My Christmas Gift

di Melian_Belt
(/viewuser.php?uid=151971)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Le previsioni davano temperature gelide per stasera, ma io non sento freddo. Le dita rigide intorno al collo della bottiglia, barcollo al di là di un’aiuola. Inciampo su una radice, incuneata nel cemento, e mi schianto contro il muretto, la mente troppo ovattata per sentire il dolore.
Ridacchio, immaginando quanto io debba sembrare ridicolo. Ma l’ilarità ha breve termine e con una smorfia riprendo a bere, l’alcool scende un poco sul mento. Mi pulisco con la manica del cappotto, che costa più dello stipendio di qualcuno.
Al di là dei capelli scossi dal vento freddo, oltre il fiume, vedo la città brillare degli ornamenti di Natale. Una campana suona la mezzanotte, immagino che i bambini stiano aspettando l’arrivo dei regali, o li stiano già scartando, nelle case le cui luci calde si specchiano sull’acqua. È la vigilia di Natale, non che me ne freghi. E no…non sono così debole da sentire la solitudine in modo particolare, in questa notte. Anche se la bottiglia stretta tra le mani sembra urlarmi del bugiardo.
A fatica, mi stacco dal muretto e ciondolo a fatica sul marciapiede, nemmeno stia camminando su un filo sospeso nel vuoto. Arrivo ad un ponte e non ci faccio caso quando lo imbocco.
Sollevo la testa al cielo e per poco non cado da in piedi, ma in qualche modo mantengo l’equilibrio. Ora lo sento il freddo, che colpisce il mio viso riscaldato dall’alcool. Mi sporgo sull’acqua, le braccia addormentate sul muro alto fino alla mia vita, senza forze.
Non so nemmeno perché lo faccio, ma tendo la bottiglia sul vuoto e dopo qualche istante la ruoto, facendo cadere qualche gocciolina. Mi sfugge un colpo di tosse e prendo un altro sorso, le dita tremanti, di certo per il freddo.
Pur nella confusione della mia testa, sento dei passi non troppo distanti. La città è deserta, sembra che sia rimasto solo io al mondo, in questa notte di stupida festa. Ma c’è un’ombra che si avvicina, dall’altra parte della strada che divide il ponte in due.
È un uomo chiuso in un cappotto scuro, la cui sagoma alta si staglia contro le luci che illuminano Castel Sant’Angelo. Non gli bado oltre e riprendo a bere, sbuffando quando mi accorgo che la bottiglia è quasi vuota. Una folata di vento gelido sale dal fiume e sposto la testa, gli occhi lacrimanti. Ci strofino la manica e quando li riapro incrocio lo sguardo dell’uomo, che ora cammina davanti a me. Non si ferma, ma corruga appena la fronte.
Tossisco di nuovo e mi giro, aspettando che se ne vada. Sento il ticchettare delle sue scarpe mentre si allontana. I polmoni a fuoco per l’alcool e il freddo, svuoto la bottiglia e la poggio sul parapetto, barcollando per qualche passo.
Ricado e di nuovo riesco a non cadere faccia a terra, sbucciandomi un palmo. Ridacchio, chiedendomi che faccia sarebbe mio padre a vedermi così. Quel vecchio bastardo, probabilmente sarà ad un party esclusivo con la sua nuova amichetta con la metà dei suoi anni.
Immagino che sia la punizione per le mie cattive azioni, trovarsi a Natale ubriaco su un ponte. Non riesco nemmeno a contare quante persone vorrebbero essere qui, perché basterebbe una leggera spinta a buttarmi di sotto. Persone che ho trattato male, a cui ho tolto il lavoro con metodica freddezza, con inganno e conoscenze.
Continuo a ridere, per quanto la voce mi manchi. Il viso sferzato del vento freddo, le membra congelate, mi tiro sul parapetto. Sotto, l’acqua è nera e torbida, a premessa dell’oblio che mi accoglierebbe con la pena e la soddisfazione di molti. Forse, se mi buttassi, mio padre si pentirebbe dei suoi errori con me, forse il mondo capirebbe che sono umano. Sorrido senza la minima felicità: no, semplicemente non lascerei niente, tutto continuerebbe a girare con qualcuno di diverso alla mia scrivania, l’invidia per il mio stipendio sarebbe rivolta a qualcun altro.
Il mio corpo pare muoversi da solo, sollevo una gamba, poi un’altra e oltrepasso il muretto. Non so nemmeno perché lo faccio, non voglio morire, anche se non vale la pena vivere. Al momento non voglio niente, sono solo un involucro vuoto. Oscillo, le dita rigide che si tengono a fatica sul marmo, ruvido come la piccola sporgenza su cui sono in equilibrio.
Qualcosa di duro mi ostruisce la gola e rabbrividisco, la mente confusa da pensieri e sensazioni che non riesco a comprendere nonostante siano mie.
“Cosa sta facendo?”.
Sobbalzo e mi giro per quanto posso, incontrando il viso dell’uomo di prima. Si avvicina di mezzo passo, porgendomi una mano: “Venga, scenda da lì”.
Scuoto il capo: “Cazzo vuoi? Va via!”.
Corruga la fronte, mentre i suoi occhi scrutano i miei: “Lei è ubriaco, non ragiona bene. Scenda, non faccia sciocchezze”.
Scoppio a ridere, nonostante i sussulti facciano male a qualcosa nel mio petto: “Certo, ubriaco…certo”.
“Vuole morire?”.
Quelle parole mi colpiscono come un treno e sbarro le palpebre. Voglio morire? Sì? Altrimenti perché sono qui? No, è solo un attimo di deplorevole debolezza, non mio che sono più forte di tutti…ma cosa mi aspetta nel futuro se non…cosa? Cosa mi aspetta?
Scuoto il capo: “Io…io non…”.
Si avvicina ancora, un braccio ora attaccato al muretto. Un lampione illumina il suo volto, affilato da due occhi blu intenso. Non credo di aver mai visto un colore simile e rimango paralizzato, da questo viso che sembra uscito da un romanzo. Tende ancora di più la mano: “Venga”.
Solo ora noto il suo accento, leggermente tinto di inglese, la sua voce anch’essa di un’incredibile profondità, come lo sguardo espressivo. Ho sempre guardato gli altri dall’alto in basso, disgustato dalla loro semplicità, dai loro aspetti banali, chi è questa creatura che in un momento di mia simile debolezza mi sta davanti?
Abbozza un sorriso sulle labbra sottili, gentilezza ed eleganza solo nel modo in cui mi tende la mano guantata. Dev’essere l’alcool che mi fa sentire così in soggezione, che fa battere il cuore contro la cassa toracica, proprio a me che sono un’inarrestabile macchina da guerra, fatta per schiacciare gli altri sotto le scarpe.
Sento il mio orgoglio risalire fino alla testa e lo guardo con astio: “Lasciami in pace! Non sono cazzi tuoi!”.
Una mano forte mi afferra il braccio e sono troppo confuso per capirci più qualcosa, persino la vista è appannata. Cerco di liberarmi dalla stretta, dimentico del vuoto sotto di me. Perdo l’equilibrio e sarei caduto se delle dita salde non mi avessero tenuto, se un braccio non si fosse stretto intorno alla mia vita.
Vengo sollevato con velocità e scalcio, colpendo il muro ora che sono di nuovo sulla strada.
“Lasciami! Mollami brutto bastardo!”.
Porto indietro il gomito per colpirlo e lo sento irrigidirsi, ma non molla la presa. Le sue braccia si serrano intorno alle mie, stringendomele contro il petto. Continuo ad agitarmi forsennatamente, preso da una strana paura, da un’agitazione irrazionale che mi fa sentire in trappola.
Cadiamo a terra e solo ora mi accorgo di avere la schiena stretta contro il suo petto, caldo e accogliente. Le sue gambe circondano le mie, come le sue braccia mi stringono in un involucro protettivo. Ho il fiato pesante e questa vicinanza mi spaventa, anche se so che siamo finiti così solo perché ha cercato di non farmi cadere.
Provo ancora a liberarmi, ma mi sento svuotato e non ho forza, voglio solo che mi lasci in pace. Mi acquieto, quando sento la sua voce calda vicino al mio orecchio: “È troppo giovane per queste cose…non dovrebbe nemmeno pensarci”.
Non ho mai sentito un suono simile, ha lo strano effetto di far arrendere il mio corpo, come un burattino a cui vengono tagliati i fili. Abbandono la testa e mi cade sulla sua spalla, se fossi sobrio non farei nulla del genere. Ma per una volta mi lascio andare, chiudendo gli occhi per atterrare nel buio.  
 
   

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Mi sveglio quando un colpo di tosse mi sconquassa il petto, lasciandomi per un istante senza respiro. Un gemito mi sfugge dalle labbra al mal di testa e alla nausea, mi giro cercando invano di far smettere questa sensazione del mondo sottosopra.
Il mio viso affonda in un cuscino morbido, il cui odore mi è del tutto straniero. Ricordi molto vaghi galleggiano nella mia mente, sempre che siano ricordi e non strani sogni. Con un po’ di fatica apro gli occhi e corrugo la fronte: dove sono finito?
Mi tiro a sedere, mettendo bene a fuoco la stanza appena illuminata da una lampada, la cui luce arancione soffonde le pareti di un modesto pesca. È un salottino, se non piccolo nemmeno grande, con mobilia di buon gusto ma modesta. Non faccio in tempo a preoccuparmi troppo a lungo per essere in un luogo assolutamente estraneo, perché una voce profonda ma piena di tonalità mi fa sobbalzare: “Ben svegliato”.
Un uomo si staglia poco avanti ad una porta, che da su una stanza da letto. Accenna il fantasma di un sorriso e mi fa un cenno verso il tavolino in vetro, posto poco lontano dal mio gomito. Ci sono una bottiglia d’acqua ancora sigillata e una scatoletta di aspirina, pure quella quasi intoccata.
“Ho preferito non toccare niente…” dice con voce pacata, apparentemente non disturbato dall’avere uno sconosciuto sul proprio divano. “…forse così potrà fidarsi. Non ho intenzione di avvelenarla”.
Il ricordo di me, sulla cima di un ponte, mi fa bollire il sangue per la vergogna: “Non doveva disturbarsi”.
Inarca appena un sopracciglio, guardandomi con sguardo profondo ma senza giudizio: “Nessun disturbo”.
Con cautela, porto le gambe giù dal divano e mi siedo composto, facendo cadere la coperta che mi avvolgeva. Il mio cappotto è piegato sul bracciolo e lo prendo, senza distogliere lo sguardo dall’uomo, che invece non mi bada.
Guarda fuori dalla finestra come se io non ci fossi, mi ritrovo ad osservarlo con uno strano fascino. Non ho mai visto occhi così, hanno un colore profondo e luminoso, per quanto offuscati da una pacata serietà, con una forza espressiva che li rende ancora più destabilizzanti. Ha un bel viso, coperto da una curata barba nera, mentre i capelli, pur pettinati e non lunghi, sono lasciati al loro destino, lucidi come piume dei corvi che cadono sulla pelle di un pallore non malato, marmoreo.
Solo dopo un po’ pare accorgersi della mia analisi e quando incrocia il mio sguardo provo la strana sensazione di cadere a precipizio. Non sorride con tutta la bocca, ne solleva appena un angolo:
“Ha molta fretta”.
Ho le dita già strette intorno al cappotto e annuisco, tirandomi in piedi nonostante la nausea.
“Ho disturbato anche troppo...mi scusi”.
“Non sa nemmeno dove siamo” una nota ironica tinge la sua voce e ridacchia, un rombare che trema nel mio stomaco e mi fa sentire gelatina.
“Prenderò un taxi” borbotto, innervosito senza nemmeno un perché.
“La vigilia di Natale?”.
Sospiro, passandomi una mano tra i capelli. “In qualche modo farò…non ho fretta”.
Lo sento fare qualche passo, con calma ma senza pesantezza: “Nessuno l’aspetta?”.
Irritato, afferro la maniglia dell’uscita senza guardarmi alle spalle: “Non sono affari suoi”.
“Strano…” lo sento commentare. “…un uomo importante come lei”.
Spalanco gli occhi e mi giro, trovandomelo molto più vicino di quanto avrei pensato. Quest’uomo mi conosce? Non è possibile, un viso simile lo ricorderei. Fa un altro passo e io mi ritrovo con la schiena contro la porta. La mia mano si abbassa sulla maniglia, ma non si muove niente.
Mi sento in trappola, imprigionato dai suoi occhi illuminati dalla lampada, dalla sua ombra imponente e nera, come il golfino che ne intrappola il petto ampio, ora quasi poggiato contro il mio. Continua a sorridere, quel suo mezzo sorriso che non riesco a decifrare.
“Un uomo della sua famiglia, di bell’aspetto, strano che non sia richiesto da ogni dove. Un uomo con il suo lavoro stimato, con uno stipendio invidiabile…”.
Combatto il magone che mi ostruisce la gola, per la prima volta dopo non so quanti anni in soggezione: “Come…come fa a sapere queste cose?”.
“È semplice” risponde tranquillo, il viso vicinissimo al mio. Una sua mano si poggia da qualche parte vicino al mio fianco, il suo braccio mi intrappola. La sua voce mi trema nell’orecchio, di nuovo le mie gambe oscillano: “Perché prima al suo posto c’ero io”.
Il fiato mi si blocca e lo guardo ad occhi sbarrati, per la prima volta riconoscendo dei lineamenti che ho intravisto in foto, non più di un anno fa. Con la barba, senza la giacca e la cravatta, non l’avevo minimamente riconosciuto. Negli scatti presenti su vari siti, il colore dei suoi occhi non aveva giustizia, mi era sempre sembrato nero. E lo devo ammettere, non avevo badato ad altro se non ai modi per distruggerlo, tirarlo a terra per salire al posto suo.
“R-Richard Walsh?”.
China appena il capo, in un cenno di assenso.
Il mio cuore batte al punto da ovattarmi le orecchie. Non mi sono mai ritenuto un codardo, ma quest’uomo ha più ragioni di tutti di volermi male. Non è stato facile far licenziare un professionista dal curriculum impeccabile come il suo, la cui abilità era quasi leggenda nell’azienda. Ho ricorso ai trucchi più spregevoli in mio possesso, alla fine l’ho ridotto completamente sul lastrico, di lui non si era sentito più nulla. Il Natale deve avere un malsano senso dell’umorismo: perché devo essere finito proprio in casa sua?
La sua mano si sposta, ma io sono troppo teso per muovere un muscolo. Forse dovrei reagire, colpirlo e cercare di scappare, ma la porta è chiusa e io non ho la minima idea di dove trovare le chiavi. E anche se non è massiccio, è dannatamente alto, dalla sagoma forte e salda.
“Senta…” mi esce un sussurro e mi schiarisco la gola. “…non mi pare il caso di fare stupidaggini”.
Inarca le sopracciglia, continuando a torreggiare su di me: “Ma davvero?”.
“Posso farle un assegno, una forma di riparazione…”.
Scuote il capo: “Un assegno, dopo tutto quello che ha fatto? Mi ha tolto il lavoro di una vita, il rispetto…”.
Cerco di mantenere il sangue freddo, ma non è facile al pensiero che nessuno sa dove sono. La sua mano si avvicina alla mia schiena, si incunea tra me e la porta: “Sa cosa dovrebbe fare, per andarsene?”.
Faccio una risposta negativa con la testa, pronto a colpire in caso di bisogno.
Si allontana un poco, gli occhi brillanti di silenzioso divertimento: “Forse, togliersi dal chiavistello”.  

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Rimango pietrificato per qualche secondo, sempre meno convinto che tutto questo sia reale.
“Come?”.
La sua mano, appena dietro la mia schiena, si muove e di colpo la porta si apre. Avrei fatto un vergognoso capitombolo all’indietro, se non mi avesse afferrato il braccio con la sua presa salda ma gentile, che di nuovo fa sciogliere qualcosa nei legamenti. Da quando sono diventato così stupidamente imbranato? Con un colpo di tosse, mi sistemo la giacca, per mantenere quel poco di dignità che ancora posso avere.
Walsh sorride e piano le sue labbra si tendono in una risata, pacata e composta. Scuote appena il capo: “Ha davvero creduto che volessi aggredirla?”.
“Beh…sì”. Distolgo lo sguardo, innervosito dalle intense iridi blu. “Io lo avrei fatto”.
Inarca appena le spalle: “Non creda che tutti siano come lei”.
Rimango paralizzato. Perché ho la sensazione di una bottiglia rotta nel petto? Che diavolo mi sta succedendo? Devo andarmene, quest’uomo ha qualcosa che corrompe. Ma non riesco a muovermi, un filo invisibile mi tiene intrappolato qui.
Walsh mi guarda per un altro, lungo istante: “Lei non è il peggio in cui ci si può imbattere. E se anche avessi provato qualche astio nei suoi confronti…”.
Mi irrigidisco all’idea che parli di quanto accaduto sul ponte, trattengo un sospiro di sollievo quando continua, con un sorriso di compiaciuto divertimento:
“…la sua espressione terrorizzata di pochi secondi fa, basta per ripagarmi”.
Una folata di vento spazza contro la finestra, accompagnata da un cupo ululato. Una leggera pioggia comincia a cadere, fioccosa da sembrare neve. Forse lo è, da qui non riesco a vedere.
Deve fare davvero freddo fuori e anche se questo cappotto è elegante, non posso dire che tenga caldo. Faccio un rigido cenno con la testa, intenzionato a salutare, ma le parole mi si incastrano da qualche parte intorno al petto.
“Le offro un caffè. Non è tempo per vagare alla ricerca di un taxi”.
Spalanco gli occhi, completamente tramortito: “Eh?”. Scrollo la testa, cercando di restituirle la lucidità: “Ma…perché?”.
Walsh è già nel mezzo della stanza. Scrolla appena le ampie spalle e un sorrisetto ne scopre appena i denti, bianchissimi sulla barba nera come la notte: “Non cerchi di capirmi. Fallisco da anni”.
Non ho tempo per capire lui, al momento sono troppo preso dal cercare di ritrovarmi. Perché non comprendo il motivo che mi spinge a rimanere, chiudendomi la porta alle spalle. Con movimenti rigidi, mi tolgo il cappotto dalle spalle e lo piego intorno al braccio. Sono indeciso sul seguirlo o meno nella modesta cucina e rimango per un po’ nel salotto, poi piano mi convinco. Walsh ha appena poggiato la caffettiera sul fornello e solleva lo sguardo su di me, sempre con qualcosa di ironico nello sguardo.
“Sembra una gazzella in gabbia”.
Mi schiarisco la voce, combattendo contro un imminente mal di gola. Eppure in genere non mi ammalo così facilmente. “Ammetterà che è una strana situazione”.
Walsh non ribatte nulla. Apre una madia bianca e prende due tazze, senza la minima fatica nonostante fossero in cima. Quanto sarà alto? Qualcosa come un metro e novanta, mi pare…
Sono sempre stato bravo a leggere le persone, un dono naturale che ho affinato nel lavoro, ma lui è un mistero. Ha qualcosa di destabilizzante, qualcosa che sembra trascinarlo lontano dal mondo e renderlo illeggibile.
“E lei?”.
Walsh si gira a guardarmi, dandomi la sua attenzione.
“Come mai è solo per Natale?”.
“Detta così, sembra che lei mi abbia risposto”.
Non so che ribattere e mi appoggio sullo stipite, combattendo la tentazione di fissarlo.
L’odore del caffè invade la stanza e il liquido bollente protesta contro le pareti della caffettiera, dando uno strano tocco di familiarità al silenzio.
“Quante zollette di cianuro?”.
Di nuovo spalanco gli occhi e gli lancio uno sguardo stranito: “Eh?”.
Ha ancora quel piccolo sorriso  disincantato, che lo rende così espressivamente bello da farmi desiderare di tenerlo per me. Scrollo il capo: che razza di idee sono queste?
“Ha ancora l’aria di chi aspetta un pugnale nella schiena”.
Di nuovo la mia lingua tagliente fa cilecca e non riesco a dire altro se non: “Senza zucchero, grazie”.
Lancio un’occhiata all’orologio e sposto il peso da un piede all’altro, innervosito. Ma come mi è saltato in mente di accettare? Mi passo una mano tra i capelli, combattendo il mal di testa che sta prendendo piede. Proprio non mi capisco stanotte…
Mi fa cenno di accomodarmi al tavolino della cucina e abbozzo una strana smorfia, sedendomi con poco elegante rigidità. Nascondo un colpo di tosse nella mano e bevo a piccoli sorsi il caffè bollente, combattendo i tremori che il freddo mi ha lasciato.
Walsh non mi guarda, poggiato tranquillamente contro i fornelli. Ma nonostante questo, mi sento come se fossi in una teca di vetro, osservato e studiato. Sembra percepire la mia tensione e sorride nella tazza, sempre con l’aria di chi è presente ma in realtà è altrove, perso nella sua stessa mente.
Quest’uomo mi confonde, ma non sento nessun astio provenire da lui. Come fa a non odiarmi dopo quanto ho fatto? Usando termini forti, posso dire che lui è la vittima su cui mi sono accanito di più.
Il citofono suona e io sussulto, voltandomi a occhi sbarrati verso la porta.
“È il taxi” mi tranquillizza. “L’ho chiamato io”.
“Oh”.
Scatto in piedi, lo stomaco in subbuglio. Sarà il mix di freddo atroce e di alcolico a stomaco vuoto.
Vorrei convincere le mie gambe a muoversi, ma un’altra parte di me protesta, sente che c’è qualcosa che ancora deve essere fatto, perché non ci sarà una seconda possibilità.
Walsh poggia la tazzina nel lavandino e, per la prima volta, scorgo fatica nei suoi movimenti. Si stacca lentamente dal forno e mi scorta verso la porta, rivolgendomi un sorriso che sa di saluto definitivo: “Così può scappare senza morire di freddo”.
Mi schiarisco la voce: “Lei è uno strano carceriere”.
Una scintilla divertita gli brilla nello sguardo, per poi scemare nella perpetua malinconia, poco visibile ma presente: “E lei è diverso da come avevo immaginato”.
Apre un poco la porta, continuando ad entrarmi dentro con quello sguardo maledetto: “Forse, nessuno si è ancora preso la briga di scoprirla”.
Un’insolita vertigine mi fa sprofondare la terra sotto i piedi, nemmeno mi accorgo di sorridere come un idiota: “Magari hanno paura”.
Il suo petto si scuote in una breve risata: “Io ne avrei”.
Mi tende una mano: “Le auguro un buon Natale”.
Stringo la mano intorno alla sua, calda come dev’essere ardente l’Inferno. E io mi sento terribilmente dannato, pensieri che non mi hanno mai sfiorato mi invadono quando tocco la sua pelle, perso nella sua voce che ancora echeggia nelle mie viscere. Se questo fosse un film, penserei di trovarmi di fronte un demone malinconico, mandato per distruggere le mie fondamenta.
I miei occhi sono aperti a mezz’asta, il tono distante quando mi sforzo di rispondere: “Grazie…anche a lei”.
Appena fuori dalla porta accelero bruscamente, desiderando uscire dalla tela di questo ragno tentatore. Non attendo nemmeno l’ascensore e imbocco le scale. Ma mi fermo quando sento la sua porta chiudersi, come il suono di un’asciata che mi spacca a metà.  




Buon 2013 a tutti!!
M.




  
  

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Chiudo l’ennesima cartella ricolma di fogli e mi appoggio completamente contro la sedia, combattendo un atroce mal di testa. Ho dormito poco e male, agitato da strane vampate di calore provenienti dallo stomaco, nonostante la temperatura del termometro fosse normale.
Passo una mano tra i capelli, poggiando i gomiti sull’enorme quantità di quaderni e cartelle che invade la mia scrivania. Pensavo che lavorare mi avrebbe distratto, se non rilassato fino all’addormentamento, invece sono ancora qui alle 11 del mattino.
Le auguro un buon Natale.
Chiudo gli occhi, sentendo la voce calda di Walsh, calda come la sua pelle, come la sua stretta.  
Scuoto il capo, innervosito. La presa intorno alla penna si stringe e la plastica si riga, graffiandomi il palmo. Mi alzo con uno sbuffo stizzito, incontrando il mio riflesso nello specchio.
Davvero un gran bel paio di occhiaie, non c’è che dire. Mi do una rapida sistemata ai capelli ed esco, prendendo un cappotto più pesante rispetto a quello di ieri.
Fuori fa meno freddo rispetto a ieri, ma mi metto lo stesso la sciarpa, per evitare un peggioramento della tosse. Le strade sono attraversate da chi va al pranzo di Natale, da amici o parenti. Quasi tutti hanno dei pacchi in mano e camminano rapidi, sotto alle decorazioni spente.
Piano rallento, fino a fermarmi del tutto nel mezzo di un marciapiede: quando sono diventato così solo? Serro gli occhi con forza: insomma, basta con questa debolezza. Io sono un uomo forte, indipendente. Non ho bisogno di nessuno, non ne ho mai avuto.
Cammino fino al Lungotevere, all’altezza del ponte dove ieri sera stavo per fare la stupidaggine del secolo. Lascio scorrere la mano sul marmo ruvido, occhieggiando l’acqua che scorre sotto di me. Che fosse davvero una cosa così stupida? In fondo, se ci penso, non trovo niente che mi faccia dire “ne vale la pena”.
Mando giù un doloroso groppo alla gola e guardo i palazzi da un lato e dall’altro della strada. Walsh non abita molto lontano, ho guardato bene la strada prima di salire sul taxi. Rimango in piedi sul ponte, senza accennare a muovermi. Il vento mi scuote i capelli, proprio come ieri sera.
Piego le labbra in una smorfia incerta e con passo altrettanto insicuro attraverso il ponte. Mi costringo a camminare piano, con compostezza, combattendo le mie gambe che vogliono correre.
Riconosco la strada di Walsh dai piccoli alberi seccati dall’inverno, dalle panchine verdi e rugginose.
Sono dall’altra parte del marciapiede, rispetto al suo portone. Mi poggio stancamente contro una palizzata in legno, ignorando i segni che il legno umido deve lasciare sul mio cappotto nero.
E di nuovo torno a chiedermi: perché quell’uomo era solo la notte di Natale? Com’è possibile che non abbia famiglia?
Sollevo la testa verso le sue finestre, trovando le persiane aperte. Che sia in casa? No, dev’essere uscito per il pranzo di Natale…
Così rimango lì, senza nemmeno guardare l’orologio per dei lunghi quarantacinque minuti. Metto le auricolari e faccio partire la playlist del telefonino. Ormai le dita sono irrigidite dal freddo, quasi non le sento più. Ma il sole è piacevolmente tiepido e, quasi senza accorgermene, chiudo gli occhi, stanco dopo la notte passata in bianco.
Arrivano i Queen, mi viene naturale accennare un labiale di I want to break free. La sentivo quando ero poco più di un bambino, non capivo ancora tutte le parole, ma la dedicavo sempre a mio padre. Anche adesso, mi viene in mente la sua faccia mentre do il ritmo con un impercettibile dondolio del capo.
Lancio di nuovo uno sguardo alle finestre.
But life still goes on. I can’t get used to living without you, by my side. I don’t want to live alone…
La canzone finisce  e mi tolgo gli auricolari con un sospiro. Bah, inutile stare qui a perdere tempo come un idiota. Potrei portarmi in avanti col lavoro…no, tutto quello che potevo fare l’ho fatto.
Forse, dopo tanto tempo, posso leggermi qualcosa. A casa sono pieno di libri intoccati, pensare che un tempo ci passavo ore.
Mi stacco dalla staccionata e inizio un passo per andarmene, ma mi fermo.
“Oh al diavolo” borbotto, attraversando la strada con passi bruschi. Con dita indolenzite pigio il pulsante sul citofono. Tanto non ci sarà.
“Sì?”.
Spalanco gli occhi e rimango attonito per qualche istante.
“Chi è?”.
“S-sono Simone. Sensi…” mi correggo subito, mezzo mordendomi la lingua. “Sono Sensi”.
Lunghi, eterni istanti di silenzio. Poi il portone in vetro vibra: “Si accomodi”.
La sua voce non fa lo stesso effetto al citofono, ma devo attendere qualche attimo per riprendermi dal colpo. Chiudo gli occhi e prendo un ampio respiro con il naso.
“Devo essere impazzito” borbotto, entrando nel calore dell’ingresso.
Ho i nervi a fior di pelle mentre salgo per le scale. Perfetto, assolutamente perfetto. E ora che accidenti gli dico? Non ho la minima idea del perché io sia qui.
Una piccola, maligna parte del mio cervello mi suggerisce il motivo, ma la metto a tacere. Arrivo al suo corridoio e mi affaccio, cercando di mantenere più contegno rispetto a ieri.
Mi paralizzo a vederlo lì, poggiato sullo stipite della porta con una gamba leggermente accavallata sull’altra. Indossa gli occhiali sul viso un poco piegato a lato, un lieve indizio di curiosità. Ha un libro in mano, le dita che dividono le pagine a tenere il segno.
Sorride e si raddrizza: “Non credevo che l’avrei rivista”.
Mi fa cenno di entrare, spostandosi dalla porta: “Di certo non così presto”.
È vestito di scuro, come ieri, ma il golfino è grigio e i pantaloni sono dei jeans. Un casual curato, diavolo se gli sta bene.
Mi schiarisco la voce: “Sì, beh…non volevo disturbare”.
“Nessun disturbo” si affretta a rispondere, un po’ troppo in fretta.
Gli lancio un’occhiata scettica ed entro nell’appartamento. Strano, non lo ricordavo così freddo. In confronto, è più caldo il corridoio. È ora di pranzo, ma non c’è nessun segno che indichi qualche preparativo. Il fatto che sia solo mi provoca una strana emozione.
“Perché un uomo come lei è solo?”.
Le parole mi escono da sole e nascondo lo sguardo verso la finestra, turbato. Ma che mi viene in mente?
Sento dalla sua voce che sorride, con una leggera nota sardonica: “E che uomo sarei?”.
Mi giro, puntando lo sguardo nel suo. Per un attimo mi viene da rispondergli “bello”, ma mi fermo in tempo. Scrollo le spalle: “Non sgradevole”.
Il suo sorriso si amplia e ride, sempre quello stanco movimento del petto. Si toglie gli occhiali, mostrandomi due occhi incredibilmente stanchi, che ieri non avevo notato. Mi indica il divano: “Prego”.
Continuo a scrutarlo, incuriosito dalla sua postura sostenuta, ma affaticata. Si siede poco distante da me, una gamba accavallata mentre si passa una mano sulla fronte. Poggia il libro sul bracciolo, compiendo ogni movimento come se non badasse all’evidente analisi cui lo sto sottoponendo.
“Allora…” dice, raccogliendo le mani in grembo. “…a cosa devo questa visita?”.
Corrugo la fronte in un’espressione che spero appaia seria, ma non turbata: “Volevo scusarmi”.
Lui non dice niente. Mi schiarisco la voce: “Per averle fatto perdere il lavoro”.
Abbozza un sorriso, meno riuscito degli altri, ma non per questo triste o nervoso: “È stato bravo”. Rimango ad occhi sbarrati: “Ha…solo questo da dirmi?”.
Scrolla appena le spalle: “Cosa dovrei dirle?”.
Scuoto il capo, esterrefatto: “Ho analizzato ogni minima azione compiuta sotto la sua direzione, addossandole le colpe anche per processi che non erano sotto il suo diretto controllo. L’ho incolpata di buchi nel budget che non erano imputabili a lei. Ho…”.
Ruoto una mano in aria, stranamente agitato: “…ho persino preso documenti riservati, usato conoscenze per metterla alle strette…e lei mi dice che sono stato bravo?”.
Walsh mi scruta tranquillo, perfettamente opposto al mio nervosismo: “Sto cercando di comprenderla. Perché mi viene a dire queste cose? So benissimo quello che ha fatto. E mi creda, se le dico che non deve angosciarsi. Comunque, riguardo alla domanda di prima…devo ammettere di aver ricevuto qualche invito, ma non ero molto in vena”.
“Perché?”.
“Così…capita a tutti”.
Il telefono squilla e a Walsh sfugge un lieve sospiro: “Mi scusi”.
Si solleva ma, nascosta dalla sua compostezza, si cela una pesantezza che lo fa sembrare in procinto di rompersi. Ieri non avevo notato queste cose, forse anche lui non ha dormito bene stanotte.
Scompare nel piccolo corridoio e io mi alzo, preda di una fastidiosa elettricità. Cerco di calmarmi osservando la mobilia, di un bel legno antico. Un armadio-scrittoio, in particolare, attrae la mia attenzione. Deve avere almeno cento anni, mio padre ne aveva uno simile nella vecchia camera matrimoniale. Chissà che fine ha fatto adesso…
Mi piaceva, quando ero piccolo, perché mia madre ci nascondeva tutti i suoi vecchi gioielli. Erano le uniche cose rimaste della nonna preferita e ogni tanto li andavo a cercare, sperando di sentire il suo profumo. Che bambino sciocco che ero…
Li nascondeva in un cassettino mimetizzato, messo in alto a sinistra. Distratto da vecchi ricordi, afferro quella parte di legno liscissimo e tiro in fuori, aprendo uno scomparto. Ma ho molta più forza di quanto ero bambino e dei fogli volano via, cadendo sul pavimento.
Mi chino per raccoglierli e lo sguardo mi cade sul simbolo stampato su ognuno. Lo riconosco, è di una clinica privata non lontana da qui, ci passo spesso davanti.
La fronte corrugata, mi tiro in piedi, sfogliando quelli che sono referti medici. Non sono un esperto, ma non è necessario per comprendere che qualcosa non va. Questa è una gastroscopia di tre mesi fa…
“Non la facevo così curioso”.
Mi volto a guardarlo, per nulla arrabbiato anche se ho violato le sue cose. E la sua arrendevolezza, la sua stanchezza assumono tutto un altro significato.
“Cosa…cosa sono questi?”.
Non riesco nemmeno a riconoscere la mia voce, roca e turbata.
“Lo vede, sono risultati di analisi”.
“Sono suoi?”.
Annuisce. Mando giù un groppo che mi ostruisce la gola, confuso. Si avvicina e me li prende, gentilmente, riponendoli al loro posto.
“Quanto grave?” chiedo, temendo la risposta. Si gira, incastrandomi con quelli che davvero sono gli occhi più belli che abbia mai visto, per il colore e per la calma malinconia che li dipinge.
“Abbastanza” risponde dopo qualche secondo di titubanza, e distoglie lo sguardo. Per la prima volta lo vedo a disagio, chiude lo scomparto con un gesto secco.
“Abbastanza come cosa?”.
China appena la testa verso il basso, gli occhi socchiusi. “Accetto le sue scuse e la ringrazio di essere venuto. Ma non si rovini ancora il Natale”.
Non ci vuole un genio per capire che mi sta congedando, ma il mio corpo si rifiuta fisiologicamente di andare via. Avanzo di un passo, bruscamente. Lui arretra, colto alla sprovvista.
“Come cosa?” sibilo, più minaccioso di quanto vorrei essere.
Tentenna per un attimo, prima di sforzare una risposta: “Come un tumore allo stomaco”.
Devo essere impallidito, o aver fatto un’espressione particolarmente inquietante, perché mi poggia una mano sul braccio. Abbassa un poco il viso, un cipiglio preoccupato in fronte: “Simone, si sente bene?”.
Forse è il fatto che mi ha chiamato per nome, o perché è vicinissimo, ma mi ritrovo con le dita nel suo golfino: “Non mi faccia domande stupide! Che cura sta seguendo?”.
Dopo il primo stupore, poggia le mani sulle mie, cercando di staccarmi con gentilezza. Ma io non mollo, artigliandolo con più foga. Sospira: “Si calmi…”.
“Che cura?”.
“Perché si agita in questo modo?”.
“Quale?”.
I suo occhi sono in procinto di chiudersi, stanchi: “Nessuna”.
Rimango di sasso, un sentimento quasi di disgusto mi invade lo stomaco. Approfitta della mia immobilità per separarsi. Sistema appena le pieghe sul golfino. “Non la capisco” mormora, per poi riprendere con voce più forte. “Perché si scalda così? Praticamente non ci conosciamo”.
“Perché?” gli chiedo, con l’irrazionale paura di vedermelo sparire davanti. “Perché non si cura?”.
“Perché ho solo il 20% di possibilità di farcela” risponde, con un’accettazione che mi fa venire voglia di prenderlo a mazzate.
“E non voglio passare i miei ultimi mesi in un ospedale, distrutto dalla chemio”. Parla come se fosse tutto dannatamente ovvio, ma diavolo se non mi fa incazzare.
“Ma non può arrendersi” sussurro, completamente orripilato.
Scuote il capo: “Davvero non la capisco…perché dovrebbe importarle così?”.
Non sono mai stato bravo con le parole. Se si tratta di eloquenza, di convincere le persone e di guadagnarmele con insidiosi strumenti di retorica, allora sì. Invece, quando si tratta di esprimere le emozioni, faccio incredibilmente schifo.
Ma le sento esplodere dentro, ho un turbine che mi scuote il corpo e devo tirare fuori tutto in qualche modo, anche se le parole non mi sono d’aiuto. Potrei dire qualche frase tipo: “perché sei troppo bello per lasciarmi”, “perché ora ci sono io”. Mando tutto questo a farsi benedire e gli circondo il viso con le mani, senza dargli il tempo di dire niente, prima di baciarlo con agitazione febbrile.
La sua schiena batte contro l’armadio, che traballa. Io colpisco il legno con le ginocchia, ma me ne frego. Le sue labbra sono morbide e calde, il suo odore splendido. La barba non mi disturba, la mia mente è invasa dalla sensazione del corpo di Walsh stretto contro il mio.
Sento le sue mani sui fianchi, ma poi mi prende sulle spalle e mi allontana un poco. I nostri visi sono ancora vicinissimi, il suo respiro si mescola al mio. Scuote il capo, un’espressione perduta negli occhi: “Non…non posso…”.
Ma non mi allontana ancora. Per la prima volta, riesco a vedere la paura sotto la sua maschera di calma rassegnazione. E non ho la minima intenzione di lasciarlo andare.
“Piantala di dire stronzate” bofonchio, tornando a divorare la sua bocca senza remora alcuna, ogni controllo perso. Lo stringo con forza e finalmente lo sento perdere rigidità. Piega la testa per incontrarmi meglio e affondo le dita tra suoi capelli, marchiandolo per essere sicuro che non si faccia polvere tra le mie braccia, scomparendo per sempre.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Nemmeno mi accorgo di chiudere gli occhi, assuefatto dalla sue labbra contro le mie, dal suo corpo stretto tra me e l’armadio. Stringo le dita tra i suoi capelli, come ho desiderato fare dal primo momento in cui l’ho visto, anche se la mia ragione cercava di nascondere questa voglia.
Qualche sospiro mi sfugge durante il bacio, travolto da un calore insano che mi brucia nelle viscere. Porto indietro la sua testa e bevo delle vista dei suoi occhi, del suo collo inarcato. Ha il fiato appena pesante, un’espressione che non riesco a decifrare ne confonde il viso.
La sua gola si muove e apre appena le labbra sottili, per poi richiuderle in una linea incerta.
La mano si muove da sola, con le nocche sfioro i contorni del suo mento, salendo ad accarezzare la guancia. Viene avvolta dalla sua, che la stringe gentile. La testa gli si piega appena nel tocco, chiude gli occhi, chiudendomi le finestre verso l’oceano.
Sospira e le sue spalle si incurvano un poco, portando le nostre fronti a toccarsi. Lo scruto, ancora tramortito da quanto è successo. Ma è inutile che mi metta a dubitare ora, perché non c’è nessun’altro posto dove vorrei stare di più, dove le cose hanno così tanto senso.
Dopo qualche attimo, un sorriso gli tende le labbra: “Non è mia abitudine, baciare uomini”.
Vorrei sorridere, ma il mio viso è rigido. Porto giù il braccio, continuando a tenere la sua mano.
“Nemmeno mia” rispondo.
Raddrizza la schiena e spero davvero di non essere troppo evidente, di non mostrare quanto ho paura che cambi idea. Sostengo il suo sguardo, mordendomi una guancia nell’attesa.
La maschera che ne nascondeva le emozioni è ancora lì, ma riesco a leggere i suoi dubbi, il suo travaglio. Lancia un’occhiata alla porta, rapida e di sfuggita, ma la noto lo stesso. Di reazione, stringo la sua mano con più forza, forse troppa.
“Non mandarmi via…”.
Sono stupito dalle parole che mi sfuggono, ma mai quanto lui. Spalanca gli occhi, rimanendo immobile. E so che devo sembrargli patetico, soprattutto considerando che solo stanotte stavo per lanciarmi in un fiume. Mi ha visto urlare con l’alcool nelle vene, mi ha visto sull’orlo di un ponte, mi ha trovato solo nella notte di Natale. Ma ora non mi interessa, perché un suo rifiuto sarebbe molto peggio. E non capisco perché quest’uomo mi provochi tutto questo dentro, ma lo fa e non sto a rimuginare sui perché.
Scruta il mio sguardo e lo legge, anche se non posso immaginare cosa trovi. Piega appena il capo su una spalla: “L’ultima volta che ci ho provato, mi sei saltato addosso”.
Una tensione indescrivibile mi lascia le spalle, quando mi poggia un lieve bacio sulle labbra. Quasi non si separa e sorride, quel piccolo ghigno ironico che gli viene tanto naturale: “Se lo faccio ancora…” avvicina la bocca al mio orecchio, sussurrando. “…cosa succederà?”.
Il mio cervello si offusca e torno ad affondare entrambe le mani tra i suoi capelli, della lunghezza giusta per tirarli e sentirli accarezzare i polpastrelli.
“Miseria, la tua voce…”.
Lo bacio con persino più foga di prima, mi sa circondandolo con una gamba nel processo di stritolarlo. Cadiamo entrambi sul tappeto e lui ride, per la prima volta una risata ampia che mi lascia senza fiato. Il suo petto vibra contro il mio, un tremore come quello che mi provoca nel petto ogni volta che apre bocca.
Piega la testa e cerca di togliersi da sotto di me, ma con un sorrisetto divertito e…ammettiamolo, parecchio eccitato lo afferro per i polsi, tenendolo lì. Sorride, il viso illuminato dai raggi del sole che entrano dalla finestra. I suoi occhi si mostrano in tutte le loro sfumature, brillanti come zaffiri ma più profondi. E probabilmente sto sviluppando una sorta di feticismo per loro, ma non di meno per questo sorriso che ogni volta sembra uno scrigno che si apre, mostrando un tesoro inutile da descrivere.
Sposto le mani e incrocio le nostre dita, cercando di mantenere un respiro regolare alla sensazione dei bacini incrociati. Scendo su di lui e lo bacio piano, assaporando le labbra in lievi schiocchi, strofinando il viso contro il suo. Piano mi faccio più affamato, il fatto che mi lasci invadere la sua bocca, perlustrarne ogni angolo mi provoca una scossa elettrica.
Porto in avanti il bacino e se questa frizione già di per sé sarebbe insostenibile, il fatto che un suo roco gemito venga ingoiato dalle mie labbra mi distrugge e poi ricompone. Le mie mani si stringono intorno al suo viso e nei pochi attimi in cui ci separiamo, al ritmo dei movimenti dei nostri visi, i lievi ansimi echeggiano quasi in sincrono nella stanza.
Il mio corpo è in fiamme e non ho la più pallida idea di cosa fare per spegnerlo. Devo ammettere che la mia ultima relazione risale a due anni fa, l’ennesima di una lunga serie. E di certo non ho mai voluto fare cose simili ad un uomo. Simili a cosa, poi? Nella testa ho solo immagini confuse.
Mi costringo a calmarmi e sollevo la testa, prendendo respiri profondi. Gli do un ultimo, rapido bacio a stampo e mi tolgo da lui. Lo afferro per i gomiti e lo aiuto ad alzarsi, cosa che sembra divertirlo: “Grazie, ma non sono un invalido”.
Mando giù un groppo in gola e chino lo sguardo verso il tappeto.
“Ti curerai?”.
È un cambiamento di argomento decisamente brusco, ma l’importanza che ha spero mi farà perdonare l’esordio improvviso. Sospira, passandosi una mano tra i capelli.
Per un attimo sono tentato di chiedergli “per favore”, ma non ho il diritto di farlo, non per una cosa simile e quando ci conosciamo da poche ore. Mi sforzo di fare un cenno con il capo, anche se vorrei caricarlo in macchina e portarlo al primo ospedale. Stiamo perdendo tempo…
Mi poggia una mano sulla spalla e mi da una pacca, che vorrebbe essere rassicurante, immagino. Rimango immobile e lui mi supera, i suoi passi che affrontano questo triste silenzio, in cui la casa potrebbe cadere perennemente.
“È una bella giornata” dice, facendomi sobbalzare dai miei pensieri. Mi giro e lo vedo indossare il cappotto, con un sorriso sul viso rivolto alla finestra. Si volta a guardarmi: “Facciamo una passeggiata?”.
Non confido a sufficienza nella mia voce e annuisco, coprendomi anche io. Mentre lui chiude la porta passo la lingua sul labbro inferiore, un poco pulsante.
Mi schiarisco la gola: “Solo perché tu lo sappia…in genere non salto addosso agli sconosciuti”.
Richard infila le chiavi in tasca e scrolla le spalle: “Ed io in genere non lascio che sconosciuti mi saltino addosso”.
Poggia una mano sulla mia schiena, mentre accenna a proseguire nel corridoio. E davvero mi chiedo dove trovi la forza per sorridere così tanto: “Maybe I couldn’t resist your soft brown eyes”.
Le sue parole mi immobilizzano e lo scruto perplesso, battendo più volte le palpebre. Non è solo per il fatto che ha parlato in inglese per la prima volta. È vero che così la sua voce è ancora più illegale, ma è quello che ha detto a lasciarmi interdetto. I miei occhi? Ma non scherziamo, detto da lui è ironico.
Non appena mi riprendo gli rivolgo un sorrisetto e poggio il fianco contro il suo, spingendolo un poco. “Funny. I thought the same of your bright baby blues”.
  

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Richard rimane immobile per un istante, prima che una lieve risata gli scuota le spalle.
“Baby blues? Questo non me lo avevano mai detto”.
Scrollo le spalle e mi accorgo solo ora di avere un sorrisetto sulle labbra. Vorrei fare una battuta, in genere ho la lingua biforcuta, ma non ci riesco. La mia mente torna ad un piccolo foglio in un altrettanto piccolo cassetto e mi irrigidisco. Richard mi osserva di sottecchi e lo intravedo mordersi il labbro inferiore, poi socchiudere le labbra in un sospiro.
Apre il portone, un ampio braccio a tenerlo fermo per me. Sorride, ma non gli raggiunge lo sguardo e lo vedo che si sforza: “Bella giornata davvero, non trovi?”.
Annuisco, senza nemmeno guardare il sole che tinge le foglie degli alberi e il celeste del cielo tra i rami. Camminiamo in silenzio sul marciapiede, in questo strano giorno di Natale. Piano, Richard si rilassa e le sue ampie spalle si fanno meno rigide. Le mani nascoste nel cappotto, gli occhi assurdamente blu che si poggiano sulle acque fredde del fiume, ha un sorriso accennato sulle labbra. Intavola una conversazione e inizialmente io non riesco che a rispondere per monosillabi, ma col passare dei minuti la sua voce calda mi si deposita nel petto e comincio a parlare anche io, pur se solo per sentirlo rispondere. Non me ne accorgo nemmeno quando l’argomento diventa la mia famiglia e mi interrompo di colpo, occhieggiando una panchina illuminata dai riflessi dorati degli alberi.
“Vogliamo…”.
Gli faccio un cenno con la mano e lui annuisce, sedendosi con un’eleganza stanca e compassata, ma soprattutto incosciente. Poggia i gomiti sulle gambe e mi rivolge un sorriso non appena sono accanto a lui.
Nasconde appena la bocca tra le mani e scuote il capo con un cipiglio divertito. Corrugo la fronte:
“Cosa c’è?”.
“Nulla…è solo tutto…strano”.
Dovrei commentare qualcosa, ma la mia mente è momentaneamente ovattata. Devo avere un’espressione molto seria, ma sono solo concentrato nello studiare come le sue guance tendono ad arrossarsi per il freddo, a come le sue occhiaie, pur su una carnagione di neve, non sono scure.
Si schiarisce appena la gola e solleva lo sguardo verso l’alto, prima di nasconderlo nel cemento. Sorrido, pur con perenne malinconia: “Ti metto a disagio?”.
Si strofina le mani, le labbra piegate in una linea tra l’imbarazzato e l’umoristico: “Fissi sempre le persone in questo modo?”.
“Nah…” piego il collo, continuando a puntarlo con lo sguardo. “…solo chi mi interessa davvero”.
Accenna un risolino, che nasconde dietro un palmo: “Onorato, allora”.
Non sto a pensarci troppo sopra e allungo una mano, poggiandola sulla sua guancia fredda. Spalanca appena gli occhi e vi affondo, avvicinando il viso per baciarlo piano, per sentire il suo respiro interrompersi contro la mia bocca. Chiudo gli occhi e poggio la fronte contro la sua. Prendo un’ampia boccata d’aria e mi divido per qualche centimetro, la mano che sale nei suoi capelli.
Di nuovo vorrei fare qualche battuta, ma quando apro le palpebre l’attenzione mi cade sul suo stomaco. L’emozione mi corruga il viso e poggio piano il palmo sul suo busto. Le sue mani sono fredde, quando si stringono entrambe intorno alla mia.
Ho paura, io che mi ritenevo un uomo dall’anima d’acciaio. E a farmi cadere dalla mia torre di indifferenza è stato uno sconosciuto, nel breve lasso di tempo tra la Vigilia e il 25. Ho paura di vederlo scomparire, come se fosse uno dei fantasmi di Dickens, mandato solo per riportarmi sulla strada dell’umanità. Per poi andarsene, una volta terminato il proprio compito.
Diavolo, non è così che dovrebbe essere il primo appuntamento con una persona simile. Non dovrebbe farmi sentire senza età, l’emozione che provo solo a sentirlo vicino a me? Invece mi da la sensazione di essere un granello in una clessidra, in attesa del turno per cadere giù, verso lo scadere del tempo.  

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Ed è questa miscela di sensazioni senza confine, eppure così ristrette nel tempo, a farmi capire che arrendersi non è una possibilità, come se accettare la fine fosse togliere una vite al meccanismo che fa andare avanti la realtà. Come se la sua lenta discesa verso il nulla lascerebbe solo una terra che ha i minuti contati, una semplice serie di conti alla rovescia durante i quali non accadrebbe nulla a cui varrebbe la pena assistere.

Stringo una sua mano fredda tra le mie, mentre con lo sguardo cerco di leggere qualcosa dentro al suo libro chiuso: "Perché?".

I suoi occhi accennano solo a muoversi verso di me, ma subito si spostano verso il muretto illuminato. Sa a cosa mi sto riferendo, entrambi siamo consapevoli che non ha nessun obbligo di rispondermi.

"Perché non ti stai curando? Anzi…" sollevo una mano, chiudendo il viso nell'espressione che prendo per il siparietto dell'uomo di ghiaccio che faccio quando metto un sottoposto incapace sotto esame. "…sai che ti dico? Non mi interessa saperlo".

Stranamente, non sembra stupito. Forse solo curioso, se il lieve cipiglio sulla fronte è indicativo.

"Tanto comincerai a farlo. Da domani mattina".

Rimane in silenzio, scrutandomi. Cavolo, odio quanto quest'uomo mi faccia sentire un bambino quando mi guarda. Io che mi vantavo con me stesso di non essere mai intimidito da nessuno. Piega appena il capo: "Credo che ci sia un divieto costituzionale a costringere qualcuno a pratiche mediche".

Mi mordo appena la guancia, subito mi bacchetto mentalmente. Non è il momento di farmi prendere da tic infantili. Ricordo un vecchio film, in cui un uomo giocava a scacchi con la morte. Non so nemmeno perché giunga questo flash improvviso. Forse perché provo un'adrenalina nervosa che da tempo non mi attraversava, quella delle sfide che da ragazzo ritenevo di vita o di morte…quelle per dimostrare a mio padre che ero meglio di lui, meglio di mia madre che non aveva avuto il coraggio di restare. Ma, per la prima volta, questa è una sfida in cui vale davvero mettere in campo la strategia migliore. Se solo sapessi quale sia…

Il suo dito picchetta contro il mio palmo e abbassa la testa per incontrare il mio sguardo perso.

"Non ti credevo una persona che si dissocia di colpo".

"Non lo sono" mormoro, con una strana sensazione di leggerezza. Scuoto il capo e punto su di lui gli occhi, raddrizzo le spalle: "Non me ne andrò fino a che non avrai detto di sì".

Fa un piccolo gemito pensieroso con la gola: "Ci sono minacce peggiori".

"Perché non mi conosci".

"Dici? Credevo di aver assistito al tuo pegg…".

"Mio padre è medico" lo interrompo, le parole che vanno così di fretta che quasi si calpestano l'una con l'altra. "E per quanto sia il più grande coglione che abbia mai messo piede in una clinica, ha tante conoscenze. Che sono diventate le mie. Un amico di famiglia dirige una clinica eccezionale per l'oncologia. Possiamo avere un appuntamento per domani mattina. Ora puoi colpirmi per stare entrando in fatti terribilmente non miei…ma poi vieni con me".

Rimane per un attimo immobile e devo prendere un ampio, seppur silenzioso, respiro per capire di essere ancora in controllo del mio corpo. L'ombra di un sorriso gli tende il viso: "Dovrei colpirti perché vuoi che io viva? Ha una certa logica, effettivamente".

Il sorriso svanisce quasi subito. Il petto gli si alza poco quando prende lentamente aria, socchiude gli occhi. Divincola piano la mano dalla mia, poi si solleva stancamente dalla panchina. Mi guarda dall'alto, la figura illuminata dal nitido sole d'inverno.

"Lascia stare, ragazzo" sussurra, come se persino le parole fossero un sacrificio troppo grande. Il sorriso più faticoso mai visto emerge a fatica, quando china il viso verso di me. Le sue dita gentili stringono la base del mio collo, avvicina appena la fronte alla mia. "Ma grazie lo stesso. E…scusa".

Quando la sua mano si separa da me, sento un chiodo in gola. Stringo i pugni e mentre si allontana rimango lì, rigido, pur attraversato da una scossa elettrica.

Mi alzo di botto e gli corro dietro. Gli afferro un braccio e lui quasi sobbalza, si gira con la fronte un poco corrugata.

"Non me ne vado" sibilo. "Te l'ho detto. Non ti libererai facilmente di me".

Stavolta il suo sguardo sembra spalancarsi, come le nuvole che d'improvviso liberano il cielo. Vedo lo stupore, la confusione e…paura? Possibile…

"Ma perché…" sussurra, senza fiato. "Ci siamo conosciuti ieri, perché…".

"Perché lo voglio" lo interrompo. "E non ho alcuna intenzione di lasciarti andare".

Lo ammetto, ho avuto un leggero blocco. Chiedo scusa. Ma prometto che la porterò a termine e che non ci saranno più pause lunghe. Credo che ci sarà almeno un aggiornamento a settimana, se non di più! Spero che qualcuno la segua ancora, se avete tempo fatemi sapere se ne vale ancora la pena! Grazie!

M.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Mi fissa con malcelato stordimento, prima di sospirare. Nasconde le mani nelle tasche del cappotto nero e china appena la testa sul cemento. Chiude gli occhi con forza, anche se solo per un attimo. Si volta, nascondendomi il viso.

"Come vuoi" dice semplicemente, con il tono più normale che si possa usare, come se abbia appena accolto la proposta sul dove andare a pranzo. Fa qualche passo e lo seguo con un leggero moto di stizza: non so nemmeno da dove venga questo mio nervosismo improvviso. Forse è l'impotenza, il non sapere come fare per convincerlo. Lo afferro per la manica quasi con violenza e lui mi guarda, ma non dice niente. Caccio le dita tra le sue, nella tasca.

Camminiamo in silenzio per qualche minuto, accompagnati da qualche macchina passeggera. In genere questo lato del fiume giallo è pieno di traffico, ma oggi è Natale. Per una volta, è una giornata particolare anche per me. E so che questa data del calendario cambierà di significato, d'ora in avanti, comunque le cose vadano.

Richard si è chiuso, non dice una parola. È come se tenesse la voce intrappolata nelle labbra, chiuse in una linea sottile. La sua espressione, solitamente attraversata da una strana distensione arrendevole, è irrigidita, la mascella è serrata e ha delle piccole rughe di espressione ai lati degli occhi. Non strappa le dita dalle mie, sento che anche la sua mano ha qualcosa di nervoso nel modo in cui rimane ferma. Mi mette a disagio pensare di essere io la causa del suo turbamento, ma non dico parola. Non ho intenzione di concedere terreno in niente, anche se, come continuo inutilmente a ripetermi, mi sto comportando in modo quasi incomprensibile.

Arriviamo fino a Castel Sant'Angelo, illuminato da una luce chiara e tersa, che tinge il suo marrone di sfumature gialle di sole e azzurre d'aria. Mi sistemo il bavero del cappotto per coprire la gola, sentendo un leggero pizzicore. È un miracolo che ieri non mi sia preso una polmonite, a pensarci. L'acqua doveva essere gelata…meno male che non ho fatto la cretinata di buttarmi.

"Mi ha salvato la vita, ieri".

Le parole mi escono quasi da sole, forse perché realizzo del tutto solo ora quello che lui ha fatto. Solleva un po' il capo e mi rivolge un pallido sorriso: "Non credo avresti saltato".

Inarco un sopracciglio. Non perché la sua sia un'idea bizzarra, ma perché forse ha ragione: "Sul momento non ero proprio…lucido".

Per la prima volta, la sua mano si stringe intorno alla mia, non più una presa passiva. Mi viene da sorridere, ma cerco di nasconderlo con un colpetto di tosse.

"Grazie…" borbotto. "…comunque".

"È stato un piacere".

Allarga appena il sorriso e mi accorgo che ci stiamo automaticamente fermando, accostati sul muretto dove in genere trovi qualche pescatore, con la strana voglia di prendere qualche pesce altamente tossico. Il suo gomito vi si poggia un poco quando sposta il peso e io lo seguo. I nostri cappotti frusciano quando si toccano, la mia spalla arriva poco sotto alla sua. Mi alzo un poco sulle punte per baciarlo sulle labbra, un bacio di un paio di secondi.

Ci guardiamo negli occhi e nel suo sguardo blu si muove qualcosa, la fronte si piega in una curva pensosa e malinconica. Sento la sua mano sulla schiena e seguo la spinta quando piano mi attira contro il suo petto, su cui mi appoggio volentieri.

È un piacevole incontro di caldo e di freddo, il suo cappotto ha un buon profumo. Vi stringo le dita, mentre le sue si poggiano contro la mia nuca, in una carezza statica ma gentile. Quando respira, il suo petto si muove contro il mio, lo sento anche sotto gli strati di vestiti. Prende un breve respiro con il naso, prima di separarci piano, continuando a tenere un braccio intorno alla mia vita: "Torniamo?".

Annuisco, contento che non mi stia mandando via.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ora che è tarda sera, la giornata sembra essere passata al rallentatore.

Quando torniamo a casa, Richard si siede rigidamente sul divano, fissando il vuoto. Rimane così per del tempo, gli unici movimenti dei piccoli spostamenti dei dettagli del viso.

Io sto nel silenzio, guardando distrattamente la sua casa spoglia. Si vede che si è trasferito da poco, i muri non portano segni. Devono essere stati riverniciati da poco, forse fino a poco tempo fa ci viveva qualcun altro…probabilmente una persona sola, è troppo piccolo.

Ma sì…deve essersi spostato dopo aver perso il lavoro.

Mentre piego il cappotto e lo poggio su una sedia, scorgo il suo cellulare. Senza farmi notare, tocco il display e noto che è spento. In effetti, a parte una telefonata, non l'ho sentito parlare con nessuno, il giorno di Natale. Lo guardo con la coda dell'occhio, ma lui ancora non si è spostato.

Piano, mi faccio più audace. Giro per la piccola cucina ad angolo, sentendo sulla schiena il suo sguardo distratto. Ha poco cibo, quasi niente…in compenso, ha una buona scorte di thè. Indico le bustine ordinatamente sistemate nella mensola: "Ne vuoi?".

Le sue ciglia si aprono un po' quando si separa dai suoi pensieri, ma fa un cenno di diniego con il capo e non proferisce parola. Scrollo le spalle e chiudo lo sportello, solo allora emerge la sua voce scura: "Puoi prenderne, se ti va".

Infilo le mani nelle tasche, prendendo un atteggiamento noncurante: "Non sono un patito".

"C'è del caffè".

Stavolta nemmeno rispondo, limitandomi ad inarcare una spalla. Non sono nemmeno un patito del cibo, se il salto del pasto fosse una disciplina sarei un campione. Ma dubito che le sue abitudini alimentari abbiano un'origine sana.

Sospiro, andandomi a sedere al suo fianco. Gli poggio una mano sul ginocchio e stringo un poco: "Resto a dormire qui, ok?".

Se questo lo sorprende o disturba, non lo mostra in alcun modo. Continua a guardare davanti a sé.

"Non ti devi disturbare".

"Non è un disturbo. Non ti lascio solo e basta".

È appena visibile, ma la sua mascella si serra. Fa un piccolo cenno con il capo e chiude un poco gli occhi, come se si stesse spegnendo.

"Credi davvero che non avrei saltato?".

Stavolta i suoi occhi blu si poggiano su di me, scrutatori. "Credi che lo avresti fatto?".

"Non lo so…" rispondo, notando non per la prima volta come il parlare di me lo faccia scuotere, al contrario dei momenti in cui l'argomento cade sulla sua vita. Ha di nuovo una luce nel viso, seppur soffocata, e questo mi da l'impulso per prendergli una mano e stringerla.

Guarda le nostre dita vicine e le incrocia, una lieve ruga sulla fronte corrucciata.

"A cosa pensavi, su quel ponte?".

Ad essere sincero, non ne sono tanto sicuro nemmeno io. Mi prendo qualche secondo prima di rispondere.

"Difficile a dirsi…". La mia bocca si piega spontaneamente in una smorfia. "…di certo, non a tutti quelli che sono stati conquistati dal mio charme".

"Sei un bell'uomo…" considera con tono naturale, non un complimento ma una constatazione. "…ancora giovane, strano che tu non abbia trovato nessuno".

"Sono bravo ad allontanare la gente".

Sorride, sollevando gli zigomi. "Hai tenuto la tua empatia in serbo per me".

"Tu non sei la gente" ribatto automaticamente, scoprendomi a capire in quanti modi sia vero, per me. Sorride di nuovo, ma in modo più discreto. Si schiarisce la voce, cambiando argomento: "Non hai qualche parente?".

Sento il mio viso irrigidirsi d'istinto: "Mio padre. Meno lo vedo, meglio sto".

Lui non ribatte, poggiandosi di più contro il divano. Sospira e chiude gli occhi, pur rimanendo con una strana tensione nel corpo: "Mi spiace".

Non dico nulla, limitandomi a guardare fuori dalla finestra, da dove muore il sole di Natale.

Dopo una decina di minuti, finiamo col parlare del nostro, o meglio del suo ex posto di lavoro. Sembra conoscere tutti i membri dell'organico, mi avevano detto che era una persona molto apprezzata dai colleghi per la sua gentilezza. Io a malapena ricordo un paio di nomi, deve descrivermeli per farmi capire chi siano. In fondo non lavoro lì nemmeno da troppo, prima ero in una succursale.

La discussione scivola su un paio di affari di cui ora mi sto occupando e anche se è una cosa piuttosto stronza da fare, visto che era il suo lavoro quello che ho preso, lui riprende sempre il filo quando cerco di cambiare direzione. Forse lo distrae pensare a problemi tecnici, quindi dopo un paio di tentativi rimango su quell'argomento senza fare storie.

Vorrei chiedergli dove siano le persone della sua vita, ma magari in futuro ci sarà occasione per questo. Anche se al momento il futuro sembra una scatola molto piccola, in cui non si può far entrare tutto quello che si vorrebbe.

Alle undici di sera, è evidente che Richard è molto stanco. Ha a malapena dato qualche morso a dei cracker, prima di poggiare con abbandono la testa sulla mano e buttare fuori un lungo respiro. Lo lascio in pace per qualche secondo, prima di chiedere: "Nausea?".

Annuisce piano e con la stessa cautela si tira in piedi, come se fosse un'impresa. Per un attimo temo che si spezzi, ma raddrizza le spalle ampie e indica una porta vicina alla sua: "Ti prendo qualcosa mettere".

"Grazie" rispondo distrattamente, preso da pensieri poco piacevoli. Ha un colorito più pallido del solito, non credo sia solo l'effetto della lampada. Dopo poco emerge con una maglietta bianca a maniche lunghe e un paio di pantaloni da tuta grigi, che probabilmente mi faranno sembrare un bambino. Sono di altezza media, mi staranno decisamente lunghi, ma fa niente. Non avevo la minima voglia di tornare a casa per il cambio. Per fortuna aveva uno spazzolino di riserva, per quello avrei potuto uccidere.

Li prendo con un sorriso abbozzato ed entro nella piccola stanza degli ospiti per cambiarmi. Non perché sia stanco, il che è anche vero, ma più per fargli capire che non deve trattenersi in piedi per me. Quando esco, lui tiene un bicchiere d'acqua tra le mani. Non beve, lo osserva. Distoglie lo sguardo dall'acqua in lieve movimento e si stacca dal tavolo, dove si era poggiato.

Mi porge il bicchiere e fa un sorriso forzato: "Buonanotte, allora".

Cerco i suoi occhi nella penombra. Ha spento le luci, l'unica illuminazione viene da una lampadina sui fornelli e dalla mia stanza. Gli prendo piano l'avambraccio e mi sollevo per baciarlo sulle labbra.

"Buonanotte" sussurro, separandomi un poco. Il suo petto si alza e abbassa rapido quando respira, prima di entrare nella sua stanza. Accende la luce e mi guarda mentre chiude la porta, come se fossi un indovinello da risolvere. Solo, sospiro, una mano nei capelli.

Dopo essermi guardato un'ultima volta intorno, vado a dormire. Poggio il bicchiere sul comodino e mi siedo sul letto, stranamente comodo. Quando mi sdraio incontro il soffitto di un delicato giallo e dopo un po' chiudo la luce, già sapendo che il sonno non verrà facilmente.

11:55.

12:20.

1:24.

2:37.

Guardo l'orologio più volte, rigirandomi tra il dormiveglia e pensieri molto da sveglio. Sospiro innervosito. Gli occhi bruciano, non è che non abbia sonno ora, è la testa che sembra avere tutto un altro parere.

Sento un cigolio, poi dei passi, il rumore di un interruttore che viene pigiato. Riconosco la porta del bagno che si apre, cigola quando la si sposta senza sollevarla un po'. La fronte aggrottata, mi tiro a sedere. Passo una mano tra i capelli in completo disordine e la tengo lì, cercando di sentire oltre il battito del mio cuore. E anche se non sono un frequentatore di pub e discoteche, sono abbastanza sicuro che questo sia qualcuno che vomita.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Rimango in stasi, nel buio ferito dalla linea di luce che si incunea sotto la porta. Mi passo una mano sul viso e la tengo lì, sentendo i rumori lievi provenienti dal bagno. Respiro in silenzio, per quanto sia una cosa stupida: Richard non può sentire il mio solo fiato. Piano, porto le gambe giù dal letto, il fruscio delle lenzuola ha un volume esagerato nella mia testa ovattata. Questa strana sensazione da film post-moderno si interrompe quando un secondo rigurgito strozzato spezza questa ignava realtà. Serro la mascella e apro la porta, vergognandomi della mia stessa titubanza.

Non esito ad affacciarmi sulla porta del bagno, un rettangolo di luce nella casa buia e non familiare. Mi poggio sullo stipite, la mano rigida come le linee che mi creano intorno agli occhi. Non dico niente, offeso da come le spalle di Richard siano chiuse sulla tavoletta, come le ali di un uccello caduto in una tempesta. Prende respiri ampi e veloci, poi smette di colpo e si irrigidisce, tendendosi in previsione di un conato che non arriva. Quando torna a respirare, ogni tocco di fiato sembra una richiesta di oblio, un suono piegato dal desiderio di non trovarsi lì, spezzato sulle mattonelle di un piccolo bagno.

Con un sospiro, lascia che la tensione gli abbandoni le ginocchia. Si siede sul pavimento, un braccio abbandonato sulla tavoletta alzata. Quando alza la testa verso di me, tacciamo entrambi. I suoi occhi sono di un blu accecante, resi lucidi dallo sforzo e colpiti dalle luci chiare delle lampadine incastonate sullo specchio. Si schiarisce la voce, mandando giù per la gola un blocco il cui sapore gli fa corrugare la fronte. Dovrei andare a prendergli un bicchiere d'acqua, ma non mi muovo dal mio posto, mentre qualcosa di ineffabile mi dice che ora non devo essere altrove.

Richard distoglie lo sguardo, anche prima non sembrava star guardando me, perso in un mondo irraggiungibile. Poggia la testa sul freddo insensibile del muro e rimane così, la bocca abbandonata in una piega morbida. Il cambiamento è graduale, lento e ostacolato come l'arrivo di una goccia di pioggia che scende per un vetro. Le sua labbra si serrano, piega la testa su un lato. I suoi occhi prendono un umido diverso ed è come se un oceano fosse stato liberato da una diga immensa. La sua compostezza si spezza con un boato che mi lascia sordo, sconfitto dall'enormità delle cose.

Il suo collo si irrigidisce quando parla, un sussurro roco colmo della stanchezza di chi è sull'orlo dell'abbandono: "Io ero pronto".

Rigira le dita della mano destra e solo ora noto che tiene in mano il cellulare, rigorosamente spento.

"Me ne sono andato da tutti…". Sorride, un risata tinta di singhiozzo si fa strada tra i suoi denti: "Ho persino tolto la sim dal telefono".

Quando si piega, nascondendo la testa nella mano chiusa a pugno, sento qualcosa stringermi fisicamente il costato.

"Perché sei dovuto arrivare tu?".

È a malapena un mormorio, le parole si trascinano una appresso all'altra. Ma io capisco, capisco benissimo. I miei occhi cominciano a bruciare per conto loro, contro ogni mia disposizione e volontà. Mi avvicino e rigido come un burattino mi metto sulle ginocchia, sentendo il gelo impietoso dell'inverno più profondo che striscia sul pavimento. O forse il freddo è tutto nostro, al di fuori dell'alternarsi delle stagioni. L'unico punto di calore in questo spazio vuoto, è la pelle di Richard sotto la felpa nera che indossa. Sento il tepore del suo corpo, mi avvicino, avvolto dal profumo leggero di un dopobarba che già mi sembra familiare.

"Tu non te ne vuoi andare".

Si volta verso di me, colpendomi in pieno volto con lo sguardo finalmente privo della sua maschera, senza più lineamenti e senza più gesti, una destabilizzante emozione che stravolge il sotto e il sopra, scaraventando ogni cosa nel posto fisicamente sbagliato.

"Certo che non voglio!".

Sbatto il dorso della mano contro il water, ma quasi non me ne accorgo nell'impulso del momento. Stringo le braccia intorno al suo collo e subito anche le sue mi circondano la schiena, stringendoci insieme. Alzo una mano e stringo con forza le dita tra i suoi capelli neri, in un gesto che mi è del tutto nuovo. Ho avuto amanti occasionali ma questo…questa è una porta nuova che da su una dimensione del mondo sconosciuta e terribile, troppo potente per poter resistere. Il suo petto sussulta contro il mio e capisco che sta piangendo. Il mio sguardo si fissa su un punto del muro, mentre il resto del corpo si indurisce in attesa dei colpi futuri.

Forse non sono un uomo che crede nei miracoli, né uno di quelli che passa la vita intervenendo contro l'ingiustizia del mondo: ma che io sia dannato se non farò il possibile per strappare Richard ad una fine che non merita. Quello che stringo tra le braccia è troppo prezioso, non ho intenzione di lasciarlo andare.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


La mia mano è stretta intorno alle sue dita fredde, un incastro che sa di ineluttabile. Lui non mi guarda, lo sguardo poggiato tra il muro e il pavimento, amovibile anche quando gambe occasionali si mettono in mezzo.

"Signor Sensi?".

Alzo lo sguardo sul giovane dottore, il cui busto sporge dalla porta.

"Sì".

"Tocca a lei".

Non rispondo, rivolgendo il viso su Richard. Anche lui si gira a guardarmi e poi, piano, si tira in piedi. Rimango sulla sedia, la colonna vertebrale sporgente conto il muro a buccia d'arancia.

Si sistema il bavero del cappotto, la maschera di calma di nuovo al suo posto.

"Vengo con te?".

Lui mi fissa con misurato tepore e poggia il dorso delle dita sulla mia guancia, nell'ombra dello zigomo duro: "Forse dopo".

Si tinge di un breve sorriso ed entra, la schiena una sagoma nera in movimento contro la luce chiara che riverbera tra gli stretti, bianchi corridoi della clinica. Oggi doveva piovere.

Poggio la testa sul muro e chiudo gli occhi, attraversato da una stanchezza attiva. Ho dormito poco in questi giorni, ma lo stesso non riesco a spegnere la testa e tutto il resto del corpo continua in questa lotta tra la vita e il riposo. In questo limbo tinto di surreale, sulla sedia dove prima stava Richard un sogno cosciente porta una creatura incappucciata di nero, dita scheletriche strette intorno alla falce. Somiglia tanto al dipinto che tramava nell'ombra del vecchio palazzo di nonna, quello che i cugini hanno svuotato in una notte d'inverno, lei ancora calda nel sudario.

Era un vecchio stucco del settecento, chissà ora quanti strati di polvere lo copriranno. Da bambino sono cresciuto passandoci davanti, non ci pensavo da anni. Non mi sorprende che sia venuto ora in superficie, ma al momento la mia testa è troppo sopraffatta perché la sorpresa possa scalfirla.

Chissà che fine ha fatto quella cugina dai capelli rossi?

Apro una fessura sul mondo, tenendo le palpebre a mezz'asta. Lascio cadere la testa sul lato, il collo languidamente inarcato. La porta dell'ufficio del dottore…è così silenziosa.

La guardo per dei lunghi minuti, intravedendo l'orologio in fondo al corridoio. È dall'alba che siamo qui, ma in poche ore ci hanno fatto una serie di analisi, dei tipi più diversi. È tutto molto privato, il titolare è una vecchia conoscenza di mio padre. Una persona stranamente decente, mi domando come faccia a trovare simpatico il vecchio. A pensarci, al di fuori della famiglia piace un po' a tutti.

Che gli uomini lo tengano in gran considerazione non mi sorprende, considerando il suo carattere da intrattenitore e l'età delle sue compagne. Le donne, non le ho mai capite. Un uomo simile, che si pone al centro del mondo come il sole. Eppure loro…

Il filo dei pensieri si rompe da solo e sospiro, passando una mano sul viso. C'è un bar qui sotto, potrei prendere un caffè più tardi. A pensarci, è da un po' che non fumo, me ne sono dimenticato.

Aver ora voglia di una sigaretta e di una bottiglia di gin mi fa sentire mediocre.

Metto le mani in tasca e trovo il telefono, con gli auricolari ancora attaccati. In genere passo molto tempo ad ascoltare la musica, se non riesco a prendermi un po' di tempo per farlo divento nervoso. Invece oggi non ci ho proprio pensato. Non è solo la mia quotidianità ad essere cambiata e me ne accorgo del tutto solo ora. Mi destabilizza un po', ho l'impressione di poggiare i piedi sul nulla.

La porta si apre e io mi tiro su, avanzando di un passo prima che l'assistente del dottore mi intercetti.

"Può entrare".

Faccio un impercettibile cenno del capo ed entro, togliendo le mani dalle tasche.

Antonio si alza, il camice in sintonia con il candore della barba perfettamente curata. Mi tende la mano ruvida con un movimento delle labbra che non è proprio un sorriso: "Simone, siediti".

Richard mi rivolge un tenue sorriso, le dita strette in grembo. Sembra quasi piccolo. Prendo la sedia e la avvicino un poco, mettendo di proposito il ginocchio vicino al suo.

Antonio si schiarisce un poco la voce e prende un respiro per il naso, gli occhi che scivolano su una serie di fogli messi uno vicino all'altro sulla scrivania.

"Abbiamo parlato con Richard. Ora che sa qual è la situazione, abbiamo deciso come procedere con la cura".

Spio Richard con la coda dell'occhio. Non vuole dirmi molto, a quanto pare. Non insisto, anche se qualcosa di amaro si deposita sul fondo della lingua. Lui continua a rivolgersi al dottore, ma sa che lo sto guardando.

"Cominciamo subito con una chemioterapia, più intensa possibile. Così da poter operare entro la fine del mese. Solo allora potremo sapere quanta parte dello stomaco andrà rimossa".

Mette insieme i fogli e li chiude in una cartella bianca. La chiude con un bollino e la porge a Richard, che la prende con mano instabile. Guarda l'oggetto con le labbra tese in una linea di disagio e si isola, non badando a noi. Alzo lo sguardo e incontro quello di Antonio, che cerca di comunicarmi in silenzio. Dopo qualche attimo, si toglie gli occhiali.

"Richard, posso parlare un attimo con Simone?".

Gli occhi blu si spalancano di muta sorpresa, ma annuisce. Si alza con evidente fatica, mostrando il pallore del viso nel pieno della finestra. Quando passa, poggia brevemente la mano sulla mia spalla. Si ferma sul vano della porta, la mano della maniglia: "Grazie di tutto. Arrivederci".

Antonio sorride: "A domani".

Con un cenno del capo, chiude la porta.

"È raro vederti con amici, Simone".

Scrollo le spalle, rimanendo in silenzio. Forse sa, forse non sa, ma non mi interessa. Non ho mai nascosto di non avere preferenze sessuali, ma nemmeno ho mai avuto relazioni ufficiali.

Poggia meglio la schiena sulla poltrona marrone-rossastro, rigirando gli occhiali, su cui il sole crea fastidiosi giochi di luce.

"È un uomo molto riservato. Spero ti permetterà di aiutarlo".

E che tu lo aiuterai. Sento le parole che non dice, anche qui non aggiungo nulla.

"Non sarà un percorso facile. Faremo tutto il possibile, ragazzo".

Lo fisso mentre fa per alzarsi e accompagnarmi alla porta. Lo fermo, parlando per la prima volta: "Quali sono i numeri?".

Dopo essersi fermato per un lungo istante, solleva le gambe anziane ma stabili: "Presto per dirlo".

Annuisco, sentendomi un terzo giocatore in una partita in cui ne bastano due. Viene dal mio lato della scrivania e poggia una mano calda sulla mia spalla.

"Salutami tuo padre. Ci vediamo presto".

"Sì, grazie".

Richard è la prima cosa che vedo. Senza badare a tutto il resto, stringo il braccio intorno al suo, sentendo parte del suo peso poggiarsi stancamente contro di me.

"Devo passare a casa. Se vuoi ti lascio prima, così riposi".

Sorride, il profumo del suo dopobarba mi avvolge il collo. "La vedrei volentieri casa tua".

Usciamo nel parcheggio e prendo una piena bolla d'aria, i polmoni stancati da tutte quelle ore nella clinica. Si ferma e io con lui. Le sue dita mi tengono piano la nuca e mi bacia sulla bocca, un tocco di bruciante calore contro le nostre labbra fredde. Non so perché, ma mi lascia intontito. Questa cosa della malattia mi ha preso così tanto…che ho dimenticato Richard. Mi da un buffetto sulla guancia infreddolita: "Sorridi di più. Va bene?".

Sorrido senza sforzo, anche se non con tutta la gioia del mondo. Il suo braccio si stringe intorno alle mie spalle, stringendomi contro il suo fianco. Mi poggia un bacio tra i capelli. Mi ero dimenticato persino che fosse più alto di me. Che strana cosa la mente.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


~~La chiave si infila nella serratura senza forzature, come un dito che buca l’acqua. La porta si apre con un lieve cigolio e subito si sente l’odore del detersivo che usa la donna delle pulizie. Dev’essere andata via da poco, mi ero persino dimenticato di lei. Dovrò pagarla poi.
Mi strofino le mani tra loro senza motivo apparente, invitando Richard dentro con un rigido cenno del capo: “Prego”.
Richard mi sorride, prima di superare la soglia. Si guarda subito intorno, le mani fredde raccolte nelle tasche del cappotto: “È bella. Molto elegante”.
“Come altre” commento atono, scrollandomi la sciarpa di dosso. “Posso offrirti un tè?”.
“Grazie”.
Annuisco e mi dirigo in cucina, alzando del tutto le serrande semichiuse. Sento i passi di Richard dietro di me, sento il suo sguardo sui mobili come se lo stesse passando su delle parte del mio corpo, staccate da me.
“Non hai foto, qui”.
“Nemmeno tu lei hai” rispondo, mettendo il pentolino sul fuoco.
“Ma io lì ci sto da un paio di mesi”.
Abbozzo un sorriso tanto per fare e gli sposto la sedia dal tavolo, invitandolo a sedersi. Lui non insiste sull’argomento e si siede, il corpo rigido e controllato.
“Ti fa male qualcosa?”.
Scrolla le spalle larghe, noto solo ora che non si è tolto il cappotto. “Tutto bene”.
So che non è vero, ma lo lascio tranquillo. Ha un brutto pallore, forse dovrebbe mangiare qualcosa. Dopo andrò a fare la spesa, spero di poter preparare qualcosa che non gli disturbi troppo lo stomaco. L’affinamento continuo che gli sta tagliando gli zigomi mi sta facendo venire il nervoso.
Mi siedo davanti a lui, tenendo tra le mani una tazza di tè, che però non porto alla bocca. Me la sono fatta tanto per tenergli compagnia, non mi piace. Non so nemmeno perché mi sia premurato di tenerne una scatola, forse mi ricorda i tè che si faceva nonna quando mamma stava male. Uno strano, triste conforto, delle bustine di foglie. Per niente allegro.
Poggio meglio la schiena contro la sedie, accorgendomi di tenere le spalle incurvate in avanti. Continuo a tenere la presa sulla tazza, ma con una mano sola.
“Come ti senti?”.
Prende un sorso con cautela, con la stessa attenzione riaccompagna la mano verso il piattino.
“Ora che so meglio cosa devo fare. Meglio”.
Le sue labbra si curvano come per sorridere, poi si bloccano prima di finire, come se si fosse dimenticato ciò che stava per fare.
“Vuoi un po’ di zucchero?”.
“No, grazie”.
Rimango un attimo ad ascoltare il silenzio. Il rumore del tram che passa non lo rompe, lo sottolinea. Sposto il capo verso la finestra, trovando il fiume che vive dall’altra parte del vetro. Il sole batte ancora intenso, nonostante sia dicembre e il pomeriggio stia per passare. Dà una luce bianca che in ogni sfumatura sa d’inverno. Tocca l’acqua frastagliata da massi e correnti, riempiendola di piccole farfalle chiare che compaiono, battono le ali e poi scompaiono nel nulla, trascinate via o perse nell’aria. L’occhio mi cade poi sul davanzale, dove ancora si poggia un libro che ho letto ormai sei mesi fa.
Lo indico con la testa: “È molto bello. Dovresti leggerlo”.
“Davvero?”.
“Meraviglioso”.
Prendo un sorso tanto per fare.
“Se lo dici tu, ci credo”.
Perché non sono uno che apprezza le cose facilmente, immagino che questo lo abbia capito. È piuttosto evidente, a pensarci. Era da tempo che non mi curavo di ciò che qualcuno potesse pensare di me, dal di fuori. Richard continua a scorrere la casa con gli occhi blu che riflettono una strana stanchezza che non vuole riposare. Non so bene cosa stia cercando di capire. Forse me.
“Devo fare un paio di cose…” dico, facendo rotolare il tè nella tazza. “…forse è meglio se ti riposi un attimo. Prima di andare”.
Sorride con calma, stavolta un po’ più presente.
“Se mi fai vedere la tua camera, d’accordo”.
“Non ti facevo così curioso”.
“Ho un enigma da risolvere”.
Sorrido anch’io in un attimo di complicità: “Questo enigma si chiama Simone?”.
Non risponde, ma gli si formano delle rughe intorno agli occhi quando amplia il sorriso. Mi sorge una lieve risata un po’ impacciata, bloccata da mancanza d’abitudine.
Abbandono il tavolo, facendo strada: “Vieni”.
Gli porgo la mano quando mi è vicino e lui la prende dopo un attimo di automatica esitazione. Voglio che la prende senza pensarci nemmeno, in futuro. Tenterò di ottenere la sua fiducia spontanea, anche se non c’è una ricetta per farlo.
Ci inoltriamo, due ombre nelle ombre del corridoio. Vivo in questa casa, ma per un attimo mi sembra di essere di passaggio su un pavimento come milioni d’altri.
La mia camera è meglio illuminata delle altre. Mi piace essere svegliato dalla luce del sole, anche se col tempo ho continuato a farlo più per svegliarmi in tempo per rendere ogni ora un proficua. Mi ero dimenticato che lo facevo perché nel vecchio palazzo di nonna non c’erano serrande e ci svegliavamo così, con i raggi del sole che sembravano portare aggrappati a sé i limoni e gli aranci dei campi intorno.
Mi passo una mano sul viso, poi porto indietro i capelli. Richard sta guardando un vecchio armadio intarsiato e cercando di non farmi notare mi avvicino alla cornice abbandonata su una poltrona ormai bucata. La prendo e in silenzio la giro, voltandola contro il muro. Per fortuna Richard non mi nota e con le gambe un po’ intorpidite mi dirigo alla cassapanca, tirando fuori un paio di coperte e una federa pulita.
“Puoi sistemarti qui. È abbastanza comodo”.
Le poggio sul letto e solo ora noto Richard tenere la cornice tra le dita, il vetro colpito in pieno dal sole. Raddrizzo la schiena con una lieve smorfia di nervoso non diretto a nessuno in particolare.
“Solus cum deo…” legge, con un latino dallo strano accento britannico. Mi mostra la china che raffigura un veliero solitario nel mare notturno, l’unica luce una stella solitaria che ne sfiora l’albero maestro.
“Cos’è?”.
Scrollo appena le spalle: “Uno stemma”.
Lui fa un cenno col capo, tornando a guardare il disegno. “Della tua famiglia?”.
Annuisco, nascondendomi nel sistemare la coperta. Poggia la cornice dove l’ha trovata, ma nel verso giusto. Capisco che ha visto la foto di mia madre quando si dirige al comodino vicino al letto. Prende anche quella in mano, ma con una cautela quasi religiosa.
“Tua madre?”.
“Sì”.
Mi studia per un attimo, quando smette ha l’aria di chi ha capito un po’ di cose.
“Era molto bella”.
“Sei molto intuitivo”.
Dirige un’occhiata di striscio verso di me, continuando a guardare mia madre come se lei potesse parlargli.
“Perché ho capito che è morta?”.
Le dita mi si chiudono rigide intorno al cuscino, un gesto spontaneo. Con un respiro più lungo sistemo la federa sgualcita e do un ultima raddrizzata alle lenzuola.
“Hai preso la sua bellezza”.
Mi giro a guardarlo con occhi sbarrati.
“Me lo dicevano da piccolo…” sussurro.
“È ancora così”.
Rimette la foto al suo posto, togliendo un angolo di polvere dalla cornice datata.
Quando mi si avvicina fa un sorriso nuovo, che ancora non gli avevo visto. Ha una morbidezza nuova, sa anche un po’ di passato, di abitudine. Poggia una mano sulla mia guancia, sfiora lo zigomo con le nocche fredde.
Avvolgo un braccio intorno alla sua vita e di istinto lo bacio, sotto al sorriso prudente di mia madre, bella come nei ricordi. Ci separiamo piano e di istinto poggio il viso contro la sua spalla, chiudendo gli occhi.
Lo sento sorridere contro il mio collo. Le sue dita mi tirano un poco i capelli.
“Credevo fossi io quello che doveva dormire”.
Abbozzo un sorriso, emettendo un respiro stanco.
“Non ho dormito molto, nelle ultime notti”.
Sussulto per lo spavento quando si lascia cadere sul letto, trascinandomi con sé. Le sue labbra si poggiano contro la mia fronte, stupendomi. Avvolgo le dita nel suo golfino, accorgendomi di avere l’orecchio contro il suo cuore. Batte e sembra dare il ritmo al tempo. Rimango lì ad ascoltarlo e vorrei comunicargli qualcosa anch’io. Vorrei che potesse battere una volta su tre, anche due su tre, e con il suo ritmo rallentato far rallentare anche il resto, dandoci più tempo. Ma sono i pensieri un po’ persi tra la vita e il sonno, senza un vero senso. E il buio degli occhi chiusi diventa presto quello dell’incoscienza, facendomi perdere.
Ma Richard continuo a sentirlo, forse per le sue braccia intorno a me, per il suo battito contro la mia testa, per il respiro che tocca i miei capelli. Sento la sua vita toccarmi e dal buio il viso di mia madre si mette in mezzo. Lei non c’è più, per quanto l’amassi è sparita nel nulla e pur viaggiando in tutto il mondo non la troverei, non posso nemmeno accarezzarne l’ombra. Lei aveva i capelli neri, anche Richard li ha. Cerco lei in quel niente, trovo Richard, ma ho paura di perdere anche lui.
Il sonno continua a tenermi, ma da sola la fronte si corruga e le dita si arrampicano su Richard, fino a toccargli la pelle calda del collo. Quando il sonno diventa profondo, non me ne accorgo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Richard POV

Il fiume è rubino stasera, un insolito colore per i tramonti di gennaio. Scintilla caldo nel suo cammino per la città, dà qualche colpo di luce alle finestre, miscelandosi ai veli del sole calante che ricopre delle sue ultime forze le pareti della casa, quasi fosse ancora in vita per raggiungere la foto alla fine della stanza. Simone l'ha messa lì qualche giorno fa e la guardo ancora e ancora, la testa abbandonata con stanchezza. Gli occhi vorrebbero chiudersi ma lei mi chiama, con quel viso così simile al figlio. Era così bella…a vederla sembra un'eroina della Bronte. Il nome Charlotte le starebbe d'incanto. Sospiro, la mano sullo stomaco per sentire il fluire del respiro. Ogni giorno che passa, mi sembra di saper prendere meno aria, come se qualcosa dentro di me si stesse restringendo. Mi giro verso il comodino, dove lo specchio incastonato è piegato davanti, posso vedere parte del mio riflesso. Assottiglio gli occhi, cercando di capire quanti capelli ho perso rispetto a ieri. Mando giù un altro sospiro e sollevo lo sguardo al soffitto a cassettoni. Mi piace la casa di Simone, è così piena di passato, nonostante i suoi vani tentativi di renderla più asettica possibile. E poi, ancora quella foto. Lei è morta e da quel poco che Simone mi ha raccontato doveva essere una perla del mondo, impossibile da lordare dal suo basso marito, ma da lui assopita.

Stringo le mani intorno alla felpa pesante. Chiudo le dita al brivido cattivo che mi attraversa e nascondo il viso contro il cuscino, cercando in lui un amico che cacci via questo amaro presagio. Il calore…non poterlo più sentire. Una mano si poggia sulla mia guancia e spalanco gli occhi, sollevandoli verso Simone. Accenna il suo solito, rigido sorriso, come se la sua bocca non fosse stata creata per farlo.

"Sei tornato" e odio quanto la mia voce esca flebile e graffiata. Annuisce, prendendo tra le dita ciocche dei miei capelli, piano, pianissimo. Leggo dal suo sguardo piegato che alcuni devono essergli rimasti in mano e questo mi orripila. Poggio un gomito sotto di me e con un breve, intenso sforzo mi tiro a sedere, prendendo la sua mano nella mia.

"Come è andata?".

Lui mi scruta, i suoi grandi occhi marroni, dal taglio netto e roccioso, scavano delle profondità che non credevo di avere. "Bene".

Sorrido: "Loquace come sempre".

Scrolla le spalle, intoccato da ciò che può fare il resto del mondo. Non riuscirò mai a capire perché un uomo così, chiuso nel suo muro di passato e tracciato futuro, si sia preso un tale interesse per me. Mi sento una pessima persona ad esserne grato. Prende la busta della spesa da per terra e la porta in cucina, dove lo sento mettere a posto.

Poggio il braccio sulla schiena del divano, osservando il mio cappotto sul suo appendiabiti, nel solito posto. È così strano che abbia un suo posto fisso, a casa di un uomo che conosco da meno di un mese. Eppure eccomi qua, con le mie cose tra le sue.

Questa casa è troppo fredda. Vieni da me.

Sorrido contro la mano a ricordare le sue parole, con quel suo tono sempre misurato e senza orpelli. Mi tiro in piedi e con il respiro un po' balzellante lo raggiungo in cucina. Lui mi guarda con la coda degli occhi e non si muove mentre gli circondo la vita con le braccia, poggiando la testa stanca sulla sua spalla, continua a mettere le buste per il tè nel contenitore, un elegante custodia in maiolica. Ci sono queste piccole, grandi cose sparse per casa sua, come indizi lasciati da una famiglia ormai trascorsa, sembrano portare con loro gli odori della vecchia Sicilia e le risate assistite da camerieri.

Passo le dita sulla superficie liscia, fredda. Cerco di leggere qualcosa nella sua espressione di pietra.

"Cosa…cosa hai fatto?".

"Ho lasciato il lavoro".

"S-Simone? Ma perché…una cosa del genere…".

"Non mi interessa".

Gli do un bacio sulla guancia, passando di proposito il naso freddo sul suo collo. Finalmente sorride, quando lo fa spontaneamente sono sorrisi piccoli piccoli, che gli sollevano a collinetta una guancia, verso gli zigomi un po' sporgenti. "Allora…cosa vogliamo fare stasera?".

Scrolla le spalle magre, chiudendo la scatoletta per metterla vicino al posacenere. Ho trovato più pacchi di sigarette in casa sua, ma non gliele ho mai viste fumare. Tamburella brevemente con le dita affusolate, da quei fumatori pieni di doloroso, tormentato contegno che ti immagini in certi romanzi della beat generation.

"Vediamo un film?".

"Quale?".

"Non lo so…vedi tu. Però prima mangiamo".

Prende una sedia dal tavolo: "Siedi".

Mi accompagna giù e per questo gli rivolgo un sorriso: "Non sto così male".

Stringe la mia spalla nel suo andare verso il frigo. Mi giro a guardarlo, mentre il suo cipiglio serio permane persino nel contemplare le uova.

"Potremmo guardare qualcosa di umoristico".

Fa un vago rumore di assenso con la gola, cercando non so cosa nel primo ripiano. "Mi piacerebbe vederti un po' divertito. Cos'è che ti diverte?".

"Non saprei".

"A me facevano ridere il mio cane e il mio gatto quando erano cuccioli e giocavano insieme. Erano davvero divertenti".

"I tuoi animali?".

"Sì, li ho lasciati a mia cugina quando mi sono trasferito a Roma. Lei ha una fattoria, sarà un anno che non ci vado".

"Hm".

Mi guarda con occhi che non tradiscono nulla, niente a farmi intuire che si sarebbe presentato con un cucciolo di cane, il giorno dopo. Lo tiene per sotto le zampe, sollevato come un idolo del quale non sa che fare. Quando parla è laconico: "Pet therapy".

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


~~Richard POV

“Come la vogliamo chiamare?” chiedo, la cagnolina che si rigira sul mio grembo da una decina di minuti. Stringe i dentini sul mio pugno chiuso e sorrido piano allo sguardo omicida di Simone. “Tranquillo, non mi dissanguerà”.
Scrolla le spalle e si siede sul tappetto, davanti al divano su cui sono adagiato da tempo immemore. Fatico un po’ a tenere gli occhi aperti, ma almeno non ho freddo stasera. Gratto il cucciolo dietro l’orecchio e lei rotola per l’emozione improvvisa, finendo contro il mio fianco. Simone lo scruta con una strana perplessità.
“Perché la guardi così?”.
“È arancione”.
Rido, scuotendo il capo: “Sei tu che lo hai scelto”.
“Era sera. Mi era sembrato più chiaro”.
Prendo la bastardina con il braccio, prima che si schianti rumorosamente a terra. “Gli serve un nome”.
“Cane”.
“Come?”.
“Cane va più che bene”.
Il bello di Simone, è che queste cose le ride con l’aria più seria del mondo. Non riesco mai a capire quando scherzi o meno, dalla sua espressione mi pare piuttosto convinto. Mi chiedo come mai abbia preso un cane, se con gli animali ha questo rapporto di assoluta estraneazione.
Sospiro: “Sei terribile”.
Appare intoccato dal mio commento e si poggia contro il divano, la testa vicina alla mia spalle. “Dobbiamo proprio dargli un nome?”.
“Sarebbe il caso, sì. Al canile non hai messo niente sul modulo?”.
“Ho scritto cane”.
Sorrido, strofinando la guancia contro i suoi capelli. “Sei stato gentile a prenderla. Lo sai che va portata fuori, vero?”.
Una nube gli attraversa lo sguardo. Si chiude stretto nel suo pullover: “Sì che lo so”.
Solleva le testa su di me e piano poggia un dito tra le mie ciocche, come fossero petali in procinto di appassire: “Ciocca bianca”.
“Lo so” rispondo con un sorriso, ormai abituato al suo modo di fare senza fiocchi. Fa un cenno brusco con la testa, tirandosi in ginocchio: “Fammi posto”. Mi tiro a sedere e in un attimo le sue gambe sono ai miei lati, le braccia chiuse intorno alla mia vita. Poggia il mento sulla mia spalla e continua a scrutare il cucciolo, nemmeno la palla di pelo arancione sia la risposta ai misteri dell’universo.
Rimaniamo in silenzio per un po’. Fuori, comincia a scendere la pioggia, dopo qualche minuto il vento la spinge contro i vetri a picchettare contro la casa. Lascio scivolare le dita sul pelo dall’effettivamente improbabile colore, notando con disturbo quanto siano diventate scheletriche. Sono così bianche…trasalisco e le braccia di Simone si stringono più forte intorno a me.
“Richard”.
“Sì?”.
 “C’è una clinica, in America…”.
“Ok”.
Vedo la sorpresa negli occhi di Simone. In un bellissimo istante, si trasforma in un sorriso contento. Piega il viso nel mio collo, il suo respiro da colore anche alla mia pelle fredda. Se sorride così per questo, che luce può emanare per gioie più grandi?
“Sei bello quando sorridi”.
“Piantala” mormora contro la mia spalla, gli occhi chiusi. Qualcosa nella durezza della sua postura è scomparso, come se un masso invisibile gli fosse improvvisamente rotolato giù dalle spalle. Sembra più giovane ora, quasi dolorosamente tale. Borbotta qualcosa che non riesco a distinguere.
“Come?”.
Si schiarisce la voce, un lieve, nuovo rossore sulle guance. “È…bello non essere più l’unico che lotta”.
Batto ripetutamente le palpebre. Ah…che idiota sono stato. Prendo le sue mani tra le mie, incastrando le dita. La mia fronte si poggia sulla sua: “Scusami”.
Rimane qualche secondo senza dire nulla, appare quasi addormentato. “Ok…”.
Ho deciso di chiamare il cane Hope. Anche se di per sé non è granché, ora mi sembra il nome giusto. Non lo dico subito a Simone, lasciandolo in questi attimi di silenziosa calma in cui finalmente è caduto.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


~~Richard POV
“Hope? È la protagonista di una soap?”.
Ridacchio, chiudendo il libro che cercavo invano di leggere. Non riesco a concentrarmi sui libri di recente, eppure ne ho tanto di tempo libero. Simone è intento a fare una piccola valigia, uomo essenziale come sempre. “A volte mi sembra che tu dimentichi le mie origini” commento con un sorriso. “Rimango pur sempre inglese”.
“Sì. Ma non sapevo guardassi le soap”.
“Ma piantala”.
Chiude la valigia con un gesto secco e si va a sedere sul bordo del letto, togliendosi il golfino e poi la maglietta, che l’ho convinto a mettere invece della solita camicia. La sua schiena magra lo sembra ancora di più alla luce scura della lampada e gli poggio un dito sulla colonna.
“Dovresti mettere su peso”.
“Dopo di te”.
“Io ero grosso, prima della malattia”.
“Non eri grosso, solo largo. Non è colpa mia se convivo con un ex-edonista”.
Si infila il pigiama e con un lieve sbuffo si fa cadere all’indietro, poggiando la testa sul mio fianco. Solleva una mano e mi porge qualcosa, che in principio non riconosco subito. Quando mi torna alla mente, spalanco gli occhi: “Dove l’hai preso?”.
“Dal tuo cassetto”.
Faccio un pensieroso cenno di assenso con la gola. Ci penso, prima di togliergli dalle dita il mio vecchio cellulare. Lo rigiro tra i palmi, sentendo il peso un tempo familiare. Questa scheggiatura l’ho fatta quando è caduto sulla scrivania, questi graffi quando mi è scivolato, il giorno in cui ho saputo di essere malato. Sembra un’altra vita, il telefono del protagonista di un film che ho visto.
“Dovresti accenderlo”.
Guardo il suo viso, con la sua tipica, stranamente distratta serietà. Prendo un sospiro e pigio lentamente il pulsante di accensione, ma mi fermo quando chiede il pin. L’ho spento da quando ho saputo di avere i giorni spezzati, quando ho deciso di fuggire per cercare disperatamente di soffrire di meno.
Simone fa finta di non curarsene, ma la sua schiena è rigida, lo sento che attende la mia decisione come se mettendo questi quattro numeri, io accedessi ad una vita quasi eterna. Ah, al diavolo. Sono stato egoista abbastanza nel mio male.
La musichetta vibra atona nella stanza e il blu dello sfondo evidenzia i link sulla schermata iniziale. Poi il cellulare inizia a vibrare, suonare, ancora e ancora, quasi di fretta, come se non riuscisse a mettere ordine a mille tintinnanti esserini che lo invadono a forza, facendogli quasi male. Passano i minuti e nella sorpresa non avevo notato il viso stralunato di Simone, che guarda il cellulare con gli occhi spalancati.
Rido e gli do un bacio, lui mi prende il cellulare e sembra persino impallidire al numero di messaggi e chiamate perse.
“Lo sapevo che eri popolare…”.
Scuoto il capo, poggiandolo stancamente sulla testata del letto. “Sono passati mesi. È normale”.
Storce la bocca: “Dovrei preoccuparmi? Qualche figlio di cui non so?”.
Gli scuoto i capelli, non badando a rispondere.
“Vuoi leggerli?” chiede in sussurro, lui che parla sempre così sicuro. Chiudo gli occhi stanchi, stupendomi in silenzio di sentirmi finalmente forte abbastanza, da poter aprire la diga al fiume della vecchia vita luminosa.
“Fai tu”.

Simone POV

“Chi è Georgie?”.
“Georgina” sussurra, la voce profonda fievole e stanca. “È mia sorella”.
“Aaron?”.
“Fratello”.
Non posso fare a meno di bloccarmi, nemmeno mi avesse colpito una cascata gelata. Sapevo che Richard avesse una famiglia, è ovvio che cavolo. Ma sentirli diventare…vivi, dopo mesi che io e Richard siamo tutta la vita che ci circonda, mi lascia in un baratro di emozioni confuse, eppure con una strana trepidazione in corpo. Di colpo mi chiedo come siano, quanto abbiano sofferto alla scomparsa improvvisa di Richard, quanto lui abbia mai pensato a loro. Mi accorgo con ansia che la mia mano trema appena.
“Mamma…e papà”.
Mi tiro su un gomito, non riuscendo a credere ai nomi che, uno dopo l’altro, nascono sullo schermo, come decine di persone stiano resuscitando davanti ai miei occhi. Mi giro verso Richard, il mio corpo attraversato da una scossa quasi esastica mai provata prima d’ora.
“Richard…”.
Lui tiene il capo rivolto verso la finestra, la mascella serrata, il pugno chiuso intorno alla coperta. È vergogna quella che gli macchia il volto e lo sguardo, la conosco così bene perché la prova tanto spesso. I suoi occhi si lanciano per un attimo sul cellulare con voglia e paura, il corpo teso per prenderlo e finalmente usarlo, allo stesso tempo si spinge indietro per non farlo.
Mi metto in ginocchio, d’improvviso mi sento il padrone di ciò che è giusto e sbagliato al mondo, mi sembra di capire ogni cosa quasi un essere superiore. È una pazza sensazione di un istante, ma abbastanza da farmi premere il pulsante verde.
Richard diventa pallido quando gli poggio il telefono contro l’orecchio e allunga una mano per allontanarlo, ma io gli afferro il polso. Affondo gli occhi nei suoi oceani blu, ancora gli occhi più belli che abbia mai visto, pur nelle sue rughe gonfie di fatica. C’è un’energia in me che ha covato negli ultimi mesi, è fuori dal reale quanto Richard mi abbia reso vivo.
Rimaniamo entrambi immobili, il mio respiro vicino al suo. Squilla nemmeno due volte prima che una donna risponda con il cuore mozzato stampato nella voce: “Richard!”.
La mascella di Richard si pietrifica, ferma il respiro.
“Georgie…”.
Si sente un singhiozzo e poi qualcuno che piange, interrotto da parole: “Oh my god, Richard. Oh, thank you. Thank you…”.
Richard manda giù un groppo in gola e si copre gli occhi con una mano, il capo gli cade in avanti. Poggio il palmo sulla fronte e piano gli sollevo la testa, trovando i suoi occhi che le lacrime riescono a far splendere ancora di più. Sorrido e non so cosa questo gli provochi, perché anche lui fa un sorriso contento e le spalle gli si rilassano. Mette una mano sulla mia spalla e annuisce, dandomi rassicurazione per qualcosa difficile da mettere a parole. Si asciuga le lacrime e prende un ampio respiro, prima di parlare con tutta la bellezza della sua voce.
“Georgie. I’m sorry, I’m…here now”.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


La stanza è immersa nel silenzio, per questo quando una macchina passa per la strada pare fendere lo spazio in sé, tranciando a metà il buio con le luci dei suoi fanali. Sospiro e il mio fiato mi accarezza le mani, raccolte sotto il mento. È stata una giornata lunghissima, Richard sembrava non smettere mai di stare male, non era mai capitato che non fosse nemmeno in grado di parlare alla famiglia. Ho dovuto dire io loro come procedessero le cose…è stato un momento molto pesante, cosa potevo dirgli, quando Richard non riusciva nemmeno a tenere in mano il telefono?

Mi ha spiegato perché non voglia che i parenti scendano in Italia, lo comprendo anche, ma alle volte mi trovo a sperare di non essere solo in tutto questo, di avere qualcosa a darmi il cambio anche solo per un istante. Ormai viviamo insieme da tre mesi e mentre agli inizi i giorni si alternavano tra difficoltà e momenti in cui le cose riuscivano a funzionare, nelle ultime settimane Richard non riesce più ad uscire dal turbinio di stanchezza e dolore che lo sta trascinando come una crudele corrente marina. Sospiro ancora e stringo le dita tra i capelli, stringendoli piano.

Il suo respiro ha preso una nota faticosa, pare graffiare le ossa del petto prima di uscire per una gola troppo stretta. Diavolo…sono le quattro di mattina. E io sono ancora seduto su questa dannata poltrona.

Dovrei recuperare le forze, mancano pochi giorni all'America.

Mi alzo a fatica e sento la schiena irrigidirsi, la porto indietro ma aggiusta poco. Vado in bagno e la luce mi ferisce gli occhi, li chiudo a due fessure sottili e apro l'acqua fredda per passarmela più volte sul viso. Il mio riflesso nello specchio sembra irreale, mi ero quasi dimenticato del mio aspetto.

Forse ho una ruga nuova intorno agli occhi…no, sarà solo la stanchezza. È da giorni che non riesco a dormire bene, l'altra notte mi è persino preso un attacco di panico. O almeno credo che lo fosse, non mi era mai capitato prima. Ora l'ansia mi colpisce nei momenti più improvvisi, devo stare attento ad ogni pensiero che faccio, per non imboccare una strada che porta ad anfratti cupi e dolorosi della mia testa. Ma non posso dire nulla a Richard, è lui quello che sta combattendo la battaglia più difficile, io devo resistere, io non ho nulla di paragonabile. Certo, spesso fa male…

Scuoto il capo, rigirandomi l'asciugamano tra le dita. Di solito le persone cosa fanno, quando hanno questo tipo di problemi? Vanno in terapia? No, adesso non posso reggere una cosa del genere. Non è nemmeno detto che funzioni e dovrei mettere a nudo troppe cose, per quanto io sia un uomo sostenuto non sono scemo: il rischio di crollare c'è, sono umano. Un umano che un altro po' si buttava giù da un ponte. Non ho nemmeno mai affrontato la…la morte di mia madre.

Mando giù un groppo che mi attanaglia la gola come una trappola e torno in salotto. Il silenzio fa paura. Mi siedo sul divano e con presa flebile, nervosa, prendo il cellulare. Lo fisso come se mi stesse sfidando. Chi potrei contattare io, in un momento di difficoltà?

Mio padre no di certo, l'ultima volta che l'ho sentito mi sono attaccato a vino e sigarette. Ho vari cugini, ma il rischio minore è che mi portino via il portafoglio. Non vedrebbero l'ora di rubarmi altra roba. I compagni del liceo…di alcuni non ricordo nemmeno più il nome, manica di falsi che mi si avvicinavano per il nome della mia famiglia. Quanto sbagliai a non trasferirmi…forse, scappando dalle terre degli avi, avrei fatto qualche amico, almeno uno solo. Ma lì, tutti sapevano chi ero, cioè quello che io non volevo essere. Magari qualcuno di sincero c'era, ma non me ne sarei mai accorto.

Faccio scorrere la rubrica, non ho molti numeri. Ho gli occhi che mi si chiudono per la stanchezza e quasi mi sfugge quel nome. Sbatto le palpebre, preso alla sprovvista dal mio stesso cellulare. Sono passati…anni. Eppure da bambini andavamo d'accordo, quando ci vediamo in Sicilia siamo persino cordiali. Avremmo potuto diventare amici, invece niente.

Emetto l'ennesimo sospiro e cedo di botto sul divano. Allungo la mano alla cieca per prendere la coperta che tengo sempre sullo schienale e mi ci avvolgo approssimativamente. Non sento freddo, per le condizioni di salute di Richard la casa è sempre caldissima. Ancora, il silenzio colpisce duro.

Per un attimo, tra sogno e realtà, mi sembra di sentire la risata di un bambino.

Al mattino, nemmeno sia arrivata una creatura di un altro mondo, il campanello suona. La cosa mi sveglia bruscamente, perché è una cosa rarissima. Io e Richard sembra quasi che viviamo in un altro mondo, fatto di questa casa e di ospedali. Mi tiro in piedi e sono talmente instupidito dalla stanchezza che non noto subito Richard, in piedi sulla porta che dà al corridoio. Si poggia sullo stipite e dev'essere uno di quei giorni terribilmente storti, perché è pallidissimo e porta la felpa molto pesante. Abbozza un sorriso mal riuscito e mormora un flebile "buongiorno", a malapena lo sento.

Mi passo una mano tra i capelli in disordine mentre mi avvicino. Gli chiudo bene la cerniera e poggio una mano sulla sua spalla magra: "Come ti senti?".

"Bene. Sbaglio o…il campanello?".

Ha cominciato a tagliare le frasi, dice meno parole possibile. Questa è una cosa dell'ultima settimana.

"L'ho sentito anch'io". Mi sforzo di sorridere, anche se non mi verrebbe per niente. Gli accarezzo piano una guancia e lui sorride, più credibilmente stavolta. Lancio un'occhiata all'orologio e vedo che sono le nove. Era da tanto che non dormivo così a lungo, chissà Richard a che ora si è svegliato. Mi fa sentire a disagio averlo lasciato solo per molte ore, non mi piace aver dormito qui sul divano, odio il fatto che abbia aperto gli occhi con il letto vuoto.

Bussano e sbuffo, cercando ancora di sistemare i capelli. Mi avvicino alla porta con passi pesanti che solitamente non sono nel mio modo di fare, ma mi sento molto sul margine di un attacco di rabbia stamane.

"Chi è?".

"Cerco Richard Walsh".

Corrugo la fronte e mi giro, trovando Richard con indosso la stessa espressione.

"Questa voce…" sussurra.

L'idea che dietro questa porta ci sia qualcuno a cui Richard è legato mi fa prendere da una strana frenesia e senza perdere altro tempo spalanco la porta. E così rimango, reso di gesso sul mio posto, nemmeno io sia davanti ad una visione.

Due occhi quasi sfacciatamente simili a quelli di Richard si abbassano su di me, da un viso coperto da una barba leggera, scura quanto i capelli portati indietro. Il viso è più aperto, la fronte ampia, ma mai quanto le spalle da gigante. Somiglia così tanto al Richard di quando l'ho conosciuto, che fa quasi male, evidenzia i cambiamenti della malattia con una forza impressionante.

"Aaron?".

La voce di Richard mi spezza dall'immobilità, o per meglio dire ci. Il nuovo arrivato solleva gli occhi blu e li spalanca, sembrano diventare due oceani. Mi sposto quando mi viene contro per superarmi, le gambe lunghe lo portano fino a Richard in un breve secondo. Li osservo dalla porta, non riuscendo a credere a quello che stia succedendo, per quanto non sia nulla di surreale. Eppure mi sembra che qualcuno abbia appena preso a calci la mia sfera d'incubo. Ogni pensiero scompare mentre Aaron stringe un attonito Richard tra le braccia, il viso affondato nel suo collo e la grande schiena che trema. Il solo pensiero è che il fratello di Richard è qui, non siamo più soli.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


~~Sento la testa deserta in questo momento. Non mi era mai capitato prima, negli ultimi mesi il mio cranio mi è sembrato riempito di un cotone di pensieri nuovi e forti, che ormai pensavo essere parte naturale di me. Possibile che dopo aver conosciuto Richard io abbia reso la mia vita un prolungamento della sua?
Ora, da solo per le vie del centro, mi sembra di avere due ombre che mi seguono. L’uomo che sono io, l’uomo che ho creato da quando mi sono fatto carico di una vita, che ho messo alla base del mondo. Forse il vero me non è in nessuna di queste due ombre, perché quello che ero prima…no, non andavo bene. Era il frutto di qualcos’altro, di un passato e di meccanismi che ora percepisco con più chiarezza. Ora il mio stesso respiro pare legato a quello di Richard, che forse da un po’ ha smesso di essere l’uomo per cui ho perso la testa mesi fa. E’ diventato quasi…un dio nelle mie giornate, qualcosa di vicino eppure lontano, da cui dipende la vita stessa, chiusi nella cella del nostro tempio. Ma quello che ho fatto, senza neanche accorgermene, non è giusto nei confronti di nessuno di noi. Possibile che io sia come l’acqua, che cambi forma in dipendenza di ciò che mi contiene?
Fuggo la folla in una via antica che porta verso il fiume, contro una parete ruvida al cui interno sono stati murati dei resti marmorei. Mi verrebbe da mettere le mani in tasca per cercare le sigarette, ma non ne trovo, ho smesso. Poi penso di chiamare Richard, ma mi fermo in tempo. In questi mesi ho passato più tempo con lui, che con mia madre quando mi aveva in grembo. Non è…sano tutto questo. Ora è col fratello, tornati dall’America verrà giù tutta la famiglia.
America…non sono mai stato un fan. Ricordo che quando andai a New York, da ragazzo, ebbi una reazione fuori dagli schemi. Fu strano, accadde tutto senza che io potessi prevederlo. I colori persero la loro forza, ogni cosa la sua importanza, soprattutto io. Non piangevo da anni, eppure lì non sembravo capace di fare altro. Lo definirono un forte attacco depressivo. Tornato a casa, scomparve. Ma non voglio prendere in giro nessuno.
Tornato a casa, trovai nell’abitudine la forza per buttare tutto in una bara e ricoprirlo di terra.
Bene, che sia una persona tendenzialmente infelice non è una novità. Ma quando lo sono diventato, perché lo sono? Non sarà tutto genetico, per quanto mia madre e sua madre prima di lei lo fossero. Insomma, sarei l’erede emotivo delle donne della mia famiglia, o qualcosa del genere?
Perché no, in fondo sono stato cresciuto da loro come la loro piantina da appartamento, una loro creazione in tutto e per tutto. Mi accorgo che avrei voluto che quel cretino di padre si facesse mio profeta per darmi un po’ della sua superficialità, perché io a forza di volerlo essere ho imbottigliato tutto, creando una persona che non è niente.
Cosa mi piace fare? Molte cose mi piacciono, ma cos’è che mi fa scuotere il fuoco nelle vene in vortici senza freno? Ah, vortici di fuoco. Li ho messi a tacere nell’acqua della asprezza lieve perché fanno troppo male. Sono intelligente, questo lo so. Bello, come mia madre. Ho le sostanze per fare ciò che voglio. E con tutto questo, ho costruito un uomo d’acqua. Un’immagine soddisfacente, non c’è che dire.
Calcio via un sassolino e lo guardo rotolare via. Bah, inutile stare a piangersi addosso. Ma se non sbaglio da queste parti c’è una vecchia libreria che vende libri più vecchi di lei. Chissà che cose belle potrei trovarci. Ma sì, ci vado, ero un piccolo intellettuale da ragazzino.
Mentre mi dirigo noto che pian piano il mio passo si fa più veloce, come se le mie gambe non vedessero l’ora di arrivare. Questa cosa mi fa sorridere, anche se l’idea di andare in America mi fa ancora paura.

È passato il tramonto quando rientro in casa, il corpo ancora infreddolito dal venticello fresco di stasera, una patina leggera che mi ha fatto suo. Non faccio in tempo ad avvisare del mio arrivo, che delle braccia ciclopiche mi stringono a tenaglia, quasi sradicandomi dal suolo.
“Bentornato!”.
Emetto un respiro affaticato quando Aaron mi mette giù e devo riprendere un attimo l’equilibrio, mentre Richard ci guarda con un sorrisino divertito, il viso poggiato su una mano pallida. La pace del mio corpo non dura molto, prima che una pacca sulla schiena sostituisca l’ordine delle mie vertebre. Ammetto che la prestanza fisica di Aaron mi sta facendo sentire eccessivamente fragile, da quando ho scoperto che il fratello di Richard è una persona molto…tattile. È come avere un orso in casa, sempre pronto a gettarti addosso quei tronchi carnosi che dovrebbero essere semplici braccia. Strano, come Richard sia un piccolo lord dallo sguardo maledetto, mentre il fratello sembri più un gioviale vichingo con le mani lunghe. Mani che ora mi afferrano per le spalle e mi spingono in avanti, verso il tavolo della cucina.
Vieni! Ho provato di nuovo a cucinare la pasta, forse stavolta mi è venuta”.
Vengo quasi scaraventato sulla sedia. Non credo sia violenza repressa la sua, o almeno lo spero. Perché altrimenti potrebbe uccidermi con la scusa di togliermi un capello dalla giacca. Sollevo lo sguardo e incontro quello di Richard, mentre Aaron torna in cucina con i suoi passi da colosso di Rodi.
Richard porta indietro la schiena, le braccia smagrite incrociate sul petto: “Sembrate andare d’accordo”.
Sbatto le palpebre, messo in contropiede da quest’accoglienza. Come se non bastasse, Hope arriva correndo disordinatamente, saltellando contro la mia gamba. Le concedo un paio di carezze sulla testa, mentre sfilo il cappotto leggero.
“A saperlo, non avrei preso un cane”.
Richard sorride, mostrando una fila dei suoi denti eccessivamente bianchi. Indica con il capo la busta che ho poggiato su una sedia.
“Cosa hai preso?”.
“Libri. Poi ti faccio vedere”.
Annuisce, distratto dai rumori eccessivi che vengono dalla cucina. Io ormai mi sono abituato a vederla diventare un campo di battaglia.
“Avete già fatto le valigie?”.
“Sì. Ah, abbiamo trovato una pensione per Hope”.
Rimaniamo un attimo in silenzio, una cosa che ci capita spesso di recente. Richard mi scruta, una punta di malinconia nell’espressione. Non so nemmeno se sia il caso di chiedergli cosa lo renda triste, considerando la situazione potrebbe anche essere una domanda stupida. Ma forse…
Vengo strappato dal mio momento di indecisione nervosa dal ritorno di Aaron che, a giudicare dalla ciotola enorme che porta in grembo, ha esagerato come al solito con le porzioni. Sollevo lo sguardo al soffitto, mentre lui poggia il rancio per una guarnigione sul tavolo.
Aaron…di nuovo?”.
Lui scrolla le spalle con un sorrisetto di false scuse: “A guardarti, viene voglia di nutrirti”.
Inarco un sopracciglio: “Solo perché non sono un tagliaboschi norvegese come te, non vuol dire che soffra di malnutrizione”.
“No? Sembra che qualcuno ti abbia rubato il cibo negli ultimi dieci anni”.
“Pensi che io sembri una vittima?”.
“Come faresti a difenderti? Minacciando di pungolarli a morte con le ossa?”.

Richard solleva una mano, un cipiglio di divertito rimprovero nelle linee del viso: “Ragazze…”.
Aaron lo guarda e con un sorrisetto poggia una vanga di mano sulla mia testa, prima di stamparmi un bacio schioccante sulla guancia.
Mani a posto!”.
Lui si limita a ridere, seguito a ruota da quel complice di suo fratello.
Prendendo delle birre, che non so sa dove siano spuntate, me ne caccia una in mano. La guardo con il naso arricciato e commento con tono liscio come un’alga: “Io bevo vino”.
Lui mi ignora e solleva la bottiglia nel mezzo del tavolo: “All’America”.
Rimango perplesso, ma una strana felicità mi colpisce quando Richard sorride, incontrando il fratello in un brindisi con un bicchiere di vino allungato. I suoi occhi si incastrano nei miei, quando la sua voce profonda sussurra: “All’America”.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Sto veramente odiando gli ospedali in modo lacerante. Mi sembra di averci passato dentro anni, invece che settimane. Come se non bastasse, Aaron continua a nutrirmi di cibo assolutamente disgustoso. Non so quale sia il suo obbiettivo, ma se vuole farmi mettere su peso può arrendersi, prima di sprecare troppo tempo e denaro. Arriccio il naso all'orrido panino che mi squadra dal suo involucro, sulla sedia vicina alla mia. Aaron fa un sorrisetto, le lunghe gambe stese in avanti che quasi bloccano il passaggio sul corridoio. Poi sospira e poggia la testa sul muro, chiudendo gli occhi come se non fosse in un luogo pubblico. Pensare che abbiamo affittato uno stupido appartamento, parte dei bagagli non è ancora stata disfatta. Come al solito siamo tra queste mura color…cannella, non so bene come definirlo.

Sono state delle settimane estenuanti, ora come ora non mi interessa nemmeno di avere indosso uno stupido golfino color giorno di pioggia in una città di cemento. Si intona piuttosto bene con questa città, d'altronde. Meglio di New York, ma per chi come me è una falange dell'Italia, non funziona. Fisso la porta, accompagnando l'attesa con un tremolio nervoso della gamba.

Aaron non apre nemmeno gli occhi: "Piantala".

Gli lancio un'occhiata di traverso, arrabbiato se la mia testa non fosse già presa da troppo per concedersi un'altra emozione.

Quando la porta si apre la solita infermiera emerge nel suo camice largo e bianco, le mani chiuse da lunghi guanti sterilizzati che ricordano orrendamente quelli di un macellaio.

"Potete entrare".

Non so da dove emerga un lungo sospiro, il mio corpo avrà cercato di espirare fuori la stanchezza. Le gambe mi sembrano fatte di stuzzichini ma mi tiro su, rischiando di essere buttato a terra dalla pacca che Aaron mi poggia sulla spalla. Scuoto il capo, assottigliando gli occhi con apatica irritazione. Spero veramente che tutto questo abbia presto fine, non ce la faccio più.

Il pensare questa cosa mi infila un braciere nel petto, sento come qualcosa colare dal punto in cui si è conficcato giù giù per le viscere, in meandri troppo profondi perché il corpo umano li possa contenere.

Vorrei solo che tutto questo cambiasse. Che queste tristi pareti diventassero aria, che le panche segnate da dolorose attese fossero quelle di un parco, che questo odore di sterilizzante mutasse nella brezza che solo l'aranceto di mia nonna poteva creare da semplice vento, che le cose possano plasmarsi dai miei pensieri come se la materialità sia solo un'estensione di me.

Ma quando entro nella stanza, ogni cosa pare lanciarsi in un vortice che si concentra sul letto di Richard e tutto ciò che sento e penso diviene la speranza di vederlo ancora domani. Apre a fatica gli occhi blu ed esplodono sul suo viso grigio, come un unico mondo di colore in un film in bianco e nero. Come ogni giorno, volta dopo volta, mi fa un sorriso, sempre quello nonostante tutto il resto di lui sembra stia scomparendo. Io rimango fermo, cementificato sul posto come se questa mattonella oscillasse sul vuoto.

Aaron invece si avvicina al letto come se niente fosse, come se fosse nato e cresciuto per vivere questa cosa. Sorride e si siede sul bordo, poggiando le nocche sul braccio di Richard, con un sorriso di zigomi: "Ehi".

"Ehi…".

"Credo dovremmo chiedere un rimborso. Questo trattamento di bellezza non sta funzionando".

Richard scuote lievemente il capo, una vena di esasperazione nello sguardo spossato.

"Allora…" riprende, lanciandomi un'occhiata con la coda degli occhi. Mi vado a sedere sulla sedia lì vicina. "…pronto per l'operazione di domani?".

Io fisso il pavimento, nemmeno cercando di combattere un'amara catalessi. So che dovrei stare vicino a Richard. Dopo tutti questi mesi, domani questa sfida potrebbe finire, lasciando tra le mie mani solo il vuoto. Penso al mio ritorno a casa dove ci sono tutti i suoi vestiti, la tazza e lo spazzolino, a vederli senza più lui. Il fiato si blocca nel mio petto e ostruisce la gola, il mio corpo si irrigidisce. Devo…devo uscire.

"Scusate" mormoro, la testa che fischia. Non so nemmeno se l'ho detto davvero. Le gambe mi portano rigide fuori dalla stanza ma nulla migliora. Chiudo gli occhi e poggio le mani sui fianchi per tenere l'equilibrio, mentre una strana nausea accompagna singulti di fiato nel petto, che mi pare troppo piccolo per ogni cosa.

Sento qualcuno dietro di me e mi irrigidisco quando le mani grandi di Aaron si poggiano sulle mie spalle. Un brivido mi attraversa perché non voglio mi si tocchi, ma un'altra mi porta indietro, fino a sentire il suo petto vivo contro di me, come se il mio corpo sentisse di poter aspirare forza da lì. Stupida emotività.

"Tutto ok?".

Annuisco, spingendo i palmi delle mani contro gli occhi: "Sì".

"Andrà tutto bene".

Scuoto il capo e non riesco a rispondere nulla, ho un groppo in gola. Apro gli occhi a sentire le sue braccia intorno a me e vedo appannato. Sto piangendo…come è successo?

Tolgo le lacrime con un gesto brusco del braccio: "Che diavolo stai facendo?".

Lui sorride e davvero non so come faccia, alle volte mi chiedo se non sia completamente stupido.

"Sto controllando le tue costole. Direi che ci sono tutte".

Sbatto ripetutamente gli occhi. Il soffocamento è ancora lì, ma Aaron è così…vivo e semplice che pare spazzare via tutto con la sua invadenza.

"Ora puoi lasciarmi".

Mette su il broncio ma mi lascia e non ho nemmeno il tempo di cercare un fazzoletto che mi spinge verso la stanza di Richard. Probabilmente per le sue proporzioni mi stava accennano dentro, invece mi ha praticamente lanciato. Ridacchia e lancia un'occhiata complice al fratello: "Te l'ho ripescato".

Richard lo guarda con finto rimprovero e l'affetto aperto che emana mi porta di nuovo sull'orlo delle lacrime. Ma che diavolo mi prende? Ricaccio dentro tutto e non pensavo potesse fare così male.

Guardo la sua pelle pallida e opaca, il modo in cui il suo corpo si adagia sul letto come se il materasso solo lo tenga insieme. A guardarlo, non si direbbe che le cure stiano andando bene, come i dottori continuano a dire. Questo pensiero mi fa emettere un lungo respiro e sono lieto che i due fratelli continuino a parlare senza di me. Voglio che domani arrivi presto…ma allo stesso tempo odio domani.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Io di notti in attesa ne ho passate tante, in questo limbo in cui parve tramutarsi la mia vita. Ma questa notte sembra viva ed eterna, popolata da una serie di immagini non sempre collegate da un filo comune se non l'esistenza. Gli occhi socchiusi nella penombra, il corpo abbandonato su questo trono da malinconico eroe, il mondo mi passa davanti agli occhi. Le truppe di poltrone rosse dell'auditorium di Roma come appaiono viste dal palco, accomodate in attesa con le lampade che le toccano attraverso l'aria con luci chiare e sfocate. Il Tevere danza nero e giallo e si tuffa, poi scivola, abbraccia in una curva accogliente la sporgenza della tomba di Adriano ed eccolo l'Angelo, la spada celeste sfiora le stelle nell'aria.

La mente stanca e troppo viva per permettere il riposo tocca solo per un attimo le durezze di questa stanza che mi racchiude, poi di nuovo si strappa ai sogni e al suo posto butta dentro il Giardino degli Aranci, la terrazza profumata distesa sulla città tra le chiese antiche costellate di scritte latine i cui versi non riesce a cogliere, per quanto vorrebbe possedere il senso loro e quello di coloro che li tagliarono nel marmo, perché deve sapere, possedere, comprendere dove tutti gli altri vagano nel buio.

Risposte, risposte…danzano con le ombre della stanza, rimbalzano con il bip delle macchine sanitarie e non si fanno prendere. Esplode il chiostro del Bramante, si china piano con un bacio sul dipinto nascosto di Raffaello, salta tra gli archi romantici come un piccolo Pan, di nuovo cupole e cupole nella notte, chiese nell'alba, gabbiani che gridano nell'aria pulita di una domenica mattina. L'odore degli arancini che vendono nella via accanto, la ricotta dei cannoli al pistacchio. La Sicilia, sempre così lontana dall'altra parte del mare, lontana perché manca ma non viene mai incontro, una Naiade dai capelli d'alga e la pelle di sale, gli occhi di marmo e le mani di fiori al limone. Case nobili dai piani abbandonati, dai quadri dimenticati, dalle ombre che si agitano di sagome morte dal brillante indaco, sussurrano tra le tende strappate, affondano le unghie dove le cose di valore sono state sradicate. Mia nonna legge un libro nella stanza dove se n'è andata, non ha bisogno nemmeno di una candela. Mia madre sorride dietro di me.

Sussulto e afferro con dita rigide i braccioli della sedia, il cuore che batte all'impazzata mentre tutte le immagini diventano solo una scia di colori sbiaditi. Piano riporto il respiro al ritmo normale, una mano sul petto. Non pareva un incubo, ma ha lasciato le vertigini di uno.

Passo una mano flebile tra i capelli e mi alzo. Guardo solo per pochi istanti il letto in cui Richard dorme silenzioso ed esco sul corridoio, stabilizzato dalle luci tenui che lo illuminano. Raggiungo le finestre chiuse e poggio un palmo sul vetro, come acqua solida e umida sotto la pelle. Osservo le mie dita e piano esse si chiudono. Vorrei poter stringere così la vita di coloro che meritano e tenerla qui fino a che lo riterrò giusto. Ed in questo momento mi sconvolge realizzare che ero destinato ad essere un uomo diverso, tale da non poter nemmeno essere descritto, una creatura eccezionale. Ma le creature eccezionali soffrono.

Chiudo gli occhi e rigetto in me questa epifania. No…non è ancora il momento. E se Richard domani non ci sarà più, quel momento non arriverà mai, perché mi sono state date sensibilità eccezionali, con una grande codardia. Metto una mano in tasca e prendo il telefono, gli auricolari sono attaccati. Parte la musica e la ascolto immobile per un po', poi inizio a camminare, una sentinella tra i corridoi, mentre la colonna sonora che mi sto creando da solo ricopre ogni cosa con una patina, come se questo fosse tutto un film.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


È strano, in questo momento non dovrei sentirmi così. Sono arrivato al nodo in cui si sono attorcigliati i fili della mia vita, dietro quelle porte potrebbe spegnersi da un istante all'altro una vita più preziosa di una perla in cui sono state racchiuse tutte le acque della terra, qualcosa che non è più un uomo che respira, ma una corolla in cui è andato a mutarsi il cielo, uno stelo in cui si è racchiusa la terra. Ormai Richard non è più l'uomo che è, con i suoi gusti, le sue abitudini, il suo passato, come se col tempo si fosse trasformato nella sua sopravvivenza, piuttosto che nell'esistere. Eppure ora non riesco a prendere tutto questo sul serio, ma al contrario di molte persone ho avuto un infinità di tempo per realizzare, nella crudezza di una inesorabile quotidianità fatta di sabbia che scende giù per una clessidra la cui base è vuota d'infinito. Allora perché la mia mente vaga leggera nell'inconsistenza di questa stanza? Dovrei sentire il fiato mordere se stesso, come è accaduto ieri, o non provare altro che una paura troppo atroce per gli uomini e ciononostante solo umana. Mi limito ad essere qui seduto, a portare un golfino a righe bianche e marroni sopra una maglietta bianca, il telefono in mano per guardare l'ora, come se stessi semplicemente aspettando l'autobus per un viaggio assurdamente banale.

È passata un'ora e mezza circa da quando hanno portato Richard in sala operatoria. Sembra una memoria lontana quella di quando ci siamo parlati un'ultima volta, tinta di una nostalgia fuori posto.



Sto sistemando il piccolo comodino accanto al letto. Prima ho messo in ordine tutto il contenuto dell'armadio, parlato con i dottori, portato via la spazzatura, curato i vari documenti burocratici, controllato quelli medici. Non ho dormito quasi per nulla stanotte, ma non sento l'insonnia addosso, ho anzi la sensazione di essere una creatura che del sonno non ha bisogno.

"Simone…".

Ci metto un po' ad alzare la testa, perché ora sto bene. Non soffro, non mi viene

affatto da piangere, non voglio rompere tutto questo. La sofferenza mi ripugna ora, mi ha stancato, con il suo star sempre dietro l'angolo, nascosta sotto tutto quello che ho costruito sopra di essa, colate di falsità e strati di controllo ben strutturati. Il credermi insensibile mi faceva sentire forte, un'illusione che ne crea un'altra. Enigmatico, come a distruggere il mio castello di carta sia stata una delle vittime di esso, quasi quella notte nel fiume sia caduta una parte nera di anima, trascinata lontano dalle acque notturne.

Trattengo il fiato mentre mi avvicino e non lo guardo in viso. Quando solleva una mano bianca e gonfia, attraversata da un livido e una vena verde acre, la stringo in una presa dura, senza sapere come tenere le dita irrigidite. Il cerotto che tiene dentro una flebo si è tinto di rosso sporco, è per distogliere lo sguardo da esso che porto gli occhi sul viso di Richard. Sorride, un inarcamento faticoso sulle labbra, impietrito di un rigore che ombreggia troppo di morte, allo stesso tempo molle per la stanchezza che lo pervade. Da qualche giorno ho notato una differenza nel suo essere senza forze. Da un'essenza composta e abbandonata, la sua fatica ora appare nervosa, come se tenesse il suo corpo in una morsa compatta, atta a tenere dentro il suo corpo duro le energie, intrappolate in quello che prima era il loro miglior compagno.

"Hey…".

Piano avvicino anche l'altra mano, chiudendo la sua in una guaina che sicuramente non è calda come vorrei, perché ho sempre avuto le mani gelide. Cuore bollente, diceva mia nonna, come anche la Terra, pur quando la sua superficie è ricoperta di ghiacci, batte di fuoco nel suo grembo profondo.

Intravedo Aaron affacciarsi sulla porta e subito andarsene senza proferir parola.

Mi vergogno di non riuscire a dire nulla, al contempo so che il mio silenzio potrebbe castigarmi a lungo in futuro, forse per il resto della mia vita. Che orrore…riesco a malapena a guardarlo in faccia, l'uomo a cui ho dedicato ogni respiro per mesi.

"Sai…" sussurra, ancora con quel terribile e buon sorriso sul viso sempre bello. "…ho tanta paura che tu mi odi".

Spalanco gli occhi, la fronte si corruga. "Di questo hai paura?".

Stringe la presa, passa il pollice sulle mie nocche. "Mi dispiace che tu abbia dovuto passare tutto questo. Mi dispiace così tanto…".

"Non pensare a queste sciocchezze" la voce mi esce in un sibilo roco. "Ho deciso io. Non startene a dispiacere".

"Io avevo deciso di non tentare" mormora. "Spesso le nostre scelte non sono il meglio per noi".

"Ma alla fine ognuno sceglie per sé, comunque".

Rimaniamo in silenzio, lancio uno sguardo all'orologio appeso sulla parete. Manca troppo poco.

"Io…" sussurro, una strana sensazione di essere al di fuori del mio corpo. "…ho paura di averti fatto soffrire".

Paura…quasi mi ero dimenticato che questa parola si potesse pronunciare. Un brivido aspro e freddo mi attraversa alla consapevolezza della fragilità che ciò comporta.

"Ti ho costretto a tutto questo, se…se tu…".

"Non mi pento di niente".

Mando giù un groppo in gola e bevo dal suo sguardo la sua sincerità. La mia mano sta tremando, mentre la sua è salda, incredibile anima che è. Mi ero dimenticato di lui, in tutto questo, avevo obliato quell'uomo forte e gentile che mi aveva afferrato sul ponte.

"Non me ne pento, anche se ha fatto male. Soprattutto se alla fine di questo possono aspettarmi anni con te".

Stringo la bocca in una linea sottile, gli occhi pizzicano, una patina d'acqua mi copre lo sguardo. Tolgo una lacrima con il dorso della mano e tengo il capo chino.

"Voglio vivere con te. Lo sai che ti amo, vero?".

Una scossa mi attraversa e quasi lascio la presa sulla sua mano. Due lacrime scendono, ognuna traccia un lato diverso del viso. Il mio corpo cade su di lui, le mie labbra si poggiano sulle sue e chiudo gli occhi con forza a non trovarlo sotto tutta questa malattia. Quando li riapro la vista è offuscata e l'acqua che li riempie mi da la sensazione di averli blu come i suoi.

La voce esce strozzata: "Io…te lo dirò domani".

Sorride ed anche i suoi occhi si bagnano, il suo sorriso commosso mi tocca la guancia: "Grazie".

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***



È passato così tanto tempo da quando sono stato qui l'ultima volta, che mi pare di averci trascorso una vita precedente, la vita di un bambino che non ero io, le cui memorie sono finite nella mia testa per strani scherzi del destino. Il mare brilla sull'orizzonte, una cintura di lapislazzuli colpita dal sole in fiammelle di luce diamantina. Il profumo di rosmarino, arance, limoni, sale dal grande giardino, dove la fontana in marmo borbotta stancamente acqua stantia, ostruita da anni di abbandono. La cornice della finestra è usurata, ogni tanto dei granelli di stucco cadono nell'aria, trascinati dal caldo vento estivo, che odora di tisana dolce d'arancio e salata di mare. Chiudo gli occhi, stringendo tra loro le mie mani, dimagrite da quando Aaron se n'è andato.


Sembrava non sarebbe più tornato a casa, per chissà quale ragione credeva di dovermi qualcosa.


Ricordo ancora il suo sguardo dispiaciuto all'aeroporto, mentre torreggiava sul resto dei presenti, una valigia enorme sulle spalle. Prendo un ampio respiro, cercando di cogliere appieno il vento che mi scuote i capelli, dal taglio più lungo che abbia mai portato, da quando ero bambino ed era mia madre a decidere come dovessero essere. Mi piaceva portarli in quel modo, evidenziava la somiglianza che avevo con lei, che ho con lei.


Apro gli occhi stanchi per un'ennesima notte insonne e gli faccio attraversare l'erba mal curata, il brecciolino frastagliato di sterpaglie, fino alla scalinata in marmo che si protende fino quasi al cancello, dove una vecchia campana oscilla solitaria, intonando un canto cupo e sacrale. Ergendomi qui, un'ombra solitaria sulla facciata della villa color terra, mi sento un fantasma. Era da anni che un membro della nostra famiglia non veniva qui, in paese mi hanno guardato con occhi stralunati, quando l'altro giorno sono andato a cercare le mie memorie nelle sue vie, ora ricoperte di macchine e cartelloni pubblicitari. Non so quanti mi abbiano riconosciuto, ma i loro sguardi scrutatori e un po' meravigliati riflettevano ricordi lontani di mia madre, per un attimo mi sono sentito lei, di ritorno nella sua amata terra. Alle mie spalle, poggiato su una sedia rovinata nell'altrimenti scarno salone delle feste, uno dei suoi vestiti di casa mi sta osservando. Se lo guardo con la coda dell'occhio, posso immaginare che lei sia seduta lì. Non pensavo di trovarlo, quando ho aperto l'armadio della sua vecchia stanza. Questa casa è stata a lungo dimora di spettri di famiglia e forse sto impazzendo, ma non mi sono mai sentito così amato da delle mura in vita mia. L'altra notte, immerso tra le lenzuola bianche che d'estate prendono una consistenza tutta diversa, un'ombra blu intenso è passata davanti alla mia porta, come una guardia solenne e dal dolce silenzio. Ho sbattuto forte le palpebre, l'ho vista per un altro istante, poi lei è scomparsa nel buio.


Questa casa mi toglie il sonno, come se ci fossero mille cose da fare, come se il mio cuore non sapesse più qual è il suo posto nel petto. I difficili mesi passati mi bussano sempre alla porta, unendosi ai momenti in cui trovo un po' di pace, nel cercare piano di ricoprire queste sale della cura che meritano. Ho piantato in giardino dei Non ti scordar di me, i cui petali morbidi e colorati paiono dipingere l'abbandono.


"Sai…" delle braccia mi circondano da dietro, Richard mi poggia il mento su una spalla. "…stavo pensando che potremmo far portare un po' di mobili, domani. Queste sale vuote mettono tristezza".


"Non sono vuote" mormoro, poggiando le mani sulle sue. "Ma è una buona idea, così forse finalmente vedrai qualcun altro, oltre me. Io almeno sono andato in paese".


Sorride, i suoi occhi oceano brillano: "Ho voluto lasciarti un po' da solo. Non sei stanco di avermi sempre intorno?".


"Hm…ho l'impressione che mi perseguiterai per tutta la vita. Tanto vale che mi abitui".


Ridacchia e mi da un bacio gentile sulla guancia, leggero come un soffio di brezza sulla mia pelle.


Rimaniamo in silenzio per un po' e mi riscalda il sentire come questo posto suoni così tanto di noi, come se fosse sempre stato scritto che finissimo qui per sempre.




-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------




Nella stradina dissestata che circonda la villa, è usuale che gli abitanti del paese facciano una lunga passeggiata, per raggiungere la piccola gola dove la sabbia diventa fine e l'acqua è limpida, quasi fosse stata creata per bagnare gli uomini nei bei giorni di Sicilia. Una coppia la sta percorrendo in silenzio. Sono nati nel paese, lì si sono conosciuti. Hanno traslocato a Palermo per il lavoro di lui, ora che hanno avuto dei figli ed essi a loro volta ne hanno avuti, sono tornati alla modesta casa di famiglia, risistemata con i soldi della pensione. Lei si appoggia al braccio di lui, si difende il viso sotto un semplice cappello bianco, in contrasto con la veste multicolore che le cade addosso come una vestaglia. Alza gli occhi color d'olivo, marroni attraversati da schegge verde scuro, e scruta la villa silenziosa con cipiglio turbato, come se dalle poche finestre aperte potesse affacciarsi da un momento all'altro qualcosa di tenebroso.


Il marito segue la linea del suo sguardo e le si rivolge con tono noncurante, forse un po' letargico per il calore di mezzogiorno: "Ho visto il padrone di casa, l'altro giorno. Somiglia molto a sua madre".


Lei rabbrividisce, contrariata con lui perché non le piaci si parli ad alta voce di queste cose, come se potesse evocare qualcosa di vendicativo a nominarle. Quando risponde quasi sussurra: "Non so come faccia…in quella casa gigantesca, senza nessun'altro con lui. La notte, poi…".


Lancia un'ultima occhiata alla villa e distoglie lo sguardo con un cenno inquieto del capo. "Ma non deve essere tanto normale, quel ragazzo. L'hanno visto spesso parlare da solo, come se ci fosse qualcuno con lui".


L'uomo sorride gentile, un inarcamento tenero delle labbra: "Magari c'è davvero qualcuno. O forse parla con un fantasma".


Lei rabbrividisce, per un istante si paralizza e poi riprende a camminare rapidamente, a fuggire dalle ombre della villa in rovina: "Non si parla di queste cose. E poi…non esistono, no, non esistono".


Lui fa un vago cenno di assenso, continuando a guardare la villa con viso meditabondo. Il pensiero lo accompagna giù nel sentiero, quando riporta la testa verso il mare, gli pare di sentire due paia d'occhi scrutarlo in lontananza.



Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Il sole brucia i sassi nell'aria pigra dell'estate, mentre un gabbiano strilla amaro nel cielo sopra il paese. Ormai è diventata un'abitudine venire a fare due passi nelle sue strade, sempre vuote nelle ore dei pasti. Ora devono essere tutti a pranzo, chiusi nella rassicurante puntualità della loro abitudine, come i personaggi di uno spettacolo ben organizzato. I sassolini che costellano la stradina scricchiolano sotto le mie scarpe e continuo a camminare meccanico su di essi, il passo lievemente ciondolante sotto la calura. Non so bene che giorno sia oggi…ma devo essere qui da abbastanza tempo. Mi guardo alle spalle, aspettando che Richard mi raggiunga come un'ombra, ma non lo sento. Scrollo il capo, intorbidito dal caldo che distorce le cose col suo vapore. La maglietta di cotone rigido che indosso mi sta un po' grande, non la mettevo da anni, ma almeno è leggera e fresca, avendola messa solo da pochi minuti. I pantaloni sono forse un po' troppo pesanti per una giornata del genere, ma con quelli corti sembro un merlo.

Tengo una mano nella tasca, stretta intorno all'orologio di mio nonno. Brav'uomo, lui, forse un po' metafisico, più nel suo mondo che in quello degli altri, ma comunque un uomo abbastanza dolce, a ricordarmelo. Spero di riuscire a farlo aggiustare, un giorno, ma qui in zona non saprei dove andare. Quando l'ho trovato in un vecchio cassetto, abbandonato da decenni, la casa si è riempita di un'anima in più, che a mio disonore avevo lasciato cadere nell'oblio. Ero piccolo quando se n'è andato, ma più che altro avevo voluto dimenticare. Poi in questi giorni, nel silenzio delle grandi sale vuote, mio nonno è tornato ad abitarle con me. L'ho visto affacciato alla finestra del suo salottino, intento a fischiettare monotono agli uccellini mentre gli tirava il pane. Era convinto che venissero al suo richiamo e da bambino pensavo fosse una storia, come quella di Babbo Natale, perché mio padre diceva che era un'assurdità. Eppure nonno ci credeva.

Al momento, sono propenso a crederci anche io. Una cosa di cui mi ero completamente dimenticato, che col suo ricordo ha riportato una cascata di memorie, era il rituale prima di cena, l'unico momento in cui io e i miei cugini riuscivamo a stare insieme.

Ci riuniva vicino al camino, fosse inverno o fosse estate, e raccontava storie siciliane, con l'accento ben presente ma per nulla calcato, che in quei momenti mi pareva un po' un codice di famiglia. Spesso raccontava di un personaggio di nome Giuffà, ma delle vicende ricordo ben poco. Qualcosa su una porta, su un asino…poi veniva a chiamarci una delle cameriere, l'incanto finiva. Passavamo alle finestre in un piccolo corteo silenzioso, nonno che si accendeva al volo una pipa. E sempre a quell'ora, puntuale ogni giorno da anni, il giardiniere alzava un braccio, ogni volta il destro: "A dumani, principali!".

Mio nonno rispondeva con un cenno della mano e con quel sorriso eterno diretto al tramonto, rosso, rosa, viola in dipendenza della stagione. Ma quante cose ho dimenticato…quel giardiniere, il suo saluto sempre uguale ora penso fosse una forma di benedizione, al mio nonno principe che l'aveva preso a lavorare nonostante una gamba storpia e una mano senza tre dita. Si diceva che l'avesse colpito un fulmine, un giorno in cui non pioveva nemmeno.

Chissà in quale di queste case abitava, quel personaggio che nella mia testa ora appare tanto come un personaggio di favole popolari, un po' il Giuffà di casa nostra.

Quando arrivo alla piccola libreria del paese, mi fermo a guardarmi intorno. Niente, sono ancora solo. Con un sospiro mi porto indietro i capelli dalla fronte ed entro, accompagnato da un tintinnio stranamente stonato, storpio. Dentro non si vede nessuno e guardo dietro ai brevi scaffali di legno chiaro, usurato dagli anni. Studio la porta e non c'è nessun cartello, anche se dentro sembra chiuso. Avrebbe senso, forse sono a pranzo anche loro.

"C'è nessuno? Scusate?".

"Sì…sì arrivo" una voce di donna anziana arriva da una stanzetta sul retro, coperta da una tendina color lavanda che arriva fino al pavimento. Si scosta leggera quando una mano rugosa la accompagna da un lato. "Mi scusi, ma non viene quasi mai nessuno e…".

Si ferma, le dita vissute poggiate piano sul muro: "Oh…voi siete…".

È così strano essere riconosciuto da persone che io invece non so chi siano. Avrei creduto mi avrebbe dato fastidio, invece mi fa quasi sorridere, perché il loro riconoscimento mi fa sentire parte di qualcosa, nonostante negli ultimi anni me ne sia staccato violentemente.

Le sue spalle si rilassano e porta una mano sul petto, sorride piano. Forse senza accorgermene le ho sorriso prima io.

"Come somigliate a vostra madre…ricordo vostra nonna, giocavamo insieme".

Spalanco gli occhi, preso alla sprovvista, come se avessero appena trascinato qualcosa da un mondo alternativo, in questo.

"È…la prima volta che qualcuno me lo dice. Lei è…" mi schiarisco la voce. "…molto più giovane".

"Oh sì…ma non c'erano molti bambini qui. E noi vivevamo nel casale vicino alla villa, quello che adesso è tutto a pezzi. Così bella, fin da piccola, sì…e quando ha sposato il principe. Ho visto il matrimonio da lontano, quel grande vestito bianco. Francese, sì era francese".

Ho visto quel vestito in una foto, me lo ricordo vagamente. So che lo hanno rubato, insieme a molte altre cose, poco dopo la morte di mio nonno. Mi chiedo chi possa rubare un abito da sposa, che cattiveria inutile. Mia madre avrebbe tanto voluto indossarlo, ma una parte di me è quasi lieta che il tocco gentile del nonno non sia stato coperto da quello arrogante di mio padre .

Vorrei dirle molto cose, essere particolarmente cordiale. I suoi occhi hanno visto la mia famiglia dove io l'ho abbandonata, ho la strana sensazione di avere davanti un nume della nostra casa. Ma mi schiarisco la voce, mettendo a tacere questi pensieri di anomala sensibilità.

"Stavo…stavo cercando un libro di favole, con Giuffà, ha presente…".

Inarca le sopracciglia, sorpresa. Poi le rughe del viso le si piegano dal dispiacere: "Oh…mi dispiace, non ne abbiamo. Ma lo possiamo ordinare per voi, credo".

"Sì, va bene grazie. E mi dia del tu, signora…".

"Angela".

"Angela".

"Ci potrebbe volere un po' di tempo".

"Rimarremo ancora per qualche tempo".

Sbatte le palpebre e non riesco a capire perché. Sembra voler dire qualcosa, ma lo tiene nelle labbra sottili. Sospira, si torce le mani sottili.

"Stare da solo in quella casa abbandonata…non so davvero come si possa".

Rimango di stucco, le mani cascanti sui fianchi: "Come da solo?".

I suoi occhi verde torbido mi guardano tristi, un po' incerti, un po' confusi, ma non credo di riuscire a decifrarli del tutto.

"Se avesse…avessi bisogno di parlare con qualcuno, vieni pure a trovarmi. Io sono qui a quest'ora, in genere c'è mia figlia. A stare sempre soli, i pensieri possono farsi pesanti…".

"Davvero…in che senso solo?".

Lei si irrigidisce, come se qualcuno l'avesse pungolata con uno spillo. Quando il campanello tintinna, mi giro con la fronte corrucciata. Si distende quando Richard entra, una sagoma scura contro l'aria lucente alle sue spalle.

"Che fine avevi fatto?".

Sorride, togliendosi gli occhiali da sole. "Mi ero fermato un attimo a guardare. Non ero mai sceso in paese".

"Già…al punto che tutti credevano parlassi con un fantasma".

Mi giro verso Angela, che fissa Richard con occhi sbarrati, la pelle impallidita. Sembra in procinto di farsi tre segni della croce. La vista mi fa scuotere il capo con un cipiglio: "Giusto, signora?".

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Roma, Natale seguente

"Hai finito di fare le valigie?".

Chiudo la lampo, togliendo di mezzo la sciarpa che si era incastrata.

"La valigia. Saliamo solo una settimana".

Entra in stanza, osservando con un cipiglio il mio ridottissimo bagaglio. "È molto da te…guarda che lì fa freddissimo".

"Ma tu pensa" commento sardonico, poggiando la valigia conto il muro. "Al confine con la Scozia, a dicembre, fa freddo".

Scuote il capo e mi stringe un braccio intorno alla vita, i denti bianchi sulla barba che è tornata quella di un tempo.

"Sei terribile".

Inarco un sopracciglio: "Posso sempre non venire".

"Come volevasi dimostrare".

"Perdonami se non sono entusiasta all'idea di farmi torturare da tuo fratello".

"Sì? Lui non vede l'ora".

"Immagino" risposto laconico. Quando ho accettato, non senza una discreta insistenza, di andare a conoscere l'allargata famiglia di Richard, a Natale poi, mi ero già messo l'anima in pace. Spero vivamente che non siano tutti espansivi come dei cuccioli di cane non svezzato, che Aaron sia un'eccezione. Da quando ho conosciuto quella bestia, baciare Richard mi fa strano, soprattutto nella penombra e da quando lui ha ripreso a prendere peso, insieme con barba e capelli. Si assomigliano troppo adesso, è inquietante. Non ho la minima voglia di baciare Aaron, io.

Richard sospira e con un sorriso affezionato si china a baciarmi, stringendomi contro il petto, che ci ha messo piuttosto poco a ritornare più ampio del mio. Non che ci volesse molto.

"Sono contento che vieni".

"Me lo hai già detto".

"Sei veramente antipatico".

"Mi pare di aver già sentito anche questa".

Scuote il capo e con un sorrisetto mi prende di peso, poggiando uno sbalordito me sul tavolo, che per fortuna è di quercia solida. Poggia le mani ai due lati delle mie gambe e stringo un braccio intorno al suo collo, avvicinandolo per baciarlo e affondare le dita nei suoi capelli.

Quando ci separiamo incastro gli occhi nei suoi blu, cercando invano di abituarmi al modo in cui mi guarda. Non mi era mai capitato prima e un po' mi mette a disagio, anche perché io invece non sono un campione di espressività.

Da quando siamo tornati dalla Sicilia, Richard si è trovato un altro lavoro. Io ancora mi sto guardando in giro, spero un giorno di trovare qualcosa che mi piaccia, per il resto sono bravo a fare un po' tutto. Ha preso un bell'appartamento non troppo lontano dal mio e anche se spesso deve fare dei controlli, le cose stanno andando piuttosto bene. Il che mi turba, in genere nessuno mi sopporta per più di un paio di mesi. Sono cambiato, questo è vero…ma comunque le relazioni non sono il mio forte e la nostra è cominciata in modo decisamente strano. Avevo un po' paura che avremmo scoperto che una volta finiti i momenti difficili, la nostra relazione sarebbe scomparsa con essi. E invece lui eccolo qui, a fissarmi sempre in quel modo, a dirmi "ti amo" praticamente ogni giorno, facendomi rischiare una sincope ogni accidenti di volta.

Forse ogni tanto, mentre si lavora nel letto, mi viene da dirglielo per primo, ma me lo rimangio. Non è da me fare queste cose, sono già stato piuttosto atipico nell'anno passato.

"Conoscendo Aaron…" dice, giocherellando con il colletto della mia camicia. "…avrà messo rametti di vischio ovunque".

"Non ci contare".

Ridacchia, le braccia ancora strette intorno alla mia vita.

"Non dirmi che ti imbarazzerebbe".

"A casa tua, davanti a tutta la tua famiglia? No, perché dovrebbe?".

Sospira e mi da un altro bacio veloce sulle labbra: "Nemmeno se i miei genitori se lo danno prima?".

"Ma che scemenze vai dicendo?".

"Ah…ero venuto a dirti che la cena è pronta".

Gli livello contro uno sguardo poco impressionato: "E hai pensato di aspettare dieci minuti perché…".

"Non so, avevo voglia di prenderti un po' in giro".

Richard non cucina male, per esser un inglese. Me n'ero accorto già dai primi tempi, ma ora che può impiegarci del tempo, ho scoperto che gli piace anche, si mette persino a comprare ingredienti che la mia cucina non ha mai visto in tutta la sua esistenza.

Le valigie ad aspettarci nell'atrio, pronte per il volo di domani mattina, ceniamo e ci andiamo a mettere sul divano, dove tengo il fianco contro il suo, un braccio caldo a stringermi. Ogni tanto mi poggia un bacio sui capelli, mentre io leggo un libro che ho cominciato ieri e ho già quasi finito. Il pianoforte nuovo ci guarda dal salotto con le foto della mia famiglia.

Fuori, comincia a nevicare, ricoprendo le strade ornate per il Natale, la città silenziosa brillante di mille luci.

MBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBMBM

Bene, è stato un viaggio e mi scuso di avervi fatto fare attese così lunghe! Qui finisce My Christmas Myracle. Ringrazio con tutto il cuore chiunque abbia avuto la pazienza di seguirmi fin qui! Grazie grazie! :D Ad Onda, Glor, Complicated, liloxa, moonguardian un ringraziamento ancora più grande, per esserci stati! E anche perché altrimenti la storia sarebbe finita due capitoli fa, malvagia me! ;D

Questa è l'ultima occasione per dirmi cosa ne pensate! Se vi è piaciuta, così mi fate contenta, se non vi è piaciuta, così la prossima storia sarà migliore! Perché io ne porto sempre avanti 3, quindi vediamo un po' cosa arriva adesso!
Un grande abbraccio,

M.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1483078