We're just two lost souls swimming in a fish bowl.

di cranium
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi. ***
Capitolo 2: *** Mani. ***
Capitolo 3: *** Labbra. ***
Capitolo 4: *** Braccia. ***
Capitolo 5: *** Cuore ***
Capitolo 6: *** Orecchie. ***
Capitolo 7: *** Piedi. ***
Capitolo 8: *** Testa. ***
Capitolo 9: *** Gambe. ***



Capitolo 1
*** Occhi. ***


We ’re just two lost souls
swimming in a fish bowl.

“And did they get you trade your heroes for ghosts?
Hot ashes for trees? Hot air for a cool breeze?
Cold comfort for change? And did you exchange
a walk on part in the war for a lead role in a cage?”
Pink Floyd

Le sensazioni sono soggettive.
Dipendono, come ben si sa, da dove siamo stati cresciuti e da come siamo stati educati.
Per lui il vento che tirava leggero dalla costa, l’odore del pane salato e l’afa e l’umido che si legavano ai capelli rendendoli crespi, sapevano di casa e di pace.
Il sole che gli riscaldava la pelle abbronzata, gli sguardi intensi e pieni di tutta la forza del mare in burrasca della sua gente, e quel modo di camminare lento e strascicato degli abitanti del Distretto 4 lo facevano sentire tranquillo come non lo era da molto tempo.
Erano sensazioni buone, di quelle che ti scaldano il cuore e la pelle, di quelle che speri non ti scivolino via dalla dita, di quelle che vuoi che si esauriscano con te.
Ma le sensazioni buone, si sa, sono sempre accompagnate da quelle negative.
Si sentiva sporco, si sentiva marchiato come un manzo pronto per il macello.
Ogni notte passata tra lenzuola, volti e profumi diversi, ma che gli sembravano tutti uguali, a Capitol City ripensava a casa sua prima degli Hunger Games, alla loro staccionata marcia, alla porta che non si apriva, alle imposte scure sempre chiuse, alla camera dove dormiva sotto quelle lenzuola grezze, ma soprattutto quanto lo rendevano felice le piccole cose, come il sorriso di sua madre, un bacio sulla testa prima di addormentarsi.
Pensava a sua madre che lo aspettava ogni volta, e che quando sarebbe tornato a casa lo avrebbe costretto a mangiare doppia razione di tutto per fargli mettere su qualche chiletto, pensava a suo padre che una notte era partito per pescare e non era più ritornato, pensava alla barca che era l’unica cosa che era stata trovata dagli altri pescatori e pensava a se stesso, che ormai era solo un involucro vuoto, una marionetta nelle mani di chi era più potente di lui, un giocattolo per chi lo desiderava ardentemente.
Aveva bisogno di riempirsi di tutte le sensazioni positive che riusciva ad immagazzinare per sopravvivere a Capitol City; ecco perché era tornato nel suo Distretto 4, per questo e perché si stava avvicinando il suo diciannovesimo compleanno.
Il Presidente Snow aveva organizzato, per lui e per gli altri abitanti del Distretto, un’enorme festa: per quel giorno i pescatori avrebbero abbandonato le reti e avrebbero dedicato la loro attenzione a Finnick Odair, il bel vincitore sei Sessantacinquesimi Hunger Games.
Che la fortuna possa essere a mio favore” pensava mentre raggiungeva il Villaggio dei Vincitori dalla stazione adiacente il Palazzo di Giustizia “
ancora una volta.a
Non aveva infatti voglia di sentire la gente che lo idolatrava e che lo toccava come per rubare un po’ di lui, perché ormai non aveva niente ne per se ne per gli altri.
Non aveva sorrisi finti da dispensare o frasi poco intelligenti da dire, voleva solo raccogliere i brandelli di quello che era per poi farsi distruggere e ricominciare da capo.
Così era la sua vita, un domino infinito, un pezzo faceva cadere tutti gli altri inesorabilmente, mentre lui tentava di tirarli di nuovo su qualcuno li faceva crollare di nuovo.
Di nuovo e ancora.

Arrivò a casa e fece per salire le scale per andare in camera sua.
-Finnick.-
-Mamma sono stanco.- le rispose mentre lei si avvicinava per sistemargli i capelli sulla fronte.
La sua bella mamma, con i capelli del color del bronzo come i suoi, con i suoi occhi scuri dai quali sembrava che ogni singola gioia fosse stata strappata via con la forza, sua mamma che lo vedeva esattamente come era, non come volevano gli altri, non come lo vedevano gli altri.
-Dopodomani è il tuo compleanno.-
-È anche la festa del mare- disse -ma nessuno sembra ricordarsene.-
-Forse perché il tuo compleanno è importante.-
-Sembra che importi più agli altri che a me.-
-Vuoi qualcosa di speciale per la tua festa?-
-Portami via da qua.- rispose appoggiando la testa sulla spalla della madre che iniziò ad accarezzargli i capelli.
Inspirò il profumo dalla pelle del collo della madre: sapeva di mare, sapeva di sale, sapeva di tutti quegli odori che lui aveva perso, sapeva di tutto quello che lui sarebbe voluto essere.
-Lo sai che non posso, ma ti prometto che ti divertirai.-

Un fenomeno da baraccone ecco cos’era, vestito come se gli importasse qualcosa del pensiero di quelli che lo fissavano nei suoi vestiti costosi, con gli occhi truccati come la più infima tra le prostitute di basso borgo e un sorriso finto stampato su quelle labbra false e perfette allo stesso tempo, un tripudio di volgarità, ecco come lo avevano trasformato due ore e mezzo con i suoi “collaboratori”, che poi quelli di collaborare non ne avevano proprio l’intenzione.
Gli aveva chiesto qualcosa di semplice e loro non lo erano stati a sentire:
-Dobbiamo seguire gli ordini del Presidente Snow- gli aveva detto una donna grassottella dalla pelle dalla tinta verdognola che gli ricordava tanto i ragazzi con il mal di mare dopo la loro prima volta su un peschereccio con gli adulti, che gli saltellava attorno con matite e ombretti –vedrà che il lavoro quando sarà finito le piacerà un sacco.-
Di questo era certo, un sacco se lo sarebbe messo in testa molto, ma molto volentieri, ma lo sapeva, il Presidente voleva fargli solo capire quale era e quale sarebbe stato il suo posto, quello della prostituta, dello schiavo dei piaceri di Capitol City, bello, certo, dannatamente bello e affascinante, ma sempre uno schiavo, uno stupido uccellino chiuso in una gabbia dorata per sempre, tra il becchime migliore, i vestiti più alla moda, a volare in eterno sotto una cupola invalicabile come quella dell’Arena.
I Giochi per me non avranno mai fine” pensava amaro mentre stringeva la mano a tutti quelli che gli si paravano davanti spinto da dietro da sua madre che tentava di fargli conoscere più persone possibili, gli prendeva la manica della giacca e lo tirava dall’altra parte della Piazza gremita di tutti quelli che erano venuti per festeggiare il suo compleanno.
Benvenuti alla celebrazione di questo essere imperfetto!” avrebbe voluto gridare, ma si astenette.
Tutti lo credevano un eroe, era uno dei più giovani Vincitori dei Giochi della Fame, un mito, una leggenda, ma lui sapeva di non esserlo.
Ad un tratto nessuno sembrava avere più occhi per lui: in mezzo alla Piazza quattro Pacificatori stavano trasportando una grossa torta, quel dolce era stato preparato appositamente per lui dai quattro migliori pasticceri di tutta Panem, e dalle dimensioni si intuiva che doveva esserci voluto parecchio tempo per prepararla e decorarla.
Naturalmente nessuno, o quasi, aveva mai visto una cosa del genere, e tutti erano rimasti veramente colpiti, prelibatezze del genere non erano facilmente reperibili se non in circostanze veramente speciali.
Finnick approfittò dell’occasione per lasciarsi alle spalle la Piazza.

Le onde basse si rifrangevano sugli scogli modellati da anni e anni di erosione, nella spiaggia adiacente al molo dove erano attraccati i pescherecci dei pescatori non c’era nessuno, era vuota.
Solo una ragazza stava seduta rigidamente sulla sabbia calda, mentre lasciava che le onde le lambissero i piedi piccoli e scalzi, e si rigirava tra le mani un piccola ghirlanda di fiori bianchi e gialli.
La conosceva di vista.
Aveva due anni in meno di lui e avevano frequentato la stessa scuola.
Non gli era mai piaciuto studiare, ma sua madre aveva insistito tanto perché finisse gli studi anche dopo aver vinto gli Hunger Games.
Infondo non era così male, tutti i ragazzi lo volevano come vicino di banco e tutte le ragazze volevano un suo bacio e lui raramente rifiutava.
Il problema erano i professori che gli chiedevano spesso di raccontare la sua vita nell’Arena, e lui non voleva ricordare tutto quel sangue che lui stesso aveva contribuito a far scorrere, tutti quegli occhi che lo guardavano impotenti e supplicanti mentre lui gli piantava il tridente nella viscere, perché i Giochi della Fame sono così, o uccidi o vieni ucciso, o sei predatore o per forza sei preda, ne sopravvive solo uno, e per essere quello non bisogna risparmiarsi nulla.
Un giorno era seduto sul muretto del cortile e osservava  una strana ragazzina scalza, che indossava un leggero vestitino a scacchi blu e verde scuro, che frugava con le mani sotto i sassi, tra l’erba più alta, sui rami degli alberi, poi lo vide e gli si avvicinò saltellando.
-Ciao, hai preso tu le mie scarpe?- chiese sorridendo.
Non era poi quella gran bellezza vista da vicino, con quei capelli crespi tenuti giù da un semplice cerchietto, magrolina e piuttosto bassa e le labbra fini screpolate, ma gli occhi erano i più belli che lui avesse mai visto, blu come il mare, ma non di quel colore reso terroso dalla sabbia smossa dai piedi vicino alla riva, ma di quel colore del mare dove scommetti con gli amici su chi toccherà per primo il fondo dopo un tuffo, dove si gettano le reti e si porta sul peschereccio il pesce abbondante.
-Vuoi un bacio?- le chiese mentre tentava di non affogare nel suo sguardo.
-In verità io volevo solo le mie scarpe.-
-Non le ho io le tue scarpe!- rispose un po’ infastidito.
-Peccato.- e se ne andò salutando con la mano e tornando a cercare.
Peccato veramente” si ritrovò a pensare.




-Nda-
La mia prima storia per il fandom di Huger Games, è una Finnick/Annie ambientata prima e durante i Giochi della Fame della ragazza, e forse –dico forse- anche dopo.
Non supererà i dieci capitoli al massimo, anzi prevedo che saranno molti di meno.
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto.
Il titolo “We’re just two lost souls swimming in a fish bowl” è preso dalla canzone “Wish you were here” dei Pink Floyd come la citazione iniziale e significa  “Siamo solo due anime perse che nuotano in una boccia di pesci”.

Un bacio
cranium

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Capitolo 2
*** Mani. ***


We’re just two lost souls 

swimming in a fish bowl.

sufficiente guardare le mani

per capire cosa è una persona."

Antonio Castronuovo

 

Il coraggio è una virtù che non tutti possono vantare di possedere.

Magari davanti alla più grande delle avversità l’adrenalina ci scuote e ci fa combattere contro tutto e tutti, ma di fronte a una semplice ragazza le gambe si fanno tremanti e non riusciamo ad avvicinarci per parlarle o anche solo per guardarla meglio.

Il coraggio ci manca, e allora le gambe non ci sorreggono più, la gola diventa secca, le budella si attorcigliano, il sangue sembra fluire più lentamente nelle vene, e la testa diventa più confusa del solito; non tutti sono preparati e abituati a queste sensazioni negative, soprattutto quelli che vengono considerati dei cuor di leone, degli idoli, degli esempi da seguire, e allora la terra nuda sotto i nostri piedi diventa scivolosa e non ci resta che strisciare per andare avanti.

Strisciare ci porta a contatto con la terra che ci ha generati e a molti questo non piace, perché sono abituati a essere innalzati al cielo, a essere portati in trionfo o sul palmo della mano di altri e perciò si sentono vulnerabili.

I vermi sono coloro che strisciano a terra, i morti di fame, i Perdenti e altri insetti, non i Vincitori, non le autorità, non i privilegiati, non quelli che sembrano portare il mondo sulle loro spalle possenti, ma poi camminano sulle teste degli altri schiacciandole come limoni, e quindi per imparare e per convincersi a strisciare bisogna scendere a compromessi con noi stessi, con il nostro ego smisurato e con tutto ciò che esso comporta su di noi e per noi.

Quante volte era stato costretto-aveva dovuto scendere a compromessi lui?

Quando aveva barattato la sua integrità morale con una manciata di polvere di celebrità.

Quando aveva scambiato il suo corpo per la salvezza della sua famiglia e dei suoi cari.

Ma quella volta gli era sembrato tutto così facile.

Gli sembrava che le gambe lo stessero trasportando da sole senza essere legate al suo cervello, probabilmente la curiosità la stava avendo meglio sulla sua già poca razionalità, perché quella ragazza era lì? Perché non era con tutti gli altri a festeggiarlo?

E soprattutto perché non c’era lui?

Perché era venuto in spiaggia?

Perché si stava dirigendo verso quella ragazza?

Strisciò perché non vi era altra soluzione.

Strisciò perché era l’unica cosa giusta da fare.

Si avvicinò cautamente, ma lei sembrava non averlo neppure sentito, continuò a camminare e a ogni passo si sentiva più leggero, come se tutto quel peso che lo opprimeva da  dentro stesse evaporato, come se la sabbia calda che gli entrava nelle scarpe invece di infastidirlo lo stesse tranquillizzando.

<< Non hai ancora trovato le tue scarpe? >> disse tentando di fare lo spiritoso accennando ai piedi scalzi della ragazza.

Lei non si scompose e rimase in silenzio, poi azzardò con un sussurrò:

<< Auguri. >>

<< Grazie. >>

<< Mi dispiace di non essere potuta venire alla tua festa, ma sai oggi è la Festa del mare e sapevo che nessuno sarebbe venuto, sai la gente pretende sempre senza mai dare nulla in cambio, e allora ho pensato di venire per darGli la mia ghirlanda, magari non si arrabbia. >> e così lanciò i fiori tra le onde.

Si sedette accanto a lei.

<< Ti sei truccato? >> chiese un po’ ingenua.

<< Mi hanno truccato? >> rispose sulla difensiva.

<< Sai chi mi ricordi? Quel clown che era venuto per il tuo quindicesimo compleanno. >>

Se lo ricordava quell’uomo, con quei vestiti sgargianti e colorati, nessuno aveva mai visto una cosa simile al Distretto, era sceso dal treno vicino al Palazzo di Giustizia e si era diretto in fretta e furia, seminando brillantini ovunque, alla scuola dicendo a tutti che era venuto per festeggiare il signorino Odair.

Tutti ne erano rimasti affascinati, non si parlava d’altro che di lui, del suo buffo naso, dei suoi occhi truccati a tutti era piaciuto tanto, ma una piccola ragazzina, dagli occhioni blu e un vestitino color pesca, era scappata via appena lui le aveva chiesto in che classe si trovasse il festeggiato.

<< Ti faccio paura anche io? >>

<< No,tu sei più buffo. >> rispose toccandogli le palpebre socchiuse con i polpastrelli per poi sdraiarsi e iniziare a giocare con la sabbia e con i capelli.

Non sapeva da quanto tempo fossero lì, se qualcuno lo stesse cercando, era lì in silenzio a guardare il mare, era da tantissimo che non si sentiva così.. libero.

Era una sensazione che non provava da tanto quella della libertà, come un bruco che recide il suo bozzolo sicuro e prova l’ebbrezza del primo volo, da farfalla, che sfoggia i suoi migliori colori al vento e che passa di fiore in fiore per far si che le sfumature dei petali sembrino poco brillanti, che l’erba rabbrividisca al solo sentire l’aria smossa dalle sue forti e belle ali.

La libertà è come la farfalla: ha vita molto breve, ma intensa.

La libertà è una sensazione effimera, ma troppo piacevole per non essere goduta fino in fondo, troppo vera perché non valga la pena di essere assaporata dolcemente.

Lei era libera, lo vedeva.

In quegli occhi che avevano tutta l’intensità del mare.

In quei capelli ribelli.

In quelle gambe magre che sembravano nate per correre.

In quelle dita lunghe, ancora sporche del suo ombretto blu, callose, da donna che ha imparato che il pane non si porta a casa con le parole, anche se così giovane, con le unghie rovinate e i polpastrelli cotti dall’acqua e dal sale.

Guardò le sue di mani, così curate, profumate, idratate, le unghie finte e laccate e provò vergogna, un’immensa vergogna e provò a nasconderle sotto la sabbia per non fargliele notare.

<< Le mani possono farci capire molto di una persona lo sai?- disse lei mentre lui imprecava mentalmente –non dovresti nasconderle, possono dirci quanti anni abbiamo, da che Distretto proveniamo, che lavoro facciamo. >>

<< Ho diciannove anni, vengo dal Distretto 4, anche se non sembra, faccio il mantenuto di Capitol City, tu?>>

<<Diciasette anni, vengo dal Distretto 4, la mia famiglia si occupa di coralli e anche io. >>

<<Non so neppure come ti chiami.. >>

Lei si voltò di scatto, gli porse la mano e sorridendo disse:

<< Annie Cresta, e qualcosa mi dice che tu sei Finnick Odair!>>

<< Ma come hai fatto a indovinare? >>

<< Semplice intuizione. >> gli sorrise.

La libertà è come una farfalla.

Annie è libertà.

Annie è una farfalla.

Si alzò e si scrollò la sabbia di dosso, aprì le braccia e fece una lenta giravolta si se stessa, prese un lembo del vestitino bianco che indossava e se lo sfilò.

Per un attimo rimase senza parole, cosa stava cercando di fare quella ragazza?

<< Non vieni a fare un bagno? >>

 

Dopo aver assaporato la libertà, anche solo per poco, il peso delle catene si fa più opprimente.

Sembrano voler recidere la pelle per farti capire qual è il tuo posto, tra le loro spire che si attorcigliano al corpo come tanti serpenti che ti iniettano il loro veleno.

Meglio negarsi ogni gioia o soffrire appena torniamo alla normalità?

 

 

 

NdA

Questo capitolo a me piace molto.

Ormai si iniziano a definire i personaggi principali, il loro carattere e il loro modo di affrontare le cose.

Spero che sia piaciuto anche a voi.

Il titolo è preso dalla bellissima canzone dei Pink Floyd “Wish you were here.”

Grazie a chi ha messo la storia tra le seguite e naturalmente a chi ha recensito, mi ha fatto molto piacere sapere che la storia vi sia piaciuta.

Spero continuerete a seguire la storia.

Prima di dimenticarmene: voi come rispondereste all’ultima domanda?

Negarsi ogni gioia o soffrire ogni volta che torniamo alla normalità?

Un bacio.

cranium

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Capitolo 3
*** Labbra. ***


We’re just two lost souls swimming in a fish bowl.

Le parole d'amore che sono sempre le stesse,
prendono sapore dalle labbra di chi le pronuncia.
Guy de Maupassant


Le emozioni, quelle più intense, si esauriscono nell’arco di un respiro caldo sulla pelle nuda, di una carezza dolce sul viso, di un bacio sulle labbra.
Si esauriscono così velocemente, certe emozioni, come la flebile e debole fiamma di una candela di cera che si brucia per la mancanza di ossigeno sotto una piccola, ma spessa campana di vetro, che non riusciamo ad assaporarle come vorremmo, non riusciamo a viverle, non riusciamo a farle diventare nostre.
Ed è in questo modo che molti di noi stanno, sotto una campana di vetro scuro e pesante, protetti sì, dalle delusioni e dai problemi della vita, ma così costretti a guardare gli altri che passeggiano mano nella mano, a guardare gli altri che gioiscono e che soffrono senza poter fare nulla, senza potersi muovere, senza potersi opporre, e alla fine si consumano come il fuoco della candela e di loro resta il nulla, se non l’odore acre e intenso di bruciato e un poco di fumo.
Finnick non voleva consumarsi, voleva ancora vivere, vivere secondo le sue regole, secondo le sue idee, voleva potersi aspettare qualcosa di più dal suo futuro, e aspettava solo qualcuno che sollevasse per lui il vetro della sua campana perché lui non ne era ancora in grado.
La giornata oramai era finita e il sole tramontava all’orizzonte, il mare era calmo come le era stato tutta la giornata e il suo movimento lento e pacato lo tranquillizzava non poco.
Non era tornato alla sua festa di compleanno e nessuno lo era venuto a cercare, e anche se fosse stato così, lui, non sarebbe tornato nella Piazza nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Gli altri lo vedevano come una bestia esotica da circo, da guardare e punzecchiare, da ammirare per la sua forza e per la sua bellezza, per la sua belle dorata, per le sue labbra piene e carnose, da mettere sotto sedativo se troppo agitata, se decide di ribellarsi, ma lui era qualcosa di più che un animale da Arena, e adesso che qualcuno era venuto per aprire la porta della gabbia d’oro che lo teneva chiuso dentro di se e liberarlo non lo avrebbero riportato dentro tanto facilmente, nemmeno la più solida delle catene lo avrebbe trattenuto.
Avrebbe graffiato, morso, ringhiato, avrebbe inarcato la schiena, avrebbe fatto tutto quello in suo potere per rimanere libero, finalmente, una volta per tutte.
Annie si era addormentata da più di dieci minuti e lui non riusciva a non guardare il suo petto che si alzava e abbassava a ritmo del suo respiro lento e regolare e a non accarezzarle i capelli lunghi e castani che si stavano asciugando con gli ultimi raggi di sole della giornata che ormai arrivava al termine.
<< Annie, svegliati, dobbiamo andare. >> le disse piano e sottovoce vicino all’orecchio.
Ma non riuscì a svegliarla.
Osservò le sue labbra socchiuse, che sembravano più grandi e morbide da quella volta che l’aveva vista anni prima, quelle labbra screpolate per colpa dell’acqua.
<< Non mi fissare. >> mugolò infastidita rigirandosi nella sabbia.
<< Non ti sto fissando. >> si giustificò lui.
<< Se aspettassimo cinque minuti? >>
<< È tardi, i tuoi ti staranno  cercando. >>
<< Hai fatto aspettare tutto il pomeriggio la gente del Distretto e io non posso tardare di cinque minuti? Non hanno nemmeno potuto festeggiare il loro Campione preferito, il loro Finnick! Lo sai che le mie compagne di classe sono mesi che cercano un regalo giusto per te? E adesso lasciami riposare ancora un pochino. >> rispose lei ridendo.
<< È diverso. >>
<< In cosa è diverso scusa? >> osservò con un sorriso impertinente mentre si alzava lentamente e si toglieva la sabbia che si era appiccicata alla pelle ancora umida.
<< A te non la si può fare vero? >>
<< Assolutamente. >>
Non è facile trovare qualcuno che pensa a te come un forziere nascosto da trovare e che quando ti trova non guarda l’oro e i gioielli che possiedi al tuo interno, ma che riesca ad apprezzare il legno pregiato con cui sei stato costruito, che apprezzi la foggia e la finezza della tua lavorazione, la stoffa delicata e preziosa di cui sei foderata e le cerniere dorate che ti permettono di aprirti.
Non è facile trovare qualcuno che sappia leggerti come un libro, ma che invece di fermarsi alla copertina decorata, sappia apprezzare di più, tutto ciò che puoi offrire al mondo, che tu invece tieni nascosto dal muro spesso di lettere e parole e che bari solo per arrivare a leggere la fine.
E quando trovi quella persona ti senti leggero, perché non devi fingere nulla, non devi essere altro che te stesso, devi solo aprirti e lasciare che ti scopra fino in fondo.
Che poi andandolo a scoprire nel profondo, in quello che aveva veramente dentro, se non ancora un ragazzino spaventato davanti a qualcosa di molto più grande di lui?
Chi era se non un ragazzo che desiderava una vita normale che non poteva avere?
Chi era se non una marionetta nelle mani di Capitol City?
E lei lo aveva capito subito.

<< Finnick, dove sei stato tutto questo tempo!? >> lo sgridò la madre appena arrivato a casa.
<< Devo raccontarti u.. >> lei lo fermò con uno sguardo.
<< Buonasera Finnick.. >> lo avvertì una voce in cucina che gli fece sgranare gli occhi.
Raggiunse l’uomo, che con la sua veste curata e scura, lo invitò a sedere neanche fosse casa sua, al suo tavolino che la madre aveva lasciato quasi pronto per la lauta cena che lo aspettava, e probabilmente, presa in contropiede dall’arrivo dell’uomo, aveva dovuto abbandonare durante la presentazione.
<< Buonasera Presidente, si ferma a cena da noi? >>
<< Oh, tua madre mi ha già gentilmente invitato, ma non credo di poter accettare, sai mi aspettano a Capitol City prima di colazione, ma grazie mille comunque. >> e gli sorrise.
I modi gentili dell’uomo lo mandavano in bestia.
Perché non era gentile, i serpenti non lo sono, i serpenti mordono, iniettano il loro veleno nel tuo sangue, ti avvolgono nelle loro spire assetate del tuo respiro, e ti stringono fino a soffocarti.
Era venuto per riportarlo in gabbia.
Ma non sarebbe stato così facile.
<< Finnick ho organizzato questa festa per te nel tuo Distretto, e tu non ti fai neanche trovare? Non è bello. >>
<< Avevo voglia di fare un bagno. >>
<< Lo vedo- rispose guardandogli i capelli ancora umidi –tra meno di un mese ci sarà la Settantesima edizione degli Hunger Games Finnick, volevo sapere se è tutto apposto. >>
<< Questo doveri chiederlo io a lei, non crede Signor Presidente? >> rispose impertinente.
Il presidente lo guardò stupito, cos’era quest’aria di ribellione?
Cos’era quella luce nei suoi occhi?
Qualsiasi cosa fosse andava sedata subito.
<< Ci vediamo presto Finnick. >> e si alzò lasciando la casa portandosi dietro di se il consueto odore di rose e sangue, ma lui lo sapeva, non si sarebbe fatto incantare o disgustare dall’essenza, sapeva di più di quello che voleva dare a vedere.
Sapeva che dietro a quella scia si nascondeva un segreto.
<< Caro- lo investì la madre abbracciandolo e accarezzandogli i capelli –ho avuto così tanta paura per te! Non sapevamo dove eri e poi è arrivato il Presidente, e ho pensato.. >>
<< Non preoccuparti mamma, è tutto apposto.. - rispose stringendola di più a sé – è tutto apposto. >>

<< Come fai? >> chiese lei un pomeriggio.
<< A fare cosa? >>
<< A lasciare tutto questo.. >> rispose lei indicandogli il panino che stringeva tra le mani.
<< Di panini ne hanno tanti anche a Capitol City sai? >>
<< Sai quello che intendo Finnick.. >>
Lo sa cosa intendeva.
Perché quel pane era casa, era il suo Distretto, verde acqua come i suoi occhi, come quelli di sua madre, salato come il mare, salato come sicuramente lo erano le labbra di Annie.
<< Vorrei portare tutto con me, Annie, vorrei non dover mai andare via, vorrei rimanere a guardare il mare tutti i giorni, vorrei poter stare sempre a prendere il sole, come adesso, con te.. >>
Perché Capitol City era la sua gabbia, le amanti le sue catene dorate, il suo giogo pesante, che come un bue doveva trascinarsi dietro all’infinito, finché avesse conservato il suo bel viso, le sue gambe toniche, le sue braccia forti e i suoi occhi che riuscivano ad incantare sempre tutte.
Annie sembrava più interessata alle sue mani grandi, invece, che mano a mano che si allontanavano dall’ultima manicure ritornavano normali, le prendeva tra le sue e giocava con le sue dita, anche la sua mascella la incuriosiva, restava minuti interi a sfiorargliela e a osservarla attentamente, e a lui piaceva essere guardato in quel modo, così curioso, così dolce.
Si lasciava cullare dalla sensazione di essere normale, di essere un ragazzo qualunque, da quella sensazione di tranquillità che lei gli offriva ogni giorno con le sue piccole attenzioni, con le sue promesse di semplicità e complicità, tacite e silenziose, ma che lo facevano sentire bene come non lo era da tantissimo tempo.
La stava accompagnando a casa quella sera perché la pioggia li aveva sorpresi tra le braccia di Morfeo e li aveva svegliati.
Avevano iniziato a correre ridendo all’inizio, ma poi lei aveva insistito per fermarsi per osservare la pioggia, e lui l’aveva dovuta trascinare a forza per non farla ammalare.
Erano lì, sotto il semplice porticato della casa di lei con i respiri ancora affannati dalla corsa, i sorrisi sulle labbra e i vestiti fradici per la pioggia e si guardavano negli occhi felici, lei ad un certo punto chiuse gli occhi, si alzò sulle punte e si avvicinò al suo viso appoggiando le labbra su quelle del ragazzo.
Finnick era impreparato, non se lo aspettava, voleva abbracciarla, stringerla, approfondire quel semplice bacio, ma lei era già sparita dietro la porta.
Rimase intontito.
Era contento.
Prima o poi avrebbe scoperto qual’era il sapore delle labbra di Annie.

Sul tavolo di casa c’era una busta rosso sangue, chiusa con una ceralacca nera su cui era impresso il sigillo di Capitol City.
Erano anni che nessuno mandava lettere nella capitale, c’erano i telefoni, ormai i messaggi via posta erano diventati desueti e fuori moda, ma magari qualche stramba amante aveva voluto fare la romantica, magari voleva sorprenderlo, ma quel giorno niente avrebbe potuto stupirlo ormai.
Si gettò sul letto e la aprì tranquillo: la carta era intestata e profumava di rose:
“Molto carina la signorina Cresta.
Presidente Snow.”
Era nei guai, e stavolta non solo lui.




NdA
Hi Mockingjays!
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia tra le Preferite e le Seguite!
Siete fantastici..
La nostra storia sta per avere una svolta, il Presidente Snow deve trovare il modo per tenere tranquillo Finnick.. Cosa farà?
Riuscirà a sedare la sua voglia di libertà?
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, e se avete tempo e voglia lasciate una piccola recensione per farmelo sapere.

Bye
cranium

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Capitolo 4
*** Braccia. ***


We’re just two lost souls 

swimming in a fish bowl.

"Ero innamorato del mondo intero e di tutto

ciò che viveva nelle sue braccia di pioggia"

Louise Erdrich

 

Al sangue non ci si abitua mai.

Perché impasta la lingua e fa storcere le narici, perché è ferroso e dolce allo stesso tempo.

Perché è rosso, perché è intenso.

Perché attira e respinge allo stesso tempo.

Lui lo sapeva bene.

Le piaghe in bocca lo torturavano spesso, ma ormai non ci faceva più caso.

I farmaci non lo assuefacevano però non lo facevano stare molto meglio, faceva male l’interno della guancia che bruciava, la lingua e il palato, al dolore ci si abitua, ma al sapore e all’odore del sangue no.

-Spero che tutto sia pronto.- disse reclinando la testa di lato per osservare meglio l’uomo che gli sedeva davanti, alto con le basette lunghe e folte, vestito di tutto punto, come lo chiamava lui “il suo inviato”, con un bicchiere di vino in mano e gli occhi piccoli e vispi.

-Certo, fra una settimana inizieranno gli Hunger Games, gli Strateghi mi hanno chiesto di informarla del sicuro successo di questa edizione.- disse agitando con un movimento della mano il vino nel bicchiere guardandolo attentamente prima di portarlo alla bocca.

-È la settantesima, la gente si aspetta qualcosa di speciale.- lui lo sapeva cosa volevano i suoi elettori, volevano divertimento, volevano sangue, volevano Vincitori per i loro letti, volevano cibo, volevano spettacolo.

 “Panem et Circensem”

-E lo sarà- confermò lui.

-Lo spero per tutti voi.- e lo congedò con un gesto secco della mano –Ah- e lo richiamò –posso contare su di lei per quel lavoro nel Distretto 4?-

-Certamente.-

-Portate questa agli uomini che preparano le urne.- e gli passò una lettera, senza busta e neppure sigillata, perché in mano di quell’uomo non sarebbe mai andata persa, e lo congedò di nuovo.

 

Le farfalle sono fragili.

Sono animali così piccoli e indifesi, sempre ostacolati dalla presenza di predatori, uccelli, lucertole e altri, pronti a cogliere la più piccola indecisione per attaccare la loro preda.

Ma probabilmente il suo avversario più subdolo è il ragno perché non l’ attacca frontalmente, lui tesse la sua tela e aspetta, aspetta finché la farfalla non rimane incollata alla sua trappola e lui può gioire a pieno della sua vittoria.

Sono ambigui i ragni, perché i più pericolosi sembrano quelli più innocui, quelli più piccoli sono i più letali.

Sono fastidiosi i ragni, si infilano nei buchi, nei più minuscoli pertugi, infimi animali che vivono nell’ombra della sofferenza altrui.

Un ragno stava tessendo la sua trama di intrighi e fili maledetti, e aspettava solo che la sua piccola farfalla rimanesse impigliata per poi divorarla lentamente, ma lui non l’avrebbe permesso.

Nessuno avrebbe toccato Annie finché avrebbe avuto un solo muscolo in grado di contrarsi, finché fosse stato ancora in grado di urlare.

La mattina della mietitura si presentava calda, ma la brezza che proveniva dal mare riusciva a placare l’afa di quella triste giornata di agosto.

Nessuno avrebbe preso il largo quel giorno, neppure il più vecchio dei pescatori, sarebbero rimasti a guardare i loro ragazzi andare al macello, andare in pasto al lupo, a morire.

C’era una vecchia fiaba, di un mostro metà uomo e metà toro che viveva nell’isola di Creta, che gli aveva raccontato un vecchio pescatore che spesso radunava ragazzini per raccontargli delle storie appena tornato dalla sua giornata di lavoro.

Lì radunava la mattina dopo il mercato delle dieci e mezza.

C’era stata una guerra, diceva, e la città di Atena, perdente, ogni anno doveva inviare sette ragazzi e sette ragazze a Creta per essere divorati da quel mostro, il Minotauro nato dall’unione della moglie del Re e un toro bianco venuto dal mare.

Loro erano fortunati, diceva l’uomo, perché negli Hunger Games c’è sempre un Vincitore, qualcuno che si salva, ma Finnick lo sapeva, alla fine non vinceva nessuno.

Poi era arrivato un ragazzo Teseo che era riuscito ad uccidere il Minotauro con un suo stesso corno.

Il giorno dopo dell’uomo non si era più saputo nulla, i Pacificatori lo avevano portato via.

Perché gli aveva dato una speranza, perché gli aveva detto che c’erano armi da poter usare contro il mostro, bastava tagliargli un corno, dovevano solo capire quale.

Annie avrebbe passato la mattinata con la sua famiglia, i suoi cari, come tutti nel Distretto, pronti a condividere le ultime ore con chi forse non avrebbero rivisto mai più, con chi avrebbe, forse, dovuto uccidere per salvare se stesso.

Ricordava ancora le lacrime di sua madre quando era andata a trovarlo al palazzo di giustizia, le sue raccomandazioni, i suoi baci, i suoi abbracci e quell’amore negli occhi che gli aveva dato la forza di andare avanti, di combattere anche quando non ne aveva più la forza.

Quante madri aveva visto disperate per la morte dei loro figli, quante contente per quelli che gli aveva riportato a casa, ma infondo erano tutti morti.

Quelli consumati dalla morfina o dall’alcool, quelli gettatisi in mare per farla finita, quelli che si portavano sulle spalle il peso delle morti sopportando e logorandosi dentro, e quelli come lui, costretti a soddisfare i piaceri della Capitale.

Tutti morti.

Tutti persi in un tunnel buio che prometteva una luce che non sarebbe mai arrivata a salvarli.

Tutti aspettando un appiglio a cui aggrapparsi anche solo per un poco per scalare il baratro che gli aveva inghiottiti.

E lui l’aveva trovato, e giorno dopo giorno saliva facendosi forza con le braccia per scalare quella parete infinita che da qualche parte lo avrebbe portato, forse.

La Piazza era sgombra dalle bancarelle che di solito la animavano per il mercato, e davanti al Palazzo di Giustizia era stato posto il podio di legno.

Più che un podio a lui era sempre sembrato un patibolo, ma probabilmente la forca sarebbe stata di miglior gusto.

La gente stava già prendendo posto, i ragazzi da una parte, le ragazze dall’altra, e i grandi dietro, a sperare in un miracolo per i figli o gli amici.

La vide davanti ai Pacificatori mentre offriva loro il braccio per il prelievo del sangue e subito dopo raggiungere il suo posto vicino alle altre ragazze.

Sul palco intanto era arrivato il sindaco, Mags, la sua mentore, e Annabelle Silver, la donna che avrebbe accompagnato i Tributi durante il loro soggiorno a Capitol City, poi salì un uomo che non aveva mai visto che si accomodò su una sedia un po’ in disparte.

La tensione era ormai alle stelle, alcune donne avevano già iniziato a mettersi le mani nei capelli, mentre i più grandi cercavano di rassicurarle.

Era questo che voleva Capitol City.

Il grande schermo che era stato posto davanti al Palazzo si accese e partì l’inno e il video sulla guerra e sulla rivolta dei Distretti presentato da Annabelle.

Gli si fermò il cuore, perse un battito e poi due, la donna infilò la mano nella grande urna contenente i nomi delle ragazze.

-Annie Cresta.- trillò per farsi sentire da tutti.

Lo sapeva, era colpa sua, era successo.

Vide Annie camminare fino al palco, l’uomo che non conosceva ghignare sotto i baffi e la mano che gli copriva la bocca.

La parete che stava scalando per essere liberato divenne ad un tratto scivolosa e le sue braccia cedettero lasciando l’appiglio.

Cadeva di nuovo nel baratro.

Aveva preso in considerazione l’eventualità che succedesse, il Presidente Snow aveva trovato il modo per farlo precipitare nel suo buio continuo, la luce si affievoliva man mano che Annie si avvicinava.

Lo guardò negli occhi e lui capii di averla persa.

Il ragno aveva tessuto la tela e la sua farfalla era stata catturata.

 

L’angolo del cranio:

scusate per il capitolo corto e per il ritardo.

Ringrazio tutti quelli che continuano a seguire la storia.

Il nome dell’accompagnatrice ahimè l’ho dovuto inventare su due piedi perché non è accennato in nessun libro della trilogia.

Riuscirà Finnick a salvare la sua farfalla dal ragno che l’ha catturata?

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Capitolo 5
*** Cuore ***


We’re just two lost souls swimming in a fish bowl.

 

L’avvolgerà,

come un filo di lana

nel bozzolo l’avvolgerà,

sapeva, del ragno, la tana?

Ormai, lei, non può più cantare.

Una canzoncina stupida, una filastrocca per bambini, la cantava il Matto, quando passeggiava sul molo la mattina, solo, con la sua barba incolta e le scarpe bucate.

Lui e i suoi amici lo prendevano in giro, gli giravano intorno quando erano piccoli invitandolo a cantare più forte e tirandogli le maniche della giacca lunga e pesante che portava sempre, a ripetere di nuovo il motivetto, e ridevano quando lui iniziava a muovere le braccia nervosamente come se sbattesse un paio di ali.

“Facci vedere le tue ali farfallina” gli gridavano i ragazzi più grandi quando aiutavano i pescatori a portare fuori dalle barche le reti, e lui iniziava la sua danza macabra che più di una volta si era conclusa con un tuffo in acqua.

Gli sembrava di sentirla nelle orecchie, ma si accorse presto che non era solo una sensazione, lui era lì, sotto il palco, che muoveva come in preda a spasmi gli arti superiori cantando la sua canzone.

Non si salverà

la mite farfallina,

nessuno la aiuterà,

il ragno si avvicina?

Non ha più senso aspettare.

Alcuni arrivarono per sottrarlo alla mano dei Pacificatori, nessuno, per loro, doveva rovinare quel giorno, quel momento che veniva ripreso dalla capitale, e un povero vecchio pazzo non dava di certo l’immagine che loro volevano.

La signorina Silver si scusò per l’orribile spettacolo, spettinò i capelli a Annie che era salita e passò all’altra boccia, quella dei ragazzi.

-Steven Williams!-

La folla si aprì lasciando spazio ad un bambino minuto e gracile, che aveva già iniziato a tremare al solo sentire il suo nome pronunciato.

Salì sul palco cercando di nascondere la paura, più per vergogna che per orgoglio, ma subito un altro ragazzo si offrì volontario al suo posto.

La Silver lanciò uno squittio di eccitazione quando vide quello che si stava facendo avanti: spalle larghe fasciate dalla camicia, capelli leggermente scompigliati dal vento che si era alzato, sorriso smagliante, un diciottenne che va al macello per macellare.

Annabelle non fece in tempo a chiedere a Steven se accettava di lasciare quella opportunità che lui si era già fiondato tra le braccia della sorella che lo aspettava in lacrime.

Venne chiesto al nuovo Tributo di presentarsi e lui girandosi verso le telecamere disse il suo nome:

-Marcus Safeport.- tuonò fiero, poi strinse la mano ad Annie come aveva chiesto la Silver e da lì per lui divenne tutto confuso.

 

Il treno li portava veloci verso la capitale.

Tutto si era aspettato tranne quell’atmosfera rilassata che si era creata all’interno del vagone dove si erano radunati per mangiare, Annie mangiava tutto quello che si trovava davanti e sorrideva agli altri, Annabelle si era fatta coinvolgere da quell’atmosfera e continuava a parlare di tutto quello che avrebbero trovato nella sua città, dai bei vestiti, agli accessori più raffinati, avrebbe voluto avvertirla che, i negozi di cui vantava il gusto, non li avrebbero potuti vedere, ma era tutto così ovattato, come dentro a una bella bolla di sapone che si ha paura di rompere.

Mags, lo guardava da sopra il piatto.

Per fare arrivare la settantacinquenne al livello del tavolo lui e Marcus avevano cercato dei libri e dei cuscini da mettere tra la sedia e il fondoschiena della donna.

Non era mai stata una grande altezza, neppure da giovane, così dicevano, ma ci sapeva fare, e oltre l’intelligenza conservava ancora la determinazione che le aveva fatto vincere la sua edizione degli Hunger Games. Aveva capito tutto subito, lei, dalla prima volta che era andato a trovarla dopo che aveva conosciuto Annie, che c’era qualcosa che lo faceva sorridere, che lo faceva distrarre durante la più breve delle conversazioni.

E in quel momento lo scrutava per capire quello che aveva in mente.

“Che farai adesso?” sembrava chiedergli.

“Vogliono tappare le ali alla mia farfalla, ma non glielo permetterò.”

Lei girò lo sguardo su Marcus che sembrava complice in quell’euforia generale muovendo la frutta e facendola parlare, mentre Annabelle lo sgridava per le sue maniere e Annie rideva battendo le mani tra una cucchiaiata di stufato e l’altra, come a fargli entrare in testa la tua presenza.

Chiuse quella conversazione silenziosa rigettandosi nella minestra che aveva davanti, osservando le verdure che galleggiavano nel brodo caldo.

Marcus era grande e grosso, non aveva bisogno di lui, Annie invece sì.

Alzò gli occhi verso lei che guardava rapita il suo compagno che faceva volteggiare due mele passandole da una mano all’altra.

-Dobbiamo iniziare a parlare di strategie, prima ci organizziamo meglio è.- disse mentre gli altri smettevano le loro occupazioni per ascoltarlo.

“Puff” la bolla si ruppe senza portare luccichi dorati, ma solo la triste consapevolezza che quell’attimo era svanito.

Marcus posò le mele e annui serio, Annie si alzò scusandosi, ma quella cena le aveva messo molto sonno.

Annie non sapeva dire le bugie.

 

Il fruscio delle lenzuola accompagnò la sua mano che apriva di scatto la porta del suo scompartimento per coglierla di sorpresa.

Si avvicinò sedendosi sulle coperte.

-Annie, se non volevi parlarne di fronte a Marcus bastava lo dicessi, non credo l’avrebbe presa male, potevamo parlarne domani mattina prima di arrivare, solo tu ed io.-

Perché “noi” faceva troppo male.

Nessuna risposta da quel cumulo di coperte che respirava sempre più velocemente.

Sbuffò per la testardaggine della ragazza.

-Annie, è normale avere paura, anche io ne avevo, lo so che è difficile ammetterlo..- le accarezzò quel poco della testa che spuntava dal nido che si era creata.

-Non è questo Finnick- lo interruppe lei che si tirava a sedere per parlare meglio –non è questo.-

Non tremerà,

ha troppa paura di cadere

sa lei perché non lo fa

non vede la morte incedere?

Non prova neppure a volare.

-Prova a spiegarmi.- disse mentre si allontanava un poco per non farle sentire il tremito che aveva vinto sulla forza delle sue mani al pensiero di non poterla più rivedere.

-Non voglio vincere- sussurrò alla parete più che a lui –non se uccidere è il prezzo che devo pagare.-

Una lama, due, conficcate nel petto, dritte, precise al cuore.

Quanti ne aveva spezzati lui?

Ogni notte un amante diverso, tra le suppliche di restare ancora, e ancora.

“È più bravo di me?” gli mormoravano gli uomini.

“È più bella di me?” urlavano le donne.

Ma non aveva mai sentito il rumore di un cuore spezzarsi, forse perché i gemiti e i sussurri coprivano quel suono, ma lì nel silenzio, cupo, di quello spazio che era solo loro, avvertì perfettamente il suo scheggiarsi, tremare, e rompersi poi definitivamente.

È lento lo spezzarsi di un cuore, si assapora così, come si fa con l’alcool, buttando giù tutto di un colpo si sente di meno bruciare, ma è anche più difficile.

Provò a ingoiare saliva, ma trovò la bocca asciutta.

-Dimmi che scherzi, dimmi che scherzi e chiudiamo questo discorso, adesso, in questo momento.- perché nessuno accetterebbe la propria morte con una tale tranquillità, nemmeno lei.

-No Finnick.-

-E quindi cosa vorresti fare? Morire? Buttarti sulla lancia di qualcuno? Sp..-

-Non voglio uccidere nessuno.- ripeté.

-È normale! Non tutti arrivano là con la consapevolezza di dover uccidere Annie! Poi lo fanno, sei predatore o preda, e ti assicuro che non conviene essere la seconda..- urlò prendendole le spalle come per svegliarla da un brutto sogno.

Sentì una porta non molto lontano aprirsi, le sue urla avevano svegliato qualcuno, ma a lui non importava, non in quel momento, avrebbe gridato fino a svegliare tutta Panem se necessario per aprire gli occhi di Annie.

-Sono un pesce troppo fragile per questa boccia di squali.-

La mangerà, la mangerà

sul far della sera,             

chi lo sa? Lei lo sa

e aspetta sincera

la morte, lenta, arrivare.

 

 

L’angolo del cranio.

Ho cambiato il rating per i capitoli che saranno un po’ violenti, ma lascerò un avviso sopra i suddetti per non creare problemi.

La filastrocca l’ho tirata giù su due piedi, l’idea all’inizio mi piaceva, ma rileggendola non mi convince più molto, ma ho deciso di lasciarla per correttezza verso il mio cervello.

Niente, che altro dirvi, spero che il capitolo vi sia piaciuto, presto pubblicherò l’originale Fantasy, ma non riesco ancora a separarmene, non so perché, vi mando a tutti un abbraccio.

 

cranium

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Capitolo 6
*** Orecchie. ***



Il capitolo sarà più narrativo che introspettivo rispetto agli altri perché devo smaltire molte cose che non sarebbero bastati tre capitoli se avessi ispezionato di più i loro pensieri, dal prossimo rivedremo le “menti” dei protagonisti, soprattutto di Annie.

Il rating è stato cambiato per i capitoli che si svolgeranno nell’Arena che saranno abbastanza violenti e mi sembrava giusto segnalarvelo.

Scusate anche per il ritardo, ma ho avuto il blocco di agosto o qualcosa del genere J

 

We’re just two lost souls swimming in a fish bowl.


                                                                                                                                   

Si risvegliò nel suo letto, non riusciva ad aprire bene l’occhio sinistro che gli doleva.

Tutto era vuoto intorno a lui, perché non sentiva niente?

Avvertì una mano sulla guancia e si costrinse a stringerla per aggrapparsi a quel calore tanto familiare.

-Annie.- borbottò.

“Annie è morta” si disse e il dolore di quella consapevolezza colpì il ventre, non una, ma cento volte, un incubo continuo che lo avrebbe accompagnato tutta la vita.

Annie era morta e l’aveva uccisa lui, sentiva ancora tre le dita il sangue di lei che non si era seccato e sulle labbra il sapore ferroso di quello.

Lasciò la presa sulla mano e si abbandonò di nuovo al sonno.

-Finnick non addormentarti, arriveremo tra qualche ora e devono ancora sistemarti il labbro e l’occhio prima che le tue signore ti vedano.-

Tutto finalmente si fece chiaro, Annie e Mags lo guardavano sedute sul letto, il sangue che sentiva in bocca era il suo: Marcus doveva avergli tirato un pugno o due la sera prima per calmarlo.

-Non sei morta.- biascicò mentre l’anziana donna usciva dalla stanza per lasciarli soli.

-Non ancora.- rispose lei abbassando lo sguardo.

E il dolore lo colpì di nuovo, ma lui in fretta lo trasformò in rabbia, perché così tutto è più facile da gestire.

-Mi vuoi lasciare da solo? Di nuovo? Dopo tutto quello che ho passato… credevo ti importasse un po’ di me!-

-Cosa vorresti che faccia? Uccidere per poi vivere sapendo di averlo fatto? Di essere un’assassina? Mi dispiace, non riuscirei a sopportarlo.-

Qual è il confine tra il poter ignorare un fatto e l’ammettere a se stessi che una cosa accadrà, ma che non potremo fare niente per ciò?

È labile come quello tra una carezza e uno schiaffo, ma in quel momento a lui sembrava tutto il contrario, si raddrizzò a sedere e con un braccio l’avvicinò stringendola.

-Ti prego, Annie posso procurati tutti gli sponsor che ti servono, non ti mancherà nulla.-

-Fai vincere Marcus- gli respirò sul collo –è un bravo ragazzo.-

 

Non riusciva a credere alle parole che Annie gli aveva detto la sera precedente, ma le sue orecchie non mentivano, ed erano anche rimaste vigili tutto il giorno per aspettare una resa di lei che si sarebbe fatta aiutare per vincere i giochi, che non lo avrebbe lasciato solo, ma quelle parole non arrivarono.

 

Dovevano dare nell’occhio è vero, ma forse “il troppo stroppia” come si dice.

Marcus era praticamente nudo se non si contava lo slip minuto di un grigio sasso ricoperto da piccole conchiglie che lo facevano sembrare uno scoglio, e per la scia di brillantini azzurri sul petto, la schiena e le gambe.

Annie  era vestita come il compagno se non per le due stelle marine sul seno che lei tentava di staccare con tutta la forza.

-Se vuoi ti aiuto io!- aveva ghignato il Tributo maschile del Distretto 1 che si stava godendo lo spettacolino e lei credendo, ingenua, che il ragazzo la stesse sul serio sostenendo nella sua lotta contro quei demoni colorati era scesa dalla biga che sarebbe partita senza di lei se Finnick non avesse avuto la prontezza di rimetterla di peso sul carro.

-Sorridete!- Mags gridò loro le ultime raccomandazioni, ma non ce ne era bisogno: Marcus era determinato a vincere e sapeva come ottenere consensi dalla gente, se non fosse bastato il suo aspetto fisico, e Annie non aveva mai visto tanta gente tutta assieme e sorrideva sincera a tutti.

Avevano riscosso abbastanza successo e dopo che la stilista di Annie ebbe aiutato la ragazza a tornare in panni normali salirono verso il quarto piano del Centro di Addestramento, quello che era stato loro designato.

La mattina successiva iniziarono gli addestramenti e per quanto Finnick si sforzasse di convincere Annie a provare almeno qualcosa riuscì a strapparle solo la promessa che avrebbe provato a resistere il più possibile nell’Arena e per questo avrebbe imparato a salire sugli alberi.

Era una vittoria a metà quella di Finnick, avrebbe avuto una minima speranza che lei potesse vincere, e si sarebbe aggrappato a quella il più possibile per non cadere, quello che sarebbe successo dopo al momento non aveva importanza.

 

Probabilmente la cosa che la spaventò di più durante tutte le sessioni di addestramento fu la cattiveria dei ragazzi di alcuni distretti, che, oltre a essere il doppio di lei per altezza e muscolatura sembravano intenzionati a squartare con violenza tutti i manichini del centro.

Lei dopo aver fatto gli esercizi obbligatori puntò a quello che le interessava: sul lato della grande sala un largo palo che simulava un alto albero*, l’istruttrice era simpatica e professionale e solo dopo due tentativi era riuscita a salire fino in cima destando un fischio di approvazione da Marcus che la guardava dalla vicina postazione delle lance.

Il resto della mattinata lo passò ad osservare gli altri.

La maggior parte dei tributi aveva meno anni dei suoi, tre non superavano i tredici, e avevano l’atteggiamento di quelli che non avrebbero superato il bagno di sangue iniziale, c’erano fratello e sorella dell’8 che non si sapeva con che forza si alzassero la mattina con la consapevolezza di non poter tornare entrambi a casa, il tipico magrolino con occhiali da sistemare ogni due minuti del 3 e tanti altri che potevano passare inosservati, ma quella che la colpì di più fu la bellezza della ragazza del 5, due grandi occhi e una folta bionda chioma che le cingeva la vita, una bellezza oggettiva, forse, se anche lei fosse stata così Finnick l’avrebbe guardata diversamente.

Ma poi che importava se tanto, qualche settima al massimo dopo, di lei non sarebbe rimasto che il corpo martoriato in una triste bara?

 

A pranzo il suo compagno la invitò a sedersi con lui e quello che era già diventato il gruppo dei Favoriti, piuttosto assortiti a dire la verità.

Il ragazzo dell’1 si chiamava Gold, alto quasi come Marcus, e con un carattere da leader, Wood il ragazzo del 7 era riuscito ad entrare nel gruppo  probabilmente per il timore che incuteva non solo il suo fisico, ma anche il suo sguardo parecchio minaccioso, il ragazzo del 2 e le altre ragazze erano piuttosto silenziosi tutto al contrario di Annie che cercava di convincere tutti che il pane del suo distretto era il migliore di tutti.

-Dovresti assaggiarlo- continuava ad intimare a  Wood che la guardava come se fosse di un altro pianeta –non sai che ti perdi.- continuava dopo aver aspettato inutilmente un qualsiasi gesto da parte del ragazzo.

E via ancora con discorsi sconclusionati, senza inizio o fine, tra un boccone e un altro, stralci di conversazioni affogate nel tacchino o nella crostata.

-Questa piacerebbe tanto a Mags.- si entusiasmava dopo il primo morso al dolce.

-Stamattina avevo ancora dei brillantini tra i capelli.-

-Perché siamo vestiti tutti uguali?-

Marcus continuava a sorriderle, ma gli altri non la ritenevano altrettanto divertente.

Era troppo tranquilla, troppo aperta, troppo sicura di se da non aver quasi toccato neppure un’arma durante tutta la giornata: quella ragazza poteva rivelarsi un nemico ostico.

Non sapevano quanto torto c’era in quelle supposizioni.

 

Fu un susseguirsi di allenamenti fino al pomeriggio della prova.

Poteva aspettarsi di tutto lei, ma non di certo la figura minuta, ma allo stesso tempo minacciosa di Snow che la fissava seduto con gli altri strateghi, come neppure il suo 8 guadagnato solo salendo su quell’albero finto.

Le cose per lei non erano collegate da alcun nesso, da alcuna spiegazione, ma per Finnick sì.

L’intervista fu meno tragica di quello che lui pensasse, il buon voto nell’addestramento le era valso molti complimenti da parte di Caesar Flickerman che fu molto paziente con lei, e lei si dilungò su quanto tutti fossero stati gentili , su come fosse delizioso il cibo e i vestiti delle signore e l’intervistatore le ricordò che se avesse vinto avrebbe potuto comprare tutti gli abiti che voleva, e proprio lì dove Finnick si aspettava un cedimento della ragazza e una dichiarazione sulla sua decisione di non uccidere nessuno, Annie gestì bene i suoi sentimenti e chiese a lui se avesse visto in giro una giacca con le pinne.

 

Per quanto potesse sembrare ferrea e convinta delle sua decisioni quella sera, l’ultima sera, sembrava più spaventata e titubante che mai sul domani.

Avrebbe perso comunque, lo sapeva, non avrebbe potuto competere con la prestanza fisica dei concorrenti favoriti, ma poteva provare a lottare invece che arrendersi e non combattere per principio, poteva entrare nei favoriti che le avevano già chiesto di unirsi a loro, poteva accettare l’aiuto di Finnick che non smetteva di fissarla, ma le uniche parole che le uscirono dalla bocca furono:

-Non lasciarmi sola stanotte.-

 

 

*non credo che un albero finto faccia parte dell’addestramento però a me serviva e allora l’ho inserito.

-Gold, Marcus, Wood e gli altri sono personaggi che, visto che Suzanne Collins non ha parlato nei suoi libri dell’edizione di Annie (tranne per il ragazzo decapitato e per la pazzia della ragazza scaturita dopo i suoi Hunger Games), ho dovuto aggiungere.


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Capitolo 7
*** Piedi. ***


We’re just two lost souls swimming in a fish bowl.

 

Paura, l’aria ne era intrisa, così tanto da risultare soffocante, o forse era lei che non riusciva a respirare.

Sessanta secondi ancora e poi avrebbe dovuto correre come non aveva mai fatto.

Facile, ma non era sicura che le gambe riuscissero a reggerla.

Marcus non era distante da lei, e ostentava una sicurezza da far invidia, sembrava solo aspettare il colpo di cannone per scattare mentre lei sarebbe rimasta impietrita aspettando di finire i suoi minuti.

Quaranta secondi.

Forse la morte è solo un vento freddo che ti porta via, lontano dai turbamenti e dai pensieri, ma la sua morte non sarebbe stata veloce.

Lo spettacolo è pur sempre spettacolo, e un agonia lunga fa audience come poco sa fare, tiene la gente incollata alle televisioni e ai maxischermi come bambini davanti a una torta.

Il suo fratellino avrebbe certo chiesto come mai sua sorella era finita in tivù, troppo piccolo per capire o forse troppo furbo per farlo.

Trenta secondi.

L’impulso di mettere un piede avanti e chiudere gli occhi era forte, morire su una mina, un attimo e il buio l’avrebbe accolta come un padre tra le braccia, ma la promessa a Finnick di rimanere in vita il più possibile bruciava come bruciavano i baci e le carezze della sera precedente.

L’insistenza con la quale il terreno sembrava chiamarla era un invito piacevole che non doveva prendere in considerazione per qualsiasi ragione al mondo.

Venti secondi.

Intorno a lei tutto fremeva, i Tributi, l’acqua di un timido ruscello che scorreva in un letto troppo grande per lui, e anche la cornucopia che rifletteva i raggi del mattino, invitante.

Tutti erano pronti.

Lei lo era?

Dieci secondi.

Il tempo per verificarlo non era sufficiente.

Affidarsi a un istinto primordiale come la conservazione era la scelta più ovvia e anche la più facile

Un colpo di cannone.

Lasciò che i suoi piedi facessero tutto, decidessero la sua sorte, e capii di amarsi troppo, di amare troppo la vita per perderla così facilmente.

Corse, prese uno zaino e la direzione opposta a quella di tutti; se puntavano al lago, le sarebbe andata alla sorgente.

I primi alberi erano vicini, si fiondò sul primo non preoccupandosi di essere vista, di essere troppo prossima al fuoco, al pericolo, ma era un bisogno viscerale quello che sentiva: girarsi verso la cornucopia per vedere che andava tutto bene, che non era successo nulla.

Ma l’aria intorno era come rossa, il sangue che impregnava l’erba a poco più di un chilometro da dove si trovava, nascosta dalle fronde, era fresco come lei, troppo giovane e innocente per partecipare a un massacro.

La cornucopia sembrava bearsi del sangue versato tanto da rifletterne e accentuarne il colore cosicché anche lei poteva capacitarsene.

Un groppo alla gola e uno al cuore.

Quanti ragazzi erano già stati uccisi?

La risposta non si sarebbe fatta troppo attendere.

 

I fiori appassiscono, e le farfalle hanno vita breve, troppo breve.

Recidono il bozzolo, spiccano il primo volo, muoiono non molto tempo dopo.

Marcus non era mai stato una farfalla, lo sapeva.

Era un bruco ed era consapevole di questo, e la sua condizione gli era sempre bastata.

Per essere un bruco era dannatamente sexy, o almeno le ragazze che parlottavano tra loro al suo passaggio sembravano dire quello e lui non aveva fatto altro che convincersene ogni giorno di più.

Non era un ragazzo superficiale, per quanto i suoi diciotto anni gli permettevano di non esserlo, aveva un cervello parecchio acuto e una testa di capelli niente male.

Anche Annie era bella, aveva visto di meglio certo, ma aveva quel qualcosa in più che la rendeva desiderabile, o almeno agli occhi del suo mentore lo era.

Non lo sarebbe stata ancora per molto, perché a quanto aveva capito non aveva intenzione di far altro che nascondersi tutto il tempo il che prevedeva che non sarebbe sopravvissuta a quell’inferno.

Era una ragazza simpatica infondo, magari se avesse avuto l’occasione di conoscerla meglio le sarebbe anche piaciuta, ma erano finiti entrambi in bocca al lupo sicché.

Il fuoco sfumava i contorni dei compagni seduti intorno ad esso o forse erano gli omicidi appena commessi a non permettergli di delinearne i volti; aveva paura forse di vedere come la morte gli aveva cambiati?

O più di non riconoscere se stesso?

Si allontanò senza dare spiegazioni per dirigersi al corso d’acqua, si sciacquò il viso per poi riflettersi sulla superficie increspata.

No, non era cambiato.

E allora cosa lo turbava?

-È legale?- il suono basso della voce di Wood interruppe il suo flusso di pensieri e lo fece riavvicinare al gruppo.

-Cosa vuoi!- rispose con uno squittio la ragazza dell’1 che da svariati minuti intrecciava le ciocche delle due ragazze che aveva ucciso.

-È piuttosto inquietante sai? Non credo che gli sponsor apprezzeranno questo tuo comportamento… meglio che ti facciamo fuori subito…-

-Attento sai- si gettò al suo collo brandendo un coltello –io se fossi in te non sarei così sicuro di me, sei solo un sudicio taglialegna!-

-Piantala Cherie- la ammonii Gold che continuava a girare intorno alle provviste come per assicurarsi di non aver perso nulla –credo che ci convenga prendere tutto il possibile e bruciare il resto, non mi va di aspettare gli altri Tributi qua, cerchiamoli, uccidiamoli, e poi vedremo.-

-Non sarebbe meglio lasciare qualcuno a controllare la roba? È uno spreco inutile bruciarla.- ribatté la ragazza.

-Paura dell’azione cara?- la schernì Wood.

-Zitto sta per partire l’inno.- sviò la domanda del ragazzo.

Il sigillo di Capitol City illuminò il cielo della sera, dieci volti come unico ricordo dei ragazzi morti.

Il tributo femmina del 2 che non era stata accettata tra i favoriti.

La ragazza del 3.

Il ragazzo storpio del cinque.

La giovane del 6.

Entrambi i tributi del 9 e del 10.

Il tributo maschio dell’undici e quello che dodici.

Ma quella notte il conto sarebbe cambiato.

Gli svegliò un colpo di cannone, quella mattina, un risveglio macabro che sapeva di morte.

A pochi metri da loro il ventre di Cherie era squartato, gli organi interni lacerati, le sue mani e i piedi legate e la bocca tappata con la treccia a cui stava lavorando la notte precedente.

Doveva esser stata un’agonia non tanto lunga quanto dolorosa, gli occhi ancora aperti in un grido che era soffocato dalla bocca, era morta guardando loro dormire.

Era il suo il primo turno di guardia, e il successivo era quello di Wood, come se ci potessero essere dubbi sull’assassino: la ferita sulla pancia era perfettamente riconducibile all’accetta del tributo.

L’odore di sangue, bile e vomito era acuto, ma non quanto quello della paura.

“Nessuno è al sicuro” sembrava gridare una voce.

“Nemmeno voi.”

 

 

L’angolo del cranio.

Yeah! Capitolo cortissimo lo so -.-“.

L’ho reso meno crudo possibile togliendo vari/molti dettagli che nella mia mente si erano formati (stanotte non dormirò xD) e devo dire che quando l’ho riletto mi è sembrato che non facesse tanto schifo l’ultima parte.

Il prossimo però non sarà così –lettore avvisato-.

A presto, si spera.

cranium

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Capitolo 8
*** Testa. ***


We’re just two lost souls swimming in a fish bowl.

Ci vuole testa per certe cose.

Finnick lo sapeva bene, e per quanto potesse sembrare un ragazzo ironico , un poco superficiale e pieno di se, era convinto di essere una persona parecchio razionale e intelligente per i suoi diciannove anni.

E non solo perché aveva scelto la salvezza delle persone che amava e di perdere se stesso in una dannazione imperitura e marcia, ma perché non avrebbe esitato a farlo altre cento volte.

Aveva sempre avuto la possibilità di scegliere e il tempo per calcolare ogni pro e ogni contro di tutto quello che gli era stato proposto e aveva sempre valutato.

Ma non tutti avevano avuto la sua fortuna/sfortuna, quello che una volta era stato il suo eroe, il modello da seguire, così giovane, bello e vigoroso era diventato l’ombra ubriaca di quello che era stato.

Non era ancora nato lui quando Haymitch Abernathy aveva vinto l’Edizione della memoria nel cinquantesimo anno dalla rivolta dei distretti, ma aveva visto almeno per i primi anni della sua vita grandiosi repliche televisive degli Hunger Games di quell’anno.

Aveva perso tutto quell’uomo: la famiglia, la ragazza e tutto perché aveva intuito il funzionamento del campo di forza intorno all’Arena, solo perché il destino o la fortuna gli avevano stretto la mano in quel momento, ma la Capitale non voleva lui come vincitore, non doveva finire così per loro.

Il primo ricordo di Finnick da Vincitore dopo la cerimonia di premiazione era indissolubilmente a quell’uomo.

Aveva un bisogno impellente e la vescica sembrava scoppiare e dopo aver ricevuto le congratulazione da tutti i mentori degli altri distretti si era avviato verso l’ascensore per raggiungere le sue stanze, ma un braccio robusto aveva fermato la chiusura della porta meccanica e il mentore del 12 era entrato con lui premendo tutti i tasti della console.

-Tu- aveva detto semplicemente indicandolo con l’indice grassoccio –sai quello che ti aspetta?-

Intendeva i soldi, la fama e la gloria? Glielo avevano ripetuto tutti migliaia di volte e non si fece cogliere impreparato.

-Certo signore.- rispose con un sorriso.

L’uomo si girò dall’altra parte facendo passare una mano tra i capelli.

-Povero sciocco.-

-Come signore?-

Haymitch scattò verso di lui e con una forza che il ragazzo credeva non avesse lo costrinse con le spalle contro la parete dell’ascensore.

-“Certo signore”- lo scimmiottò –tu non sai nulla, nulla!- gli urlò a qualche centimetro dal viso.

-Perderai tutto come ho perso tutto io.-

Sapeva di disperazione Haymitch, di alcool e ancora di disperazione.

Finnick sapeva di lavanda e urina, si era spaventato e se l’era fatta sotto come un bambino.

L’ascensore si era fermato e il senza voce che attendeva nell’atrio del 12 piano fece cadere la bottiglia che aveva in mano per la sorpresa e il rumore fece allontanare il mentore dal ragazzo.

-Pulisci per favore.- gli disse e lo sorpassò per andare verso le sue stanze.

Pianse Finnick quella sera, e neppure Mags riuscì a calmarlo.

Adesso era lì, nella sua stessa sala, a guardare i suoi tributi cadere inesorabilmente tra un goccio di whisky e un altro, cercando un modo per anestetizzare tutto, per addormentare la ragione.

Se all’inizio gli faceva rabbia e disgusto, ora gli faceva solo una gran pena.

Perché lo capiva.

Anche lui da lì a poco avrebbe perso tutto.

 

Il bosco era fitto in quella parte dell’Arena e non riusciva a vedere molto.

Si teneva il più lontano possibile dal corso d’acqua per non incappare in qualcuno giunto per dissetarsi, ma aveva la gola secca e la mente un po’ annebbiata dalla sete.

Per il cibo era riuscita ad arrangiarsi per i primi giorni con i pesci trovati al di là dalla diga a monte, ma poi le frequenti scosse del terreno l’avevano fatta desistere dal rimanere in quel luogo, successivamente aveva provato a cacciare e a cercare dei frutti commestibili e non se la cavava poi così male e aveva ancora un po’ di cibo nello zaino, ma l’acqua era ciò che le mancava al momento.

La paura si fece pian piano più lieve e la testa le disse che non c’era altra soluzione che avvicinarsi al letto del torrente.

Faceva fatica a districarsi tra gli alberi e i rovi lei che era nata e cresciuta sulla spiaggia immensa e tra le onde di un mare sconfinato, ma ai graffi degli arbusti sulla carne ci si abitua, al terrore che dietro un qualsiasi contro ci sia qualcuno pronto a toglierti la vita in un secondo proprio no.

Sentiva lo scorrere del fiume a poca distanza e un tiepido sorriso le illuminò il volto, come la sera precedente quando aveva preso una decisione che le avrebbe potuto cambiare la vita.

Erano rimasti in pochi ormai, lei, solo tre dei cinque favoriti iniziali, la ragazza bella del cinque, quello del tre, e i due fratelli dell’otto, e in più si era fatto vivo un altro concorrente: la sua voglia di vivere, che fino a quel momento era rimasta acquattata in un angolo tra il cuore e la coscienza, ma che in quel momento ruggiva come una fiera.

Si sarebbe difesa, non si sarebbe lasciata andare tanto facilmente.

Il ruscello gorgheggiava a nemmeno venti metri da lei, ma decise di rimanere ancora un poco nascosta tra le fronde.

Qualcuno fu più veloce di lei e si avvicinò ansante alla riva del torrente con in mano una buffa scatoletta dalla quale srotolò un lungo filo metallico.

“Tenta di pescare con la corrente” pensò con una smorfia Annie, se non fossero stati nemici gliel’avrebbe insegnato lei come si pesca, altro che elettricità!

Anche se avesse funzionato, il fiume se li sarebbe portati via prima che quel ragazzo tanto impacciato fosse riuscito ad afferrarli.

Sembrava innocuo quel filo di rame, tanto da non rappresentare un pericolo neppure per i pesci del fiume, quei morsetti troppo inoffensivi e quella scatola troppo piccola, ma vide un primo pesce venire a galla per essere preso velocemente, un secondo, un terzo e un quarto e intanto in lei la sete cresceva con la nostalgia di casa, di sua madre, di suo fratello e l’odore del pesce arrostito poco dopo aumentò  la malinconia.

Si sistemò su un albero spiluccando quel che restava della coscia di un uccello che aveva catturato il giorno prima guardando le gambe secche del ragazzo intento a spegnere il fuoco, ma oramai era troppo tardi e il fumo aveva attirato l’attenzione di qualcuno che si faceva largo nel bosco dietro di lei.

Voleva urlargli di scappare, di correre perché stavano arrivando, ma si sarebbe compromessa, avrebbe rivelato la sua posizione.

Prese un frutto tondo e secco che pendeva da un ramo vicino a lei e lo tirò diretto alla schiena del ragazzo che si voltò di soprassalto per vedere cosa stava succedendo.

La notò che dall’albero gli faceva segno di fuggire, ma venne atterrato da un corpo forte e pesante.

-Bel colpo!- gridò qualcuno non molto distante.

Gold e Wood passarono sotto il suo ramo e lei si fece piccolissima, il più minuscolo possibile per non essere notata e le andò bene.

-Il rachitico del 3, pensavo una preda un po’ più consistente Marcus!- fece il primo.

-Siamo rimasti in otto, adesso ognuno è una grossa preda, persino braccia secche.-

Wood rise di gusto mentre tra le fronde Annie rimaneva basita dell’atteggiamento del compagno di distretto… era cambiato davvero così tanto Marcus?

-E così ti sei procurato da vivere con questo arnese è?- il biondo dell’1 si rigirò la scatoletta tra le mani –Che ne dici se proviamo ad usarlo su di te?-

Il ragazzo si dimenò, ma non riuscì a sottrarsi alla presa.

Si lasciò sfuggire un gemito di dolore quando Marcus strinse di più le braccia intorno alle sue spalle, alzò lo sguardo per incontrare il suo: un pesce in una rete che cerca di liberarsi, gli occhi della preda davanti al cacciatore, l’istinto di sopravvivenza che grida, graffia e ti costringe ad andare contro ogni morale, ogni etica, l’ultima spiaggia nelle pupille troppo dilatate.

-È là!- gridò indicandola e facendola scoprire, neppure fosse lei il fine ultimo della caccia, la selvaggina per cui il predatore lascerebbe andare ogni altra.

Marcus allentò la presa su di lui per la sorpresa e il tributo tentò di scappare, ma venne buttato a terra da un calcio di Gold che al contrario degli altri due era rimasto vigile nei suoi confronti.

-Pensateci voi a lui, mi occupo io di lei.- urlò Wood che si era lanciato all’inseguimento di Annie, la quale dopo un primo attimo di esitazione si era gettata giù dal suo ramo per scappare.

Le ultime cose che sentì furono le parole di quelli rimasti sulla riva del fiume:

-Perché non ci divertiamo anche noi con il tuo giocattolino?- e poi le urla del ragazzo rese ovattate dal bosco, dalla lontananza e dalla paura.

 

Correva a perdifiato da molto a giudicare dal fiatone e dalle gambe che iniziavano a dolerle.

Nuotava più o meno da quando l’avevano messa al mondo e aveva una resistenza che un taglialegna come Wood si poteva solo sognare e per questo non capiva come non riuscisse a seminarlo.

Sentiva il suo fiato sul collo, l’avrebbe raggiunta e l’avrebbe fatta fuori.

Il terreno si fece più ripido e scosceso, non aveva il coraggio di voltarsi per constatare il reale distacco tra lei e il suo inseguitore, ma era convinta che non fosse così ampio da potersi permettere di rallentare.

Cosa stava facendo sua madre? Allontanava suo fratello dalla televisione alla quale era incollato da dieci giorni o piangeva insieme a suo padre?

E per chi tifava la gente? Per Wood sicuramente, il sadico, quello matto, l’assassino.

Chi avrebbe scommesso contro la sua vittoria? Solo un pazzo, un ingenuo.

Si trovò fuori dal bosco, che si faceva troppo fitto e impraticabile, per seguire il corso del fiume che aveva ritrovato, ma era secco e più largo rispetto a quello precedente, doveva essere un altro torrente.

-Ti prendo pesciolino.- una voce non troppo lontana da lei la spinse a obbligare i suoi muscoli a uno sforzo ulteriore.

Prima o poi sarebbero giunti ad un confronto frontale se lui non avesse desistito, e visto che la seconda ipotesi era davvero poco probabile, prese in mano il coltello che aveva assicurato alla cintura prima di lasciare tutto sull’albero, ma non smise di correre neppure per un secondo.

Cosa avrebbe potuto una così piccola arma contro l’accetta affilata dell’avversario?

La salita lasciò il posto all’ampia diga che Annie aveva trovato qualche giorno prima.

“Perfetto” pensò riflettendo su quello che aveva sotto i piedi.

Si voltò per vedere quanto Wood fosse distante e constatò di avere un vantaggio discreto che le avrebbe permesso di spogliarsi e di nascondere velocemente i vestiti in un anfratto delle rocce.

Si tuffò e per lei fu come tornare in vita di nuovo dopo tutto quel tempo.

Non importava che l’acqua fosse gelida tanto da mozzarle il respiro o che sotto di lei potesse celarsi un qualche ibrido creato dagli Strateghi, l’importante era che poteva nuotare e questo le avrebbe dato una marcia in più.

-Torna qui puttana!- Wood non era nemmeno entrato.

-Perché non vieni tu qui?-

Era una spavalderia che non aveva mai avuto, la coscienza di non essere morta o in procinto di esserlo, la voglia di non essere più fragile.

 

Nemmeno il contatto con i vestiti asciutti riuscì a darle sollievo dai brividi che le percorrevano il corpo.

Doveva andarsene di lì al più presto, se fossero tornati tutti e tre non l’avrebbe scampata.

Aveva perso l’orientamento a causa di quella corsa e non sapeva come fare per tornare all’albero dove aveva lasciato tutta la sua roba.

L’unica cosa buona era che la sete non la tormentava più, al suo posto però era arrivata la fame e la consapevolezza di non poter neppure prendere qualche pesce perché non avrebbe potuto cucinarli lì senza fuoco.

Ormai era sera e l’arrivo del buio non l’avrebbe di certo aiutata e scaldata.

Avvertì un suono metallico e argentino vicino a lei e sobbalzò portando l’arma vicino al viso per difendersi, ma la riabbassò quando vide il paracadute tra i rametti di un cespuglio di more.

Dentro tre panini caldi e quattro fiammiferi e un biglietto: “Continua così. F”

Accese un fuocherello infischiandosene del fumo e del pericolo di farsi trovare, asciugò la pelle e i capelli, raccolse le more dal rovo e ne mangiò a volontà insieme a tutti e tre i panini: non avendo dove metterli sarebbe stato sciocco sprecarli.

 

Il mattino dopo la svegliò il cigolare ritmico di corda e due colpi secchi di cannone.

Portò le mani agli occhi per costringersi a non guardare, ma l’immagine si era stampata già indelebile nella sua testa.

Da due rami di un albero vicino a quello che aveva scelto per la notte penzolavano i corpi inermi dei due biondi fratelli del distretto 8, i colli stretti nei morsi delle corde e i volti rilassati in quella che forse era un’espressione di tacito sollievo.

Erano magri e le braccia scarne ciondolavano al ritmo del vento che imperversò d’un tratto nell’Arena.

La terra si sollevò e le entrò nella bocca e per un poco non riuscì a respirare.

Un Hovercraft stava calando le sue braccia meccaniche per agguantare i due tributi morti anche se lei era nei paraggi: i suicidi non erano ammessi dal gioco, troppo scandalo, poco audience e tanti problemi in più.

Annie corse via.

Se non ce l’avevano fatta loro a resistere probabilmente non ce l’avrebbe fatta neppure lei.

 

Erano rimasti in quattro oramai poiché, il giorno precedente, aveva trovato la ragazza del 5 morta al fiume che era diventato vermiglio a causa del sangue della ragazza.

Non aveva rivisto in lei quella bellezza che l’aveva colpita al centro di addestramento: i bei capelli biondi erano imbrattati di terra e sporchi, il fisico tonico ridotto ad uno scheletro, la bella bocca carnosa contratta in un’espressione di angoscia.

Adesso toccava a lei, uno contro tre perché non si erano ancora divisi loro, la cercavano insieme come cani una volpe, tranne che lei di una volpe non aveva niente se non la paura.

Volevano concludere tutti, Capitol City e gli altri tributi.

Ora toccava a lei decidere se la sua vita valeva la pena di essere vissuta.

Se aveva ancora qualcosa per cui lottare e uscire dall’inferno.

Ma dall’inferno non ci si esce mai, neppure da Vincitori.

Finnick era racchiuso in un girone profondo di lussuria, invidia, inganni e gelosia, e le diceva sempre che lei era il suo angelo venuto a tirarlo fuori.

Ma chi avrebbe tirato fuori lei?

A quanti diavoli avrebbe dovuto vendere l’anima?

A nessuno probabilmente se non fosse uscita viva di lì.

Forse Marcus avrebbe vinto e avrebbe portato un po’ di soldi al distretto.

Forse alla vista di tutto quel ben di dio suo fratello avrebbe smesso di piangere.

Forse avrebbe trovato anche lui un angelo.

La fame la richiamava dai suoi pensieri come uno spettro che non lascia dormire.

Tutta la frutta dell’Arena era maturata e marcita nel giro di poche ore e di animali non se ne vedeva traccia.

Tutto si sarebbe concluso in quel pomeriggio.

Una corda le si strinse contro le caviglie in un istante, il tempo di rimanere sbigottita e si ritrovò a penzolare a testa in giù come un salame.

-L’abbiamo presa!- gridò qualcuno che riconobbe come Gold.

Poco dopo cadde rovinosamente facendosi male alla schiena e alla testa.

-Portiamola alla cornucopia, voglio che tutti vedano nel modo migliore!-

Un grugnito di rabbia uscì dalla sua bocca prima che un calcio di Wood la zittisse.

-Non dovevi farmi arrabbiare pesciolino.- le sussurrò avvicinandosi a terra per poi prendere quello che restava della corda per trascinarla come un animale fuori dal bosco.

 

Neppure il vento sembrava voler turbare un momento così idilliaco, anche il Presidente Snow voleva godersi la sua vittoria e sembrava aver ordinato a tutto di tacere.

Annie era rassegnata, Wood talmente contento da concedersi di saltellare allegramente compromettendo la sua immagine di duro, ma non quella di matto.

Le aveva liberato le gambe, perché voleva vederla divincolarsi e soccombere, ma lei era rimasta impassibile.

-Fai alla svelta.- Marcus intimò il ragazzo del 7.

“Spero che vinca tu Marcus, perché se non ci fossimo trovati in questo posto saresti stato un ottimo amico, perché so di starti simpatica e di farti pena, perché sapevi che Finnick era venuto a dormire con me e non hai fatto la spia, perché sai che morirò e questo un po’ ti dispiace.”

-Mi ha preso in giro questa lurida! Merita di pagarla!-

-Fai quello che credi basta che sia un lavoro veloce.-

-Tanto prima o poi avrei dovuto farlo.- mugugnò Wood tra le labbra e con un movimento veloce tranciò di netto la testa di Marcus.

Ci vuole testa per certe cose e Marcus aveva appena perso la sua.

E con la sua se ne era andata anche quella di Annie.

La ragazza iniziò ad urlare e dimenarsi come un ossessa.

Qualcosa si ruppe dentro di lei.

Qualcosa si ruppe dentro l’Arena.

Un attimo ancora di silenzio e poi tutto il fragore crudele dell’acqua impetuosa che scorre.

 

NdA: non ho mai scritto un capitolo così lungo in questa Fanfiction, ma è il penultimo e necessitava di qualche parola in più.

Un enorme grazie a chi mi continua a seguire nonostante i miei ritardi.

Visto che questa mia storia si avvia alla conclusione ho deciso che probabilmente scriverò un’altra Finnick/Annie molto diversa da questa, ma amo questa coppia e non ne posso fare a meno, e anche un’altra su una coppia un po’ più particolare che però inizia ad interessarmi.

A presto ghiandaie!

cranium

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Capitolo 9
*** Gambe. ***


WE ARE ONLY TWO LOST SOULS SWIMMING IN A FISH BOWL.

ATTENZIONE: come l’autrice del libro ci ha fatto notare (credo nel terzo libro) Annie ha perso il senno in seguito alla decapitazione del suo compagno di Distretto.

Marcus è un personaggio di mia invenzione come il taglialegna Wood, però spero di aver fatto trasparire nei capitoli precedenti se non l’affetto, almeno il legame che un po’ univa lei a lui e quindi non aspettatevi una Annie completamente in sé.

Tanto vale che finisco di dire quello che volevo dirvi qua invece di ricorrere alle ndA: questo sarà l’ultimo capitolo e voglio ringraziare tutti voi.

Sono davvero contenta di questa storia, ci ho messo molto di me dentro ed è stata un’avventura piena di alti e bassi, di ritardi e scempi, però sono davvero felice di quello che è venuto fuori.

Ho intenzione di scrivere un’altra Finnick/Annie (forse One-Shot) perché è un pairing che amo.

Grazie mille ancora.

 

 

Un colpo di cannone.

Due colpi di cannone.

Come le campane sulle barche al Distretto, che suonavano per i pescatori che erano morti.

Suonavano a festa, metalliche, perché lo spirito degli uomini si congiungeva al mare come lo faceva la cenere.

Anche per suo nonno avevano suonato, probabilmente lo avrebbero fatto anche con Marcus, perché, laggiù al Distretto, chiunque lo conoscesse gli voleva bene.

Forse in quel momento stavano suonando per lei o, il martellare ritmico , era solo la pressione dell’acqua che le premeva sulla testa e che la trascinava giù, sempre più affondo.

Doveva essere un bello spettacolo visto da u maxi schermo posto in una piazza, con i bei capelli lunghi che fluttuavano intorno a lei come i serpenti di una Medusa mitologica, l’ultimo segno di vita di un corpo disposto e pronto a cedere alle lusinghe di un oblio voluto.

Aveva promesso che avrebbe cercato di rimanere in vita, ma non aveva le forze per combattere o resistere.

Eppure le gambe sembravano lottare contro lo stallo della testa.

E si mossero, guidate da un qualche istinto di sopravvivenza che non riusciva a capire da dove venisse.

Nuotò contro il peso dell’acqua, nuotò fino a riemergere in superficie e annaspare riempiendo i polmoni.

Intorno a lei non c’era nulla: della piana che prima aveva ospitato l’Arena rimaneva solo una distesa immensa di acqua, nulla a cui aggrappare il corpo stanco che cercava un sostegno.

Cercò di galleggiare sul pelo dell’acqua come le aveva insegnato sua madre da piccola, di distese a stella cercando di tenere le braccia e le gambe il più fuori possibile dall’acqua.

Respirò piano piano cercando di calmare il battito accelerato.

Doveva uscire di lì, ma non sapeva come, non vi erano vie d’uscite.

Ad un tratto l’acqua si increspò, prima leggermente, poi sempre più intensamente fino a creare piccole onde che non la facevano rimanere a galla.

Un hovercraft spuntò tra le nuvole del cielo e calò una corda nella sua direzione.

Doveva fidarsi oppure no?

Non le venne data la possibilità di replicare.

La corda sembrava sollevarla contro la sua volontà: era in trappola.

Cercò di staccare le gambe dalla fune, ma non ci riuscì.

Forse non era ancora il momento giusto per reagire.

 

Aveva tante mani sopra di se.

I camici bianchi a le mascherine sulla bocca e il naso rendevano i medici tutti uguali mentre cercavano di tenerla ferma e buona sul lettino dell’infermeria dell’hovercraft.

Stavano cercando di farle male sicuramente, qualcuno tentava di legarle i piedi per non farla muovere, ma non ci sarebbero riusciti.

Sentiva Finnick urlare fuori dalla porta.

Quanto sarebbe durata quell’agonia?

Cercava di raggiungerlo, ma invano.

Era legata, era immobile, aveva vinto, forse?

Il rumore della porta che veniva spalancata velocemente, i dottori che tenevano qualcuno lontano da lei.

Era tutto un sogno?

La testa mozzata di Marcus, il viso di Finnick confuso dalla morfina, la mano di lei che cercava di accarezzarlo mentre piangeva.

Il calmante fece il suo effetto e la trasportò fuori di lì: dall’Arena, dall’hovercraft, dalle braccia di Finnick.

Il buio la avvolse come una coperta.

Aveva vinto o forse perso tutto.

 

La lucidità aumentò in quei giorni.

Cercarono di portarla al Distretto il prima possibile senza sottoporla a troppe pressioni da parte degli abitanti della capitale.

“Non sta molto bene, ha riscontrato un trauma cranico che i nostri medici non sono in grado di curarlo a dovere e un po’ di aria di casa le darà sicuramente giovamento.” una scusa più che accettabile, d’altronde dai Giochi è difficile uscire illesi.

E poi non era altro che una mezza verità: di certo non si poteva dire che fosse tutto apposto per Annie.

Le immagini si susseguivano nella sua testa come in un film vecchio e rovinato, piene di scene mancanti, e graffi.

Sentiva le urla del ragazzo del tre ancora nella testa, il ronzio dell’elettricità che lo uccide, l’odore del sangue dell’acqua vicino alla ragazza del Distretto cinque e il tonfo sordo della testa di Marcus che cadeva a terra.

Piangeva la notte e urlava durante il giorno.

I dottori continuavano a dire che le crisi sarebbero finite, ma probabilmente non ci credevano neppure loro.

Passarono i mesi e Annie migliorò visibilmente.

Non riusciva a mantenere l’attenzione per più di qualche minuto sullo stesso discorso, e la notte ancora non dormiva bene a causa degli incubi.

Ogni tanto portava le mani alle orecchie come a cercare di non sentire un rumore che le rimbombava dentro la testa, ma a Finnick non importava più di tanto.

Gli bastava averla lì accanto, poterla baciare di nascosto e sussurrarle all’orecchio tutto quello che sentiva dentro.

La vita al Distretto procedeva tranquilla: i pescatori  lasciavano il molo con le barche la notte e tornavano in tempo per il mercato delle 10 e trenta, la spiaggia al pomeriggio si riempiva di reti lasciate ad asciugare al sole mentre i ragazzi cercavano conchiglie per fare collane da regalare alle ragazze, le case la sera profumavano di pesce, fuoco e famiglia, la gente continuava a mangiare pane verde e salato, e intanto Finnick e Annie si amavano.

Tutto qua.

The end.

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