, il cellulare del detective squillò. L’uomo rispose.
«Commissario» disse trasformando immediatamente il suo tono di voce da gioioso a serio.
«Detective.. a che punto è con le indagini?» chiese la voce grave del commissario dall’altra parte del telefono.
«Sono al punto di partenza. Credevo che la squadra Wingold potesse risolvere la situazione, ma a quanto pare i crimini non sono stati causati da una leggenda. Dovremmo arrangiarci da soli» gli disse meccanicamente.  
«Finalmente l’ha capito, detective. Quelli della Foole sono soltanto un branco di stupidi. Credere nell’esistenza di cose inesistenti.. andiamo, è praticamente ridicolo!» esclamò sghignazzando.
«Commissario, lo sa anche lei che le cose che definisce “inesistenti” esistono. Lo sanno tutti quelli che lavorano nel nostro campo, ormai. Gli unici che non sanno la verità sono i civili ed è giusto che sia così. Non derida la Foole perché ci ha aiutati in tantissime situazioni» gli disse con un tono di rimprovero. Per qualche secondo il commissario rimase in silenzio. Poi si sentì un sospiro.
«Si, come vuole lei detective. Ma in questo caso le leggende non contano; abbiamo un’idea su chi possa essere il colpevole, ma non sappiamo come intercettarlo. Dobbiamo acciuffarlo!» ordinò con enfasi.
«Certamente, commissario. Sono subito da lei» e con queste parole, con uno sbuffo, chiuse la chiamata. Ripose il cellulare nella tasca della sua giacca e si alzò. Mahtar lo imitò.
«Allora, vai via?» gli chiese il rosso.
«Purtroppo si; devo mantenere la mia copertura di semplice detective e quindi mi devo presentare sempre disponibile alle richieste del commissario. Non vorrei che sospettasse di me e che non mi considerasse più nelle indagini che porta avanti contro la Foole per trovare un qualcosa per incriminarla e farla chiudere» sospirò massaggiandosi le tempie con un movimento stanco.
«Hai ragione; beh, allora buona fortuna» gli disse portando una mano di fronte a sé.
«Questo vuol dire che la tua squadra non ci aiuterà più nelle indagini?» gli chiese, già conscio della risposta.
«Non mi sembra che il commissario voglia il nostro aiuto in casi apparentemente normali; quindi no. Saremo sempre disposti ad aiutarvi, ma per adesso ce ne staremo in disparte. Se tu dovessi avere bisogno però, facci una chiamata e corriamo» gli disse guardandolo con un sguardo serio.
«Grazie, Mahtar» gli rispose con un sorriso, stringendogli la mano con la propria.
«Non dirlo neanche» gli rispose, accennando un lieve sorriso.
Sciolsero la stretta e, dopo aver indossato la giacca, il detective uscì dalla stanza lasciando il rosso da solo a riflettere.  

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Capitolo 14
*** Risveglio ***


Risveglio

 
Erano passati circa tre giorni da quando Shaza aveva ricevuto la misteriosa minaccia di morte attraverso il pacco. Quella notte Estel, improvvisamente, aveva perso i sensi e da quel momento non aveva più riaperto gli occhi.
Era da quel giorno che se ne stava sdraiata su uno dei lettini dell’ospedale di Dragville, immobile e dormiente.
Quando quella notte, i medici l’avevano esaminata per cercare di scoprire la causa del suo svenimento, avevano notato una gocciolina di sangue secco che le percorreva la caviglia. E dopo alcune analisi si era scoperto che il sangue era fuoriuscito a causa di una puntura; la puntura di una siringa che le aveva iniettato dentro il corpo del veleno. Fortunatamente, una dose umile anche se comunque pericolosa. Era a causa di quel veleno che lei ancora non si risvegliava ed era sempre a causa di quel veleno che erano morte le altre tre ragazze.
Quella fatidica notte, dopo l’arrivo dell’ambulanza chiamata per Estel, era arrivata anche la polizia. Il robot fu portato immediatamente in laboratorio e su di esso furono riscontrate tracce di sangue appartenenti a tutte e tre le ragazze ritrovate con la scritta sulla fronte. Esaminandolo attentamente, si era anche scoperto che il petto del coniglio poteva aprirsi come una porta; dentro c’erano un piccolo bisturi, inspiegabilmente pulito, e lo spazio necessario per nascondere una siringa. Quel piccolo attrezzo molto probabilmente era stato usato per incidere le fronti delle tre vittime.
Ormai l’intervento del vero Vortha era da escludere.
 
Era il cinque di ottobre. Un vento freddo soffiava facendo svolazzare il tendaggio semplice della finestra della sua stanza. Anar si alzò dalla sedia sulla quale era ormai seduto da troppo tempo e chiuse le imposte. Non voleva che lei sentisse freddo.
Con un sospiro rimase immobile davanti al vetro, guardando il sole che timidamente si nascondeva dietro le nuvole. D’un tratto, strinse i pugni arrabbiato. Diede una rapida occhiata al letto e sospirò malinconico.
Era stato uno stupido. Non si era accorto che il coniglio era riuscito a colpirla e per colpa sua lei aveva rischiato di morire. Se solo l’avesse visto, avrebbe evitato in qualche modo l’espandersi del veleno nel suo sistema circolatorio e sarebbe riuscito a salvarla. Invece, non era riuscito a fare nulla e il suo corpo si era completamente avvelenato.
Sospirò una terza volta e si sedette nuovamente sulla sedia accanto a lei. Sembrava che stesse dormendo tranquillamente, eppure, una volta la sua espressione gli aveva fatto credere che stesse per morire soffocata. In quell’occasione aveva subito chiamato i medici, ma il suo viso era tornato normale solo quando le aveva tenuta stretta la mano.
Chissà come stava soffrendo in quel momento..
Tornò a guardare i suoi occhi ancora chiusi sperando di vederli aprirsi quando quella, improvvisamente, iniziò a piangere e presto le sue guance si rigarono per le lacrime. Anar la guardò, confuso e preoccupato. Che cosa le stava succedendo?
Cercò di asciugarle gli occhi, ma questi le si riempivano di nuovo. Sembrava stesse soffrendo davvero, ed effettivamente tutto il suo viso era una maschera sofferente. Le strinse una mano, ma stavolta non sembrò che la stretta fosse riuscita a calmarla; anzi, in quel momento sembrò che stesse per soffocare di nuovo. Allora, il ragazzo agì di impulso; poggiò le proprie labbra su quelle della dormiente iniziando a soffiarle aria dentro i polmoni; e quella, come se le fosse stata pompata dentro della nuova energia, si sedette di botto sul materasso.
Si guardò intorno spaesata e impaurita. Davanti a lei, con un’espressione leggermente imbarazzata, c’era Anar.
Cercò di respirare tranquillamente e di fermare il suo cuore che batteva in maniera troppo frenetica.
L’ultima cosa che ricordava era l’abbraccio omicida delle tre ragazze cadaveriche. Era ormai pronta a morire anche lei quando, all’improvviso, una nuova energia le aveva invaso il cuore e l’aveva costretta ad alzarsi. Una volta alzatasi, si era ritrovata in una stanza sconosciuta, spaesata ma comunque felice nel notare che con lei ci fosse Anar.
Quello, una volta vinto l’imbarazzo per l’essere stato quasi scoperto nel suo gesto tanto eroico quanto compromettibile, le posò una mano sul viso, asciugando le ultime tracce di lacrime. Lei lo guardò spaventata.
«Loro..» sussurrò, mentre i suoi occhi si riempirono nuovamente. Lui la guardò preoccupato.
«Chi?» le sussurrò dolcemente, accarezzandole la guancia bagnata.
«Loro.. volevano.. io.. perché…?» balbettò scoppiando in un pianto disperato cercando di chiedersi perché quelle ragazze dovessero avercela con lei.
Anar la guardò intenerito. Sembrava una bambina che si risveglia di botto dopo un incubo e che, rimasta troppo spaventata, non può che piangere. Automaticamente l’abbracciò, stringendola a sé e iniziando a carezzarle i capelli.
Estel, apprezzando il suo gesto, si strinse a lui poggiando il viso contro il suo petto forte e lasciandosi cullare dal suo abbraccio accogliente, caldo e protettivo. In quel modo si sentiva sicura e presto smise di piangere.
«Allora?» le chiese Anar dolcemente, quando si fu calmata. Lei tirò su col naso e sospirò.
«Credi che abbia fatto qualcosa di male?» gli chiese in un sussurro, mantenendo lo sguardò basso. Lui fece un’espressione confusa.
«No; perché me lo chiedi?» le chiese curioso.
«Secondo te, esiste un motivo per il quale le tre ragazze uccise dal coniglio debbano avercela con me?» gli chiese di botto, trattenendo in fine il respiro. Il ragazzo spalancò gli occhi incredulo. Rimase in silenzio.
«Anar?» lo chiamò la ragazza preoccupata, slacciando l’abbraccio per poterlo guardare negli occhi. Lui cercò di guardare altrove. «Quindi esiste un perché!» urlò sconvolta. Anar la guardò e cercò di farla calmare.
«Vedi, la mia spiegazione è che tu ti stia facendo suggestionare. Magari pensi che loro avrebbero potuto pensare che tu fossi Ainur e che l’assassino fosse il tuo coniglio. Quindi automaticamente sei lui uccide è perché tu gli dici di farlo» disse in fretta con una risatina poco convincente.
«Ma la storia non dice il contrario?» gli chiese Estel incrociando le braccia e sbuffando.
Anar le sorrise; stava iniziando a comportarsi normalmente.
«Si, ma la tua mente la racconta come vuole».
«Non ti capisco» sbuffò.
«Perché sei una scema» gli disse con un sorrisetto.
«Io!? Guarda che sei tu che..». Si bloccò di botto.
«Che?» la stuzzicò, divertito.
«Che dici scemenze» borbottò, guardando fisso il pavimento. Il ragazzo la guardò e dopo qualche secondo iniziò a ridere. Tutta l’ansia, la preoccupazione e i sensi di colpa erano scomparsi non appena lei aveva iniziato a comportarsi secondo la sua normalità. Era riuscita a farlo ridere e sorridere di nuovo, nonostante le domande difficili che gli aveva fatto. Fortunatamente, era riuscito a trovare qualcosa da dirle e lei era ritornata a sbuffare e borbottare.
Estel lo guardò confusa, ma non poté non farsi contagiare e, proprio come Anar, iniziò a ridere spensieratamente senza più pensare all’incubo appena avuto, alle ragazze morte, alla leggenda, al vero assassino, a Vortha o qualunque cosa che potesse avere a che fare con la realtà di quel momento. L’unica cosa che le importava era che lei ed Anar stessero bene e che entrambi stessero ridendo.   

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Capitolo 15
*** Gioia ***


Gioia


Qualcuno bussò debolmente alla porta della stanza. Anar ed Estel si guardarono e si sorrisero.
«Avanti» disse la ragazza voltandosi per accogliere il suo ospite; però stranamente nessuno entrò. Guardò il rosato che le era seduto accanto con un’espressione confusa, ma quello fece spallucce. Si alzò, perplesso, ed andò ad aprire la porta. Davanti a lui, allora, comparve Shaza; stava piangendo, ma sul suo viso, ben in mostra, c’era un sorriso gioioso.
«Si è svegliata?» sussurrò lentamente guardando il ragazzo negli occhi, come per cercare nel suo sguardo la conferma a ciò che aveva appena chiesto. Lui non le rispose, ma con un sorriso le poggiò una mano sulla spalla destra e la invitò ad oltrepassare la soglia.
Non appena poté vedere oltre la spessa porta di legno, il suo cuore, frenetico per la speranza ma anche per la paura che quella voce se la fosse soltanto immaginata dopo aver tanto desiderato di sentirla di nuovo, si fermò di botto.
Rimase immobile in mezzo alla stanza, con le mani intrecciate sul petto, mentre i suoi occhi, increduli, si spalancarono e smisero di piangere. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Estel era seduta in mezzo al materasso del suo lettino, con le gambe incrociate ed un gomito poggiato su una delle ginocchia, mentre la mano sorreggeva la testa. Quella era la sua posizione. Si metteva in quel modo persino quando stava seduta al banco di scuola. Quella persona poteva soltanto essere lei, e sembrava che già avesse dimenticato quello che le era successo. Sembrava tranquilla e spensierata come sempre.
Estel, perplessa nel notare che una delle sue migliori amiche restava immobile senza neanche azzardarsi a dire una parola, le rivolse un sorriso smagliante.
Davanti a quel sorriso Shaza iniziò a piangere di nuovo. Estel stava bene; si era risvegliata e, com’era solita fare, si comportava come se non le fosse successo niente. Le aveva sorriso e, in quel momento, la stava chiamando per nome. Si passò velocemente una mano sugli occhi, dopodichè, si accovacciò sul pavimento, nascondendo il viso tra le ginocchia.
Estel la guardò incredula e accigliata. Perché si stava comportando in quel modo?
Senza pensarci due volte, si alzò dal letto e si diresse verso l’amica, strappandosi dal braccio l’ago della flebo, che rimase a penzolare dalla gruccia metallica. Le si appannò lievemente la vista e si aggrappò al letto per qualche secondo prima di avvicinarsi a Shaza inginocchiarsi accanto a lei.
«Che cosa succede?» le chiese dolcemente, abbracciandola. Lei si strinse all’amica e iniziò a piangere più forte. «Puoi stare tranquilla; adesso sto bene» le disse con un sorriso, mentre le accarezzava i capelli per cercare di calmarla. Shaza, tirò sul col naso, ma rimase zitta, senza neanche avere il coraggio di incrociare il suo sguardo leale e sincero.
Aveva sognato tanto quel momento, eppure adesso si sentiva una vigliacca. Lei non era riuscita ad aver fede nelle parole di Anar, Aira e Mahtar, le uniche tre persone che credevano che Estel sarebbe riuscita a salvarsi. Lei si era impegnata per accettare il fatto che ormai non ci fosse più nulla da fare e, essendosi ormai convita che fosse morta davvero, non credeva più necessario andare in ospedale per controllare. Si era preparata per mostrarsi pronta quando le avrebbero dato la triste notizia ed era anche riuscita a controllare le lacrime.  Non era riuscita a darle forza, trasmettendole la sua energia positiva; da buona vigliacca l’aveva abbandonata.
Ogni giorno qualcuno andava a controllare come stesse ed ogni giorno la risposta era sempre la stessa: “Estel continua a dormire”.
Lei non aveva avuto il coraggio di starle vicina; non si meritava la sua amicizia. Aira la meritava. Lei era ogni singolo giorno in quella stanza, pronta a sorridere e darle conforto, pronta ad aspettare di cogliere qualunque suo segno di miglioramento. Lei aveva avuto fede nel proprio istinto e le era rimasta sempre vicina.
Tirò su col naso e schiuse le labbra.
«Io oggi non sarei dovuta essere qui..» sussurrò, slacciando l’abbraccio. Estel la guardò confusa.
«Avevi altri impegni?» le chiese curiosa, tranquillamente.
«No.. ma io non vengo mai qui a vedere come stai..» ammise, massaggiandosi un braccio, mentre teneva lo sguardo basso. Estel rimase in silenzio, continuando a guardarla. «Io.. non ho mai creduto che ti saresti risvegliata.. ho subito dato per scontato che fossi morta e non ritenevo necessario venire a controllare perché ogni volta la situazione era sempre la stessa.. non riuscivo a guardarti mentre te ne restavi immobile su quel lettino; non capivo perché sarei dovuta restare a consolare una morta..» ammise, mordendosi il labbro, per non iniziare a piangere di nuovo. Si sentiva una debole, una vigliacca, perché sapeva che Estel non avrebbe mai agito come lei.
«Ma sei venuta» le disse Estel con un sorriso.
«Soltanto perché Aira mi ha chiesto di farlo. Oggi non poteva venire a trovarti perché ha un impegno importante e mi ha chiesto di venire al posto suo. Di mia spontanea volontà non sarei mai venuta. Perdonami..» le disse, mentre le lacrime le rigavano le guance. Si poggiò una mano sugli occhi, cercando di mascherare la sua espressione sofferente e spaventata; si, spaventata, perché lei aveva paura di perdere Estel. Non voleva perderla. Era stata lei ad aiutarla in tutti i momenti più difficili; era stata lei ad incoraggiarla tutte le volte in cui si era spaventata di qualcosa; era lei che l’aveva difesa da quell’uomo quando questo aveva osato allungare le mani. Senza di lei, chissà cosa le sarebbe successo..
Estel guardò Shaza e si lasciò sfuggire un sorriso intenerito.
«Non devo perdonarti nulla» le disse d’un tratto. Shaza, alzò lo sguardo di botto e guardò, incredula, la sua amica dalle orecchie appuntite. «Tu mi sei sempre stata vicina, Shaza, e non credo che tu sia una vigliacca o una traditrice per un semplice momento di debolezza che hai avuto. È normale avere paura , ed è naturale dare per morto qualcuno che ormai è quasi morto davvero. Non ti biasimo affatto per quello che hai fatto» le disse incrociando le gambe, con un sorriso. Shaza la guardò incredula, mentre nuove lacrime iniziavano a rigarle le guance. Saltò al collo della sua amica e rise gioiosa sia del fatto che si fosse sbagliata e che Estel fosse viva, sia del fatto che la sua migliore amica la considerasse ancora come tale.
Sorridendo si alzarono dal pavimento e si andarono a sedere sul materasso, iniziando a chiacchierare e a ridere come se quel lungo momento di debolezza da parte di Shaza non fosse mai esistito.
Per lei ormai importava soltanto una cosa: Estel era viva!
 
Anar, che fino a quel momento si era tenuto in disparte per non interrompere il loro ricongiungimento, sorrise e guardò il paesaggio oltre la finestra. Il sole brillava in mezzo al cielo e il vento, che fino a poco prima raffreddava tutto, si era dissolto. Era come se tutta la natura avesse assistito al risveglio di Estel e che stesse festeggiando anche lei, assimilando la sua gioia.
Tutti, adesso, erano felici.
Il rosato si passò una mano tra i capelli e, dopo aver dato un breve sguardo ad Estel, sorrise intenerito. Il sorriso che la ragazza sfoggiava in quel momento era meraviglioso e in esso si poteva vedere la gioia di vivere che stava provando. Quella gioia la rendeva più bella ed era la sua stessa gioia a far gioire anche lui. Era veramente troppo contagiosa.
In quel preciso istante qualcun altro bussò alla porta e, chiunque avesse bussato, entrò senza aspettare che qualcuno lo invitasse.
Tutti si voltarono a guardare chi fosse e, non appena lo riconobbe, Estel sorrise.
«Mahtar!» urlò felice, sorridendogli anche con lo sguardo. I suoi occhi erano lucidi e brillanti, proprio come due stelle.
L’uomo le si avvicinò e le posò una mano sulla testa scompigliandole i capelli. Le sorrise contento e si abbassò per poterla guardare negli occhi.
«Non farmi mai più preoccupare così tanto» le disse serio, ma il rimprovero non sortì il suo effetto perché Estel si legò al suo collo ridendo.
«Non posso prometterti una cosa del genere perché non dipende solo da me; però, ti prometto che farò del mio meglio» gli disse facendogli l’occhiolino. Il rosso la guardò e, nonostante non gli andasse a genio la promessa che gli aveva appena fatto, notando la sua espressione e il suo sorriso non poté che ridere insieme a lei.
 
Dopo i primi minuti di euforia Estel sospirò pensierosa. Anar la guardò, preoccupato che la sua gioia fosse così velocemente scomparsa; però sospirò tranquillizzato quando incrociò i suoi occhi ancora scintillanti.
«Che giorno è oggi?» chiese guardandolo.
«Beh, oggi è..» disse ma fu interrotto da Shaza e Mahtar.
«Il tuo compleanno!» urlarono insieme. Anar lanciò uno sguardo di rimprovero all’uomo che sorridendo stava porgendo un pacchetto alla festeggiata.
«Davvero?» chiese quella mostrandosi, se effettivamente è possibile, ancora più felice. Il rosso le sorrise.
«Questo è da parte mia e di Anar» disse facendo l’occhiolino al ragazzo che ridacchiò e si avvicinò al letto per scoprire cosa le avesse regalato.
Estel scosse il pacchetto per cercare di scoprire cosa ci fosse dentro, ma, davanti ai rimproveri di Mahtar, borbottò e strappò la carta colorata. Trovò una scatolina di legno antico. La guardò curiosa.
«Che cos’è?» chiese guardando Anar. Questo sussultò colto di sorpresa.
«Devi.. devi scoprirlo tu» le disse con un sorrisetto, grattandosi la testa.
«Aprilo» la incitò Shaza, più curiosa di lei. Estel sorrise e sollevò il coperchio scuro. Dentro la scatolina c’era un piccolo ciondolo rosso. Lo prese dalla catenella e lo guadò contro luce.
Lo esaminò attentamente. Quel ciondolo le piaceva tantissimo soprattutto perché era del suo colore preferito; ma aveva qualcosa di strano. Le era troppo familiare. Dove l’aveva già visto?
«Non ti piace?» le chiese Mahtar, triste, fraintendendo il suo silenzio.
«Eh?» gli chiese lei confusa; «No, mi piace moltissimo!» gli disse in fretta con un sorriso.
«Sicura?» le chiese il rosso, non molto convinto.
«Certo! Non l’ho detto subito perché mi ha incuriosita» ammise.
«Perché?» le chiese Anar curioso.
«Mi sembra esageratamente familiare» sussurrò e, a quelle parole, Mahtar si irrigidì. Il ragazzo, senza dare troppo nell’occhio, lo guardò confuso. Il rosso scosse la testa.
«Forse l’hai visto in qualche vetrina, prima che loro lo comprassero» le disse Shaza.
«Si, sicuramente è così» le rispose con un sorriso.
Eppure non era molto convinta. Si vedeva chiaramente che era un ciondolo antico; troppo antico perché Mahtar l’avesse potuto comprare in uno dei negozi del centro. E poi lei era convinta di averlo visto in luogo scuro, sotto una flebile luce giallastra. Dove diamine l’aveva trovato? E perché non le stava dicendo la verità?
Senza dare nell’occhio, guardò l’uomo che le stava accanto e notò che, anche se sembrava apparentemente tranquillo, era tesissimo. Lo guardò incredula. Che cosa gli stava nascondendo?
«Beh, indossalo!» le disse Anar, notando lo sguardo che aveva rivolto a Mahtar, cercando di distrarla. Estel lo guardò confusa, ma comunque sorrise e annuì.
Prese il ciondolo e si mise il laccio intorno al collo. Dopo i primi tentativi falliti, per cercare di chiudere la catenella, sbuffò e chiese aiuto a Shaza.
«No» disse all’improvviso Mahtar.
«Che c’è?» gli chiesero tutti in coro, confusi.
«Credo sia meglio che ti aiuti Anar, non credo che Shaza possa farcela» disse. Estel lo guardò confusa. Il comportamento dell’uomo era sempre più sospetto. Comunque, decise di restare in silenzio e di tenersi per sé i suoi sospetti; almeno, fin quando non sarebbero rimasti da soli.
Porse la catenella ad Anar e si scostò i capelli in modo da non intralciarlo. Lui passò il ciondolo intorno al suo collo, cercando di sistemarlo in modo corretto, mentre Mahtar lo guardava con attenzione.
Era un ciondolo stranissimo e l’attaccatura era complicata! Come diamine poteva legarlo lui che di cose da femmine non ne capiva nulla?!
Sospirò e cercò di impegnarsi. Mahtar nascondeva qualcosa e se aveva detto che doveva legarlo lui allora c’era un motivo ben preciso. Quindi doveva riuscirci.
«Tutto bene?» gli chiese Estel all’improvviso guardandolo di sbieco.
«Si, si» le rispose in fretta cercando di non urlarle contro.
«Sei arrabbiato?» gli chiese confusa. Lui spalancò gli occhi. Come aveva fatto a capirlo?
«No» le disse lentamente. Lei sbuffò.
«Bugiardo» disse incrociando le braccia e lasciando andare i capelli che finirono sulle mani del ragazzo. Questo cercò di non urlare. Le prese i capelli e glieli mise su una spalla. Nel muoversi, con le dita le sfiorò il collo facendola rabbrividire.
«Ho le mani fredde?» le chiese sghignazzando.
«No» gli rispose.
«Allora perché prima hai avuto un brivido?». Estel non gli rispose, ma in silenzio cercò di mascherare il rossore che le aveva ricoperto le guance. Il tocco di Anar le era piaciuto, le era quasi sembrato una carezza. Non poteva dirgli che aveva avuto un brivido di piacere per un suo semplice tocco!
Anar sbuffò e riprese a maneggiare con il ciondolo, curioso del perché Estel non gli avesse risposto, ma soprattutto del perché fosse arrossita. E mentre cercava di darsi una spiegazione per entrambi i dubbi, riuscì a chiudere la complicata chiusura della catenella.
«Ecco fatto!» esclamò vittorioso. Estel abbassò il viso e guardò il ciondolo che le cadeva sul petto. Era davvero bellissimo.
«Grazie!» disse ad Anar con un sorriso che il ragazzo ricambiò.
«Come mi sta?» chiese poi.
«Benissimo» sussurrò Mahtar con gli occhi lucidi e lo sguardo intenerito. Con quel ciondolo era proprio uguale a lei..
«Davvero?» gli chiese emozionata.
«Si, si intona perfettamente con il colore dei tuoi occhi e con quello dei capelli».
I due si guardarono negli occhi e si scambiarono un sorriso, mentre Anar, curioso, guardava il rosso che sembrava quasi sul punto di commuoversi.

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Capitolo 16
*** Finalmente libera ***


Finalmente libera

 
Era ormai passata una settimana da quando Estel si era risvegliata. Era già guarita completamente eppure i medici si ostinavano a volerla tenere ancora chiusa in ospedale. Non le avevano spiegato bene il motivo; dicevano soltanto che ancora non era pronta per uscire. Che cosa voleva dire poi? Lei si sentiva magnificamente e non vedeva l’ora di poter uscire e sentirsi libera. Non che l’ospedale fosse un luogo inospitale, anzi, c’era sempre qualcuno pronto a farle compagnia: Shaza, Aira, alcuni compagni di classe, perfino il professor Maiwe; e poi Anar e Mahtar che erano costantemente insieme a lei. Però lei si sentiva come imprigionata e spesso la sua gioia veniva offuscata da questa sensazione.
Sbuffò e poggiò il viso sulle braccia incrociate sul davanzale della finestra.
Fuori il sole splendeva e c’erano tante persone che correvano impacciate. Era ormai il dodici ottobre e si avvicinava il giorno per la festa della città; quel giorno in cui veniva festeggiato il drago che secondo la leggenda aveva salvato la città dall’attacco di un esercito nemico.
Estel sbuffò nuovamente. Quand’era piccola, spesso Mahtar gli raccontava la storia di quel drago e lei ne restava talmente meravigliata che sognava un giorno di poterne vedere uno. Adesso questo desiderio era stato messo da parte poiché lei non credeva più a storie del genere. Era ridicolo credere nell’esistenza di un drago ed era inutile cercare di illudersi poiché chi si illude alla fine resta deluso.
Sospirò e si stiracchiò la schiena.
«Sembri una vecchia» sussurrò qualcuno alle sue spalle. La ragazza si voltò e incrociò lo sguardo di Anar. Sbuffò.
«Non è colpa mia se mi hanno rinchiusa qui dentro» borbottò incrociando le braccia.
«Non mi riferivo a quello» le disse serio.
«E a cosa allora?» le chiese, diffidente.
«Le tue ossa fanno un rumore terribile.. sembra che tu possa spezzarti da un momento all’altro» disse ridacchiando. Estel si rabbuiò.
«E che colpa ne ho io?! Se non mi fanno sgranchire un po’ è normale che facciano questo rumore!» urlò sbattendo i piedi per terra.
«Non c’è bisogno che te la prenda così tanto allora, non credi?» le chiese facendo spallucce. Estel lo guardò minacciosamente e cercò di non urlargli contro tutti gli insulti che le passavano per la testa. Sospirò e si diresse verso la porta della stanza.
«Dove stai andando?» le chiese il rosato bloccandola da un polso.
«Lasciami stare» sbuffò lei, cercando di divincolarsi.
«Non puoi uscire» le disse serio.
«Non ha senso tenermi chiusa qui dentro!» urlò lei riuscendo a liberarsi.
«Ti ho detto che non puoi uscire» disse prendendola in braccio di peso.
«Lasciami andare! Mettimi giù!» urlò lei, imbarazzata, tirandogli pugni sulla schiena per farsi liberare. Il ragazzo la poggiò sul letto. Lei sbuffò e incrociò gambe e braccia.
«Non essere arrabbiata» le disse con un sorriso.
«Che cosa? Vorrei vedere te, costretto fra le pareti di questa stanza e con il divieto di uscire!» sbuffò.
«Guarda che io sono sempre stato qui» le disse incrociando le braccia e trafiggendola con il suo sguardo serio.
«Si, ma è diverso! Tu non sei costretto a dover restare! E poi spesso sei uscito per andarti a lavare o per andare a mangiare o per fare qualunque cosa!» gli urlò contro, gesticolando come una pazza.
«Tra non molto ti faranno uscire» le disse tranquillamente.
«Si, ma quando? Non voglio più stare qui dentro! Che poi non so neanche perché sono costretta a restare» sussurrò sdraiandosi in mezzo ai cuscini. Anar rimase in silenzio. «Secondo te, qual è il motivo?».
«Non lo so..» rispose in fretta. Estel lo guardò sospettosa. Poi portò il suo viso a pochi centimetri di distanza da quello del ragazzo per guardarlo dritto negli occhi.
«Dimmelo» gli disse seria. Anar indietreggiò imbarazzato dall’improvvisa vicinanza e deglutì.
«Non lo so, ti ho detto» le disse nervosamente.
«Sei un bugiardo!» gli urlò contro. Lui la spinse indietro e lei sbuffò incrociando le braccia. Come diamine faceva a capire che mentiva? Era impossibile che già lo conoscesse così bene!
«Io.. non voglio più starci qui dentro..» sussurrò stringendo i pugni. Il rosato la guardò.
«Tra non molto potrai andartene» le disse intenerito. Quando si comportava in quel modo le sembrava sempre una bambina. Lei sbuffò e si sdraiò.
Era inutile parlare con Anar. Lui sapeva la verità, ma non avrebbe mai parlato. Tutta colpa della sua grande lealtà!
Ma lei non sarebbe rimasta in quell’ospedale un’ora di più. Nessuno poteva costringerla a fare ciò che non voleva. E poi, aveva ormai organizzato e rivisto tutto. Bisognava soltanto avere pazienza e, al momento giusto, agire.
«Sei stanca?» le chiese Anar.
«Si..» sussurrò, approfittando del momento.
«Vuoi che me ne vada?» le chiese.
«Si..» gli disse. Il ragazzo rimase in silenzio, ma dopo qualche secondo si alzò dal letto e si diresse verso la porta.
«Hai ragione, sono un bugiardo..» sussurrò, stringendo i pugni. Estel lo guardò stupita.
«Cosa?» gli chiese, sedendosi di botto.
«Niente.. riposa bene» e con queste parole se ne andò.
La ragazza rimase immobile sul letto a fissare la porta. Cosa voleva dirle Anar?
Scosse la testa e scese di botto sul pavimento. Non aveva tempo da perdere per pensare a lui, in quel momento. Sicuramente si preoccupava per lei ed era per questo che non voleva dirle la verità, ma a lei non interessava. Il fatto che non fosse sincero, qualunque fosse il perché, la faceva arrabbiare.
Prese i cuscini e li dispose sul materasso, dopodichè li coprì con le lenzuola in modo da dare l’impressione che sotto le coperte ci fosse qualcuno che stesse dormendo. Fatto questo, si avvicinò alla sedia che c’era accanto alla finestra e aprì lo zaino che c’era poggiato sopra. Prese i suoi vestiti e si cambiò. Una volta pronta si avvicinò alla finestra. Era circa mezzogiorno e in giro non c’era nessuno; era il momento perfetto per agire. Salì sul davanzale e si guardò intorno. Come aveva già notato, poco sotto la sua finestra c’era un balconcino dal quale ci si poteva facilmente arrampicare sull’albero che c’era di fianco. Scese silenziosamente nel balconcino, attenta a non farsi vedere. Una volta lì si appiattì contro il muro e controllò che in giro non ci fosse nessuno. Una volta accertatasi di essere da sola saltò sul ramo dell’albero e, scese sui rami più bassi, saltò nel cortile e da lì uscì tranquillamente dall’ospedale. 

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Capitolo 17
*** Allarme ***


Allarme

 
Anar raggiunse Mahtar in cortile e si sedette accanto a lui su una panchina.
«Coma mai fuori?» gli chiese il rosso stupito.«A quest’ora sei sempre nella sua stanza» gli disse tranquillamente.
«Estel voleva dormire» gli sussurrò grattandosi la testa. L’uomo lo guardò e si mise comodo sulla panca di legno.
«Qualcosa non va?» gli chiese guardandolo serio.
«No.. cioè si.. insomma, sa che gli nascondo qualcosa ed è strano ma non mi piace mentirle e comunque con lei non so farlo; mi scopre subito! Mi sto rammollendo» sussurrò demoralizzato, poggiando i gomiti sulle proprie ginocchia e massaggiandosi le tempie.
«No, è solo che lei è brava e riesce a farti uno strano effetto» gli disse con un ghigno.
«Che intendi dire?» gli chiese il ragazzo confuso, guardandolo.
«Che magari provi qualcosa per lei» gli disse facendo spallucce. Anar lo guardò incredulo e iniziò a ridere.
«Stai scherzando, vero?» gli chiese ridendo.
«Non c’è nulla da ridere. Sarebbe normale e poi è anche una bella ragazza» gli disse serio, come se si fosse sentito offeso. Il ragazzo lo guardò e smise di ridere.
«Si, è vero; Estel è davvero bella. Però io non provo nulla di particolare per lei» disse tranquillamente.
«Ne sei sicuro?» gli chiese il rosso seriamente.
«Certo» gli rispose, facendo spallucce.
«Bene, allora non farle credere il contrario perché se dovesse innamorarsi di te e tu la facessi soffrire, io..» sussurrò minacciosamente trafiggendolo con il proprio sguardo.
«Tranquillo; non accadrà..» gli rispose deglutendo e ridacchiando nervosamente. Il rosso lo guardò e annuì. Poi sospirò e alzò lo sguardo verso il cielo.
«Chissà quanto tempo passerà..» sussurrò.
«Già.. non ne può più di stare chiusa lì dentro» gli disse il rosato, dispiaciuto. «Ma scusa, perché dobbiamo aspettare che trovino il vero assassino prima di lasciarla andare?» gli chiese ad un tratto, curioso.
«Ho paura..» ammise il rosso.
«Paura?» gli chiese incredulo.
«Esatto.. ho paura che possa accaderle qualcosa di brutto; che magari l’assassino la trovi e la uccida con le sue stesse mani; o che magari la trovi..» sussurrò, massaggiandosi le tempie per non immaginarsi scene del genere.
«Capisco.. ma non puoi lasciarla chiusa lì dentro. Alla fine l’assassino vero non voleva uccidere lei» gli disse guardandolo seriamente.
«Hai ragione.. vabbè, aspetteremo ancora due giorni. Se lo trovano bene sennò..» sussurrò deglutendo.
«Usciamo lo stesso..» concluse il rosato. L’uomo annuì e si grattò la testa.
«Per favore, va a vedere come sta. Ho uno strano presentimento» sussurrò. Anar annuì. Si alzò dalla panchina e si diresse verso la stanza di Estel.
Nel frattempo, colei che avrebbe dovuto trovarsi in una stanza d’ospedale, passeggiava tranquillamente per il parco, godendosi la propria libertà. Il sole brillava in mezzo al cielo come a volerle trasmettere ancora più positività e lei sorrideva entusiasta.
Scappare non era stato completamente difficile e lei si sentiva tranquilla, come se nessuno potesse rintracciarla.
Mentre camminava, si guardava intorno, felice, alla ricerca di un posto dove poter mangiare. Mentre cercava, essendo che non guardava dove camminava, finì con lo sbattere contro qualcuno.
«Ahia» sussurrò massaggiandosi la guancia. Alzò il viso e incrociò lo sguardo con quello di un ragazzo. Aveva capelli scuri, pettinati ordinatamente. Gli occhi, scuri anche quelli, erano velati di preoccupazione, ma accesi di qualcosa che Estel non riconobbe.
«Scusami» le disse questo.
«Scusami tu» gli disse lei con un sorriso.
«Ti sei fatta male?» le chiese premurosamente, cercando di guardarla in viso.
«No, tranquillo» gli rispose imbarazzata, indietreggiando. Il ragazzo le sorrise e in quel momento il suo sguardo si posò sull’orecchie della ragazza. Estel sospirò, in attesa di qualche stupido commento che stranamente non arrivò. Guardò il ragazzo.
«Posso offrirti qualcosa? Vorrei scusarmi per la brutta botta» le disse con un sorriso gentile.
«Non c’è bisogno» gli rispose lei cordialmente.
«Insisto» le disse lui guardandola negli occhi.
«Davvero, va bene così» gli disse lei, innervosita, incrociando le braccia.
«Insisto» le disse di nuovo. Estel sbuffò.
«Ho detto di no, grazie» gli rispose bruscamente, voltandogli le spalle.
«Perché non vuoi?» le chiese bloccandola per un polso. Il sopracciglio di Estel iniziò a tremare. Era diventata un’abitudine essere trattenuta da un polso?!
«Sono di fretta» gli disse a denti stretti per non urlare. Che nervi..
«Ma io voglio solo sdebitarmi» le sussurrò innocentemente.
«Ed io ti ho detto che non c’è bisogno» sibilò tra i denti.
«Non mi interessa. Non mi riterrò soddisfatto finché non sarai venuta con me» le disse insistentemente con un sorrisetto malizioso.
«Mi dispiace per te, allora» gli disse riuscendo, finalmente, a liberarsi. Sbuffò e si allontanò.
Che diamine voleva quel tizio? Adesso non si poteva camminare più tranquillamente, senza correre il rischio di scontrarsi con qualche maniaco?! Che nervi.. quell’incontro le era bastato per rovinarle l’umore.
Si fermò nei pressi di una panchina e si sedette, cercando di calmarsi. Guardò il cielo e sospirò.
In quel momento qualcuno la prese dalle spalle.
«Non eri di fretta?» le chiese una voce arrogante, che ormai conosceva. Si alzò di botto e si voltò a guardare quel ragazzo che ormai aveva deciso di tormentarla.
«Te ne vuoi andare?» gli chiese seccata, stringendo i pugni.
«Voglio stare un po’ con te» le disse raggiungendola. Le sfiorò una guancia e lei gli sferrò un pugno dritto in faccia. Il ragazzo ridacchiò e si massaggiò la mascella.
«Non avresti dovuto colpirmi» le disse prendendole i polsi e spingendola contro il tronco di un albero. Lei fece una smorfia e si guardò intorno per vedere se magari lì ci fosse qualcuno che avrebbe potuto vederli. Purtroppo a quell’ora erano tutti a pranzare. Sbuffò e tornò a guardare il ragazzo che la bloccava contro il tronco.
«Ti ho fatto male? Beh, cavoli tuoi. Adesso lasciami!» gli disse alzando un ginocchio per colpirlo proprio in mezzo alle gambe. Quello non poté che tenersi la parte dolorante, lasciando libera la ragazza dalle orecchie appuntite che, tranquillamente, si allontanò.
Sbuffò e decise di allontanarsi dal parco per evitare di incontrare di nuovo quel tizio. Così iniziò a passeggiare per il sentiero di campagna che amava percorrere ogni volta che voleva sbollire la rabbia; e camminando decise di riposarsi ai piedi di un grosso albero. Si sedette e chiuse gli occhi. Adesso si sentiva nuovamente tranquilla.
Improvvisamente, sentì un rumore alle sue spalle. Si voltò preoccupata che il tizio di prima l’avesse seguita, ma quando vide un coniglio saltare fuori da un cespuglio, si rilassò e ridacchiò nervosamente.
«Eccoti» disse una voce, facendola sussultare.
«Ancora tu?!» urlò Estel incredula.
«Sì, te l’ho detto che voglio stare un po’ con te» le disse raggiungendola e spingendola contro il tronco dell’albero. La bloccò e la tenne ferma contro il legno duro.
«Lasciami!» gli urlò. Nella sua voce non c’era paura, ma soltanto fastidio e una collera che cresceva sempre più. Il ragazzo scosse la testa, sorridendo eccitato.
«Mi dispiace, ma sai, devo fartela pagare per prima e poi voglio divertirmi» le sussurrò con un ghigno. La costrinse ad allontanarsi dall’albero e la spinse per terra, facendole sbattere un ginocchio contro una pietra.
Estel poggiò una mano sulla parte dolorante, ma si costrinse ad rialzarsi. Strinse un occhio per il dolore che provava e chiuse i pugni talmente tanto stretti che le nocche le diventarono bianche.
«Mi hai davvero rotto!» gli urlò arrabbiata. Non era mai stata una persona paziente e quel tizio, che sarebbe riuscito a far spazientire anche la persona più paziente di tutto l’universo, l’aveva davvero fatta infuriare.
Digrignò i denti e parlò sibilando: «Chi cavolo ti credi di essere?! Azzardati un’altra volta a toccarmi e giuro che ti finisce male!».
«Oh che paura e sei tu che dovresti farmi del male?» le disse ridendo, mettendosi una mano davanti alla bocca per fingersi spaventato.
«No» disse una voce, minacciosamente, alle sue spalle.
Il ragazzo si voltò e indietreggiò.
«E tu chi cavolo sei?» chiese irritato. Estel si sporse per vedere chi li aveva interrotti e spalancò gli occhi incredula. Un sentimento nuovo si impossessò di lei; un misto di confusione, rabbia, stupore e anche un po’ di paura e sollievo. Che cosa ci faceva lui lì? Come aveva fatto a trovarla?
«Quello che ti farà del male» sibilò il ragazzo a tono talmente basso che sembrò quasi gli avesse ringhiato contro. Il ragazzo dai capelli scuri ridacchiò nervosamente e si avvicinò ad Estel che, ancora immobile per lo stupore, non si accorse della sua mano che, violentemente, le bloccò le braccia dietro la schiena. Stupita per la stretta improvvisa che le indolenziva i polsi, alzò lo sguardo verso l’alto e i suoi occhi incrociarono quelli del maniaco che sorrideva eccitato. Quella vista le scatenò dentro un impeto di furia violenta. Provò il desiderio di voltarsi e riempirlo di pugni, ma le sue braccia erano bloccate e una delle sue gambe era fuori servizio. Così, si limitò a divincolarsi per cercare di liberarsi; ma il ragazzo, la tenne ben ferma. Alzò il viso verso il nuovo arrivato e gli sorrise.
«Sei qui per lei?» chiese mettendosela davanti come scudo e tenendola dai fianchi.
«Toglile le mani di dosso» gli ringhiò contro il nuovo arrivato. Il suono delle sue parole era più simile al verso di qualche animale selvaggio, anziché a quello di un essere umano. Il ragazzo sorrise e fece per portare le sue luride mani sull’invitante seno di Estel, quando si ritrovò improvvisamente schiacciato contro il tronco di un albero. 
Estel spalancò gli occhi incredula. Era stato talmente tanto veloce che lei non era riuscita neanche a percepire il suo movimento. Con uno scatto era riuscito a liberarla e a bloccare il ragazzo moro. Infatti adesso, questo era bloccato contro il tronco di un albero dalla sua mano che lo teneva dalla gola.
«Lasciami andare» sussurrò il ragazzo moro, cercando di liberarsi dalla sua stretta. Anar non gli disse nulla, ma continuò a guardarlo con uno sguardo talmente carico di odio che, se gli sguardi avessero potuto uccidere, quel ragazzo sarebbe già morto. Arricciò la parte superiore del labbro e strinse più forte. Quello iniziò a tossire.
Estel spalancò gli occhi sconvolta. Cosa stava per fare quel cretino? Voleva davvero ucciderlo?
Automaticamente si mosse verso di lui e, una volta raggiuntolo, gli posò una mano sulla spalla, stringendogliela forte.
«Lascialo stare» gli disse con uno sguardo serio e si stupì di aver detto davvero quelle parole. Anar rimase immobile per qualche secondo; lo sguardo fisso negli occhi del ragazzo che, adesso spaventato, stava iniziando a tremare.
Deglutì e strinse nuovamente la presa. Come poteva Estel chiedergli di lasciarlo andare dopo quello che stava per farle? Era un lurido maniaco che stava per approfittare del suo corpo e lei non voleva che lo uccidesse?!
«Anar» lo chiamò lei tranquillamente. Aveva un tono di voce pacato; nessuna nota di rabbia o paura. Sembrava serena. «Non diventare come lui» sussurrò.
Quelle parole riuscirono a fare breccia nel muro di rabbia e odio che gli circondava il cuore. Prese un profondo respirò e aprì la mano. Il moro lo guardò incredulo, dopodichè borbottando qualcosa scappò via terrorizzato.
Anar abbassò lentamente il braccio e strinse i pugni per non urlare. Sospirò e le parlò senza voltarsi.
«Tutto bene?» le chiese bruscamente.
«Si» le disse lei tranquillamente. Lui annuì e,dopo essersi massaggiato il collo teso e irrigidito, si voltò a guardarla dritto negli occhi. Aveva un’espressione dura e furiosa; la mascella era irrigidita e i suoi occhi erano carichi di odio, anche se, in profondità, nascondevano qualcosa.
«Andiamo» le ordinò incamminandosi. Lei sbuffò.
«Non ci vengo con te» sussurrò e incrociò le braccia in segno di rifiuto. 

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Capitolo 18
*** Andiamo ***


Andiamo

 

Estel restava immobile con le braccia conserte. Aveva le sopracciglia corrugate e lo sguardo volto a studiare dettagliatamente il tronco di un albero.
Non aveva nessuna intenzione di guardare il rosato per lasciarsi corrompere dal suo sguardo o dalla sua espressione. Non aveva nessuna intenzione di ritornare il ospedale e lui non poteva costringerla a farlo.
Sbuffò e gli lanciò una breve occhiata. Anche lui era immobile con le braccia conserte e come lei fissava silenziosamente il tronco di un albero, immerso in chissà quali pensieri.
Sbuffò e distolse nuovamente lo sguardo.
Si guardò intorno in cerca di una via di fuga, ma scartò immediatamente l’idea di iniziare a correre tra gli alberi. Aveva un ginocchio indolenzito e lui l’avrebbe acchiappata facilmente. Sbuffò nuovamente, innervosita.
Che cavolo doveva fare? Quella situazione iniziava a darle sui nervi. Perché Anar non parlava?!
Lo guardò nuovamente e in quel momento si accorse di un particolare che prima non aveva notato. Sul suo braccio destro, sotto la manica della maglietta, sul muscolo particolarmente sviluppato, c’era una striscia rossa. Probabilmente, nello scatto che aveva fatto per liberarla, si era graffiato con qualcosa e adesso stava perdendo sangue.
Scompose un attimo la sua facciata da dura e si morse un labbro.
Anar, anche se non riusciva a spiegarsi come fosse stato possibile, era riuscito a trovarla in un posto isolatissimo e anche lontano dall’ospedale. L’aveva addirittura salvata da quel maniaco che credeva di poter approfittare di lei e, per aiutarla, si era anche ferito a un braccio.
Sospirò e, di malavoglia, si tolse la fascia che le legava i capelli. Lentamente, cercando di non fargli vedere che gli faceva male un ginocchio, gli si avvicinò. Lui girò il capo e la guardò incuriosito.
«Non credevo che avresti ceduto così facilmente» le disse, alzando un sopracciglio. Lei sbuffò e corrugò la fronte.
«Non sto cedendo affatto» gli disse fermandosi di fronte a lui.
«E allora che vuoi?» le chiese, bruscamente. Lei sbuffò e gli prese il braccio ferito. Lui la guardò confuso. «Che stai facendo?» le chiese allarmato. Lei strappò la fascia e iniziò ad avvolgerla intorno alla ferita.
«Ti esce sangue» gli disse senza guardarlo. Il ragazzo la guardò stupito. Non si era accorto di essersi fatto male, ma il fatto che lei si stesse prendendo cura di lui, lo fece sorridere intenerito.
Lei continuò a lavorare senza guardarlo, e una volta finito, legò le estremità della stoffa.
«Ecco fatto» gli disse incrociando le braccia. «Adesso puoi andare». Lui la guardò ancora incredulo e, per un istante restò imbambolato dal suo aspetto.
Con i capelli sciolti era più bella di quanto lo fosse normalmente. Il castano delle sue ciocche ribelli, creava un contrasto magnifico con le sue labbra rosee e gli occhi dorati brillavano alla luce del sole.
Estel, sentendosi addosso lo sguardo del rosato, si voltò a guardarlo con uno sguardo indagatore, ma quello cercò immediatamente di mascherare la propria espressione.
«Andiamo» le disse nuovamente, prendendola delicatamente per mano. Lei lo guardò negli occhi e, dopo avergli lasciato la mano, scosse la testa.
«Non ci torno in ospedale» gli disse convinta. Lui la guardò per qualche secondo, le labbra tese.
«Non ci andremo» le disse infine. Lei lo guardò stupita. Restò un attimo in silenzio, diffidente, ma poi acconsentì a seguirlo. Una volta mosso il primo passo, però digrignò i denti per il dolore che provava al ginocchio. Si era dimenticata della ferita e si era mossa senza fare attenzione a come poggiare il piede. Prese un respiro profondo, fece finta di niente e continuò a camminare. Anar sbuffò.
«Puoi dirmelo che ti fa male il ginocchio» le disse seccato.
«Non mi fa male..» sussurrò lei senza guardarlo.
«Sei una bugiarda» gli disse con un sorriso. Lei, notando che non sembrava più arrabbiato, si lasciò sfuggire un sorriso. Non capiva perché all’improvviso Anar avesse deciso di non tornare in ospedale, ma prenderlo in giro per farlo arrabbiare di nuovo non era una buona idea. Così decise che, per una volta, poteva anche mettere da parte l’orgoglio.
«Si, forse mi fa un po’ male» ammise.
«Salta su, allora» le disse piegandosi sulle caviglie. Estel lo guardò, ma decise di accontentarlo. Così, si arrampicò sulla sua schiena, allacciando le braccia intorno al suo collo e le gambe intorno ai suoi fianchi. Poggiò il viso sulla sua spalla e sospirò. Il rosato riprese a camminare e per un po’ restarono in silenzio. Poi però, Estel decise di parlare.
«Come hai fatto a trovarmi?» gli chiese d’impulso, incuriosita.
«Ho chiesto a Mahtar» le rispose tranquillamente, scrollando le spalle.
«Quindi anche lui sa che sono scappata..» sussurrò spaventata da un suo possibile rimprovero.
«No..» le rispose, cogliendola di sorpresa. Lei lo guardò incredula e confusa.
«Com’è possibile che lui non lo sappia?» gli chiese.
«Vedi gli ho chiesto dove ti sarebbe piaciuto andare una volta uscita dall’ospedale e lui mi ha risposto che ti piace molto passeggiare per quella strada di campagna; così sono venuto subito lì» le rispose facendo spallucce. Estel sbatté le palpebre incredula.
«Grazie..» sussurrò. Anar fece un’espressione confusa.
«Di che?» gli chiese perplesso.
«Di non avergli detto nulla.. e anche di avermi aiutata e di portarmi sulle spalle..» gli disse in fretta. A quelle parole il ragazzo rafforzò la presa sulle sue gambe, come se temesse che lei potesse cadere. La sua stretta era così calda e sicura che lei non poteva non sentirti protetta e, automaticamente, si strinse contro la sua schiena.
«Non devi ringraziarmi; l’ho fatto anche per me» le disse all’improvviso, cogliendola di sorpresa.
«Che vuoi dire?» gli chiese confusa e curiosa.
«Vedi mi da fastidio quando qualcuno ti mette le mani addosso e mi da anche fastidio il fatto che tu soffra» sussurrò ricordando l’espressione maniacale di quel ragazzo quando aveva cercato di toccarla. Estel lo guardò accigliata e arrossì. Non disse nulla.
Anar continuò a camminare in silenzio, fin quando non arrivò al parco. Si fermò accanto a una panchina e fece scendere la ragazza dalle sue spalle per farla sedere.
«Aspetta un attimo qui» le disse voltandosi.
«Dove vai?» gli chiese lei in fretta, incuriosita ma anche seccata per il dover restare da sola.
«Arrivo subito, tranquilla» le disse con un sorriso. Davanti a quella sue espressione, Estel restò spiazzata. Era la prima volta che Anar le sorrideva in quel modo. Era un sorriso gentile, divertito, e sì, anche un po’ malizioso. Un sorriso strano, ma al tempo stesso perfetto e bellissimo.
Sospirò e fece per incrociare le gambe sulla panchina, ma il movimento le fece ricordare che si era ferita a un ginocchio. Sbuffò. Perché si faceva male sempre alle ginocchia? Anche la volta che aveva conosciuto Anar era caduta facendosi male. Aveva per caso una maledizione?
Sospirò e si sedette normalmente, puntando lo sguardo verso il cielo.
Erano passati si e no una decina di giorni da quando si erano conosciuti quella volta nell’aula delle punizioni, eppure sembrava che in così poco tempo avessero stretto un legame particolare. Anar era un tipo strano, eppure era sempre disposto ad aiutarla e consolarla; era un buon amico, davvero. Un buon amico..
«Come ti senti?» le chiese all’improvviso quello, sedendosi accanto a lei. La ragazza chiuse gli occhi.
«Benissimo» sussurrò con un sorriso. Lui la guardò intenerito. Poi prese la gamba che le faceva male e la sollevò fino a poggiarla sulle proprie gambe. Le sollevò il jeans, faticando, fino ad arrivare al ginocchio.
Estel lo lasciò fare, senza intromettersi, sorridendo ogniqualvolta le mani del rosato le sfioravano la pelle. Era lento e cercava di essere il più delicato possibile mentre le bendava il ginocchio. Ma..
«Ahia» sussurrò la ragazza.
«Scusami» le rispose dispiaciuto.
«Ahia..» disse nuovamente, innervosendosi leggermente.
«Scusa..» le rispose lui, seccato.
«Ahi!» urlò all’ennesimo tocco esagerato.
«Scusa, ma mica lo faccio apposta!» le urlò lui, cercando di non farle più del male.
«Hai la delicatezza di un elefante» sbottò incrociando le braccia.
«Chi ti dice che gli elefanti non sono delicati?» borbottò lui.
«Lo so e basta» esclamò. Anar sbuffò, ma si lasciò sfuggire una risata.
«Non puoi copiarmi le battute» le disse con un sorrisetto.
«Lo vedi? È brutto quando ti danno questa risposta» gli disse trionfante.
«No, è brutto soltanto perché è una battuta copiata» le disse facendo spallucce.
«No, è brutta perché non sai come controbattere» controbatté con un sorrisetto.
«No, ma perché..». In quel momento squillò un telefono. Anar sbuffò e dopo aver finito velocemente il bendaggio, prese il telefono e rispose.
«Pronto?» chiese tranquillamente. Quando riconobbe la voce dall’altro capo del telefono si lasciò sfuggire un sorrisetto che Estel notò immediatamente.
Anar era contento di quella telefonata e questo faceva automaticamente essere felice anche lei. Ma con chi stava parlando?
Quando il rosato chiuse la chiamata era ancora sorridente.
«Chi era?» gli chiese Estel curiosa, ma con una nota strana. Lui la guardò divertito.
«Perché? Sei gelosa?» le chiese con un sorriso. Lei sussultò e si surriscaldò lievemente.
«Ti piacerebbe che lo fossi» gli disse cercando di restare tranquilla.
«Forse si» le rispose lui con un sorrisetto. Lei lo guardò confusa e lui allargò il suo sorriso. Lei sbuffò. Perché doveva prenderla in giro?
«Comunque, mi dispiace, ma lo chiedevo soltanto per curiosità» gli rispose. Lui rise.
«Beh, era un mio amico» le disse facendo spallucce. Lei lo guardò e, stranamente, si sentì sollevata. Voleva chiedergli di quel ragazzo, ma lui la interruppe prima che potesse iniziare a parlare.
«Visto che non vuoi tornare in ospedale, cosa vuoi fare?» le chiese guardandola. Lei sorrise.
«Hai qualche idea?» gli chiese. Lui fece spallucce.
«Potremmo andare a mangiare» propose. Lei sorrise. Si alzò con un salto, facendosi male, e si diresse verso il pub più vicino. 

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Capitolo 19
*** Lei ***


Lei

 
Stava ormai per calare la sera. Estel passeggiava tranquillamente, con Anar al suo fianco. Il ginocchio non le faceva più male ed era abbastanza soddisfatta della giornata che aveva trascorso insieme al rosato.
Con un sospiro alzò il viso a guardare il cielo che si stendeva, immenso, sopra la sua testa. Le stelle erano bellissime anche se le luci del paese le impedivano di ammirarle in tutto il loro splendore.
Anar, accanto a lei, la osservava incuriosito. Ogni istante che passava si accorgeva che la compagnia di quella ragazza lo faceva stare bene. Con lei riusciva a ridere e a scherzare tranquillamente, cosa che non riusciva a fare con le altre ragazze che aveva incontrato fino a quel momento. Lei era particolare. Aveva qualcosa che lo affascinava e che lo rendeva esageratamente protettivo. Anche se non sapeva ben spiegare cosa fosse..
«Peccato..» sussurrò Estel continuando a guardare il cielo.
«Cosa?» le chiese Anar, curioso.
«Di qui non si vedono bene le stelle» sussurrò dispiaciuta.
«È normale» le rispose facendo spallucce. Lei lo guardò con una smorfia.
«Lo so; dico soltanto che è fastidioso» gli rispose infilandosi le mani nelle tasche dei jeans. Lui scrollò le spalle.
«Sono soltanto stelle» disse guardando la strada davanti a sé. Estel lo guardò stupita.
«Soltanto stelle?» gli chiese fermandosi di botto. Lui si fermò e la guardò confuso.
«Si» le rispose tranquillamente.
«Come puoi dire che siano “soltanto stelle”? Come puoi non capire quando siano stupende e speciali?» gli chiesi avvicinandosi a lui per guardarlo negli occhi.
«Le stelle?» le chiese perplesso, indicando il cielo con un indice.
«Le stelle! Guarda lassù!» disse alzando il viso verso l’alto. Il ragazzo, anche se confuso, obbedì e alzò lo sguardo verso il cielo.
«E allora?» le chiese perplesso. Lei sbuffò.
«Non ti permetto di parlare così delle stelle» gli disse prendendolo per mano e iniziando a correre. Lui la guardò confuso.
«Dove stiamo andando?» le chiese andandole dietro.
«A guardare le stelle» gli disse tranquillamente.
«Le ho guardate tante volte» le disse, seccato.
«No» gli disse bloccandosi all’improvviso per guardarlo negli occhi; «Tu non le hai mai guardate, tu le hai soltanto viste» gli disse incatenando lo sguardo a quello stupito del rosato. Si guardarono per un secondo infinito, dopodichè lei riprese a correre.
Si fermò soltanto dopo essersi lasciata alle spalle le luci del paese. La vista del cielo, da quel punto, era impedita dalle chiome degli alberi.
«Bello davvero» le disse Anar, sarcasticamente. «Da qui le stelle sono stupende».
Estel sbuffò.
«Piantala di lamentarti» gli disse, dopodichè si immerse in un cespuglio, sparendo fra i sottili ramoscelli.
«Estel?» la chiamò lui preoccupato.
«Muoviti» gli disse lei spazientita. Lui sbuffò, ma, come aveva fatto prima la ragazza, si avvicinò al cespuglio e lo oltrepassò. Una volta arrivato dall’altra parte, spalancò gli occhi stupito.
Lì, lontano da qualunque luce artificiale, il cielo era un’immensa distesa coperta di puntini luminosi, e si estendeva in tutta la sua immensità. Le stelle brillavano in tutta la loro perfezione, come se volessero prendersi gioco di quel ragazzo che fino a quel momento non le aveva mai considerate.
«Allora?» gli chiese Estel con un sorriso emozionato. «Non sono stupende?».
«Sono bellissime viste da qui..» ammise lui, «..ma restano comunque soltanto puntini. Non capisco perché per te siano tanto speciali» le disse scrollando le spalle. Estel lo guardò imbronciata.
«Sei proprio stupido» gli disse sedendosi sull’erba.
«Non è vero» controbatté lui, imitandola. Lei sospirò e alzò il viso verso il cielo.
«Come puoi non capire una cosa tanto semplice?» gli chiese in un sussurro. Lui la guardò; aveva gli occhi luminosi, proprio come quegli infiniti puntini che riempivano il cielo. «Guardale» gli disse trafiggendolo con il suo sguardo. Lui restò ammaliato per qualche secondo, ma quando lei distolse lo sguardo per guardare nuovamente il cielo, la imitò. «Sono misteriose e nascondono milioni di segreti; raccontano tante storie: storie di eroi, dei, fate ed esseri magici; raccontano tutto quello che vuoi che raccontino. Guardale, ma guardale davvero, Anar. Esse prendono la forma di ciò che il tuo incoscio ti tiene nascosto e ti rivelano i segreti che neanche tu sapevi di celare» sussurrò, guardando il cielo con un sorriso emozionato.
Il rosato ascoltò attentamente le sue parole e, lasciandosi cullare dalla sua voce, iniziò a guardare le stelle. Automaticamente, un gruppetto di esse si riunì per formare il viso sorridente di una ragazza, gli occhi di stelle luminosi come lo erano quelli di Estel. Sbatté le palpebre incredulo e l’immagine si sgretolò sotto il suo sguardo stupito.
«Cosa vedi?» gli sussurrò la ragazza. Lui rimase in silenzio e guardò nuovamente la volta celeste. Cosa vedeva adesso?
«Una casa» rispose quando quella si materializzò nel cielo. Lei sorrise.
«È già un inizio» gli disse con un sorriso. Anche lui si lasciò sfuggire un sorrisetto, ma all’improvviso l’immagine cambiò e iniziò a muoversi.
«Adesso è cambiata» disse confuso. Lei gli sorrise e lo guardò negli occhi.
«Cosa sta succedendo?» gli chiese curiosa. Lui guardò le stelle, ammaliato da quello che gli stava accadendo.
«Sono comparse delle figure all’interno della casa: una donna, un uomo e un bambino» sussurrò emozionato.
«E cosa fanno?» gli chiese.
«Il bambino sta giocando con qualcosa, mentre i genitori gli stanno vicino; stanno sorridendo» disse intenerito. Anche Estel sorrise.
Anar continuò a guardare il cielo. Quell’immagine gli piaceva; gli sembrava familiare, anche se sapeva di non averla mai vissuta.
«Hai visto?» gli chiese Estel soddisfatta. Lui ridacchiò, ma all’improvviso l’immagine si mosse di nuovo. La sua fronte si corrugò e lei lo guardò curiosa.
«Cosa sta succedendo?» gli chiese.
«Si è avvicinata un’altra figura.. sembra un bambino, ma non sono sicuro, e tiene qualcosa stretto in mano» sussurrò concentrato.
«E che fa?» gli chiese lei curiosa. Lui rimase un attimo in silenzio, ammaliato dalla scena che le stelle gli stavano rivelando, quando i suoi occhi si riempirono di orrore. Lei lo guardò preoccupata; gli poggiò una mano sulla spalla.
«Anar?» lo chiamò delicatamente; ma lui non rispose. Era troppo attento alla scena. La nuova figura si era avvicinata alla casa e si era avvicinata al bambino. Questo le aveva sorriso e si era messo da parte per farla giocare con il proprio gioco. Ma la figura fece qualcosa di strano. Prese il bambino e lo cacciò via dalla casa, lontano dai suo genitori e dai suoi giocattoli, lasciandolo da solo in mezzo al buio. Poi si era avvicinata al camino della cucina e aveva fatto crescere le fiamme, facendole diventare sempre più grandi; talmente tanto grandi che alla fine..
«Anar!» lo chiamò decisamente Estel. Quello sbatté le palpebre parecchie volte, confuso. Si guardò intorno disorientato. Accanto a lui, Estel lo guardava preoccupata, il viso pallido come se avesse appena visto un fantasma. «Cosa è successo?» gli chiese in un sussurro. Lui sbatté nuovamente le palpebre. «Sembrava che le stelle ti avessero ipnotizzato; non riuscivo a farti chiudere gli occhi. Sembrava che la mia voce non riuscisse a raggiungerti..» sussurrò spaventata. Lui scosse la testa e le sorrise.
«Tranquilla» le disse poggiandole una mano sulla testa; «La scena è cambiata di nuovo ed io ero così concentrato a seguirla che non ti prestavo attenzione. Non è successo niente» le disse con un sorriso. Lei lo guardò un po’ diffidente, ma si lasciò tranquillizzare. Sospirò e tornò a guardare il cielo.
«Cos’hai visto di tanto interessante?» gli chiese curiosa. Lui scrollò le spalle e tornò a guardare la volta celeste. La voce di Estel aveva frantumato la scena che stava osservando e non era riuscito a capire come finiva.
«La tua voce mi ha interrotto» sbuffò; «Se mi concentro fosse riesco a vederlo di nuovo» sussurrò speranzoso. Voleva vedere come finiva. Cosa stava facendo quella nuova figura? E il bambino lasciato solo? Perché il bambino era stato lasciato da solo?
«Non credo ci riuscirai» gli disse lei dispiaciuta.
«Perché?» le chiese, guardandola stupito. Aveva le braccia strette intorno alle gambe piegate contro il petto; gli occhi illuminati da una strana luce.
«Vedi, a meno che non fosse una scena che hai costruito volontariamente, le stelle rivelano un qualcosa che nasconde il tuo incoscio solamente una volta. È difficile che lo ripropongano..» sussurrò mordendosi il labbro dispiaciuta. Lui la guardò incredulo. Se quello che diceva Estel era vero, come avrebbe fatto a scoprire cosa nascondeva il resto della storia?
«Non c’è altro modo per vederlo?» le chiese speranzoso. Lei scosse la testa.
«Mi dispiace..» sussurrò pentita. Lui la guardò e si lasciò sfuggire un sospiro. Poi però le sorrise.
«Non era niente di particolare; ma era la prima volta che mi succedeva di vedere le storie delle stelle, quindi volevo sapere come finiva. Non ti preoccupare» le disse sorridendole, ma stava soltanto cercando di tranquillizzare se stesso. Quelle immagini l’avevano inquietato e turbato parecchio. Sapeva che significavano qualcosa e voleva sapere a tutti i costi cosa fosse.
«Sicuro?» gli chiese lei guardandolo di sottecchi. Lui le sorrise.
«Certo» le rispose. «Però, andiamo a casa adesso?» le chiese alzandosi. Lei sospirò. Sapeva che Anar le stava nascondendo qualcosa, ma preferì non fargli domande. Forse le stelle gli avevano rivelato un segreto troppo “pesante” e lui ancora doveva imparare a sottostarne il peso. Ma lei non poteva fare nulla; questo era qualcosa che doveva imparare da solo.
Sospirò e si alzò. Lentamente si incamminarono per raggiungere nuovamente il paese. Erano in silenzio e nessuno dei due osava dire una parola.
Anar era ancora concentrato sulla scena che aveva visto, mentre la ragazza era preoccupata per il suo silenzio. Sapeva ormai da tempo come funzionava la storia delle stelle. Ti rilassavi talmente tanto mentre le guardavi che quelle, alla fine, sembrava ti ipnotizzassero, rivelandoti qualcosa di importante, sotto immagini e metafore che tu non riuscivi a decifrare. E su quelle immagini ci si poteva passare sopra un’intera vita senza mai arrivare a capire cosa significassero realmente.
Lei ci era passata tante volte: aveva visto case infuocate, un mare in tempesta, una donna dall’espressione triste che la guardava con amore, una bambina dalle orecchie appuntite.. e anche tantissime altre scene che però non aveva saputo spiegarsi, e nessuna di quelle immagini le aveva mai fatto capire qualcosa.
Sospirò e infilò le mani nelle tasche dei jeans. Era ormai ottobre inoltrato e l’aria aveva iniziato a raffreddarsi. Si lasciò sfuggire un tremito, mentre un brivido di freddo le percorreva la schiena e il rosato la guardò incuriosito.
«Senti freddo?» le chiese preoccupato. Lei scosse la testa e gli sorrise.
«Non troppo» gli rispose, quando quello le fece una smorfia.
«Ah, ecco» le disse incatenando il suo sguardo a quello della ragazza, accennando un sorriso. Lei, per qualche secondo, rimase imbambolata dalle sue labbra. Sotto la luce della luna avevano un aspetto così.. invitante.
Anar la guardò divertito; sembrava che fosse rimasta incantata da chissà che cosa, ma era consapevole del fatto di essere lui la causa del suo imbambolamento. Quella alzò la sguardo verso i suoi occhi e stavolta toccò a lui restare imbambolato di fronte alla luminosità e alla profondità del suo sguardo.
Automaticamente, alzò una mano e le accarezzò il viso, che sotto il suo tocco leggero si surriscaldò.
Estel si lasciò sfuggire un sospiro, mentre sentiva i battiti del suo cuore aumentare sempre di più il loro ritmo. Un brivido le percorse nuovamente la schiena. D’istinto mosse il suo viso verso quello del rosato che imitò il suo movimento. Il respiro che accelerava, il cuore che martellava, la sensazione di inebriamento che le provocava il suo profumo. Sentì il suo respiro sulle labbra e..
Qualcuno tossì alle loro spalle, facendoli sussultare. Anar alzò lo sguardo, confuso e disorientato, mentre Estel arrossì distogliendo lo sguardo imbarazzata. Si voltarono entrambi e notarono una figura in piedi di fronte a loro. Una figura femminile; una donna che Estel conosceva fin troppo bene.
«Tu?» le chiese Estel con tono incredulo e aggressivo. Il rosato guardò perplesso la ragazza che, immobile, le stava accanto.
«La conosci?» le chiese. Estel strinse i pugni lungo i propri fianchi e arricciò il labbro superiore in una smorfia di disgusto. La donna la guardava con un’espressione divertita e al tempo stesso curiosa.
«Si» sussurrò lentamente; «È mia madre».
 

 

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Capitolo 20
*** L’assassino ***


L’assassino

 
Il detective camminava attentamente lungo una buia stradina di campagna. Dietro di lui, qualche agente della polizia continuava a seguirlo in silenzio.
Era ormai da più di una settimana che davano la caccia a quel criminale e, purtroppo, ancora non avevano raggiunto nessun risultato. Non un indizio, non un impronta; niente che potesse far pensare a dove potesse essersi nascosto. L’unico elemento che era riuscito a far nascere un’ipotesi, un’idea, era stato il minuscolo cip piazzato nella testa del coniglio.
Quell’oggettino aveva un raggio d’azione di dieci chilometri. Questo voleva dire che oltre quella distanza, l’assassino non sarebbe riuscito a manovrare il suo piccolo robot killer.
Partendo dalla scuola e andando verso ovest, chiunque avrebbe incontrato prima la casa della seconda vittima e a qualche chilometro di distanza quella di Shaza. Di conseguenza, premettendo che la distanza dalla scuola alla casa di Shaza fosse di diciannove chilometri e ipotizzando che l’assassino avesse agito sempre dallo stesso posto senza mai spostarsi, questo significava che il suo nascondiglio poteva soltanto trovarsi a metà tra i due luoghi, ovvero nel piccolo boschetto del paese.
Yetille si fermò e trattenne il respiro. Si appiattì contro il tronco di un vecchio albero e sospirò silenziosamente. Avevano basato l’intera ricerca su quella sua banale ipotesi e adesso era arrivato il momento decisivo. Si umettò le labbra secche e lanciò uno sguardo ai suoi uomini che, fedelmente, lo seguivano in silenzio.
Quando aveva chiesto al commissario una squadra per portare avanti le ricerche, gli erano stati affidati loro; e quelli, nonostante la sua ipotesi fosse davvero banale, non si erano lasciati sfuggire neanche una critica o un commento sprezzante. Lo avevano seguito senza dire una parola.
Sospirò e tornò a guardare il tronco dell’albero che aveva davanti. Si sporse oltre il proprio nascondiglio e si guardò intorno. A parte se stesso e gli agenti della polizia, in quella piccola radura non si percepiva anima viva. Fece cenno alla sua scorta e continuò a procedere in silenzio, sperando in cuor suo che la propria ipotesi fosse corretta e che il criminale fosse lì nascosto da qualche parte. All’improvviso, tra gli alberi apparve una piccola casetta di legno scuro. Sembrava fosse stata abbandonata da tantissimo tempo e non c’era nulla che potesse far pensare che dentro ci vivesse ancora qualcuno.
Gli occhi del detective scintillarono e sul suo viso apparve uno sorrisetto compiaciuto. Non era ancora detto che l’assassino fosse lì dentro, ma c’erano buone probabilità di successo. Fece cenno agli agenti e, silenziosamente, cercando di non farsi vedere da presunti occhi che spiavano dalle finestre, dopo aver afferrato la propria pistola, si avvicinò al portone della catapecchia. Prese un profondo respiro, dopodichè, una volta che gli agenti l’ebbero attorniato, lo sfondò con un calcio. Puntò l’arma ovunque di fronte a sé, alla ricerca dell’assassino, ma, presto, si rese che conto che in quell’unica stanza, a parte loro, non c’era nessuno.
Gli agenti accesero le torce per illuminare l’ambiente e, grazie a quella flebile luce, il detective riuscì a distinguere su una parete, dietro una delle grandi finestre, una grande scrivania di legno marcio. Le si avvicinò e notò, con una nota di collera, che su di essa c’erano vari documenti.
«A quanto pare si è sbagliato, detective» sussurrò demoralizzato uno degli agenti. Yetille prese in mano un documento e lo accartocciò nervosamente. La sua ipotesi era corretta; l’assassino si era nascosto in quella catapecchia per moltissimo tempo, soltanto che, dopo che il suo coniglio era stato esaminato dalla scientifica, probabilmente aveva pensato fosse meglio fuggire.
«Siamo soltanto arrivati troppo tardi..» sussurrò, furioso. Gli agenti lo fissarono confusi e preoccupati.
«Come, prego?» gli chiese uno di essi.
«Siamo arrivati tardi!» urlò, sbattendo il foglio accartocciato contro il pavimento. 
«Si spieghi meglio» gli disse lo stesso uomo con tono spaventato. Il detective rimase in silenzio per qualche secondo; dopodichè si voltò per guardare i suoi collaboratori. Aveva lo sguardo acceso dall’ira e, effettivamente il suo viso illuminato dalla flebile luce delle torce che gli creava delle strane ombra sulle tutta la faccia, faceva un po’ paura.
«Su questa scrivania ci sono i suoi progetti: progetti di bombe e di conigli robot. Lui era qui» sussurrò, stringendo i pugni per la rabbia. Se solo il commissario avesse avuto fiducia in lui, sarebbero partiti prima e magari sarebbero riusciti ad acciuffarlo! Invece no; la sua ipotesi era banale e quindi, prima di concedergli il beneficio del dubbio e quindi di permettergli di verificare la sua ipotesi, erano state verificate le ipotesi più credibili che si erano rivelate sbagliate. 
Sconsolato, con un sospiro, si sedette alla scrivania e si prese la testa tra le mani. In quel momento però notò qualcosa di strano. Proprio sotto la scrivania, c’era un piccolo contenitore di vetro chiuso da un coperchio. Incuriosito, lo prese in mano e notò che dentro c’era un mozzicone di candela.
Corrugò la fronte interessato, e delicatamente aprì il contenitore. Un’ondata di puzza di fumo lo investì immediatamente. Allontanò subito l’oggetto, colto di sorpresa, storcendo il naso per la puzza che gli si era infilata dentro. Dopodichè, sbattendo le palpebre, si chinò su di esso per osservarlo. Sulla parte superiore del coperchio c’era un alone nero, mentre la miccia della candela era ancora un po’ calda, per non parlare del fatto che toccandola, il detective si era tinto i polpastrelli di nero. Si sfregò l’indice contro il pollice, come per assaporare la sensazione che lo investiva mentre la fuliggine si staccava dalla pelle cadendo per terra. Con un sorrisetto, guardò nuovamente la candela. Tutti quegli indizi potevano portare ad un’unica soluzione: la candela era stata spenta poco prima che arrivassero loro; ma se era davvero così, significava che chiunque l’avesse accesa, dovesse trovarsi lì dentro da qualche parte. Non c’erano finestre aperte e l’unica porta che dava sull’esterno era quella da dove erano entrati loro; quindi non poteva essere scappato nel momento in cui loro erano entrati. Doveva essere lì, nascosto da qualche parte.
Posò lo sguardo sulla scrivania e in quel momento si rese conto che, effettivamente, era strano che l’assassino se ne fosse andato lasciando lì i suoi progetti. Perché non se li era portati via?
D’un tratto un’idea gli percorse il cervello. Si alzò di botto.
«Cercate ovunque!» urlò agli agenti che lo osservavano in silenzio. Di fronte a quel suo comportamento, sussultarono e si guardarono tra loro, preoccupati e confusi.
«Cosa?» chiese uno di loro, in un sussurro.
«Porte nascoste, botole; qualunque cosa che possa portare in una stanza segreta» rispose con un nuovo sorrisetto sul viso. Forse avevano ancora una possibilità.
Gli uomini si guardarono confusi, ma dopo qualche secondo iniziarono a perlustrare l’intera stanza e non ci volle molto perché uno di essi gridasse di aver trovato una botola nascosta sotto un tappeto.
Il detective gli si avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla.
«Ottimo lavoro» gli disse con un sorriso. L’agente si sistemò il cappello e sorrise.
«Ho fatto solo il mio dovere, signore» gli rispose, fiero di se stesso. Il detective ridacchiò; dopodichè afferrò la propria pistola e prese un profondo respiro. Guardò attentamente gli agenti con uno sguardo serio. Molti di essi avevano gli occhi scintillanti di preoccupazione; qualcun altro era un po’ spaventato; qualcun altro anche eccitato.
«Ci siamo» sussurrò con un improvviso groppo alla gola. Sorrise e alzò la botola. Davanti ai loro occhi apparve una scura scala di legno. Prese la torcia ad uno degli uomini che gli stavano accanto ed iniziò a scendere puntando sempre la pistola davanti a sé.
All’improvviso percepì un movimento nell’ombra e istintivamente puntò la torcia in quella direzione. Pochi secondi di attesa e di cuore che batteva a mille per l’emozione ed  incrociò il suo sguardo.
«Prendetelo» disse ai suoi uomini con un ghigno di trionfo. Gli agenti non se lo fecero ripetere più d’una volta. Si avvicinarono all’uomo che, immobile, li guardava con un’espressione delusa.
«Pesavo sarebbe stato più veloce, detective» gli disse con un tono di voce grave. Yetille rise con gusto, invece gli uomini si bloccarono a guardarlo confusi.
«Credevi di potermi prendere in giro?» gli chiese con un sorrisetto.
«Assolutamente no; vedi, tu mi hai trovato perché io l’ho voluto» gli disse tranquillamente, infilandosi le mani nella tasche dei jeans scuri. Il detective smise di sorridere.
«Se così fosse, ti saresti fatto trovare di sopra, anziché qui sotto» gli rispose con una smorfia acida. L’assassino lo guardò, senza tradire nessuna emozione.
«Sei caduto nella mia trappola» sussurrò, tranquillamente. Dopodichè, con la stessa velocità di un serpente, uscì un pugnale dalla tasca dei jeans e lo lanciò dritto verso il petto del detective che, con un urlo di dolore e sorpresa, cadde a terra.
«Detective!» urlarono due agenti correndogli incontro.
«Prendete lui, idioti!» urlò, furiosamente, dopo aver tolto il pugnale dal proprio corpo.
«L’hanno già ammanettato» gli rispose uno di quelli con un’espressione seria. Yetille lo guardò; dopodichè, con un sorriso, si lasciò andare tra le braccia dei due uomini. 

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Capitolo 21
*** L'incubo ***


Incubo

 
Anar restava immobile a guardare, incredulo e confuso, la ragazza che gli stava accanto. Estel non poteva aver parlato seriamente; quella donna che si era intromessa in quel loro particolarmente e inaspettato momento, non poteva essere sua madre. Erano troppo diverse l’una dall’altra!
Estel aveva ciocche ribelli che le incorniciavano il viso e che ricordavano il colore delle patatine fritte poco prima di essere uscite dalla padella, mentre gli occhi erano dorati; la donna invece aveva lisci e lunghi capelli neri che le arrivavano fino alla vita e due enormi occhi verdi circondati da ciglia lunghe e perfette. Erano entrambe belle donne, ma ognuna in maniera differente e non c’era nulla, nel volto della mora, che potesse far pensare che fosse realmente la madre della ragazza dalle orecchie appuntite.
La donna, dal fisico perfetto, sorrise perfidamente e incrociò le braccia.
«Cosa ci fai qui? Avevo sentito dire che fossi chiusa in ospedale?» chiese ad Estel con un tono di voce irritante. Il rosato la guardò incredulo. Come poteva parlarle in quel modo? Anche se non le stava simpatica, era pur sempre sua figlia! E poi, adesso che ci faceva caso, non si era mai presentata in ospedale per vedere come stava. Che razza di madre era..?
Estel sbuffò e imitò la posizione della donna.
«Tranquilla, non sono venuta qui per te; sono soltanto di passaggio, e comunque la mia vita non è affare tuo» le disse con un’espressione dura e sprezzante. Il suo tono sembrava tranquillo e lineare, ma c’era qualcosa che lo increspava. Anar la guardò accigliato: non l’aveva mai sentita parlare in quel modo.
La donna sogghignò ed il ragazzo si volse ad osservarla. Aveva un’espressione irritante che gli fece venir voglia di prendere a pugni quel suo bel faccino. Però si costrinse ad evitare di farlo, stringendo i pungi lungo i fianchi e prendendo un lungo respiro.
«Non mi interessa la tua vita; mi sembrava strano vederti nei pressi di casa mia insieme ad un bel ragazzo; con cosa l’hai corrotto? Magari gli offrirai la mappa della gioielleria del paese in cambio di una notte passionale?» le chiese con un’espressione perfidamente divertita.
Estel strinse i pugni lungo i fianchi, mentre Anar spalancava gli occhi incredulo.
«Anche se fosse, non ti interessa» sibilò la ragazza, fra i denti. La donna rise.
«E comunque non è così» le disse Anar, con uno sguardo irritato. La mora lo guardò con un’espressione incredibilmente snervante. Si portò una mano a coprirsi la bocca.
«Scusami, non avevo capito che steste insieme sul serio. Sai, non credevo che esistesse qualcuno in grado di sopportare il suo comportamento da criminale. Devi avere molta pazienza, oppure devi essere pazzo» gli disse con disprezzo.
Estel strinse i pugni talmente tanto forte che le nocche le divennero bianche. Perché quella donna doveva essere così odiosa? Ci trovava davvero gusto a farla arrabbiare?! Aveva voglia di sbatterla contro il terreno e prenderla a pugni, ma si trattenne dal farlo. Non voleva spaventare Anar con il suo comportamento da pazza e, in fondo, non voleva neanche diventare una criminale.
«Non stiam..» sussurrò, ma fu interrotta bruscamente.
«Si è trasferita a casa mia e siamo passati di qui per prendere le sue cose» disse Anar duramente. La donna lo guardò incredula, così come stava facendo Estel.
«Quindi siete davvero una coppia?» le chiese diffidente, con una nota sprezzante nel tono di voce.
«Esatto» le disse tranquillamente, prendendo la ragazza per mano. Questa lo guardò con un’espressione di gratitudine e arrossì lievemente. Strinse le dita intorno a quelle del rosato e si sentì più forte e rassicurata. Tornò a guardare sua madre, senza rabbia o timore. Adesso era soltanto irritata e sperava di poterla salutare al più presto.
«E ti va bene?» gli chiese la mora, sprezzante, ma anche sinceramente incuriosita. «Voglio dire, non è seccante avere intorno qualcuno come lei?» gli chiese incrociando le braccia. Estel strinse nuovamente i pugni, ma la stretta di Anar si fece più forte e lei si rilassò nuovamente.
«Fortunatamente, Estel ha un carattere diverso dal suo, signora. È simpatica, divertente, forte e bella; riesce a farmi sorridere il cuore, e noto che queste è una dote che non ha ereditato da lei» disse placidamente ed Estel si fece sfuggire un sorriso. La donna gli lanciò un’occhiataccia.
«Evidentemente, ha contagiato anche te; povero ragazzo» sussurrò voltandogli le spalle. In silenzio iniziò a camminare. «Andiamo a casa» disse infine con tono pacato.
«Non ho nessuna intenzione di venire con te» le disse Estel restando immobile. La donna si bloccò. Un sorriso divertito le sfiorò le labbra.
«Non ho nessuna intenzione di riportarti a casa. Voglio soltanto liberarmi di tutte le tue cose, quindi vienitele a prendere e portale nella casa del tuo prezioso fidanzato, prima che arrivi tuo padre e ti costringa a restare con la forza» le disse tranquillamente senza neanche voltarsi a guardarla. Sembrava sul  punto di aggiungere qualcos’altro, ma sospirò e, in silenzio, riprese a camminare.
Estel la guardò, diffidente. Non si fidava di sua madre, ma forse le avrebbe fatto comodo riprendersi tutte le sue cose. In questo modo avrebbe vissuto meglio a casa di Mahtar.
Guardò Anar e lui in tutta risposta aumentò la presa sulla sua mano. Il suo sguardo era incoraggiante e rassicurante allo stesso tempo. Lei annuì e, preso un profondo respiro, si incamminò dietro la donna.
Non dovettero camminare per molto; cinque minuti di strada ed erano già arrivati di fronte ad un’accogliente casetta bianca. Da fuori sembrava la dimora di un’umile famiglia felice, ma bastava soltanto un’occhiata alla ragazza che ancora stringeva la mano del rosato, per capire che era tutta una farsa. La famiglia felice in quella casa non esisteva. La ragazza che ci abitava era stata costretta ad andarsene per essere felice, e probabilmente ancora non aveva trovato la felicità. Non aveva una famiglia sulla quale poter contare e questo la faceva star male. Voleva un padre e una madre, ma i suoi veri genitori la odiavano.
Estel inspirò profondamente e fissò la schiena di sua madre che si avvicinava al portone. La vide entrare una mano nelle tasche dei jeans ed uscirne una piccola chiave. La inserì nella serratura e spalancò l’uscio. Entrò e si perse oltre la soglia.
I due ragazzi si avvicinarono alla porta. Estel era preoccupata. Era da tanto tempo che non metteva piede in casa sua e, sinceramente, non voleva entrarci. Avrebbe voluto correre via e nascondersi sotto il letto di Mahtar come quando da bambina cercava di scappare dagli schiaffi di suo padre, ma sapeva che non sarebbe servito a niente. Quella era la sua casa e quelli che vivevano lì erano i suoi genitori. Erano una crudele realtà che lei doveva affrontare. Non doveva temere nulla; in fondo con lei c’era Anar.
«Non devi entrare per forza» disse al rosato guardandolo negli occhi, cercando di nascondere la speranza che lui non l’ascoltasse. Purtroppo per lei, (ma forse “purtroppo” non è la parola giusta) Anar era fin troppo bravo a leggere il suo sguardo in quel momento, perciò sbuffò ed oltrepassò la soglia. Lei si lasciò sfuggire un sorriso sollevato e lo seguì dentro casa.
Automaticamente si diresse verso la sua camera, dove sua madre aveva già iniziato a prepararle una valigia. Per qualche secondo, rimase immobile ad osservare la stanza; era tanto che non ci entrava eppure era esattamente come lei l’aveva lasciata. Le coperte del letto erano ancora sfatte e la finestra dalla quale era scappata era ancora aperta.
Sbuffò e guardò sua madre. Aveva quasi finito di riempire la valigia. Le si avvicinò e la allontanò.
«Faccio da sola» le disse bruscamente. La donna la guardò con un sorrisetto.
«Vedo che ti comporti da donna, adesso. Cos’è successo? Non scappi più piangendo dal rosso? O è la presenza del tuo ragazzo a farti comportare così?» la stuzzicò incrociando le braccia con un perfido sorriso. La ragazza fece finta di non sentirla e continuò a sistemare le proprie cose. Si avvicinò alla sua libreria e prese tutti i libri che – doveva ammetterlo – aveva rubato dalla biblioteca di suo padre. Li sistemò con cura nella valigia e prese il resto delle sue cose: foto, oggetti, computer portatile, vestiti e altro.
Anar la guardava in silenzio mentre sistemava le proprie cose. Aveva un’espressione da dura, forte e invincibile, eppure lui non l’aveva mai vista più vulnerabile. Quella donna aveva un cattivo effetto su di lei (o forse era la casa in se stessa) e lui non riusciva a vederla così schiacciata dalla sua perfezione o dalla sua cattiveria. Quella ragazza che adesso, velocemente, stava sistemando le proprie cose dentro una valigia, non era la stessa che aveva conosciuto qualche settimana prima nell’aula della punizioni della scuola. Quella era una ragazza tosta, forte e testarda; mentre questa sembrava soltanto la sua ombra sbiadita. Tutta la sua durezza era soltanto un muro destinato a crollare. Presto..
Finalmente, Estel finì di sistemarsi la valigia. La chiuse e si diresse velocemente verso l’uscita senza neanche salutare la donna che restava tranquillamente seduta sul suo letto.
«Addio, cara» la salutò quella mandandole un bacio.
«Spero che tu finisca sotto un autobus» sussurrò lei tra i denti. Poi però si immobilizzò. Davanti a lei era appena comparso un uomo: era alto, portava gli occhiali e aveva dei cespuglietti grigi che gli ricoprivano la testa.
Anar lo guardò confuso e sbigottito anche se aveva già intuito chi fosse.
«Papà..» sussurrò Estel, in preda al panico. Il rosato la guardò incredulo. Era.. spaventata? Si voltò a guardare l’uomo e automaticamente si pose in mezzo tra lui e la figlia. Sentiva il bisogno di proteggere Estel da qualcosa che non conosceva.
L’uomo lo guardò accigliato, dopodichè si lasciò sfuggire un sorriso divertito.
«Che intenzioni hai, ragazzino?» chiese ad Anar incrociando le braccia. Con gli occhiali che gli ricadevano goffamente sul naso, sembrava uno sfigato; ma adesso, con le braccia incrociate, i suoi muscoli sviluppati erano messi ben in evidenza.
Estel fece un passo indietro e se ne pentì immediatamente. Che cosa le stava succedendo? Non era più una codarda da tanto tempo ormai; ma allora perché all’improvviso aveva così tanta paura?
Si poggiò una mano sul cuore e lo sentì battere all’impazzata.
«Andiamo via» sussurrò, afferrando la valigia e dirigendosi verso la porta. L’uomo la prese per mano, bloccandola.
«Dove credi di andare, Estel?» le chiese bruscamente. Lei si immobilizzò. «Fila in camera tua» le ordinò, spingendola verso l’interno della stanza. Lei rimase immobile per qualche istante; la schiena curva e le spalle abbassate come a cercare di proteggersi da quella figura imponente che la sovrastava.
Poi però, la sua mente vagò tra i ricordi dell’infanzia. Rivangò il passato: tutte le volte che suo padre le aveva fatto male, tutte le volte che le aveva urlato contro di essere un mostro, di non essere degna di appartenere alla loro famiglia, tutte le volte che aveva avuto paura di lui e della sua voce, del rumore dei suoi passi, del suo aspro odore di alcool e tabacco. Le tornò tutto in mente, con una chiarezza incredibile, come se stesse guardando un vecchio video di quando era bambina.
Lentamente, si raddrizzò e strinse i pugni. Alzò il viso e puntò lo sguardo verso gli occhi del padre. Scosse la testa, decisa a non farsi più trattare in quel modo.  
«No» gli disse in un sussurro. Anar la guardò preoccupato. L’uomo la guardò accigliato.
«No?» le chiese muovendosi verso di lei.
«No.. non ci vado in camera mia» disse più forte, con convinzione. L’uomo si fermò a un passo da lei.
«E dove vorresti andare?» le chiese in un sussurro, minacciosamente. Lei rimase in silenzio. Deglutì, ma non distolse lo sguardo da quello del padre. Aveva la fronte aggrottata e si, inutile negarlo, stava tremando per la paura. Eppure, non cedette.
«Da mio padre» disse infine, con decisione. Tutti la guardarono increduli e immobile per lo stupore. Poi, l’uomo sollevò una mano come per picchiarla. Estel rimase ferma, ancora con lo sguardo fisso in quello del padre, ma il colpo non la raggiunse mai. Vide un’ombra passarle davanti e scaraventare la figura di suo padre contro una parete.
«Non azzardarti a sfiorarla» gli ringhiò contro Anar. Aveva uno sguardo omicida, lo stesso sguardo che aveva creduto potesse uccidere il maniaco che avevano incontrato nella stradina di campagna. Lei lo guardò stupita, incapace di proferire parola. Lui la prese per mano, con l’altra afferrò la valigia e senza dire più una parola, uscì di casa lasciandosi alle spalle i volti increduli e stupidi della coppietta sposata.

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Capitolo 22
*** Il racconto ***


Il racconto

 
Anar ed Estel camminavano velocemente per le strade del paese. Ormai si erano allontanati parecchio dalla casetta bianca, eppure il ragazzo non accennava a volersi fermare.
Era rimasto in silenzio per tutto il tempo, con lo sguardo fisso davanti a sé e la fronte corrugata.
Estel non riusciva a immaginare a cosa stesse pensando, ma la sensazione di calore che le davano le loro mani legate insieme era mille volte più forte della sua curiosità.
«Grazie» gli sussurrò all’improvviso, rompendo finalmente il silenzio. Anar non si voltò a guardarla, ma iniziò a camminare più lentamente. Si inoltrarono nel parco.
«Non devi ringraziarmi di nulla, te l’ho detto. Mi da fastidio vedere che qualcuno ti metta le mani addosso» le disse lentamente senza guardarla. Lei deglutì. Il suo tono sembrava distaccato ed era inespressivo. Non riusciva a capire che emozioni stesse provando.
Si fermò nei pressi di una panchina e lasciò che il legame tra le loro mani si distruggesse. Infilò le mani dentro le tasche dei pantaloni e sospirò.
«Perché?» gli chiese di botto. Il rosato si voltò a guardarla e, lei poté notare, c’era una scintilla di confusione nel suo sguardo, che però si spense subito.
«Perché, cosa?» le chiese. Lei lo guardò dritto negli occhi e si morse un labbro.
«Perché ti da fastidio che qualcuno mi metta le mani addosso?» gli chiese in un sussurro distogliendo lo sguardo. Adesso stava guardando con attenzione le diverse venature che ricoprivano il tronco di un albero. Si che con la sola luce della luna e di qualche lampione fosse impossibile vederle bene, ma a lei non interessava. Aveva bisogno di una distrazione e, nel frattempo, la risposta del ragazzo non arrivava.
Azzardò uno sguardo al suo viso e notò che aveva gli occhi puntati su di lei, ma non sembrava che la stessa guardando. Spazientita, Estel sbuffò e si avvicinò per prendergli di mano la valigia. Quando le loro mani si sfiorarono lui sussultò lievemente, ma lei non sembrò farci caso.
Prese la valigia e si incamminò nuovamente.
«Dove credi di andare?» le chiese Anar, ancora immobile. Lei non rispose, ma in silenzio continuò a camminare. Per quale motivo si doveva comportare in quel modo? Non le faceva capire nulla. Prima sembrava che di lei gli interessasse qualcosa, il momento dopo invece, sembrava che non si rendesse neanche conto della sua esistenza. Che nervi!
Continuò a camminare da sola, fin quando non trovò un angolino invitante ai piedi di un albero. Sbuffò e si accucciò tra le radici della pianta.
 
Mahtar era sceso a prendersi un caffè alle macchinette dell’ospedale, quando, improvvisamente, in lontananza sentì suonare le sirene di un’ambulanza. Il suono si faceva sempre più vicino, ma lui non si preoccupò più di tanto: alla fine era pur sempre in un ospedale. Inserì le monete nella fessura e premette il pulsante della bevanda. Poi, si appoggiò ad una parete in attesa.
La sirena si spense. Alcuni medici corsero all’entrata dell’edificio e aiutarono i colleghi a trasportare dentro una barella; una barella sulla quale era distesa un uomo che il rosso ben conosceva.
 
Estel era scomparsa in mezzo agli alberi del parco. Trovarla non sarebbe stato difficile. Lentamente, Anar, iniziò a camminare, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans.
Era ancora arrabbiato con quell’uomo per aver soltanto osato pensare di schiaffeggiarla e aveva una gran voglia di tornare a casa sua e prenderlo a pugni; ma sapeva che quella non era una decisione saggia.
Scalciò un sasso che, disgraziatamente, si era ritrovato sul suo cammino e sospirò.
Perché all’improvviso si sentiva così legato a quella ragazza? Perché non riusciva a sopportare che qualcuno la sfiorasse o le facesse del male? Soltanto perché era una ragazza indifesa?
Scosse la testa. Estel era molto più di una semplice ragazza indifesa. Probabilmente, quel pomeriggio se lui non fosse arrivato, sarebbe stata lei a prendere a pugni il maniaco che voleva approfittare di lei. Eppure c’era qualcosa che lo spingeva ad essere protettivo nei suoi confronti. Un qualcosa di forte e tremendamente esagerato. Con nessuno si era mai dimostrato così attento e protettivo; neanche con i membri della sua squadra! Ma non perché Estel non fosse in grado di badare da sola a se stessa; c’era qualcos’altro. Qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Era come se una potente magia lo incatenasse alla ragazza.
Sospirò e finalmente la vide. Era accovacciata ai piedi di un albero. La valigia buttata per terra da qualche parte, accanto a lei.
Le si avvicinò e si fermò a qualche centimetro di distanza. Era seduta con le gambe strette al petto e con uno strano sguardo. Non era arrabbiata, o seccata; era soltanto persa in chissà quali ricordi.
Le si sedette accanto e sospirò. Lei sembrò riscuotersi dal suo mondo fantastico.
«Che vuoi?» gli chiese bruscamente. Lui le sorrise.
«Volevo vedere come stavi» le disse tranquillamente, restando dritto con la schiena in modo da poterla guardare negli occhi.
«Beh, sto bene» gli sussurrò, tornando a puntare lo sguardo davanti a sé. Lui sospirò.
«Non è vero»  sussurrò e finalmente lei sembrò accorgersi davvero della sua presenza.
«Come scusa?» gli chiese incredula e stupita. Aveva una luce strana negli occhi, che non seppe riconoscere, ma che gli fece venire una voglia matta di abbracciarla e di stringerla forte al proprio petto. Non che non l’avesse mai abbracciata, ma gli riusciva strano farlo in quel momento.
«Non è vero che stai bene» le disse tranquillamente e a quelle parole i suoi occhi si infiammarono.
«Sto benissimo» gli sussurrò tra i denti. Sembrava che si fosse arrabbiata, ma questo non fece che confermare la sua teoria.
«Menti» le disse avvicinandosi a lei, per poterla penetrare con il proprio sguardo. Lei sembrò disorientarsi per qualche secondo, dopodichè riprese ad arricciare il labbro superiore, scatenando in lui dei desideri che fino a quel momento erano rimasti assopiti. Cercò di non concentrarsi sul movimento delle sue labbra e si concentrò sul suo sguardo. «Hai paura» le sussurrò.
La luce scintillante del suo sguardo, smise di ardere e lentamente si spense. Sembrò che tutta la sua grinta si fosse afflosciata con quella sua semplice affermazione.
Scosse la testa e voltò il capo per non guardarlo negli occhi. Poi però prese un grande respiro.
«Ho sempre avuto paura» ammise in un sussurro. Anar la guardò interessato, curioso e anche un po’ preoccupato. Aspettò che dicesse altro, ma lei non aggiunse nulla.
«È normale avere paura» le disse allora, per sbloccarla. Lei si lasciò sfuggire un sorriso, che però non aveva nulla di allegro. Era un sorriso amaro.
«Io ho sempre vissuto nel terrore di mio padre. Da quando avevo più o meno sei anni (prima di allora non ho nessun ricordo) ho sempre avuto paura di lui. Mi ha sempre trattata come se fossi un mostro, un abominio. Mi obbligava a fare cose che non volevo e quando gli disubbidivo lui mi picchiava, talmente tanto forte da lasciarmi priva di sensi per molte ore» sussurrò lentamente. Lui continuava ad ascoltarla in silenzio, mentre una crescente rabbia si impossessava del suo cuore e il suo istinto gli gridava di correre ad uccidere quell’uomo. «Ogni volta che lui arrivava a casa, io mi nascondevo nella mia stanza per paura che potesse obbligarmi a fare qualcosa che non volevo. Ero terrorizzata e mia madre non faceva nulla per aiutarmi. Se ne stava sempre in cucina a chiacchierare con le sue amiche e quando mi vedeva faceva finta che io non esistessi. Quando mi sentiva piangere veniva nella mia stanza e mi minacciava di cucirmi la bocca se non avessi smesso di piangere» sussurrò, e l’odio che provava verso di lei traboccava da quelle poche parole. Gli occhi scintillavano di quello stesso sentimento. «Nessuno dei due mi ha mai rivolto una parola di conforto o di affetto. Non ho mai conosciuto l’amore, almeno non l’ho conosciuto fino al mio primo giorno di scuola» sussurrò prendendo un grande respiro. Sembrava che parlare le costasse una grande fatica, ma non sembrava che volesse smettere. Magari non si sfogava da qualcuno da tantissimo tempo e parlarne le avrebbe fatto bene. La guardò in silenzio, mentre lei restava immobile a fissare il nulla di fronte a sé. «Avevo otto anni. Ed era la prima volta che uscivo da casa mia. Non capivo perché, ma mi avevano fatto saltare i primi due anni di elementari. Forse perché ero un peso e si seccavano a dover accettare la mia esistenza. Dopo capì che era perché sapevo già leggere e scrivere, e sapevo perfettamente tutte le tabelline e le varie operazioni matematiche. Non so dirti come fosse possibile, ma in quei momenti ho davvero creduto di non essere normale; di essere un mostro. Comunque, di fronte al cancello della scuola vidi un uomo dai capelli rossi. Era immobile e sembrava che stesse aspettando qualcuno. Quando mi vide sul suo viso apparve un sorriso contento. Non mi si avvicinò, ma ero sicura che fossi io la persona che stava aspettando» sussurrò con l'ombra di un sorriso sulle labbra;
 «Quel giorno non ci feci tanto caso, però. Entrai in classe e qui, trovai due bambine che litigavano. Eravamo soltanto noi tre; la maestra e gli altri bambini ancora dovevano arrivare. Cercai di dividerle, ma nel muoverci andammo a sbattere contro una scaffale e ci caddero addosso tanti vasetti di vernice che si ruppero macchiandoci tutte. Ci guardammo prima con rabbia, ma alla fine scoppiammo a ridere» disse con un sorriso che le incrinò la voce. Sembrava quasi sul punto di commuoversi. «Quella è stata la prima volta che ho riso davvero, ed è stata la volta in cui ho incontrato le mie due migliori amiche e anche il primo professore dell’aula delle punizioni» disse con un sorrisetto. Anche il rosato rise, intenerito. «Nell’aula delle punizioni, dopo la scuola, entrò lo stesso uomo dai capelli rossi che avevo visto quella mattina. Mi si sedette di fronte e iniziò a parlarmi in modo gentile. Mi disse che gli era stato detto che non parlavo e che me ne stavo sempre per i fatti miei; che non sorridevo e che sembrava che ci fosse un’aura scura che mi circondava il cuore. Mi disse che qualunque problema avessi l’avrei potuto affrontare e che lui mi avrebbe aiutato. Così gli raccontai dei miei genitori e lui si infuriò talmente tanto che sbatté un pugno contro il banco facendomi spaventare. Mi disse che avrebbe risolto tutto e, infatti, poi divenne il mio tutore. Iniziai ad uscire ogni giorno per andare a casa sua dove lui mi coccolava, mi insegnava cose interessanti, mi raccontava storie e mi faceva essere felice. I miei veri genitori iniziarono ad essere meno violenti; non mi picchiavano più, ma le punizioni insensate esistevano sempre. E in quelle volte io scappavo di casa per andarmene da Mahtar che mi ospitava con allegria. Iniziai a vivere serenamente, convincendomi di essere abbastanza forte da poter affrontare qualunque problema. Aiutavo tutti quelli che ne avevano bisogno e che venivano a parlarne con me e ogni volta che riuscivo ad aiutarli mi sentivo soddisfatta. Studiavo l’indispensabile per poter essere promossa e mi divertivo a saltare le lezioni, a fare stupidaggini, ad avventurarmi in cose strane e pericolose in compagnia delle mie due amiche. Era bello vivere dopo essere stata rinchiusa per tutta l’infanzia e non avevo nessuna intenzione di farmi regolare la vita da qualcuno. Vivevo, vivo, per come mi piace. L’unico che di tanto in tanto ascolto è Mahtar, ma soltanto perché lui è mio padre» disse scrollando le spalle. Poi però qualcosa le oscurò lo sguardo e le fece stringere la mascella. «Oggi, mi sono resa conto di non essere forte. Mi sono resa conto che tutto quello su cui ho basato la mia esistenza, era soltanto un’illusione; un far credere agli altri di essere forte e affidabile, di poter essere un appoggio solido per chiunque. Ma invece ho soltanto ingannato me stessa» sussurrò stringendo i pugni per la rabbia e anche per la desolazione. Anar la guardò confuso.
«Perché dici questo? Tu sei forte, Estel. Sei una delle persone più forti che conosca. Perché dici il contrario?» le chiese incredulo, cercando di poter studiare il suo sguardo. Lei si morse un labbro e sospirò. Strinse i pugni più forte fin quando le nocche non le diventarono bianche.
«Perché, stasera, quando ho visto mio padre, sono ritornata a quando avevo sei anni. Mi sono ricordata della paura che avevo di lui, della sua voce, dei suoi passi; e la paura mi ha inchiodata al pavimento. Non riuscivo a parlare o a muovermi. Ero inerme» sussurrò arrabbiata. Il rosato la guardò intenerito; le sorrise.
«Ma se non mi sbaglio, dopo hai alzato la testa e lo hai affrontato. Gli hai risposto, gli hai detto di no, non ti sei fatta immobilizzare dalla paura. Hai reagito! Gli hai fatto vedere chi sei veramente! Tu sei Estel, la figlia di Mahtar, la figlia di un grande guerriero; nessuno può toccarti senza assaporarne le conseguenze; conseguenze che tu stessa gli infliggeresti. Non hai bisogno di me per sapere che sei forte. Perché lo sai» gli disse e a quelle parole lei si voltò a fissarlo negli occhi. Aveva uno sguardo disperato, bisognoso di qualcuno che le facesse vedere la realtà. «Pensa soltanto a tutte le volte che hai aiutato i tuoi amici; pensa al coraggio che ci è voluto per affrontare i problemi che hai affrontato tu, pensa a quando sei corsa dalla tua amica perché pensavi che fosse in pericolo, pensa a come hai affrontato il coniglio» le disse lentamente. Lei lo guardava incredula, ma adesso si sentiva più sicura.
«Anar..» gli sussurrò con un filo di voce. Lui le passò delicatamente una mano su una guancia. Neanche lui sapeva perché lo stava facendo, ma sentiva il bisogno di doverlo fare.
«Tu sei forte Estel» le disse con convinzione. Lei lo guardò e finalmente sulle labbra le sbocciò un sorrisino. Un sorriso tanto innocuo quanto potente per il cuore del ragazzo, che perse un battito. Gli venne voglia di stringerla forte contro il proprio petto e di appropriarsi di quelle labbra così piccole e perfette.
Che cosa gli stava succedendo? Non si era mai sentito in questo modo, e non aveva mai avuto la necessità di dover correre da qualcuno per consolarlo o per dirgli quanto fosse forte. Perché con quella ragazza era tutto così diverso?
Pensò alle parole di Mahtar. “non è che magari provi qualcosa per lei?”. Scosse la testa nuovamente e staccò la mano dal viso di Estel. Era impossibile. Per lui era soltanto la figlia del suo tutore.

Estel stiracchiò le braccia  e sospirò. Non poteva credere di aver raccontato la storia della sua vita a quel ragazzo che conosceva da pochissimo tempo. Neanche le sue migliori amiche erano al corrente di quella storia. Eppure, c’era qualcosa che la portava a fidarsi totalmente di quel ragazzo, qualcosa che li aveva portati a costruire un legame forte nel giro di pochissimo tempo.
Sospirò nuovamente e si sdraiò sull’erba, con le mani intrecciate dietro la testa.
Anar aveva un’espressione strana (forse frutto di tutta la storia che gli aveva raccontato), ma quando la vide stendersi, la guardò confuso.
«Che stai facendo?» le chiese guardandola. Lei chiuse gli occhi e sorrise.
«Ho sonno, quindi mi riposo un po’» gli rispose tranquillamente.
«Sotto un albero?» le chiese incredulo. Lei scrollò le spalle.
«E perché no? È più bello qui, ti fa sentire più libera» disse con un sussurro. Poi si lasciò sfuggire uno sbadiglio.
«Forse dovremmo tornare in ospedale» le disse serio, pensando a Mahtar.
«Non ci torno lì ti ho detto» sbuffò, corrugando la fronte; «Se vuoi, tornaci da solo». Lui sbuffò e si stese accanto a lei.
«Sei una testarda» le disse chiudendo gli occhi. Lei sorrise e sospirò. Anche se era arrabbiato e la considerava una testarda, si era comunque sdraiato accanto a lei senza aggiungere un’altra parola. Sospirò e, con il canto dei grilli che fino a quel momento non aveva neanche lontanamente notato, si addormentò.

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Capitolo 23
*** Beccata ***


Beccata

 
Erano circa le otto del mattino. Estel, sveglia da poco, con ancora gli occhi chiusi, percepiva attraverso le palpebre la luce del sole che le arrivava sul viso e sentiva i sospiri stupiti della gente che, passando di lì, vedeva due ragazzi addormentati sull’erba del parco. Si mosse impercettibilmente e si accorse che Anar, durante il sonno, le aveva passato un braccio intorno alla vita come per abbracciarla. Si ritrovò a sorridere di quella situazione e dolcemente, si voltò verso di lui sdraiandosi su un fianco, sempre con il suo braccio a cingerle i fianchi.
Si concentrò sul suo viso addormentato. Con quell’espressione sembrava così tranquillo e spensierato che lei non poté fare a meno di paragonarlo a un bambino. Aveva ciuffetti rosa che gli ricadevano sulla fronte e le lunghe ciglia che gli proiettavano delle strane ombre sulle guance. Le labbra, leggermente dischiuse, la attirarono come un’ape sul miele, ma decise di resistere alla tentazione di toccarle. Non voleva svegliarlo.
Così, infischiandosene delle persone che le passavano accanto, chiuse gli occhi e si lasciò coccolare dal suo abbraccio.
 
Erano ormai le otto passate.
Quella notte, dopo essersi assicurato che Estel stesse dormendo, Mahtar era sceso a prendersi un bel caffè caldo e si era trovato di fronte una barella. Era rimasto abbastanza stupito nel riconoscere l’uomo che vi era sdraiato e, incuriosito, aveva chiesto ai medici ciò che gli era successo. Questi gli avevano risposto frettolosamente che era stato ferito da un pugnale e che dovevano intervenire immediatamente per rimarginare la ferita.
Adesso, Mahtar aspettava impazientemente che i medici uscissero dalla sua stanza, per potervi entrare egli stesso. E finalmente, dopo soltanto altri due minuti di attesa, ecco aprirsi la porta ed ecco uscire tre uomini in camice bianco. Li salutò educatamente con un cenno della testa, dopodichè, quando sparirono oltre la svolta del corridoio, si catapultò dentro la stanza, chiudendosi velocemente la porta alle spalle.
Con un sospiro, si staccò dalla maniglia e si voltò verso l’interno della camera. L’unica luce proveniva dalla finestra semichiusa. Nella penombra si intravedeva un lettino con un uomo sdraiatovi sopra. Prudentemente, (non voleva che magari l’uomo si mettesse ad urlare, spaventato dall’improvvisa entrata di qualcuno) gli si avvicinò e si sedette sulla sedia posizionata accanto al materasso.
L’uomo sdraiato sbatté le palpebre confuso non appena si accorse di una presenza accanto a sé; la guardò stringendo gli occhi e quando la riconobbe, le sue labbra si spalancarono in una silenziosa smorfia di sorpresa.
«Mahtar?» chiese confuso cercando di sedersi. Il rosso lo aiutò e gli sorrise.
«In persona» gli disse ridacchiando. L’uomo gli fece una smorfia.
«Come hai fatto a sapere che ero qui?» gli chiese curioso.
«Ti ho visto arrivare con l’ambulanza e mi sono preoccupato» gli rispose scrollando le spalle. I suoi occhi erano puntati sulla grossa fasciatura che gli ricopriva il petto. L’uomo si massaggiò le tempie e si lasciò sfuggire un sospiro, come se non volesse ricordare nulla di quella notte. Invece, quando alzò il viso, stranamente il suo sguardo era soddisfatto e trionfante, proprio come il suo sorriso. Il rosso alzò un sopracciglio incuriosito.
«Lo abbiamo trovato» gli disse con un sorrisetto. Mahtar spalancò gli occhi incredulo. Si alzò dalla sedia e fece il giro della stanza due volte, prima di soffermarsi sull’espressione seria e al tempo stesso divertita del collega.
«Dov’era?» gli chiese incredulo sedendosi nuovamente, ma sbattendo ripetutamente il tallone contro il pavimento come segno evidente della sua tensione.
«Proprio dove io avevo ipotizzato» gli rispose scrollando le spalle con una smorfia di dolore. Evidentemente, quel movimento gli tirava i punti sulla ferita.
«E adesso dov’è?» gli chiese. Nel suo tono si mischiavano varie sensazioni. Era contento perché adesso Estel sarebbe stata libera di uscire; curioso di sapere cosa aveva detto il criminale; soddisfatto, perché avrebbe potuto interrogarlo ed estorcergli tutta la verità.
«In centrale. Lo vogliono interrogare, ma stanno aspettando me. Purtroppo non so quando mi lasceranno uscire» si lamentò il detective incrociando le braccia e sbuffando. Il rosso lo guardò.
«Non vogliono lasciarti uscire ora?» gli chiese demoralizzato.
«Non credo; però non è sicuro» disse facendo spallucce. «Io comunque, ho intenzione di scappare; sei con me?» gli chiese con un sorrisetto complice. Mahtar lo guardò e gli sorrise. Sapeva che non era saggio far uscire Yetille in quelle condizioni, ma era troppo curioso: voleva sapere cosa avrebbe detto il criminale; voleva vederlo; voleva incenerirlo con il suo sguardo di odio; voleva memorizzarsi la sua faccia da assassino.
«Non so, Yetille, non sei nelle condizioni più adatte per un interrogatorio» gli disse mordendosi il labbro inferiore e incrociando le braccia.
«Non ci credo che tu mi stia rispondendo così!» esclamò il detective incredulo spalancando  gli occhi come per confermare il proprio stupore. «Non muori dalla voglia di scoprire come funziona la sua mente contorta? Non vuoi vedere il suo sguardo da assassino? Non vuoi neanche tentare di punirlo per aver quasi ucciso Estel?» gli chiese cercando di convincerlo. A quelle parole il rosso si voltò a incenerirlo con lo sguardo. Aveva gli occhi infuocati dall’ira.
«Certo che voglio» sussurrò crocchiandosi il collo. «Andiamo» e con queste ultime parole, aiutò il detective a vestirsi e ad uscire di soppiatto dall’ospedale.
 
Il sole si stava alzando nel cielo e, finalmente, Anar aprì gli occhi. Aveva un braccio legato intorno alla vita di Estel e la fronte appoggiata a quella della ragazza. Sbatté le palpebre e si lasciò sfuggire uno sbadiglio, proprio nel momento in cui di lì passava un vecchio uomo dalla barba bianca. Si voltò a squadrarli e scosse la testa in segno di disappunto.
Anar si grattò la testa e si rese conto soltanto in quel momento di quanto potesse sembrare strana la situazione vista dall’esterno. Abbassò velocemente lo sguardo sulla ragazza, per svegliarla, ma vedendola, non ebbe il coraggio di disturbarla. Delicatamente le sfiorò il viso e le tolse le ciocche di capelli che le ricadevano sugli occhi. Si sdraiò su un fianco, tenendosi la testa con una mano e rimase, intenerito, ad osservarla, mentre il sole continuava a salire nel cielo.
 
Finalmente arrivarono alla centrale. Chiesero informazioni sul commissario e scoprirono che era nel suo ufficio in attesa di notizie dall’ospedale.
I due si guardarono e, sorridendo, entrarono nell’ufficio chiudendosi la porta alle spalle. L’uomo seduto dietro la scrivania li guardò stupito, immobilizzandosi.
«Detective?» chiese confuso, sbattendo le palpebre come se si trovasse di fronte ad un’allucinazione.
«In persona» gli rispose questo, lanciando un’occhiata al rosso che gli stava di fianco. Quello ridacchiò e portò lo sguardo sul commissario.
«Non abbiamo ricevuto informazioni dall’ospedale» gli disse incrociando le braccia, con fare diffidente. Il detective ridacchiò e si grattò la testa nervosamente.
«Vede, lì non sanno che io sono qui, adesso» gli rispose ridacchiando. Il commissario lo guardò con uno sguardo di rimprovero, ma la sua attenzione si posò immediatamente su Mahtar, come se fosse lui la causa del comportamento scorretto del detective.
«E il signor Mahtar cosa ci fa qui?» gli chiese bruscamente alzandosi per raggiungerlo.
«Sono qui per assistere all’interrogatorio» gli rispose quello tranquillamente. L’uomo si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto.
«Mi dispiace, ma lei non può assistere» gli disse. Il rosso lo guardò con cattiveria.
«Mi permetta, commissario, ma invece può; ha aiutato la polizia nell’indagine ed è suo diritto partecipare all’interrogazione del criminale» gli disse Yetille incrociando le braccia con uno sguardo serio. Era ben consapevole di dover tenere celata la sua vera identità, ma il modo in cui il commissario trattava Mahtar lo faceva imbestialire; e poi gli era indispensabile l’aiuto del rosso; nessuno interrogava come lui.
Il commissario gli lanciò un’occhiata di fuoco.
«Come desiderate» disse bruscamente. Li oltrepassò e senza degnarli di uno sguardo uscì dal proprio ufficio per portarli nella sala interrogazioni, dove il criminale stava tranquillamente seduto a tormentarsi le dita delle mani.
 
La porta della stanza si spalancò e ne entrarono tre uomini dallo sguardo severo e aggressivo.
L’uomo seduto alla scrivania con le mani legate da un paio di manette, sorrise e li guardò compiaciuto.
«Buongiorno, signori» li salutò con un sorrisetto divertito. Uno di essi, il detective che aveva cercato di uccidere, gli si avvicinò talmente tanto che le loro fronti si sfiorarono.
«Sicuramente, non lo è per te» gli sussurrò minacciosamente. L’uomo sorrise divertito e scrollò le spalle.
«Ne ho affrontati parecchi, di giorni brutti» disse tranquillamente, come se niente fosse; «Uno in più, uno in meno.. non fa più differenza ormai» sussurrò.
Un secondo uomo, che non riconosceva, gli si sedette di fronte, accanto al detective, mentre il terzo se ne andò silenziosamente così come era arrivato.
«Ogni singolo giorno ha il suo valore, invece; come ogni singola vita» gli disse l’uomo che non conosceva in un sibilo. Aveva il capo chino e un’accesa capigliatura rossa.
«Chi è lei?» gli chiese incuriosito. L’uomo alzò il viso e lo penetrò con il proprio sguardo. Aveva qualcosa di strano; non sembrava uno dei soliti poliziotti, pronti a farti mille domande inutile, per cerare di farti parlare. I capelli gli davano un’aria eccentrica, ma la cosa più particolare era il suo sguardo: uno sguardo che, se ne avesse avuto la possibilità, l’avrebbe incenerito all’istante.  
«Non ha importanza» gli rispose, congiungendo le mani sul tavolo. «Non siamo qui per me» gli disse fissandolo da sotto le lunghe ciglia scure. L’assassino sorrise.
«Certo che no; siamo qui per me» gli disse sorridendo, sistemandosi meglio sulla sedia di plastica. Il rosso continuava a guardarlo con lo stesso sguardo di prima.
«Qual era il tuo obiettivo?» gli chiese tranquillamente. L’uomo lo guardò accigliato.
«Si aspetta che gli risponda così spensieratamente?» gli chiese incredulo. Il rosso scrollò le spalle e fece vagare lo sguardo per la stanza bianca. Le pareti erano così bianche e splendenti che quasi gli ferirono gli occhi.
«Non mi aspettavo che lo facessi, ma sono sinceramente curioso e confuso» gli disse alzandosi e iniziando a camminare per la stanza. Gli occhi dell’assassino lo seguirono dappertutto. «Vedi, all’inizio ho pensato che il tuo obiettivo fosse la scuola e che ti fossi servito della prima vittima soltanto come capro espiatorio; poi però non ho capito perché hai continuato ad uccidere altre ragazze innocenti, ma soprattutto non ho capito perché ti sei servito di un robot simile a un coniglio. C’è qualcosa che accomuna le vittime? Un perché che le rende colpevoli di qualcosa ai tuoi occhi?» gli chiese tranquillamente, fissandolo. L’assassino rimase in silenzio ad ascoltare. L’uomo gli si sedette nuovamente di fronte. Congiunse le mani e vi ci poggiò sopra il metto. Lo guardava incuriosito. «Perché hai fatto scoppiare le bombe nella scuola?» gli chiese in un sussurro. L’assassino lo guardò in silenzio.
«Perché dovrei rispondere?» gli chiese scrollando le spalle. «Sapete che sono stato io; avete tutte le prove necessarie per sbattermi in galera. A cosa vi serve la mia confessione?» gli chiese aggressivamente. Il rosso lo guardò.
«Ti ho già risposto; sono sinceramente curioso. Vedi non capisco perché ti sia comportato in questo modo e la cosa mi fa andare fuori dai gangheri. Vedi, sono solito risolvere tutti i casi a cui lavoro, ma il tuo mi sta davvero facendo impazzire. Lavorandoci sopra, sono sicuro che riuscirei a trovare la risposta da solo, ma quando finirai dietro le sbarre non ci sarà più motivo di indagare e la mia curiosità resterà inappagata» gli disse con uno sguardo penetrante e con un’espressione inaccessibile. L’assassino lo guardò e per qualche secondo rimase in silenzio.
«Il mio compito era quello di farle esplodere, ed io ho portato a compimento il mio lavoro. Non mi hanno spiegato il perché di tale gesto» disse lentamente, guardando fisso l’uomo dai capelli rossi.
«E tu hai acconsentito a lavorare senza sapere il perché di quello che stavi facendo? Perché?» gli chiese il detective in tono brusco. L’assassino quasi sussultò a sentirlo parlare; si era completamente scordato di lui. Sbuffò e si lasciò sfuggire un sorriso.
«Per soldi, detective; solo per quello» gli rispose tranquillamente. Il detective fece una smorfia disgustata e serrò la mascella.
«E le ragazze?» gli chiese sibilando. L’assassino lo guardò divertito.
«Vede, così come per l’attacco alla  scuola, il mio lavoro era quello di tenere occupata la polizia locale per l’allestimento del vero piano; le morti delle ragazze erano soltanto un modo per depistarvi, per impegnarvi in qualcosa cosicché non vi accorgeste di quello che stavano organizzando» disse con un sorriso diabolico. Il rosso lo guardò stupito e sbatté le palpebre.
«Il vero obiettivo..» sussurrò il rosso.
«E sarebbe?» gli chiese il detective. Il criminale sorrise maleficamente.
«Non me ne hanno mai parlato» disse incrociando le braccia. I due colleghi lo guadarono diffidenti, ma il rosso si sedette più comodamente sulla sedia di plastica scura.
«Perché hai usato un coniglio?» gli chiese, sinceramente incuriosito. L’uomo lo guardò accigliato. Perché si interessava di quel dettaglio tanto banale? Chi era quell’uomo?
«So quanto la gente di questo paese sia influenzata dalle vecchie leggende..» sussurrò guardando il tavolo. «Ne ho approfittato per scatenare il panico. Un coniglio bianco che dovunque viene avvistato causa distruzione e morte.. beh, si ricollegava perfettamente con la storia di Ainur e con quello che poi è successo qui. I miei piccoli robot erano tutti piccoli Vortha» disse scrollando le spalle con un sorrisetto.
L’uomo dai capelli rossi annuì in silenzio, irrigidendo appena la mascella. Stava per dire qualcosa, questo era sicuro, ma venne interrotto dal rumore di una sedia che veniva strisciata contro il pavimento. Il detective si alzò e sbatté i palmi delle mani sulla superficie del tavolo.
«Perché quando ti abbiamo catturato mi hai detto che ero caduto nella tua trappola?» gli chiese incuriosito, abbassandosi su di lui. Il criminale lo guardò senza lasciar trapelare nulla dalla sua espressione. Il rosso li guardò incredulo.
«Perché voleva essere trovato e catturato, ovvio» gli rispose guardando il suo collega. Si alzò e camminò per la stanza. «Dimmi Yetille, i criminali come lui, dove vengono portati?» gli chiese incuriosito, tormentandosi la barbetta rada che gli copriva il mento. Il detective lo guardò confuso.
«Nel carcere di massimo sicurezza di Dragville; costruito ben oltre i confini della città» gli rispose velocemente.
«Carcere di massima sicurezza.. lì ci sono tutti gli assassini?» gli chiese guardandolo con uno strano sguardo.
«Certo, insieme ad altri individui pericolosi: scienziati pazzi, terroristi, mafiosi» gli rispose incrociando le braccia; «Ma perché me lo chiedi?» gli chiese curioso.
«Cosa può ottenere di positivo un criminale ad andare nel carcere di massima sicurezza?» gli chiese tranquillamente. Yetille lo guardò confuso, ma l’assassino si irrigidì.
«Niente, suppongo» gli rispose.
«Esatto» gli disse questo, volgendo il suo sguardo sull’assassino. «Ma allora perché il nostro criminale vuole andarci? Perché si è fatto catturare?» sussurrò sedendosi nuovamente per trafiggere l’uomo ammanettato con il proprio sguardo indagatore. Il detective lo guardò senza capire. «Ce lo dici tu?» chiese al criminale guardandolo dritto negli occhi. Quello sorrise, amaramente.
«Assolutamente no; anche se credo che ormai lei l’abbia capito» gli rispose con una strana espressione. Il rosso gli sorrise compiaciuto.
«Sei intelligente, vedo» gli disse tranquillamente. Il detective lo guardò.
«Hai capito qual era il suo intento?» gli chiese incredulo.
«Credo di sì» gli rispose scrollando le spalle. Si avvicinò al criminale e si crocchiò le dita, che fecero rimbalzare sulle pareti della stanza un rumore minaccioso. «Portami una torcia e una pinza, per favore» gli disse senza guardarlo.
«Perché?» gli chiese confuso.
«Fallo e basta» gli disse. Il detective obbedì, uscendo in fretta dalla stanza.
«Qual è il suo piano?» gli chiese il criminale con un’espressione vuota.
«Controllarti l’interno della bocca» gli disse tranquillamente, continuando a fissarlo per non perdersi nessun cambiamento della sua espressione. L’assassino deglutì.
«Perché?» gli chiese lentamente.
«Ho il sospetto che tu nasconda qualcosa, e l’unico posto che non viene controllato quando ti introducono in galera è la bocca. Quindi mi piacerebbe controllare di persona che non ci sia niente» gli rispose il rosso con un sorriso. In quel momento il detective ritornò con il materiale che gli era stato chiesto. Il rosso fece aprire la bocca al criminale e ci controllò dentro con la torcia. Dopo un paio di minuti, emise un suono soddisfatto. Prese la pinza e con gesto sicuro, staccò qualcosa dalla sua mascella.
Il detective lo guardò confuso. Dalla sua angolazione sembrava che gli avesse staccato un dente. Invece, avvicinandosi, scoprì che era una microspia.
«A che gli serviva questa?» chiese confuso. Il rosso posò la torcia e la pinza e sospirò.
«L’obiettivo dell’attentato era proprio il carcere. Scommetto che questa microspia si attiva a distanza e magari può anche essere telecomandata. Il lavoro del nostro amico era quello di introdurre la microspia all’interno del carcere; successivamente qualcuno l’avrebbe fatta muovere da fuori fino a farla arriva al centro di “controllo emergenza delle celle” e avrebbe fatto in modo di aprirle tutte allo stesso tempo. Una volta liberi tutti i criminali, il suo aiutante dall’esterno avrebbe trovato un modo per aprire una breccia nelle mura del carcere e far uscire tutti i criminali; è una sintesi un po’ grezza, ma credo che il tuo piano fosse questo; giusto?» chiese rivolto all’assassino. Questo era sbiancato; non ebbe neanche il coraggio per negare. Il rosso si alzò soddisfatto e sorrise. Il detective lo guardò, ammirato.
«Chi ti manda?» chiese all’assassino; «Chi ti ha pagato?» gli chiese bruscamente.
L’assassino scosse la testa e la mascella del detective si irrigidì.
«Non preoccuparti Yetille, ci penserà il commissario a farlo parlare» gli disse poggiandogli una mano sulla spalla. Poi si voltò a guardare il criminale. «Il mio lavoro qui è finito. Ti auguro una buona permanenza in galera. È il minimo che ti meriti, assassino; ringrazia il cielo di essere stato trovato dal detective, perché se ti avessi trovato io ti avrei ucciso nello stesso momento in cui i miei occhi avrebbero incontrato i tuoi» gli sussurrò all’orecchio. Rimase qualche secondo a godersi l’effetto delle proprie parole sull’assassino; dopodichè, in maniera teatrale, uscì dalla stanza portandosi dietro il detective.
 
Erano finalmente tornati in ospedale. Mahtar era contento del discorso che aveva fatto al criminale ed era soddisfatto per aver capito realmente il suo piano. L’unica cosa che ancora non gli era chiara era chi fosse il vero obiettivo del loro piano. Chi era il vero criminale che volevano liberare? E perché dovevano liberarlo?
Scosse la testa e sospirò; non era quello il momento per pensarci.
Cercando di non essere scoperto, aiutò il detective ad intrufolarsi nella sua stanza e, dopo esserci riuscito, lo salutò velocemente.
Sorridendo, percorse tutto l’ospedale per raggiungere la stanza di Estel. Non gli interessava che stesse dormendo; doveva svegliarla per dirle che finalmente era libera.
 
Il sole era ormai alto nel cielo. Finalmente anche Estel aprì gli occhi. Si guardò intorno confusa e notò che stavolta Anar l’aveva realmente abbracciata. Alzò lo sguardo verso quello del rosato e lo vide sorriderle. Si lasciò sfuggire un sorrisetto e si sedette.
«Chi ti ha detto che potevi abbracciarmi?» gli chiese incrociando le braccia.
«Non avevo nessuna intenzione di abbracciarti; tremavi, quindi ho pensato che avessi bisogno di calore» le rispose scrollando le spalle, con un sorrisetto. Lei lo guardò diffidente e fece per dirgli qualcosa, quando improvvisamente gli squillò il telefono.
Anar se lo sfilò dalla tasca e rispose senza neanche controllare chi fosse.
«Pronto?» chiese tranquillamente, ancora con il sorriso stampato in faccia     .
«Dove accidenti sei?! E dov’è Estel?!»gli urlò Mahtar. Il ragazzo sussultò spaventato e fece, letteralmente, un balzo,
«Tranquillo, è qui con me; stiamo tornando» gli rispose spaventato dal suo tono di voce.
«Io vi ammazzo!»gli urlò arrabbiato.
«Ma è lei che è scappata!» urlò Anar giustificandosi.
«Tu dovevi controllarla!».Entrambi sbuffarono. Anar era arrabbiato per essere stato coinvolto nella “marachella” di Estel, ma era anche preoccupato per la possibile punizione del rosso; questo invece era arrabbiato per il comportamento dei suoi “figli” ed era anche stanco. Passarono alcuni secondi in silenzio, prima che Mahtar decidesse di parlare. «Comunque, ho una bellissima notizia. Il vero criminale, quello che ha creato il robot-coniglio, è stato arrestato la notte scorsa. Abbiamo appena finito di interrogarlo e ha confessato tutto» disse con una certa soddisfazione nella voce. «Diceva che il suo vero obiettivo era la scuola; ricordi, la prima ragazza trovata morta aveva una specie di telecomandino in mano».
«Si me lo ricordo. È stato quello che ha attivato le bombe, no?» gli chiese, poggiando i gomiti sulle ginocchia e grattandosi la testa con la mano libera. Estel nel frattempo lo guardava in silenzio. Aveva capito subito con chi stesse parlando ed era sbiancata per la tensione.
«Esatto. Ad attivarle, ovviamente, è stato il robot che, dopo aver ucciso la ragazza, le ha lasciato il telecomando in mano»gli disse Mahtar, con un tono disgustato.
«Ma perché poi ha iniziato ad uccidere le ragazze?» gli chiese Anar curioso e disgustato allo stesso tempo.
«Era un tentativo di depistarci.. il suo vero obiettivo era quello di liberare i criminale del carcere di massima sicurezza, oltre i confini di Dragville»sussurrò il rosso indignato, digrignando i denti. «Ed io, modestamente, ho capito subito il suo piano» disse con una certa soddisfazione nel tono della voce.
«Qual è la pena?» chiese in un sussurro, senza prestare attenzione alle sue ultime parole.
«Ergastolo»disse serio e deciso. Il rosato annuì (non del tutto consapevole che il rosso non potesse vederlo) e sospirò.
«Dobbiamo ancora venire in ospedale?» gli chiese poi, stiracchiando la schiena e alzando lo sguardo verso il cielo. Ci fu un attimo di silenzio, poi un sospiro.
«No, ci vediamo a casa. Ma dì ad Estel di prepararsi»gli disse serio.
«A cosa?» gli chiese curioso.
«Lei lo sa»e con queste parole chiusero la telefonata. Estel guardò Anar curiosa e confusa.
«Chi era?» gli chiese ben consapevole della risposta.
«Mahtar» le rispose tranquillamente. Lei sospirò.
«Ci ha scoperti?» sussurrò. Lui annuì.
«Ha detto che l’assassino è stato arrestato e che noi possiamo tornare a casa; ah, ti ha anche detto di prepararti» le disse con un sorrisetto.
«Prepararmi?» gli chiese spaventata. Lui annuì, indeciso se essere preoccupato oppure divertito. Ma di fronte all’espressione terrorizzata della ragazza, decise che era meglio ridere.
«A cosa dovresti prepararti?» le chiese curioso. Lei rimase in silenzio, ma in risposta gli fece vedere una piccola cicatrice che le era rimasta sul braccio destro dall’ultima volta che si era dovuta preparare a quello.

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Capitolo 24
*** La punizione ***


La punizione

 
Estel ed Anar camminavano lentamente verso casa.
La ragazza si era ormai rassegnata all’imminente punizione. Mahtar le avrebbe fatto fare quello! Erano anni che non la puniva più in quel modo; perché proprio adesso aveva ripescato quel tipo di punizione?!
Sospirò e si passò una mano tra i capelli per cercare di rilassarsi, mentre il ragazzo che le camminava accanto la guardava divertito, portandosi dietro la sua valigia.
Era curioso di scoprire a cosa lei si dovesse preparare e, sinceramente, si divertiva davanti alla sua preoccupazione; alla fine Estel meritava quella punizione. Era scappata all’improvviso senza più far sapere niente e aveva fatto preoccupare tantissimo il suo tutore. Era normale che Mahtar l’avrebbe punita se l’avesse beccata; ed era normale che prima o poi l’avrebbe fatto.
Sospirarono entrambi e finalmente si fermarono di fronte al portone. Estel guardò il campanello con rassegnazione. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di evitare quella punizione, ma sapeva che c’era ben poco che potesse fare per convincere il rosso. Doveva fare quello. Sbuffò spazientita e bussò forte.
Non passarono neanche due secondi che il portone si spalancò mostrando un Mahtar spaventoso e furioso. Non disse nulla, ma li fece entrare in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle con un botto che li fece sussultare. I due poveretti si andarono a sedere sul divano, in silenzio. Anar lasciò andare la valigia accanto ad una parete.
Il rosso sembrava quasi uno spettro. Era vestito con un mantello nero, forse appunto per spaventarli, e aveva gli occhi spalancati. Estel rabbrividì guardandolo.
Si avvicinò al divano e uscì un braccio da sotto il mantello. In mano teneva stretta una vecchia chiave arrugginita. La ragazza deglutì, si alzò e, coraggiosamente, gli prese la chiave di mano. Lui la guardò con severità. Lei rabbrividì nuovamente.
Dopo i primi secondi di tensione e nervosismo – Mahtar se ne restava immobile senza fare o dire nulla, ma continuando a guardarla in silenzio – l’uomo mosse una mano e indicò con l’indice una piccola porta di legno.
La ragazza la guardò e, dopo essersi resa conto di non poter fare nulla per cambiare il tipo di punizione, si avvicinò alla porta e l’aprì.
Anar la guardava divertito senza accorgersi che il rosso, adesso, stava fissando lui. Il ragazzo lo guardò confuso e, quando il rosso spalancò gli occhi continuando a indicare la porta, anche lui si alzò dal divano e raggiunse la ragazza. Una volta raggiuntala, si voltò a guardare l’uomo che ancora restava immobile a fissarli, e con un sospiro oltrepassò la soglia chiudendosi la porta alle spalle.
Finalmente rimasto da solo insieme ad Estel, sospirò pesantemente e sbuffò.
«Che vuoi?» gli chiese la ragazza camminando lungo lo stretto corridoio.
«Per colpa tua sono stato punito anche io» sbuffò.
«Io non ho fatto nulla» replicò lei.
«Se non fossi scappata io non sarei uscito a cercarti» le disse, dandole tutta la colpa.
«Potevi dirlo subito a Mahtar che ero fuggita» gli disse con un sorrisetto. Lui sbuffò.
«Ingrata» borbottò e lei fece finta di non sentirlo. Continuarono a camminare fin quando non arrivarono ad una piccola scala a chiocciola. La salirono e si fermarono alla fine dei gradini.
«In cosa consiste questa punizione?» le chiese Anar, improvvisamente, preoccupato. Cosa c’era oltre quella porta?
«Dobbiamo sistemare la soffitta..» sussurrò lei, rabbrividendo.
«Solo questo?» le chiese tranquillizzato, ridacchiando. Lei lo guardò male.
«Sai cosa c’è oltre questa porta?» gli chiese seria.
«Cianfrusaglie?» le chiese divertito.
«Vivi da sempre insieme a Mahtar e non sei mai salito in soffitta?» gli chiese incredula.
«Non ho mai fatto nulla che lo costringesse a punirmi» le disse facendo spallucce. Lei sospirò e si sbatté una mano sulla fronte.
«C’è uno spettro..» sussurrò.
«Uno spettro?» le chiese stupito.
«Già..» gli rispose, sibilando.
«E allora?» le chiese confuso. «Non dirmi che hai paura dei fantasmi?» le chiese ridacchiando. Lei lo guardò male.
«Lei.. è cattiva e spaventosa..» sussurrò rabbrividendo.
«Lei?» le chiese curioso.
«Si.. è il fantasma di una donna. Eppure è cattivo solo con me anche se non ne capisco il motivo. Non è pericoloso, però se può farmi male non ci pensa due volte a colpirmi. L’ultima volta mi ha fatto cadere su una vecchia lampada di vetro e mi sono tagliata il braccio» sbuffò innervosita.
«Forse le hai fatto qualcosa» ipotizzò.
«E cosa?» gli chiese curiosa. Lui fece spallucce. Estel sospirò, inserì la vecchia chiave nella serratura della botola e l’aprì. Salì velocemente in soffitta seguita da Anar.
«Come si accende la luce?» sussurrò il ragazzo tossendo a causa della troppa polvere.
«Si deve aprire la finestra..» sussurrò Estel incamminandosi verso di essa. Quando la raggiunse, spalancò gli sportelli e si sporse per respirare un po’ d’aria pulita. Sospirò e si voltò a guardare la soffitta. C’era una confusione assurda; non avrebbero mai finito di sistemarla.. sospirò e si rimboccò le maniche della felpa. Prima avrebbe iniziato, prima avrebbe finito.
«Oh qui c’è un interruttore..» sussurrò Anar, premendolo. Una lampadina si accese e, con quella flebile luce, i due ragazzi iniziarono a sistemare.
C’erano tantissime cianfrusaglie gettate sul pavimento a marcire nella polvere; alcune erano anche molto antiche e forse potevano anche avere un valore, ma nonostante questo venivano abbandonate al loro destino. Magari, se erano oggetti di legno, diventavano lo spuntino di qualche tarma.
Estel starnutì per colpa di tutta quella polvere, avvicinandosi ad un armadio per controllare cosa ci fosse dentro. Spalancò le ante e indietreggiò urlando. Nell’armadio c’era una chiara e trasparente testa fluttuante.
Anar, preoccupato, si avvicinò alla ragazza e controllò dentro l’armadio.
«Qui non c’è nulla..» le disse serio. Lei cercò di respirare lentamente e incrociò le braccia sbuffando.
«Hai visto? Fa spaventare soltanto me! Era lei!» sbuffò arrabbiata.
«Il fantasma?» le chiese incredulo. Lei annuì e lui ridacchiò.
Sbuffando, Estel gli voltò le spalle e iniziò a sistemare gli oggetti che si trovavano sul pavimento. Le dava fastidio che Anar dovesse prenderla in giro. Il fantasma c’era veramente!
Sbuffò e si abbassò per prendere un vecchio lenzuolo. Adesso si sentiva più nervosa. Ora che lo spettro si era fatto vedere, significava che l’avrebbe tormentata per tutto il tempo che sarebbero rimasti in quella soffitta. L’unica consolazione che riusciva a darsi era che probabilmente anche Anar sarebbe riuscito a vederlo e che anche lui si sarebbe spaventato, almeno un pochino.
«Buh!» urlò qualcuno alle sue spalle. Si voltò di scatto e vide il ragazzo, a pochi centimetri da lei, che stava morendo dal ridere. Arrabbiata, si voltò nuovamente e continuò a sistemare.
Stranamente il fantasma non si presentò più e, dopo due ore di pesante lavoro, si prepararono a lasciare quella stanza. Improvvisamente però, una mano spettrale si posò su quella di Estel costringendola a voltarsi.
«Eccoti..» borbottò al fantasma. Davanti a lei c’era una fluttuante figura femminile. Indossava un lungo abito elegante e non sembrava che fosse vecchia. Nel senso gli abiti che indossava facevano credere che fosse morta soltanto da qualche anno. Aveva due occhi chiari ed espressivi e la bocca, nonostante spesso le facesse qualche scherzo, mostrava un sorriso gentile. L’unica cosa che la rendeva spaventosa era la parte superiore della sua testa dove c’era un grosso bendaggio con macchie scure di sangue. Probabilmente era morta a causa di quella brutta ferita.
«Ciao» le disse con la sua voce bassa e tenebrosa.
«Cosa vuoi da me?» le chiese scortesemente.
«Voglio farti vedere una cosa» le disse con un sorriso. Estel la guardò diffidente, ma si fece vincere dalla curiosità e si lasciò guidare attraverso la soffitta, sotto lo sguardo incredulo di Anar.
Lui sapeva benissimo che i fantasmi esistevano davvero, ma non si sarebbe mai aspettato di vederne uno in casa propria. Sbatté le palpebre e seguì le due donne.
Il fantasma si fermò davanti a uno specchio. Estel la guardò, in attesa.
«Cosa volevi mostrarmi?» le chiese impaziente. La donna le sorrise. Poi la spinse conto il vetro. Lo specchio si frantumò sotto il peso della ragazza, graffiandole il viso e strappandole il maglioncino leggero che indossava. Estel iniziò a tremare per la rabbia. Si era fatta prendere in giro di nuovo! E adesso era tutta sanguinante e dolorante!
Si voltò a fissare lo spettro che, divertito, rideva a crepapelle.
«Sei una.. perché ce l’hai con me?!» le urlò furiosa. Il fantasma non le rispose, ma continuò a ridere come se lei non avesse parlato. Estel strinse i pugni per la rabbia.
«Tutto bene?» le chiese all’improvviso Anar preoccupato. Lei lo guardò.
«Tutto benissimo..» sussurrò sarcastica. Lui sbuffò.
«Torniamo sotto» le disse aiutandola per farla alzare. Lei sbuffò, ma si lasciò prendere senza troppe storie. Però, proprio mentre lui la stava per alzare dai frantumi dello specchio, lei si gettò nuovamente sul pavimento.
«Sei scema, per caso?> le chiese il ragazzo stupito. Lei non gli rispose, ma fissò attentamente il qualcosa che sbucava dai resti di vetro che erano rimasti incollati alla struttura dello specchio. Curiosa, prese il primo oggetto che le capitò sotto mano, e iniziò a colpire il vetro. Anar la bloccò incredulo.
«Che diamine stai facendo?» le chiese perplesso.
«Voglio vedere una cosa.. lasciami!» gli urlò divincolandosi.
«Perché stai sparpagliando ovunque i pezzi di vetro? Vuoi per caso tagliarti una vena?!» le urlò. Lei non gli rispose.
«C’è nascosto qualcosa dietro lo specchio..» sussurrò. Anar guardò attentamente e notò che la sua amica aveva ragione.
«Dammi qua» le disse prendendole l’oggetto di mano. La fece allontanare e prese il suo posto nel cercare di distruggere ogni pezzo di vetro che impediva di recuperare l’oggetto nascosto. Finalmente, dopo gli ultimi colpi, riuscì a liberarsi la strada.
Estel si sporse sulla vecchia struttura di legno e, incredula, guardò il vecchio ritratto che avevano appena trovato.
«Era questo che volevi mostrarmi?» chiese. Si voltò di scatto e notò che la donna non c’era più. Sospirò, prese il ritratto sotto braccio e si preparò per scendere da Mahtar; aveva qualcosa da spiegarle e lei sarebbe riuscita a farlo parlare. Ormai non poteva più tacere.

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Capitolo 25
*** Spiegazioni ***


Spiegazioni

 
Dopo aver chiuso accuratamente la botola, Estel ed Anar si diressero nuovamente verso il salotto, dove probabilmente li aspettava Mahtar.
«Abbiamo finito» disse Anar al rosso chiudendosi la porta alle spalle e dirigendosi verso il divano. Quello si voltò a guardarlo con uno sguardo severo, anche se si vedeva che ormai non era più davvero arrabbiato. «È finita la punizione?» gli chiese seccato incrociando le braccia dato che l’uomo non rispondeva. Estel sbuffò seccata e gli si avvicinò.
«Smettila di fare sceneggiate» gli disse bruscamente, tenendo saldamente il dipinto.
«Come ti permetti a parlarmi così!?» le chiese Mahtar arrabbiato, spalancando gli occhi incredulo. Estel non gli aveva mai parlato in quel modo!
Lei sbuffò e inarcò le sopracciglia. Era arrabbiata e anche un po’ dispiaciuta. Per lei Mahtar era come un padre; allora perché le teneva nascosti fatti importanti?  
«Cos’è questo?» gli chiese sventolandogli davanti il vecchio ritratto. L’uomo lo guardò incredulo e stupito per qualche secondo. Alzò le mani lentamente per sfiorare quel leggero tessuto di pelle dipinta, come se non credesse a ciò che stava vedendo. Ma le sue dita, tremanti, non riuscirono a toccarlo e si afflosciarono lungo i suoi fianchi, come esseri di gomma.
«Dove l’hai trovato?» le sussurrò deglutendo. Lei lo guardò curiosa e al tempo stesso confusa dalla sua reazione, ma non rispose alla sua domanda.
«Chi è questa donna? E perché indossa il ciondolo che mi hai regalato?» gli chiese cercando di non sembrava aggressiva. Il ritratto raffigurava il busto di una donna che aveva legato al collo lo stesso ciondolo che Estel aveva ricevuto in dono al suo compleanno. La donna aveva le mani intrecciate in grembo, mentre la parte che avrebbe dovuto raffigurare il viso era stata strappata via; infatti, in mezzo al ritratto, c’era un buco abbastanza grande. Chissà chi aveva osato rovinarlo in quel modo..
Il rosso si massaggiò le tempie e si sedette sul divano con ancora la mano sugli occhi. Estel si sedette sulla poltrona davanti, mentre il rosato si appoggiò allo stipite della porta della stanza, incuriosito.
Mahtar sospirò ed Estel incrociò le braccia sul petto, con la fronte aggrottata, poggiando con cura il ritratto sul pavimento. Fissò lo sguardo in quello del rosso. I suoi occhi erano accesi di un antico dolore e per qualche secondo, la ragazza si pentì di avergli fatto tornare in mente ricordi tristi. Si morse un labbro e scompose la sua espressione da persona dura. Il rosso sospirò nuovamente e si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle proprie ginocchia.
«Lei era mia moglie..» sussurrò guardando fisso il pavimento. Estel spalancò gli occhi incredula. Quella notizia era come un fulmine a ciel sereno. Conosceva Mahtar da quando era bambina e non l’aveva mai visto interessato alle donne; non poteva credere che fosse stato sposato!
Poi, però le si diffuse in testa l’assoluta verità che lei non conosceva il rosso; o meglio, si rese conto che prima del loro incontro anche lui aveva avuto una vita e che aveva vissuto le sue esperienze. Perché non avrebbe dovuto, in fondo? Era normale una cosa del genere. Anzi, era stupido pensare che la sua vita fosse iniziata con il loro incontro.. eppure lei se n’era resa conto solo in quel momento..
«Non sapevo che tu fossi sposato..» gli sussurrò mordendosi il labbro inferiore. Lui la guardò e di lasciò sfuggire un sorriso amaro. Gli occhi, scuri, le penetrarono lo sguardo e gli rivelarono l’enorme tristezza che tentavano di tenere nascosta. Estel non poté che tramutare la sua espressione in una maschera di pena e senso di colpa. 
«È stato tanto tempo fa..» sussurrò massaggiandosi la testa; si vedeva che ancora il ricordo lo faceva soffrire e stare male. Si prese bruscamente la testa tra le mani come a voler frenare i ricordi che gli invadevano la mente; i capelli rossi gli ricadevano a ciocche sulla fronte e gli creavano delle strane ombre sul viso.
«Cosa le è successo?» gli chiese Anar sedendogli accanto a lui sul divano. Gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla come a volerlo sostenere in quella dura lotta che stava facendo contro il proprio passato. Il rosso rimase un attimo in silenzio, ma non si mosse per far cessare quel contatto. Sembrava quasi che non stesse più prestando attenzione a ciò che gli accadeva intorno. Aveva lo sguardo velato e sembrava perso nei suoi ricordi.
Estel si protese automaticamente verso di lui, incuriosita dal suo particolare atteggiamento. Lui sbatté le palpebre e la guardò.
«È morta..» sussurrò alzandosi, lasciando quelle parole a fluttuare nell’aria, mentre il loro effetto colpì violentemente i cuori dei due ragazzi. Camminò lentamente verso la finestra e lì si fermò per far vagare il proprio sguardo sul paesaggio illuminato dal sole.
Estel era rimasta senza parole. Aveva appena scoperto che Mahtar aveva avuto una moglie, che era stato innamorato di qualcuno. Magari aveva vissuto momenti felici e aveva anche progettato tante cose insieme a lei.. purtroppo però, gli era stata strappata via. Chissà quanto doveva soffrire per questo..
«Come?» gli chiese in un sussurro, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Non riusciva a sopportare il dolore che nascondevano; si sentiva quasi colpevole della sua sofferenza. Quasi le mancava la voce; si sentiva in colpa per avergli risvegliato quei ricordi, eppure non riusciva a non fargli domande su quella donna che era stata sua moglie. In fondo, lui per lei era come un padre vero, quindi era normale che si interessasse alla sua vita; era normale che le dispiacesse vederlo star male.
«L’hanno uccisa..» sussurrò con una nota indescrivibile nella voce; Anar spalancò gli occhi e lanciò un’occhiata carica di stupore e orrore alla ragazza seduta sulla poltrona; Estel spalancò gli occhi incredula e si portò una mano davanti alla bocca, come a reprimere un urlo di orripilato stupore.
Era.. morta?
Si alzò dal divano e fece per avvicinarsi a Mahtar, magari per abbracciarlo o soltanto per renderlo consapevole della propria presenza, ma quello riprese a parlare, immobilizzandola immediatamente.
«Era un giorno di primavera; il vento soffiava leggero e faceva oscillare lievemente le chiome degli alberi che attorniavano casa nostra. Lei stava preparando la cena; era tranquilla e serena, quando all’improvviso le si avvicinò Ainur con il suo coniglio stretto tra le braccia. Mia moglie le sorrise e la prese tra le braccia. Ainur le posò delicatamente una mano sul viso, come per farle una carezza; ma non c’era nulla di dolce nel suo movimento. Al contatto con la mano della bambina, il viso di mia moglie iniziò a bruciare. La sentii urlare di dolore, ma non fece nulla per ferire quella bambina. Arrivai in cucina che era già morta. Tutta la parte superiore del viso bruciata e rovinata» sussurrò lanciando un’occhiata carica di dolore ad Estel che incredula lo fissava a bocca aperta. Si accasciò sulla poltrona e deglutì. Quasi riusciva a sentire il dolore che Mahtar stava provando in quel momento. Si, probabilmente erano passati anni da quel fatto orribile, eppure ancora il ricordo era vivo nella sua mente e il dolore non si era alleviato neanche un po’: continuava a tormentarlo e perseguitarlo, giorno dopo giorno, senza mai dargli tregua.
Sentì goccioline di sudore freddo scenderle lungo la schiena e si sentì quasi sul punto di piangere. Ebbe l’impressione che tutto il corpo le stesse andando a fuoco e per qualche secondo non riuscì neanche a spostare lo sguardo dal pavimento. Si sentiva inchiodata sulla poltrona da qualcosa che neanche conosceva.
Perché percepiva le sue emozioni in quel modo? Sentiva il cuore come straziato da una profonda ferita che non si sarebbe mai potuta rimarginare. Sentiva il sangue che le scorreva velocemente nelle vene, come se si fosse sottoposta ad un’iniezione di adrenalina. Sentiva il proprio respiro accelerato e irregolare.
Cercò di calmarsi e di non farsi coinvolgere troppo dalle emozioni del rosso, ma già era abbastanza coinvolta per cercare di calmarsi in quel momento.
«Ma.. cosa ci faceva Ainur con tua moglie?» gli chiese Anar confuso, alzandosi di botto. Il rosso gli lanciò uno sguardo di rimprovero, ed Estel lo guardò incuriosita. In effetti non aveva fatto caso a quell’informazione; ma ora che ci pensava Anar aveva ragione. Perché Ainur era a casa sua?
Entrambi guardarono il rosso e questo alla fine sospirò, massaggiandosi violentemente le tempie.
Voltò loro le spalle e si concentrò sul paesaggio fuori dalla finestra. Sul marciapiede stava passeggiando un bambinetto tutto allegro che canticchiava e si leccava soddisfatto un enorme lecca-lecca. Poco dietro di lui, un uomo e una donna camminavano lentamente, sorridendo e lanciando di tanto in tanto un’occhiata al bambino per assicurarsi che stesse bene. Quel bambino era davvero fortunato.
«Era nostra figlia..» sussurrò all’improvviso. Estel ed Anar spalancarono la bocca increduli. Il rosato lanciò uno sguardo carico di stupore ed orrore alla ragazza che gli stava seduta di fronte. Lei non riuscì a pensare a nulla da dire o fare.
Mahtar era stato sposato ed era addirittura diventato padre di una bambina pericolosa.
Deglutì e si alzò stringendo i pugni, cercando di trattenere le lacrime. Odiava far vedere agli altri le proprie lacrime. 
«Quindi esiste davvero.. Ainur?» sussurrò, pur conoscendo ormai la risposta. Anar e Mahtar la fissarono senza dire una parola. Questa era l’ennesima conferma alla sua domanda. Ma la sua strana reazione alle parole di Mahtar, derivava dalla paura? Aveva paura di credere nell’esistenza di Ainur e del coniglio malefico? Aveva paura di sapere che Mahtar avesse una figlia? «Perché non me ne hai mai parlato?» chiese al rosso guardandolo dritto negli occhi. Il rosso la guardò confuso e accigliato.
«Cosa?» le chiese avvicinandosi stupito.
«Perché non mi hai mai parlato di loro?» gli urlò. Spalancò gli occhi incredula; non sapeva neanche lei perché si stava comportando in quel modo, ma sapeva che la sua storia per lei era importante. Alla fine per lei era suo padre!
«Non mi sembrava una cosa importante» le disse confuso posandole le mani sulle braccia. Lei lo guardò dritto negli occhi e si morse il labbro inferiore, consapevole che ormai le lacrime erano sul punto di uscire fuori. «Non volevo addolorarti con un passato triste e malinconico. Non c’era motivo di raccontarti una storia così brutta» le disse guardandola con uno sguardo dolce e intenerito.
Lei si passò una mano sotto il naso e lo guardò dritto negli occhi.
«Per me è importante qualunque cosa ti riguardi» gli sussurrò lentamente; «Mi sembra abbastanza normale da credere; sei mio padre..» sussurrò abbassando lo sguardo.
All’uomo brillarono gli occhi per la commozione. Sapeva che Estel gli voleva bene, ma non l’aveva mai chiamato in quel modo. Papà.. suonava bene però. Le sorrise intenerito a la strinse a sé, in uno degli abbracci più paterni e sicuri che le avesse mai dato.

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Capitolo 26
*** Novità ***


Novità

 
Era passato un altro giorno e il cielo si era ormai oscurato da un pezzo.
Estel se ne stava chiusa in quella che era la sua nuova camera; era sdraiata sul letto come spiritata.
Non riusciva a credere che Mahtar fosse stato sposato e avesse avuto addirittura una figlia. Era una cosa incredibile. Forse era per questo che era così affettuoso con lei; forse la vedeva soltanto come un rimpiazzo..
Sbuffò e si sdraiò a pancia un su, fissando con sguardo vacuo il tetto che la sovrastava. Scosse la testa. Mahtar non era una persona del genere; ma in fondo poteva lei dire di conoscerlo davvero? Alla fine aveva scoperto soltanto ora qualcosa del suo passato.. chi le diceva che con lei fosse sempre stato sincero?
Scosse la testa e si alzò. Non voleva fare pensieri negativi sul rosso. Lui le voleva bene sul serio; non la considerava un rimpiazzo.
Ne sei sicura?
Estel fece un balzo e si appiattì contro la parete spaventata. Qualcosa nella sua mente aveva parlato, ma era sicura di non essere stata lei. Era una voce esterna, eppure vagamente familiare.
Si guardò intorno disorientata.
«Chi sei?» chiese ad alta voce e si sentì tremendamente stupida. Con chi diamine stava parlando? Si era rincretinita?
Un tuo vecchio amico.
La voce parlò nuovamente e questa volta lei si immobilizzò. Non se l’era immaginata, ma allora chi diamine era che stava parlando? E soprattutto, dov’era?
So quello che stai pensando, cara Estel. Ma stai tranquilla, non ti farò del male. Sono qui per aiutarti.
Estel spalancò gli occhi terrorizzata e si fiondò fuori dalla sua stanza. Corse in bagno e si sciacquò il viso. Stava diventando pazza; sentiva voci che non appartenevano a nessuno. Cosa doveva fare? Doveva parlarne a Mahtar?
Si guardò allo specchio e scosse la testa. Non era il caso di farlo preoccupare più del dovuto.
Perché ti preoccupi tanto per lui? Ti ha tenuta nascosta la verità del suo passato. Per lui non sei nessuno; una semplice ruota di scorta; un rimpiazzo alla sua adorata Ainur.
Estel scosse la testa e se la prese tra le mani, con un gesto disperato.
«Sta zitto..» sussurrò chiudendo gli occhi.
Non ti rispetta e non ti ama.
«Zitto, ho detto» disse più forte.
Ti ha sempre mentito.
«Basta!» urlò accovacciandosi su se stessa sul pavimento della stanza. Rimase in attesa che la voce parlasse di nuovo, ma con sollievo, si accorse che era sparita. Poi d’un tratto qualcuno bussò alla porta del bagno facendola sussultare.
«Estel? Tutto bene?» era la voce di Anar e aveva un tono preoccupato. Lei cercò di calmarsi. Aveva il cuore che batteva a mille e il respiro affannato. Si alzò dal pavimento e si sciacquò il viso nuovamente.
«Estel?» la chiamò nuovamente, decisamente preoccupato. Lei si specchiò e guardando il suo riflesso, non poté che paragonarsi ad un fantasma. Era più pallida di un cadavere; o, dato che questo era praticamente impossibile, quasi.
Si stampò un sorriso sulla faccia ed aprì la porta. Davanti a lei comparve il rosato. Aveva la fronte corrugata e la braccia incrociate. La guardò confuso e alzò un sopracciglio.
«Perché hai gridato?» le chiese guardandola dritto negli occhi. Lei si irrigidì e cercò di non fargli notare la propria tensione. Far credere ad Anar di essere diventata pazza non rientrava certo fra i suoi desideri. E probabilmente quelle voci erano soltanto frutto dello stress che stava provando in quel momento. Inutile far preoccupare qualcuno. Deglutì e distolse lo sguardo dal suo.
«Non faccio che pensare ad Ainur, quindi mi sono imposta di smetterla» gli disse tormentandosi le dita. Lui la guardò in silenzio.
«Ce la fai?» le chiese con un tono strano. Lei si morse il labbro inferiore.
«Non so..» ammise, guardando il pavimento. Lui sospirò.
«Forse ti conviene riposare un po’» le disse poggiandole una mano fra i capelli. Un suo dito le sfiorò la punta dell’orecchio destro e la fece rabbrividire.
«Forse hai ragione» gli rispose scrollando le spalle. Lui continuò a guardarla in silenzio, ma lasciò cadere la mano. Lei sospirò. «Beh, allora vado a dormire; buonanotte» gli disse allontanandosi.
«’Notte» gli rispose lui in un sussurro.
Estel sospirò ed entrò nuovamente nella sua stanza. Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi cercando di pensare a qualunque cosa, meno che alla voce misteriosa.
Cosa ti preoccupa?
Le chiese quella, frantumando ogni sua flebile speranza. Prese un profondo respiro e cercò di non farsi prendere dal panico. “Se non le rispondo, smetterà di parlare” pensò. Ma si sbagliava.
Posso leggere dentro il tuo cuore, Estel. Non ho bisogno che tu mi parli. Ma sappi che io ti posso aiutare. So che vuoi andare a cercarla.
Estel sbatté le palpebre incredula, sedendosi sul materasso. Credere che quella voce fosse soltanto il frutto della sua immaginazione era la risposta più ovvia, eppure non poteva partire dalla sua fantasia. Era troppo particolare e sconosciuta. E poi pensare che la voce ci fosse davvero era una consolazione per lei, seppur magra. Almeno sapeva di non essere impazzita davvero.
«Chi?» le chiese in un sussurro, sentendosi stupida come la prima volta che le aveva parlato.
Vuoi andare a cercare Ainur.
Le disse la voce. Lei spalancò gli occhi incredula. In realtà, non ci aveva minimamente pensato; ma adesso che sentiva una cosa del genere, le sembrava un qualcosa di giusto da fare. Avrebbe potuto portarla di nuovo da suo padre cosicché sarebbero stati felici entrambi. Che quella voce fosse capace di leggere nel suo incoscio? O magari era il suo incoscio a parlarle in quel modo?
Scosse la testa e si premette le mani sul viso. Anche solo farsi dei simili problemi le dava la conferma di essere impazzita.
«Perchè dovresti aiutarmi?» le chiese arrendendosi all’idea che forse qualcuno la stava contattando per via telepatica. La voce per qualche secondo non le rispose.
Io ho bisogno di lei.
«Perché?» gli chiese confusa, incrociando le braccia sul petto, senza poter frenare la propria curiosità. Ci fu un attimo di silenzio. Estel pensò che la voce avesse finito finalmente di tormentarla, ma qualcosa le suggeriva che non era così. Sentiva l’eco di un mormorio intrappolato nelle orecchie.
Perché io sono Vortha.La voce sibilò in tono cupo ed Estel balzò in piedi spaventata. Possibile che stesse realmente parlando con Vortha? Se si, perché aveva contattato lei? Cosa voleva da lei?
Scosse la testa e per qualche secondo si convinse di essere impazzita davvero. Era impossibile anche soltanto credere che stesse parlando con Vortha. Era davvero la cosa più stupida che potesse pensare. Vortha, il coniglio diabolico della bambina indemoniata era lì che parlava con lei?
Rise, incredibilmente, e si accasciò tra i cuscini. Se era impazzita davvero, almeno poteva affrontare la situazione con ottimismo e prenderla a ridere. Avrebbe parlato con Mahtar e lui l’avrebbe fatta rinchiudere da qualche parte.
La voce nella sua testa ringhiò come a volerla farla concentrare sulla loro discussione.
Tu vuoi trovare Ainur e anche io lo voglio. Insieme potremmo farcela più facilmente.
Lei rimase in silenzio. Aveva il cuore che le batteva a mille e il respiro troppo rumoroso per i suoi gusti. Si che ormai si era convinta che il suo cervello avesse perso qualche rotella, ma anche soltanto l’idea che Vortha le stesse parlando le creava uno strano stato d’animo. Doveva parlarne davvero con Mahtar? Dirgli che aveva iniziato a sentire voci strane che si spacciavano per quel coniglio diabolico?
Io non lo farei. Mahtar potrebbe trovarmi e distruggermi e in questo modo non potremmo trovarla mai.
Estel si morse il labbro inferiore e deglutì. Trovare Ainur era una buona cosa; avrebbe potuto farla ricongiungere con su padre e lui probabilmente sarebbe stato felice. Ma cosa doveva fare? C’era da fidarsi di quella voce? Era davvero Vortha? O lei era impazzita?
Certo che sono io. Sono nascosto qui nella tua stanza.
Estel spalancò gli occhi incredula. Adesso si che ne era sicura; era uscita fuori di senno. Non aveva mai avuto un coniglio bianco! Com’era possibile che si fosse materializzato nelle sua stanza?
Tua madre mi ha messo nella tua valigia; ed eccomi qua.
La ragazza si tormentò il labbro inferiore; sua madre era davvero una donna odiosa, ma neanche lei sarebbe arrivata a tanto; neanche lei gli avrebbe nascosto un coniglio assassino nella valigia. O forse si?
Strinse i pugni dalla rabbia e digrignò i denti. Si avvicinò alla propria valigia e iniziò a svuotarla di tutto quello che c’era dentro. Più la svuotava più si convinceva che qualcuno si stesse prendendo gioco di lei; ma alla fine lo vide. Nascosto sotto una leggera felpa azzurra, stava un coniglietto bianco, morbido e dagli occhi troppo furbi e vigili per essere soltanto il frutto del lavoro di un’abile artigiano.
Si portò una mano davanti alla bocca, spaventata, e scosse la testa. Non era pazza, (e questo poteva essere un conforto), ma Vortha era davvero lì con lei in quella stanza. Lo prese con mano tremante e lo guardò più da vicino. Sembrava vivo, e nel petto c’era qualcosa che batteva, come se fosse dotato di un minuscolo cuore.
Deglutì e, man mano che passava il tempo, si sentiva stranamente più tranquilla; tenere quel coniglio in mano le dava una sensazione di calma assurda. Spaventata da questo, lo gettò nuovamente nella valigia e lo coprì con i propri vestiti, chiudendo velocemente la cerniera.
Una volta finito tutto, ci si sedette sopra e prese un gran respiro.
Ti lascerai aiutare?
Le sussurrò la voce di Vortha, così dolcemente che le sembrò quasi una carezza. Estel deglutì, ma non rispose. Si alzò e uscì a gran passi dalla stanza.

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Capitolo 27
*** La storia di Anar ***


La storia di Anar

 
Estel si chiuse velocemente la porta alle spalle. Era spaventata e talmente tanto confusa da non capire nemmeno dove stesse andando. Si fermò in mezzo al corridoio e si guardò intorno. Proprio alla sua destra, sopra un mobiletto di legno, c’era uno specchio quadrato. Guardò il proprio riflesso per qualche secondo, ma poi all’improvviso le si materializzò davanti il ricordo dello sguardo del coniglio. Quegli occhi erano talmente luminosi e penetranti che per qualche secondo riuscì a convincersi che Vortha fosse realmente davanti a lei. Ma quando sbatté le palpebre, si accorse che l’immagine era sparita così velocemente come era comparsa.
Scosse la testa e deglutì rumorosamente. Non era il caso di lasciarsi suggestionare troppo; avrebbe finito con l’impazzire davvero se avesse continuato a pensare a quel coniglio.
Si passò disperatamente una maso sul viso, massaggiandosi la fronte come per cercare di tranquillizzarsi. Poi sospirò e continuò a camminare. Dal salotto proveniva una flebile luce rossastra, segno che il camino era ancora acceso e che qualcuno si era addormentato sul divano. Entrò nella stanza e si lasciò accarezzare dal calore delle fiamme che scoppiettavano allegramente e che riuscirono, almeno in parte, a tranquillizzarla. Le davano una calda sensazione di sicurezza.
Poi il suo sguardo si posò sul divano e si accorse che l’ sdraiato non c’era nessuno. Invece, sdraiato sul tappeto rosso, c’era Anar, i capelli illuminati dal riflesso delle fiamme. Era sdraiato a pancia in su con una mano dietro la testa e l’altra sul petto. Aveva gli occhi chiusi e le labbra leggermente socchiuse, segno che stava dormendo.
Per un momento, Estel dimenticò ciò che era appena accaduto in camera sua e restò immobile ad osservare il ragazzo. Le ciocche di capelli che gli ricadevano sulla fronte creavano delle strane ombre sul suo viso, così come le ciglia. Il braccio che aveva portato dietro la testa, piegato in quel modo, metteva in risalto i suoi muscoli anche sotto la felpa pesante.
Estel ebbe per qualche secondo l’impulso di toccarli, ma riuscì a trattenersi. Non era opportuno agire in quel modo. Sospirò e gli si sedette accanto, continuando a fissare le fiamme che scoppiettavano nel camino. Il loro movimento ipnotico riuscì a non farla concentrare su pensieri negativi; e alla fine esse riuscirono a farle venir voglia di dormire. Si sdraiò accanto al rosato, poggiando il viso sulle mani; chiuse gli occhi e velocemente si addormentò.
 
Durante il sonno sentì qualcosa di caldo toccarle le braccia. Si mosse lentamente e protese verso quel qualcosa come a voler mantenere quel contatto improvviso. Poi si accorse che quel qualcosa, o meglio qualcuno, l’aveva delicatamente presa in braccio e aveva iniziato a camminare.
«No..» sussurrò lei aprendo improvvisamente gli occhi. Aveva paura che chi l’avesse presa in braccio la stesse portando nella sua camera, e lei non voleva.
«Cosa?» le chiese dolcemente la voce familiare del rosato. Estel sospirò e chiuse gli occhi per il sollievo. Era contenta che quel qualcuno insieme a lei, fosse Anar.
«Non voglio dormire in camera mia; rimettimi sul tappeto» gli disse, sbuffando,  cercando di aprire nuovamente gli occhi.
«Perché?» le chiese Anar, curioso, continuando a camminare.
«Non mi piace..» gli sussurrò in maniera quasi incomprensibile. Aveva ancora sonno e questo sembrava volesse prendere il sopravvento. Il ragazzo sorrise.
Estel si strinse più contro il suo petto. Era una bella sensazione essere tra le sue braccia; le dava un senso di affetto, protezione e calore. Non voleva che la lasciasse andare. Tra le sue braccia non aveva paura e non riusciva neanche a pensare a quello che le era successo in camera sua. La voce che le parlava, il coniglio nella valigia, l’incredibile sensazione di essere davvero diventata pazza..
Il ragazzo si fermò all’improvviso. Estel lo sentì aprire la porta per poi riprendere a camminare. Aprì lentamente gli occhi e si accorse di essere nella stanza di Anar.
Quello si fermò in procinto del letto e vi poggiò sopra, delicatamente, la ragazza semi dormiente.
«Buonanotte» le disse dolcemente accarezzandole la fronte. Lei sorrise debolmente e sbadigliò. Poi, però, dal rumore dei suoi passi, si accorse che Anar stava uscendo dalla stanza. Questo la terrorizzò. Non voleva restare da sola; non voleva sentire nuovamente la sua voce. Si sedette di botto e con un’energia che la sorprese, balzò giù dal letto e corse verso il ragazzo, bloccandolo da un polso.
Quello voltò il viso a guardarla con un’espressione confusa e curiosa.
«Tutto bene?» le chiese gentilmente. Lei prese un sospiro e deglutì. Teneva lo sguardo basso e aveva paura di guardarlo negli occhi. Anar si girò completamente verso di lei, poggiandole le mani sulle spalle. «Estel?» la chiamò con un tono di voce preoccupato. Lei continuava a prendere grandi respiri.  
«Non te ne andare..» gli sussurrò poi alzando finalmente lo sguardo. Anar, in piedi accanto a lei, aveva un’espressione confusa. «Non voglio dormire da sola..» gli disse mordendosi il labbro inferiore. Il rosato la guardò e si lasciò sfuggire un sorriso e un sospiro.
«Come no; ammettilo che non riesci a resistere al mio fascino» le disse con un sorrisetto andando a chiudere la porta. Estel lo guardò incredula e si diresse nuovamente verso il letto, sedendosi sul materasso con le gambe incrociate.
«Quale fascino, scusa?» gli chiese sdraiandosi sotto le coperte, riacquistando vigore. Lui si sdraiò accanto a lei, su un fianco. Lei gli dava le spalle e teneva testardamente gli occhi chiusi. Anar le sistemò una ciocca dietro l’orecchio e vi soffiò dentro, delicatamente, facendola rabbrividire.
Lei sbuffò. Come poteva dormire se Anar la stuzzicava in quel modo?!
«Quindi dici di riuscire a resistere al mio fascino?» gli sussurrò poggiandole una mano su un fianco e massaggiandoglielo delicatamente.
Le sue mani, così delicate, e la sua voce, così sensuale e dolce, per un momento le fecero venir voglia di saltargli al collo e di impossessarsi di quelle labbra così impertinenti. Ma si trattenne dal farlo; non poteva dargliela vinta.
«Chi ti da il permesso di toccarmi?» gli disse girandosi per fissarlo negli occhi. Stava sorridendo e aveva uno strana luce negli occhi.
«Ti da fastidio?» le chiese in un sussurro, portandosi una mano dietro la testa e guardandola con uno sguardo malizioso. “Certo che no!! Continua!!” pensò lei tra sé e sé; ma si trattenne dal rispondergli in quel modo.
«Si» gli disse incrociando le braccia. Lui la guardò e scoppiò a ridere.
«Okay, come vuoi; buonanotte allora» le disse dolcemente. Lei sbuffò, ma non poté evitare di sorridere.
 
Quella mattina, Estel si svegliò presto. Anar ancora le dormiva a fianco, con le labbra leggermente socchiuse. Sorrise intenerita e si sistemò una ciocca dietro i capelli.
Poi, delicatamente, si mise a cavalcioni sul ragazzo, cercando di non svegliarlo, per scendere dal letto.
«Buongiorno a te» le disse all’improvviso quello. Estel lo guardò immediatamente, e notò che le stava sorridendo. Fece un balzò e cadde sul pavimento.
Anar si sedette sul materasso e la guardò con un sorrisetto.
«Potevi anche dirmelo che volevi fare qualcosa; non dovevi per forza aspettare che mi addormentassi» le disse ridacchiando. Lei sbuffò e incrociò le braccia.
«Stupido, dovevo scendere, ecco perché ti sono passata di sopra» gli disse alzandosi.
«È quello che dicono tutte» le disse alzandosi anche lui e stiracchiandosi.
«Quali tutte, scusa?» gli chiese sarcasticamente sbuffando.
«Tutte le altre» le rispose quello incrociando le braccia. Lei lo guardò, ma decise di non rispondergli. Rise ed uscì tranquillamente dalla stanza. Sbadigliando, raggiunse la propria stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Buongiorno.
Vortha le parlò nuovamente. Lo stesso tono delicato della sera prima.
Estel si irrigidì immediatamente. Per tutta la notte non aveva minimamente pensato a quello che le era successo. Aveva dormito tranquillamente, grazie alla presenza di Anar e non si era più preoccupata di nulla.
«Che vuoi?» gli chiese lentamente, senza avvicinarsi al letto.
Ho un indizio per te.
Lei rimase in ascolto, mantenendo un’espressione per metà diffidente, ma il coniglio non continuò a parlare.
«Che indizio?» gli chiese incrociando le braccia, sbuffando impaziente.
Conosci il vecchio istituto che c’è verso la fine del paese?
Estel corrugò la fronte interessata.
«Certo» .
 
Era quasi mezzogiorno e ancora Estel non usciva dalla sua camera.
«Cosa sta facendo quella ragazza? È tutta la mattina che è chiusa lì dentro» sbuffò Mahtar intrecciando le mani sul tavolo della cucina. Anar era poggiato alla lavastoviglie, con le braccia incrociate e un’espressione assonnata.
«Forse è rimasta particolarmente colpita da ciò che le hai detto ieri» gli disse scrollando le spalle. Il rosso lo guardò con uno sguardo particolare.
«Credi?» gli chiese, preoccupato. Lui fece spallucce.
«Non so; ma per lei è un duro colpo» gli rispose guardandolo.
«Per te no?» gli chiese alzando un sopracciglio.
«Non troppo; ora mi spiego molte cose» gli sussurrò, restando immobile. Il rosso lo guardò incuriosito.
«Del tipo?» gli chiese, poggiando il mento sulle mani incrociate.
«Il perché tu sia tanto fissato con lei» gli rispose facendo spallucce. Il rosso, socchiuse gli occhi, ma non gli disse nulla. Restarono in silenzio per qualche altro minuto. Estel ancora non arrivava.
Anar si affacciò alla finestra e rimase immobile a guardare il nulla.
«Cos’hai?» gli chiese all’improvviso Mahtar, notando la sua espressione assente e puntando il suo sguardo nei suoi occhi verdi e tempestosi. Questo, sbatté le palpebre incredulo.
«Come, scusa?» gli chiese, innocentemente.
«Vedo che c’è qualcosa che ti preoccupa; cos’è?» gli chiese appoggiandosi contro lo schienale della sedia e incrociando le braccia. Anar si morse il labbro inferiore; dopodichè si sedette di fronte al rosso.
«Estel mi ha fatto guardare le stelle» sussurrò, intrecciando le mani sul tavolo. L’uomo lo guardò, incuriosito.
«E cosa hai visto di particolare?» gli chiese, stuzzicandosi il labbro. Il ragazzo rimase in silenzio per qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore. Non ne aveva parlato ancora con nessuno; sentiva che c’era qualcosa di esageratamente intimo e personale in quella visione, ma aveva bisogno di qualcuno per capirla. Sospirò, guardandosi le mani.
«Ho visto delle figure in una casetta: un uomo, una donna e un bambino. Erano felici e allegri; il bambino giocava e i genitori sorridevano. Poi è comparsa una terza figura; credo fosse un bambino e teneva qualcosa stretto in mano; si è avvicinato alle figure nella casa ed ha allontanato il bambino, nonostante questo l’avesse invitato a giocare con lui; e poi ha fatto crescere le fiamme nel camino. Poi non so come prosegue, perché Estel mi ha interrotto» sussurrò guardando la superficie lignea sulla quale poggiava le mani. Mahtar restava in silenzio; lo sguardo immobile. Anar lo guardò e rimase stupito dalla sua strana espressione.
Il rosso sospirò, slacciando le dita delle proprie mani, e si sporse sul tavolo.
«Forse è arrivato il momento che ti racconti qualcosa, Anar» gli sussurrò guardandolo negli occhi.
Il ragazzo corrugò la fronte e lo guardò confuso. Di che parlava? E perché aveva un tono così serio? Lo faceva preoccupare..
«Cosa?» gli chiese alzando un sopracciglio. Il rosso strinse le labbra, che divennero una linea sottile. Si portò una mano sotto al mento a grattarsi la barbetta rossa e prese un grande respiro. Anar continuava a guardarlo interessato e preoccupato.
Una strana sensazione gli si diffondeva nel petto; era come se avesse paura di quello che il rosso gli stava per dire, ma non era così. Almeno credeva..
«Anar, tu sai cosa sei, vero?» gli chiese in un sussurro senza guardarlo. Il ragazzo sbatté le palpebre confuso.
«Certo» gli rispose con un tono basso e sospettoso.
«Bene; allora, anche i tuoi veri genitori erano come te» gli disse guardandolo di colpo e trafiggendolo con il proprio sguardo. Il rosato aveva un’espressione sbalordita e incredula.
«Non è vero.. perché allora avrebbero dovuto cercare di uccidermi?» gli chiese in un sussurro con la fronte corrugata.
«Non parlo di loro; io parlo dei tuoi veri genitori» gli disse di botto.
Il ragazzo rimase zitto un momento, incapace di proferire parola. Sbatté le palpebre incredulo e stupito. Poi si alzò, facendo cadere la sedia, e iniziò a muoversi avanti e indietro per la cucina. Non poteva essere vero; i suoi genitori l’avevano sempre odiato ecco perché avevano cercato di annegarlo. Mahtar stava scherzando..
«I miei genitori hanno cercato di annegarmi» sussurrò tra i denti, fermandosi accanto al tavolo. Il rosso rimase in silenzio per qualche secondo.
«Non è così; siediti» gli disse con calma e fermezza. Il ragazzo serrò la mascella per non urlargli contro. Prese un profondo respiro e obbedì, sedendosi nuovamente con le braccia incrociate.
«Cosa stai farneticando?» gli chiese in maniera brusca. L’uomo strinse i denti e incrociò le braccia anche lui, mettendo in risalto i grossi bicipiti.
«Non farnetico, Anar. Ti sto raccontando quello che è realmente successo quell’anno, quando tu eri soltanto un esserino» gli disse guardandolo dritto negli occhi. Anar deglutì, ma rimase in silenzio. «Vivevi a Notterville; la tua casa era circondata dagli alberi, nel bel mezzo di un piccolo boschetto. Tua madre era una locandiera, mentre tuo padre un falegname. Intagliava personalmente i tuoi giocattoli, e ti costruiva tantissime strutture divertenti. Una notte, mentre tranquillamente vi preparavate per andare a dormire, qualcuno suonò al vostro campanello e tua madre  andò ad aprire: ai suoi occhi comparve una piccola bambina con le orecchie appuntite che teneva stretto tra le braccia un coniglietto bianco» disse lentamente, guardando il ragazzo per controllarne le reazione. Aveva i muscoli tesi, la bocca serrata e gli occhi spalancati per l’incredulità. Il rosso sospirò e riprese: «Tua madre la invitò immediatamente. Fuori c’era freddo, quindi decise di farla riscaldare davanti al caminetto della cucina. Tu osservavi la scena incuriosito, stretto tra le braccia di tuo padre. Dopo che ebbe cenato andaste a dormire tutti quanti. Quella notte, però, qualcosa ti svegliò e tu ti alzasti dal letto dei tuoi genitori e andasti a controllare. Raggiungesti la cucina e lì c’era Ainur. Aveva le manine tese sul camino e non si era accorta di te. Continuasti a guardarla in silenzio, fin quando dalle sue mani non uscirono delle scintille che accesero un fuoco. Restasti stupito da quella scena e ti lasciasti scappare un sospiro di stupore. Lei si accorse di te. Ti si avvicinò e ti costrinse ad uscire dalla casa; ti chiuse fuori. Corresti a controllare da una finestra quello che stava facendo, e vedesti che stava facendo crescere le fiamme nel camino, talmente tanto che stavano iniziando a bruciare tutti i mobili di legno. Cercasti di avvertire i tuoi genitori, ma qualcosa ti colpì in testa e svenisti» gli sussurrò piano. Guardò il ragazzo che gli stava seduto davanti. Le sue labbra erano quasi piegate in un ringhio. Gli occhi erano accesi di rabbia e delusione.
«Come fai a sapere tutte queste cose?» gli sibilò tra i denti, penetrandolo con uno sguardo che lo fece rabbrividire.
«Uno stregone passò di lì il giorno dopo; ti trovò sdraiato sull’erba poco distante da casa tua, tutto infreddolito. Ti prese in braccio e ti portò nel suo studio. Lì con un incantesimo, ti entrò nel cervello per scoprire quello che ti era successo e scoprì tutto. Preoccupato per te, decise di affidarti ad una coppietta felice che si era sposata da poco e che, purtroppo, non poteva avere bambini. Non raccontò loro quello che ti era successo; gli disse soltanto che aveva una strana malformazione alle orecchie» gli disse.
«La coppia che mi gettò nel fiume?» gli chiese in un sussurro, con disprezzo.
«Loro..».
Silenzio. Nessuno dei due parlò per qualche minuto. Era inutile che Mahtar continuasse a parlare, perché di lì in poi la storia la sapeva.
«Come fai a sapere queste cose?» gli chiese sibilando.
«Quando ti ho salvato sono corso da loro per avvertirli che li avrei denunciati e loro mi dissero che non era colpa loro se avevano adottato.. te; così mi dissero il nome dello stregone, al quale mi presentai come un membro della Foole, e lui mi disse tutto» gli spiegò infine.
Ancora silenzio. Mahtar guardava il ragazzo per controllarne qualunque reazione.
Il ragazzo cercava di non urlare. Era arrabbiato, incredulo, deluso. Non riusciva a credere al fatto che Mahtar gli avesse mentito per tutti quegli anni. Era un padre per lui, eppure gli aveva mentito. Gli aveva fatto credere che i suoi genitori l’odiavano e che pensavano che fosse un mostro. Invece..
«Perché non mi hai mai detto la verità?» gli chiese con il capo basso, senza guardarlo negli occhi. Il rosso deglutì.
«Credevo fosse meglio così, per te; pensavo che avresti sofferto di meno» gli disse guardando fuori dalla finestra.
Quelle parole furono la goccia che fece traboccare il vaso. Anar si alzò e sbatté le mani contro il tavolo.
«Come hai potuto pensare che farmi credere che i miei genitori mi odiassero mi avrebbe fatto soffrire di meno?!» gli urlò con gli occhi accesi dall’ira. Respirava velocemente e aveva il cuore che correva come un treno. «Come hai potuto soltanto immaginare che fosse meglio dirmi questo anziché raccontarmi che i miei genitori, che mi amavano, sono morti in un incendio?!» gli urlò, sbattendo nuovamente i palmi contro la superficie di legno. Il rosso si alzò e gli prese i polsi per fermarlo.
«Mi dispiace, Anar; credevo fosse la cosa giusta da fare» gli disse guardandolo dritto negli occhi. Il ragazzo espirò rumorosamente.
«Non lo era» gli rispose sbuffando. Si divincolò dalla presa e incrociò le braccia.
«Adesso, lo so» gli rispose l’uomo e per la prima volta Anar individuò una nota malinconica nella sua voce. Lo guardò e prese un profondo respiro.
Mahtar gli aveva mentito per tutta la vita, ma era sempre stato un buon padre per lui; non gli aveva fatto sentire la mancanza dei genitori che l’odiavano. Forse era per questo che credeva fosse giusto tenergli nascosta la verità; forse credeva che sarebbe stato meno doloroso dimenticare qualcuno che ti odiava, anziché piangere qualcuno che ti amava.  
Sospirò e si grattò la testa. Si avvicinò all’uomo che gli stava accanto e gli diede una pacca sulla spalla. Dopodichè, senza dire una parola, lasciò la stanza, lasciando il rosso immobile a fissarlo con uno sguardo incredulo e commosso. 

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Capitolo 28
*** L'istituto ***


L’istituto

 
«Estel, dormi ancora?» gridò Anar bussando forte alla porta della sua stanza. Non si era ancora calmato del tutto, quindi non poteva fare a meno di sbattere i pugni contro la porta con tutta la forza che aveva in corpo; in un modo o in un altro doveva pur sfogarsi in fondo..
Estel non gli rispose, e questo lo fece innervosire ancora di più. Odiava essere ignorato, soprattutto quando era arrabbiato.
«Estel!» la chiamò nuovamente con più foga. Neanche stavolta ci fu risposta. Sbuffò e incrociò le braccia sul petto, iniziando a sbattere il piede sul pavimento del corridoio con fare innervosito. «Sto entrando!» la avvertì gridando forte, dopo qualche secondo. Nessun cenno di risposta. Il rosato sbuffò nuovamente ed aprì la porta della stanza con un gesto veloce.
«Te l’ho detto che sarei..» disse bruscamente, ma si zittì di botto e la sua espressione mutò in una smorfia confusa. Corrugò la fronte e si guardò intorno. Nella stanza non c’era nessuno. Chiamò nuovamente la ragazza e controllò sotto il letto, (magari si era nascosta per fargli uno scherzo), ma non c’era segno della sua presenza.
Preoccupato, si chiuse la porta alle spalle e raggiunse immediatamente la cucina, dove Mahtar se ne stava seduto con lo sguardo perso nel vuoto.
«Estel è sparita» gli disse in fretta. Il rosso spalancò gli occhi incredulo e lo guardò con un’espressione preoccupata. Nei suoi occhi, Anar vide nascere la stessa ansia che sicuramente oscurava il suo sguardo e che gli trafiggeva violentemente il cuore.
«Come?» gli chiese incredulo e preoccupato, sperando di aver sentito male. Il rosato deglutì.
«Estel non c’è più» gli disse serio, con un’espressione preoccupata. Mahtar serrò la mascella; un’espressione a metà tra il preoccupato e il furioso. Si alzò velocemente e recuperò la propria giacca uscendo in strada. Anar restò immobile per qualche secondo; il cuore che martellava forte. Alla fine prese un grande respiro ed uscì, chiudendosi velocemente la porta alle spalle.
 
Estel si fermò. Davanti a lei, si innalzava una possente struttura che, anche se ormai era stata abbandonata da tanto tempo, conservava il suo aspetto autoritario. Costruita con mattoni grigi e rossi, dava quasi l’impressione di un grande castello medievale. C’erano tre torrette che si innalzavano dall’estremità dell’edificio e che svettavano su un’enorme giardino ormai preda di ebre selvatiche, con vecchi arazzi sbiaditi che svolazzavano sulle loro vette.
Un elegante cancello nero, ormai per lo più arrugginito, la separava dalla sua meta. Oltre di esso si estendeva uno stretto sentiero che finiva davanti al grande portone dell’edificio.
La ragazza infilò le mani nella tracolla che portava con sé e ne estrasse il coniglietto bianco.
«È questo il posto?» gli chiese per accertarsene.
È questo; la voce gli rispose. Lei annuì, lo riconservò all’interno della tracolla e si preparò a scavalcare il cancello.
 
Erano ormai due ore che Anar correva in giro per il paese alla ricerca di Estel. Non capiva perché, ma una strana ansia gli aveva invaso il cuore da quando si era accorto che era scomparsa. Non riusciva a spiegarselo, ma era come se sapesse che fosse in pericolo.
Lui e Mahtar si erano divisi da tanto, credendo che in questo modo l’avrebbero trovata prima, ma si sbagliavano. E il fatto che il rosso non gli avesse ancora telefonato, gli faceva capire che ancora neanche lui era riuscito a rintracciarla.
Si fermò un attimo a prendere fiato e si appoggiò contro la parete di una vecchia casetta, portandosi le mani sulle ginocchia, con la schiena piegata in avanti.
Era ormai vicino al limite del paese.
«Hai bisogno d’aiuto?» gli chiese qualcuno all’improvviso. Il rosato alzò lo sguardo e si ritrovò davanti una testa coperta di capelli bianchi. L’uomo gli sorrise gentilmente.
«Sto cercando una mia amica» gli rispose, raddrizzandosi, guardandolo con un sopracciglio alzato.
«Una tua amica, dici?» gli chiese portandosi una mano sotto il mento come per riflettere. Anar lo guardò spazientito. Aveva lunghi capelli bianchi che gli cadevano sulle spalle, e una barbetta ispida dello stesso colore. Gli occhi erano scurissimi, quasi neri, e creavano un contrasto magnifico col colore della pelle e dei capelli. Sembrava quasi un fantasma.
Il ragazzo incrociò le braccia; non credeva che quell’uomo avrebbe potuto aiutarlo; non credeva che Estel fosse passata di lì. Era un posto abbastanza lontano da casa loro e non c’era niente di particolare. Si che lui non conosceva in maniera dettagliata la ragazza, ma non riusciva a trovare nulla che in quel posto potesse attirare la sua attenzione.
«Ora che ci penso di qui è passata una ragazza; era particolare; mi ha colpito parecchio..» sussurrò il vecchietto, intrecciandosi i capelli sulle dita bitorzolute.
«Di che colore aveva i capelli?» gli chiese il rosato un po’ diffidente.
«Capelli? Dorati oserei dire..» sussurrò lentamente. Anar alzò un sopracciglio.
«Ne è sicuro?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi. Quello lo guardò, grattandosi il naso. Annuì.
«Ma non sono i capelli che mi hanno colpito.. e mi sembra che indossasse una gonna chiara; si aveva le gambe scoperte ne sono sicuro» sussurrò confuso, grattandosi la testa. Anar abbassò lo sguardo e si lasciò sfuggire un sospiro. Estel aveva i capelli chiari, ma non era l’unica in tutto il paese. E la gonna.. non lo aiutava quel dettaglio! Non l’aveva vista quando era uscita di casa! Quella ragazza non doveva per forza essere lei.
«La ringrazio, ma adesso dovrei andare» gli disse cercando di essere educato, per continuare le ricerche, ma l’uomo lo bloccò per un polso.
«Ma aveva davvero qualcosa di particolare!» insistette guardandolo. Il rosato si liberò dalla presa e si tolse il cappello, grattandosi la testa, ormai esasperato. L’uomo lo guardò e spalancò la bocca in un cenno di sorpresa. «Le orecchie!» esclamò contento con un sorriso soddisfatto, indicando la testa del ragazzo.
Anar lo guardò incredulo, toccandosi le orecchie appuntite.
«Cosa ha detto?» gli chiese in un sussurro, accigliato.
«Le orecchie; la ragazza aveva le orecchie appuntite come le tue» gli disse indicandogliele. Anar si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Doveva per forza essere Estel a quel punto; soltanto lei aveva le orecchie a punta in tutto il paese!
«E dov’è andata?» gli chiese in fretta, guardandolo dritto negli occhi e indossando nuovamente il cappello. L’uomo guardò la strada davanti a sé con fare pensieroso.
«Vedi quell’edificio lì in fondo?» gli chiese indicando qualcosa. Il ragazzo controllò.
«Il vecchio Istituto?» gli chiese confuso alzando un sopracciglio.
«Mi è sembrato che fosse diretta lì» gli disse scrollando le spalle. Anar sbatté le palpebre perplesso, ma gli sorrise, grato.
«La ringrazio!» gli disse e con queste parole riprese a correre, dirigendosi verso il vecchio edificio, mentre l’uomo continuava a guardarlo con le mani intrecciate dietro la propria schiena.
 
I corridoi dell’istituto erano oscuri e pieni di polvere, segno che nessuno ci entrava ormai da molti anni. All’interno aleggiava un odore di muffa e di chiuso; lo stesso odore che si sente di solito quando si entra in una vecchia soffitta.
Estel camminava velocemente, come se sapesse già dove andare; il coniglio la guidava, chiuso dentro la tracolla. La ragazza aveva lo sguardo velato, come se non fosse propriamente cosciente di ciò che stava facendo. Sembrava quasi sotto ipnosi; non sbatteva nemmeno le palpebre.
Camminò per tutto l’edificio alla ricerca di neanche lei sapeva cosa. Erano andati lì per cercare Ainur, ma era ormai ovvio che non si trovasse in quel vecchio edificio. Che cosa stavano cercando? Perché non tornavano indietro?
Estel cercò di obbligarsi a tornare verso il portone principale, in modo da abbandonare quel luogo; ma qualcosa le impediva di farlo. Non si sentiva costretta a non poter fare ciò che voleva; percepiva soltanto debole l’impulso della propria volontà, come se ci fosse stato qualcosa di più potente che la costringesse a voler fare qualcosa che neanche capiva di non voler continuare.
Non è qui. La voce di Vortha risuonò minacciosa e furiosa e le fece rizzare i peli sulle braccia.
«Torniamo a casa?» gli chiese Estel guardando il tetto, sperando che quello le avrebbe risposto di sì.
Il coniglio urlò nella sua testa. Incredibilmente, Estel si trovò con le braccia stese davanti a sé. Chiuse gli occhi, percependo qualcosa scorrere più velocemente dentro le proprie vene e per qualche secondo non accadde nulla.
 
Finalmente Anar raggiunse l’edificio. Scavalcò atleticamente il cancello e corse verso il portone principale. Lo attraversò e corse immediatamente verso la prima rampa di scale, senza neanche fermarsi a riprendere fiato.
Estel era lì da qualche parte, ormai ne era sicuro. Se lo sentiva dentro; percepiva la sua presenza all’interno di quell’edificio. Ma non sapeva dove cercare: poteva essere ovunque!
Si fermò di botto, di fronte ad una vecchia credenza ormai logorata dalle tarme. Tutto all’interno di quella struttura era ormai devastato dall’abbandono: mobili, pavimento, pareti e persino le scale. L’edificio restava in piedi solo per miracolo; una qualunque scossa insignificante l’avrebbe ridotto a un mucchio di macerie.
Prese un profondo respiro e corse all’interno della stanza, cercando di scorgere nel buio, qualche segno del passaggio della ragazza; ma non c’era niente che potesse far pensare che lì fosse mai entrato qualcuno. Si fermò, come per cercare di poter intercettare il rumore dei suoi passi, ma non sentì nulla. Non un minimo rumore; neanche lo scalpitio dei topi.
Uscì dalla stanza e si diresse verso un corridoio illuminato da una grande finestra colorata. La luce che filtrava dal vetro, illuminava l’ambiente rendendolo più tenebroso di quanto già non fosse; però fu grazie a quella luce sinistra che il ragazzo riuscì a distinguere le leggere orme lasciate sulla polvere.
Poi, all’improvviso, tutto l’edificio iniziò a tremare.
Anar si guardò intorno spaventato, cercando un qualsiasi punto di equilibrio. Dal tetto piovve polvere, che si accumulò sulla sommità della sua testa, macchiandogli il cappello.
Il ragazzo sbuffò innervosito; quel cappello gli era costato un occhio della testa!
Poi però prese un profondo respiro, portandosi una mano davanti alla bocca, come a voler evitare l’ingresso della polvere nei suoi polmoni. Si appiattì contro il pavimento e, procedendo a gattoni, iniziò a seguire la pista lasciata dalle impronte. Intorno a sé sentiva rumori sinistri e tonfi sordi; probabilmente tutti i mobili della casa stavano cadendo, così come alcune travi pesanti del tetto.
Anar continuò ad avanzare lentamente; i detriti davanti a sé, e il tremolio di tutto l’edificio, gli rendevano difficile il cammino, ma non pensava neanche lontamente di rinunciare. Estel era lì da qualche parte e lui l’avrebbe trovata.
Sperò in cuor suo che la scossa finisse presto, ma, come aveva ormai notato da parecchio, quello non era un normale terremoto. C’era qualcosa di strano nel modo in cui le pareti vibravano. Era come se soltanto l’edificio stesse tremando e non tutta la terra.
Poi d’un tratto tutto si immobilizzò; la casa smise di tremare e il tetto smise di far piovere polvere. Il ragazzo si guardò intorno, trattenendo il fiato. Dopo essersi assicurato che il “terremoto” fosse finito davvero, si alzò in piedi, scrollandosi la polvere di dosso. Prese un lungo respiro e si guardò intorno. Prima, quando la struttura tremava, gli era riuscito difficile notare tutto ciò che gli accadeva intorno; i contorni delle cose sembravano sbiaditi dalle scosse, come se davanti ai suoi occhi stesse cadendo una fitta pioggerellina. Adesso invece, riusciva a vedere chiaramente tutta la devastazione che aveva intorno: mobili appiattiti contro il pavimento, frammenti di porcellana e vetro di vasi e vecchi oggetti, travi di legno cadute dal tetto e sparse sul pavimento.
Sbuffò e si passò una mano sul viso impolverato; almeno l’edificio era rimasto in piedi. Come a voler rispondere alla sua silenziosa affermazione, l’edificio riprese a tremare più violentemente facendolo cadere di botto contro una trave di legno e facendolo imprecare violentemente. Si accovacciò su sé stesso e si portò le mani a circondarsi la coscia sinistra. Un vecchio chiodo arrugginito, lungo circa cinque centimetri, gli si era conficcato nel muscolo, facendogli serrare la mascella dal dolore. Con un ringhio si strappò il sottile pezzo di metallo dalla carne e continuò ad avanzare (nuovamente gattonando) ignorando il dolore e il sangue che gli scendeva copiosamente lungo tutta la gamba. Gridò il nome della ragazza, disperato e spaventato; aveva paura che la ragazza fosse rimasta schiacciata sotto qualche mobile o che le fosse caduta in testa una trave armata di chiodi arrugginiti. La chiamò nuovamente, ma non c’era segno di risposta. Intorno a lui risuonava soltanto il tonfo sordo di oggetti che sbattevano contro il pavimento.
Si guardò intorno e notò (ormai esasperato e convinto che qualcuno da lassù ce l’avesse con lui) che la polvere che aveva ripreso a cadere dal tetto, stava ormai ricoprendo le tracce che stava cercando di seguire. Imprecò nella propria mente e cercò di muoversi più velocemente. Tutto intorno a lui gli appariva sfogato e quasi non riusciva neanche a capire cosa avesse davanti.
Poi però si accorse di essere arrivato davanti ad una grande porta spalancata. Quella dava su un salone immenso, disseminato di vecchi oggetti ammuffiti e impolverati, e sul tetto, proprio in centro, c’era un incredibile lampadario di vetro scintillante. E proprio sotto il lampadario, c’era una figura in piedi.
Anar sbatté le palpebre incredulo; non era ben sicuro che davanti a sé ci fosse qualcuno, ma era quasi convinto che ci fosse. E se qualcuno c’era doveva per forza essere Estel.
Si costrinse ad avanzare, nonostante il dolore alla gamba, nonostante non riuscisse a vedere bene, e nonostante tutti i suoi muscoli e una vocina nella sua mente gli urlassero di fermarsi. Con il cuore che batteva all’impazzata, si avvicinò sempre più al centro della stanza, fin quando i suoi occhi non poterono confermargli la presenza di qualcuno.
«Estel!» gridò sollevato e preoccupato allo stesso tempo (voleva correre da lei e stringerla tra le braccia per assicurarsi che stesse bene davvero, per poi iniziare e urlarle contro tutte quelle cose che di solito si dicono a qualcuno che si comporta da idiota), ma quella non si voltò a guardarlo. Non riusciva a sentirlo, o almeno questa era la spiegazione che si era dato il ragazzo.
Ma che diamine stava facendo? Perché non scappava? Perché restava immobile?
Era finalmente a pochi metri da lei; qualche altro attimo di sofferenza e avrebbe potuto sfiorarla, quando all’improvviso sentì un rumore assordante. Alzò lo sguardo verso l’alto e si accorse che il gancio che teneva il lampadario attaccato al tetto, stava ormai per cedere. Cercò di muoversi più velocemente, ma il tremolio dell’edificio glielo rendeva difficile, se non quasi impossibile. Poi arrivato a pochi centimetri da lei, si alzò cercando di mantenersi in equilibrio e fece qualcosa che assomigliava ad un salto cadendole addosso.
Nell’istante esatto in cui le sue mani si strinsero intorno alle braccia della ragazza, il terremoto finì. Si allontanò da lei e la prese di peso in braccio allontanandola dalla minaccia del lampadario, in tempo. Qualche secondo dopo infatti, la grande struttura di vetro si sfracellò contro il suolo facendo piovere ovunque i suoi frammenti.
Si alzò un’ondata di polvere e il rosato si gettò sulla ragazza per coprirla dalle schegge di vetro che sarebbero volate via, restando immobile fin quando intorno a loro non calò il più assoluto silenzio.
 
Estel aprì gli occhi di scatto. Cercò di sedersi, ma c’era qualcosa che le impediva di muoversi. Qualcosa che le pesava addosso e che aveva un odore stranamente familiare. Quel qualcosa – o meglio qualcuno – si mosse e si alzò, permettendole finalmente di respirare liberamente.
Si sedette di botto, tossendo la polvere che le si era infilata nei polmoni e si guardò intorno spaesata e confusa. Dove diamine era?
«Come stai?» le chiese ad un tratto qualcuno accanto a lei. Si voltò di scatto e notò che con lei c’era Anar, i capelli ricoperti di polvere. Lo guardò confusa, con gli occhi spalancati. Si portò una mano alla bocca, per pulirsi via la sporcizia dalle labbra che le dava una sensazione orrenda.
«Cosa ci facciamo qui?» gli chiese cercando di alzarsi. Il ragazzo la guardò accigliato, inarcando le chiare sopracciglia.
«Non lo so, tu sei venuta qui da sola» le disse corrugando la fronte. Lei lo guardò diffidente e confusa. Perché doveva sempre prenderla in giro quel ragazzo? Sbuffò e si alzò definitivamente, scrollandosi la polvere di dosso. Mosse il braccio destro con cautela, poiché si era appena resa conto che le faceva male.
«Smettila di dire sciocchezze» gli chiese guardandolo con un sorrisetto. Lui la guardò incredulo, sbattendo le palpebre parecchie volte.
«Non sto dicendo sciocchezze» le disse sinceramente. Lei lo guardò perplessa e si bloccò all’istante. Aveva ormai imparato a capire quando Anar mentiva, ma in quel momento sembrava incredibilmente sincero. Che avesse imparato a saper controllare le proprie espressioni, così all’improvviso?
Scosse la testa; era praticamente impossibile. Ma allora perché le parlava in quel modo? Era davvero andata in quel posto di sua spontanea volontà? Che poi che posto era? Non ricordava di esserci mai stata; non lo riconosceva..
Scosse la testa e si passò una mano sugli occhi. Si sentiva incredibilmente stanca e indolenzita anche se non riusciva a spiegarsi il perché. E poi era strano; non ricordava di essere mai entrata in quell’edificio, ma allora perché era lì dentro? Come ci era arrivata? Dubitava che ce l’avesse portata Anar, anche perché per lo meno avrebbe dovuto avere il ricordo di lui che la obbligava a camminare. Invece non c’era nulla. L’ultima cosa che ricordava era di essersi svegliata accanto al rosato quella mattina e di essere uscita per andare a far colazione insieme alle sue due migliori amiche..
«Usciamo?» le chiese all’improvviso il ragazzo, interrompendo i suoi pensieri. Lei sbatté le palpebre incredula e lo guardò dritto negli occhi; il suo sguardo era velato e illuminato allo stesso tempo da qualcosa che non seppe propriamente identificare.
«Certo..» gli sussurrò incamminandosi; poi però si bloccò di botto di fronte ad un’ampia finestra. Non sapeva da che parte andare..
«Che c’è?» le chiese Anar raggiungendola. Lei lo guardò e si accorse, soltanto in quel momento grazie alla luce che penetrava dall’esterno, che tutto il suo viso era sporco e impolverato e che aveva dei leggeri tagli sulla fronte e sulle guance perfette. Gli occhi erano cerchiati di nero, come se avesse respirato quintali di polvere. E per finire, c’era una larga striscia rossa che gli ricopriva l’intera gamba sinistra.
Spalancò gli occhi incredula e si inginocchiò davanti a lui, in modo che la sua testa fosse all’altezza giusta per potergli guardare la coscia. «Che stai facendo?» le chiese Anar, senza riuscire a nascondere un tono divertito, nonostante la preoccupazione. «Visto da occhi esterni potrebbe sembrare che tu mi stia facendo un..».
«Sei ferito» gli disse, ignorandolo toccandogli la gamba. Lo sentì sussultare lievemente al suo tocco; ma non si mosse.
«Non è nulla» le disse chinandosi su di lei, per farla alzare. Lei si divincolò, ma la sua presa era salda.
«Hai tutta la gamba insanguinata!» gli urlò guardandolo dritto negli occhi.
«Usciamo di qui» la sollecitò lui, incamminandosi nuovamente. Lei lo guardò avanzare normalmente, come se non sentisse nessun dolore a muovere il muscolo trafitto; eppure lei riusciva a percepire la sua tensione dalla postura della schiena e dalla rigidità dei muscoli delle braccia.  

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Capitolo 29
*** Il sogno ***


Il sogno

 
Finalmente i due ragazzi uscirono dall’edificio, lasciandosi sfuggire entrambi un sospiro di sollievo.
La ragazza chiuse gli occhi e inspirò profondamente, mentre Anar, con ancora lo sguardo velato, usciva di tasca il proprio cellulare. Compose il numero in fretta e aspettò che rispondessero.
«L’ho trovata» disse a chiunque gli rispose, dopo neanche due secondi di sttesa, e la ragazza capì che stava parlando con Mahtar. Lo guardò confusa, inarcando le sopracciglia dorate. Lui le restituì lo sguardo senza smuovere la propria espressione. «Ci vediamo a casa» gli disse semplicemente e con quelle parole chiuse la chiamata, infilando nuovamente il telefono in tasca.
«Mi stavate cercando?» gli chiese la ragazza confusa, trafiggendolo con il suo sguardo. Lui sospirò e si massaggiò le tempie, con un gesto esasperato. Si lasciò cadere sull’erba, sdraiandosi con le gambe piegate.
Lei gli si sedette accanto, guardandogli la gamba insanguinata. Ora, alla luce del sole, riusciva a vedere il buco da dove era uscito il sangue. Si morse la lingua e penetrò un dito nel buco dei jeans, facendolo sussultare.
«Che diamine stai facendo?» le chiese senza togliersi le mani dagli occhi. Lei non gli rispose, ma afferrò la stoffa e tirò con forza fino a strappare il tessuto. Sentendo il rumore dello strappo, il ragazzo si sedette di botto, guardandola accigliato. «Perché mi stai spogliando?» le chiese con un tono malizioso. Lei sbuffò, liberandosi della gamba strappata del jeans. Adesso, il rosato aveva l’arto inferiore sinistro scoperto.
«Voglio controllarti la ferita» gli disse poggiandogli le mani fredde sulla coscia insanguinata. Il ragazzo rabbrividì al tocco freddo della sua mano, ma rimase fermo ad osservarla. Lei si mosse abilmente, toccandogli il muscolo (duro come l’acciaio!) con delicatezza.
«Hai finito?» le chiese il rosato, incrociando le braccia sul petto; «Sento freddo ad una gamba per colpa tua» le disse guardandola con uno sguardo divertito.
«Non ci fa niente» gli rispose sorridendo. Poi alzò il viso e si guardò intorno.
«Cosa cerchi?» le chiese Anar guardandola, incuriosito. Lei non gli rispose, ma quando in lontananza vide un albero, si lasciò sfuggire un sorriso.
«Aspetta un attimo qui» gli disse alzandosi di botto; poi iniziò a correre senza neanche aspettare di sentire la sua risposta. Quando arrivò ai piedi dell’albero, il suo sorriso si allargo. Si arrampicò e strappò uno dei tanti frutti gialli.
 
Quando ritornò da Anar, quello era sdraiato sull’erba con gli occhi chiusi.
«Ecco!» esclamò Estel piegandosi accanto a lui e mostrando il frutto come se fosse un trofeo. Il ragazzo aprì gli occhi e si sedette, guardandolo.
«Che roba è?» le chiese corrugando la fronte. Lei sbuffò.
«È un limone, stupido» gli disse cercando tra l’erba una pietra appuntita.
«E a cosa servirebbe?» le chiese con una sincera curiosità. Lei gli sorrise.
«Il limone è un ottimo disinfettante» gli rispose soddisfatta di sé stessa. Lui storse il naso.
«Non ne ho bisogno» le disse in fretta.
«Invece si» gli rispose e finalmente trovò quello che cercava. Prese la grossa pietra e ne conficcò la punta nella rugosa buccia che ricopriva il frutto. Poi la mosse in modo da tagliarlo in due parti. «Ecco fatto» gli disse poggiandone una metà sull’erba e tenendo l’altra stretta in mano.
«Allontanati da me..» le disse. Lei lo guardò e scoppiò a ridere.
«Non dirmi che il grande Anar ha paura di un limone?» gli chiese sarcasticamente. Lui sbuffò, chiudendo gli occhi e incrociando le braccia.
«Certo che NO!» l’ultima parola gli uscì fuori in un grido. Estel gli aveva spremuto il limone sulla ferita approfittando del fatto che non la stava guardando. La sua coscia sussultò così come tutto il suo corpo. Il succo del frutto, lavava via il sangue che gli sporcava la pelle e gli entrava fino in profondità dentro la ferita. La ragazza spremette la seconda metà, guadagnandosi un insulto da parte del rosato.
«Bel modo di dimostrarmi la tua gratitudine» gli disse fingendosi offesa. Lui si portò le mani sulla gamba e soffiò sopra il buco insanguinato per cercare di darsi un po’ di sollievo.
«Brucia..» sussurrò delicatamente.
«Ora passa» gli rispose lei, costringendolo a staccare le mani dalla propria coscia.
«Sei un mostro..» le disse trafiggendola con il suo sguardo carico di sofferenza.
«È soltanto un lieve bruciore» sbuffò lei, strappandosi a sua volta una delle gambe dei propri leggins neri. Lo sguardo del ragazzo si soffermò sulla sua gambe e per qualche momento lei lo vide inarcare le sopracciglia.
«E ora che stai facendo?» le chiese, soffermando poi il proprio sguardo sulla gamba snella e soda che gli spuntava dal leggins strappato.
«Improvviso una fasciatura» gli rispose scrollando le spalle. Lui la guardò e si lasciò sfuggire un sorriso.
 
Finalmente, dopo vari tentativi per riuscire a fasciare la gamba ferita di Anar, i due ragazzi iniziarono a incamminarsi verso casa.
Estel era ancora parecchio confusa riguardo a quello che era appena successo. Ricordava di essersi svegliata, di essere uscita per andare dalle sue amiche e poi.. vuoto, fino al momento in cui non si risvegliava all’interno di quell’edificio insieme al rosato.
Sbatté le palpebre perplessa e guardò il ragazzo che le camminava accanto.
«Quindi, mi stavate cercando prima?» gli chiese all’improvviso, facendolo irrigidire. Corrugò la fronte preoccupata; perché Anar reagiva in quel modo?
«Si» le sussurrò senza guardarla.
«Perché?» gli chiese curiosa, infilandosi le mani nella tasca della felpa.
«Eravamo preoccupati» le rispose scrollando le spalle, cercando di sembrare disinvolto.
«Ma perché?» gli chiese lei, spazientita.
«Perché sei scomparsa all’improvviso, senza avvisare nessuno. A che eri a casa, a che non c’eri più. Pensavamo fossi rimasta sconvolta per quello che ci ha rivelato Mahtar ieri sera» le disse in fretta. Lei lo guardò, diffidente.
«Quindi non mi hai portato tu in quell’edificio?» gli chiese guardandolo di sottecchi. Quella domanda lo colse di sorpresa. Abbassò immediatamente lo sguardo su di lei, guardandola con stupore e confusione.
«Perché avrei dovuto? Ti ho cercato dappertutto, fino al limite del paese! Ero sul punto di tornare a casa, quando mi ha fermato un uomo e mi ha chiesto se avessi qualche problema. È lui che mi ha detto di averti vista incamminarti verso il vecchio istituto. Anzi più propriamente mi ha detto di aver visto una ragazza dai capelli dorati che indossava una gonna chiara e che aveva le orecchie appuntite» le disse, inarcando le sopracciglia per guardarla con attenzione. Lei spalancò gli occhi.
«Ci stavo andando da sola?» gli chiese incredula. Lui scrollò le spalle.
«Non ha parlato di qualcuno che ti portava con la forza, quindi credo di sì» le rispose, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans. Lei rimase in silenzio a soppesare quelle parole. Ci era andata di sua spontanea volontà.. ma allora perché non ricordava? Poi si lasciò distrarre da qualcos’altro.
«Ma io non ho la gonna..» sussurrò confusa guardandosi il leggins nero strappato. Anar scrollò le spalle.
«Evidentemente si sarà confuso. Era abbastanza anziano» le rispose. Lei scosse la testa.
«Ma le altre cose erano giuste; sembra strano che si sia sbagliato solo su quel dettaglio» sussurrò incrociando le braccia. Il suo cervello iniziò a lavorare velocemente. Una seconda ragazza con le orecchie appuntite.. era praticamente impossibile. Forse Anar aveva ragione, ma non era molto convinta.
Sospirò e si morse il labbro desolata. Che cosa ci faceva in quell’edificio? Perché ci era andata, e perché non ricordava nulla?!
«È assurdo..» sussurrò all’improvviso, guardando la strada. Il ragazzo si lasciò sfuggire una risata amara.
«Il fatto che non sappia spiegarti cosa facevi lì?» le chiese guardandola da sotto le lunghe ciglia. «O il fatto che tu non abbia la gonna?». Lei deglutì e ignorò la seconda domanda.
«Sì..» ammise, stringendo i pugni e lui sembrò capire a cosa si stesse riferendo. Si fermò di botto, guardandola dritto negli occhi. Le poggiò le mani sulle spalle, saldamente. Lei lo guardò confusa, ma al tempo stesso ammaliata dal suo sguardo magnetico. I suoi occhi verdi brillavano di qualcosa che non riconosceva.
«Cosa c’è di male?» le chiese dolcemente. Lei inspirò profondamente.
«Ho paura..» ammise, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo.
«Di cosa?» le chiese curioso e la sua presa salda sulle spalle, riusciva a infonderle una straordinaria sensazione di sicurezza.
«Che ci sia qualcosa che mi blocca i ricordi per paura che possa ricordare qualcosa di importante..» gli disse a bassa voce. Lui la guardò, restando in silenzio per qualche secondo.
«Se è così, ti giuro che scoverò questo tizio e gli farò rimpiangere di essersi messo sul mio cammino» le disse seriamente; e il tono con cui disse “giuro” la fece rabbrividire. Suonava quasi come un’antica, solenne promessa.
«Sul mio cammino» gli disse lasciandoci sfuggire un sorrisetto.
«Ora come ora, il tuo è anche il mio» le sussurrò e a quelle parole le guance della ragazza si surriscaldarono; il ragazzo le accarezzò dolcemente la parte di pelle che era arrossita. Poi però la sua mano si strinse in un pugno contro la pelle morbida del suo viso. Inspirò profondamente e le si allontanò, incamminandosi nuovamente. 
Lei lo guardò confusa, senza nascondere la delusione nel suo sguardo. Il rosato aveva un comportamento strano: a volte era dolce e premuroso, come se volesse starle sempre accanto; altre volte invece la trattava come se fosse qualcosa di velenoso. Perché si comportava in quel modo? Non le faceva capire niente..
Prese un grande respiro e si incamminò dietro di lui; non si era neanche voltato per vedere se lo stesse seguendo.
 
Quando arrivarono a casa erano quasi le cinque del pomeriggio. Mahtar era seduto su uno dei divani del salotto e aveva uno sguardo indecifrabile.
«Siediti..» disse ad Estel quando le comparve davanti; il suo tono era autoritario e non ammetteva repliche. La fece sussultare e deglutire. Il suo sguardo si fermò un attimo sulla sua gamba scoperta, ma quando notò la fasciatura nera che circondava la coscia di Anar, la sua mascella sembrò ammorbidirsi. La ragazza gli obbedì e gli si sedette di fronte. «Anche tu» disse al rosato che già si stava dileguando dalla stanza.
Estel lo sentì sbuffare prima di voltarsi per obbedire al rosso. Le si sedette accanto e lei sentì il calore del suo copro attraverso le loro spalle a contatto; rabbrividì, in modo impercettibile, e inspirò silenziosamente.   
«Dov’era?» chiese il rosso ad Anar trafiggendolo con il proprio sguardo. Stava seduto con le spalle irrigidite e piegate in avanti. Ma perché parlava con il ragazzo e non con lei?
«Al vecchio istituto al limite del paese» gli rispose quello, incrociando le braccia. L’uomo alzò un sopracciglio.
«Quale vecchio istituto?» gli chiese confuso. Il rosato sospirò, passandosi una mano sul viso. Era stanco e lo si poteva vedere chiaramente. I bellissimi occhi verdi erano cerchiati di nero e tutto il viso era impolverato e graffiato.
«Il vecchio orfanotrofio per bambini malati» gli disse. Il rosso irrigidì la mascella.
«Cosa ci faceva lì?» gli chiese in un sussurro. Estel incrociò le braccia e sbuffò. Due paia di occhi la fissarono con rimprovero.
«Sono qui, potresti parlare con me, anziché chiedere a lui» disse al rosso, corrugando le chiare sopracciglia. Quello rimase immobile ad osservarla.
«Rispondi tu, allora» le disse con un tono di voce grave che la fece rabbrividire. Lei si morse un labbro e deglutì. Non sapeva neanche lei cosa ci faceva in quell’edificio, però il fatto che Mahtar la ignorasse la faceva innervosire.
Adesso, però si rimproverò mentalmente per essersi intromessa nella loro discussione.
«Non lo so..» gli rispose, giocherellando con le proprie dita.
«Che vuol dire che non lo sai?» le chiese con un tono allarmato. Lei alzò immediatamente gli occhi verso il suo viso. Il rosso aveva un’espressione sconvolta e terrorizzata. Spalancò gli occhi accigliata. Mahtar non aveva mai temuto nulla!
«Non riesco a ricordare.. questa mattina sono uscita per andare da Shaza e Aira, e poi mi sono risvegliata lì dentro.. non so cosa sia successo nel frattempo..» sussurrò fissando lo sguardo su alcune macchie sbiadite che ricoprivano il pavimento. Si sentiva confusa e stordita quando ripensava a quei momenti, ed era strano. Di solito quando non ricordava qualcosa sentiva come se tutta la mente fosse occupava da una strana nebbia che le offuscava i ricordi; invece adesso la nebbia non c’era. Era tutto nero..
Sentì Mahtar espirare rumorosamente e automaticamente alzò lo sguardo verso di lui. C’era una luce strana nei suoi occhi; una luce che lo invecchiava.
«Va in camera tua..» le disse semplicemente in un sussurro, restando immobile a fissare il vuoto davanti a sé. Lei lo guardò desolata e, per qualche secondo, spaventata. C’era qualcosa nel modo in cui il rosso la fissava, che le faceva battere il cuore a mille per la paura. Deglutì e lentamente si alzò dirigendosi verso la propria stanza. Mentre camminava si sentiva leggera e molle e vedeva che tutto intorno a sé stava iniziando a muoversi. Sbatté le palpebre confusa e si inginocchiò contro il pavimento chiudendo gli occhi. Non lo era mai stata, ma ne aveva sentito parlare ed era abbastanza sicura di poter dire di sentirsi come se fosse ubriaca. 
 
Un buio paesaggio di campagna la circondava, mentre lentamente camminava verso la sua ignota meta tra gli alberi. Aveva un mantello con il cappuccio alzato che le gettava strane ombre sul viso e che impediva di poterle guardare gli occhi. La bambina era silenziosa e si muoveva senza produrre il minimo rumore. Tra le braccia teneva stretto un coniglietto di pezza bianco.
“Ainur..” qualcuno la chiamò all’improvviso, dall’ombra facendola fermare. Si voltò e davanti a sé vide una seconda bambina, anch’essa con il cappuccio del mantello calato sul viso. Aveva capelli lunghi che le scendevano fino al busto e che alla fioca luce lunare sembravano quasi dorati. “Non andare via..” le disse abbassandosi il cappuccio per scoprire il proprio volto. Aveva grandi occhi dorati e orecchie appuntite che spuntavano dai lati della testa.
Ainur la guardò in silenzio, con il viso coperto e in ombra.
“Devo farlo, Gil” le disse tranquillamente, alzando il coniglietto bianco come se quello dovesse spiegare tutto. La bambina bionda scosse la testa; aveva gli occhi lucidi, ma decisi.
“Non gli permetterò di rovinarti” le disse stringendo i pugni e avvicinandosi a lei.
“Non venire qui..”; questa volta il suo tono era spaventato. “Gilraen.. fermati..” la implorò, stendendo una mano aperta davanti a sé come per bloccarla. La bambina si fermò, con la mano di Ainur poggiata contro il petto. Alzò la mano destra e la strinse intorno a quella che la teneva ferma.
“Voglio soltanto aiutarti..” le disse dolcemente, stringendo le dita.
“Non voglio ucciderti..” le sussurrò quella con un tono di voce spaventato; “Non voglio vederti morire come la mamma.. papà mi odierebbe ancora di più..” sussurrò, e Gilraen la sentì tremare. Ainur iniziò a piangere e si accasciò contro il suolo freddo e morbido, abbandonando il coniglietto di pezza che le cadde di fianco. Gilraen l’abbracciò forte; poi, lentamente, avvicinò una mano al coniglio bianco per cacciarlo il più lontano possibile, ma le mani di Ainur diventarono incandescenti e la costrinsero a gridare..
Estel si sedette di botto con il cuore che batteva a mille; il grido di quella bambina ancora risuonava nelle sue orecchie. Alzò le mani per coprirsi il viso e cercò di calmarsi. Nella mente le ritornarono le immagini di quelle due bambine, da sole in mezzo a un bosco. Ainur che piangeva, con il tono di voce troppo carico di paure e preoccupazioni per una bambina della sua età; e Gilraen che l’abbracciava, cercando di poterla aiutare. Gilraen aveva qualcosa di familiare.. ma cosa le era successo? Era morta anche lei? Ainur l’aveva uccisa? Ma dall’incubo appena avuto si vedeva chiaramente che lei non voleva farle del male; sembrava quasi che qualcosa la costringesse ad essere violenta. Era Vortha?
Qualcuno bussò debolmente alla porta della sua stanza facendola sussultare. Cercò di calmarsi e di prendere un profondo respiro.
«Avanti..» sussurrò. La porta si aprì e sulla soglia apparve Mahtar, i capelli rossi scuriti dalla penombra della stanza.
«Posso entrare?» le chiese delicatamente. Lei annuì e incrociò le gambe sul materasso, in modo da creargli uno spazio nel quale potesse sedere. Lui si chiuse la porta alle spalle e la raggiunse lentamente. Appena i suoi occhi poterono vederla da vicino, però, la sua fronte si increspò. «Un brutto sogno?» le chiese. Lei annuì, mordendosi un labbro. Odiava che le persone potessero capirla soltanto da uno sguardo. Ma alla fine lui era suo padre..
Sospirò e si chiese se era il caso di parlargli dell’incubo. Aveva sognato sua figlia che uccideva una bambina. L’aveva vista piangere, preda dell’ansia e della paura.
Una fitta le attraversò il cuore e si ritrovò a provare pietà per quella bambina. Ovunque fosse in quel momento probabilmente si sentiva sola; probabilmente non avvicinava nessuno per paura di poterlo uccidere. Probabilmente avrebbe avuto bisogno di suo padre..
«Tu non odi Ainur, vero?» gli chiese di botto. Sentiva la necessità di difendere quella bambina, di far capire che non fosse cattiva.
Il rosso la guardò accigliato, sbattendo le palpebre incredulo.
«Perché me lo chiedi?» le chiese senza rispondere, irrigidendosi. Lei lo guardò attentamente. Scrollò le spalle.
«È brutto pensare che tuo padre ti odia, ed io lo so per esperienza; non vorrei che si sentisse triste per questo. Dev’essere già abbastanza brutto restare da soli, figurati se crede che tu la odi..» gli sussurrò con lo sguardo basso. Mahtar rimase in silenzio per qualche secondo; poi prese un profondo respiro.
«No» le disse e il suo tono sembrava sincero. «Non potrei mai odiarla, neanche volendo» le sussurrò guardandosi le mani intrecciate insieme. Estel lo guardò e sospirò sollevata. Però questo non bastava; anche se lei sapeva che Mahtar non la odiava, Ainur era comunque da sola. Era lei che doveva sentire quelle parole.
«Credo che abbia bisogno di te» gli disse guardandolo dritto negli occhi. Lui la guardò di botto, sbattendo le palpebre. Aveva gli occhi lucidi ed era di nuovo quella antica sofferenza ad illuminargli lo sguardo.
«Mi piacerebbe poterla riabbracciare..» le disse con un tono secco e tremante. Lei lo guardò e si lasciò sfuggire un sorriso intenerito. Poi si sporse verso di lui e l’abbracciò forte. Quello, prima stupito, la strinse contro il proprio petto ed Estel sentì – non era proprio sicura, ma quasi – qualcosa di delicato bagnarle i capelli.  

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Capitolo 30
*** Questione di sangue ***


Questione di sangue

 
Era ancora notte fonda. Mahtar se n’era andato già da un pezzo, lasciando Estel da sola nella sua stanza; tuttavia ancora la ragazza non riusciva a prendere sonno. Aveva troppi pensieri che le volavano per la testa e non riusciva a tranquillizzarsi in modo da poter dormire serenamente.
Ogni qual volta chiudeva gli occhi, le ritornavano alla memoria i volti delle due bambine, lo sguardo di Mahtar, il coniglio di pezza; non riusciva a liberarsi dalla sensazione che qualcuno la stesse controllando. Chi era che le cancellava i ricordi? Perché lo faceva?
Ciao Estel. Vortha parlò nella sua testa con un tono di voce basso. Lei sussultò spaventata, alzando lo sguardo verso il tetto come per cercarlo.
«Che vuoi?» gli chiese bruscamente.
Non volevi trovare Ainur?Le chiese tranquillamente. Lei alzò le sopracciglia, irritata. Pensò allo sguardo della bambina e a quello di Mahtar..
«Certo che voglio» rispose incrociando le braccia sul petto. Vortha si mise a ridere nella sua testa. Una risata perfidamente dolce che la fece rabbrividire.
Allora vieni con me. Le disse infine. Lei deglutì rumorosamente.
«Dove?» gli chiese cercando di restarsene tranquilla. La voce non le rispose subito e lei rimase, immobile, ansiosa ad aspettare.
 
Il sole era già alto nel cielo quando Estel si svegliò, sbattendo piano gli occhi. Le faceva male la testa, e sentiva dolore alla caviglia sinistra. Sbadigliò, stiracchiandosi, e si alzò grattandosi la testa. Si avvicinò alla finestra, zoppicando per l’inaspettato dolore alla parte inferiore della gamba, e alzò la serranda. Credeva che il dolore fosse dovuto alla caduta del giorno precedente all’istituto, quando Anar le era piombato addosso, quindi non si preoccupò più di tanto.
Tranquillamente si voltò per scegliere i vestiti da indossare, ma fu in quel momento che notò qualcosa di strano. Sul pavimento e sul letto c’erano delle macchie scure. Avvicinandosi per controllarle si accorse che erano macchie di sangue e fango. Deglutì spaventata e automaticamente si voltò per guardarsi riflessa nel lungo specchio dell’armadio.
Rimase sconvolta. I suoi vestiti erano sporchi di terra e strappati; nella parte bassa sulla caviglia sinistra, il jeans era ricoperto da una macchia di sangue secco. Si guardò il viso e rimase immobile come una statua; sulle guance c’erano lunghe strisce rosse, che facevano pensare a graffi, e alcuni lividi chiari. Gli occhi erano circondati da cerchi neri e i capelli erano arruffati e pieni di sporco che glieli rendeva duri contro la pelle morbida del viso. Il labbro inferiore era leggermente spaccato, e una macchia di sangue luccicava alla luce del sole.
Este scosse la testa e si ritrovò inginocchiata contro il pavimento nonostante la caviglia ferita le implorasse di non farlo. Stese i palmi aperti davanti a sé e li fissò per qualche secondo. Lacrime iniziarono a rigarle le guance, causandole bruciore lì dove incontravano una ferita; e senza che se ne rendesse conto si ritrovò a gridare il nome di qualcuno.
La porta si spalancò quasi all’istante e lei si voltò a guardare chi fosse accorso in suo aiuto; e quando riconobbe la figura che gli stava davanti, iniziò a piangere più forte, fiondandosi tra le sue braccia, senza neanche dar conto alla caviglia che le faceva male.
Anar sembrò restare confuso per qualche secondo, ma quasi subito la strinse contro il proprio petto cercando di calmarla.
Lei cercò di calmarsi respirando il suo profumo, così straordinariamente familiare. Le sue braccia strette intorno a lei, erano una fortezza sicura, e il martellare regolare del suo cuore, era tranquillizzante. Il rosato prese a carezzarle i capelli dolcemente, come se non si accorgesse di tutto il fango di cui erano imbrattati.
«Andiamo in camera mia?» le chiese dolcemente, sussurrandole all’orecchio. Lei annuì semplicemente, senza neanche alzare il viso verso i suoi occhi chiari. Il ragazzo annuì e la prese in braccio incamminandosi verso la propria camera. Una volta arrivatoci la fece sedere sul letto, inginocchiandosi davanti a lei.
Estel cercò di restargli attaccata; non voleva allontanarsi da lui. Aveva paura..
Lui la costrinse ad allontanarsi, prendendole le mani e stringendogliele forte.
«Che cosa è successo?» le chiese dolcemente, massaggiandole le dita come per cercare di tranquillizzarla. Lei avvicinò una mano al viso per asciugarsi le lacrime. Odiava piangere davanti alle altre persone; non riusciva a capire perché si era lasciata andare così all’improvviso. Alla fine non era successo nulla dell’altro mondo.. si era ritrovata sporca, ferita e sanguinante nel suo letto.. cosa c’era di strano?
Tirò su col naso e cercò di tranquillizzarsi, scuotendo la testa. Alzò il viso e guardò il tetto della stanza; non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi.
«Non lo so..» gli sussurrò lentamente, cercando di trattenere i singhiozzi.
«Qual è l’ultima cosa che ricordi?» le chiese. Nel suo tono non c’era fretta e neanche cattiveria; soltanto preoccupazione e curiosità.
Lei cercò di tornare indietro con la mente al suo ultimo ricordo, ma come le era successo per l’istituto, c’era una grande macchia nera che le offuscava la testa.
«Mahtar che mi dava la buonanotte..» sussurrò delicatamente.
«E poi?» le chiese continuando a massaggiarle le mani. C’era qualcosa di dolce nel suo comportamento; qualcosa che le faceva venir voglia di gettarsi fra quelle braccia ed essere protetta. Ma sapeva che non era il caso di farlo; si era già fatta sopraffare una volta..
«E poi mi sono svegliata nel mio letto, in questo stato..» sussurrò indicando i propri vestiti e il proprio viso. «E mi fa male tutto..» sussurrò con una smorfia di dolore. Lui sospirò e si alzò, allontanandosi da lei per qualche secondo. «Non andartene..» gli disse in fretta, alzandosi senza riuscire a nascondere la paura che aveva di restare da sola. Lui si voltò a guardarla con un’espressione stupita, ma poi le sorrise in modo rassicurante.
«Vado a prendere le bende» le disse tranquillamente. Lei sbatté le palpebre, ma annuì e si sedette di nuovo, cercando di nascondere il lieve rossore che le era apparso sulle guance.
Non riusciva a pensare a niente; anzi a dire il vero il suo cervello si rifiutava di pensare a qualunque cosa. Era come se si trovasse in uno stato di vuoto totale. Era stanca e voleva dormire, ma non voleva addormentarsi da sola.
Il ragazzo tornò quasi subito, portando con sé, bende, medicinali, vestiti e qualche pezza. Poi si allontanò nuovamente per ritornare con una bacinella piena d’acqua.
«Ho pensato che magari avresti voluto cambiarti» le disse con un sorriso. Lei annuì, senza sorridere.
«Grazie..» gli sussurrò. La mascella del ragazzo si irrigidì.
«Togliti i pantaloni» le disse velocemente. Lei lo guardò accigliata e per qualche secondo i suoi occhi sembrarono riacquistare il loro normale vigore.
«Come scusa?» gli chiese in un sussurro.
«Ti devo curare la caviglia e pulire un po’ da tutta questa terra» le disse scrollando le spalle. Lei sbatté le palpebre incredula e sbuffò, facendolo quasi sorridere.
Poi prese la coperta del letto e si coprì le cosce, in modo da mostrare al ragazzo soltanto i suoi polpacci nudi e non tutte le gambe. Si sbottonò i jeans e se li fece passare sotto il sedere, facendoli arrivare alle ginocchia. Il rosato la guardava con  un’espressione divertita. Poi però la ragazza sussultò, incapace di continuare a spogliarsi.
«Che c’è?» le chiese Anar preoccupato.
«Mi fa male tutto il polpaccio e non riesco a togliere i jeans..» gli sussurrò la ragazza, mordendosi il labbro inferiore per la sofferenza che stava provando. Anar sospirò. Si inginocchiò accanto a lei e le tolse le scarpe, cercando di essere il più delicato possibile mentre le toglieva quella sinistra. Poi, sempre con la massima delicatezza, la liberò dei jeans, facendoglieli scendere lentamente lungo le gambe causandole brividi lungo tutta la schiena.
Il modo in cui il ragazzo si muoveva, scatenò desideri proibiti nella ragazza che cercò di trattenere l’ennesimo brivido. Iniziava a desiderare che quelle mani tanto delicate la toccassero e che le sue labbra morbide la baciassero.
Anar iniziò a passarle la pezza bagnata sulle gambe in modo da pulirle da tutto il nero di cui erano ricoperte. E ogni strofinata era come una carezza affettuosa. Le pulì anche i piedi, facendole il solletico e facendole sfuggire una risatina.
«Non sapevo soffrissi il solletico» le disse con un sorrisetto malizioso.
«Un po’ dappertutto» ammise lei, sdraiandosi sul letto.
«Buono a sapersi» le disse ridendo.
«Che intendi dire?» gli chiese sedendosi, nuovamente.
«Assolutamente nulla» le rispose iniziando a controllarle la caviglia. Gliela toccò, facendogliela muovere per controllare se fosse rotta, ma fortunatamente non sembrava esserlo. Poi esaminò il lungo taglio che la percorreva, cercando di capire cosa avesse potuto procurarlo.
«Qualche idea?» gli chiese lei cercando di vedere cosa stesse facendo. Lui era chino sul suo piede (la testa all’altezza delle sue ginocchia), quindi lei riusciva soltanto a vedere la sua testa rosata. Aveva una voglia matta di accarezzargli i capelli, ma si trattenne dal farlo; non era il caso.
«No..» le rispose deluso, iniziando a fasciarla; «Ma tranquilla, prima o poi scoprirò cosa ti sta succedendo» le disse lentamente. Lei rabbrividì, ma si lasciò sfuggire un sorriso. Le piaceva il modo in cui Anar si prendeva cura di lei; la faceva sentire amata, ed era una bella sensazione. Era vero che anche Mahtar l’aveva sempre trattata con amore, ma era un tipo di affetto diverso. Se non il loro, era forse diverso ciò che provava lei.
Una volta che ebbe finito di fasciarle la caviglia, l’aiutò ad indossare una vecchia tuta e la fece alzare in piedi lentamente per vedere se riusciva a camminare. La fasciatura era perfetta e non le faceva sentire quasi neanche il minimo dolore.
Gli sorrise grata e insieme a lui si diresse verso il bagno; e mentre lui si sedeva sul bordo della vasca con le braccia incrociate, lei si lavava i capelli nel lavandino.
«Dovrò seguirti dappertutto, adesso?» le chiese con un sorrisetto, fingendosi infastidito da ciò. Lei gli sorrise. Sembrava che l’angoscia, il panico e la confusione già l’avessero abbandonata; non sembrava più sconvolta e preoccupata. Era davvero una brava attrice.
«Sì» gli disse. «Non puoi lasciarmi da sola.. potrebbe succedermi qualcosa di brutto la prossima volta» gli disse avvolgendosi un asciugamano intorno alla testa.
«Già, perché quello che ti è successo oggi è stato bello, vero?» le chiese sarcasticamente. Lei sbuffò e gli lanciò un’occhiataccia.
«Di più brutto» gli disse con una smorfia, e lui sospirò.
 
Erano ormai le due del pomeriggio. Estel dormiva sul divano, accanto al calore del fuoco; la guancia poggiata su una mano e la bocca dischiusa.
Anar era seduto sulla poltrona di fronte e la guardava con un’espressione ferma e preoccupata. Quando quella mattina aveva sentito Estel urlare il suo nome, era saltato letteralmente in aria per la sorpresa e il suo cuore aveva iniziato a battere a mille. C’era qualcosa di disperato nel suo tono di voce; qualcosa che gli aveva trafitto il petto. Era corso da lei immediatamente e l’aveva trovata seduta sul pavimento con le mani tese davanti a sé e quando i loro sguardi si erano incontrati lui aveva visto il suo terrore. Poi gli era saltata addosso stringendosi contro di lui, lasciandolo confuso e incredulo per qualche secondo. Non si sarebbe mai aspettato una simile reazione da lei; ma la cosa gli era piaciuta. Era stato contento di tenerla stretta, di accarezzarle il viso e di sistemarle le gambe. Era stato contento quando lei gli aveva detto di non andarsene.
Gettata lì, sul pavimento sporco e coperto di macchie di sangue, lo aveva portato a vederla come una bambina; la piccola Estel che veniva picchiata dal padre e poi lasciata da sola a piangere nella sua stanzetta. Non aveva nessuno che la abbracciasse e le curasse le ferite a quel tempo; nessuno che le sussurrava parole d’affetto e di conforto. Era sola.
Il rosato espirò profondamente e osservò il viso della ragazza che gli dormiva di fronte. Era illuminato dalle fiamme che scoppiettavano nel caminetto e che mettevano in evidenza i leggeri graffi rossi che lo percorrevano e la macchia luccicante sulle labbra, che gli fece venir voglia di sfiorarla delicatamente con la propria bocca; le lunghe ciglia ci creavano strani disegni scuri sulle guance; le labbra erano dischiuse così come gli occhi, dove sotto le palpebre si percepivano leggeri movimenti, segno che stesse sognando. I capelli le ricadevano sulla fronte e le orecchie appuntite spuntavano dai lati della testa facendola quasi apparire come un essere antico e mitologico.
Automaticamente, Anar alzò una mano per toccarsi le proprie orecchie, uguali a quelle della ragazza e si fece sfuggire un sorriso. Sapeva che era stupido pensarlo, ma sapere che entrambi avevano le orecchie a punta, lo faceva sentire stranamente legato a lei; condividevano qualcosa che soltanto loro avevano.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura, svegliò Anar dai suoi pensieri e lo portò a volgere lo sguardo verso la porta che si apriva. Sulla soglia era appena comparso Mahtar; gli occhi cerchiati di nero e i capelli arruffati, come se si fosse appena svegliato.
Il rosso si chiuse la porta alle spalle, togliendosi la giacca e facendosi cadere con un sospiro sulla poltrona libera. Si massaggiò le tempie e si staccò il cinturone delle armi facendolo cadere contro il pavimento.
«Giornata pesante?» gli chiese il ragazzo guardandolo. L’uomo annuì in silenzio.
«È stato trovato un cadavere» sussurrò soffermando lo sguardo sulle fiamme. Il ragazzo corrugò la fronte.
«Un’altra ragazza?» gli chiese, irrigidendo la mascella. Il rosso scosse la testa.
«Era un uomo. È stato ritrovato nei pressi del parco con il viso e il petto bruciati; in mano teneva un lungo pezzo di metallo insanguinato» sussurrò guardandolo. Il rosato sbatté le palpebre incredulo e il suo sguardo si poggiò sulla ragazza addormentata per qualche secondo. Poi scosse la testa.
«Da cosa sono state causate le ustioni?» gli chiese con un tono piatto, cercando di non tradire nessuna emozione. Il rosso si irrigidì.
«Non lo sappiamo; ma l’uomo non è morto subito. La scientifica ha potuto osservare che gli organi interni (cervello e cuore) hanno smesso di funzionare soltanto dopo mezz’ora che il corpo aveva subito le ustioni. Sono stati danneggiati lentamente» gli disse, massaggiandosi il collo.
«E il sangue?» gli chiese all’improvviso. Il rosso lo guardò con un’espressione impenetrabile.
«Dall’esame del DNA si è constatato che non fosse umano» sussurrò serrando i denti. Il rosato deglutì e spalancò gli occhi a malapena.
«Di chi era, allora?» gli chiese lentamente cercando di restare calmo. Il rosso chiuse gli occhi per qualche secondo. Anar lo guardava in silenzio, il cuore che martellava. Sperava con tutto il cuore che non dicesse quella parola.
«Era di..».
«Ainur..» sussurrò Estel aprendo gli occhi di botto. Anar e Mahtar si irrigidirono subito, guardandola con occhi spalancati.
«Che hai detto?» le chiese il ragazzo, lentamente. Lei lo guardò, sbattendo le palpebre.
«Perché siete così seri?» chiese guardando i due. Entrambi si irrigidirono. Anar sperò che si riaddormentasse di botto, ma purtroppo non accadde.
«Stavo parlando ad Anar del mio caso di stamattina» le disse Mahtar. Lei si sedette, guardandolo incuriosita. Sembrava che tutto il terrore per quello che le era successo quella mattina fosse già svanito. O forse – o meglio, molto probabilmente -  era stato soltanto nascosto dietro uno dei suoi mille scudi.
Mahtar le raccontò tutto, con le medesime parole che aveva usato con il rosato e quando chiuse la bocca, alla fine, notò che Estel lo guardava sbigottita. Era impallidita in fretta e, anche le sue labbra rosee erano sbiancate.
«L’uomo è stato ritrovato nel bosco.. con un pezzo di metallo insanguinato..» sussurrò deglutendo a malapena. Anar la guardò con attenzione. Non era sicuro, ma sembrava che parte della paura stesse ritornando. «Ma è impossibile.. quel sangue non è umano..» sussurrò scuotendo la testa, senza sbattere le palpebre. Sembrava persa tra chissà quali pensieri.
«Cosa succede, Estel?» le chiese Mahtar preoccupato inginocchiandosi accanto a lei.
«Non può essere.. vero?» gli chiese, guardandolo dritto negli occhi, con uno sguardo disperato. L’uomo le accarezzò dolcemente una guancia, ancora rigata da qualche lieve striscia rossa.
«Cosa?» le chiese delicatamente. Lei deglutì e alzò la gamba sinistra in modo da mostrare la caviglia fasciata.
«Stamattina mi sono svegliata tutta sporca di terra e insanguinata.. ma non so dove sono stata, non so cosa sia successo.. ma non posso essere stata io.. vero?» gli chiese cercando di trattenere le lacrime. Gli occhi lucidi brillavano e le sue pupille erano dilatate dalla paura. Mahtar strinse la mascella, ma rimase in silenzio.
Anar deglutì; non sapeva cosa fare o dire. Vedere Estel in quelle condizioni era come ricevere una pugnalata dritta nel cuore. Non riusciva a vederla spaventata e disperata.
«Il mio sangue è umano.. vero?» chiese, ma l’uomo non le rispose. Lei sgranò gli occhi spaventata e il suo sguardo si catapultò in quello del ragazzo. Un brivido lo percorse e si trovò a condividere la sua disperazione. «Anar.. vero?» gli chiese in un sussurro. Lui deglutì; cosa doveva dirle? Perché Mahtar non parlava?!
«Estel» la voce del rosso risuonò ferma e grave. Lei lo guardò, immobilizzandosi. Stava trattenendo il respiro senza accorgersene. Anar sentì una fitta al cuore. «Estel, c’è qualcosa che devi dirci?» le chiese guardandola dritto negli occhi. Lei sussultò.
«A cosa ti riferisci?» gli chiese in sussurro. Mahtar serrò la mascella.
«C’è qualcuno che ti contatta di nascosto e che ti dice di non parlarcene?» le chiese direttamente. Lei spalancò gli occhi incredula e sbiancò. Le mani iniziarono a tremarle e il rosso le strinse forte, cercando di calmarla. Lei rimase in silenzio, con lo sguardo basso e gli occhi semichiusi. Anar la vide mordersi il labbro inferiore e vide qualcosa luccicare sul suo viso.
Una lacrima, pensò. Ma prima che potesse accertarsene la ragazza parlò, sputando la risposta come se fosse stata veleno.
«Si».  

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Capitolo 31
*** Waldeaz Ur ***


Waldeaz Ur

 
Quella sillaba restò a fluttuare nell’aria immobile per qualche secondo. Estel non poteva credere di aver risposto davvero. Non pensava che sarebbe riuscita a dire la verità, eppure l’aveva detto: si.
Abbassò lo sguardo su Mahtar ancora inginocchiato accanto a lei. Le stringeva forte le mani, come per tranquillizzarla, ma lei lo sentiva tremare. Deglutì e cercò di non piangere. Sentiva gli occhi bruciarle, ma non avrebbe ceduto. Non avrebbe pianto una seconda volta davanti ad Anar.
«Chi è?» le chiese poi Mahtar in un sussurro, con la mascella irrigidita. Anche lei si irrigidì. Rimase in silenzio, senza rispondere. Non poteva dirgli di la verità. Non poteva dirgli che parlava con Vortha. Cosa avrebbe pensato? Che era una traditrice..
«Non..» sussurrò, ma Anar si alzò e incrociò le braccia sul petto, guardandola.
«Rispondi» le disse con un tono serio e distaccato che la ferì. Sentì una fitta al petto e si morse il labbro inferiore. Perché Anar le parlava in quel modo? Gli avrebbe voluto sbuffare contro e rispondere che stava già per rispondere prima che lui la interrompesse, ma non le uscivano le parole di bocca. Prese un grande respiro e cercò di calmarsi. Strinse le dita intorno a quelle del rosso.
«Vortha» sussurrò tra i denti, tenendo lo sguardo fisso sulle fiamme del camino; non aveva il coraggio di guardarli in faccia eppure con la coda dell’occhio vide Anar impallidire. Si sentiva una vigliacca.
La stretta di Mahtar si fece più forte e le fece male, ma lei non disse nulla. Serrò i denti e sopportò il dolore.
«Dov’è?» le chiese in un sussurrò. Era furioso e il suo tono era così feroce che la fece rabbrividire. Non lo aveva mai sentito così..
Zitta.La voce di Vortha le risuonò nel cervello, intimandole il silenzio. Un brivido le corse lungo la schiena e si irrigidì. Sbatté le palpebre incredula e spaventata. Si umettò le labbra che sentiva incredibilmente secche e deglutì.
«Estel» la chiamò l’uomo, lentamente.
Se parli non ti potrò portare da Ainur e lui non la troverà mai più; resteranno per sempre separati l’uno dall’altra. Lei piangerà sempre, da sola.
Le parole di Vortha erano come lame affilate che la trapassavano da parte a parte. Erano parole tranquille, dette senza paura. Non sospettava neanche lontanamente che lei avrebbe parlato; e forse aveva ragione. Estel sapeva cosa significava dover piangere da soli. Era sempre stato così per lei quand’era bambina. Nessuno la consolava e nessuno le si avvicinava anche solo per sussurrarle “ti voglio bene; andrà tutto bene”.
Nessuno meritava di piangere da solo; neanche Ainur.
«Non lo so» gli rispose lentamente, soppesando ogni sillaba. Il rosso si alzò di botto e la costrinse a guardarla negli occhi. Aveva il viso accaldato; rosso quasi quanto il colore dei suoi capelli.
«Come puoi non saperlo, Estel!» le urlò. I suoi occhi erano accecati dall’odio e dall’ira. Aveva i muscoli di tutto il corpo tesi per la rabbia. «Dov’è?» le chiese nuovamente trafiggendola con il suo sguardo. Lei rimase pietrificata senza avere neanche il coraggio di parlare. Lo sguardo, la voce, la tensione dei muscoli.. tutto in Mahtar la spaventava in quel momento. Deglutì e sbatté le palpebre, costringendosi a parlare.
«Non posso» gli sussurrò, mordendosi il labbro. I pugni del rosso si strinsero ancora di più, facendogli sbiancare le nocche.
«Non puoi nasconderlo, Estel! È cattivo; un assassino!» le disse in un sibilo, trafiggendola con il suo sguardo; ma le sue parole suonarono come un grido. Lei deglutì, confusa e accigliata.
«Davvero Mahtar, non posso dirti dove sia; semplicemente perché non lo so..» gli sussurrò lentamente cercando di non far tremare la propria voce. Il rosso prese un profondo respiro; le vene sulle tempie che pulsavano minacciosamente.
«E come ti contatta, allora?» le chiese in un sussurro.
«Mi parla nella testa..» ammise e fu contenta che almeno quello fosse vero. Mahtar la guardò in silenzio per qualche secondo.
«Quel mostro mi ha già strappato metà del cuore portandomi via mia moglie e una figlia; non gli permetterò di uccidere anche te» le sussurrò e, anche se il suo tono era simile ad un sibilo furioso, c’era un che di dolce nelle sue parole. Rimase a fissarla per qualche secondo, gli occhi infuocati come un vulcano in eruzione; dopodiché le voltò le spalle,  recuperò la giacca e uscì di casa chiudendosi forte la porta alle spalle.
Lei rimase immobile, pietrificata dallo stupore e dalla confusione. Una figlia..
Qualcuno espirò profondamente, facendola sussultare. Sbatté le palpebre confusa e si rese conto che ancora Anar era in piedi di fronte a lei con le braccia incrociate. Lo guardò; i loro sguardi si incontrarono. I suoi occhi verdi e profondi erano accesi e misteriosi, e le fecero bruciare gli occhi. Distolse lo sguardo da lui e lo puntò sulle fiamme cercando di non piangere. Com’era possibile che bastasse soltanto un suo sguardo per farla sciogliere e far breccia nel suo cuore?!
Si sentiva in colpa per aver mentito a Mahtar; lui l’aveva sempre protetta e aiutata, si era comportato come un vero padre e lei lo ripagava raccontandogli menzogne. Che razza di figlia che era.. ma lo faceva per lui, voleva vederlo riabbracciare sua figlia. Era davvero così cattiva?  
Anar le toccò improvvisamente una mano, facendola sussultare. Lei distolse lo sguardo dalle fiamme e lo guardò. Qualcosa di dolciastro le bagnò un angolo della bocca e lei si portò immediatamente una mano sul viso. Non si era accorta neanche di aver iniziato a piangere.
«Non avere paura» le sussurrò dolcemente il rosato, stringendole forte una mano. Il ragazzo distaccato di poco prima sembrava essersi volatilizzato. Adesso era inginocchiato davanti a lei, con uno sguardo dolce e preoccupato e gli teneva stretta una mano tra le sue. Era più alto di lei e, anche se era inginocchiato contro il pavimento, il suo viso era alla stessa altezza di quello della ragazza. Lei deglutì, ammaliata dai suoi occhi verdi e misteriosi come il mare. «Non gli permetterò di farti del male» le sussurrò, e un brivido le percorse la schiena. Deglutì rumorosamente, inspirando per fermare le lacrime; ma lo stimolo si fece più forte e iniziò a piangere davvero. Con Anar era impossibile trattenersi; riusciva a farla essere spontanea e a liberarla di tutte le emozioni negative. Riusciva a fare breccia nei suoi scudi infrangibili.
«Non ho paura» gli disse scuotendo la testa cercando di convincere sé stessa, piuttosto che il ragazzo. Lui le sorrise intenerito e le accarezzò una guancia asciugandole le lacrime con le dita.
«Non è vero» le disse dolcemente. Lei lo guardò in silenzio, asciugandosi gli occhi.
«Si invece» gli sussurrò, strofinandosi il naso.
«No» le disse più tranquillamente. Lei lo guardò e corrugò la fronte.
«Sei antipatico» gli rispose incrociando le braccia, smettendo di piangere di botto.
«Non è vero; mi vuoi bene» le disse scrollando le spalle con un sorriso.
«Chi te lo dice?» gli chiese sbuffando e asciugandosi definitivamente le guance. Lui rise.
«Lo so e basta» le disse ridacchiando. Lei lo guardò di sottecchi e si lasciò sfuggire un sorriso che fece accendere lo sguardo del rosato.
«Non ho mai paura.. se ci sei tu con me» ammise infine in un sussurro, cogliendolo di sorpresa. Lui la guardò come se gli avesse appena parlato in babilonese antico. Sbatté le palpebre parecchie volte e chiuse la bocca (che aveva appena notato di aver spalancato come un’idiota).
«Davvero?» le chiese accigliato. Lei annuì in silenzio, continuando a guardarlo dritto negli occhi. Lui accennò un sorrisetto e le strinse forte una mano.
Estel deglutì, ammaliata dal suo sguardo. Aveva il cuore che le batteva a mille e lo sentiva premere contro il proprio petto. Ci avrebbe voluto mettere una mano sopra per fermarlo, ma era immobilizzata dallo sguardo di Anar. Questo, con mano tremante, le accarezzò una guancia, sfiorandola delicatamente lì dove sorgeva una ferita. Poi le dita esitanti, scesero a sfiorarle la crosta lucente sulle labbra e lei rabbrividì.
Intrecciò le dita a quelle del ragazzo e notò con piacere che il suo sguardo si illuminò. Anar mosse d’istinto il viso verso l’alto e lei rimase immobile, senza indietreggiare. Le loro fronti si toccarono e lei sentì il respiro caldo del ragazzo farle il solletico sulle labbra. Slegò la mano dalla sua e gliela posò sul viso, accarezzandone la forma perfetta della mascella.
Poi, finalmente, con un movimento deciso e delicato lui le poggiò le labbra sulle sue. Lei rimase immobile qualche secondo a bearsi della morbidezza della labbra di Anar, del loro gusto delicato che non seppe paragonare a nulla. Poi restituì il bacio, allacciandogli le mani dietro la testa, intrecciando le dita ai suoi capelli rosa. Lo attirò a sé, facendolo alzare dal pavimento e stringendoselo contro il petto. Lui sembrò sorpreso dal suo gesto, ma la accontentò di buon grado, stringendola a sé dai fianchi. Poi però, il rumore improvviso della chiave nella serratura li fece separare di botto, ansanti.
Entrambi avevano le guance porporee e gli occhi lucidi, Estel non solo perché aveva appena smesso di piangere. Lui era ricaduto sul pavimento, seduto con le gambe larghe e le braccia a sostenerlo da dietro.
Quando Mahtar comparve, li fissò per qualche secondo in silenzio, ancora con la porta spalancata. Poi rivolse la sua attenzione al ragazzo, che cercò di assumere un atteggiamento tranquillo.
«Non perderla di vista» gli ordinò con tono severo. Lui deglutì, ma quando rispose il suo tono era fermo.
«Certo che no» gli rispose. L’uomo annuì e, così com’era arrivato, velocemente se ne riandò.
Estel si lasciò sfuggire un sospiro e chiuse gli occhi, cercando di nascondere il rossore sulle proprie guance. Non poteva credere a ciò che era appena successo. Lei e Anar si erano baciati! Era qualcosa di incredibile che però, nonostante il momento che stava attraversando, la fece sentire bene.
Waldeaz Ur. Sussurrò in quel momento la voce di Vortha nella sua testa. Lei sbatté le palpebre confusa e alzò lo sguardo verso l’alto come se potesse vedere spuntare il coniglio da qualche parte.
“Cosa?”, pensò nella propria mente, senza parlare ad alta voce.
Ho rintracciato Waldeaz, il mio creatore. Lui saprà darci le informazioni che ci servono su Ainur. Le disse con voce calma e tranquilla.
“Ma non posso uscire, c’è Anar con me..”, pensò la ragazza, guardando il rosato ancora seduto sul pavimento.
Fidati di me. Quelle parole erano dolci e rassicuranti, ma c’era qualcosa di malvagio ad oscurarle. Estel non fece neanche in tempo ad obbiettare. Si ritrovò inginocchiata accanto al rosato, il viso a pochi centimetri dal suo. Gli accarezzò il viso e gli poggiò le dita sulle labbra dischiuse. Lui la guardò sorpreso, ma le sorrise di quel suo sorriso speciale. Lei deglutì; il cuore le batteva a mille.
Non era certa di essere proprio lei a muovere il proprio corpo in quel momento, però stava facendo proprio ciò che voleva. Voleva toccare Anar, voleva baciarlo; lo voleva.
Il ragazzo le posò una mano sul viso, accarezzandola delicatamente. Poi le si avvicinò e le baciò dolcemente la guancia, per poi scendere lentamente fin sotto il mento e sul collo.
Estel rabbrividì e chiuse gli occhi, deglutendo, con il cuore che batteva come se fosse impazzito. Poggiò una mano sul petto del ragazzo, per toccare i suoi pettorali perfetti, e sotto la felpa leggera sentì che anche il suo cuore batteva come un pazzo.
Gli fece alzare il viso e si impossessò delle sue labbra, baciandolo con foga e desiderio. Lui le restituì il bacio, chiudendo gli occhi, e afferrandola dai fianchi per stringerla a sé. Dischiusero entrambi le labbra, per respirare l’uno il profumo dell’altra. Poi Anar, audacemente, fece scivolare la lingua nella sua bocca. Estel spalancò gli occhi sorpresa, ma fu soltanto una questione di pochi secondi; si allacciò al suo collo, cercando di approfondire sempre di più il loro contatto.
Poi il ragazzo si staccò dalle sue labbra dolcemente, guardandola dritto negli occhi con lo sguardo brillante di desiderio. Estel lo guardò, sorridendo, cercando di riprendere fiato. Si alzò, prendendolo per mano per farlo alzare. Lui le sorrise e si lasciò guidare nella sua stanza.
«Estel» la chiamò lui, all’improvviso, con un tono dolce che la fece rabbrividire. Lei si voltò a guardarlo.
«Si?» gli chiese con un sorriso malizioso.
«Non voglio andare in camera mia» le disse lentamente; lei lo guardò incredula. Si immobilizzò.
«Pensavo che..» sussurrò, mordendosi il labbro, ferita. Lui le sorrise dolcemente, accarezzandole il viso.
«Non fraintendermi» le disse trafiggendola con il suo sguardo carico di desiderio; «Ti desidero come non ho mai desiderato nulla al mondo, ma tu vieni prima di tutto» le sussurrò con un sorriso intenerito. Lei deglutì e lo guardò confusa.
«Io voglio te, adesso» gli sussurrò. Lui rise; il suono più bello che le orecchie di Estel avessero mai sentito.
«Devo restare vigile, Estel, perché non c’è nessuno a controllare la situazione se io esco fuori di testa; non voglio che Vortha approfitti nuovamente di te» le disse con un tono serio e tranquillo allo stesso tempo. Lei rabbrividì e si strinse contro il suo petto. Le braccia forti di Anar l’avvolsero.
«Grazie» gli sussurrò, parlando contro la felpa. Lui rise di nuovo, facendole battere il cuore a mille. Poi la prese per mano e la riportò nel salotto, sedendosi accanto a lei sul divano davanti al camino.
 
«Ho sete» disse Anar, alzandosi all’improvviso.
«Ti prendo qualcosa io» gli disse Estel alzandosi senza rendersene conto. Gli poggiò una mano su una spalla e lo spinse contro il divano. Lui le sorrise e si sedette docilmente.
«Qualcosa di forte, però» le disse, massaggiandosi il viso. Si vedeva chiaramente che era stanco e che stava cercando di non addormentarsi. Sicuramente tutte le vicende di quegli ultimi giorni lo avevano distrutto. Estel sorrise intenerita.
«Un bel caffè?» gli propose.
«Perfetto» le disse sorridendo e si distese con gli occhi chiusi.
La ragazza si avvicinò alla cucina e iniziò a preparare la caffettiera. Era strano com’era cambiato il suo rapporto con Anar, così all’improvviso. Eppure le piaceva; era contenta. Lui la faceva sentire amata e protetta. Sorrise e mise la caffetterie sul fornello, in attesa che il caffè salisse.
«Quanto zucchero vuoi?» gli chiese gridando.
«Due cucchiaini» lo sentì rispondere lentamente. Lei annuì e prese il contenitore dello zucchero. Poi però si ritrovò ad afferrare un secondo contenitore più piccolo; una specie di medicina che prendeva Mahtar quando voleva addormentarsi di botto per non pensare al lavoro. Senza rendersene contò, aprì il contenitore e ne prese due minuscole pillole bianche che fece cadere nella tazzina del ragazzo. Deglutì lanciandosi un’occhiata veloce alle spalle, dopodichè versò la bevanda calda sulle pillole e lo zucchero, mescolando velocemente con il cucchiaino. Quando le sembrò che tutto il soluto si fosse sciolto, mise al suo posto il sonnifero, e odorò la bevanda. Faceva un forte odore di caffè. Sorrise, perfidamente, mordendosi il labbro inferiore, e ritornò in salotto.
«Ecco qui» disse ad Anar, porgendogli la tazzina. Lui le sorrise e la prese, con attenzione, cercando di evitare di buttarselo addosso.
«Grazie» le disse trafiggendola con lo sguardo. Il cuore della ragazza iniziò a martellare più forte. Si gettò sulle sue labbra, intrecciando la lingua a quella del ragazzo che per qualche istante rimase sbalordito. Poi gli si allontanò lentamente, dopo avergli lasciato un piccolo bacio a fior di labbra. Lui la guardò accigliato, ma le sorrise contento. Portò la tazzina alla bocca e bevve tutto d’un fiato.
 
Fece una smorfia.
«È amaro» disse Anar passandosi la lingua sugli angoli delle labbra. Poi però uno sbadiglio lo colse, portandolo a mettersi una mano davanti alla bocca. Estel si morse il labbro inferiore.
«Forse gliene ho messe troppe» gli disse con un sorrisetto. Lui la guardò confuso. Di cosa stava parlando? Forse lo zucchero..
«Cosa?» le chiese poggiando la tazzina sul pavimento con attenzione.
«Pasticche» gli rispose scrollando le spalle. Lui spalancò gli occhi, ma poi li chiuse quasi di botto. Di che stava parlando? E poi perché all’improvviso si sentiva le palpebre pesanti e gli era venuto sonno? Il caffè avrebbe dovuto svegliarlo!
«Che cosa mi hai fatto?» le chiese guardandola dritto negli occhi con uno sguardo d’accusa. La vide ridere perfidamente.
«Mi dispiace, piccolo Anar, ma devo andare in un posto; non sei voluto venire con me nella tua stanza, quindi ho dovuto escogitare un altro modo per toglierti di mezzo» gli rispose guardandolo dritto negli occhi. Lui sbatté le palpebre incredulo, scuotendo la testa. Sentì una lama attraversagli il petto e trafiggergli il cuore.
Non poteva parlare seriamente. Era impossibile. Nel modo in cui gli si era gettata addosso, nel modo in cui lo aveva baciato e abbracciato.. non poteva aver finto davvero.
«Mi hai drogato?» le chiese in un sussurro, minaccioso. Lei sospirò.
«Ti ho dato un sonnifero» gli disse scrollando le spalle e lui si irrigidì, stringendo i pugni.
«Mi hai..?» le chiese in un sussurro, ma fu interrotto dalla sua risata crudele.
«Usato? Beh, possiamo dire di sì. Sapevo che Mahtar sarebbe ritornato per dirti di tenermi d’occhio, così gli ho fatto credere che fosse successo qualcosa tra noi. Si fida di te e sa che non lasceresti mai che io mi faccia del male. Poi però, dovevo trovare il modo di liberarmi anche di te; volevo farti addormentare tranquillamente nel tuo lettino, nudo con me stretta tra le tue braccia; ma hai preferito il sonnifero» gli disse scrollano le spalle. Lui strinse i pugni; la lama invisibile sembrava penetrarlo sempre più in profondità. Com’era potuto essere così stupido? Lui ed Estel.. doveva capirlo subito che era soltanto una presa in giro.
«Quindi, ti conosco, finalmente» le disse, cercando di tenere ancora gli occhi aperti. Stava per cedere, lo sentiva. Lei gli sorrise, accarezzandogli il viso lentamente. Uno sguardo perfido e un sorriso diabolicamente bello.
«È tanto che mi conosci; ho conosciuto i tuoi genitori» gli rispose tranquillamente. «Una bella coppietta felice; ricordo ancora come tua madre invocasse il tuo nome tra le fiamme e come tuo padre cercasse di tranquillizzarla con dolci carezze sul viso. Sai gli assomigli tanto (a tuo padre intendo), tranne che per le orecchie e la forma degli occhi; il colore l’hai preso da tuo padre però» gli disse guardandolo attentamente con un sorrisetto. Lui si irrigidì e lentamente alzò una mano per staccarsi quella della ragazza dal viso. Come si permetteva di parlargli in quel modo dei suoi genitori?!
«Io ti vedo solo ora, Vortha» le disse lentamente, digrignando i denti. Quindi era ormai chiaro che la ragazza che gli stava davanti, non era più Estel; o meglio, era il suo corpo, ma non era lei a controllarlo. Quindi era questo che le succedeva? Vortha iniziava a controllarla e lei non ricordava nulla di ciò che il mostro le faceva fare. Allora poteva davvero essere stata lei quella mattina.
Strinse i pugni, ferito e desolato; Estel non si sarebbe neppure ricordata di loro.. di quei loro bei momenti insieme; almeno, belli per lui; stupendi, per lui; pieni di significato. Non avrebbe mai saputo nulla.
«Hai un bel coraggio a chiamarmi per nome» gli sussurrò guardandolo, l’oro fuso che brillava nei suoi occhi. Aveva un’espressione fintamente stupita e le labbra dischiuse. «Non sai che potrei benissimo ucciderti, ora?» gli sussurrò dritto nel padiglione auricolare, mordicchiandogli il lobo sinistro. Anar rabbrividì e chiuse gli occhi deglutendo. Cercò di respirare lentamente e di non addormentarsi. Ormai era a corto di energia.
«Fallo» gli sussurrò, alzando le palpebre, allontanandola dal suo viso. Lei gli sorrise perfidamente.
«No; è più divertente vederti soffrire» gli sussurrò, soffiandogli sulle labbra. «Vedo come la guardi, vedo come il tuo corpo e il tuo cuore reagiscono alla sua presenza. Povero, piccolo Anar. Credevi davvero che Estel si sarebbe legata a te? Che avrebbe ricambiato i tuoi sentimenti?» gli chiese ridendo con cattiveria. Lui strinse la mascella, ferito. Sapeva che in quel momento non era Estel a parlare, ma quelle parole gli facevano male. Cercò di prenderle le braccia e bloccarla contro il divano, ma le forze ormai lo stavano abbandonando. Sbatté le palpebre, lottando contro sé stesso per non addormentarsi, ma il sonno era troppo forte. Strinse i pugni e cercò di resistere.
«Buonanotte» gli sussurrò Estel, dolcemente, come se fosse ritornata in sé. Ma la speranza di Anar si infranse quando la ragazza si abbassò su di lui per un bacio a fior di labbra. Ebbe appena il tempo di sentirla ridere, perché si addormentò di botto, cadendo disteso sul divano.

 
 
 
 

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Capitolo 32
*** Lo stregone ***


Lo stregone

 
Estel sorrise al ragazzo che le si era addormentato davanti. Aveva un’espressione ferita e delusa; i pugni ancora serrati come a voler lottare contro il sonno che lo schiacciava. Sembrava quasi un bambino che deluso dalla scoperta dell’inesistenza di babbo natale si addormenta prendendo al pugni il cuscino del proprio letto con gli occhi appesantiti dalle lacrime. L’unica differenza era che Anar non piangeva.
Gli accarezzò i capelli con una dolcezza esagerata, quasi come se volesse restare a consolare quel bambino, magari portandogli un regalo che il vecchio vestito di rosso gli aveva lasciato sotto l’albero; ma, proprio come ci si doveva aspettare, le sue intenzioni non erano queste: alla fine era stata lei quella a distruggere l’illusione.
Ridacchiò compiaciuta e si diresse nella propria camera per prendere la tracolla con dentro il coniglietto di pezza bianco.
Vortha sapeva perfettamente che l’incantesimo di controllo che aveva fatto alla ragazza non funzionava a distanze troppo elevate; quindi era costretto a portarsi il proprio corpo d’appresso, nascosto in quella piccola borsetta di stoffa che penzolava al fianco della ragazza.
La ragazza ritornò nel salotto, si rivolse a guardare con cattiveria divertita il ragazzo sdraiato sul divano e per qualche momento fu davvero tentata di ucciderlo; ma anche Vortha purtroppo aveva i suoi limiti. Sbuffò e uscì in fretta chiudendosi la porta alle spalle.
Il corpo di Estel era una favola: si muoveva velocemente e agilmente, era forte e leggero; proprio come lo ricordava.
 
Anar dormiva profondamente quando si accorse che qualcuno lo strattonava con violenza. Aprì gli occhi confuso e si guardò intorno. Velocemente scandì con lo sguardo la stanza in cui si trovava: era nel salotto, sdraiato sul divano; le fiamme nel camino si erano ormai spente. Davanti a lui, inginocchiato, c’era Mahtar e aveva un’espressione furiosa e terrorizzata.
Lo guardò sbattendo le palpebre per qualche secondo; dopodichè gli ritornarono alla mente gli avvenimenti del pomeriggio. Strinse i pugni e digrignò i denti per la rabbia.
«Dov’è?» gli chiese l’uomo in un sussurro guardandolo dritto negli occhi. Lui serrò la mascella, ben capendo a chi si stava riferendo.
«Non lo so; mi ha dato un sonnifero» gli disse spostando lo sguardo sul camino spento. Mahtar lo guardò accigliato e si alzò di botto.
«Non ci posso credere..» sussurrò, scompigliandosi i capelli. Il ragazzo si sedette, stiracchiandosi.
«Non era lei» gli disse con uno sguardo serio e una smorfia. Anche il rosso fece una smorfia.
«Lo sospettavo; quindi Vortha dev’essere con lei. Ci ha mentito» disse stringendo i pugni per la rabbia e la delusione. Aveva lo sguardo acceso e infuriato. Si abbassò sul pavimento e recuperò il proprio cinturone delle armi che aveva lasciato cadere accanto alla poltrona. Anar lo guardò confuso e prese al volo una cartelletta che gli era scivolata da una delle tasche interne della giacca.
«Cosa hai intenzione di fare?» gli chiese alludendo alle armi che si era legato addosso. Non capiva che bisogno ci fosse di una pistola o di un coltello per andare a cercare Estel. Si che il suo corpo era controllato da un coniglio diabolico, ma non potevano ucciderla per questo.
Automaticamente aprì la cartelletta che teneva in mano e la guardò, sgranando gli occhi incredulo. Era la documentazione dell’omicidio dell’uomo trovato nel parco, munita di foto del cadavere. Il volto era quasi del tutto sfigurato, ma il ragazzo riuscì a riconoscerne l’uomo che l’aveva indirizzato verso l’istituto. Strinse i pugni sulla carta e cercò di calmarsi. Forse Vortha aveva voluto ucciderlo perché si era immischiato nei suoi piani; ma era sempre e comunque una persona innocente!
«Non si sa mai, Anar; ora come ora Estel è un pericolo» gli disse serio. Lui chiuse di botto la cartellina e lo guardò incredulo e furioso.
«E vorresti ucciderla per questo?! Non ci posso credere Mahtar, è tua figlia!» gli urlò contro indignato alzandosi in piedi. Aveva lo sguardo tempestoso e impetuoso come il mare. Il rosso si irrigidì e lo guardò dritto negli occhi, con la bocca serrata.
«Non ho mai detto di volerla uccidere» gli sussurrò, alzando un sopracciglio. Anar lo fissò e in silenzio gli porse la cartellina. Quello la prese e la riconservò all’interno della giacca. Gli voltò le spalle e si sistemò meglio il cinturone. «Andiamo?» gli chiese, dandogli sempre le spalle. Il ragazzo prese un profondo respiro e si massaggiò il collo. Poi recuperò la sua compagna – la prima pistola che Mahtar gli aveva regalato, accompagnata da eventuali caricatori – e l’inseparabile coltellino regalatogli dal suo migliore amico e seguì il rosso fuori dalla porta.
 
Estel correva velocemente tra gli alberi. Non sapeva dove fosse diretta, ma era ben consapevole di essersi lasciata Dragville alle spalle da parecchio tempo. Correva senza sosta, senza sentire la fatica; non sentiva neanche dolore quando i ramoscelli degli alberi le graffiavano il viso e le braccia. Era insensibile a tutto. Non vedeva realmente quello che aveva intorno. Non sentiva davvero. Semplicemente perché in quel momento era come una macchina; un automa controllato da Vortha.
Il cielo si era scurito ormai da tanto tempo e se i calcoli di Vortha non erano sbagliati, avrebbero dovuto raggiungere la meta nel giro di mezz’ora. Era riuscito a creare un collegamento telepatico con Waldeaz ed era riuscito a localizzarlo facilmente, anche se non lo aveva avvertito del suo imminente arrivo. Voleva fargli una sorpresa: una tremenda e inaspettata sorpresa.
Costringendo Estel a ghignare diabolicamente, rise e la costrinse a correre ancora più velocemente. Aveva un incredibile bisogno di Ainur e l’unico che poteva aiutarlo a trovarla era lo stregone; o almeno sperava che potesse aiutarlo. Se non ci fosse riuscito.. beh, se ne sarebbe pentito amaramente.
Finalmente tra gli alberi spuntò una minuscola casetta di legno scuro. Estel si fermò di botto davanti al portone e bussò forte. Sentì il rumore di passi che le si avvicinavano e dopo qualche secondo qualcuno venne ad aprirle. Prima che potesse distinguere l’immagine che le si stagliava davanti, fu accecata da una brillante luce bianca.
Poi sentì un sospiro di stupore e qualcuno l’afferrò dalla manica del maglioncino per tirarla dentro casa. Sbatté le palpebre confusa e finalmente riuscì a vedere l’uomo che le stava davanti. Aveva un fisico slanciato e capelli bianchi e lunghi che gli ricadevano sulle spalle. Gli occhi erano coperti da sottili occhiali a mezzaluna ed erano circondati da lunghe ciglia. Per il resto, indossava un jeans scuro e una camicia rossa che gli dava un’aria abbastanza eccentrica, mentre i piedi erano nudi.
Incrociò le braccia e la guardò diffidente alzando un sopracciglio bianco. Indietreggiò lentamente e si lasciò cadere su una morbida poltrona verde. Incrociò le gambe e, portatosi una mano sotto il mento come per riflettere, iniziò a mugugnare.
Estel manteneva un’espressione tranquilla e beffarda – così come il coniglio la obbligava a fare. Sapeva esattamente cosa stava pensando il vecchio stregone.
«Pensavo fossi morta» le disse all’improvviso guardandola da sopra gli occhiali a mezzaluna. Lei rise perfidamente e gli si sedette di fronte comodamente, stendendosi sulla poltrona in modo da lasciar pendere le gambe da un bracciolo. Lo stregone serrò la mascella. «Capisco» disse soltanto continuando a fissarla. Lei continuò a ridere.
«Sai perché sono qui, vero Ur?» gli chiese giocherellando con una pipa trovata sul tavolinetto basso che li separava. Waldeaz sembrò irrigidirsi ancora di più.
«Mi chiami per cognome, vedo. Credevo che ormai ci conoscessimo abbastanza da chiamarci con i nostri veri nomi, Vortha» gli rispose impassibile, con lo sguardo fisso. La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo, con ancora l’ombra di un sorriso a sfiorarle le labbra.
«Come vuoi; allora Waldeaz, sai perché sono qui?» gli chiese nuovamente, tornando a giocherellare con la pipa.
«Credo di sì» gli rispose tranquillamente, alzandosi per avvicinarsi ad una piccola credenza. La aprì ed iniziò a cercare dentro, facendo rumore; poi ne estrasse una bottiglia tarchiata con il tappo rossiccio. Tolse il tappo e assaporò avidamente l’odore forte che ne usciva. «Non credo che tu abbia l’età giusta per bere, ma se vuoi favorire» le sussurrò accennando verso di lei la bottiglia. Estel sorrise e si sedette compostamente, poggiando i piedi per terra.
«Mi piacerebbe favorire, grazie» gli rispose alzandosi per raggiungerlo. Lo stregone sembrò irrigidirsi nuovamente, ma sembrava incredibilmente tranquillo. Prese due calici di vetro e ne versò dentro il vino rosso come il sangue; ne porse uno alla ragazza e l’altro lo avvicinò nuovamente al viso per sentire l’odore. Chiuse gli occhi è sospirò.
«È incredibile quello che può fare del buon vino» sussurrò assaporandolo lentamente. Estel lo guardò senza capire e bevve tutto d’un fiato il contenuto del suo bicchiere. Scosse la testa e gli sorrise, già con le guance chiazzate di rosso. Anche Waldeaz le sorrise.
«Allora, Waldeaz, hai delle informazioni per me?» gli chiese sedendosi nuovamente con il calice in mano. Lo stregone le si avvicinò e le versò altro vino nel bicchiere fino a riempirlo completamente. La ragazza gli sorrise e iniziò a sorseggiarlo tranquillamente, svuotandolo in pochi minuti.
«Non credo di avere le informazioni che ti servono, Vortha. Nessuno sa più dove sia Ainur; le sue tracce si sono perse da tanto tempo» sussurrò con un tono di voce basso che sembrava nascondere un vecchio dolore. «Ma stai pur sicuro che se le informazioni le avessi avute non te le avrei cedute ugualmente» gli disse ritornando a sorseggiare il vino con tranquillità. Estel fece una smorfia e gli si avvicinò.
«Credi sia saggio parlarmi in questo modo?» gli sussurrò dolcemente, parlandogli all’orecchio. Lo stregone le sorrise serenamente.
«Non puoi farmi nulla con questo corpo, Vortha; e tu lo sai. Sei stato fatto apposta per Ainur, per il suo animo e per il suo cuore. Non puoi farmi nulla con un corpo diverso dal suo» gli sussurrò piano, guardandola dritto negli occhi. Il suo bel visino si contorse in una smorfia cattiva.
«Non posso ucciderti direttamente, ma posso usare i suoi poteri per scatenare qualcosa contro di te» gli sussurrò ridacchiando. Lo stregone lo sfidò con un sorriso.
Gli occhi della ragazza si accesero d’ira e nervosismo. Si alzò in piedi e stese le mani di fronte a sé con i palmi rivolti verso il viso dello stregone. Vortha costrinse il corpo di Estel a muoversi secondo la sua volontà, ma c’era qualcosa di strano. Il corpo sembrava più pesante e duro; più difficile da controllare. Il suo sguardo si fermò sulla bottiglia di vino poggiata sopra il tavolino leggero.
«Hai calcolato tutto!» gli urlò infuriata. Lo stregone rise e la prese al volo quando a causa dell’ebbrezza del vino stava per arrivare contro il pavimento.
«Mi dispiace Vortha; ma io ho creato te e prima che tu riesca a prendermi in giro ne passeranno tanti di anni» le sussurrò parlandole dolcemente contro l’orecchio. Estel gli lanciò uno sguardo omicida e fece per prenderlo a pugni; ma i suoi riflessi erano lentissimi. Waldeaz le sorrise dolcemente.
«Mi dispiace per te, piccola; ma ti prometto che farò qualcosa per aiutarti» le sussurrò con un sorriso. Vortha iniziò a gridare attraverso la voce di Estel.
Le mani di Waldeaz si illuminarono di verde e in poco tempo tutto il corpo della ragazza fu avvolto dalla stessa luce sollevandosi a mezz’aria. Lo stregone chiuse gli occhi e iniziò a canticchiare un incantesimo allegro. Poi sorrise e, con un battito di mani, la ragazza sparì.
 
Estel si risvegliò sul divano del salotto di Mahtar nella più totale oscurità. Era notte fonda e non c’era nemmeno una minima luce accesa; anche il fuoco nel camino era spento. Cercò di sedersi, ma si rese conto che le girava la testa e che aveva crampi forti che gli attraversavano tutto il cervello. Si lasciò cadere sui cuscini del divano e cercò di calmarsi e respirare lentamente. Perché all’improvviso le faceva male la testa? Cosa aveva fatto? Era successo di nuovo qualcosa di strano?
Chiuse gli occhi e cercò di soffermarsi sul suo ultimo ricordo e il suo viso si surriscaldò nel giro di pochi secondi rivangando quella scena. L’ultima cosa che ricordava era il bacio di Anar, quando lui le si era inginocchiato di fronte per dirle che non doveva temere nulla. Si portò una mano a sfiorarsi le labbra e sorrise interita, contenta che non ci fosse nessuno a poterla vedere arrossire. Poi però un fulmine sembrò attraversarle il cervello. Perché non c’era nessuno? Dov’erano Anar e Mahtar?
Si alzò lentamente, con la preoccupazione che cresceva ad ogni suo passo verso la cucina. Poi finalmente entrò dentro la stanza ed accese la luce alzando il viso per controllare che ore fossero. Erano le nove di sera.
Si avvicinò al mobiletto accanto al frigorifero e alzò la cornetta del telefono, pronta a chiamare Mahtar. Compose il numero e attese. Rispondeva la segreteria. Sbuffò e si morse il labbro inferiore iniziando a comporre il numero di Anar. La linea era libera, ma il ragazzo non rispondeva.  
 
Estel era seduta sul divano, il cuore che martellava forte. Aveva richiamato Mahtar trenta volte, ma gli aveva sempre risposto la segreteria. Anar invece continuava a non rispondere: la linea era libera, ma lui non prendeva la chiamata.
Che cosa gli era successo? Perché non riusciva a contattare nessuno dei due? Che qualcuno li avesse rapiti?
Scosse la testa e sospirò. Era praticamente impossibile rapire Anar e Mahtar; erano entrambi belli grossi e muscolosi e il primo che avesse tentato di toccarli sarebbe finito spiaccicato contro il pavimento nel giro di qualche secondo.
Ma allora che cosa gli era successo?
Un rumore secco interruppe le sue preoccupazioni, facendola voltare verso il portone d’entrata. Aveva il cuore che batteva a mille per il timore che quel qualcuno che stava per entrare non fosse nessuno che conosceva. Ma le sue paure si infransero quando davanti a lei comparve Anar: aveva la fronte aggrottata e coperta di alcune ciocche rosa che scappavano dal berretto bianco che indossava; gli occhi erano vigili e accesi; le guance erano rosee, effetto dell’aria fredda che spirava fuori.
I loro sguardi si incrociarono e per un momento il cuore di Estel si fermò. Ricordò quello che era successo fra di loro e arrossì violentemente. Poi scosse la testa e cercò di non farsi prendere dall’ansia. Era da sola con Anar, ma questo non voleva dire che si sarebbe ripresentata la stessa atmosfera particolare tra di loro; sinceramente un po’ ci sperava, ma era preoccupata.
Anar chiuse la porta e si tolse la giacca. Si portò le mani alla cintura e ne estrasse una pistola e un coltello dall’aria particolarmente aggressiva. Li soppesò un attimo; poi conservò la pistola all’interno della giacca, mentre rimise il pugnale nel fodero sulla cintura. Sospirò e si avvicinò alla ragazza seduta sul divano.
«Ciao» gli disse lei con un sorriso. Lui non le sorrise; aveva un’espressione seria e impassibile; sembrava freddo e distaccato.
«Dov’è?» le chiese lentamente, guardandola dritto negli occhi. Lei deglutì; non gli piaceva Anar quando si comportava in quel modo. Scosse la testa e strinse le labbra. Lui prese un grande respiro e la guardò con autorità. «Estel ti rendi conto della gravità della situazione?» le chiese in un sussurro. Lei sbatté le palpebre, senza rispondere. Anar si massaggiò le tempie. «Mi hai fatto prendere un sonnifero e te ne sei andata senza dire una parola. Probabilmente hai ucciso l’uomo del parco e, molto probabilmente, eri tu la causa del terremoto all’istituto. Vortha riesce a controllare il tuo corpo. Ti fa fare tutto quello che vuole, lo capisci? Se vuole può farti uccidere chiunque» le sussurrò guardandola dritto negli occhi con uno sguardo penetrante e serio. Lei rabbrividì leggermente. Non voleva uccidere nessuno e non voleva che Vortha prendesse il controllo del suo corpo. Ma doveva ritrovare Ainur.
«Tu non capisci» gli sussurrò con la testa bassa. Lui la guardò confuso e accigliato. Le poggiò le mani sulle spalle e le fece alzare il viso per guardarla negli occhi.
«Cosa?» gli chiese lentamente.
«Io lo faccio per Mahtar» sussurrò, trafiggendolo con il suo sguardo. Anar deglutì e il suo sguardo si fermò sulle sue labbra per qualche secondo. Poi scosse la testa e tornò a guardarla negli occhi. Aprì la bocca per parlare, ma fu interrotto da una botta tremenda. Alzarono entrambi lo sguardo e si accorsero contemporaneamente che la porta d’entrata era stata aperta con violenza e che davanti a loro, in piedi, c’era Mahtar, lo sguardo furioso e omicida.

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Capitolo 33
*** La festa di Dragville ***


La festa di Dragville

Mahtar era immobile sulla soglia, con i capelli rossi che si muovevano lentamente alla brezza notturna.
Estel era seduta sul divano, pietrificata dalla paura. Lo sguardo del rosso era.. era quello di un assassino. Deglutì spaventata e si alzò dal divano per raggiungerlo e fermarsi davanti a lui. Non sapeva cosa dire o fare, ma non voleva che lui continuasse a guardarla in quel modo. Doveva fare qualcosa per salvare la situazione. Forse doveva raccontargli tutta la verità, fin dal principio, e insieme a lui avrebbe ritrovato il modo di ritrovare Ainur.
Si, era la cosa giusta da fare. Doveva finirla con le menzogne.
«Scusa» fu, però, l’unica parola che fu in grado di sussurrare. Mahtar la guardò con la stessa espressione, senza muovere un muscolo. Gli occhi, con sfumature color sangue, brillavano luminosi come piccole fiammelle. «Ma, se vorrai ascoltarmi, ti racconterò perché non sono stata sincera» gli sussurrò, abbassando lo sguardo e mordendosi il labbro inferiore. Aveva paura e stava tremando. Temeva che il rosso non si sarebbe più fidato di lei e che l’avrebbe rispedita dai suoi genitori; temeva di perdere due delle poche persone che le avevano realmente voluto bene.
Mahtar restava ancora in silenzio, senza muoversi, con lo sguardo puntato su di lei. La ragazza azzardò uno sguardo al suo viso e incrociò i suoi occhi fiammeggianti. Sembrava esausto e stanco.
Poi però lo vide deglutire e stringere la mascella. Si mosse lentamente e con una mano si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca, sempre continuando a guardarla, la appese all’appendiabiti e si diresse verso il divano, dove si sedette con le braccia incrociate. Lei continuò a guardarlo, senza sapere cosa dovesse fare. Guardò Anar e lui le fece cenno di sedersi accanto all’uomo. Lei lo ringraziò con un sorriso, ma lui non ricambiò, mostrandosi freddo e distaccato come qualche minuto prima.
Lei sospirò e si sedette lentamente accanto al rosso.
«Sono disposto ad ascoltarti» le disse con tono secco, guardando il camino spento. Ancora nessuno si era degnato di accendere la luce, quindi era tutto buio. Lei prese un profondo respiro, tranquillizzata, e sospirò.
«Vedi.. è stato qualche giorno fa; ero rimasta scioccata dalla tua storia e mi sono chiusa in camera mia dove ho iniziato a sentire la sua voce. All’iniziò credevo di essere impazzita, ma a poco a poco ho capito che quella voce c’era davvero. Mi diceva che per te ero solo un rimpiazzo ad Ainur, che non mi amavi ed io le gridavo di zittirsi» sussurrò guardandosi le mani come per concentrarsi sul discorso che stava facendo. Sentì lo sguardo dei due addosso e per poco fu tentata di alzare lo sguardo per accertarsene; ma non voleva guardarli negli occhi.
«Non è mai stato vero; io ti amo, Estel. Nessuno potrà mai sostituire mia figlia, ma questo non vuol dire che io non possa amare altre persone» le disse Mahtar costringendola ad alzare lo sguardo. Lei lo guardò stupita, con le guance chiazzate di rosso, e annuì, mostrando un debole sorriso. Dopo prese un profondo respiro e continuò.
«Mi ha parlato di lei e mi ha detto che io avrei potuto fare qualcosa per farti essere felice» gli sussurrò lentamente, mordendosi il labbro inferiore.
«Cosa avreste dovuto fare?» le chiese in un sussurro, furioso.
«Insieme avremmo ritrovato Ainur per riportarla da te» gli sussurrò deglutendo. Mahtar spalancò gli occhi incredulo e rizzò le spalle.
«Perché avresti dovuto cercare Ainur?» le chiese incredulo e stupito allo stesso tempo.
«Non mi senti quando parlo? Volevo che foste tutti e due felici. Non volevo che lei continuasse a piangere da sola» gli sussurrò con un sorrisetto amaro. L’uomo continuò a guardarla, accigliato; poi però scosse la testa.
«Vortha è un assassino, Estel. Non c’è da fidarsi di lui. Vuole Ainur per sé, per controllarla e farle compiere atti riprovevoli. Non vuole che si ricongiunga con me. Farli rincontrare è un male; non devono ritrovarsi per nessuna ragione al mondo» le sussurrò guardandola dritto negli occhi.
«Ma così non la ritroverai mai» controbatté arrabbiata, incrociando le braccia.
«Chi ti dice che io non l’abbia già trovata?» le chiese in un sussurro con un sorrisetto. Lei lo guardò, incredula, sbattendo le palpebre parecchie volte.
«L’hai trovata?» gli chiese, quasi strozzandosi con quelle parole. Il sorriso del rosso si spense e le sue labbra divennero una linea sottile.
«Non è questo l’importante; adesso dimmi, dov’è Vortha?» le chiese trafiggendola con il proprio sguardo. Lei rimase in silenzio per qualche secondo. Era praticamente impossibile che Mahtar avesse ritrovato Ainur. E se invece ci fosse una qualche cella fatta apposta per lei nella sua organizzazione? Un posto dove lui potesse vederla e abbracciarla quando voleva?
Scosse la testa abbastanza diffidente e sospirò, mordendosi il labbro inferiore.
«Dentro la mia valigia» ammise con un sospiro di sollievo. Era bello liberarsi di quel peso.
Anar la guardò confuso per qualche secondo.
«Perché l’hai nascosta dentro la tua valigia?» le chiese incredulo, con le braccia incrociate. Lei scrollò le spalle.
«Non l’ho nascosto io; era già lì dentro. Io non l’ho mai toccato» disse tranquillamente. I due spalancarono gli occhi, increduli.
«Che vuol dire che era già lì dentro?» le chiese Mahtar, trafiggendola con il suo sguardo nuovamente fiammeggiante. Lei lo guardò con la fronte aggrottata.
«Beh, lui mi ha detto che ce l’ha messo mia mamma» sussurrò confusa. Il rosso si infuriò nuovamente e il suo sguardo iniziò ad essere nuovamente capace di uccidere. Estel indietreggiò spaventata, ma rimase in silenzio e immobile.
Nessuno osò dire una parola; ognuno era perso nei propri pensieri.
Poi qualcuno suonò il campanello facendoli sussultare tutti quanti. La ragazza si portò una mano davanti alla bocca per coprire un grido e guardò Anar che era letteralmente balzato in piedi. Il rosso invece continuava a mugugnare, circondato dalla propria aura scura, come se non avesse sentito nulla.
Il cuore di Estel batteva a mille; aveva quasi paura ad andare a vedere chi avesse suonato. Però si fece coraggio e si alzò, avvicinandosi al portone. Prese un grande respiro e finalmente l’aprì.
Davanti ai suoi occhi apparvero Shaza e Aira, i capelli sciolti e svolazzanti alla brezza notturna.
«È quasi mezzanotte!» esclamò Shaza, su di giri. Estel le guardò. Entrambe erano allegre e spensierate e la loro allegria strideva con l’aura scura che aleggiava dentro casa.
«E allora?» chiese parecchio confusa, cercando di mostrarsi tranquilla e serena. Loro la guardarono come se fosse impazzita.
«Non ti sei accorta di che giorno è oggi?» le chiese Aira con un tono quasi minaccioso. Estel la guardò spaventata e perplessa. Che giorno era? Era per caso il compleanno di qualcuno?
In quel momento si accorse che il viale alle spalle delle due ragazze si stava riempiendo di persone, tutte agghindate a festa. Donne, uomini e bambini sfoggiavano milioni di differenti sorrisi, tutti emozionati e elettrizzati.
Estel si lasciò sfuggire un sorrisetto e sospirò. C’era solo un giorno in cui tutti i paesani si riunivano proprio a mezzanotte; il giorno in cui si celebrava la festa del paese. Era la festa di Dragville.
«Me n’ero completamente dimenticata!» affermò sbattendosi una mano sulla fronte.
«L’avevamo notato» le disse Shaza, sbuffando.
«Muoviti che stiamo aspettando te per andare in piazza» le disse Aira con una certa fretta. Estel sorrise emozionata e si voltò verso Mahtar come per chiedergli il permesso. Quello però neanche la guardò.
«Anar, va con lei» disse al ragazzo dai capelli rosa che gli stava davanti. Il ragazzo lo guardò con rabbia e sospirò. Poi si voltò verso Estel e sbuffò.
«Perfetto» brontolò uscendo in strada. Lei lo guardò confusa e ferita. Perché Anar la trattava in quel modo? Che cosa aveva fatto di male per meritarsi un simile trattamento?
Sospirò e, dopo aver recuperato la giacca e la tracolla dalla quale non si staccava mai, seguì le amiche fuori dal portone.
 
La notte era fredda e pungente. Estel si strinse nella giacca, mentre tranquillamente passeggiava insieme alle sue amiche. Era tanto che non passava del tempo insieme a loro e, sinceramente, le erano mancate. Era strano camminare per le vie del paese come una normale ragazza, senza soffermarsi su tutti i problemi che aveva dovuto affrontare in quei pochi giorni.
Già, la sua vita era cambiata parecchio. Prima era la ribelle della scuola, quella che si divertiva a prendere in giro Tuima e a farle fare brutte figure; quella che passava la maggior parte della giornata chiusa nell’aula delle punizione; quella che se ne infischiava di qualunque cosa e che era sempre disposta ad aiutare chiunque subisse ingiustizie. Era forte e autorevole, e nulla poteva spaventarla. Era pronta a correre qualunque rischio per giuste cause.
Ora invece si ritrovava spesso ad avere paura, tutte sanguinante e con il viso rigato dalle lacrime. Non andava più a scuola da molti giorni e non aveva più visto nel il professore Maiwe, ne Tuima.
Voleva riprendersi la sua vita normale.  
«Cosa mi raccontate di bello?» chiese alle amiche, prendendole a braccetto. Aira sospirò e si grattò la testa.
«Io e Maraud abbiamo rotto» disse lentamente. Estel la guardò incredula.
«Cosa è successo?» le chiese curiosa e preoccupata.
«Mi tradiva» sussurrò, stringendo i pugni. Estel spalancò gli occhi.
«Con chi?» le chiese in un sussurro. Non ci fu neanche bisogno di rispondere. Da un suo sguardo capì tutto e fu travolta dalla rabbia e dall’irritazione. Scosse la testa e iniziò a camminare più velocemente. Voleva raggiungere la piazza, voleva vederla, voleva punirla per aver fatto soffrire una delle sue migliori amiche.
Con un sorrisetto perfido, prese Aira e Shaza per mano e iniziò a correre, mentre Anar, sbuffando le seguiva.
 
Arrivarono in piazza nel giro di pochi minuti. Estel si guardò intorno alla ricerca di Tuima; doveva parlarle, vederla, prenderla a pugni se necessario, ma doveva punirla. Nessuno poteva  far soffrire le persone che amava senza assaporarne le conseguenze.
«È lì» le sussurrò all’improvviso Shaza indicando un punto davanti a sé. Estel si voltò immediatamente, e la vide. Era seduta su una panchina insieme a quel porco di Maraud.
Strinse i pugni e prese un profondo respiro. Si avvicinò al buffet allestito al centro della piazza e prese un bicchiere che riempì fino all’orlo di punch rosso. Con un sorrisetto, dopo, si avvicinò a Aira e le porse il bicchiere.
«A te l’onore» le disse con un sorriso divertito. Aira annuì lentamente e prese il bicchiere in mano. Dopodichè si avvicinò alla coppietta felice, con Shaza ed Estel a farle da spalla.
 
«Guarda chi si vede» disse Aira, guardando Maraud dall’alto in basso. Quello la guardò con un sorrisetto beffardo che le fece venir voglia di prenderlo a pugni.
«Non credevo avresti partecipato alla festa» le disse Tuima, stringendosi al proprio ragazzo. Aira strinse le labbra, cercando di non urlarle contro o di non mettersi a piangere proprio davanti a loro.
Prese un profondo respiro e ripensò alle parole di Shaza che quella sera le era spuntata in casa e l’aveva costretta ad uscire; le aveva detto che loro non meritavano le sue lacrime, che erano soltanto due infami e che per questo erano destinati a stare insieme. Non valeva la pena disperarsi per uno stronzo come Maraud.
«Non volevo sinceramente, ma fortunatamente ci sono persone che mi vogliono bene che mi hanno costretta ad uscire di casa. Hanno ragione; non devo perdere il mio tempo a piangere per un bastardo e una puttana» disse con un sorrisetto. Entrambi la guardarono senza più sorridere.
«Forse è meglio che te ne vai» gli disse Maraud alzandosi e incrociando le braccia.
«Tranquillo, non ho nessuna intenzione di perdere tempo con te» gli disse tranquillamente, continuando a fissarlo negli occhi; «Addio» sussurrò e gli versò il punch sulla testa.
Maraud rimase immobile, stupito e incredulo, con la bocca spalancata; e lei rimase per qualche secondo a godersi la propria opera d’arte. Gli rivolse un ultimo sorriso, dopodichè gli voltò le spalle e si incamminò. Adesso si sentiva meglio; aveva ridicolizzato Maraud davanti a tutti e questo la faceva sentire bene. Sì che voleva punire anche Tuima, ma per ora la faccia del suo ex le bastava per essere soddisfatta.
«Complimenti!» le disse Estel abbracciandola forte, una volta che ebbero raggiunto il centro della piazza. La rossa l’abbracciò forte e rise spensieratamente.
«Adesso ci divertiamo!» disse Shaza, facendole l’occhiolino. Si guardò intorno alla ricerca di una panchina libera sulla quale sedere, ma il suo sguardo intercettò qualcosa di più importante. «Però, prima vado a salutare una persona» disse con un sorrisetto malizioso. Estel ed Aira risero, mentre l’amica si inoltrava tra la folla.
«Vado a prendere qualcosa da bere» disse la ragazza dalle orecchie a punta alla rossa.
«Ti aspetto qui» le disse quella ridendo. Estel sorrise e iniziò ad avanzare tra la gente.
Aira, rimasta sola, si guardò intorno alla ricerca di un posto in cui sedere. Teneva ancora in mano il bicchiere del punch e guardarlo la faceva sentire soddisfatta. Era riuscita a chiudere definitivamente con Maraud; era riuscita a fargli capire che di lui non gliene fregava più nulla, o meglio, che sarebbe riuscita a dimenticarlo presto.
All’improvviso però, mentre era immersa tra questi pensieri, si sentì afferrare da dietro. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia proprio con lui. Questo le poggiò le mani sulle spalle e la spinse tra la folla, fino a portarla in un vicolo; e qui la spinse contro la parete di una delle case che circondavano la piazza.
«Piccola stronza» le sussurrò all’orecchio, con un sorriso tirato sulle labbra. Aira cercò di divincolarsi, o magari di colpirlo, ma lui la bloccava con il proprio corpo.
«Lasciami» gli sibilò contro, lanciandogli uno sguardo omicida. Lui rise e scosse la testa.
«Ti ha detto di lasciarla, non l’hai sentita» gli disse una voce alle sue spalle. Sia Aira che Maraud si voltarono sorpresi.
«Chi sei?» chiese lui con un tono di voce confusa.
«Ti ha detto di lasciarla» ridisse nuovamente la voce, facendosi più minacciosa. Aira, si sporse oltre il corpo del ragazzo che le stava davanti e finalmente poté guardare in viso il tizio che stava cercando di aiutarla. Incredibilmente, era Anar.
«Hai qualche problema per caso?» gli chiese lasciando stare Aira e avvicinandosi ad Anar. Questo aveva le braccia incrociate sul petto e manteneva un’espressione seccata.
«Odio i porci come te» gli disse tranquillamente. Aira, ancora stupita nel vedere che Anar, che neanche conosceva, la stava aiutando, corse a nascondersi alle sue spalle. Maraud fece una smorfia e sbuffò.
«Ringrazia Dio, che oggi la piazza è piena di gente» sussurrò ad Anar con uno sguardo minaccioso.
«Sennò?» gli chiese sfidandolo con un’espressione beffarda. Maraud fece una smorfia e se ne andò senza aggiungere più nulla.
Anar sbuffò e si voltò verso Aira.
«Come stai?» le chiese gentilmente. Lei gli sorrise debolmente.
«Ora, bene; grazie» gli rispose sospirando. Lui annuì e si massaggiò le tempie.
«Hai visto Estel?» le chiese, guardandosi attorno. Lei sospirò.
«Dovrebbe essere nei pressi del buffet..» sussurrò.
Anar serrò la mascella e si guardò attorno con più attenzione. Aveva lo sguardo acceso di preoccupazione e le labbra, ridotte ad una linea sottile, che riuscivano a trasmettere tutta la sua tensione.

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Capitolo 34
*** La pozione ***


La pozione

 
Estel passeggiava tranquillamente per la piazza disseminata di persone. Era contenta e soddisfatta di come Aira si era comportata con Maraud, anche se sperava in una specie di punizione anche per Tuima. Si era staccata dalle sue amiche con la scusa di voler prendere qualcosa da bere, ma in realtà voleva stare un po’ da sola con i propri pensieri; voleva stare tranquilla.
Sospirando si avvicinò al buffet, per prendere realmente qualcosa da bere e rinfrescarsi.
«Posso fare qualcosa per te?» le disse qualcuno facendola sussultare. Alzò lo sguardo e notò che, proprio davanti a lei, c’era un uomo strano con lunghi capelli bianchi che gli arrivavano alle spalle e degli strani occhiali a mezzaluna a coprirgli gli occhi.
Lei lo guardò e gli sorrise gentilmente; quell’uomo aveva un’aria eccentrica, ma sembrava simpatico.
«Mi sorprenda» gli disse con un sorriso. L’uomo le sorrise e la guardò da sopra gli occhiali a mezzaluna.
«Come desideri» le disse annuendo. Dopodichè iniziò a maneggiare le varie bevande e le varie spezie, mischiandole insieme a suo piacimento. «Sembri stanca» le disse all’improvviso con uno sguardo penetrante. Lei lo guardò e sospirò, massaggiandosi le tempie.
«Più confusa che altro» sussurrò, guardando le persone che gli camminavano intorno. L’uomo sospirò e schioccò la lingua.
«Perfetto, questo fa al caso tuo» le disse porgendole un bicchierino con dentro una bevanda azzurrina. Lei lo prese e annusò il liquido che vi era dentro.
«Che cos’è?» le chiese incuriosita; aveva un odore squisito!
«Beh, è una cosa di mia invenzione» le disse con un sorrisetto. Lei gli sorrise gentilmente e bevve, a lente sorsate. Qualunque cosa fosse, era davvero deliziosa; sapeva di limone forse, oppure di pesca.
«È davvero squisita» si congratulò, poggiando il bicchiere vuoto sul bancone.
«Grazie» le disse contento. Poi però il suo sguardo si fece serio. Le fece cenno con l’indice di avvicinarsi a lui e lei obbedì, piegandosi leggermente in avanti. «Ti aiuterà a riordinare le idee e quando ne avrai voglia, se vorrai spiegata qualcosa, vieni a parlarne con me» le sussurrò all’orecchio, mentre con una mano le faceva scivolare un foglietto in una delle tasche della giacca. Estel lo guardò confusa e corrugò la fronte. Gli si allontanò lentamente e si incamminò senza sapere neanche lei dove stesse andando. Continuava a sentire lo sguardo dell’uomo che le attraversava la schiena e non vedeva l’ora di liberarsene.
Chi era quell’uomo? E cosa le aveva fatto bere? E poi perché le parlava in modo così misterioso? Che fosse a conoscenza di qualcosa di importante?
Scosse la testa e si fermò di botto. Si guardò intorno e sospirò pesantemente, portandosi una mano sulla fronte. Stava iniziando a sentire caldo e le girava tremendamente la testa. Si guardò intorno per capire in che posto fosse, ma non riconobbe la strada. Si morse il labbro inferiore e cercò di respirare lentamente. Non serviva a nulla spaventarsi e perdere la testa. Bisognava mantenere la calma e stare tranquilli; in questo modo sarebbe riuscita a trovare la strada per tornare a casa.
«Cosa ci fai qui?» le chiese qualcuno all’improvviso. Prese un profondo respiro e si voltò con un sorriso. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille.
«Volevo tornare a casa» gli disse lentamente, sorridendo appena, quando il rosato le comparve davanti. Era appoggiato contro la parete esterna di una casa, con le braccia conserte e si manteneva a distanza. Alle sue parole alzò un sopracciglio, diffidente.
«Non ti sta piacendo la festa?» le chiese lentamente, restando sempre nella stessa posizione. La ragazza sospirò e, tenendosi la testa, continuò a camminare alla ricerca di un posto dove sedere.
«No, mi è venuto mal di testa» gli sussurrò, sedendosi finalmente sopra una panchina di legno. «Un uomo, mi ha fatto bere un punch particolare e da quando l’ho bevuto mi ha iniziato a girare la testa» sussurrò chiudendo gli occhi.
Immediatamente sentì qualcosa toccarle le ginocchia. Aprì gli occhi e si ritrovò davanti il volto di Anar, trasformato per la preoccupazione. Era inginocchiato accanto alla panchina e le teneva le mani poggiate sulle ginocchia.
«Cosa ti ha detto?» le chiese in un sussurro. Lei lo guardò incredulo e accigliata. Come faceva ad essere sicuro che ci avesse parlato?
Scosse la testa e prese un profondo respiro. Voleva smetterla di dire bugie; voleva finirla di sentirsi combattuta tra il mentire e il dire la verità; voleva sapere che le persone che amava potevano nuovamente fidarsi di lei.
«Mi ha detto che il punch mi avrebbe aiutato a sistemare le idee e che se avessi avuto bisogno di qualche chiarimento, lui mi avrebbe aiutata» gli disse lentamente. Anar la guardò incredulo e accigliato.
«Chi era quest’uomo?» le chiese in un sussurro. Lei si morse il labbro inferiore.
«Non lo so» sussurrò.
Tra i due calò il silenzio. Estel voleva parlargli, voleva dirgli qualcosa, ma aveva paura di ciò che lui avrebbe potuto dirle. Però, non le piaceva non poter parlare senza problemi; la situazione doveva cambiare; e subito.
«Anar..» lo chiamò debolmente. Lui alzò lo sguardo verso il suo.
«Che c’è?» le chiese gentilmente. Lei si morse il labbro inferiore e strinse i pugni.
«Cosa c’è che non va? È un po’ di tempo che ti vedo strano.. cosa succede?» gli chiese sussurrando, senza riuscire a guardarlo negli occhi. Lui rimase in silenzio per qualche secondo; la presa sulle ginocchia della ragazza era salda. Estel lo sentì sospirare.
«Mahtar mi ha raccontato la verità sulla mia vita..» le sussurrò. Lei lo guardò confusa, alzando un sopracciglio.
«Che verità?» gli chiese incuriosita. Lui sospirò nuovamente e iniziò a raccontare la storia che il rosso gli aveva rivelato qualche giorno prima. Durante il racconto Estel rimase in silenzio, restando sempre più sbalordita e incredula di fronte a quello che il rosato gli diceva. Le sembrava impossibile che Mahtar avesse potuto mentirgli per tutta la vita; su una cosa così importante poi! Ma era vero; era stato lui stesso a dirgli quelle parole.
«I tuoi genitori sono stati uccisi da Ainur?» gli chiese in un sussurro, quasi singhiozzando. Lui la guardò incredulo e confuso. Le strinse le ginocchia per cercare di tranquillizzarla.
«Perché piangi adesso?» le chiese guardandola dritto negli occhi. Lei lo guardò e si passò il dorso della mano destra sul viso. Si morse il labbro inferiore e portò le proprie mani su quelle del ragazzo. Il rosato si irrigidì a quel contatto, ma non si ritrasse. Restò fermò a guardarla negli occhi.
«Perché voglio bene ad Ainur, e scoprire tutte le cose brutte che ha fatto mi fa arrabbiare; vorrei fare qualcosa per aiutarla, ecco perchè mi facevo aiutare da Vortha. Credevo che lui potesse riuscire a trovarla..» sussurrò spostando lo sguardo sulle loro mani. Anar restava in silenzio; l’unico suono che di tanto in tanto emetteva era quello di un sospiro.
Estel sospirò e si morse il labbro. Ora che Anar le aveva detto la verità che motivo aveva di essere così distaccato? Perché non la trattava più come prima? Perché sembrava volesse essere da tutt’altra parte?!
Sospirò e scosse la testa con un sorrisetto amaro.
«Non è solo questo..» sussurrò, soffermandosi su uno scarafaggio che in quel momento stava passeggiando sul suolo. Anar sussultò e spostò il suo sguardo sulla ragazza.
«Che intendi dire?» le chiese lentamente. Lei prese un profondo respiro.
«Non sei strano solo per questo.. è successo qualcos’altro, vero?» gli chiese spostando improvvisamente lo sguardo sui suoi occhi. Anar sussultò e deglutì, colto di sorpresa. I suoi splendidi occhi verdi erano inquieti e preoccupati. Si umettò le labbra e respirò profondamente.
«È per quello che è successo ieri?» gli chiese in un sussurro sbattendo lentamente le palpebre. Tutto d’un tratto si sentiva la testa pesante e vedeva che tutto intorno a sé si stava oscurando. Anar la guardò con gli occhi spalancati.
«Cos’è successo ieri?» le chiese deglutendo, con una certa ansia. Lei prese un profondo respiro e deglutì. Si passò una mano sugli occhi per cercare di vedere meglio, ma purtroppo il punch stava avendo il suo effetto. Sbadigliò e si portò una mano davanti alla bocca.
«Noi.. noi due..» sussurrò chiudendo gli occhi, ma cercando comunque di restare sveglia per qualche altro minuto. Si portò una mano a sorreggersi la fronte e prese un grande respiro. Anar inginocchiato davanti a lei, era immobile.
Estel cercò ancora di lottare contro se stessa, ma alla fine il sonno vinse e prima che potesse concludere il discorso, si addormentò cadendo tra le braccia del rosato.  

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Capitolo 35
*** Un tuffo nel passato ***


Un tuffo nel passato

 
Era una fresca giornata primaverile. Il vento soffiava debolmente e scompigliava i capelli dorati della graziosa bambina dalle orecchie a punta che sedeva su un masso con i piedi a mollo nell’acqua di un lago, in compagnia di un uomo da i capelli rossi.
«Che lavoro fai?» chiese la piccola Estel all’uomo, curiosa, giocherellando con l’acqua fresca.
«Un lavoro speciale» le rispose con un sorriso, sedendosi sull’erba verde del prato.
«E cioè?» le chiese ammaliata, voltandosi a guardarlo negli occhi.
«Vedi, io lavoro in un’organizzazione segreta che si occupa di portare avanti missioni speciali» le disse con un sussurro e un sorrisetto sghembo.
«Che tipo di missioni?» gli chiese ammaliata avvicinandosi a lui e sedendosi anche lei sull’erba.
«Missioni che coinvolgono creature mitologiche e leggendarie» sussurrò guardando il cielo.
«Tipo i personaggi delle favole?» gli chiese lei emozionata con un sorriso.
«Esatto» le rispose, ridendo, scompigliandole i capelli. La piccola gli sorrise eccitata, ma dopo qualche secondo il suo sorriso si spense e fu sostituito da un broncio.
«Ma non prendermi in giro.. non esistono..» sussurrò con lo sguardo basso.
«Dici? Certo che esistono!» esclamò costringendola a guardarlo negli occhi.
«E come sono arrivate qui?» gli chiese diffidente, incrociando le braccia sul petto.
«È stato tutto merito di un drago..» sussurrò con un tono misterioso.
«Un drago?» gli chiese affascinata, inginocchiandosi per poterlo guardare meglio in faccia.
«Esatto, mia piccola, dolce Estel; un drago! Tantissimi anni fa, la terra era un posto particolare. Devi sapere che in cielo, c’erano degli enormi ammassi di terra, delle isole galleggianti nell’aria, che da sotto sembravano semplici nuvole. Su quelle nuvole vivevano tutte le creature fantastiche e mitologiche: elfi, nani, orchi, draghi, fate, gnomi, streghe, maghi, mostri.. beh, tutte quelle creature che tu oggi diresti che non esistono. Mentre sulla terra vivevano gli esseri umani, gli animali e le piante. Tutti vivevano in armonia e serenità e avrebbero continuato a farlo almeno fino al momento in cui avessero rispettato l’unica e semplice regola che impediva alle isole di cadere» disse con tono solenne.
«E qual era la regola?» gli chiese emozionata, ammaliata da quelle parole. Pendeva letteralmente dalle sue labbra.
«Nessuno poteva interferire con l’altro mondo.. gli uomini non potevano salire; le creature non potevano scendere. Purtroppo però, tutte le regole nascono per essere trasgredite almeno una volta. Infatti, un giorno, un piccolo drago incuriosito da alcune esplosioni che provenivano dal mondo inferiore, decise di sporgersi per vedere quello che stava succedendo; però non riusciva a vedere nulla così decise di scendere di qualche metro soltanto. Quello fu un gravissimo errore. In quel momento tutto iniziò a tremare. Le isole iniziarono a precipitare e con esse anche tutte le varie creature. Molte isole riuscirono, grazie a potenti stregoni, a galleggiare sull’oceano; altre caddero in posti disabitati; altre ancora distrussero villaggi. C’era caos dappertutto. Anche il piccolo drago, cadendo aveva distrutto e incendiato un esercito che marciava contro un piccolo villaggio. Gli abitanti, salvatisi, decisero di elogiare il loro salvatore, il drago, dando il suo nome alla città che infatti si chiamò Dragville» le disse con un sorriso.
«Dragville? Il nostro villaggio?» gli chiese incredula spalancando gli occhi e la bocca.
«Esatto, il nostro paese esiste grazie a un drago» le rispose facendole l’occhiolino. Lei rimase in silenzio per qualche secondo, come ad assaporare lentamente il significato di quelle parole. Poi però qualcosa le fece aggrottare la fronte.
«Ma scusa.. perché allora nessuno sa dell’esistenza di queste creature; anzi, molti credono che quella del drago sia solo una leggenda..» gli disse un po’ confusa. Mahtar sospirò e si massaggiò la testa.
«Perché quando le creature scesero dalle loro isole per mostrarsi agli essere umani, li spaventarono manifestandosi come mostri. E molti di essi furono perseguitati e uccisi. Così, per evitare catastrofi, le creature decisero di nascondersi e di tutelare i loro habitat con incantesimi in modo da impedire agli uomini di avvicinarsi..» le disse con un tono di voce strano.
«Ooooh..» sussurrò ammirata. «Ma c’è ancora una cosa che non capisco..» sussurrò imbronciata.
«Dimmi» le disse il rosso con un sorriso, scompigliandole i capelli.
«Le nuvole..» sussurrò indicando il cielo. L’uomo le sorrise soddisfatto.
«Vedi, le isole si trovavano più in basso rispetto alle nuvole; e quando, per esempio, pioveva, la pioggia cadeva normalmente. Quando si imbatteva in un’isola, penetrava nel terreno e poi gocciolava sotto dando l’impressione che stesse piovendo dall’isola. Ecco perché nessuno si è mai chiesto se fossero davvero nuvole; ed ecco perché continuarono ad esserci le nuvole anche dopo la caduta delle isole» le spiegò scrollando tranquillamente le spalle. Lei lo guardò seria.
«Ma quindi.. tutti i mostri esistono! E quindi anche i personaggi dei cartoni o delle favole!» urlò spaventata ed emozionata allo stesso tempo.
«Aspetta un attimo; stai correndo un po’ troppo» le disse ridendo; «Esistono le creature mitologiche e fantastiche, ma non i personaggi che sono stati inventati da uomini dopo aver sentito parlare dei loro avvistamenti. Nel senso.. esiste la sirena, ma non esiste Ariel» cercò di spiegarle, in maniera comprensibile. La bambina lo guardò confusa, ma annuì comunque. L’uomo sorrise e le scompigliò i capelli. 
Estel si sedette di botto aprendo gli occhi. Cercò di guardarsi intorno, ma non riuscì a vedere nulla. Intorno a lei era tutto nero e scuro. Sentiva degli strani sussurri e c’era qualcuno che la sfiorava con delicate carezze, ma non riusciva a identificare nessuno. Sentiva solo la testa pesante e le braccia e la schiena che cercavano di spingerla per farla sdraiare nuovamente. Sembrava che il suo corpo volesse che si addormentasse di nuovo.
Ma perché doveva dormire? Per avere altri sogni strani come quello appena avuto?
La ragazza scosse la testa e sbuffò. Quello che aveva appena visto non era un sogno; era solo un vecchio ricordo che da tanto non spolverava. Ma perché le tornava in mente in quel momento? Cosa nascondeva di importante?
Scosse la testa e si massaggiò le tempie, frastornata. Voleva soffermarsi ancora a pensare al sogno appena fatto, per cercare di capirne qualcosa, ma il suo corpo la obbligava a chiudere nuovamente gli occhi. Così, consapevole di non potersi ribellare a se stessa, si sdraiò di nuovo e lasciò che il sonno la prendesse.
 
Era una notte tranquilla; la luna brillava nel cielo, illuminando tutte cose e soffiava un vento leggero. Un uomo camminava tranquillamente per il parco; sembrava un vecchio nonno gentile che serenamente si godeva l’aria notturna. Un’altra figura si aggirava per il parco a quell’ora: una ragazza dai capelli dorati. Questa si avvicinò all’uomo con una strana espressione stampata in viso. Sembrava spiritata: i grandi occhi – dorati anche quelli – erano leggermente aperti, ma non avevano nessuna lucentezza; gli angoli delle labbra erano leggermente rivolti verso il basso.
L’uomo cercò di confortarla con parole dolci e gentili, ma la ragazza restava sempre con quell’espressione fissata sul viso. Non parlava, ma il suo silenzio sembrava un urlo di disperazione.
«Perché?» sussurrò all’improvviso, guardando l’uomo. Quello la guardò, curioso e confuso allo stesso tempo. Lei continuò a fissarlo, con la stessa espressione.
«Perché cosa, cara?» le chiese l’uomo, gentilmente, accennando un carezza verso il suo viso.
«Lei non dovrebbe starmi vicino» gli sussurrò, restando immobile. L’uomo si bloccò. «Ho il vizio di uccidere le persone» gli sussurrò guardandolo dritto negli occhi. L’uomo abbassò il braccio d’impulso e lo portò lungo il proprio fianco. Deglutì ma rimase a fermo a guardarla.
«Perché uccidi le persone?» le chiese in un sussurro, deglutendo. La ragazza rimase immobile per qualche secondo; poi sospirò.
«Uccido solo chi mi fa del bene..» sussurrò spostando lo sguardo verso la luna che illuminava il cielo. «Quindi se ne vada adesso, prima che possa uccidere anche lei» gli disse, trafiggendolo con il proprio sguardo. L’uomo rimase immobile a guardarla per qualche secondo; dopodichè sussultò e puntò l’indice contro la propria testa.
«Ma, io ti conosco!» le disse, incredulo, sbattendo le palpebre. La ragazza lo guardò confusa per qualche secondo. «Sì, eri tu, ne sono sicuro» sussurrò, con la mente persa nei propri ricordi.
«Mi ha già visto da qualche parte?» gli chiese, sempre con lo stesso tono spiritato. L’uomo la guardò e annuì, con un lieve sorriso.
«Ti ho visto alla fine del paese che ti incamminavi verso l’istituto. Eri tu, ne sono convinto, perché anche tu hai i capelli dorati e le orecchie a punta» le disse puntandole gli indici ai lati della testa. Lei lo guardò e prese un profondo respiro.
«Addio» gli sussurrò, riprendendo a camminare.
«Aspetta» le disse l’uomo bloccandole un polso. Lei si voltò a guardarlo e il vecchietto la lasciò immediatamente con un urlo di dolore. Si guardò la mano dolorante: non aveva nulla, eppure il tocco con la ragazza lo aveva quasi ustionato.
«Non posso starle vicino» gli disse lentamente. «Lei ha una cosa qui..» gli disse poggiandogli una mano sul petto, «..che io non ho». Restarono in silenzio per qualche altro secondo, immobili in quella strana posizione. Poi la ragazza gli voltò le spalle e si allontanò. Passarono solo pochi secondi, prima che l’uomo iniziasse ad urlare per il dolore che gli bruciava il petto.
Ansimava, respirava a fatica e ogni movimento era come una pugnalata più profonda. Ma nonostante questo iniziò a muoversi per il parco alla ricerca di quella ragazza dai capelli dorati. Mentre camminava continuava a stringersi il petto, con la speranza che il dolore si alleviasse; ma sfortunatamente era tutto il contrario. Si sedette su una panchina per riprendere fiato e tranquillizzarsi. Il dolore lo stava facendo impazzire; però da quella posizione riuscì a trovare un lungo e appuntito pezzo di metallo. Lo prese al volo e sorrise perfidamente.
Poi finalmente riuscì a intravedere la sua vittima. Si alzò e si diresse verso di lei, camminando a fatica. Quella era voltata verso di lui e lo guardava con uno sguardo strano, ma che non aveva nulla della passività di qualche minuto prima. Continuò a muoversi fin quando non le fu davanti. A quel punto, le caviglie gli cedettero e cadde per terra. Cercò di alzarsi, ma i gomiti e le braccia non glielo permettevano.
La ragazza restava in silenzio e lo guardava con uno sguardo interrogativo.
L’uomo la guardò con uno sguardo aggressivo. Guardò la ragazza e le conficcò il pezzo di ferro in una caviglia. Dopodichè si abbandono al suolo, mentre un silenzio pesante minacciava di sfondargli i timpani.
 
Estel si sedette di botto e si guardò intorno. Adesso intorno a lei non c’era più buio, ma c’era una calda luce scoppiettante. La ragazza si massaggiò gli occhi e alzò le palpebre per fissare il fuoco giocoso che aveva accanto. Sospirò e si guardò intorno. Sdraiato sul tappeto c’era Anar: aveva gli occhi chiusi, ma le sopracciglia aggrottate, come se stesse facendo un brutto sogno. Il pensare ai sogni le fece ritornare in mente quelli che aveva appena fatto. Erano sogni incredibilmente reali; più che sogni sembravano dei semplici sguardi al passato. Il primo le aveva ricordato il giorno in cui Mahtar le aveva parlato del proprio lavoro; il secondo era più complicato. L’aveva fatta ritornare alla mattina in cui si era ritrovata sporca di fango e sangue; quindi era stato l’uomo a ferirla e quindi il sangue che c’era su quel pezzo di ferro era suo. Ma come poteva essere possibile? Lei era umana, mentre il sangue ritrovato sull’arma non lo era.
«Ti sei svegliata» sussurrò all’improvviso qualcuno facendola sussultare. Guardò Anar, ma quello era in silenzio, ancora sdraiato sul tappeto. Allora si guardò intorno e notò che poco distante da lei, c’era Mahtar. Lo guardò e si lasciò sfuggire un sospiro.
«Si..» sussurrò, accoccolandosi sul divano. Il rosso la guardò e la raggiunse, sedendosi accanto a lei.
«Cos’è successo questa notte?» le chiese con un sguardo preoccupato e curioso allo stesso tempo. Lei lo guardò e prese un profondo respiro.
«Un uomo, alla festa, mi ha fatto bere uno strano punch; dopo che l’ho bevuto mi è venuto mal di testa e mi sono addormentata. Probabilmente era alcolico» gli disse scrollando le spalle, anche se consapevole di avergli appena mentito.
«Che tipo di uomo era?» le chiese, aggrottando la fronte. Estel cercò di ricordare l’uomo che le aveva offerto da bere. Corrugò la fronte e si morse il labbro inferiore per far credere a Mahtar di impegnarsi nello sforzo di ricordare. In realtà lo ricordava perfettamente.
«Ricordo che indossava degli strani occhiali» sussurrò, portandosi una mano sotto il mento.
«E basta?» le chiese l’uomo. Lei finse ancora di sforzarsi, ma alla fine scosse la testa.
«Mi dispiace, magari più tardi mi tornerà in mente» gli disse mordendosi il labbro. Lui la guardò per qualche secondo, ma alla fine si lasciò sfuggire un sospiro. Annuì e si incamminò verso la cucina.
«Sveglia Anar che tra un po’ si mangia» le disse grattandosi la testa. Lei lo guardò confusa.
«Perché che ore sono?» gli chiese.
«Mezzogiorno passato» le rispose scrollando le spalle. Lei lo guardò accigliata. Aveva dormito tutta la mattina per colpa di quei sogni, che sicuramente aveva avuto a causa di quello strano punch. Ma chi era quell’uomo? E come mai le aveva fatto bere quell’intruglio colorato? Che spiegazione avevano quei sogni?
Scosse la testa e sospirò. Appena possibile sarebbe uscita per scoprirlo, ma per adesso era meglio fingere di stare bene. Così, svegliò il rosato e insieme a lui raggiunse il rosso in cucina. 

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Capitolo 36
*** L'incontro ***


L’incontro
 
Il pranzo passò lentamente e silenziosamente. Anar aveva un’espressione strana e continuava a guardare Estel con uno sguardo indecifrabile, con le braccia poggiate sul tavolo e un palmo portato a sorreggersi il mento. Il pranzo, ancora intatto, era proprio davanti a lui, nel suo piatto: zuppa di piselli e carote, un pranzo tanto salutare, quanto intensamente immangiabile. Aveva una strana luce negli occhi, quel luccichio che ormai per lui era diventato normale e che per Estel era sempre fonte di fastidio.
Mahtar era immerso in chissà quali pensieri. Continuava a muovere il cucchiaio dentro il piatto, con fare monotono e circolare senza sbattere la posata sulla superficie di porcellana, e non sembrava minimamente intenzionato a mangiare quella brodaglia maleodorante che egli stesso aveva preparato. Il suo sguardo era puntato sulla superficie del tavolo, che guardava senza sbattere neanche le palpebre.
La ragazza invece, cercava di apparire tranquilla e per nulla infastidita dallo sguardo insistente del rosato né dallo strano comportamento di Mahtar che solitamente a tavola non era mai silenzioso. Continuava a fissare il cucchiaio che il rosso faceva girare nel proprio piatto e cercava in tutti i modi di non spostare lo sguardo negli occhi di Anar. Sperava che tutta quella strana commedia silenziosa e fastidiosa finisse il più presto possibile, in modo da poter indagare tranquillamente su quello che le era successo dalla sera prima fino a quel momento.
C’era talmente silenzio nella stanza che si poteva tranquillamente udire il ticchettio dell’orologio appeso al muro; si poteva tenere il conto dei secondi che passavano e più il tempo trascorreva più sembrava che l’intervallo tra un secondo e l’altro rallentasse, fino ad arrivare al chiedersi se il tempo si fosse fermato. Ogni cosa in quella piccola stanza sembrava soggetta alla tensione di quel silenzio assordante; era come se l’immobilità degli oggetti, tradizionalmente normale, contribuisse ad aumentare l’idea che il tempo si fosse realmente fermato. La stessa aria appariva pesante e asfissiante,  nonostante fosse autunno inoltrato, come se all’improvviso in quella stanza la gravità si fosse moltiplicata per cento volte.
Dopo qualche altro minuto in questo stato di tensione, Mahtar lasciò andare il cucchiaio e si alzò facendo strofinare la sedia contro il pavimento. Dopo quello stato di quasi torpore quel rumore parve talmente tanto assordante che entrambi i ragazzi sussultarono sulle sedie portando uno sguardo, confuso, sull’uomo che si era appena alzato. Nessuno dei tre proferì parola e con la stessa indifferenza con la quale si era alzato, Mahtar se ne andò.
Questo fu l’unico, sonoro e breve istante di movimento all’interno della stanza.
Non appena il rosso oltrepassò la porta della cucina, i due ragazzi restarono da soli. Estel, che non aveva più nulla da osservare per evitare di guardare il rosato che le stava davanti, incrociò in fine, con un sospiro, il suo sguardo. Inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia sul tavolo.
«Tutto bene?» gli chiese con un tono stranamente gentile e pacato. Lui continuò a guardarla con la stessa espressione, senza muovere neanche un muscolo del viso.
«Certo» le rispose, tranquillamente. Lei prese un profondo respiro e sporse in fuori il labbro inferiore, come a mostrare automaticamente un piccolo broncio.
«Hai qualcosa da dirmi?» gli chiese, alzando un sopracciglio. Lui corrugò la fronte.
«Perché questa domanda?» le chiese curioso, muovendosi finalmente sulla sedia.
«Perché è da quando ci siamo seduti a tavola che non mi levi gli occhi di dosso» gli disse tranquillamente. Anar sbatté le palpebre confuso e poggiò un gomito sul tavolo, mentre portò nuovamente la mano a sorreggersi il mento.
«Ti guardo perché sono confuso» ammise, spostando incredibilmente lo sguardo da lei. Estel lo guardò curiosa e interessata, corrugando la fronte.
«Sono io che ti confondo?» gli chiese lentamente. Il rosato riportò lo sguardo sui suoi occhi dorati e prese un profondo respiro.
«No, anche se sei tu il soggetto di questa confusione» le disse con un tono di voce basso. Lei lo guardò incredula, sempre con la fronte aggrottata. Fissò i suoi occhi verdi e notò che non nascondevano nulla, ma che erano limpidi e luminosi come lo erano sempre stati. C’era sì un’aura strana a circondarli, ma si capiva che era sincero. Non la stava prendendo in giro. Qualunque cosa stesse dicendo, per quanto strana potesse essere, per lui era vera.
«Perché sei confuso?» gli chiese d’impulso, continuando ad osservarlo. Lui sussultò impercettibilmente e si lasciò fuggire un sorriso amaro. Sospirò e spostò lo sguardo sul paesaggio oltre la finestra.
«Te ne parlerò solo quando non sarò più confuso. Ora come ora, non ha senso parlarne con te» le disse tranquillamente, continuando a guardare tutto, meno che lei. Il sole leggero che entrava dalla finestra creava delle ombre particolari sul suo viso e dava ancora più lucentezza ai suoi occhi misteriosi. Sembrava fosse tranquillo, ma lei capì immediatamente che non era così. C’era qualcosa di malinconico sia nella sua postura che nel suo sguardo. Per qualche strana ragione, Anar in quel momento, era triste.
Estel sospirò e scosse la testa, lentamente, spostando anche lei lo sguardo sulla finestra.
«Non mi va» gli disse all’improvviso. Lui la guardò di botto con uno sguardo confuso e incredulo.
«Non ti va?» le chiese sbattendo le palpebre. Lei strinse le labbra e scosse la testa.
«Se non vuoi parlarmene mi può anche stare bene, ma non mi va che tu debba avere quest’espressione» gli disse guardandolo con un’espressione severa. Lui alzò un sopracciglio e continuò a guardarla con confusione. «Quindi cerca di capire cosa ti confonde e cerca di risolverti la situazione» gli disse alzandosi in fretta, riportando lo sguardo al sole che entrava dalla finestra. Sembrava che con quel gesto il tempo avesse finalmente ripreso a scorrere e che l’aria avesse riacquistato la sua normale leggerezza. «Io così non ti voglio vedere» gli disse trafiggendolo con il proprio sguardo, mentre lui, incredulo, continuava a guardarla in silenzio. Passarono alcuni secondi. Per quel breve istante sembrò che si stesse ripresentando la stessa situazione di prima, ma questa volta lei non lo avrebbe permesso. Gli voltò le spalle e gli si allontanò velocemente. «Io esco. Quando torni tranquillo, fammi uno squillo» gli disse e con queste parole recuperò la giacca, la indossò ed uscì in mezzo alla strada.
 
Una volta che si fu chiusa la porta alle spalle, si lasciò sfuggire un sorriso e un sospiro soddisfatto. Le parole che aveva rivolto ad Anar erano sincere, ma lei le aveva sfruttate per uscire di casa senza dare nell’occhio; e adesso era finalmente libera. Prese un profondo respiro e respirò una bella boccata d’aria fresca e leggera; giusto quello che ci voleva dopo aver trascorso momenti eterni e asfissianti in quella piccola cucina, dove probabilmente ancora il rosato se ne stava seduto con uno sguardo indecifrabile. Quasi, quasi riusciva a immaginarselo: lo vedeva nella stessa, medesima posizione in cui l’aveva lasciato. Sicuramente era rimasto particolarmente stupito dalle parole che lei gli aveva rivolto, ma molto probabilmente avrebbe fatto qualcosa per reagire a qualunque cosa lo tormentasse e confondesse.  
Prese un profondo respiro e iniziò a camminare per le strade di Dragville, senza una meta precisa, ma comunque contenta di essere riuscita ad uscire di casa. Passeggiare e potersi sgranchire le gambe le sembrò la cosa più bella del mondo. Era come essere finalmente usciti da una gabbia soffocante e potersi godere l’aria fresca e umida dell’autunno. Automaticamente le sue gambe la portarono verso il parco che le apparve davanti come un’esplosione di colori: giallo, arancione, rosso, marrone; i colori delle foglie secche che cadevano lentamente verso il terriccio umido e che si appollaiavano lì creando uno strato colorato ai piedi degli alberi. Questi per la maggior parte erano ormai completamente spogli, ma alcuni mantenevano ancora poche foglie, anche esse non più verdi e rigogliose, ma secche e rossicce. Istintivamente si avvicinò a uno dei tanti alberi che occupavano il parco e si sedette comodamente tra le sue radici, sul terriccio umido. Era una delle sensazioni che più le piacevano: adorava starsene seduta in mezzo alla natura, tra tutti quei colori caldi e accesi e quegli odori così contrastanti tra di loro, ma allo stesso tempo così complementari. Si sentiva così tranquilla e rilassata che chiuse gli occhi con un sospiro e si lasciò cullare dai vari rumori della natura. Era così persa in quell’habitat naturale, così assorta per udire anche il minimo fruscio delle foglie, che sentì perfettamente il rumore di un paio di scarponi che sbattevano sul terreno freddo. Aprì gli occhi di scatto e si guardò intorno per cercare di intravedere lo sconosciuto che si aggirava per il parco. Alzò impercettibilmente la testa e se lo trovò a qualche metro di distanza. Spalancò gli occhi per la sorpresa e si mise una mano davanti alla bocca per nascondere l’urlo che le stava nascendo in gola.
Che cosa ci faceva lui lì?
L’uomo guardò l’orologio che teneva al polso e si avvicinò al lago delle papere nere appoggiandosi al recinto di legno scuro. Sembrava fosse in attesa di qualcuno, anche perché controllò nuovamente che ore fossero.
Estel prese un profondo respiro e continuò ad osservarlo dal proprio nascondiglio. Chi stava aspettando con tanta calma e pazienza quell’uomo? Che cosa voleva? Era talmente curiosa che sarebbe rimasta lì ad osservarlo tutto il pomeriggio, ma alla fine fu un’altra curiosità a vincere. Si alzò e con passo deciso si diresse verso di lui. 




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Ciao lettori :) 
Mi scuso sinceramente per non aver più pubblicato nulla da giugno, ma ho avuto problemi con il computer che mi ha perso tutti i documenti che avevo già scritto. Spero che vogliate scusarmi e che continuiate a seguire e leggere la mia storia nonostante questa mia grande mancanza e questo ritardo. 
Le mie più sincere scuse, davvero, e spero che questo capitolo vi piaccia.
Alla prossima.
Moiraine

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Capitolo 37
*** L'uomo eccentrico ***


L’uomo eccentrico
 
Lentamente Estel si avvicinò all’uomo che se ne stava tranquillamente appoggiato alla recinzione di legno scuro. Le dava le spalle e sembrava assorto in chissà quali pensieri, mentre il suo sguardo scorreva sulle paperelle nere che galleggiavano sulla superficie del lago. L’uomo indossava uno strano cappello color magenta, in tinta con una camicia troppo leggera per quella stagione, e un paio di pesanti pantaloni color verde bottiglia. Era un tipo eccentrico, pensò Estel, così come aveva pensato la prima volta che lo aveva visto.
Quando gli fu alle spalle, si portò una mano davanti alla bocca e tossicchiò in modo da attirare la sua attenzione. L’uomo ridacchiò e lentamente si voltò verso di lei. Portò lo sguardo sull’orologio che portava al polso e schioccò la lingua.
«Sei in perfetto orario» le disse guardandola da sopra gli occhiali, con un enorme sorriso. Lei lo guardò incredula, stupita e confusa. Si sarebbe aspettata qualunque cosa da quell’uomo, ma non che fosse lei l’ospite che aspettava.
Sbatté le palpebre parecchie volte e chiuse la bocca che notò di aver spalancato. Corrugò la fronte e incrociò le braccia sul petto, guardandolo con un’espressione incuriosita e indagatrice.
«In orario, per cosa?» gli chiese, cercando di guardarlo dritto negli occhi, nonostante gli occhiali, con lenti oscurate, non glielo permettessero. L’uomo la guardò con uno sguardo confuso.
«Non sei qui per i sogni?» le chiese, infilando le mani dentro le tasche dei pantaloni, alla ricerca di qualcosa. Lei, che si era lasciata distrarre dalle sue mani che si muovevano velocemente, scosse la testa e ritornò a guardarlo in viso.
«No.. cioè, sì.. voglio dire no!» gli disse velocemente, cercando di rispondere in maniera corretta. L’uomo la guardò con un’espressione confusa, sbattendo parecchie volte le palpebre. Poi, preso un profondo respiro, si lasciò cadere sull’erba accanto alla recinzione del lago delle papere nere ed uscì uno strano oggettino da una delle tasche dei pantaloni. Era una statuina bianca e con gli occhi ambrati che raffigurava una volpe, e brillava.
«Sei abbastanza confusa, ragazza mia» le disse, controllando la statuina da vicino, come per accertarsi che fosse tutta intera. «Perché non ti siedi e ti rilassi un po’» le disse, tastando con il palmo della mano il terreno accanto a sé, come per indurla a sedersi. Estel corrugò la fronte e sbuffò.
«Non sono per niente confusa; è solo che la domanda mi è stata posta in maniera scorretta» gli disse, portando lo sguardo sulla statuina bianca, brillante come un diamante.
«E in che modo avrei dovuto formulartela, allora?» le chiese, sollevando lo sguardo per poterla guardare dritto negli occhi, sempre attraverso le lenti degli occhiali scuri. Estel si morse il labbro inferiore e sospirò, incapace di dare una risposta. Sbuffò e gli si sedette accanto, a gambe incrociate.
«Senta io non sono venuta qui al parco per incontrare lei; non avevo la minima idea di poterla incontrare qui. Ma dato che l’ho incontrata mi piacerebbe farle alcune domande» gli disse in fretta, guardandolo di sottecchi. L’uomo la guardò con uno strano sorrisetto.
«Quindi non hai letto il mio messaggio?» le chiese, alzando il viso per guardare il cielo. Il sole che penetrava tra i rami degli alberi creava dei contrasti stranissimi con i suoi capelli bianchi, facendoli sembrare quasi dorati.
Lei lo guardò con un’espressione confusa.
«Quale messaggio?» gli chiese alzando un sopracciglio. Lui la guardò, sorridendole.
«Quello che ieri ti ho infilato in tasca» le rispose tranquillamente. Lei lo guardò in viso, cercando di scorgere gli occhi oltre gli occhiali, ma quello si mosse, negandoglielo. Irritata e curiosa allo stesso tempo, infilò le mani nelle tasche della giacca alla ricerca del bigliettino, diffidente sul trovarlo, quando le sue dita toccarono qualcosa di sottile. Con un’espressione beffarda, afferrò l’oggetto e lo uscì guardandolo con curiosità. Era proprio un bigliettino di cartone bianco e sopra c’era una piccola scritta: “se hai avuto strani sogni, vieni al parco davanti al lago delle papere nere, alle tre”. Oltre questo, non c’era scritto più nulla. Nessun nome, nessun indirizzo, nessun numero.
Estel si rigirò il biglietto tra le dita, osservandolo attentamente come se potesse trovare in esso le risposte ai suoi mille interrogativi. Poi alzò lo sguardo sull’uomo che le stava accanto e sospirò. Chiunque fosse quell’uomo, molto probabilmente la conosceva. E il foglietto con quell’informazione, voleva dire che probabilmente era a conoscenza di qualche segreto che a lei sfuggiva. Sennò come avrebbe fatto a spiegarle quei sogni?
«Adesso sei confusa?» le chiese l’uomo gentilmente, guardandola in viso. Lei sbatté le palpebre e sospirò.
«No» gli rispose tranquillamente, osservando nuovamente il biglietto.
«Perfetto, allora possiamo iniziare! Dimmi tutto!» le disse sfregandosi le mani con curiosità. Lei lo guardò incredula e si lasciò sfuggire un sorriso. Quell’uomo era veramente strano! E lei come poteva fidarsi di uno sconosciuto, talmente tanto eccentrico?!
«Aspetti un attimo..».
«Dammi del tu» le disse interrompendola. «Sono vecchio, davvero tanto, quindi se mi dassi del “lei”, mi sentirei ancora più anziano» le disse con una voce cupa. Lei lo guardò in viso e annuì, cercando di nascondere un sorriso.
«Allora, prima di raccontarti dei sogni, dovresti presentarti. Io non so nulla di te, come posso fidarmi? Come posso raccontarti qualcosa di estremamente personale se non so neanche il tuo nome?» gli chiese cercando di guardarlo negli occhi. Avrebbe tanto voluto chiedergli di togliersi gli occhiali per poterlo guardare bene, ma non le sembrava molto opportuno farlo. L’uomo la guardò con un sorrisetto, mostrando appena i denti bianchissimi. Diceva di essere vecchio, ma il suo viso era perfetto, senza neanche l’ombra di una ruga.
«Perfetto; allora il mio nome è Waldeaz» le disse guardando il cielo.
«Waldeaz?» gli chiese Estel stupita. «Che nome strano» gli sussurrò cercando di non offenderlo. Lui le sorrise.
«Lo so; più che strano, è un nome vecchio, antico» le disse in un sussurro, chiudendo gli occhi. Lei corrugò la fronte.
«E perché hai un nome antico?» gli chiese incuriosita. Lui rise di gusto.
«Beh, è antico per i tuoi tempi» sussurrò guardando il cielo; «Quando ero piccolo era un nome abbastanza diffuso» disse con un sorrisetto. Estel lo guardò incredula.
«Non credo che tu sia poi così tanto più grande di me» gli disse guardandolo di sottecchi. «Avrai si e no..».
«Settecentodiciassette anni» le disse scrollando le spalle. «In effetti non sono poi così vecchio» le disse con un sorriso, gustandosi l’effetto che quelle parole avevano sulla sua interlocutrice. Estel lo guardò attentamente per qualche secondo, prima di iniziare a ridere fragorosamente.
«Settecentodiciassette anni!? Ma dai, con chi credi di parlare? Non prendermi in giro» gli disse sempre ridendo.
«Non ti prendo in giro» le disse con la massima serietà. «Sono un essere immortale. Per me il tempo non esiste; non invecchierò mai» le disse con una certa amarezza. Lei continuò a ridere di gusto.
«Vorresti dirmi che non sei un uomo?» gli chiese cercando di calmarsi. Lui la guardò con uno sguardo serio.
«Esattamente. Non sono umano» le disse scrollando le spalle. Lei lo guardò attentamente, smettendo finalmente di ridere. Waldeaz era troppo serio, per stare scherzando; ma era impossibile che fosse realmente così grande!
«Cosa sei?» gli chiese in un sussurro, riducendo gli occhi a due fessure.
«Uno stregone» le disse tranquillamente, ritornando ad osservare la statuetta che teneva ancora stretta in mano.
«E puoi mostrarmelo?» gli chiese lei, sempre sussurrando. Lo stregone la guardò con un sorrisetto.
«Mi piace sempre mettermi in mostra» le disse, mostrandole il palmo aperto con la piccola volpe bianca, brillante. Lei la osservò attentamente, aspettandosi di vedere chissà che cosa, ma non accadde nulla.
«Che cos’è?» gli chiese, socchiudendo gli occhi, per osservarla meglio.
«Un Kordon» le rispose tranquillamente. Lei lo guardò confusa.
«Un che?» gli chiese nuovamente.
«Un Kordon, è un idolo. Ogni stregone ne ha uno» le disse scrollando le spalle.
«Una piccola volpe bianca?» gli chiese curiosa. Quella piccola statuetta era davvero carina. Anche a lei sarebbe piaciuto possederne una.
«No, un piccolo animaletto» le spiegò guardandola in viso.
«Sono tutti diversi?» gli chiese incuriosita.
«Certo, ognuno ha l’animale di cui possiede la migliore qualità» le disse, con una certa soddisfazione.
«Quindi tu sei uno stregone furbo?» gli chiese, non molto convinta.
«Furbo, silenzioso e aggraziato esattamente come una volpe. Vedi, i Kordon sono le rappresentazioni di ogni stregone. Possono prendere vita e muoversi inosservati tra la gente normale che non può vederli e sono l’impronta della presenza di uno stregone. Di solito vedendo lui, si capisce anche chi sia lo stregone al quale appartiene» le spiegò, accarezzando dolcemente la piccola volpe.
«E servono solo a questo? Voglio dire, servono solo per farti capire se ci sono stregoni in giro e ad identificarti?» gli chiese un po’ delusa.
«No» le disse Waldeaz con un sorrisetto. «La loro funzione è anche quella di percepire le presenze non umane. Se per esempio qui con te ci fosse stato Vortha, io l’avrei capito subito» le disse guardando la statuetta.
«E come?» gli chiese ammaliata.
«O brilla, oppure cambia colore, o espressione. Dipende dal grado di malvagità» le disse scrollando le spalle.
«In che senso?» gli chiese con un’espressione imbambolata. Lui la guardò e sospirò.
«Vedi, se ci fosse stata una qualunque creatura non umana, ma non malvagia, il mio Kordon avrebbe semplicemente iniziato a brillare; se ci fosse stata una qualsiasi creatura malvagia, sempre non umana, allora il suo pelo avrebbe cambiato colore; e ci sono colori diversi in base al grado di concentrazione maligna. E infine se fosse ci fosse stato un fantasma, avrebbe mosso il muso come a ringhiare, semplicemente perché una presenza del genere potrebbe essere sia maligna che benigna» le disse con lo sguardo perso sulle chiome degli alberi che li sovrastavano.
Estel lo guardò ammaliata e poi il suo sguardo si posò sulla statuetta bianca e brillante.
«Brilla anche con altri stregoni, o con te?» gli chiese curiosa, cercando di spiegarsi quel brillio così splendente.
«Beh, per la presenza di altri stregoni, brillano solamente gli occhi; per me, resta normale. Però se mai dovessi perderla i suoi occhi diventerebbero grigi, proprio per far capire che lo stregone a cui appartiene non è nei paraggi» le disse con un sorrisetto. Lei lo guardò, sempre più affascinata da quella statuetta così bella e attraente.
«Ma se la trova qualcun altro si può impossessare di lei?» gli chiese preoccupata.
«No, ogni Kordon funziona solo con lo stregone per il quale è stato creato» le disse soddisfatto, guardandola in viso.
Lei annuì lentamente. Aveva capito la spiegazione dello stregone e ne era rimasta affascinata. Talmente tanto affascinata che avrebbe voluto diventare anche lei una strega per poter possedere un Kordon.
«Ma perché brilla allora, se non lo fa per te?» gli chiese con la fronte corrugata.
«Perché nelle vicinanze c’è un essere non umano. Potrebbe essere una fata, uno gnomo, un elfo» le disse guardandola di sottecchi.
Lei lo guardò incredula e si lasciò sfuggire una risatina. Anche se lui poteva essere uno stregone, non voleva dire che esistevano creature come fate, gnomi o folletti. Era una cosa veramente improbabile. Le uniche creature non umane che esistevano davvero, a parte gli stregoni, erano i fantasmi, gli spettri e gli alieni. Niente vampiri, lupi mannari, fate, gnomi o elfi. Quelle erano solo creature inventate.
Scosse la testa, mantenendo sempre lo stesso sorrisetto beffardo, e guardò nuovamente la statuina. Waldeaz la guardò con uno sguardo impassibile.
«E hanno tutti questi colori?» gli chiese per cambiare discorso, ma anche perché realmente interessata alla risposta. Lo stregone la guardò e si lasciò sfuggire un sospiro.  
«Vedi il colore del corpo di un Kordon, richiama il colore dei capelli del suo padrone, e quindi è quasi sempre bianco dato che lo stregone più giovane che esiste ha centotrentotto anni. La stessa legge vale per il colore degli occhi» le disse in un sussurro. Lei annuì lentamente, ma alzò subito lo sguardo verso il suo viso.
«Quindi i tuoi occhi sono ambrati?» gli chiese affascinata. Waldeaz annuì, mostrando un mezzo sorriso.
«Non riesco a spiegarmi il perché, ma ogni volta che qualcuno di estraneo al nostro mondo vede i miei occhi resta incantato» disse socchiudendo gli occhi per guardarla di sottecchi. Lei arrossì lievemente e si portò una mano sul collo, spostando lo sguardo sulla volpe.
«Beh, per noi è raro vedere occhi di quel colore; quindi è come vedere qualcosa di straordinario. E poi sembrano più misteriosi» gli disse, osando uno sguardo al suo viso. Purtroppo però, lo stregone portava ancora gli occhiali, e dato che ora sapeva di che colore fossero era ancora più curiosa di vedere i suoi occhi.
«Per loro è raro, e  poi anche tu hai gli occhi dorati» le disse tranquillamente. Estel lo guardò alzando un sopracciglio, incuriosita. Cosa voleva insinuare lo stregone riferendosi a loro in quel modo? Chi erano? Forse si riferiva esclusivamente a tutti coloro che non erano a conoscenza dell’esistenza di qualche creatura fantastica? Probabilmente era così, altrimenti non avrebbe avuto motivo di escluderla dal gruppo. E poi era vero che i suoi occhi erano dorati, ma non erano ambrati come quelli dello stregone, non sembravano dello stresso denso colore del miele; erano semplicemente di un castano chiaro. Imparagonabili con i suoi.
«Non è la stessa cosa. I miei occhi non sono misteriosi come tuoi, né hanno la stessa luminosità, profondità e vitalità. Sembra di sprofondare in una vaschetta di miele quando ti si guarda negli occhi» gli disse soprappensiero, con un dito sotto il mento.
Restarono in silenzio per qualche minuto: Estel persa nei suoi pensieri riguardanti lo strano tizio che le sedeva accanto, dimentica ormai del perché dell’inizio della loro discussione; mentre Waldeaz restava impazientemente in attesa. Alla fine la sua impazienza lo portò a sbuffare.
«Allora, Estel, vogliamo iniziare?» le chiese cercando di suonare gentile. Lei lo guardò con aria sospetta. Strinse le mani tra loro e iniziò a giocherellare con le proprie dita.
«Prima dimmi una cosa, Waldeaz. Come fai tu a conoscere il mio nome? E perché tu dovresti essere in grado di riuscire a spiegare i miei sogni? E l’intruglio colorato di ieri sera?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi. Lo stregone rimase qualche secondo a fissarla immobile. Poi si tolse gli occhiali e si massaggiò il naso proprio sul punto in cui poggiava la loro montatura. Aveva gli occhi chiusi e sembrava stanco. 
«Perché ieri non è stato il nostro primo incontro» sussurrò, passando a massaggiarsi le tempie, sempre con gli occhi chiusi. Estel lo guardò confusa.
«Che intendi dire? Mi conosci già?» gli chiese lentamente. Waldeaz annuì. «Come?» gli chiese in un sussurro. Lui assottigliò le labbra, aprendo lentamente gli occhi. Le sue iridi erano perfettamente ambrate con sottili schegge più scure che si diramavano intorno alle pupille. Sembravano gli occhi di un drago, affascinanti e misteriosi come potevano esserlo quelli di una creatura del genere. E avevano una forza attrattiva che era quasi ipnotica.
Estel scosse la testa e distolse lo sguardo da quegli occhi così particolarmente belli. Sembrava che lo stregone potesse stregarla semplicemente con un singolo e innocuo sguardo.
«Stai cercando di farmi un incantesimo?» gli chiese lentamente, senza guardarlo. Lo stregone scoppiò letteralmente a ridere a quelle parole.
«Sono così potente che basta un semplice sguardo per spaventarti?» le chiese ridacchiando e indossando nuovamente gli occhiali. Lei fece una smorfia, storcendo il naso.
«Non è questo il punto..» disse, cercando di far cadere lì il discorso. «Stavamo parlando d’altro» gli ricordò incrociando le braccia sul petto e guardandolo nuovamente in viso. Waldeaz prese un profondo respiro e annuì, controvoglia.
«Ieri sera, prima della festa, eri davanti al mio portone e bussavi piuttosto insistentemente» le disse alzando il viso verso il cielo.
«Cosa?» le chiese lei spalancando gli occhi. Non ricordava di averlo mai visto prima della festa. Cos’era successo ieri? Ah, vero, si era svegliata sul divano del salotto, al buio e completamente da sola. Ricordava ancora il forte mal di testa.
«Esatto. Ma eri controllata da Vortha» le disse portando lo sguardo sui suoi occhi.
«Da chi?» gli chiese, anche se non completamente stravolta da quella rivelazione. Era ormai praticamente ovvio che era lui a farle compiere gesti che poi neanche ricordava.
«Vortha, il coniglio assassino che era stato creato per Ainur..».
«So chi sia» sbottò infastidita. Lo stregone la guardò meditabondo.
«Comunque, sei arrivata da me ed io ho riconosciuto immediatamente l’assassino, così ho cercato di renderlo innocuo per qualche minuto e quando ci sono riuscito ti ho presa e con un incantesimo ti ho rispedita a casa; anche perché io vivo molto oltre i confini di Dragville» le disse scrollando le spalle come se quell’informazione potesse essere utile. «Dopo la tua visita ho iniziato a chiedermi perché Vortha si fosse impadronito del tuo corpo e come fosse riuscito ad arrivare a te. Credevo che tu fossi al sicuro e che lui fosse rinchiuso in luogo ben protetto, e quindi non sono riuscito a darmi una risposta. Sono letteralmente uscito pazzo per cercare di capire, ma alla fine mi sono detto che l’unico modo per aiutarti non era capire come fosse riuscito ad arrivare a te, ma cercare di sbloccarti i ricordi per chiarirti la situazione. E così ho deciso di prendere parte alla festa del paese, ti ho incontrata e ti ho fatto ingerire la mia pozione che, talaltro, non è un semplice intruglio colorato, ma una complicata squisitezza che mi è costata anni di sperimentazioni» le disse infine, incrociando le braccia sul petto – come se si sentisse offeso da come lei aveva denominato la sua pozione –, e guardandola dritto negli occhi.
Lei era… spiritata. Non riusciva a capire le parole dello stregone; non avevano senso. Perché mai Vortha avrebbe dovuto cercare proprio lei? Non era nessuno!
«Perché lui cercava me?» gli chiese in un sussurro, senza avere la forza per guardarlo. Aveva paura delle possibili risposte che poteva ricevere e non si sentiva completamene pronta per accettarle.
Lo stregone sospirò e si massaggiò nuovamente le tempie.
«Non.. posso dirtelo..» le disse in un sussurro, stringendo le labbra. Lei sollevò immediatamente lo sguardo su di lui.
«Perché no?» gli chiese quasi gridando.
«Ho fatto una promessa e sono vincolato da un incantesimo» le disse lentamente, spostando lo sguardo sugli alberi che li circondavano.
Estel lo guardò a bocca aperta, incredula.
«E non c’è nulla che possa fare per aiutarmi?» gli chiese quasi con un tono isterico. Waldeaz la guardò, con le labbra ridotte ad un’unica linea sottile.
«Mi dispiace, ma posso solo aiutarti cercando di spiegarti i sogni» le disse, rammaricato. Lei lo guardò, mordendosi il labbro inferiore.
Non era giusto. Non poteva essere vero. Perché l’unico uomo che sapeva la verità, non poteva parlarne? Non era giusto!
«Puoi dirmi perché Vortha cercava te, allora?» gli chiese in un sussurro, ormai rassegnata ad una risposta negativa.
Lo stregone rimase in silenzio qualche secondo, come a ponderare la risposta adeguata da dare. Alla fine prese un profondo respiro e sospirò.
«Perché sono il suo creatore. Io ho costruito Vortha».

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Capitolo 38
*** La spiegazione dello stregone ***


La spiegazione dello stregone
 
Estel rimase con la bocca spalancata ad osservare il suo interlocutore. Waldeaz era il creatore di Vortha? Per quale motivo la sua mente diabolica aveva creato un simile strumento di morte? Perché?
«Perché?» chiese in un sussurro, guardandolo in viso. «Perché hai creato quell’assassino?» gli chiese lentamente, in un sussurro quasi impercettibile.
«Estel..» iniziò lui, con un tono gentile. «Per lo stesso motivo per cui non posso rispondere alla tua precedente domanda, non posso rispondere neanche a questa. Ma in mia discolpa posso dire che il progetto originale non coincide con il risultato. Vortha doveva essere un beneficio, ma è successo qualcosa che non avevo minimamente preso in considerazione» disse stringendo i pugni con rabbia. «E per questo non mi perdonerò mai..» sussurrò con un tono talmente tanto carico di odio da farlo sembrare quasi tangibile.
Estel lo guardò preoccupata. Gli occhi dello stregone erano talmente furenti di rabbia che lei riusciva a vedere la loro luminosità anche attraverso le lenti degli occhiali. In quel momento sentì quasi il bisogno di consolarlo e di dirgli che non era colpa sua se Vortha era quello che era; che lui non c’entrava nulla. Ma in fin dei conti non sapeva come era andata realmente la storia e non poteva giustificarlo soltanto perché le era simpatico. Prima di trarre delle conclusioni avrebbe esaminato attentamente la storia.
Ma anche se Estel si ostinava a pensare di non doverlo credere buono soltanto perché si comportava come tale, la sua mano si mosse automaticamente per posarsi sulla spalla dello stregone in segno di conforto. Prese un profondo respiro e sospirò. Non ci poteva fare niente se le sembrava una brava persona..!
«Non pensarci adesso, Waldeaz» gli disse con un sorriso gentile. Lui la guardò incredulo. Si tolse gli occhiali e posò gli occhi su quelli della ragazza, che stavolta sostenne il suo sguardo. Lo stregone la guardò con gli occhi lucidi di sorpresa e si lasciò sfuggire un sorrisetto intenerito.
«Soltanto una persona usava sorridermi in questo modo» le disse con amarezza nostalgica, con lo sguardo perso nel proprio passato.
«Chi?» le chiese Estel curiosa, sorridendo, cercando di fargli passare la rabbia per la discussione di prima. Lui la guardò con un sorriso più spento.
«Una persona che amavo ma che per colpa mia adesso.. è morta» disse lentamente, guardando il cielo. Estel suppose che fosse stata uccisa da Vortha e si dispiacque per aver fatto riaffiorare quel ricordo.
«Scusami» gli sussurrò e capendo che l’argomento non era proprio di suo gradimento, fece cadere lì la discussione.
Lui le sorrise gentilmente e sbatté le mani l’una contro l’altra.
«Allora» esclamò con un sospiro, sfoggiando ancora lo stesso sorrisetto; «Mi parli di questi sogni che ti ho fatto avere?».
 
Estel prese un profondo respiro e, con un sorriso, iniziò a raccontare del primo sogno, senza tralasciare neanche il più insignificante dettaglio. Waldeaz la ascoltava attentamente, anche se aveva un po’ lo sguardo perso nei suoi occhi dorati. Lei diceva che i suoi occhi non erano speciali come quelli che aveva lui, che non erano misteriosi come i suoi. Ma erano tutte stupidaggini. Aveva degli occhi stupendi e talmente luminosi che lui non ricordava di averne mai visti di uguali in tutta la sua lunga vita. A parte quelli di lei ovviamente. Erano pieni di vita e sprizzavano curiosità da ogni parte. Erano occhi sinceri, leali e.. magici; anche se probabilmente questo lei non lo sapeva.
«Quindi?» gli chiese quella all’improvviso. Lo stregone sbatté le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che la ragazza aveva finito di parlare già da qualche secondo. Era seduta di fronte a lui e lo guardava con un’espressione interrogativa.
«Ma mi hai ascoltata?» gli chiese alzando un sopracciglio. Lui le sorrise e annuì. In effetti aveva ascoltato il suo racconto, anche se a dirla tutta le ultime battute le aveva saltate. Ma cosa poteva esserci di importante nella parte finale di un sogno? Beh, in pratica qualunque cosa.
«In realtà mi sono perso quando hai chiesto a Mahtar se esistevano anche i personaggi dei cartoni» le disse con un certo imbarazzo. Lei si rabbuiò e sbuffò.
«Se devi aiutarmi, almeno prendimi seriamente» gli disse incrociando le braccia.
«Mi dispiace» le disse con un sorriso gentile. Lei lo guardò, dritto negli occhi, e sbuffò.
«Va bene» gli concesse. «A quel punto lui mi ha detto che esistono le creature mitologiche e fantastiche, ma che non esistono i personaggi che sono stati inventati da uomini dopo aver sentito parlare di loro» concluse. Si zittì e rimase in attesa.
Lo stregone la guardò confuso. Non c’era niente di particolare in quel sogno, niente che avesse a che fare con Vortha e i suoi piani.
«Allora?» gli chiese lei, incuriosita.
«Beh, tu cosa pensi dell’esistenza di queste creature?» le chiese sdraiandosi sull’erba a pancia in giù e tenendosi il viso con le mani.
Lei lo guardò confusa, corrugando la fronte.
«Cosa penso?» gli chiese confusa, imitando la sua posizione.
«Credi che esistano?» le chiese più dettagliatamente. Lei ci pensò su per qualche secondo.
«No» disse alla fine, «almeno non tutte». Lo stregone metabolizzò quella risposta attentamente.
«Beh, è chiaro allora perché hai avuto questo sogno» le disse tranquillamente.
«Per quale motivo?» gli chiese curiosa.
«Per farti rendere conto che le storie che ti raccontava Mahtar erano tutte vere. Esistono tutte quelle creature: stregoni, streghe, vampiri, lupi mannari, sirene, fate, gnomi, folletti, elfi, orchi, troll, demoni, draghi ecc.. esistono tutti» le disse tranquillamente.
Lei lo guardò incredula, con la bocca aperta a mostrare una O di sorpresa.
«Io credevo esistessero soltanto spettri, fantasmi e altre cose paranormali» gli disse in un sussurro. Lui strizzò gli occhi.
«Beh gli spettri non sono vere e proprie creature paranormali. Sono soltanto il riflesso del ricordo di persone morte e appaiono solamente nel luogo e nel momento in cui la persona è morta. I fantasmi possono essere corporei di tanto in tanto, ma dipende più che altro da quanto tempo sono sulla terra» le disse grattandosi la testa.
Lei lo guardò incredula. Chiuse la bocca e deglutì, mentre l’uomo continuava ad osservarla in attesa di qualche altra domanda. La vide deglutire nuovamente e finalmente vide il suo sguardo tranquillizzarsi e sentì il suo cuore martellare ad un ritmo più regolare.
«In fondo, in fondo, ho sempre saputo della loro esistenza, ma non volevo accettarlo» gli disse scrollando le spalle. «Un po’ come la storia di Ainur».
Waldeaz la guardò incuriosito.
«Che vuoi dire?» le chiese curioso.
«Beh, all’iniziò non credevo all’esistenza di Vortha ed Ainur. Mahtar aveva detto che i personaggi inventati dagli uomini non esistevano, quindi per quale motivo doveva esistere proprio lei?» gli chiese scrollando le spalle. Poi però il suo sguardo si oscurò e la sua fronte si corrugò. «Ora che ci penso, se era tutta una storia, perché loro esistono davvero?» chiese guardando lo stregone. Questo sospirò e si sbatté una mano sul braccio per schiacciare una zanzare che aveva appena cercato di morderlo.
«Perché non è una storia inventata» le disse tranquillamente. Lei lo guardò, incredula e curiosa. «Hai presente che alla fine della storia compare un uomo che salva Ainur dal coniglio?» le chiese, guardandola dritto negli occhi. Lei annuì senza proferire parola. «Beh, questa storia non è altro che un ricordo di quell’uomo».
 
Estel guardò stupita l’uomo che le stava di fronte. Era strano credere che la storia di Ainur fosse solo il ricordo di un uomo; eppure aveva la sua logica. Lei esisteva davvero, quindi doveva esserci una spiegazione a quella storiella e la risposta di Waldeaz sembrava la più adeguata.
«E chi era quell’uomo?» gli chiese sempre più incuriosita.
«Qualcuno che le voleva molto bene» le disse scrollando le spalle. Lei corrugò la fronte; non le piaceva quella risposta! Aveva come la sensazione che lo stregone le stesse nascondendo qualcosa, ma sospettava che non gliel’avrebbe mai detta. Quindi di rassegnò e sbuffò.
«Ma lei.. era umana?» gli chiese all’improvviso. La consapevolezza che esistesse ogni genere di creatura su quella terra, le aveva fatto nascere l’idea che non fosse un normale essere umano, ma che magari fosse una strega.
«No, non era umana» le disse, assottigliando le labbra.
«E cos’era? Una strega?» le chiese sempre più incuriosita. Lui scosse la testa e guardò il cielo. I suoi occhi si erano improvvisamente oscurati.
«Era un elfo. Un elfo con il cuore di un demone» disse con tono grave.
Estel lo guardò per qualche secondo. Questa informazione non l’aveva colpita più di tanto. Se aveva fatto tutte quelle cose cattive era evidente che ci fosse qualcosa di malvagio dentro di lei. Però, Waldeaz sembrava rammaricato da quella verità.
Lo osservò attentamente mentre era perso nei suoi ricordi. Aveva gli occhi fissi su una pietra e non sbatteva le palpebre. Era come se dormisse ad occhi aperti. Poi però prese un profondo respiro, sospirò e sbatté le palpebre. I suoi occhi si posarono su di lei e le sorrisero.
«Passiamo al secondo sogno?» le chiese con un sorriso curioso. Lei lo guardò confusa. Era così bravo a passare da uno stato d’animo ad un altro, che sembrava proprio un attore.
«Certo» gli disse sorridendo e si gettò nel resoconto del secondo sogno, ancora più dettagliatamente di quanto avesse fatto prima. Gli raccontò dell’incontro tra la ragazza e il vecchietto, di come lei fosse triste e di come il vecchietto avesse tentato di confortarla; gli disse che la ragazza uccideva solo chi gli faceva del bene, che l’uomo l’aveva riconosciuta come la ragazza che si dirigeva all’istituto, che lei gli aveva posato una mano sul cuore facendogli molto male. Gli raccontò tutto senza neanche tralasciare la differente vitalità che c’era tra lo sguardo della prima ragazza e quello della seconda.
 
Alla fine del racconto Waldeaz rimase in silenzio. Era rimasto scioccato e allo stesso modo affascinato dal sogno che la ragazza aveva avuto. Quello sì che era un sogno importante, molto più del primo.
«Hai detto che il vecchietto all’inizio si era ricordato che la ragazza era la stessa che si incamminava verso l’istituto… che c’entra il vecchio istituto?» le chiese incuriosito.
«Beh, una delle volte che sono stata posseduta da Vortha al mio risveglio mi sono ritrovata lì. Con me c’era Anar, un mio amico, che mi ha aiutato ad uscire da quell’edificio. Una volta fuori mi ha detto che era riuscito a trovarmi grazie a un vecchietto che aveva visto una ragazza identica a me, dirigersi verso l’istituto. Poi però ci siamo accorti che la descrizione del vecchietto era sbagliata, poiché la ragazza che aveva visto lui indossava una gonna, mentre io avevo un paio di leggins» gli disse scrollando le spalle.
«E il vecchietto di quella volta è lo stesso che hai sognato?» le chiese guardandola dritto negli occhi. Lei fece spallucce.
«Non so, io non ricordo nulla di quello che è successo prima che mi svegliassi dentro l’edificio» gli disse, mordendosi il labbro inferiore.
«Capisco..» sussurrò. «Però dal sogno sembra proprio che sia così».
«Già» sussurrò.
Lo stregone rimase qualche minuto in silenzio.
«Beh, credo che questo sogno sia più una visione di quello che è successo quando ti sei fatta quella ferita» le disse indicandole la caviglia ancora fasciata.
«Che vuoi dire?» gli chiese lei stringendo gli occhi e corrugando la fronte.
«Beh, credo che Vortha, il cui cuore è collegato a quello di Ainur, abbia ricevuto dei flash da parte della ragazza su quello che è successo e che abbia fatto vedere questi flash anche a te» le disse massaggiandosi il mento.
La ragazza lo guardò abbastanza confusa.
«Cosa?» gli chiese, grattandosi la testa.
Lui prese un profondo respiro e sospirò.
«Allora, Estel, tu sei quella che viene posseduta da Vortha, giusto?» le chiese gentilmente.
«Si» gli rispose lei, sbuffando. Non le andava che lo stregone la dovesse trattare come una stupida.
«Bene, questo vuol dire che i vostri pensieri, le vostre idee e paure, diventano una cosa sola mentre ti possiede. Il fatto che ti abbia posseduta, fa si che possa entrarti nel cervello anche senza possederti, lasciando lì qualche sua idea o qualche ricordo» le spiegò lentamente. «E credo che questo sia proprio quello che è successo. Vortha ha ricevuto da Ainur delle immagini di quello che è successo e lui, accidentalmente, deve averle trasmesse anche a te».
Estel continuò a guardarlo con aria interrogativa.
«C’è una cosa che non capisco..» sussurrò, guardando lo stregone.
«Cosa?» le chiese pazientemente.
«Perché Ainur aveva delle immagini riguardanti quella notte?».
«Semplicemente perché è stata lei ad uccidere quel vecchietto» le disse con un tono di voce grave, guardandola dritto negli occhi.
Lei lo guardò incredula con la bocca spalancata, immobile come una statua.
«Vuoi dire che era insieme a me al parco, quella notte?» gli chiese in un sussurro spaventato. Lui la guardò dritto negli occhi e cercò di tranquillizzarla con il proprio sguardo ambrato.
«Sì» le sussurrò infine.
Lei scosse la testa e chiuse gli occhi. Strinse le labbra e si morse il labbro inferiore.
«Ma perché ha il mio stesso aspetto?» gli chiese in tono lamentoso e quasi impercettibile.
Lo stregone sospirò e si massaggiò le tempie.
«A questa domanda, purtroppo, non posso risponderti» le disse in un sussurro.
 
Estel aprì gli occhi lentamente e li puntò sul suo interlocutore. Lui la guardava in silenzio, immobile come una statua, ma con gli occhi così luminosi da rendere impossibile il credere che fosse realmente fatto di marmo.
Scosse la testa come per cercare di far chiarezza tra i propri pensieri.
«Ma perché alla fine la ragazza che colpisce sono io? Voglio dire, se quella che lo uccide è Ainur perché sono io quella che subisce?» gli chiese lentamente.
Lo stregone la guardò per qualche secondo.
«Hai detto tu che le due ragazze avevano uno sguardo diverso, no? Beh, la prima, quella con lo sguardo vitreo e spento, era Ainur. Ha attaccato il vecchietto e nel giro di pochi secondi è scomparsa. Vortha aveva sentito la presenza di Ainur e ti aveva portato nel parco proprio per intercettarla; ma lì avete incontrato il vecchietto che ti ha scambiata per Ainur e che ha deciso quindi di prendersela con te. È tutto collegato, non vedi?» le chiese dolcemente, cercando di non spaventarla. Lei lo guardò dritto negli occhi e, attraverso quello sguardo sembrò che lo stregone le fosse entrato dentro, fosse sceso fin al suo cuore e avesse afferrato tutta l’ansia e la paura che lo avvolgevano. Adesso si sentiva paurosamente calma e tranquilla. Chissà che incantesimo le aveva fatto lo stregone. Probabilmente l’aveva incantata.
«Ma il sangue che è stato ritrovato sul pezzo di metallo non era umano. Quindi come potevo essere io, quella?» gli chiese lentamente, senza staccare gli occhi da quelli dello stregone.
Lui si morse il labbro inferiore e sospirò.
«Semplicemente perché tu non sei umana, Estel. Se un elfo anche tu» le sussurrò lentamente, sfiorandole appena la punta delle orecchie come per dimostrare che avesse detto la verità.  

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Capitolo 39
*** Paura e confusione ***


Paura e confusione
 
Estel rimase immobile ad osservare lo stregone che le stava davanti. Non riusciva a credere a ciò che Waldeaz le stava dicendo. Era praticamente impossibile. Lei non poteva essere un elfo. I suoi genitori erano umani, quindi come poteva essere possibile che avevano dato alla luce un elfo?
Scosse la testa e cercò di far luce tra i suoi pensieri. Respirò a fondo e cercò di calmarsi. Lei non poteva essere un elfo; però se lo era molti pezzi del puzzle della sua vita iniziavano a unirsi tra di loro. Per esempio, se lei era un elfo si poteva spiegare perché il sangue ritrovato sul pezzo di ferro non era umano; si potevano spiegare le orecchie appuntite. Però le era sempre stato detto che quella era una malformazione dovuta a delle pillole che sua madre aveva ingerito durante la gravidanza.
Però magari, Vortha cercava lei perché era un elfo che per di più assomigliava alla sua vera padrona; e magari era stato costruito per poter controllare gli elfi soltanto.
Ora che ci pensava, magari era per il suo aspetto che Mahtar si era affezionato così tanto a lei. Magari rivedeva letteralmente sua figlia in lei e si sentiva in obbligo di proteggerla perché con Ainur non ci era riuscito.
«È a causa mia che brilla il tuo Kordon?» chiese in un sussurro allo stregone che la guardava con uno sguardo preoccupato. Alzò lo sguardo per fissarlo nei suoi occhi ambrati. Sembravano occhi sinceri anche se tremendamente potenti e ipnotici.
«Si, brilla perché percepisce la vicinanza di un elfo» le disse lentamente. Lei annuì. Ormai l’idea che fosse realmente un elfo si stava radicando nel suo cuore. Certo era difficile accettare tutte le prese in giro, però riusciva a spiegarsi il perché di molte cose.
«I miei genitori..».
«Non posso parlarti di questo, Estel; ho promesso» le disse mordendosi il labbro inferiore per il dispiacere. «Non immagini quanto mi piacerebbe poterti dire tutta la verità, ma ho promesso che non l’avrei mai fatto».
Estel lo guardò, stringendo i denti. Doveva pur esserci un modo per sapere la verità.
«Un elfo può nascere da una coppia di esseri umani?» gli chiese all’improvviso, guardandolo sempre dritto negli occhi. Waldeaz deglutì e spostò lo sguardo sui tronchi degli alberi che li circondavano.
«Potrebbe, se almeno uno dei due fosse un elfo» le rispose in un sussurro, senza guardarla negli occhi. Estel annuì lentamente, con il cuore che martellava talmente tanto forte che sembrava potesse uscirle dal petto in un qualunque momento. Forse stava arrivando ad una di quelle verità che ti cambiano la vita per sempre; una di quelle verità che alla fine non sei più tanto sicuro di voler sapere. Ma lei voleva saperlo; voleva fare luce in tutto il mistero della sua vita e l’unico che poteva aiutarla era Waldeaz.
«Gli elfi hanno sempre le orecchie a punta?» gli chiese lentamente, cercando di respirare con calma.
Waldeaz prese un profondo respiro e sospirò. Aprì gli occhi e trafisse quelli della ragazza con il proprio sguardo.
«Si, non esistono elfi senza orecchie appuntite». Quelle parole la colpirono come una violenta frustata in pieno viso. Aveva sempre saputo che i suoi genitori la odiavano e forse adesso poteva capirne il motivo. Lei non era la loro vera figlia, e loro non erano i suoi veri genitori. Le avevano mentito per tutta la vita; le avevano fatto credere di essere sbagliata, di essere un mostro. L’avevano picchiata e trattata male soltanto perché avevano paura di lei.
Estel fece una smorfia che sembrava quasi il ringhio di un lupo inferocito. Digrignò i denti e espirò rumorosamente dal naso, come di solito fanno i tori quando sono arrabbiati. Non si sentiva ne triste, ne frustata, neanche molto sorpresa; era arrabbiata per le prese in giro, arrabbiata per la vita buia e cupa che le avevano fatto vivere, arrabbiata per non avere mai saputo la verità.
Si alzò e mosse il collo per far crocchiare le ossa ormai indolenzite dal lungo stare nella stessa posizione. Si sistemò i vestiti e li pulì dal terriccio e dalle foglie secche che vi si erano incollate sopra.
«Grazie della chiacchierata, Waldeaz» disse allo stregone, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
Quello la guardò e si alzò, pulendosi come aveva fatto lei precedentemente.
«Dove hai intenzione di andare?» le chiese con un tono di voce preoccupato. Lei lo guardò, lo sguardo talmente infuocato che avrebbe potuto appiccare fuoco a qualunque cosa.
«A casa» rispose velocemente, senza distogliere lo sguardo dagli occhi dello stregone. Quello corrugò la fronte e sollevò un sopracciglio. Poi le poggiò le mani sulle spalle come avrebbe fatto un buon amico premuroso.
«Ascolta Estel, io oggi ti ho rivelato delle verità importanti; ma tu non devi lasciarti spaventare da ciò che ti ho detto. Ricorda che c’è gente che sa quello che sei e che ti ama comunque» le disse gentilmente con un’espressione seria. Lei lo guardò con lo stesso sguardo furente di poco prima.
«Grazie, Waldeaz, veramente. Ma adesso ho qualcosa da fare, quindi mi dispiace, ma devo andare» gli disse, spostando con gentilezza le mani che le tenevano le spalle.
Lui deglutì e fece una strana smorfia.
«Come preferisci. Allora arrivederci» le disse indossando nuovamente gli occhiali.
«Arrivederci» gli disse lei con un mezzo sorriso.
«Ah» la richiamò, mentre infilava una mano nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualcosa, «se avessi ancora bisogno di me, basta che mi chiami stringendo questa tra le mani» le disse porgendole una piccola catenina, dalla quale pendeva una pietra verde. Estel l’afferro, la osservò per qualche secondo, dopodichè se la mise intorno al collo.
«Ti ringrazio, Waldeaz, sei stato davvero di grande aiuto» gli disse con un sorriso di riconoscenza. Ma anche se il suo sorriso poteva sembrare gentile e dolce, il suo sguardo continuava ad essere in grado di incendiare gli oggetti. Lo salutò nuovamente e gli voltò le spalle, ripercorrendo velocemente il parco e dirigendosi automaticamente verso la propria meta.
 
Eccola lì. La casa era proprio come l’aveva vista l’ultima volta, e come sempre sembrava la dimora di una famiglia felice. Il sole penetrava a tratti dai rami degli alberi che l’attorniavano e creavano un’atmosfera ancora più pacifica.
Soltanto quella vista le dava ai nervi. Prese un profondo respiro e si avvicinò al portone con passo deciso. Voleva farla finita velocemente, senza dilungarsi troppo. Odiava la sola presenza di quelli che fino a poco tempo prima avrebbe chiamato genitori; li odiava.
Si fermò sul portico e prese un profondo respiro, dopodichè bussò violentemente. Aspettò qualche secondo che qualcuno le rispondesse; era talmente infuriata che l’attesa sembrò durare una vita. Ma per quando impazientemente stesse aspettando, nessuno si degnò di risponderle. Suonò nuovamente, con lo stesso risultato; riprovò e riprovò nuovamente e ogni silenzio come risposta serviva soltanto a farla innervosire di più; era un silenzio che la colpiva come uno schiaffo, che le riempiva le orecchie e sembrava deriderla.
Digrignò i denti e fece per suonare l’ennesima volta quando un rumore alle sue spalle la bloccò. Inspirò profondamente per cercare di calmarsi e si voltò. Sapeva già chi avrebbe trovato dietro di sé, ma la vista di quegli occhi verdi, così belli e cattivi, la fece infuriare ancora di più.
«Tesoro, guarda chi è venuta a farci visita» esclamò, piegando leggermente il capo all’indietro per far cenno al marito. Il suo tono, così sarcastico, e la sua voce, così terribilmente squillante, le fecero perdere il controllo. Odiava quella voce, quegli occhi così provocanti, quel sorrisetto così strafottente ed egoista, quelle labbra che mai le avevano rivolto una parola gentile e che mai le avevano donato un bacio. Odiava quella donna; e ancor più odiava l’uomo che le stava dietro. Quegli occhietti cattivi e colmi di un odio che lei ricambiava totalmente; quelle mani che mai le avevano lasciato una carezza sul viso. L’avevano toccata, questo è vero, ma con una brutalità che le lasciava un segno rosso per almeno una settimana. Quelle non erano persone; non avevano niente di umano. Ed Estel credeva che se mai in quel momento insieme a lei ci fosse stato Waldeaz, il suo Kordon avrebbe certamente cambiato colore, per fargli capire che di fronte a lui c’erano due mostri.
Strinse i pugni, talmente tanto forte da graffiarsi con le unghie i palmi delle mani, e cercò di respirare tranquillamente.
I suoi “genitori” le stavano davanti; lei sfoggiando il solito sorrisetto “prendimi la faccia a pugni”, mentre lui, la guardava con fastidio, tenendo le braccia incrociate sul petto.
«Cosa ci fai qui?» le chiese l’uomo, sputando le parole come se fossero fatte d’acido. Lei continuò a fissarlo in silenzio, mordendosi il labbro inferiore con foga per non urlargli contro. Voleva cercare di restare calma e di non comportarsi come una persona incapace di contenere la propria rabbia.
«Avete una spiegazione da darmi» disse lentamente, moderando il tono della voce e guardandoli attentamente con lo sguardo iroso.
L’uomo e la donna si scambiarono uno sguardo, assottigliando entrambi le labbra. Si guardarono negli occhi per un secondo impercettibile, ma fu abbastanza affinché si scambiassero le giuste domande e risposte silenziose. Estel li guardava, impaziente e nervosa.
La donna le rivolse un sorrisetto bastardo e la guardò con gli occhi che ridevano.
«A cosa ti riferisci, cara?» le chiese, muovendo un passo verso di lei per avvicinarsi. Estel la bloccò immediatamente ponendo entrambe le mani davanti a sé, a mo’ di scudo.
«Non avvicinarti» le intimò, in un sibilo, con lo sguardo così pericoloso che i pugnali in confronto ad esso diventavano inutili giocattoli per bambini. Quella si fermò come se avesse preso un muro di faccia e la guardò con uno sguardo incredulo e stupito. 
«Osi parlarmi così?» le chiese in un sussurro infuriato. Estel sollevò un sopracciglio; le labbra che tremavano per la rabbia.
«Non sei nessuno per me; non ti devo nessun rispetto» le disse, pronunciando ogni parola con esagerata lentezza affinché il loro effetto arrivasse il più in profondità possibile nell’anima di quella donna. Sempre se ce l’aveva, un’anima.
La donna la guardò con un accenno di bocca spalancata; gli occhi ancora a manifestare lo stesso stupore di poco prima.
«Come hai detto?» le chiese in un sussurro, deglutendo lentamente. Estel non le rispose, ma rimase immobile e in silenzio, con lo sguardo ancora rivolto verso di lei.
L’uomo, che aveva assistito alla scena in silenzio, grugnì e si crocchiò le ossa delle dita con un movimento minaccioso. Guardò Estel e sputò per terra, sempre mantenendo lo sguardo sulla ragazza.
«Porta più rispetto per tua madre» le disse con un tono autoritario, avvicinandosi alla moglie che ancora se ne restava immobile. Estel fece una smorfia e inspirò profondamente per cercare di calmarsi.
«Presentamela ed io le porterò rispetto» gli disse con un tono acido e uno sguardo assassino. L’uomo la guardò con uno sguardo inferocito, inspirando profondamente come di solito avrebbe fatto un toro arrabbiato pronto alla carica.
Restarono immobili per alcuni minuti a scambiarsi sguardi di odio puro. Estel si aspettava chissà quale risposta o magari una spiegazione da parte della coppia; mentre i due continuavano a stare zitti, apparentemente lontani da volerle parlare.
Dopo altri minuti di attesa, Estel si spazientì ed iniziò a respirare velocemente cercando di restare calma. L’uomo continuava a guardarla, mentre la donna sembrava come spiritata.
«Cos’è che sai?» chiese all’improvviso l’uomo, incrociando le braccia sul petto. Lei lo guardò per qualche secondo.
«Che non siete i miei genitori» gli disse, digrignando i denti per la rabbia. «Che mi avete mentito e presa in giro per tutta la vita; che mi odiate e che mi avete soltanto detto bugie e costretta a vivere quella che nessun essere vivente oserebbe mai chiamare vita» disse tutto d’un fiato, così velocemente che non fu sicura che l’uomo l’avesse capita. Quello però la guardava con uno sguardo seccato e le labbra assottigliate, bianche per la tensione. «Esigo una spiegazione. Chi siete e chi sono i miei veri genitori?» gli urlò sbattendo un piede per terra. Sentiva le lacrime prossime a scivolarle lungo le guance e inondargli il volto, ma non avrebbe più pianto di fronte a quelle persone. Non avrebbe dato loro la soddisfazione di vederla piangere. Voleva farlo; voleva liberarsi e sfogare tutta la rabbia che provava nei loro confronti; insultarli e prenderli a pugni. Ma sapeva che non sarebbe servito a nulla; avrebbe soltanto finito col comportarsi come avrebbero fatto loro.
Così deglutì il groppo che si sentiva in gola e mantenne gli occhi spalancati per impedire alle lacrime, che già le inondavano gli occhi, di scendere giù.
L’uomo le sorrise perfidamente per poi iniziare a ridere fragorosamente.
«Non ho nulla da dirti io, cara; se vuoi sentire la verità fattela raccontare da quel grande uomo che chiameresti volentieri papà» le disse con  un sorriso cattivo e crudele.
A quelle parole Estel si sentì colpita come da uno schiaffo violento. Cosa voleva dire quell’uomo? Cosa c’entrava adesso Mahtar?
Scosse la testa e cercò di restare tranquilla e non cedere proprio adesso. Il rosso le voleva bene e mai le avrebbe mentito come avevano fatto loro. L’uomo voleva soltanto metterlo contro di lei!
«Non dire stupidaggini!» gli urlò sbattendo violentemente il piede sul pavimento del portico. «Non permetterti di parlare di lui!» urlò con tanta foga che la donna sussultò e sbatté le palpebre stupita.
L’uomo continuava a guardarla con lo stesso sorriso crudele. Le braccia conserte e uno sguardo acceso. Era perfettamente consapevole di aver fatto breccia nello scudo di sicurezza della ragazza e di averlo incrinato, anche se lievemente; ma seppur lieve quell’incrinatura era semplicemente la premessa per un attacco più violento che l’avrebbe completamente distrutto.
«Parlane con lui se di me non ti fidi; ma sappi che è così. È Mahtar che sa tutta la verità. Lui soltanto» le disse scrollando le spalle, sorridendo allegramente.
Estel lo guardò incredula. Non poteva dire sul serio. Mahtar non poteva averle mentito per tutta la vita. Lui le voleva bene davvero e la trattava quasi come una figlia; era impossibile che l’avesse soltanto presa in giro.
Guardò l’uomo che le stava davanti e la sua voglia di prenderlo a pugni aumentò alla vista del sorrisetto che sfoggiava. Prese un profondo respiro e, con una grande forza di volontà, iniziò a camminare. Non degnò più neanche di uno sguardo le due figure che le stavano davanti e, facendo finta che fossero invisibili, le oltrepassò e se le lasciò alle spalle.
Non credeva neanche ad una sola delle parole che quell’uomo le aveva rivolto; eppure sentiva uno strano peso alla bocca dello stomaco. Sapeva che Mahtar le voleva bene, ma si sarebbe sentita meglio soltanto a sentirlo dire proprio dalle sue labbra. Così velocemente, quasi di corsa, si incamminò verso casa. 

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Capitolo 40
*** La storia del rosso ***


La storia del rosso
 
Nel tragitto per arrivare a casa, Estel si era talmente tanto concentrata sul percorso per non pensare a quello che le era appena successo, che il viaggio le era sembrato durare soltanto tre secondi. Infatti, senza neanche rendersene conto, si era ritrovata davanti al portone di casa, immobile, senza avere il coraggio di suonare il campanello.
Si sentì una stupida per questo. Non aveva motivo di dubitare di Mahtar; ma allora perché le parole di suo “padre” l’avevano angosciata così tanto? Perché non riusciva a stare tranquilla? Probabilmente perché da quando aveva scoperto di essere un elfo, trovava molte analogie tra se stessa e Ainur, che era la figlia del rosso.
Si morse il labbro inferiore e scosse la testa, cercando di non farsi ingannare dai mille film che la sua mente era capace di creare e cercò di respirare lentamente per calmarsi. Aveva il cuore che le batteva talmente tanto forte che aveva cominciato a credere che le sarebbe uscito con un balzo fuori dalla gola. Per questo deglutì, come per cercare di costringerlo dentro il proprio petto. Inspirò nuovamente e si preparò a suonare, quando però di botto la porta si aprì davanti a lei.
Ai suoi occhi apparve Anar, la capigliatura rosa e ribelle nascosta sotto un cappellino bianco, gli occhi verdi e profondi puntati, con sorpresa, su di lei.
«Cosa stai facendo?» le chiese confuso, alzando un sopracciglio. Lei allontanò lo sguardo dai suoi occhi ed entrò dentro casa, scostandolo prepotentemente.
«Stavo per entrare» gli rispose in un sussurro, mordendosi il labbro. La vista di quel ragazzo l’aveva demolita. Come sempre bastava un suo semplice sguardo per farla cedere, ma non poteva permettersi di scoppiare proprio adesso. Doveva parlare con Mahtar e subito, anche. Dopo che lui l’avrebbe tranquillizzata, magari, si sarebbe lasciata andare a un pianto silenzioso nella propria stanzetta, dove nessuno l’avrebbe sentita. Non ora. Adesso non poteva permetterselo.
Con un sospirò, si sedette sul divano e si lasciò riscaldare dalle fiamme che scoppiettavano dentro il caminetto. Guardare il fuoco le asciugava gli occhi e il loro movimento ondulatorio era rilassante e ipnotico. Si concentrò così tanto che quasi non si accorse neanche che Anar le si era seduto accanto.
«Estel» la chiamò gentilmente per attirare l’attenzione su di sé. Lei corrugò leggermente le sopracciglia, ma non spostò lo sguardo dal caminetto. Non voleva guardarlo negli occhi.
«Dimmi» gli disse lentamente, intrecciando tra di loro le dita delle mani. Sentì Anar sospirare e rilassarsi sul divano, allontanandosi dal suo viso. Spontaneamente si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
«Mahtar era preoccupato. È un pomeriggio che ti cerca» le disse tranquillamente, stiracchiandosi. A quelle parole Estel si stupì. Quanto era mancata da casa?
«Che ore sono scusa?» gli chiese, con un sopracciglio alzato, continuando a guardare le fiamme.
«Le sei e mezza» le rispose alzandosi dal divano. «Se fossi in te mi preparerei un discorsetto per quando torna; sai, era particolarmente arrabbiato quando è uscito per cercarti. Anche perché non è riuscito a trovare Vortha dentro la tua valigia e ha creduto che tu l’abbia preso in giro nuovamente» le disse allontanandosi.
Estel deglutì e si voltò d’istinto a guardare il rosato.
«Non ha trovato Vortha?» gli chiese in un sussurro. Anar si voltò a guardarla e finalmente i loro sguardi si incontrarono.
«No, ha controllato in ogni angolo della tua stanza, ma non c’era traccia di quel coniglio» le disse scrollando le spalle.
«Ma è impossibile!» sbottò alzandosi e correndo nella propria stanza per controllare lei stessa. Una volta aperta la porta però si accorse che era impossibile riuscire a trovare qualcosa lì dentro. Mahtar si era buttato nella ricerca, con la stessa violenza con cui uno tsunami si abbatte sulla terraferma, quindi c’era una confusione tale che era quasi impossibile distinguere la sagoma dei mobili. Così fece un passo indietro e si richiuse la porta alle spalle.
Si sarebbe dedicata alla ricerca dopo aver parlato con Mahtar.
Come uno strano scherzo del destino, in quel preciso istante si sentì sbattere il portone d’entrare e dopo qualche secondo, la ragazza sentì la voce del rosso che la chiamava.
Rimase immobile per qualche secondo, senza neanche trovare il fiato per rispondere alla chiamata. Aveva il cuore che le batteva a mille e il suo corpo era percorso da brividi violenti. Non voleva più andare a parlare con Mahtar. Aveva paura.
«Estel!» la chiamò nuovamente con voce impetuosa. Lei deglutì e si costrinse a muovere il primo passo. Non aveva senso restarsene lì immobili a non fare nulla; non aveva senso avere paura. Mahtar l’amava e non avrebbe mai fatto nulla per distruggerla. Così, con questa convinzione, continuò a muovere i piedi fin quando non arrivò in salotto, dove il rosso la aspettava in piedi e con le braccia incrociate. Con la coda dell’occhio vide Anar appoggiato allo stipite della porta della cucina.
Restarono immobili e in silenzio per qualche minuto. Mahtar aveva lo sguardo acceso di rabbia, mentre le labbra erano ridotte ad una linea sottile. Lei, invece, aveva lo sguardo timoroso e dubbioso; le labbra erano continuamente tormentate dai denti.
«Dove sei stata?» le chiese all’improvviso il rosso, mantenendo sempre la medesima espressione. Estel deglutì e prese un profondo respiro.
«Al parco» gli rispose, lentamente, contenta che il discorso avesse preso la stessa strada che voleva imboccare lei.
«A fare cosa?» le chiese, inarcando un sopracciglio. Lei sospirò e abbassò lo sguardo.
«All’inizio ero semplicemente andata per fare una passeggiata..» gli rispose, spostando lo sguardo sul paesaggio fuori dalla finestra; «..ma poi ho incontrato qualcuno» gli disse trafiggendo il suo sguardo con il proprio. Il rosso sbatté le palpebre e rilassò la fronte aggrottata, in attesa che la ragazza continuasse il suo discorso. «Waldeaz».
All’udire quel nome, Mahtar sussultò quasi impercettibilmente, spalancando occhi e bocca, segno che gli risuonava particolarmente familiare. Estel respirò profondamente e deglutì.
«È stato lui a farmi bere quella pozione strana alla festa di Dragville. È uno stregone e voleva aiutarmi a mettere ordine in tutto quello che mi è successo» sussurrò guardando il viso del rosso, per cercare di captarne ogni singola reazione. «Mi ha detto che è stato lui a creare Vortha, ma che nel suo progetto non doveva essere cattivo e che un suo minimo errore ha modificato completamente il risultato finale. Mi ha detto che già mi conosceva, ma non ha potuto dirmi il come e il perché dato che ha promesso a una persona speciale che non ne avrebbe mai parlato con nessuno. Mi ha detto che non sono umana, ma che sono un elfo e che i miei genitori non sono la mia vera famiglia» sussurrò stringendo i pugni e digrignando i denti nel dire quelle parole.
Mahtar rimase immobile, le labbra assottigliate e lo sguardo fisso negli occhi della ragazza. Aveva le braccia conserte e i muscoli delle spalle erano ipertesi. Lentamente, si lasciò cadere sul divano dandole le spalle e lasciandosi sfuggire un sospiro. Si prese la testa tra le mani e iniziò a stropicciarsi la fronte e gli occhi, in stato di totale stanchezza.
«Vieni qui» le disse lentamente, sbattendo la mano sul cuscino accanto a sé. Estel deglutì, ma si costrinse a camminare fino a sedersi dove gli era stato indicato. Prese un profondo respiro e sospirò, guardando Mahtar in pieno viso.
Aveva uno sguardo strano, stanco ma velato, come se celasse qualcosa, posato sulle fiamme che danzavano nel caminetto. Le labbra erano strette e in evidente tensione.
«Anche tu, Anar, siediti qui» gli disse accennando al posto libero alla sua destra. Il rosato non se lo fece ripetere due volte, e gli fu accanto nel giro di pochi secondi, lo sguardo attento e curioso allo stesso tempo.
«Allora, conoscete entrambi la storia di Ainur e Vortha, quindi non c’è motivo che la narri» sussurrò, strofinandosi la fronte e spostando lo sguardo su Estel. «Ricordi quando ti raccontai come avevano fatto le creature fantastiche ad arrivare sulla terra?» le chiese guardandola dritto negli occhi. Lei annuì, ripensando al sogno avuto quella stessa notte. «Bene, ricorderai anche quando ti dissi che le storia inventate dagli uomini su queste creature erano soltanto delle menzogne» le disse cercando nel suo sguardo la conferma a quelle parole. Lei annuì nuovamente e deglutì, attenta a non perdersi neanche una singola parola di tutto quel discorso.
«La storia di Ainur fa eccezione» gli disse in un sussurro. L’uomo annuì, lentamente.
«Sapete perché?» chiese lentamente a entrambi, spostando lo sguardo da uno all’altra.
«Perché è il racconto dell’uomo che ha trovato la bambina» gli disse Anar. Il rosso annuì, restando in silenzio per qualche secondo, con lo sguardo rivolto verso il fuoco impetuoso che si impennava come a voler uscire dalla sua gabbia di terracotta.
«Ecco, vedete..» disse, con la voce ridotta a poco più di un flebile sussurro. «..ero io quell’uomo».
Quelle poche parole bastarono a pietrificare l’atmosfera della stanza. Il cuore di Estel che fino a poco prima batteva e martellava come se fosse impazzito, si era fermato di colpo, mentre i suoi occhi si erano spalancati per mostrare il medesimo stupore impresso nello sguardo di Anar. Perfino le fiamme sembrarono essersi immobilizzate.
La ragazza cercò di far ordine tra i suoi pensieri, senza farsi confondere; però c’erano troppi pezzi che non combaciavano. La storia stava diventando davvero troppo strana..
«Ma perché hai diffuso questa storia? Perché hai fatto in modo che tutti conoscessero Ainur?» gli chiese Anar confuso e perplesso.
Il rosso prese un profondo respiro e si strofinò gli occhi, mentre la ragazza continuava a guardarlo affamata di verità.
«Vedete, l’ho fatto per proteggerla» sussurrò, fissando lo sguardo sul fuoco.
«Proteggerla?» gli chiese Estel in un sussurro. «In che modo, scusa?» sussurrò incredula, cercando di capire le motivazioni del rosso. Mahtar la guardò; gli occhi lo specchio di una sofferenza lontana, ma non del tutto dimenticata. Prese un profondo respiro e sospirò, assottigliando le labbra.
«Vedete, nessuno crederebbe mai all’esistenza di una bambina dotata di strani poteri, governata da un coniglio di pezza malvagio. È la storia meno credibile che possa esistere! Quindi era l’unico modo per far dimenticare la verità a chiunque la conoscesse. Era l’unico modo per salvare mia figlia dalle calunnie della gente, o dagli sguardi spaventati degli altri bambini» sussurrò. «Come vi ho già detto, esistono le creature, ma non i personaggi inventati dagli uomini. Quindi, secondo questa filosofia, Ainur non avrebbe dovuto esistere».
Estel lo guardò, comprendendo le sue parole; ma c’era ancora qualcosa che le risultava difficile da capire.
«Ma scusa» gli chiese infatti, «Dalla descrizione che ne hai dato, la gente che conosceva davvero tua figlia, non poteva capire che in realtà lei era Ainur?» gli chiese guardandolo in viso. L’uomo si fece sfuggire un sorrisetto amaro, con ancora la stessa, antica tristezza nascosta nello sguardo.
«Io non ho raccontato la verità nella storia. Ainur non ha mai ucciso quell’ubriaco, o salvato l’uccellino. Erano solo degli elementi per rendere la storia meno credibile» sussurrò, facendo spallucce. «La bambina che trovai quella notte, non aveva nulla della bambina descritta nella storia se non le orecchie appuntite e il coniglio stretto tra le braccia».
Estel ed Anar si scambiarono uno sguardo, aggrottando la fronte. La storia di Mahtar sembrava stesse rimettendo in ordine molti pezzi della storia; ma c’erano ancora dubbi e misteri che dovevano essere svelati. Come, per esempio, il perché i genitori adottivi di Estel le avessero detto che Mahtar sapeva la verità riguardo tutta la sua vita.
La ragazza sospirò e si fece coraggio per prepararsi ad affrontare il vero motivo della discussione con il rosso, quando però un flash le attraversò il cervello e la portò a porre un’altra domanda, che non aveva nulla a che fare con il suo reale obiettivo.
«Ma, se quella notte hai trovato Ainur, adesso lei dov’è? Che fine ha fatto?» sussurrò curiosa e stupita dalla domanda che le era appena uscita dalle labbra.
Anar la guardò e spostò immediatamente lo sguardo su Mahtar per cercare di captarne ogni singola reazione. Questo aveva assottigliato le labbra ed era impallidito, segno che quella era la domanda più brutta che si aspettava gli avrebbero posto.
Si alzò dal divano e iniziò a camminare avanti e indietro davanti al camino. Mentre si muoveva, gesticolava con le mani e sussurrava parole incomprensibili come se stesse combattendo contro se stesso per la risposta più gusta da dare.
Estel ed Anar rimasero in silenzio ad osservarlo.
Lei non riusciva a capire quella strana reazione del rosso. Era come se stesse lottando fra sé e sé per il dire o meno la verità. Si aspettava quasi di vedere sulle sue spalle un angelo e un diavoletto in miniatura, come spesso accadeva nei cartoni animati che guardava da bambina. L’angelo che cercava di metterlo sulla retta via, e il diavoletto che invece cercava di indurlo alla scelta più sbagliata. Nei cartoni, spesso, era il diavolo e vincere e il protagonista si comportava secondo il modo che quello riteneva più giusto.
Questa volta però, non poteva finire come nei cartoni; Mahtar non poteva dar retta al suo diavoletto e scacciare invece l’angelo che voleva aiutarlo ad essere onesto. Lei aveva bisogno di conoscere la verità; quindi non restava che una cosa da fare: comportarsi come se l’angelo dovesse essere lei.
«Mahtar» lo chiamò infatti dopo pochi secondi. Quello fece una smorfia e si fermò lentamente, dandole le spalle. «Smettila di fare così. Sii sincero e basta; tranquillo non le faremo del male e non diremo a nessuno dove si trova» gli disse raggiungendolo e toccandogli una spalla per farlo voltare.
«Non è di questo che ho paura» le disse, assottigliando le labbra e rivolgendole uno sguardo carico di rancore e dolore. Lei corrugò la fronte e alzò un sopracciglio.
«E di cosa allora?» gli chiese in un sussurro.
Il rosso chiuse gli occhi e prese un profondo respiro.
«Lo scoprirai presto» le sussurrò aprendo lentamente gli occhi. Restarono in silenzio per qualche altro secondo, dopodichè Mahtar prese l’ultimo e più profondo respiro. «Vedi, Ainur sei tu».
 

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Capitolo 41
*** Melyanna ***


Melyanna
 
Estel rimase come pietrificata da quelle parole. Tutto nel suo corpo  si bloccò, perfino il suo cuore sembrò smettere di battere. I suoi occhi erano spalancati e fissi su quelli del rosso, che continuava a guardarla con un’espressione addolorata, ma non pentita.
Ainur.. come poteva lei essere Ainur? Non aveva senso, era davvero la cosa più lontana dalla verità che avesse mai sentito.
Lentamente scosse la testa, mantenendo sempre lo sguardo negli occhi di Mahtar. L’uomo strinse le labbra e le si avvicinò. Lei indietreggiò istintivamente, un gesto tanto innocuo, ma abbastanza potente da lasciare un segno violento nel morale del rosso.
«Non può essere..» sussurrò Estel, deglutendo a fatica. L’uomo si immobilizzò e prese un profondo respiro.
«Estel, è così fidati» le disse lentamente, continuando a guardarla. Lei scosse la testa.
«Non può essere, Vortha continua a cercarla, se fossi stata io se ne sarebbe accorto..» sussurrò, spostando lo sguardo e allontanandosi sempre più dall’uomo che non avrebbe mai esitato a chiamare padre.
«È così, tu sei lei» le disse sforzandosi di restare calmo. Lei scosse la testa. Non capiva perché Mahtar si ostinava a dire che lei fosse Ainur. Non poteva essere così.
«No..» sussurrò.
«Credi che non riconoscerei mia figlia?!» le urlò all’improvviso, stringendo i pugni. Il tono impetuoso e violento come una tempesta. Aveva gli occhi lucidi di collera e disperazione allo stesso tempo. Estel lo guardò, immobile. Poi gli voltò le spalle. Non riusciva più a stare in sua presenza. Mahtar, l’uomo che aveva sempre considerato un padre, che l’aveva sempre protetta e aiutata, era anche lo stesso uomo che le aveva nascosto la verità più importante di tutta la sua vita.
«Estel» la chiamò lui, con un tono di voce più delicato. Lei scosse la testa. Sentiva che stava per esplodere e non voleva piangere proprio di fronte alla causa del suo dolore. Prese un profondo respiro e iniziò a correre e istintivamente aprì la porta che l’avrebbe portata in soffitta, l’unico posto della casa in cui Mahtar non l’avrebbe mai seguita.
 
Estel percorse il piccolo corridoio e in breve si trovò davanti la scala a chiocciola. La salì e spinse verso l’alto la botola che però era chiusa a chiave. Sbuffò e si asciugò le lacrime che già avevano iniziato a rigarle le guance. Si guardò intorno.
Ricordava che il rosso teneva la chiave della soffitta appesa a un gancio accanto alla scala. Così, tirò su col naso e riscese la scala, controllando attentamente le pareti per riuscire a trovarla.
Una volta giunta alla fine vide qualcosa che non si aspettava, e si affrettò ad asciugarsi occhi e guance.
«Cercavi questa?» le chiese dolcemente Anar, porgendole la chiave della soffitta. Lei spostò lo sguardo verso il basso cercando di non piangere, ma la presenza del rosato le diceva di lasciarsi andare e di farsi consolare. «Mahtar l’aveva ancora con sé dalla nostra ultima punizione e pensava ti sarebbe potuta servire» continuò. Estel strinse i pugni e si morse le labbra. Non voleva piangere, assolutamente. Poi però, sentì la mano si Anar toccarle il mento, in modo da poterle girare il capo e guardarla negli occhi.
In quel momento l’effetto delle parole di Mahtar si fece sentire in tutta la sua violenza. Se era vero che lei era Ainur, allora, era stata lei ad uccidere sua madre e Gilraen; era stata lei ad uccidere l’uomo nel parco. E ad eliminare i genitori di Anar…
Spalancò gli occhi e indietreggiò velocemente, cercando di allontanarsi il più possibile dal rosato. Scosse la testa e iniziò a piangere forte, infischiandosene del fatto che Anar fosse di fronte a lei. Non poteva essere vero. Non poteva aver ucciso i suoi genitori. Non poteva essere stata lei.
«Estel» la chiamò dolcemente lui, avvicinandosi lentamente. Lei scosse la testa, e nuove lacrime le bagnarono il viso. Anar continuò a camminare, spingendola ad arretrare sempre di più, su per le scale, fin quando non si trovò con le spalle al muro.
«Ti prego, Anar» sussurrò tra i singhiozzi. Il rosato deglutì, ma non la ascoltò. Le si avvicinò tanto fin quando non poté afferrarla e stringerla forte contro il proprio petto.
Estel si sentì un egoista, ma non poté fare a meno di stringersi a lui e lasciarsi confortare. L’abbraccio del rosato era un rifugio sicuro, l’unico posto in cui si sentiva sicura. Però lei non meritava quella sicurezza; non meritava la sua protezione. Aveva ucciso la sua famiglia.
«Lasciami» gli sussurrò, cercando di divincolarsi con poca convinzione. Voleva lasciarlo; voleva che se ne andasse e la lasciasse da sola. Sapeva che era quello che meritava, ma non riusciva a staccarsi dal suo petto. Era egoista e cattiva.
«No, Estel» le rispose in un sussurro. Lei continuò a piangere.
«Io.. io ho..» cercò di parlare, ma le parole non volevano uscire. Anar sapeva chi avesse ucciso i suoi genitori eppure era lì che l’abbracciava.
«Lo so» le rispose, e per qualche secondo, sembrò che il suo abbraccio si fosse fatto più freddo. Fu un istante, ma bastò ad Estel per farle capire quanto bisogno avesse effettivamente di lui. Poi tornò tutto come prima. «Ma non posso farne a meno» le disse in un sussurro. Lei spalancò gli occhi, confusa. Che cosa voleva dire con quelle parole? Cercò di allontanarsi dal suo petto, ma la presa del ragazzo era ferrea. Poi però lentamente si allentò.
Lei lo guardò dritto negli occhi, per cerare di capire cosa stesse pensando, ma il suo sguardo era impenetrabile. Le porse nuovamente la chiave della soffitta, che stavolta lei prese. Dopodichè le sorrise dolcemente e lentamente se ne andò.
 
Estel rimase immobile ad osservare la schiena di Anar fin quando questa non scomparve oltre la porta. Era confusa, frastornata, ferita, spaventata, arrabbiata. Voleva a tutti i costi riuscire a trovare un qualcosa che le facesse capire che Mahtar si sbagliava. Una chiave, una risposta. Ma più pensava a tutto quello che le era successo, più i pensieri si confondevano tra di loro e lei non riusciva a capire nulla.
Si accorse pian, piano che stava continuando a piangere e che sperava davvero tanto nell’abbraccio di Anar; ma non lo meritava. Se davvero lei era Ainur, non meritava la compagnia del rosato; non meritava niente di lui.
Si asciugò le lacrime e lentamente si diresse verso la soffitta. Questa volta, grazie alla chiave, riuscì ad aprire la botola e ad intrufolarsi nel buio locale. L’unica luce proveniva dal corridoio; così decise di lasciare la botola aperta. Si sedette sul pavimento, si strinse le ginocchia al petto e si lasciò andare a tutte quelle lacrime che da tanto combattevano per uscire.
 
Non sapeva da quanto tempo piangeva lì rannicchiata per terra. Erano tanti i pensieri che le vorticavano in testa e ogni nuova consapevolezza era come una pugnalata.
Alzò il viso, per asciugarsi le guance e rimase pietrificata per qualche secondo. Davanti a lei, seduta su una cassa di legno, c’era la donna fantasma, che la guardava con uno sguardo preoccupo e dispiaciuto. Da come la guardava, probabilmente, voleva chiederle perché stesse piangendo in quel modo; ma Estel non aveva nessuna voglia di ripetere nuovamente quelle immagini che aveva rivisto centinaia di volte da quando si era seduta lì in soffitta. Così, anche per lasciarsi un po’ distrarre, indusse il fantasma a farla parlare un po’ di sé stessa.
«Perché ce l’hai con me?» le chiese in un sussurro. La donna la guardò stupita. Evidentemente, non si aspettava che il discorso finisse proprio su di lei. Poi però, si lasciò sfuggire un sorriso.
«Io non ce l’ho con te, cara Estel» le disse dolcemente, con un sorriso. La ragazza la guardò incredula.
«Allora perché ogni volta che ci vediamo cerchi di farmi del male?» le chiese, asciugandosi definitivamente gli occhi. La donna la guardò e, a poco, a poco, il suo sorriso si spense. Portò lo sguardo sulle proprie mani e ve lo lasciò per tanto tempo.
«Vedi..» iniziò a dirle, mantenendo immobile lo sguardo; «Avevo due figlie una volta. Due bellissime gemelle. Le amavo moltissimo con tutto il mio cuore» sussurrò con un tono dolce e con un sorriso intenerito; poi però, lo sguardo amorevole scomparve per lasciar posto ad uno più addolorato; «Purtroppo una di loro uccise l’altra» disse, stringendo forte tra di loro le labbra. Aveva il viso deformato dal dolore; sembrava quasi sul punto di piangere ed Estel si chiese se effettivamente i fantasmi potessero farlo. Ma sembrava proprio di no. Il viso di quella donna era la maschera della sofferenza, e sicuramente, se fosse stato possibile, in quel momento sarebbe stato rigato dalle lacrime.
«Ma.. io che c’entro?» le chiese in un sussurro, confusa. Il fantasma sollevò lo sguardo e la guardò attentamente per qualche secondo.
«Vedi.. tu me le ricordi entrambe» le disse in un sussurro, con un sorriso amaro. Estel spalancò gli occhi incredula. In poco tempo le ritornò in mente il sogno su Gilraen. Le due bambine erano identiche e alla fine Gilraen veniva uccisa. Possibile che fossero loro le bambine di cui parlava? Possibile che lei fosse sua madre? Allora Mahtar aveva avuto due figlie.. e si sarebbe spiegato perché quella volta aveva detto che Ainur gli aveva portato via la moglie e una figlia.. Poteva davvero essere quella la verità della sua vita? Lei aveva ucciso sua madre e la sua unica sorella?
Deglutì e cercò di restare calma. La donna poteva essere davvero la madre di quelle bambine, ma non era detto che lei fosse davvero Ainur.
«Come si chiamavano le tue figlie?» le chiese in un sussurro, deglutendo. Aveva paura, una paura incredibile della risposta che la donna avrebbe potuto dare. Quasi, aveva l’impulso di scappare lontano da quella soffitta, ma evidentemente, anche quella donna poteva darle molte risposte.
Il fantasma la guardò attentamente e in silenzio per qualche secondo. Poi sospirò e prese un profondo respiro.
«Ainur e Gilraen» le sussurrò.
Il cuore di Estel si bloccò per qualche secondo. Sembrava quasi che un pugnale l’avesse colpito in pieno impedendogli di pompare la vita nel suo corpo. Sentì nuove lacrime pronte a bagnarle il viso, ma non voleva piangere più. Voleva soltanto delle risposte. Se quella era sua madre, voleva sapere almeno il suo nome.
«Come ti chiami?» le chiese in un sussurro, deglutendo per evitare che le lacrime iniziassero a scendere.
«Melyanna» le disse con un sorriso.
«E sei la donna di cui Mahtar era innamorato vero?» le chiese lentamente. Melyanna rimase in silenzio per qualche secondo, dopodichè annuì.
«Eravamo innamorati e le due gemelle furono il frutto del nostro amore» le disse dolcemente con un sorriso. Estel annuì e rimase in silenzio.
Aveva mille domande da porre a quella donna. Per esempio, perché Ainur era cattiva? Perché le era stato dato quel coniglio? E perché Gilraen invece sembrava completamente diversa?
Respirò a fondo e si preparò alle parole che avrebbe voluto rivolgerle; però prima c’era un altro enigma che doveva risolverle. Avrebbe dovuto dirle o meno, che il suo amato credeva che lei fosse Ainur?
Ci pensò per qualche secondo, dopodichè concluse che era meglio nasconderglielo per il momento. Doveva avere le sue risposte e forse Melyanna, dopo aver saputo che lei poteva essere la sua bellissima figlia assassina, l’avrebbe cacciata per mai più rivolgerle la parola. 

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