Fate Spesso Il Mio Sangue

di LaMicheCoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


fsims

Disclaimer: I personaggi di Hetalia: Axis Powers non mi appartengono
Ma sono di proprietà
Di Hidekaz Himaruya ©
Fosse il contrario, i suddetti personaggi mi avrebbero già
Fatta fuori.

 

 

 

 

 

 

 

Alla figlia Angleterre, alla figlia France, alla nipotaH Zena.
A chi piace la FrUk e a chi non piace.
A chi legge, a chi schifa, a chi recensisce.
A chi c’è, c’è sempre stato e ci sarà da oggi.
A tutti voi <3 ~

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Fate Spesso Il Mio Sangue :.

 

 

Prologo  ~

 

 

 

-Ora stai esagerando-
-Esagerando? Ti pare che io stia esagerando?-
Sì, stava esagerando.
Francia esagerava sempre e non mancava mai di sottolineare la cosa con maestria di gesti ed espressioni, frutto di anni e anni di nullafacenza davanti allo specchio. In quel momento, poi, stava dando sfoggio di una teatralità tanto marcata che Inghilterra, già alle soglie dell’irritazione, sentì il sangue ribollire e gorgogliare nelle vene.
-E chi altri, sennò?-
Se ne stava ritto nell’androne d’entrata, la schiena rigida, la mano sinistra chiusa a pugno e le dita della destra che artigliavano la giacca scura sulla spalla; gli occhi sembravano neri, così assottigliati e stretti, e le labbra erano serrate, le guance incavate nel volto livido.
Tutto, dal tremore dei polsi al respiro accelerato, denotava l’estrema rabbia di cui era preda il francese. E persino Inghilterra, che di sfuriate con l’altro se ne intendeva abbastanza, si accorse di quanto, quella sera, le avvisaglie di un litigio ben più duro fossero troppe per essere ignorate.
Ma nulla, comunque, gli impedì di continuare nella propria, personale crociata contro Francia –il mangiarane aveva torto a prescindere, quali che fossero le scuse e le ragioni di questo mondo.
Il francese non sembrò apprezzare la domanda di Inghilterra: aprì la bocca per ribattere, ma la coprì dopo alcuni istanti di silenzio. Scosse il capo, sollevando le labbra in quello che tutto aveva tranne la somiglianza con un sorriso.
-Sei incredibile-
Inghilterra si portò le mani ai fianchi e arcuò le sopracciglia, fingendosi deliziosamente stupito dall’ultimo commento dell’altro.
-Excuse me?-
-Sei incredibile- ripeté Francia, scandendo le parole -Te lo giuro, Angleterre, non ce la faccio più. Non resisto: sono al limite-
Ah, lui era al limite.
Lui, che gli aveva fatto passare una serata infernale dentro un ristorantello da signorine, tra camerieri in livrea e baffetti a manubrio, senza scordarsi delle vecchiette di naftalina e i signorotti con monocolo. Cristallizzato in quell’atmosfera fittizia, così imbellettata di lampadari di cristallo, vini fruttati e piatti ricercati e elaborati fino allo stremo, Inghilterra aveva dovuto sopportare l’aria satura di illusione, il lezzo della tovaglia inamidata e delle rose piegate sui bicchieri di champagne.
Persino i modi di Francia gli erano parsi falsi e vuoti, battute di una commedia grottesca e già scritta: il modo in cui teneva il flute tra le dita, la bocca sollevata in un accenno di sorriso, gli occhi che ammiccavano e la punta della lingua a sfiorare appena le labbra rosse di vino. E poi il polsino bianco della camicia lasciato volutamente più corto per scoprire un lembo di polso, il collo bianco che Francia lasciava intravedere tra la camicia bordeaux e i capelli biondi, il mocassino che andava accidentalmente a sfiorargli la caviglia mentre il vinofilo accavallava le gambe e poggiava il gomito destro sulla tavola, il mento sulle nocche, per “Meglio vedere i tuoi splendidi occhi da dietro il bouquet, ma chèr
Chi? Chi mai avrebbe potuto sopportare tutto quell’artificioso bon-ton senza uscirne matto?
-Solo perché ho insultato quel tuo accidenti ristorante tutto pizzi, nastri e cotillon, le rose e tutte le altre tue stupidate? Andiamo, France! Noi ci insultiamo costantemente, quindi smettila di fare l’attricetta drammatica, per favore..-
E c’era anche una lieve punta di soddisfazione alla fine di quella frase, perché Inghilterra sapeva esattamente come sarebbero andate le cose, da lì in avanti.
Francia che gli si avvicinava e lo afferrava per le spalle, lui che si dimenava e gli tirava l’ennesima frecciatina, l’altro che ghignava e si faceva vicino, sempre più vicino, terribilmente più vicino, fino a quando dell’androne, di Londra, dell’Inghilterra e del mondo non sarebbe rimasto null’altro che il fiato di Francia, punteggiato di vino, le sue labbra calde di rabbia, morbide di perdono, le sue mani ai fianchi, alla schiena, alle braccia, ai glutei, il respiro mozzo, pesante, veloce, lento, il suo corpo bollente contro..
E fu per un gesto istintivo che Inghilterra si irrigidì, incassando la testa nelle spalle: non sarebbe caduto senza combattere.
-Je m’en fous!-
Inghilterra sgranò gli occhi e arretrò di un passo, sorpreso dalla reazione inattesa di Francia; questi contrasse la mascella, le vene che pulsavano sul collo teso.
-Je suis fatigué de toute cette merde!- continuò, alzando le braccia al cielo -Fa’ questo, fa’quello, comportati così, comportati cosà- lasciò cascare le spalle con un sospiro, scuotendo la testa -Tu pretendi che il mio comportamento sia quello che vuoi tu e qui se soucie di me. Tu ti aspetti da me qualcosa che tu hai già scritto. Anche prima, vero, pensavi che ti avrei baciato e sbattuto tra le lenzuola, c’est vrai?-
Inghilterra non rispose, ma lo stomaco si torse.
Francia dava sfogo di un tale sovraccarico di termini in madrelingua solo in due casi: quando era ubriaco…e quando era infuriato, terribilmente infuriato, quando non sarebbero bastati né baci né carezze né sussurri per calmarlo e riportarlo in carreggiata.
Se solo si fosse arrabbiato come una persona normale e avesse cominciato a sbraitare e a lanciare roba e distruggere cose, Inghilterra almeno si sarebbe trovato nella sempre piacevole posizione di vantaggio costituta dalla ragione. Ma Francia aveva un modo di arrabbiarsi che faceva sempre sentire l’ avversario palesemente in torto.
E più si sentiva intrappolato nell’angolino del torto, più Inghilterra si faceva furioso.
-So, cosa dovrei fare secondo te?- chiese, sarcastico –Trovare un incantesimo at random e cambiare dal giorno alla mattina? Tutto per un tuo capriccio?-
Francia deglutì, il volto livido. Per un istante sembrò davvero sul punto di aggiungere qualcosa, ma anche quell’intento scivolò via dagli occhi slavati dalla rabbia e, soprattutto, dalla delusione.
Francia non era mai stato deluso da lui. Era stato arrabbiato, felice, se credeva alle sue parole, addirittura innamorato. Ma mai, mai era stato deluso.
-Fa’ come vuoi- sibilò, infilandosi la giacca -Io me ne tiro fuori-
Inghilterra si chiese se il boato della porta che si chiudeva sarebbe stato altrettanto forte, con i gracidii della rana a coprirlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Le mie mani hanno il tuo stesso colore,
ma mi vergognerei ad avere un cuore bianco come il tuo :.
{ Lady Macbeth } –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo
Non credo sarà più lunga di quattro capitoli, ma..Oh. Ho avuto un sacco di ispirazione assai <3

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


FSIMS1

 

Capitolo I ~

 

-Igirisu-san?-
Non era poi così male come situazione, a ben vedere. Anzi. Era piuttosto piacevole.
-Igirisu-san?-
Doveva ancora abituarsi, ma era sicuro di riuscirci in tempi brevi. E da lì in poi, sarebbe stata la calma e la pace più assolute: addio alle scocciature, alle sveglie alle tre di notte, alle serenate, addio. Addio. Addio.
Addio.
-Igirisu-san?-
Un tocco sulla spalla e Inghilterra ebbe un sussulto; Giappone ritirò la mano e arrossì violentemente, forse convinto di essere stato inopportuno.
-Perdonate la scortesia, Igirisu-san- chinò il capo in segno di scuse -Pensavo non vi sentiste bene: continuavate a fissare il vuoto davanti a voi senza dire una parola-
Inghilterra arcuò le sopracciglia e allontanò le bacchette; fece schioccare la lingua contro il palato, il sapore amarognolo del legno tenuto troppo a lungo tra le labbra che si mescolava al gusto della soia e del sakè.
-Stavo solo ammirando la danza delle tue geishe, Japan. Davvero brave- precisò, prendendo ancora un po’ di riso dalla ciotola e ignorando lo sguardo perplesso che Giappone gli stava rivolgendo.
Oh, Giappone lo ripeteva fin troppo spesso di abitare da solo. Lo mormorava nel lieve soffio per raffreddare il tea, mentre portava elegantemente i soba alla bocca o versava il liquore in un tenue arricciolarsi di fumo. Che fosse a voce troppo bassa perché potesse risultare ineducato, ma abbastanza alta perché non si perdesse una sola parola, Inghilterra ci aveva ormai fatto l’abitudine.
Continuò ad osservare la danza dei ventagli senza aggiungere altro, lo sguardo che seguiva il tintinnare dei fermacapelli, scendeva all’alto colletto del kimono fino all’obi che ne stringeva pesantemente la vita; non perse un solo movimento del polso sottile, né il sorriso di una o i polpastrelli dell’altra che pizzicavano appena le corde dello shamisen.
Davvero splendide, ammantate di quella stessa grazia dei secoli precedenti, quando s’accompagnava alle maiko e rideva con le loro labbra rosse e coi loro occhi neri.
…Non che al periodo avesse disdegnato anche la compagnia delle oiran, ovvio. Ma era stato davvero troppo tempo prima. Quasi si sentiva vecchio, vecchio e stanco. Certo, Francia non avrebbe esitato a…
Serrò le labbra, irrigidendo la mascella.
-Igirisu-san, non per essere inappropriato, ma sembrate piuttosto teso-
Inghilterra posò la ciotola sul tavolino basso e si sistemò meglio sui talloni, adducendo il dolore alle caviglie come scusa per prendere tempo; persino le geishe tacquero, e la suonatrice di shamisen gli indirizzò un quieto sollevarsi delle labbra -Come a intendere che sapeva molto più di Inghilterra stesso.
-Non sono teso, Japan- glissò con noncuranza.
-Ha forse…a che fare con Furansu-san?..Ah!- Giappone si portò una mano a nascondere la bocca, gli occhi sgranati, il volto che assumeva un’imbarazzata tonalità paonazza. -Perdonate, non volevo essere invadente-
-Perché mai dovrebbe essere colpa di quel mentecatto di France?- e, per quanto avesse cercato di apparire neutro, incuriosito, sorpreso, capì di aver fallito miseramente quando le geishe si scambiarono un mormorio di risata e persino due fossette andarono disegnandosi sulle guance di Giappone.
Forse non avrebbe dovuto dire colpa. Forse avrebbe dovuto puntare su qualcosa di più generico, mantenere la voce più salda, evitare il commento personale circa l’intelligenza ameboide di quella rana malefica e soprattutto non stringere le bacchette tanto forte da sentirle scricchiolare sotto le dita.
Ma era solo un’ipotesi. Nulla di realmente verificabile, ecco.
-Ho semplicemente notato che non litigate più così spesso come eravate soliti- fu la semplice risposta, data mentre prendeva della ventresca -Persino Doitsu-san è rimasto sorpreso dal non dovervi più interrompere ogni riunione-
-Non vedo cosa ci sia di male. Se non litighiamo e non turbiamo la quiete, le riunioni si svolgono con maggiore facilità e senza inutili perdite di tempo, a meno che i due Italy non comincino con le loro idiozie. Ma in quel caso, non sono io il responsabile-
Una spiegazione ponderata a lungo, tra un Earl Gray ed un ricamo a punto erba, riflessioni e ipotesi e dimostrazioni per assurdo atte solo a ricordarsi che, sì, il non litigare più con quel dannato francese aveva avuto effetti altamente positivi sui propri nervi. Niente crisi isteriche, servizi da thè ancora intatti, moschetto al sicuro in soffitta -Lenzuola senza pieghe, nessun profumo di rose a infiocchettare la stanza, né café au lait a riposo sul tavolo della cucina.
Poteva leggere tranquillamente il Times, nessuna voce balorda. Poteva sistemare i vecchi ricordi da corsaro, nessun commento indecente. Poteva guardare la pioggia, nessuna lagnanza. Poteva essere se stesso –Nessuno a dirgli quanto fosse perfetto.
-Forse- tentennò Giappone.
-Forse?- ripeté Inghilterra, inarcando il sopracciglio.
-Forse. Non posso che ammettere quanto questa situazione mi sappia di totale rottura dell’armonia-
Nessuna risposta, solo lo scivolare dei chicchi di riso contro le bacchette.
Anche le geishe tacevano.

 

***

Rottura dell’armonia.
Aprì la porta scorrevole.
Che idiozia.
La richiuse con uno schiocco. I pannelli in carta di riso crepitarono di bianco.
Inghilterra si concesse qualche secondo per inspirare l’aria calda delle terme: tra gli stracci di vapore riusciva a cogliere il riflesso dell’acqua, simile a vetro scuro; il riflesso delle rocce si incuneava molle tra i cerchi creati dal pizzicorio delle onde, spruzzi bianchi che si sbriciolavano contro i bordi della vasca.
Un’atmosfera di tranquilla solitudine che Inghilterra apprezzava particolarmente, sebbene non potesse nascondere a se stesso quanto gli avrebbe fatto piacere incontrare di nuovo il Signor Kappa, e scambiare ancora qualche parola con lui.
Peccato, pensò nel sedersi sullo sgabello e cominciando a frizionarsi la pelle col sapone. In fondo era stato divertente, fino a quando lo spirito della bambina non lo aveva quasi investito. Sollevò la vaschetta di legno e si versò l’acqua sul corpo nudo. Sì, gli dispiaceva che creature tanto gentili fossero costrette ad andarsene, perché nessuno si ricordava più di loro. Si alzò, la bacinella al fianco e l’asciugamano poggiato sul capo. Chissà se era come per le fate, che morivano in uno sfarfallio di polvere grigia non appena qualcuno smetteva di credere. Sperava ardentemente di no.
Una lieve scrollata di spalle e Inghilterra scivolò nell’acqua: il calore formicolò denso lungo gli arti e i muscoli, sciogliendosi sulle spalle e colando lungo le braccia; soffiò via un respiro soddisfatto, appoggiando la schiena contro il bordo. Piccoli frammenti d’onda sciabordarono contro la vaschetta che aveva lasciato indietro prima di immergersi.
Ah. Pace. Tranquillità. Nessuno pensiero al mond…
-Tan Tan Tanuki no kintama wa(1)~-
Inghilterra sobbalzò tra schizzi e spuma; alla sua sinistra una grossa risata, lo specchio d’acqua che si frantumava per il movimento improvviso.
-Spiacente di avervi spaventato, Igirisujin- ridacchiò la voce, con un risucchio biascicante -Vi facevo meno debole di cuore~-
E quella era un’illazione bella e buona. Peccato che Inghilterra fosse troppo preso da quella creatura per ribattere con prontezza.
Decisamente non era umano, per quanto ne conservasse le fattezze. Il corpo era coperto di pelo marrone, costellato di macchie nere là dove ciuffi più o meno corti si erano impegnati d’acqua; una sorta di mascherina scura  gli circondava gli occhi e poi scendeva alla gola, dove una macchia bianca si allargava sul petto. Il volto aveva dei tratti affilati, canini, le orecchie erano piccole e schiacciate; una striscia giallo paglierino partiva da sopra la fronte, attraversava la sommità della testa e poi spariva oltre il collo e la schiena.
-…Chi sei tu?- Inghilterra corrugò la fronte, allontanandosi d’un passo.
-Io?- la creatura ridacchiò e un fila di piccoli denti affilati lampeggiò tra le labbra nerastre -Kaze mo nai no ni, bura bura bura(1)! Ma come, signor Igirisujin, mi potete vedere, ma non sapete chi sono?-
Inghilterra socchiuse le palpebre e torse le labbra, scatenando immediatamente l’ilarità dell’altro. L’essere s’agitò in un fremito che lo attraversò ininterrotto, dalla testa al corpo al torace; a quel gesto dondolarono anche le ciondolanti saccocce di carne glabra sulla spalla, quelle che ad Inghilterra parevano tanto..No. Probabilmente stava prendendo un abbaglio. L’avesse saputo Francia, non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di ricordargli quanto, nonostante l’apparenza, fosse un pervertito della peggior specie.
-Damn- imprecò con un ringhio.
Quel maledetto francese gli era di nuovo saltato in testa.
-Non c’è bisogno di arrabbiarsi tanto, Igirisujin!-
-Wait, what?!- esclamò Inghilterra, alzando la testa di scatto -No, io non..-
-Sono un Tanuki~- continuò la creatura, senza darsi la pena di ascoltarlo -E voi siete tanto traboccante di magia da avere il privilegio di vedermi!-
Se anche Inghilterra aveva avuto l’impulso di uscire dalla vasca e lasciare quell’irritante essere al suo blaterare senza senso, il richiamo alle proprie innegabili doti furono un freno abbastanza eloquente. Sollevò un angolo delle labbra a concedersi un sogghigno orgoglioso.
-Possiamo dire che ottengo risultati accettabili in questo campo, sì-
-Accettabili?!- il Tanuki si portò le zampe a coprire il muso, facendo mostra di artigli lividi e incrostati di terra -Igirisujin, in fede mia, era dall’epoca Kamakura che non avvertivo un tale flusso mistico, nemmeno nel corpo di Nihon-dono!- sfregò fra le loro i palmi pelosi, facendo schioccare le mandibole -La vostra venuta è di buon auspicio! Bisogna festeggiare!-
E detto questo la creatura batté sulle saccocce di carne, come stesse suonando un tamburo: subito il fazzoletto che gli era accanto, e che Inghilterra non aveva notato fino a quel momento, sciolse da sé il nodo e scomparve, rivelando tre fiaschette ordinatamente disposte l’una accanto all’altra.
-Sakè delle scimmie!(2)- spiegò il Tanuki, mentre trasformava due foglie in altrettanti bicchierini -Qualità rara e pregiata!-
Rara, pregiata e decisamente più densa, considerò Inghilterra nell’assaggiarlo. Il sapore del liquore caldo gli bruciò la gola e risalì con un lampo fino alla testa, lasciandolo stordito e con la vista appannata. Si riprese abbastanza in fretta per vedere la creatura nascondere un veloce sorrisetto.
-Certo che dovete essere molto venerato nella vostra terra, Igirisujin-
Il Tanuki lo prevenne da qualsiasi domanda o commento versandogli un altro sorso.
-A dire il vero no- rispose Inghilterra, la voce venata da una nota di stizza.
-Quale disdetta!- gemette l’altro, coprendosi le orecchie con le zampe -Forza, forza! Un altro sorso, per dimenticare le disgrazie!- lo esortò, poi -Devo ricordarvi il detto: Bevi il sakè, ma non farti bere da esso?- ridacchiò.
-Certo che sì, cioè, che no- la Nazione scosse la testa con foga e si passò la lingua sulle labbra, trovandole fastidiosamente impastate –So controllarmi, ho imparato a controllarmi, ci è voluto un po’, ma ci sono riuscito-
-Contento per voi, Igirisujin~- un altro bicchierino e la prima fiaschetta venne messa da parte, subito sostituita -Su, su, bevete, bevete!-
L’intenzione di Inghilterra sarebbe stata quella di rimanere abbastanza sobrio da tornare in camera con le proprie gambe, ma la risata del Tanuki così contagiosa e il sakè sulle labbra tanto invitante col suo retrogusto amaro dato dalle foglie trasformate, che gli fu difficile dire “basta”. Anzi, arrivò al punto da trovare difficile persino articolare una frase o sillabare anche solo una parola. Le rocce, l’acqua, il vapore erano diventati densi e liquidi come il liquore che gli scorreva nella gola, si scioglievano in vortici di colore e grasse lacrime di profumo che rimanevano impigliate nel petto, tessendo ragnatele pastose nei polmoni e tra le costole.
Il nesso di ogni pensiero logico era stato reciso con un ballonzolante colpo di forbice, fino a quando le idee, le confessioni, i commenti, ogni cosa cominciò a sgorgare senza che Inghilterra si desse la pena di fermarli o contenerli: gli occhietti violacei del Tanuki ammiccavano senza sosta, si stringevano, fremevano, ridacchiavano, e Inghilterra parlava e parlava e parlava, parlava della pioggia e delle fate, del Times e delle Guerre, dell’oppio e della Regina, di Francia e del suo essere così francese, di rose e di champagne, di insofferenza e acqua di colonia, di sesso e carezze, di incomprensioni e baci, di come fosse così terribilmente falso da essere totalmente vero, e Good Lord, non poteva certo continuare con le smancerie perché le smancerie di Francia erano buone solo per portare le persone a letto e una volta che si era letto perché andare avanti tra un morso ed una carezza, ché tanto lo sapevano tutti, cioè, lo sapeva lui, Inghilterra, quindi allora era nozione comune, che non c’era niente di vero in quello che diceva Francia proprio perché era Francia a dire quelle cose, e quindi non era colpa sua, di Inghilterra, che cosa voleva Francia, perché si lamentava, si arrabbiava, si infuriava, smetteva di litigare con lui e incastrava entrambi in uno stato di non-belligeranza che nessuno dei due voleva?
-Che cosa lui vuole che io faccia, quella rana?!- biascicò Inghilterra, puntando il dito verso un immaginario nemico -Che io trasformi me stesso in qualcosa che io non sono, ma che lui vuole che io sia?- batté un pugno contro l’acqua, infrangendola in schizzi e schiuma.
Un sorriso si distorse sui denti scintillanti di bava giallognola; il Tanuki prese delicatamente la mano di Inghilterra e lo costrinse ad abbassare il pugno. Sembrava divertito, soddisfatto, come un bambino che vede la sua marachella in procinto di realizzarsi.
-…Questa potrebbe essere una splendida idea, Igirisujin~- flautò.
Ed Inghilterra annuì con scintillio deciso negli occhi vacui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Affrettati qui, cosicché io possa versarti negli orecchi i miei spiriti
e sconfiggere con la forza della mia lingua tutto ciò
che ti impedisce di afferrare quel cerchio d'oro
con cui il fato e l'aiuto sovrannaturale sembrano averti
incoronato.:.

{ Lady Macbeth } –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

(1) Del Tan Tan Tanuki le palle stan / Seppure il vento soffiando non sta / Girando girando girando. [Wikipedia]

(2)Citazione dall’anime “Saiyuki”.

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo.

HO PUBBLICATO ANCHE IL SECONDO! Ormai non lo credevo possibile XD
Ringrazio: La Nymphe Blonde, Chaska, Belarus, The Naiads (Non ho letto quella Doujinshi, però sarei curiosa *^*)e Cosmopilita per aver recensito!

DanielleXD263 per aver messo la storia tra le preferite e Amaerise, Belarus, Cosmopolita, Prof, Seia, Soffice_Salice, _Lenalee_ per aver messo la storia tra le seguite!
Alla prossima <3

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


fsims3

 

Capitolo II ~

 

Alla luce carminia del palco, Dauphine inarcò languida la schiena.
I riccioli neri calarono dalle guance fin sotto l’orecchio, lasciandosi dietro lo splendore di una lacrima bianca lungo lo zigomo; il cadere delle ciocche scoprì il taglio obliquo degli occhi, la linea allungata delle palpebre e le ciglia punteggiate di polvere bianca. La curva dei seni si mosse a ritmo del respiro, le labbra, arcuandosi, crearono due fossette tanto graziose che Francis si ritrovò a sorridere.
Dauphine era bella, considerò nel sorseggiare lo champagne, sembrava Dita(1). Aveva tutto di lei…tranne il neo.
Il flute tintinnò, il Clicquot gettò barbagli dorati nell’ombra del locale; Francia sfiorò a punta di dita il collo del bicchiere e gli occhi tornarono a seguire il profilo di Dauphine, il bel ventre piatto e le gambe modellate dall’artista più fine.
Il Crazy Horse era il luogo perfetto in cui dimenticare gli affanni: ogni preoccupazione spariva al calare delle luci, ogni rimorso cancellato dagli occhi profondi delle ballerine, ogni dubbio reso incolore dall’oro dello champagne. Bastava così poco per scordare così tanto! Marianne raccontava della sua bella Borgogna se ti vedeva addolorato, Louisette sorrideva per te e per il mondo intero, un’espressione di genuina serenità che le sollevava le labbra rosse, e Cyprienne, dall’alto dei suoi trentacinque anni, si comportava come una madre benevola, atteggiandosi allo stesso modo con Francis e permettendogli di poggiarle la testa in grembo, quando loro erano soli ed il locale vuoto .
A quante, quante di loro aveva confidato segreti e sussurri, dato un bacio e una carezza, di quante aveva lodato le innegabili grazie e sottolineato con cortese fermezza le altrettante mancanze!
Il Crazy Horse era il ricovero perfetto per chiunque avesse il cuore spezzato e l’animo sempre a sospirare. Non era il Val d’Amour(2), naturalmente. Lì nessuno annegava nel vino dopo essere rinato dalla morte d’amore, Francis aveva dato istruzioni insieme ai proprietari circa questo possibile ed alquanto opinabile comportamento da parte dei clienti.
Eppure, quella sera Francis si accorse che nemmeno il Crazy Horse riusciva a restituirgli il più vago accenno di tranquillità: doveva concentrarsi per seguire l’esibizione di Dauphine, ricordarsi di guardare come i palmi delle sue mani si appoggiassero al palo e stringessero con forza, mentre il corpo si curvava all’indietro e il collo si inarcava, le labbra si schiudevano e le spalle si stringevano contro il torace splendente di nero e brillanti.
-Mon Dieu- si arrese, stringendosi la radice del naso tra le dita.
Una cameriera vestita di turchese si chinò a chiedere se volesse dell’altro champagne e Francia rifiutò con un gesto secco della mano; non sollevò nemmeno gli occhi, non le prestò la benché minima attenzione.
Ecco, ecco cosa gli mancava quella sera. L’attenzione. Qualcosa lo distoglieva non solo da Dauphine e dal Crazy Horse, ma da Parigi e dalla Nazione intera.
Una sensazione scomoda all’altezza dello stomaco, un ribollire inquietante lungo la spina dorsale, un qualcosa di estraneo, che gli bloccava il respiro e gli torceva la gola per il panico. Non sapeva dare un nome a quel terrore improvviso, era come una voce ovattata che dall’angolo più remoto della mente gli urlava di fare attenzione, che qualcosa stava precipitando, che si doveva affrettare prima della tragedia.
Quale fosse la tragedia in questione, non avrebbe saputo dirlo.
Al contrario, sapeva benissimo chi fosse l’attore protagonista, perché non c’era stato istante, da quando si era chiuso la porta di casa sua alle spalle, in cui quel nome non fosse affiorato alle labbra o al cuore. Un Meeting, un articolo su Le Figaro o anche solo un commento, ecco…era lì. Sempre lì. Costantemente lì. Non lo lasciava andare, si aggrappava con forza alla memoria per non essere dimenticato.
E sì che, fra i due, ad essere sempre considerato il più molesto era proprio Francis!
-Mon Angleterre- sussurrò -Cosa stai facendo?-

 

 

***

Arthur regolò l’ultimo specchio affinché la superfiche riflettesse il libro aperto al centro della stanza, così come aveva fatto con gli altri sei, posti in circolo attorno al vecchio volume. Si passò il dorso della mano sulla fronte e prese un sospiro, fissando soddisfatto il proprio lavoro.
Il pentacolo tracciato col gesso sulle assi del pavimento aveva già cominciato a risplendere: sfarfallii di luce verde e bianca si sollevavano piano piano, sostavano a mezz’aria, tremolavano, schioccavano l’uno contro l’altro ed infine esplodevano in un tenue scintillare di pulviscolo dorato. Tutta la stanza vibrava per i flussi e le correnti incantate che colavano dagli angoli del soffitto e dal sottosuolo, i crocchiolanti sussurri di fate e spiriti soffiavano tra la polvere grigia, colori e suoni si scioglievano, torcevano, amalgamavano lentamente sugli specchi, venivano risucchiati un istante e quello dopo già sbocciavano in nuove formi e profumi inconsueti.
-Let’s begin-
Inghilterra sorrise a se stesso.
A grandi falcate arrivò fino alla porta, controllò che nessuno si fosse nel mentre intrufolato in casa sua, chiuse, serrò a chiave e indossò il mantello di lana pesante; calò il cappuccio fino a tenere scoperta solo la bocca. Gli occhi, tenuti nascosti dal tessuto, si dovettero abbassare per leggere l’incantesimo: una forma di umiltà nei confronti delle Arti, una timorosa devozione verso la Magia che le altre Nazioni e finanche gli esseri umani avevano finito per dimenticare.
-Per ingannare il mondo, prendi l’aspetto del mondo- mormorò e non poté fare a meno di chiedersi cosa avrebbe pensato il vecchio William nel sapere quale potere fosse nascosto in una delle sue opere più celebri -Porta il benvenuto negli occhi-
Un lampo e colonne di luce si innalzarono dai lati della stella a cinque punte: una muraglia scintillante di sguardi e bocche e voci svettò fino al soffitto, il buio ingoiò ogni urlo ed ogni grido che ne incrinava le pareti, bulbi bianchi e globosi si spinsero fuori dalla superficie. Lacrime molli e pastose si cementificarono sotto di essi, palpitarono e scoppiarono, lasciando al loro posto nuovi occhi ed altre bocche.
-Nella mano-
Arthur dovette stringere i denti per non urlare. Il fiotto caldo dell’incantesimo eruppe e straripò nelle arterie, si sostituì al sangue e cominciò a premere, a premere, a premere ancora contro la carne, la pelle, gli arti, fino a gonfiarsi dentro la vena dell’avambraccio e fuoriuscire, colare fino al polso e da lì gocciolare, plic plic plic, sul pavimento e sul pentacolo.
Dalle pareti le bocche storte presero ad intonare lamenti e canti di gioia, gli occhi risero e piansero insieme.
I polmoni di Inghilterra si torsero nel petto, il respiro si sgretolò contro le labbra serrate; avvertì le lacrime trapassare le cornea come spilli bollenti, raggrumarsi e solidificarsi agli angoli della palpebra.
-Nella lingua-
Preghiere senza voce gli esplosero nella testa, piagnucolii, guaiti, invocazioni a divinità dimenticate fecero tremare le fondamenta dell’abitazione. Una crepa scricchiolante si disegnò sulle pareti bianco-verdi, seguendo un taglio obliquo; ramificazioni lucenti partirono da essa e si congiunsero l’una con l’altra senza darsi pena di trafiggere le bocche e gli occhi imploranti. Stille di muco pallido eruppero dalle incrinature, i sette specchi ebbero un sussulto.
-Prendi l’aspetto dell’innocente fiore- ansimò Arthur, le spalle, la schiena, le braccia, le gambe, il torace trafitti da dolori allucinanti. Doveva resistere. Ancora poco e avrebbe raggiunto lo scopo che si era prefissato.
Quell’idiota di Francia si lamentava di lui ed esigeva che cambiasse? Bene, il Tanuki aveva ragione, aveva ragione su tutto.
-Ma sii il serpente sotto(3)-
Le mura del pentacolo esplosero, lampeggiarono, si spezzarono, frammenti di cristallo saettarono, fischiarono, accoltellarono gli specchi nel loro centro esatto.
Un sorriso sollevò le labbra dell’inglese.
..Ora Francis avrebbe avuto esattamente quello che voleva.

 

***

-Monsieur Bonnefoy, non vi è piaciuta la mia esibizione?-
E quando Dauphine sporgeva le labbra a quella maniera, sarebbe stato impossibile per chiunque dire di no. Anche l’animo più rozzo si sarebbe piegato di fronte ai suoi occhi scuri, ancora lucidi per l’emozione; nessuno mai avrebbe potuto negare la felicità a quella bocca tanto splendida che il solo lasciarla inviolata sarebbe stato da considerarsi come il peggiore tra i peccati.
Tuttavia, Francis si trattenne e si limitò ad ordinare due bicchieri del miglior champagne. Dauphine sorrise come una bambina, leccando appena il labbro inferiore con la punta della lingua; a quel gesto, le fossette che Francia trovava deliziose tornarono a disegnarsi sulle guance, donando a quel suo viso da fanciulla una nota di infantile, sensuale malizia.
Francis le carezzò con dolcezza il volto.
-Ma certo che mi è piaciuta, mon trésor- la rassicurò, tirandosi appena indietro perché la cameriera potesse posare con calma i flute sul tavolino -Sei stata splendida, dunque perché dici così, hm?-
-Bhè..- Dauphine scosse le spalle, piegò un poco la testa e lo osservò da sottinsù, la bocca stretta in una graziosa aria di rimprovero –Non mi avete guardata un solo momento, dacché sono salita sul palco- gnaulò, sbattendo piano le ciglia.
Ah, ma petite Dauphine, ma come potrei mai resisterti se mi guardi così?
-Perdonate questo povero sciocco- Francia si portò una mano al cuore e le rivolse un inchino di scuse –Troppi pensieri occupavano la mente di questo povero vecchio, perchè potessi godere appieno della tua bellezza rasserenatrice-
La ballerina lo fissò di nuovo, questa volta con espressione che ne denotava tutta la maturità –e lasciava scoperto ogni desiderio od intenzione.
-Lasciate che mi esibisca solo per voi, allora. Permettete che conceda solo a voi la bellezza rasserenatrice che tanto acclamate-
Sorrise e Francis si ritrovò a non saper rispondere.
Ancora quella sensazione di pericolo non l’aveva abbandonato, anzi, non aveva fatto che acuirsi: il pensiero di Arthur non era mai stato così forte come in quel momento, l’idea che gli stesse capitando qualcosa, qualunque cosa, non riusciva ad abbandonarlo.
Ma gli occhi di Dauphine lo osservavano e le labbra rosse modellavano soavemente il nome Francis.

 

***

Il bambino lo fissò e Arthur fece lo stesso.
Dentro lo specchio il piccolo-se stesso si tolse il cappuccio, rivelando una zazzera di capelli lunghi, folti e stopposi.  Il tocco di Francia non sarebbe stato di troppo.
Inghilterra osservò il bambino.
-Sei me che tu vuoi?- gli chiese il piccolo.
Era lui che voleva?
Niente più che un fanciullo, figlio delle foreste e dei fiumi, che tirava frecce smussate e lanciava pietre contro i nemici. Una Nazione con le ginocchia sbucciate e gli occhi grandi, che intrecciava corone di fiori con un bambinetto col vizio di vestirsi da donna.
Era quello che voleva?
Tornare all’infanzia, ai cielo azzurri e ai boschi, ai templi sacri coperti di fronde e impreziositi da intarsi di stelle. Tornare ad un momento in cui considerare quella rana bionda un qualcosa di sì, no, forse, vagamente simile se non ad un amico, quantomeno ad un conoscente.
Tornare alla debolezza. Tornare ad essere maltrattato, ancora troppo piccolo per imporsi, ma già troppo grande e orgoglioso per ammettere la sottomissione. Tornare a non avere armi abbastanza affilate per difendersi.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
E il piccolo-se stesso venne dilaniato dal primo sbuffo di fumo.
Lo specchio tornò opaco.

 

 

***

La bocca di Dauphine era calda e sapeva di champagne e tabacco.
I denti erano affilati, la lingua aveva una piccola escrescenza cicatriziale sulla punta, forse un vecchio piercing prima che entrasse nel Crazy Horse? Poteva essere, ma certo Francis non si sarebbe fermato in per chiederlo.
Dauphine torse il collo e Francia arrivò a lambire con baci e morsi la clavicola, strinse la pelle tra le labbra dove sentiva il cuore palpitare con forza contro la pelle; la ragazza emise un gemito soddisfatto e  si strinse a lui, le unghie affondate nelle spalle.
Anche Arthur era solito aggrapparglisi alle spalle, considerò Francis nel sostenere la nuca di Dauphine con una mano, prima di rendersi conto che pensare ad Inghilterra mentre aveva le gambe di una ballerina del Crazy Horse attorno al bacino, petto contro petto con la suddetta e la schiena di lei contro la parete del camerino…bhè, forse non era proprio quello che si diceva una cosa molto onorevole.
Né per Dauphine, né per Arthur.
Soprattutto per Arthur.
Forse non avrebbe dovuto accettare l’invito di Dauphine, constatò, le labbra della ragazza sulle proprie, il seno che premeva contro il torace.
Era un atto sleale.
Oh, quando era stato il momento preciso in cui le mani di Dauphine erano scese alla cintura? Non importa, non importa, cosa stava dicendo? Ah, sì. La slealtà.
Per quanto non stesse ufficialmente con Arthur e per quanto dopo il litigio non si fossero più rivolti neanche un insulto, ma solo fredda cortesia, Francis trovava che passare la serata con’altra potesse benissimo essere considerato un atto fedifrago.
Le dita di Dauphine all’inguine gli diedero un ottimo motivo per sussultare e raddrizzare il viso. La ragazza corrugò la fronte, fissandolo con palese confusione.
-…Monsieur?- chiese, il sopracciglio ben inarcato sopra l’occhio destro.
-Dauphine, io-
Devo correre da Arthur.
Un pensiero tanto improvviso da risultare destabilizzante.
Devo correre da Arthur.
Subito.

 

***

L’usbergo pareva d’oro alla luce obliqua proveniente dall’angolo della cornice. Le manopole dei guanti scricchiolarono, gli anelli della maglia di ferro emisero un fioco tintinnio.
Dentro lo specchio, il Cavaliere-Arthur spostò il peso sul ginocchio sinistro e le piastre dei gambali lanciarono un barbaglio metallico.
Inghilterra osservò il riflesso in armatura.
-Sei me che tu vuoi?-
Era lui che voleva?
Il Cavaliere. L’uomo d’armi. La spada santa e sacra del Re e del Regno, colui che cavalcava lungo l’orizzonte tinto di fiamme, sangue e fuoco.
Era quello che voleva?
Tornare ai giorni di gloria, allo squillo delle trombe e ai vessilli, alle campagne senza fine dove non c’era spazio per riposo, né modo di pentirsi. Tornare ad un momento in cui era lecito considerare quella rana bionda al tempo stesso nemico giurato ed un fido alleato.
Tornare all’incertezza delle guerre dinastiche. Tornare ad essere scisso, bianco figlio di una rosa, dal sangue rosso come i petali del fiore che tanto amava. Tornare ad essere il perdente dei territori continentali. Tornare a stringere tra le mani non solo la spada, ma anche un pugno di cenere.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
E il Cavaliere scomparve tra il clangore delle armi.
Il secondo specchio tornò opaco.

 

***

-Allô. Cléophée Gassion à l’appareil, j’écoute-
-Cléophée, sei molto carina anche quando ti svegliano d’improvviso a notte fonda, te l’ho mai detto?-
Dal cellulare arrivò lo sbuffo divertito della segretaria e lo schermo, impostato per la video chiamata, restituì l’immagine di una donna sui venticinque, ventisei anni, con gli occhiali rettangolari di traverso sul naso e scarmigliati capelli neri.
Francis, che per evitare problemi con la polizia e non perdere tempo col telefono tra l’orecchieo e la spalla aveva messo il cellulare sul cruscotto, le fece un sorriso ed un saluto. Le guance di Cléophée si arrossarono appena mentre cercava di recuperare un minimo di professionalità anche alle due di notte.
-Posso esserle utile in qualche modo, monsieur Bonnefoy?-
-Oui, ma petite. Vorrei che mi prenotassi il primo volo disponibile per Londra. Dovrei essere al De Gaulle in meno di dieci minuti-
-Un vol…monsieur, sono le due di notte! E’ sicuro che non ne vorrebbe uno per domani mattina?-
-Non- replicò Francis, ferreo.
Si fermò con disappunto al semaforo rosso e si chinò in avanti, in modo da essere completamente nella visuale del cellulare di Cléophée.
-Se non è disponibile un volo pubblico, prenotami un aereo privato. La mia partenza deve essere immediata-
-Mais, mais monsieur…!- la segretaria scosse il capo, gli occhi sgranati –Un volo privato? Monsieur Hollande è stato informato? State andando a Londra per ragioni..-
-Personali-
Il semaforo tornò verde e Francia non si diede cura di superare il limite imposto. Più il tempo passava più il freddo che gli attanagliava la gola si faceva più intenso.
-Monsieur Hollande non deve essere informato per alcuna ragione. In caso dovessi rimanere a Londra per più giorni provvederò io stesso ad informarlo. Preleva pure i soldi per il biglietto o per il volo privato dal mio conto. E, oh…!- si interruppe, immettendosi nel parcheggio de De Gaulle -Un’ultima cosa-
-D-Dica, monsieur-
Francis non la biasimò per lo sguardo allibito –probabilmente se si fosse guardato allo specchio si sarebbe concesso la stessa espressione.
-Mandate un mazzo di rose al Crazy Horse, per la signorina Dauphine. A mio nome-
-E’ la sua preferita?- si interessò Cléophée, preda di quell’atavico istinto da pettegola che Francia trovava adorabile.
-Non dire sciocchezze, ma petite! Lo sai che quella sei tu~
E chiuse la comunicazione.
Sto arrivando, mon Arthur.

 

***

C’era odore di mare, salino incrostato nei viticci della cornice; un reflusso continuo di onde disegnava immagini sgangherate sulla superficie chiazzata di vino e altra robaccia che Arthur, sinceramente, non voleva sapere cosa fosse.
Dentro lo specchio, il Corsaro-Arthur si levò il cappello a tesa larga e fece un inchino, sollevando poi il capo con un ghigno ben visibile sulle labbra livide.
-Sei me che tu vuoi?-
Era lui che voleva?
Il Corsaro. Il padrone dei Sette Mari e degli Oceani, che sapeva il canto del mare e chiamava le sirene per nome. Lui, che ne poteva ascoltare la voce senza temerne l’incanto, senza temere neppure la morte.
Era quello che voleva?
Tornare ai giorni in cui l’unico limite era quello delle stelle sempre distanti, al mare che mai taceva, al rollio delle navi, alle scorribande, alla libertà del vento e delle terre vergini, alle collane di perle e all’oro maledetto. Tornare ad un momento in cui gli era possibile considerare quella rana bionda un mero trastullo sull’isola di Tortuga, dove non esistevano alleati o nemici.
Tornare alla lettera di corsa stretta nel pugno. Tornare ad inginocchiarsi ad un amore che mai sarebbe stato ricambiato, alla costrizione di baciare la mano della Vergine, ma mai le sue labbra. Tornare ad essere l’ultimo pirata ed il primo corsaro. Tornare a rimpiangere la Jolly Roger e i suoi ossi incrociati, il sorriso sghembo e le orbite vuote.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
Il Corsaro-Arthur allargò le braccia e fece un unico passo indietro, prima di venire inghiottito dalle onde.
Il terzo specchio tornò opaco.

 

***

Se sua madre Gallia fosse stata ancora in vita, certo avrebbe dato a quella sensazione di panico un significato ben diverso da quello che gli stava attribuendo lui.
Lei lo avrebbe visto come la voce silenziosa degli Dei che lo invitavano a prestare attenzione alle correnti avverse del mondo e del destino. Lo avrebbe considerato un richiamo dell’anima divina che tutti loro, loro che erano graziati della lunga vita, possedevano e condividevano con la forma propria degli esseri umani.
Ma Gallia era scomparsa troppi secoli addietro perché Francis potesse ancora dare peso a quelle parole.
Un presentimento? Forse. Non c’era giorno in cui quel maldestro inglese non si cacciasse in qualche rocambolesco guaio o dentro qualche pub dalla fama più che dubbia, dunque l’andare a recuperarlo più che un segnale divino era ormai un’abitudine. Che dovesse toglierlo da sotto le mani di qualche tifoso piuttosto alticcio o fosse costretto a portarlo a casa sulle spalle per qualche bicchiere di troppo, il risultato era sempre lo stesso.
Arthur combinava qualche pasticcio e Francis arrivava da lui per aiutarlo a risolverlo.
C’erano stati persino dei momenti in cui gli era venuto il dubbio che Inghilterra lo facesse di proposito a comportarsi così, solo per vederlo arrivare senza bisogno di chiamarlo personalmente.
Perché, alla fin fine, erano tutte bazzecole. Scuse. Pretesti.
Arthur era troppo orgoglioso per ammettere di volerlo vicino ed anche a questo Francis ci aveva fatto l’abitudine. Sebbene non avrebbe disdegnato di sentirsi rivolgere qualche parola gentile o un invito cortese, ogni tanto.
Ma Inghilterra era sempre Inghilterra. Che poteva pretendere?
Francia sospirò e si sistemò contro lo schienale.
Cléophée era riuscita a procurargli un volo privato, anche se non aveva voluto rivelargli a quanto ammontasse la spesa. Probabilmente una cifra tale da far mettere le mani nei capelli al povero monsieur Hollande.
Un accenno di risata sulle labbra, subito spento dalle luci di Londra che cominciavano a tempestare il vuoto sotto l’aereo.
Che fosse presentimento o richiamo divino, in quel momento non era importante
Doveva correre da Arthur.
Il panico, quando mise piede fuori dal velivolo, non si attenuò. Anzi, gli diede una fitta tanto forte che il mondo parve dissolversi per qualche istante.

 

 

***

 

Il fango. La divisa lacera. Il moschetto tra le mani.
Gli occhi erano cupi, le spalle piegate dalla stanchezza e dalla disillusione.
Dietro di lui, Inghilterra vedeva unicamente una vastità morta e solitaria, campi grigi di pioggia, antiche risate distrutte da gocce affilate come coltelli. Ricordi distrutti da lacrime e sangue.
-Sei me che tu vuoi?-
-No- rispose Arthur.
Il Fratello Sconfitto annuì e gli diede le spalle.
Il quarto specchio tornò opaco.

 

***

Francis sventolò una mano, a richiamare l’attenzione di uno dei tassisti che gravitavano attorno all’aeroporto.
Si strinse nelle spalle, il respiro che si condensava in nuvolette pallidicce appena osava anche solo espirare l’aria rancida che sentiva marcire nei polmoni.
No. Qualcosa davvero non andava.
Alzò gli occhi al cielo e rabbrividì nel vederlo ridotto ad un ammasso di grumi violacei, un impasto bulboso di pioggia acida che fagocitava indifferentemente stelle e lampi; le nuvole enfi si attorcigliavano l’una all’altra in una catena rigonfia e grottesca, uno scontrarsi continuo di escrescenze livide macchiate dal bianco improvviso dei fulmini.
-E’ solo la tua immaginazione, Francis- si disse, boccheggiando per quel freddo innaturale che gli fiaccava i muscoli e gli mordeva le ossa –E’ solo la tua immaginazione-
Solo suggestione, ecco tutto.
Solo suggestione, si ripetè mentre entrava nella macchina.
Non stava succedendo nulla. Non sarebbe successo nulla.
Il rombo ringhiante del tuono si abbatté su Londra e Francis serrò le palpebre, piegandosi sul sedile del taxi e chiamando in silenzio il nome di Arthur.

 

***

 

-Sei me che tu vuoi?-
Non gli aveva neanche dato il tempo di osservarlo, di osservarsi, come era stato appena una settantina di anni prima. Sorrise al riflesso della Seconda Guerra Mondiale e si toccò istintivamente la testa alla ricerca della berretta in dotazione con l’uniforme.
Il se stesso allo specchio inarcò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto, come chi non avesse tempo da perdere con giochetti o altre idiozie di sorta.
Lui e Francia erano alleati, all’epoca. Quando quella stupida rana si era fatta prendere da quello stupido del suo superiore filo-nazista, Arthur avrebbe volentieri spaccato il mondo a metà pur di riaverlo accanto a sé e strozzarlo per la sua evidente imbecillaggine.
Ma mai, mai avrebbe chiesto di nuovo al proprio popolo di affrontare gli anni della Guerra.
-No- rispose Arthur, scuotendo il capo.
Il Soldato unì i talloni con uno schiocco secco, chinò il capo e se ne andò.
Il quinto specchio tornò opaco.

 

***

-Cosa intende dire con “il signor Jones non è disponibile?”-
Francis perdeva raramente la pazienza a quel modo, ma sembrava che il segretario di Amerique si fosse preso come croce personale proprio lo scopo di fargli saltare i nervi.
-E’ come le ho detto, mister Bonnefoy- tentò la voce d’uomo, conciliante –Il signor Jones al momento non è qui a Washington, ma non posso rivelarle il motivo che lo trattiene fuori dal suolo americano-
-E perché mai?-
-Il signor Jones lo ha definito segreto di Stato-
Francia riattaccò con tale violenza e con tale scarico di improperi, che il tassista incassò la testa nelle spalle e gli rivolse un sorriso sghembo, riflesso sullo specchietto.
-Problemi, sir?-
-Avrei dovuto dare a mio figlio più schiaffi sur les fesses quando era il momento- rimbrottò Francis, accavallando le gambe.
Ottimo. Alfred, ossia l’unico che forse poteva dirgli qualcosa su Arthur, sembrava sparito dalla faccia della Terra. Non che pensasse davvero che i due si fossero ritrovati a bere qualcosa in un pub, ma quantomeno il figliol prodigo avrebbe saputo spiegargli il motivo per cui non erano andati a bere qualcosa in un pub.
Francis sospirò e si prese la testa fra le mani.
Doveva calmarsi.
 Arrivare sbraitando e strillando come una scimmietta male addestrata non era il modo preferito con cui soleva presentarsi. Ad Inghilterra in particolar modo.
-Un po’ di radio, sir?-
-Oui, oui, una buona idea- gli concesse il francese.
Raddrizzò la schiena e si umettò le labbra, mentre il tassista armeggiava con manopoline e tastini.
Non c’era nulla di che preoccuparsi. Erano solo suggestioni. Panico da stress o altre reazioni del genere dovute…dovute a tutte quelle cose per cui ad una Nazione poteva venire del panico da stress. Era plausibile, in fondo. Non era successo nulla di…

Vi riportiamo ora le ultime notizie da Buckingham Palace, circa le condizioni di salute di Sua Maestà la Regina, ricoverata d’urgenza in seguito al malore avvenuto pochi minuti fa..
La vista di Francis ondeggiò bruscamente.

 

***

Quando si piazzò dinanzi al sesto specchio, Arthur si stupì nel ritrovarsi davanti la propria immagine riflessa. E con propria intendeva il se stesso che si stava guardando nella superficie lucida, il se stesso con mantello di lana pesante e occhiaie.
Inghilterra corrugò la fronte e lanciò un’occhiata agli specchi circostanti, contandoli velocemente. No. Nessun errore. Sette specchi e lui era al sesto.
Ma se il sesto gli presentava il se stesso odierno…allora voleva dire che era nel settimo il punto di svolta. Non riusciva quasi a crederci, una strana eccitazione gli percorse la spina dorsale e si propagò nel petto come tante scariche elettriche: la soluzione a tutti i problemi era ad un solo passo da lui.
Si sfregò le mani intirizzite e lasciò dietro di sé l’immagine di se stesso; questi lo seguì per qualche istante con lo sguardo, scosse il capo e poi svanì, quasi non fosse mai esistito.  Anche il sesto specchio tornò opaco.
Dinanzi al settimo Arthur si bloccò, perplesso.
Fino a quel momento si era ritrovato a dover scegliere tra le personalità del proprio passato, volti in progressiva crescita di una medesima persona, ma Inghilterra non aveva la benché minima idea di chi fosse l’individuo che lo stava fissando con genuina curiosità.
Aveva folti capelli castano chiaro, tenuti con il disordine tipico di chi non è ancora stato informato dell’esistenza del phon; grandi, immensi, occhi azzurri sgranati come quelli di un bambino davanti all’affascinante spettacolo di una lucertola che si dibatte, lo osservavano da sopra guance rosee, cosparse di efelidi ed atteggiate in un sorriso troppo pieno e troppo dolce per essere vero.
Indossava una camicia bianca, un papillon blu ed un gilet rosa pastello che Inghilterra sperava fosse presto bandito dal commercio; su una mano un piatto con sopra il dolce più bello ed invitante che si fosse mai visto, decorato con fiori di zucchero, glassa e riccioli di panna; nell’altra teneva un coltellaccio dall’impugnatura nera e col filo cosparso di grumi rossastri -quelli che Arthur presuppose essere residui di glassa alla fragola preparata per un dolce precedente.

-Sei me che tu vuoi?- gli chiese il riflesso, con voce terribilmente candida.
Inghilterra lo fissò come se non avesse mai visto nulla di più..puro, in tutta la vita. Sembrava la dolcezza fatta a persona ed il rossore che gli colorò le guance nel sentirsi osservato non fece che aumentare quell’impressione.
Arthur chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, aveva preso una decisione.
-Yes-
Posò la mano destra sullo specchio, le dita ben allargate sulla superficie gelida; il riflesso posò la torta dietro un angolo della cornice e fece aderire le dita a quelle di Inghilterra. Nello stesso istante in cui le labbra del riflesso si modellavano a formare un ghigno ferino, i polpastrelli di Arthur cominciarono a bruciare.
I sei specchi si incrinarono con un unico urlo, le personalità al loro interno presero a battere i pugni contro la superficie, a chiamarlo, a dirgli di tornare indietro; tentarono di rompere la gabbia entro cui erano rinchiusi, ma il lampo roboante del pentacolo li distrusse insieme alle cornici. La pelle di Arthur quasi si sciolse per il calore, le braccia si ridussero ad un tripudio di dolore e schegge bollenti, gli occhi si rivoltarono nelle orbite in un bruciare convulso di retina e sclera, la bocca si aprì a gridare, ma la voce si gonfiò ed esplose, parole e rimasugli confusi di preghiere e confessioni si sparsero ovunque, molli e putrescenti. I polmoni raggrinzirono, il petto si piegò su se stesso, le ginocchia si fusero, il volto si disfece in lacrime di carne e sangue.
La stanza girò una, due, tre volte, il soffitto tremò, il pavimento si aprì sopra una voragine di correnti e reflussi bianco-verdi. Poi, tutto si dissolse nel silenzio.
Solo una voce cinguettante si fece udire, nel buio che ritornava padrone della polvere, mentre la porta di casa si apriva di scatto e Francis faceva finalmente la propria entrata in scena.

 

 

 

 

 

Thank you, Arthur~

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Tu vorresti essere grande, non sei senza ambizione,
ma ti manca la cattiveria che dovrebbe accompagnarla.
Ciò che vorresti fortemente, lo vorresti santamente;
non vorresti giocare sporco, eppure vorresti vincere slealmente
. :.

 

{ Lady Macbeth } –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

(1) Dita Von Teese
(2)
E qui rinasce chi morì, / rinasce chi d'amor morì, poi dentro il vino annegherà. (Il Val d’Amore – Notre Dame de Paris)
(3) Macbeth.

 

Ringrazio The Naiads e Cosmopolita per aver recensito!

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


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Epilogo ~

 

Il fiato si frantumò nei polmoni.
Francia alzò la testa di scatto, la bocca aperta in un ansimo continuo; boccheggiò alla ricerca di aria, la testa ondeggiò, gonfia e oleosa, mentre le palpebre faticavano a rimanere aperte, pesanti e impregnate di stanchezza.
Lamelle di luce si srotolavano alla sua sinistra, ciondolando tra grumi più o meno densi di ombra; sotto i polpastrelli una consistenza molliccia, la bocca un impasto metallico di alcool e nausea, le narici sfrigolanti di…dolci?
-Mon Dieu- balbettò e passò una mano sulla fronte fino al mento, risalì a stropicciare gli occhi con le dita e strinse forte la radice del naso. Annusò una, due, tre volte.
Alla fine si arrese.
Era proprio profumo di dolci, quello.
Il perché o il come un simile odore l’avesse colto in quella particolare circostanza non aveva ancora una spiegazione precisa, né avevano risposta le domande fondamentali dell’uomo. Dove mi trovo? Cosa ci faccio qui? e Dov’è lo champagne?
Visto che rimanere in mezzo ad un nulla pastoso e incomprensibile non sembrava la soluzione migliore, Francia si decise ad alzarsi; fece leva con le mani sui cuscini del divano –almeno una cosa era riuscita a riconoscerla- e si tirò in piedi. Il braccio destro si tese subito all’indietro per cercare un appiglio stabile e le dita si strinsero attorno allo spigolo di un tavolino.
L’esile filo di una mappa cominciò a tracciarsi faticosamente tra la polvere accumulatisi nella testa. Nella sala che stava ormai svelando i propri contorni alla luce crescente, Francis riconobbe una credenza colma di servizi da the di fattura pregiata, tre librerie una accanto all’altra, qualche libro impilato ai loro piedi e che non avevano trovato posto sui ripiani, una poltrona di velluto rosso su cui era abbandonata una tela da ricamo ancora da concludere, e un televisore incastrato tra un vaso piuttosto kitch di rose rosse ed una riproduzione in ceramica della regina Vittoria.
Il gusto, se tale si poteva chiamare, era inconfondibile. Tuttavia, a Francia sembrava di non avere ancora abbastanza pezzi tra le mani per costruire un quadro completo della cosa. Si mosse in avanti e la coperta di patchwork che aveva sulle spalle, e di cui si era accorto solo in quel momento, si accasciò sul tappeto indiano; un’altra coperta lo fissava dai suoi cinque o sei strati mollemente afflosciati tra loro, proprio ad un angolo del divano.
-Arthur- chiamò, piano, la voce che bubbolava nella bocca ancora addormentata -Arthur, dove sei?-
-In cucina!-
E da come chiocciò la risposta, Francis capì che chiunque sarebbe potuto essere in cucina, tranne Arthur. La conferma la ebbe quando, al posto dell’inglese, trovò ad armeggiare dinanzi ai fornelli un..confetto, sì, non gli venne in mente aggettivo migliore per descriverlo. I capelli mossi parvero avere uno sbuffo castano chiaro quando il loro proprietario alzò la testa dal forno aperto; gli occhi azzurri, immensi, inghiottirono guance e zigomi tanto si allargarono nel vederlo entrare, e il sorriso si arrampicò su ogni singola lentiggine, risultando ancora più grande.
Il confetto fece un passo in avanti. Francia uno indietro.
-Francis, sei sicuro di stare bene?-
-Dove sono?-
Anche se la riconosceva, sì, la cucina. Sapeva perfettamente di essere a casa di Inghilterra, glielo dicevano i manuali di cucina disposti sulle mensole, la calamita a forma di Big Ben sul frigorifero panciuto, la foto della Regina Elisabetta che quella stessa calamita contribuiva a tenere su, e la piccola lavagnetta magnetica su cui era scritto, a lettere aggraziate, il promemoria Call Kate.
Pur tuttavia, era la presenza di quell’altro a farlo dubitare. Quell’altro stonava nel complesso della casa, fuori luogo in quella stanza come nel giardino o perfino nella strada, totalmente estraneo al concetto stesso di Arthur Kirkland, Inghilterra.
-Sei a casa mia- cinguettò l’altro, sollevando una torta tutta glassa e riccioli di panna –Guarda! Questa l’ho fatta per..-
-Questa è casa di Arthur-
Il confetto sbatté più volte le palpebre, il sorriso si ammosciò sul mento piccolo e tondo.
-Io sono Arthur- mormorò.
Francia scosse la testa e serrò una mano a pugno.
-Non- sibilò –Tu n’es pas Arthur. Dov’è ? Cosa gli hai fatto ?-
Qualcosa, tutto, sembrò incrinarsi nel corpo dell’altro. Una sensazione muta che gli gonfiò il petto, tirando il gilet rosa e i bottoni della camicia bianca; il farfallino azzurro ebbe un brivido e si inclinò, accartocciato su se stesso. La bocca divenne una linea dura, le labbra si serrarono, nere, contro il volto pallido. Gli occhi divennero uno specchio entro cui Francis potè vedere il proprio riflesso sconvolto.
Un sussulto.
Specchi.
Come quelli che aveva trovato attorno al corpo di Arthur, laggiù, tra la polvere e il buio e sbavature di gesso bianco. Sette specchi dalla superficie opaca e Arthur così, in mezzo a loro, disteso con un braccio a coprire il Macbeth , il cappuccio calato sul volto, le dita lunghe, sottili, artigliate al foglio ingiallito, il corpo un ammasso amorfo sotto il mantello di lana pesante. L’aveva chiamato. Aveva sussurrato, mormorato, bisbigliato il suo nome, scosso quelle spalle d’improvviso esili e insignificanti, baciato le labbra livide e piccole, fredde. Il volto di Inghilterra era bianco come cera e come cera sembrava sciogliersi e ricomporsi, agglomerati vitrei di mille facce diverse che si mescolavano sui tratti affilati e sorprendentemente eterei: nel percorso tra la stanza con gli specchi ed il salotto, per quei pochi passi che Francis l’aveva tenuto a sé e gli aveva fatto poggiare la tempia contro il petto e l’orecchio sopra il cuore perché il solo battito potesse restituirgli calore e colore, per quei pochi passi, sì, aveva visto troppi volti sul viso di Arthur e nessuno era il suo. Simile ad un canale mal sintonizzato, in cui l’immagine faticava a trovare il proprio posto, occhi, sopracciglia, bocche, zigomi, fossette, tasselli di un puzzle troppo complicato e per nulla accordati tra loro continuavano a sovrapporsi, nella disperata ricerca di senso.
Ma quando aveva posato quel corpicino sul divano, oh, com’era indifeso e minuscolo! Un bambino, quasi e lui, Francis, si sentiva senza forze, impotente mentre gli sollevava la coperta fino alle spalle e gli baciava la fronte e guardava, fissava, osservava i frammenti cominciare a bloccarsi, ecco uno sfarfallio di lentiggini sotto l’occhio, i capelli sempre più chiari, un’espressione di dolce e inquietante pace che pervadeva ogni tratto essenziale di Arthur, la fronte si distendeva, le dita perdevano rigidità, si era fatto di nuovo profondo il respiro…!
Francia non ricordava altro, però. S’intravedeva appena mentre prendeva la mano di Inghilterra tra le proprie, s’inginocchiava accanto al divano e finiva per posare la testa sul suo petto. Si era addormentato così, sopra di lui, a proteggerlo da qualcosa di cui nemmeno conosceva il nome.
-Non..- si portò una mano alla bocca, il braccio che cozzava contro lo stipite della porta di cucina. Torse gli occhi verso l’altro.
L’altro gli restituì un tranquillizzante sorriso compassionevole e si fece avanti di un passo.
-Io sono Arthur- ripeté, con voce carezzevole -L’Arthur che tu hai voluto, l’Arthur dei tuoi desideri. Davvero non mi riconosci, Francis? Sono l’Arthur che ami e che ti ama, e che non ha paura di dirlo e di mostrarlo al mondo. Ti amo, Francis, ti amo, ti amo e ti amo ancora..! Ma come..?- piegò la testa di lato -Non sei felice? Io ti amo, Francis! Non mi hai sentito? Posso gridarlo più volte, se vuoi! Cantarlo, scriverlo, qualunque cosa!- lo sguardo si addolcì, le guance furono sfiorate da un tenue rossore –Dimmi tu quello vuoi, sono qui solo per te-
-Arthur non me lo avrebbe mai detto- Francia sentì il fiato mancargli nei polmoni -Arthur si sarebbe amputato il braccio destro, strappato la lingua piuttosto di ammetterlo. Arthur non l’avrebbe mai dichiarato con così tanta veemenza.- scosse il capo, con un sorriso –Arthur avrebbe continuato a violentare fornelli e dolcetti, invece di sfornare simili prelibatezze- indicò la torta che l’altro teneva in mano -Oh, è bella, molto bella, per carità. Ma preferisco quelle di Arthur, perché quando Arthur cucina in realtà mi sta invitando ad uscire. Quando mi caccia via, mi sta chiedendo di rimanere. Quando mi nega i suoi baci, anela le mie carezze.- chiuse gli occhi, ripensando al tocco di Inghilterra sul viso –Arthur è maestro del non detto e della reticenza.- un istante di silenzio -E in fondo lo preferisco così-
L’altro sgranò gli occhi, lanciò via la torta, gli si gettò addosso, gli afferrò le braccia, lo scosse, gridò. Francis avvertì le sue dita affondare nel tessuto spiegazzato della camicia, il filo della lama gelido contro la pelle.
-Ma io ti ho detto che ti amo!- urlò di nuovo –Era questo che volevi, no?- alzò gli occhi liquidi, tremuli di lacrime -Qualcuno che non ti facesse più soffrire, che non ti ferisse più, che fosse qui per te e solo per te, che ti dicesse quanto ti amasse e ti volesse bene e avesse bisogno della tua presenza! E’ per questo che gli hai detto di cambiare, di trovare un incantesimo! Lo hai portato a tanto per avere finalmente qualcuno adatto a te! Lo hai detto per avere me!-
Francia gli prese con dolcezza le mani e lo allontanò. Un sorriso gli sollevò le labbra.
-Mon petit, davvero non comprendi?- chiese, passandogli una mano fra i capelli -Arthur mi ferisce ogni giorno, ma quelle ferite è lui stesso a bendarle. Quando mi chiama nel mezzo della notte è perché è me che vuole sentire. Tra tutti. E sì che ci sono persone ben più forti per trascinarlo via da una bettola o per fronteggiare un hooligan ben piazzato e molto poco sobrio, così come altri apprezzerebbero meglio il liquore appiccicaticcio che mi fa bere ogni volta che usciamo la sera-
Gli occhi dell’altro rotearono verso il basso, le labbra si sporsero come quelle di un bambino imbronciato.
-La troppa dolcezza, ahimè, mi risulterebbe stucchevole- continuò Francis, prendendogli il mento tra le dita e invitandolo ad alzare il volto verso di lui -Preferisco lottare cento notti pur di sentirlo chiamare un’unica volta il mio nome. Per un istante, darei un’esistenza intera. Io voglio combattere per averlo, per tenerlo stretto, per sentire la sua voce o il calore del suo corpo.
-Sono malato, mon petit. Ed è Arthur l’unica mia cura-
-Dunque..- l’altro gli strofinò la fronte contro il petto -Non mi amerai mai?-
Francia chiuse gli occhi, un sospiro scivolò lento in gola; gli cinse le spalle con le braccia, poggiandogli il mento sulla nuca.
-Non, mon petit. Mi spiace averti costretto ad essere qualcun altro. Torna da me, Arthur. Con le tue sopracciglia indecenti, la tua ironia da quattro soldi, col tuo sguardo tagliente. Con la tua voce, il tuo respiro, il tuo cuore che batte per me e per me solo. Torna da me-
Un piccolo tremito da parte dell’altro. Francia lo strinse più forte.
-Mi permetterai di rivederlo, mon petit? Farai questo per me?-
Ci furono alcuni minuti di silenzio, in cui l’altro non disse una sola parola: si limitava a tremare, il respiro accelerato, la presa alle braccia di Francia tanto forte che questi poteva avvertire il sangue fermarsi sotto quei polpastrelli inzuccherati.
-..Lo farò- rispose, infine.
-Merci. Non lo dimenticherò-
Ancora silenzio e Francia si chiese perché, ancora, l’altro non lo avesse lasciato andare. Perché rimaneva? Doveva far tornare Arthur, andarlo a prendere ovunque fosse, riportarlo da lui in modo da sfotterlo su quanto, anche con incantesimo, i gusti orrendi rimanessero fondamentalmente gli stessi.
-E' un pugnale, questo, che vedo davanti a me, l'impugnatura verso la mia mano? Vieni, lasciati afferrare. Non ti prendo, ma ti vedo ancora- pigolò con un mormorio strozzato.
Francis corrugò la fronte.
-Per quale motivo stai recitando il Macbeth?- chiese, un brivido che gli pizzicava freddo la schiena.

- Non sei percettibile al tatto, fatale visione, come lo sei alla vista?- continuò l’altro e il tono si fece più freddo, glaciale -O sei soltanto un pugnale della mente, una falsa creazione costruita dal tuo cervello oppresso dalla febbre?-
-Mon petit, penso sia mio dovere informarti che mi stai spaventando-
E non era una bugia, né uno scherzo. La medesima sensazione che l’aveva spinto a correre fino a Londra era tornata a sgocciolare nello stomaco, crescendo, aumentando, addensandosi fino a sbocciare nel torace con tanti petali rattrappiti, tentacoli di terrore che s’attorcigliavano al costato.
-
Ti vedo ancora, in forma palpabile, come questo che ora snudo.-
Il filo del coltellaccio scivolò lentamente lungo il braccio, al gomito la punta incespicò appena contro una piega della camicia; il tessuto si lacerò con un gemito ben udibile e i muscoli di Francis s’irrigidirono, il sangue ghiacciò nelle vene.
-Smettila- intimò, mentre tentava di divincolarsi -Smettila, ora-

- Mi guidi nella direzione che stavo prendendo- la voce dell’altro era ora un tintinnio di derisoria soddisfazione, tanto che non fu difficile per Francis immaginare un ghigno a deformargli le labbra -E uno strumento come questo stavo per usare-
Uno strattone, un altro ed un altro ancora, ma non gli riusciva di liberarsi. Quelle dita pallidicce lo tenevano inchiodato, le unghie rosicchiate affondavano nella carne, strappavano lampi di dolore che saettavano veloci e crepitanti tra i nervi.
-Basta..!- si tirò indietro, ansimò, boccheggiò, reclinò il capo, gonfiò il torace, torse la bocca, digrignò i denti, il respiro accelerò, brividi sulle braccia, sulle gambe, nel cuore, nell’animo, le ginocchia piegate, molli e quelle mani, quelle mani e quel coltello che non lo lasciavano andare, lo tenevano avvinto ad un terrore paralizzante.
 - I miei occhi sono diventati i buffoni degli altri sensi- l’altro sollevò finalmente gli occhi, accesi di dolce follia. Lo accarezzavano con languido delirio, disegnavano lenti il profilo di un corpo scomposto, delineavano con cura i contorni vischiosi di una pozza di sangue -Oppure valgono non più di tutti gli altri.-

Il coltello abbandonò il gomito e si inginocchiò a baciare il fianco in punta di lama. Uno schiocco di lucidità, Francis capì che era quello il momento adatto per fuggire.
Alzò di scatto il braccio destro, chiuse le dita a pugno, mirò al volto dell’altro, a quel sorriso distorto e malato, alla lingua che scivolava leziosa sulle labbra, alle guance accese di sanguigno piacere.
Un palpitare d’oro sul filo del coltello.
-
Ti vedo ancora, e sulla tua lama e sul manico gocce di sangue…-
Francis sgranò gli occhi.
Bianco e rosso.

-Che prima non c'erano-
Il fiato si frantumò nei polmoni.

 

 

 

 




 

 

 

 

 

 

 

.: Fate spesso il mio sangue, sbarrate l'accesso e il passo alla compassione,
affinché nessuna compunta visita dei sentimenti naturali
scuota il mio feroce proposito o interponga una tregua
dalla sua attuazione. :.

 
{ Lady Macbeth } –

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Fine :.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

I-I FEEL LIKE A MONSTEEEEER----! *Canta*
Bhè, dai. Forse mostro mostro no. Perché, in teoria, ci sarebbe un seguito. Ho già immaginato il tutto, scene comprese, anche per far capire perché proprio la scelta di 2p!Arthur e di quale potrebbe essere la sua storia. Per cui, il seguito c’è. Devo solo pensare se e come scriverlo.
Fino a quel momento…FEEEEEEEL LIKE A MONSTEEEEER----!
Ma passiamo ai ringraziamenti!
Ringrazio The Naiads, jei90, RuKiA e Cosmopolita per aver recensito!
Ringrazio RuKiA e TheAkaiBookFrog per aver messo la storia tra le preferite!
Ringrazio Shania per aver messo la storia tra le ricordate!
Ringrazio The Naiads, veda94, Mothy, jei90, Maysilee  e Black Air per aver messo la storia tra le seguite!
E infine ringrazio tutti voi,
La Nymphe Blonde, Chaska, Belarus, The Naiads e Cosmopilita
DanielleXD263, Amaerise, Belarus, Prof, Seia, Soffice_Salice, _Lenalee_, jei90, RuKiA, Shania, veda94, Mothy, Maysilee  e Black Air.
E ovviamente, coloro che mi hanno dato l’ispirazione per questa fan fiction: Nipotah <3, Figlia Ele, Figlia Rei, Lavi e Becca e un’afosa giornata d’Agosto. A voi, tutto questo è dedicato <3
Vi voglio davvero bene :D

A presto!
Nemeryal~

 

 

 

 

 

 

 

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