Deimos - Il Peccato Irrazionale

di HamletRedDiablo
(/viewuser.php?uid=56405)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Grandi Saggi e Grandi Demoni ***
Capitolo 2: *** Il Principe ha difeso un umano! ***
Capitolo 3: *** Giocattoli e Ossessioni ***
Capitolo 4: *** Il Messo Infernale e la Stella dell'Est ***
Capitolo 5: *** Frammenti di passato ***



Capitolo 1
*** Grandi Saggi e Grandi Demoni ***


Più stringeva quel corpo flessuoso a sé, più sentiva la sua anima lacerarsi sotto gli artigli del peccato.

Un simile legame non sarebbe mai stato accettato. I comandamenti dell’Ordine lo condannavano, l’opinione pubblica nemmeno lo contemplava, la morale ne provava repulsione.

Ma né i giuramenti pronunciati tanti anni prima, né il popolo della Cattedrale, nemmeno il pudore incrinarono la sua determinazione.

Quel peccato era suo, e solo a lui spettava la scelta. E lui aveva deciso di macchiarsi di quella colpa. Si sarebbe sporcato l’anima fino all’ultima bolgia infernale, se necessario, pur di poter abbracciare ancora quel demone.

Lo sentì tremare contro il suo petto, e lo strinse più forte quando tentò di divincolarsi.

Un essere umano non avrebbe dovuto amare un discendente di Lucifero. Specialmente un Esorcista.

Rimosse perfino quel pensiero facendo scivolare le dita sullo sterno, dove il cuore caldo del diavolo batteva ad un ritmo accelerato. Era sicuro che, dei tanti amanti che aveva avuto durante la sua lunga vita, fossero stati in pochi ad emozionare tanto le sue membra demoniache.

Il suo respiro si confuse al profumo inebriante del satanasso quando poggiò le labbra sul declivio del suo collo sottile.

Era sbagliato, era peccato. Ed era così dolce immergersi in quella colpa.

«Deimos…» lo chiamò, la bocca che accarezzava la pelle scoperta del demone.

Anche quella domanda, non avrebbe mai dovuto pronunciarla. Ma ormai aveva scelto di scendere fino alla fine quella scalinata verso la dannazione.

Radunò il fiato necessario e si sporse verso l’orecchio del diavolo per sussurrarvi:

«Deimos, tu mi ami, non è così?»

 

Capitolo Uno

Grandi Saggi e Grandi Stregoni

 

Vide tutta la prima fila di scolari trasalire di fronte al suo sguardo scarlatto.

Trattenne un sospiro a forza, spingendo gli occhiali sul naso.

Si chiedeva perché il Monsignore continuasse a scegliere lui come insegnante di storia per i bambini del primo anno. Più erano piccoli, più erano impressionabili: gli alunni di fronte a lui erano oltremodo sconvolti dal colore dei suoi occhi.

Tentò di essere il più delicato possibile nell’aprire il tomo di storia: se avesse mosso l’aria con troppa forza, qualche piccoletto avrebbe rischiato di morire di spavento.

Forse il Monsignore voleva temprarli fin dalla più tenera età. O forse si divertiva a vedere il più spavaldo dei suoi Esorcisti essere costretto a passare un’intera ora con lo sguardo abbassato.

«Sapete tutti perché viviamo nelle Cattedrali, e perché temiamo allo stesso modo angeli e demoni?» domandò, tentando di moderare il tono baritonale della sua voce. Con scarsi risultati: la prima bancata arretrò verso la seconda, tanto che le sedie cozzarono contro i banchi retrostanti.

Una mano paffuta dall’infanzia si sollevò ciarliera.

«Maestro, ma gli angeli non dovrebbero essere buoni?» trillò il bambino.

Lastar chiuse il libro di testo, causando una mezza sincope agli studenti più vicini. Tutti gli anni c’era almeno un alunno che faceva quella domanda.

«Hai detto giusto. Dovrebbero» poggiò il tomo scolastico sulla cattedra e si voltò verso la lavagna alle sue spalle. Afferrò il gesso e cominciò a scrivere sulla superficie nera.

«Come saprete, all’inizio il mondo era popolato solo da esseri umani. Tra questi, vi erano alcuni uomini particolarmente portati per la magia bianca o per le scienze oscure» i nomi dei due allineamenti, Grandi Saggi e Grandi Stregoni, vennero vergati nella grafia graffiante dell’Esorcista. «Il loro potere era enorme. Nessuno di noi, nato in quest’epoca, può immaginare quanto fosse smisurato.»

Gli allievi trattennero il respiro fino all’ultima fila e Lastar proseguì:

«Per incrementare ulteriormente il loro potenziale, i Grandi Saggi decisero di espellere la propria parte negativa, e i Grandi Stregoni la loro parte positiva, diventando così l’Archetipo degli angeli e dei demoni odierni.»

«Il cosa?»

Quello fu il terzo sospiro che trattenne, dall’inizio della mattina. Dimenticava sempre quanto fosse limitato il vocabolario dei bambini di quell’età. Avrebbe dovuto essere il più elementare possibile.

Scrocchiò le dita, seminando il panico nella prima fila. La muscolatura tonica del suo corpo e l’ossatura robusta sembravano create apposta per sostenere pesanti pestaggi, o per infliggerli. Alcuni alunni sentivano già le guance bruciare per gli schiaffi, ma il loro agghiacciante maestro si limitò ad appoggiare le dita sgranchite sulla cattedra.

«In altre parole, un Grande Stregone espelle la sua parte buona; quindi abbiamo un corpo totalmente malvagio e uno spirito senza corpo totalmente benefico.»

«Quindi si forma un demone» concluse una bambina dai codini dorati.

«No» la contraddisse Lastar «Si formano un demone e un angelo.»

«Ma uno spirito non si tocca» protestò un bimbetto con la faccia tempestata di lentiggini. «Gli angeli sì.»

Quello fu il quarto sospiro soffocato. Doveva essere elementare con le spiegazioni.

«Lo spirito da solo aveva abbastanza energia da riuscire a diventare materiale nonostante fosse staccato dal corpo» i suoi occhi inquietanti si incupirono. «Era questo che intendevo, quando vi ho detto che noi non possiamo nemmeno immaginare quanto fossero potenti.»

Si voltò di nuovo verso la lavagna e puntò il gesso sulla scritta “Grandi Saggi”.

«Gli angeli sono i Grandi Saggi del passato depurati dalla loro parte malvagia…» spostò il gesso sull’altra iscrizione: «Ma altri sono stati generati dall’anima pura che i Grandi Stregoni hanno espulso. Per questo parliamo di due categorie di angeli e demoni: gli Archetipi e gli Apocrifi.»

Spostò di nuovo il gesso sulla prima scritta e poi sulla seconda, spiegando:

«Gli Archetipi sono i Grandi Saggi, che diventarono angeli dopo la depurazione dell’anima. Gli Apocrifi, invece, sono la parte buona espulsa dai Grandi Stregoni. La stessa cosa vale per i demoni.»

«Quindi i demoni Archetipi sono i Grandi Stregoni e i demoni Apocrifi sono le emanazioni malvagie dei Grandi Saggi?» il viso rotondo del bambino si illuminò in un sorriso, quando il maestro annuì.

«Il primo angelo Archetipo fu il Grande Saggio Gabriel, che emanò Satana. Il primo demone Archetipo fu Lucifero, che emanò Michael. In totale, abbiamo dieci angeli e dieci demoni Archetipi. Ma vi spiegherò la genealogia durante la prossima lezione.»

Lastar tamburellò le dita sul testo scolastico: era il momento di affrontare la parte più spinosa dell’argomento.

«Gli esseri umani sono stati creati come una comunione tra luce ed ombra. In ciascuno di noi albergano sia il bene, sia il male. Siamo stati creati così, e così dobbiamo rimanere per mantenere l’equilibrio. Nessuno può opporsi a questa legge. Né noi, né i Grandi del passato.»

Gli alunni si scambiarono bisbigli perplessi, e Lastar alzò appena la voce per ottenere di nuovo il silenzio.

«La parte di estremo bene e quella di estremo male anelavano la metà da cui erano state separate. Inoltre, vivendo a contatto con gli umani, i pensieri malvagi degli uomini indebolivano gli angeli, e le azioni benevole fiaccavano i demoni.»

«Come è possibile?»

«Perché non possedevano più la metà che avrebbe mitigato quell’influenza: ad un essere di sola luce basta una minima ombra per sbiadire, così come all’ombra più totale è sufficiente un barlume di chiarore per scolorirsi» i volti smarriti dei suoi scolari lo convinsero ad essere più semplice: «Noi possiamo resistere alle tentazioni dei demoni perché abbiamo una parte malvagia che li capisce e una buona che li rifiuta. Ma un essere totalmente puro non ha più la metà necessaria a comprendere il male, per cui ne viene stravolto.»

Quinto sospiro, questa volta di sollievo, quando i suoi alunni parvero comprendere.

«Il problema era sorto con gli umani, per cui sarebbe stato risolto con gli umani» predicò grave Lastar. Sperava che il suo linguaggio non risultasse troppo tagliente per orecchie così ingenue, ma non conosceva altro modo esprimersi: «Gli angeli iniziarono a mangiare la parte più corruttibile degli uomini, ossia la carne, per bilanciare la loro energia immacolata; i demoni, al contrario, presero a cibarsi della parte più pura, cioè l’anima, per stemperare il loro spirito oscuro. In questo modo, la loro energia interna riuscì a stabilizzarsi. Tuttavia…» rimase qualche secondo in silenzio, quindi proseguì: «Il loro potere, con il raggiungimento di un nuovo equilibrio, ottenne un nuovo vigore. Per questo gli angeli e i demoni divennero ingordi di quel nuovo cibo.»

L’orrore sgranò gli occhi e impietrì le membra dei suoi piccoli ascoltatori, ma ciò non gli impedì di seguitare:

«Gli umani furono così cacciati sia dagli angeli che dai demoni e, dopo il massacro dei Trent’anni di Sangue, gli uomini si rifugiarono nelle roccaforti degli Esorcisti per ottenere aiuto e protezione.»

«È per questo che non ci sono uomini al di fuori delle Cattedrali?» petulò un bambino dalla terza fila.

«E che non si può uscire senza la scorta degli Esorcisti?» chiocciò un altro.

«Esatto. Altrimenti finireste sbudellati.»

Provò l’impulso di mordersi la lingua per quella frase infelice: i bambini contorsero il viso in espressioni raccapriccianti, come se in aula ci fosse stato davvero un tizio che riversava le sue viscere sul pavimento. Lastar avrebbe voluto togliersi gli occhiali e massaggiarsi le tempie. Odiava quelle carinerie raggruppate sotto il nome di “cortesia”: preferiva l’azione e il linguaggio crudo degli scontri.

«Altrimenti potrebbero succedervi delle brutte cose» ridimensionò, per poi cambiare discorso: «Qualcuno di voi ha delle domande?»

Una mano si sollevò timida dalla penultima fila, e Lastar concesse la parola al moccioso con un cenno del capo.

«I demoni e gli angeli hanno dei capelli e degli occhi strani, vero?»

La mascella dell’Esorcista si contrasse come per un crampo improvviso. Conosceva quella premessa, e indovinò la domanda successiva prima ancora che il piccoletto la ponesse:

«Lei ha gli occhi rossi come un demone…»

Il Monsignore lo aveva pregato di non essere dispotico con i bambini. Ma lui lo aveva supplicato di non assegnargli anche quell’anno la prima lezione di storia a dei lattanti che ancora puzzavano di culla. Il ricordo delle sue vane implorazioni, assommato all’irritazione per quella domanda indiscreta, gli permise di non sentirsi troppo perfido nel circumnavigare la cattedra per portarsi esattamente di fronte al suo pubblico infantile.

Trasse un profondo respiro, ed issò sul naso le lenti da cui si intravedevano i suoi tanto famigerati occhi purpurei.

Dal giorno in cui era nato, la gente della Cattedrale non aveva fatto altro che congetturare sulla natura delle sue iridi scarlatte, e spaventarsi per la preponderanza del colore rosso nella sua persona.

Gli occhi sanguigni si iscrivevano nella cornice delle ciglia cremisi, misero preludio della chioma dalla ribollente tinta vermiglia. Solo la pelle, il cui pallore era stato alimentato dalla vita trascorsa nell’ombra della cattedrale, stemperava quella profusione di toni lavici. Assieme alla tonaca del suo Ordine, nera come previsto dal regolamento, anche se Lastar si era permesso si apportare alcune migliorie per adattarla al suo stile di vita.

Lasciò che i suoi occhi amaranto si spostassero su ogni singolo scolaro, prima di proferire, con un ghigno agghiacciante:

«Vi state chiedendo se sono un Marauder? No, non lo sono. Ho questi occhi perché mia madre fu rapita da un demone, e stuprata per tutto il periodo della sua prigionia. Sapete che cosa è uno stupro o devo spiegarvelo?»

La Cattedrale non seppe mai come quella conversazione sarebbe potuta degenerare: l’ululato tenebroso della sirena di allarme riecheggiò sulle pareti in pietra dell’edificio, rimbombando nei cuori della gente.

Lastar impiegò meno di un battito di ciglia per recuperare la sua professionalità.

«Siamo sotto attacco» annunciò alla terrorizzata scolaresca. «Uscite di qui e seguite le Sorelle. Vi porteranno ai rifugi. Presto!» li incalzò, vedendo che quelli non si muovevano, paralizzati dal terrore.

Chi piangendo e chi ricacciando orgogliosamente le lacrime, i bambini sciamarono fuori, dove una suora la cui dolcezza era stata irrigidita dallo spavento li condusse rapida lungo i corridoi.

Lastar rimase nella stanza e, assicuratosi di non essere visto, cominciò ad estrarre le sue armi. Per non spaventare la gente comune, gli Esorcisti erano stati costretti ad inventarsi i trucchi più fantasiosi per essere equipaggiati senza darlo a vedere. Lui era stato particolarmente pigro con la creatività: aveva nascosto tutti i suoi attrezzi in pesanti croci di metallo, simbolo del suo Ordine.

La grande croce d’oro che portava sulla schiena nascondeva in realtà una spada, le due di argento fissate sugli stivali neri si trasformavano in pugnali ed il paio cucito sugli avambracci, se adeguatamente assemblato, si trasformava in una coppia di pistole. Senza contare il gioiello che pendeva al termine del suo rosario, la piccolissima croce d’avorio che sparava aghi avvelenati se si premeva sull’incrocio dei bracci. Cy, il loro scienziato, aveva superato se stesso nel creare armi adatte anche alla vita quotidiana nella Cattedrale.

«La sirena di allarme ti ha interrotto. Da un lato sono sollevato, dall’altro dispiaciuto» lo sorprese una voce alla sua destra.

Lastar non si voltò nemmeno, e continuò imperterrito a sistemare il suo equipaggiamento.

«Gli avresti davvero spiegato cosa è uno stupro?» insistette l’altro.

L’Esorcista si rialzò in uno sferragliare di armi: la temuta lama Vampira scintillava sul suo torso, le mani stringevano ognuna una pistola, e l’elsa dei pugnali spuntava dall’orlo degli stivali.

«I bambini sono curiosi, e vogliono la verità» sparò brutale Lastar, imboccando l’uscita. «Che sappiano, allora. Ma dovranno sapere tutto

«Alcuni di loro non hanno nemmeno sei anni» protestò il pedante interlocutore, tampinandolo nei passi e nelle parole.

«Allora dovresti essere contento che io sia stato interrotto.»

«Ma sarebbe stato divertente vederti spiegare ad una classe inorridita quella cosa.»

Lastar frenò di colpo per fissare il suo collega. Un paio di occhi olivastri, inspiegabilmente striati di bianco, ricambiarono il suo sguardo, serafici e sornioni.

«Alexander Holycross, di tutti i Messi Celesti, tu sei certamente quello con il senso dell’umorismo più perverso.»

«Hai fatto fare la revisione settimanale a Cy?» l’altro ignorò completamente l’insulto, un sorriso luminoso come il sole onnipresente sulla sua faccia.

«No» rispose veloce Lastar, riprendendo il suo cammino. Alexander lo seguì, reggendo il passo sostenuto dell’Esorcista con una tranquillità sconvolgente: riusciva a correre tenendo il busto lievemente inclinato in avanti come un adulto che parla con un pargolo, le braccia perfettamente incrociate dietro la schiena nonostante i sobbalzi della corsa.

«Male. Che farai se una delle tue pistole dovesse incepparsi?»

«Se sei venuto per fare il menagramo, puoi anche sparire.»

«Mi preoccupo per te.»

«Rovescia le tue premure su qualcun altro.»

«Ad esempio?»

«Ci sono tante vecchiette, negli ospizi al primo piano. Vai a parlare con loro, hanno un’ottantina di anni di aneddoti da raccontarti.»

«E questo che beneficio porterebbe?»

«A te? Non ne ho idea. Ma mi libererebbe di una fonte di stress per mezza giornata.»

«Ti ricordo che sono un tuo superiore.»

«Mi libererebbe di una blasonata fonte di stress per mezza giornata» corresse sarcastico Lastar.

«Qualcuno si è svegliato dal lato sbagliato del letto, questa mattina» Alexander scosse la testa, bonario. «O sei ancora arrabbiato per la domanda di quel bambino?»

«Perché dovrei essere arrabbiato? Adoro quando mi si fa notare che i miei occhi e i miei capelli sono strani.»

«Sono sicuro che non intendeva offenderti.»

«Settecentoottantasette.»

«Cosa?»

«Il numero delle volte in cui mi hanno fatto domande sul mio aspetto.»

«Hai tenuto il conto?» pur con il suo contegno raffinato, Alexander non riuscì a dissimulare lo sbalordimento.

«Solo negli ultimi dieci anni. Dici che è eccessivo?» domandò senza un reale pentimento l’Esorcista.

«Lo definirei piuttosto ossessivo» ribatté contenuto il suo superiore.

«Allora metti un bavaglio ai cittadini della Cattedrale, così non dovrò più contare.»

«Potresti semplicemente smettere di tenere il conto.»

«E semplificarti la vita in questo modo?»

Lastar aveva ormai raggiunto la stretta scala a chiocciola che l’avrebbe condotto sul terrazzo di osservazione. Si voltò verso il Messo Celeste con un piede sul primo scalino e dichiarò:

«Ti annoieresti terribilmente, se non avessi più un sottoposto paranoico di cui preoccuparti.»

«Sai che è colpa tua se i miei capelli sono bianchi, vero?» lo sgridò amichevole l’altro.

«No, la colpa è del fatto che sei nato più di cinquecento anni fa» Lastar si cimentò rapidamente in un saluto marziale prima di sparire sui gradini.

«No, è colpa tua» insistette Alexander, quando l’altro si fu volatilizzato. «Un sottoposto più squilibrato non esiste, in tutta la Cattedrale.»

 

***

 

Alexander avrebbe dovuto vedere chi era presente sul tetto, prima di assegnare a Lastar la corona di folle della Cattedrale.

L’Esorcista non ebbe tempo di salire l’ultimo gradino: un peso morbido gli si avvinghiò alla schiena, e, se non fosse stato così bene allenato, probabilmente avrebbe perso l’equilibrio e si sarebbe schiantato con la faccia al suolo.

«Finalmente sei arrivato» cinguettò una voce al suo orecchio, prima che il timpano fosse assordato da un bacio.

Anche questa volta, a Lastar non fu necessario guardare per riconoscere il proprietario della voce.

«Deimos. Scendi. Ora» sillabò, più minaccioso che mai.

Il tono intimidatorio sortì l’effetto opposto sul deviato aggrappato alle sue spalle: le gambe dell’indesiderato si strinsero attorno al suo bacino, e un’unghia nera tracciò invisibili ghirigori sulla sua gola.

«Hai sempre una bella voce. Bassa e roca» si complimentò l’altro, facendo quasi le fusa mentre sfregava la guancia contro quella dell’Esorcista.

«Deimos, se non scendi subito, ti sparo» lo avvertì Lastar e, per evidenziare la sua minaccia, sollevò una delle due pistole.

Uno sbuffo gli appannò una lente degli occhiali, e l’ospite sgradito si tolse dalla sua schiena con una mossa agile.

«E dire che ti stavo lusingando» si offese quello, imbronciandosi con il viso e il corpo. «La prossima volta ti dirò che sei brutto e noioso.»

«Così ti sparerò senza nemmeno avvisarti prima» patteggiò asciutto Lastar.

Gli occhi del giovane si socchiusero furfanteschi, mentre un ghigno ferino stendeva le labbra piene.

«Cosa sentono le mie orecchie» teatralizzò, avvicinandosi all’Esorcista con un passo flessuoso. Fece scorrere la mano all’interno del braccio dell’altro, volutamente vicino al fianco, e sussurrò: «Qualcuno è molto vanitoso.»

«Sono venuto qui perché è suonato l’allarme» gli rese noto Lastar.

«E io perché volevo vederti» con un guizzo, il ragazzo si portò a sedere sulla balaustra, incurante dello strapiombo sottostante. Puntò i gomiti sulle ginocchia e adagiò il viso tra le mani, focalizzandosi sul volto dell’Esorcista. «E lo sto facendo» flautò mellifluo, mentre lo sguardo scivolava più in basso.

Lastar sistemò gli occhiali, esasperato.

«Guardami, se non puoi farne a meno. Io devo decidere con i compagni il piano di battaglia… cosa c’è, Deimos?» l’Esorcista rilasciò il fiato in un sospiro greve di nervosismo quando vide l’indice del demone svettare civettuolo.

«A quali compagni ti riferisci, esattamente?» squillò l’altro, dondolando le gambe con fare deliziato.

L’Esorcista fu sul punto di assestargli una risposta tagliente, quando la fondatezza della curiosità del satanasso lo colpì. Si voltò, e la sua visuale fu riempita soltanto dal nulla presente sulla terrazza.

«Come è possibile che non siano ancora arrivati?»

«Perché io gli ho impedito di arrivare.»

La testa di Lastar virò con uno scatto, come quelle dei burattini difettosi.

«Tu cosa

Tutto il volto del ragazzo si incuneò in un sorriso, e le sue dita sfarfallarono irrisorie nell’aria, simulando l’invocazione di un incantesimo.

«Magia» sibilò. Incrociò le braccia sulla nuca e si sporse all’indietro con il busto, sull’orlo del precipizio. «Ho sbarrato l’accesso a tutti, all’infuori di te. Sono venuto qui per vedere te» gli ricordò, dondolandosi con spaventosa noncuranza. «Non volevo che la mia visione fosse disturbata dal brutto spettacolo dei tuoi colleghi.»

«Deimos, della gente morirà se i miei compagni non arrivano adesso!» Lastar non poté trattenersi dall’urlare, e le montagne intorno gli restituirono un’eco sferragliante della sua rabbia.

«Cosa ti fa pensare che la cosa abbia una qualunque rilevanza, per me?»

Gli occhi del ragazzo, fino a quel momento quasi spalancati per osservare meglio l’Esorcista, si strinsero in una fessura da cui trapelava unicamente una malsana scaltrezza.

«Tengo a te, Lastar» ogni parola sibilata risuonò come le note in un organo funereo. «Ma questo non significa che soffrirei, se il resto della Cattedrale venisse rasa al suolo. Gli umani non sono nemmeno buoni da mangiare, per me.»

Lastar portò istintivamente le pistole in posizione di difesa. La natura demoniaca del ragazzo emergeva da frasi di quel genere, così fredde e sprezzanti.

Deimos era uno dei demoni di seconda generazione, nato dall’unione tra Lucifero e Lilith, ed era stato insignito alla nascita della qualifica di demone del Peccato Irrazionale. Il suo aspetto fisico lo testimoniava in ogni sua forma: nei pozzi di sangue delle iridi era possibile intravedere lo scatenato reame della pazzia, mentre le onde dei capelli in cui si intrecciavano il corvino e lo scarlatto ricordavano i più antichi famigli dei diavoli, i serpenti. Il corpo era un perfetto altare alla lussuria: non vi era una curva fuori posto, un muscolo fuori forma, un arto che non fosse perfettamente bilanciato. Nemmeno lo stravagante modo di vestire del demone riusciva a mascherare la sensualità del viso e del fisico: bastava un’occhiata alla sua figura sinuosa perché la sanità di ogni uomo vacillasse.

In fondo, era per quello che era stato concepito: diffondere l’irrazionalità e i peccati ad essa connaturati.

Deimos fu più lesto di una vipera, e Lastar non ebbe modo di reagire tempestivamente: si allungò verso di lui, stampandogli un bacio sulle labbra, e ritornò nella sua posizione in un secondo, seduto con le braccia incrociate dietro la testa.

«Non corrucciarti, o diventerai spiegazzato come un foglio di pergamena tra meno di dieci anni» gli consigliò Deimos, di nuovo un sorriso disarmante in bella mostra sul viso.

«Non avevi bisogno di baciarmi, per dirmelo» disapprovò Lastar.

«Oh, quello è un piccolo omaggio. Goditelo» Deimos gli indirizzò un occhiolino malizioso, e ricominciò ad altalenare nel vuoto. «Comunque, noi due da soli siamo sufficienti. Sono una ventina di demoni, di classe inferiore.»

«Noi?» scattò l’Esorcista.

«Ti accompagno. Sono mesi che non mangio» si lagnò il ragazzo. Al contrario degli altri demoni, Deimos non si nutriva dell’anima degli esseri umani: trovava più di buon gusto l’essenza vitale dei suoi simili. Non si poteva pretendere che l’incarnazione dell’irrazionalità seguisse la dieta ufficiale della sua razza.

L’ultimo dondolio fu più forte dei precedenti, e Deimos si sporse troppo oltre la balaustra.

Le gambe e le braccia dell’Esorcista scattarono automaticamente: afferrò il corpo sottile del demone prima che andasse a schiantarsi nell’abisso, e lo strinse a sé per riportarlo sulla terra stabile. Un’inspiegabile spinta lo rovesciò all’indietro, e la sua nuca picchiò rudemente contro la pavimentazione. Non ebbe tempo di imprecare, impegnato a risolvere un altro problema: era steso a terra, con un diavolo lascivo che lo inchiodava al suolo.

«Mi chiedevo quanto tempo ancora avresti impiegato ad accorgerti che ero in pericolo» si risentì l’altro, adagiato sul torace dell’uomo con la rilassatezza di un nobile sul suo triclinio.

Le dita di Lastar si strinsero sulle pistole, che non aveva abbandonato nonostante l’emergenza, in uno scatto di irritazione.

«L’hai… fatto di proposito?»

«Ho anche spinto con i piedi contro la balaustra per farti cadere, mio caro» confessò candido quello, appoggiando il mento sui suoi pettorali. «E ne è valsa la pena: questa visuale è ottima.»

«Stanno arrivando dei demoni…» ringhiò Lastar, ma Deimos lo interruppe con un cinguettio.

«E tu hai il diavolo più bello di tutto il mondo conosciuto sdraiato addosso. Non ti senti privilegiato?»

La canna della pistola si appuntò contro la sua fronte, e il demone si rialzò visibilmente contrariato.

«Sai cosa si dice degli uomini fissati con la lunghezza delle armi?» lo canzonò, la momentanea arrabbiatura subito sostituita dal bizzarro buon umore.

«Non lo voglio sapere» tagliò corto Lastar, riequilibrando gli occhiali sul naso. «I demoni si stanno avvicinando.»

Il corpo del diavolo si modellò contro il suo busto, la nuca adagiata nell’incavo del collo, ed il ragazzo alzò il viso affinché gli occhi potessero legarsi a quelli dell’Esorcista, gemelli nella tinta rubino.

«Allora andiamo a dargli un caloroso benvenuto» lo incitò, raggiungendo con un balzo a piedi uniti il parapetto.

«Hai intenzione di sferrare un attacco frontale?» le sopracciglia ramate si sollevarono dubbiose.

«L’attacco è la miglior difesa» recitò baldanzoso Deimos, eseguendo un complicato gioco di equilibrio sulla balaustra.

«E come conti di scendere, esattamente?» pretese di sapere Lastar, incuriosito e spaventato dalla possibile risposta.

Deimos compì una piroetta, che concluse incrociando le gambe con un’eleganza in disarmonia con il suo carattere irrefrenabile.

«Guarda come sono vestito.»

«Deimos, seriamente, non…»

«Guarda» comandò il demone, sulle labbra il sorriso malevolo di un re pronto a far tagliare la testa ad un servo insolente.

Lastar lasciò l’ennesimo sospiro libero di uscire. L’abbigliamento del satanasso era quello cui era abituato: stivali, pantaloni di pelle e camicia sbottonata, tutto rigorosamente in nero, ad eccezione del filo cui erano appese stravaganti pezze colorate che il diavolo si attorcigliava sempre attorno al busto. Solo un particolare non rientrava nel suo solito vestiario.

«Indossi un mantello» notò, spazientito.

Un turbine sorridente gli precipitò sul petto, e delle mani irriverenti gli scompigliarono i capelli.

«Bravo» l’ultima sillaba non era ancora stata pronunciata, e il demone aveva già fatto ritorno alla sua posizione aggraziata sul parapetto. «Quindi possiamo scendere volando.»

Una vena pulsò per l’irritazione, gonfiando la tempia dell’Esorcista. Deimos sorrise lezioso, mentre afferrava il mantello e lo faceva sventolare attorno al corpo.

«Perché credi che tanti demoni usino questi brutti stracci ammuffiti? Sono fatti di una sostanza particolare che reagisce con la nostra aura. E diventano delle ali.»

Il viso dell’Esorcista si abbassò, e uno sguardo torvo lo raggiunse dalla sopra la cornice degli occhiali.

«Quindi non saresti morto, se tu fossi caduto all’indietro.»

«Adoro gli uomini perspicaci» lo adulò beffardo Deimos.

«Quindi avrei potuto evitare di salvarti, prima» concluse Lastar.

«Ma ti saresti privato dell’esperienza di avere il demone più bello del mondo premuto sul tuo petto» alcune ciocche ondulate vennero spinte ai lati del viso con un gesto vanitoso, accompagnando l’auto decantazione del demone.

Lastar preferì non commentare quell’ultimo punto, e poggiò la canna della pistola contro la fronte: il gelo del metallo lo avrebbe aiutato a recuperare la sua freddezza.

«Puoi portarmi giù con te?» le parole arrancarono a fatica tra i denti digrignati.

Il viso di Deimos si aprì in un sogghigno diabolico, e le sue braccia in un invito licenzioso.

«Con enorme piacere, mio adorato» lo corteggiò con un tono di voce vellutato, ma l’Esorcista non si lasciò fuorviare così facilmente.

«Come scendiamo?»

Deimos scrollò le braccia aperte, in un impaziente incitamento.

«Io volo, tu ti aggrappi» chiarì.

Lastar squadrò il demone in attesa, i suoi arti esili e il suo mantello dai poteri prodigiosi. Tutto ciò costituiva una garanzia davvero effimera per convincerlo a buttarsi giù dall’alto terrazzo della Cattedrale. L’incoerenza del demone doveva averlo contagiato, poiché si avvicinò a lui e gli cinse il bacino sottile con le braccia, le mani ancora strette sulle pistole.

Il ghigno di Deimos si ammorbidì in una malizia fiammeggiante, e lo intrappolò con un’espressione incendiaria negli occhi mentre gli accarezzava il viso imbronciato.

«Finalmente ti sei deciso» gioì lusingatore.

«Sei sicuro di riuscire a portare anche me?» Lastar stroncò sul nascere quel nuovo tentativo adescatore del demone, e la vendetta di Deimos si sublimò in un bacio sulla sua fronte corrucciata.

«Fidati di me, Lastar» sussurrò sull’attaccatura dei capelli di lava.

Gli artigli del demone si conficcarono nelle sue spalle, per trattenerlo al momento di spiccare il volo.

Le pieghe del mantello turbinarono attorno a loro, attorcigliate nella metamorfosi che le avrebbe trasformate in ali, ed il vento implacabile li frustò durante la loro caduta.

Lastar serrò l’abbraccio attorno alla vita del demone e nascose il viso nel suo petto. E non fu solo la paura del volo a stringergli il cuore.

 

***

 

«Oh, sei nudo.»

«Ho i calzoni.»

«Sei quasi nudo.»

Un viso adirato più rosso degli occhi gli scoccò un’occhiata assassina, prima di essere sfregato nell’asciugamano grezzo.

«Alexander, hai fatto irruzione nel mio bagno per qualcosa di utile o solo per constatare che mi spoglio quando mi lavo, come tutti gli esseri umani?» brontolò nella stoffa ruvida.

«Volevo complimentarmi per la splendida vittoria riportata» si congratulò il suo superiore, fermo sullo stipite della porta come una statua decorativa.

Il viso emerse parzialmente dall’asciugamano, appuntandosi sul catino sottostante.

Le sue mani insanguinate avevano donato all’acqua un intenso colore rosso cupo: il “vino della battaglia”, come lo chiamavano i combattenti più poetici. Non era stato sufficiente a ripulirlo del tutto: alcuni grumi di sangue erano rimasti incastrati sotto le unghie, e avrebbe dovuto raschiarli via con la lama di un pugnale. Perfino l’asciugamano si rivelò arrossato dal lascito dello scontro, come notò quando lo scostò dal viso.

«Erano deboli» minimizzò.

«Erano più di venti. E li hai affrontati da solo.»

Il tono con cui Alexander sottolineò il numero dei demoni trafisse la sua schiena come una pioggia di aghi. Gettò l’asciugamano in un angolo del bagno e si voltò guerresco. Il suo superiore non era un bambino al suo primo giorno di scuola: era perfettamente in grado di confrontarsi con le creste più aspre del suo carattere.

«Pensi anche tu che io sia un alleato dei demoni?» inveì, il collo teso e i muscoli delle braccia pronunciati per la rabbia. «Per via dei miei occhi? O dei capelli?»

Alexander scosse la testa, ed il gesto disseminò una tempesta di riflessi perlacei sui capelli bianchi.

«No. Per via del ragazzo che hai portato nella Cattedrale.»

L’accusa cadde come un macigno tra di loro, seppellendo il dono della parola di entrambi.

Una ciocca argentata venne spostata dietro l’orecchio, ed Alexander continuò, cadenzato ma inflessibile:

«È un giovane molto particolare. Non avevo mai visto il piano sotterraneo in subbuglio come questa sera.»

«È un ragazzo di bell’aspetto, come non se ne vedono molti» arginò Lastar. Cercò con una mano gli occhiali, appoggiati da qualche parte sul lavabo, e la seconda affermazione del Messo Celeste lo schiaffeggiò sulla nuca:

«È indubbiamente attraente. Ma sembra che basti soffermarsi su di lui un solo istante per sentire le proprie inibizioni crollare. È quasi… satanico.» 

Se fosse stato una persona normale, avrebbe morso le labbra e chiuso le mani a pugno per l’afflizione nel vedere il più capace dei suoi uomini ammutolito da chissà quali colpe inconfessate. Ma lui era un Messo Celeste, e non poteva permettersi simili manifestazioni emotive: il tono fu asciutto e severo per ammonire il suo sottoposto come era giusto che fosse.

«Sei il migliore Esorcista che abbia difeso questa Cattedrale da secoli. Potrei garantirlo anche sotto giuramento» un angolo della sua bocca si tirò canzonatorio, ricordando quanto fossero vere le sue parole: aveva visto con i suoi occhi porre la prima pietra della fortezza, ed era ancora vivo per raccontarlo. «Hai la mia totale fiducia. Per cui non ti porrò domande a cui non vuoi o non puoi rispondere. Ma ti impongo di essere prudente, Lastar: è sulle spalle di Esorcisti come te che si fonda la sicurezza di questa cattedrale.»

Le dita callose del giovane tamburellarono sulle stecche degli occhiali, senza spezzare il silenzio con quel loro suono dimesso. Fu compito dell’Esorcista squarciarlo.

«Mi ha aiutato durante la battaglia, oggi. Come ricompensa, mi ha chiesto di passare una notte alla Cattedrale.»

Alexander sollevò il mento, austero.

«Perché hai acconsentito?»

«È stato perquisito dalle guardie, ed è stato giudicato innocuo» addusse come spiegazione.

«Normalmente, non lo avresti nemmeno fatto avvicinare» le vesti del Messo Celeste frusciarono quando questo si inginocchiò di fronte a lui per incrociare i loro sguardi dal basso. «Perché hai acconsentito?» ripetendo la domanda, Alexander ottenne finalmente una replica, sebbene non fosse quella che aveva auspicato:

«Questa è una domanda a cui non voglio rispondere.» 

Le ciglia bianche si incontrarono una sola volta, aristocratiche, e un’espressione inflessibile seguitò l’indagine:

«Puoi garantirmi che la sicurezza dei cittadini non verrà intaccata?»

«Posso garantirlo» assicurò Lastar.

Nonostante l’età avanzata, le ginocchia non scricchiolarono, permettendo al Messo Celeste di rialzarsi con un movimento fluido.

«Lascialo tra la gente ancora qualche ora, se così desidera. Poi fallo uscire o portalo nella tua camera e sorveglialo. È un ordine» terminò, per prevenire qualunque possibile replica.

Il capo fiero di Lastar si chinò umilmente, un braccio obliquo sul petto e l’altro piegato dietro la schiena nella formale dimostrazione di rispetto.

Nessuna espressione visibile attraversò il viso di Alexander, ma il suo tono vibrò di una preoccupazione sotterranea:

«Sei stranamente ubbidiente, quando si parla di quel giovane. Stranamente silenzioso, stranamente guardingo» le dita dell’uomo di intrecciarono composte: «Spero che tu sappia cosa stai facendo, Lastar.»

L’Esorcista rimase immobile, mentre il suo superiore abbandonava la stanza. Non si mosse finché anche l’ultima eco dei passi del Messo Divino non fu dissolta nei corridoi. Solo allora strinse le dita sul bordo del catino, la schiena piegata come per un aggressivo attacco di nausea. Boccheggiò, strozzato dai conati, e l’odore rugginoso del sangue gli riempì il naso e i polmoni, acuendo la sensazione di malessere.

«Sapere quello che faccio?» ansò, scivolando sulla superficie umida del lavabo. «Vorrei tanto, Alexander. Vorrei tanto che fosse così.»

 

 

… questo è ciò che accade quando la Red decide di scrivere una slash xD

E poi decide di metterci gli angeli e i demoni XD

Vi ringrazio per essere arrivati a leggere fin qui (e lodo il vostro coraggio<3)<3

A presto, se vorrete saperne di più sul destino di questi amorevoli spostati<3

Red


Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il Principe ha difeso un umano! ***


Capitolo Due

«Il Principe ha difeso un umano! »

 

Deimos spiccava nella folla come una goccia di sangue sulla neve, a discapito dei suoi sforzi per assomigliare ad un umano comune.

Nonostante riuscisse ad imbrunire i suoi occhi in un castano intenso, non poteva cancellare la loro sinistra sensualità, capace di far rabbrividire di terrore e piacere al contempo. Così come i suoi lineamenti non potevano essere in alcun modo sbeccati in un viso ordinario, o la sua flessuosità mascherata con movimenti volgari.

Deimos pareva divertirsi, immerso nella rumorosa folla del piano sotterraneo, riservato alla gente comune. Si era cosparso il viso con un sorriso furfantesco e una manciata di malizia, e stava lì, ad attendere gli inevitabili approcci della marmaglia tutt’intorno.

I demoni erano troppo orgogliosi, e gli angeli troppo superbi: nessuno di loro si lasciava andare al rossore con la facilità delle donzelle di fronte a lui, e a nessuno tremavano le labbra come ai ragazzi che gli si avvicinavano, ancora non del tutto consapevoli dell’emozione che gli torceva le viscere. Gli umani erano molto più spassosi da sedurre: l’ingenuità tingeva le loro guance di mille sfumature diverse, dal rosa pallido al porpora congestionato, l’imbarazzo li faceva quasi ballare sul posto; quando poi i loro occhi cominciavano a saettare per la stanza, incapaci di sostenere il suo sguardo, Deimos sentiva una risata nascergli dal pozzo nero che aveva al posto del cuore. Avrebbe voluto avere a che fare con gli umani più spesso; in fondo, lui non voleva mangiare le loro anime come i suoi fratelli. Voleva solo confonderli, stregarli fino a portarli al tracollo, come era nella sua natura di Peccato Irrazionale.

Lastar sopraggiunse nella sala gremita, e vide un gruppo di giovani attorniare il demone con fare concitato. Le femmine parevano ipnotizzate dai suoi occhi scuri e dal modo in cui inclinava la testa per ascoltarle, mentre i maschi stavano provando quel misto di smarrimento e attrazione che il diavolo riusciva a stimolare con la sua voce modulata.

Conosceva quella sensazione fin troppo bene. Era stata la sua compagna costante, durante le prime visite del demone.

Deimos rialzò lo sguardo, lo scorse, e i suoi occhi divennero due strette mezzelune di scaltrezza. Spostò lo sguardo sulla ragazza alla sua destra, per alimentare l’incendio sulle sue guance quando la afferrò per la vita e la strinse a sé. Dopodiché, lanciò una seconda occhiata a Lastar, venata di sadica soddisfazione.

Per tutta risposta, l’Esorcista inalberò gli occhiali.

«Ordini del Messo Celeste» annunciò. La sala piombò improvvisamente nel silenzio; alcune persone trasferirono la loro attenzione sul soffitto o sui piedi, vergognose di non essersi accorte prima dell’arrivo dell’Esorcista.

«Lo straniero passerà la notte altrove» continuò, serrando le palpebre quando un brusio di malcontento si gonfiò nella calca.

«Oh, ti prego, Lastar» si lagnò la ragazza più spavalda del gruppo. «Fallo stare ancora un po’.»

«Sì, Lastar.»

Il tono del demone strisciò sulla sua caviglia come un serpente, e si inerpicò sul corpo fino ad insinuarsi nel suo orecchio con una carezza leziosa. L’Esorcista trattenne un brivido; ancora non aveva capito come Deimos riuscisse a rendere la sua voce così palpabile.

«Fammi restare ancora un po’» tutto il sangue della giovinetta che il demone abbracciava doveva essersi addensato sulle guance a giudicare dal calore e dalla tinta paonazza che emanavano.

«Sono ordini superiori. Non posso disubbidire. E nemmeno tu» Lastar pressò volutamente sull’ultima parte della frase. Non aveva intenzione di discutere con lui: era frustrante ed infruttuoso quando erano soli, e lo sarebbe stato maggiormente se circondati da una folla che appoggiava il diavolo.

Le ciocche ondulate sembrarono ridere assieme alle labbra quando Deimos scosse la testa.

«Sono subito da te» il demone lasciò andare la fanciulla, che riprese gradualmente un colorito normale, e fendette la folla fino a raggiungerlo.

Non aveva ancora stabilito se il modo in cui Deimos ancheggiava fosse studiato o involontario: qualunque fosse la verità, era sufficiente a catturare l’attenzione delle persone intorno a lui. Come avvenne anche quella sera. Lastar desiderò che il diavolo si fosse chiuso il mantello sulle spalle, anziché portarlo ripiegato sul braccio.

«Andiamo» con quella parola cercò di troncare in un colpo solo ogni possibile recalcitranza del demone o proteste da parte dei civili. La folla espresse il suo dissenso con sbuffi sonori, mentre Deimos si avviò al suo seguito docilmente. Escludendo il secondo in cui si voltò per lanciare un bacio alla fortunata ragazza di poco prima e vederla avvampare di nuovo fino alle orecchie.

«Voi umani siete proprio divertenti» ridacchiò Deimos, saltellando al suo fianco.

«Non siamo giocattoli» fu la brusca difesa di Lastar.

Una folata colorata gli spazzò il cammino, e l’Esorcista si rese conto che il demone si era appena aggrovigliato di nuovo il petto con le sue corde piene di stracci. Non voleva nemmeno sapere come le avesse nascoste fino a quel momento.

«Non ho detto che lo siete» cinguettò tranquillo Deimos, saltandogli praticamente davanti ai piedi per il gusto di vederlo inciampare. Lastar gli negò quella gratificazione: lo anticipò di un secondo e lo fissò truce finché il diavolo non tornò al suo posto.

«Era un complimento» chiarì. La seconda volta, l’Esorcista non riuscì a schivare il suo attacco: la piroetta con cui Deimos si spostò fu troppo veloce, e Lastar si ritrovò con il petto del diavolo premuto sul suo fianco. Il lamento del ragazzo venne articolato contro la sua costola:

«I demoni e gli angeli spesso sono noiosi.»

«Non credo che siano discorsi adatti ad un corridoio pubblico» cercò di frenarlo Lastar. Ovviamente l’altro, anziché acquietarsi, rincarò la dose:

«Ma è la verità! I demoni… quelli superiori, intendo, quelli inferiori sono degli scarti bavosi che non toccherei nemmeno con la punta di un bastone» il diavolo gli pizzicò un fianco, come se questo lo aiutasse a riconnettersi al filo principale del discorso. «I demoni superiori sono troppo innamorati della propria fierezza: cercare di sedurli è come stuzzicare una parete di granito. Solo io ogni tanto riesco a strappargli qualcosa. Comunque, in camera da letto…»

«Deimos, non voglio essere aggiornato sui vizi notturni della tua razza» lo interruppe Lastar.

«Davvero?» la gamba del demone si allacciò alla sua vita, per permettere al viso diabolico di raggiungere la mascella dell’Esorcista. «E dire che ci sono delle cose molto interessanti da…»

«Deimos

«Gli angeli» proseguì serafico il diavolo, come se l’altro non avesse mai urlato. Scese dalla sua scala umana e seguitò a meditare ad alta voce, gesticolando incoerentemente: «Al contrario, gli angeli sono troppo gonfiati dalla propria perfezione. Sempre a fare un’espressione disgustata come se sentissero puzza di cadavere. Danno il peggio di sé, e poi si pentono per settimane.»

«Danno il peggio di sé?» gli fece eco l’Esorcista.

«Quando si accoppiano con me. Cadono in tentazione, si pentono e poi cadono di nuovo e il ciclo si ripete. I demoni, invece, nella maggior parte dei casi sono sadici» le orecchie vennero quasi spinte fuori dalla testa tanto fu ampio il sorriso malevolo di Deimos: «Forse sono cose come queste che offendono il tuo udito delicato?»

Gli occhiali vennero sollevati, le palpebre stropicciate e le lenti rimesse al loro posto.

«Non hai il minimo pudore?» sbuffò Lastar, il respiro gravato da un principio di emicrania.

Deimos scollò le spalle, con disarmante noncuranza.

«Tu sei un Esorcista, e uccidi i demoni. Io sono il demone del Peccato Irrazionale, e seduco le persone. O faccio crollare le loro convinzioni. O le porto alla pazzia. Ognuno ha il suo compito.»

«Io non parlo di come squarto i demoni» replicò l’altro.

«Potresti anche farlo. Non mi interessa e non mi infastidisce.»

Un fruscio, una nota di un profumo conturbante nell’aria e Deimos l’aveva sorpassato.

Le parole del diavolo fecero scattare una scia di ricordi nella mente dell’Esorcista. La memoria gli gettò nel naso l’afrore sulfureo della pelle squamosa dei demoni inferiori e le mani avvertirono di nuovo il peso del sangue versato in quella giornata. I momenti della lotta ripresero vita nella sua mente.

 

***

 

Aveva affrontato battaglie assai peggiori, nonostante l’inferiorità numerica: i satanassi di quel rango infimo erano mossi dall’istinto e non dall’intelletto. Erano bestie cieche e furiose, ed era sufficiente schivare i loro assalti e colpirli: non avevano abbastanza cervello per pianificare un contrattacco. Non erano lotte impegnative come quelle ingaggiate con i demoni di classe superiore, aguzzi nella furbizia e nelle arti magiche.

Deimos si era unito a quella battaglia perché affamato, e aveva lacerato la gola ai primi due abomini che gli si erano gettati addosso, nutrendosi del loro sangue e del loro spirito. Ne aveva uccisi altri tre per placare la sua sete, mentre Lastar si occupava dei restanti: la lama Vampira turbinò nell’aria tingendola di spruzzi rossi, e le membra recise dei demoni ricaddero al suolo, le terminazioni nervose che ancora si muovevano.

Una delle bestie primordiali si avventò sulla schiena dell’Esorcista, e tentò di cavargli gli occhi con le unghie scheggiate. Ma prima che le sue dita adunche avessero raggiunto le lenti degli occhiali, una mano dai nerbi di acciaio si era stretta attorno al suo collo ossuto, spezzandolo con una semplice pressione del pollice.

Lastar colse un movimento alle sue spalle, ed il corpo inerte dell’abominio ricadde al suolo polveroso, le pupille immobili e il collo ritorto in un modo orribile.

«Il Principe!» gracidò l’ultimo satanasso rimasto, graffiandosi il muso gonfio. «Ucciso dal Principe! E il Principe non l’ha mangiato! Ha difeso l’umano! L’ha ucciso per difendere un umano!»

Lastar sentì grido di quella bestia scorticargli il petto.

Deimos veniva a infastidirlo di continuo, da quando quello strano rapporto di schermaglie si era instaurato tra di loro; la sua presenza insolente era pressoché scontata. E la leggerezza con cui il diavolo trascorreva del tempo in sua compagnia gli aveva quasi fatto dimenticare che mai, mai e poi mai un demone sarebbe diventato l’alleato di un Esorcista. Non erano amici, non erano compagni: erano solo un giullare e uno spettatore irritato. Questa era la giustificazione ufficiale.

Eppure, Deimos aveva appena ucciso, e aveva lasciato il cadavere perfettamente intatto. Non aveva ammazzato un altro demone per mangiarlo, ma per difendere lo stesso Esorcista che un giorno avrebbe potuto levare la spada contro di lui. Solo in quel momento si rese conto di quanto la loro strana relazione fosse distorta: era innaturale uccidere un proprio compagno per proteggere un potenziale nemico.

«Il Principe si è venduto agli umani! Il Principe si è venduto agli umani!»

Lo avrebbe ripetuto infinite volte se Deimos non avesse posto fine a quello strazio recidendogli la gola con un colpo di taglio: la pelle si aprì sotto le unghie del Principe, vomitando un mare di sangue violaceo in cui si accasciò il corpo senza vita della bestia.

Lastar poté scorgere la genesi infernale di Deimos nel modo in cui si ripulì le dita: le scrollò nell’aria con un’espressione di gelido disprezzo, estremamente seccato. Aveva combattuto fianco a fianco con i veterani dell’Ordine, e sapeva quanto un guerriero potesse diventare freddo durante una battaglia: era un requisito essenziale per non farsi manovrare dal panico. Tuttavia, l’orrore sotterraneo per la morte perdurava anche negli occhi asciugati dalla guerra, come una minuscola scintilla in mezzo ad una montagna di cenere. Deimos non possedeva quel bagliore: vi era solo polvere nelle sue iridi.

Era stato rapido nel ricomporre sul viso la solita farsa canzonatoria: aveva ripreso a saltellargli intorno e a martoriargli i nervi con ineffabile facilità.

Poi gli aveva proposto il patto: una notte alla Cattedrale in cambio dell’aiuto ricevuto. E Lastar, ancora perso nella palude dei suoi pensieri, aveva accettato quasi inconsciamente.

 

***

 

Il profilo di Deimos si intagliò perfettamente nella cornice della vetrata gotica.

Il demone si era fermato davanti alla finestra oblunga, apparentemente assorto nel fissare la luna al di là del vetro a mosaico. La luce argentea colava in un pallido bagliore sul volto del giovane: alcuni riflessi perlacei si impigliarono nelle lunghe ciglia e nella curva carnosa delle labbra; la natura stessa sembrava cospirare per incrementare l’aura ammaliatrice del Principe.

Lastar si fermò istintivamente, a qualche passo di distanza da Deimos, e fu costretto a stringere la croce in cui il suo rosario terminava per recuperare il controllo dei suoi pensieri.

«Hanno detto che ti sei venduto agli umani» la voce dell’Esorcista suonò ancora più bassa del solito tra le mura del corridoio vuoto. Deimos restò immobile per qualche istante, come se la contemplazione della luna lo avesse distratto dal resto del mondo.

Una mano salì pigramente a scuotere la movimentata zazzera corvina, ed un sospiro rotolò fuori dalle labbra del demone.

«Gli inferiori dicono tante cose. Non prestarci troppa attenzione.»

«E i tuoi familiari? Cosa diranno?»

Le spalle del diavolo si irrigidirono in un sospiro trattenuto; il mantello che portava appeso al braccio schiaffeggiò la parete alle sue spalle quando Deimos si voltò con una giravolta.

«Ti stai preoccupando per me?» il suo ghigno fendette l’oscurità, insinuante.

La mano di Lastar abbandonò il rosario: non voleva che l’altro lo vedesse aggrappato ad uno stemma.

«Un Esorcista e un demone non dovrebbero nemmeno parlarsi» gli ricordò greve Lastar.

«Le regole mi danno l’orticaria» si lamentò in un miagolio Deimos.

«Hai ucciso uno della tua stessa razza per difendermi.»

«Perché tu mi piaci, quello invece no.»

«Non puoi scherzare su tutto, Deimos.»

Le dita dell’Esorcista ebbero un guizzo, cercando istintivamente le armi: lo sguardo fiammeggiante che lo trafisse conteneva ogni fulgore maligno albergante nello spirito di un demone. Si fermò solo quando ricordò che quello che aveva davanti era Deimos.

«Non sto scherzando» il diavolo fece roteare il mantello, che andò ad appoggiarsi sulle sue spalle con un fruscio elegante. «Se fosse stato un qualunque altro essere umano, sarei stato a guardare mentre gli spolpavano l’anima. O forse no. Sai, sono disgustosi quando mangiano. Emettono dei suoni orribili» un passo, e il demone lo fissò ad un soffio dal viso mentre sibilava: «Tu mi piaci più dei tuoi simili. Per questo voglio aiutarti.»

«Avevi detto che tutti gli umani ti piacciono» replicò Lastar.

«Ho detto che sono più divertenti degli angeli e dei demoni. Questo non significa che rischierei di far arrabbiare Lucifero, mio padre, per salvare uno di loro.»

«Per me l’hai fatto.»

«Perché tu sei speciale, mio caro.»

«Non ti capisco.»

«Rinuncia a capirmi. In tanti hanno provato prima di te, e hanno tutti fallito» il demone roteò di nuovo su se stesso, la sua ombra nitida contro la finestra intarsiata. «Nemmeno io riesco a capirmi.»

Gli occhiali dell’Esorcista vennero rimossi, e le iridi cremisi si appuntarono sul compagno.

Da quando conosceva Deimos, aveva collezionato una serie di immagini su di lui: arrabbiato, allegro, triste, canzonatorio, serio, cinico, affettuoso… tutte maschere che il diavolo interscambiava con una rapidità da capogiro. Ma, qualche volta, era riuscito a carpire alcuni frammenti dell’anima più vera, quella che il demone stesso affermava di non riuscire a comprendere. Se non avesse visto quello spirito nascosto soffocare sotto i travestimenti del Deimos più plateale, probabilmente non si sarebbe tanto affezionato a lui.

Per un istante, gli parve di vedere quel barbiglio più spontaneo occhieggiare nelle ciglia abbassate del diavolo, nella linea malinconica della bocca.

Si portò abbastanza vicino da accarezzargli le onde indisciplinate dei capelli con una mano: le ciocche parvero rivoltarsi sotto le sue dita, in accordo con l’indole inafferrabile del demone.

Anche Lastar faticava a capire se stesso, quando si trovava in presenza di quel diavolo: in alcuni momenti voleva respingerlo con tutte le sue forze, in altri avrebbe voluto stringerlo a sé fino ad annullare tutto il resto. Si chiedeva se fosse la natura irrequieta del Principe a rendere così instabile perfino lui.

Deimos alzò uno sguardo scintillante di curiosità sull’Esorcista.

«Starò bene» lo rassicurò, scrollando la testa come un cagnolino. «Non è la prima volta che faccio arrabbiare mio padre. Ormai sono abituato.»

«Non è per quello che ti sto accarezzando.»

Il demone inclinò la testa, come i bambini quando non capiscono bene i discorsi degli adulti.

Le ciglia allungarono un’ombra affusolata sugli zigomi quando Deimos chiuse gli occhi e girò lievemente il viso. Le unghie del diavolo solleticarono delicatamente il polso dell’Esorcista, trascinando la sua mano lungo la levigata discesa della guancia. Lastar sentì il calore delle labbra del ragazzo riempire il suo palmo; anziché scostarsi infastidito, come avrebbe fatto di solito, adagiò anche l’altra mano sul viso liscio del diavolo, voltandolo gentilmente verso di sé.

Non vi fu traccia della consueta spigliatezza derisoria nel sorriso che illuminò gli occhi di Deimos, di nuovo sanguigni.

«È per questo che sei il mio preferito» sussurrò, carezzandogli il dorso delle mani con le unghie affilate. «Una gentilezza vale cento volte di più se fatta da una persona burbera.»

«Stai insinuando che ho un brutto carattere?» si risentì Lastar.

«Pessimo, mio adorato» ridacchiò Deimos.

La successiva sequenza di eventi fu così rapida che perfino l’occhio allenato dell’Esorcista faticò a districarla: il demone scostò le mani dell’altro dal suo viso, scattò in piedi, gli morse le labbra, si avviluppò nel mantello e annunciò:

«Grazie per la bella serata, Lastar.»

Dopodiché, tutto quello che rimase di lui fu uno sbuffo di fumo e un sentore di zolfo.

Lastar rimase fermo, raggelato dalla rapidità della successione di eventi. La sua mente intorpidita dalla sorpresa riuscì a spremere fuori un unico pensiero.

Deimos conosceva il teletrasporto; era una nozione impartita a tutti i membri della famiglia reale. Dunque non aveva alcun bisogno di un mantello che si trasformasse in paio di ali, per viaggiare. Allora perché si era agghindato in quel modo?

Una risposta risuonò nel suo cervello, assurda e plausibile al contempo: perché se avesse usato il teletrasporto per atterrare ai piedi della Cattedrale, non avrebbe potuto abbracciarlo.

Si afferrò le tempie con le mani e premette forte.

Era stata una lunga giornata, e, il mattino seguente, avrebbe dovuto istruire di nuovo una ciurmaglia di moccicosi. Aveva bisogno di riposare.

Si diresse verso la propria stanza reggendosi la fronte, la consapevolezza di essere il preferito del demone del Peccato Irrazionale – qualunque cosa quella frase volesse significare – appiccicata alle spalle.

 

***

 

La lunga coda nera si confondeva con la seta scura della camicia dell’uomo. Il colore rosso del nastro che tratteneva la capigliatura era della stessa tinta della cintura che gli fasciava la vita. L’ebano dei capelli si richiamava all’onice della montatura del monocolo, gli occhi purpurei si armonizzavano con le gocce di rubino che collegavano la lente al petto del giovane. Ogni colore ricollegabile ad un altro.

La cintura stretta senza creare pieghe superflue, la camicia impeccabilmente allacciata, i capelli perfettamente ordinati, perfino le ciocche più corte e scomposte ai lati del viso. Ogni parvenza di disordine ricondotta ad un rigore austero.

Lo conosceva bene.

Il diavolo che lo attendeva, adagiato sulla poltrona dell’atrio principale, sdegnoso e inflessibile, era Lazard, il demone del Peccato Razionale.

Suo fratello maggiore.

«Sei stato in piedi ad aspettarmi?» rise rumorosamente Deimos, avvicinandosi con una camminata sgangherata. «Non dovresti fare tardi. Ti verranno le rughe.»

Il fratello sistemò il monocolo, come per metterlo meglio a fuoco; intrecciò le mani sul proprio ventre e una sola parola si srotolò dalle sue labbra di ferro.

«Siediti.»

Deimos contorse tutto il viso in una plateale smorfia di risentimento, ma si lasciò ugualmente cadere sul tappeto di fronte alla poltrona.

Ignorava i comandi dei suoi genitori senza rimorsi – pur essendo consapevole delle conseguenze della sua condotta -, ma non riusciva in alcun modo a fare lo stesso con gli ordini del fratello. Forse era imputabile alla natura diametralmente opposta dei loro poteri: annullandosi a vicenda, non riusciva a inalberare la sua solita impertinenza con il maggiore. Oppure la causa era l’affetto smodato e immotivato che nutriva nei confronti di Lazard, sebbene quest’ultimo non avesse mai fatto nulla per accaparrarsi i suoi favoritismi.

«Qual è il problema?» Deimos si stese sulla pancia e prese a sgambettare nell’aria, il mento poggiato sui palmi, per sdrammatizzare quell’aria tesa.

Il trucco non funzionò. Lazard lo guardò con ulteriore riprovazione e scandì:

«Mi riferiscono che hai protetto un umano.»

Deimos incrociò le braccia sul tappeto e vi affondò il viso, mugolando:

«Avevo fame.»

«E ti sei nutrito. Ma ne hai ucciso uno in più.»

Lazard non usava mai perifrasi, nelle sue insinuazioni: ogni parola era una freccia diretta al cuore sporco dell’accusato. Al contrario del minore, che si perdeva costantemente in lunghissimi ed insensati giri di parole.

«Mi sono sbagliato» biascicò Deimos, ma il fratello non gli perdonò quel tentativo di fuga:

«Perfino tu non puoi sbagliare su queste cose. Non si spezza l’osso del collo di un appartenente alla propria razza per errore.»

Deimos rotolò su se stesso, ritrovandosi a fissare il fratello da una prospettiva rovesciata.

Il loro legame di sangue era scolpito nell’affinità dei lineamenti, nel pallore dell’incarnato e nel colore dei capelli e degli occhi; le loro differenze abissali erano rivelate dagli atteggiamenti. Scomposto su un tappeto il primo ed educatamente seduto in poltrona il secondo; la voce di Deimos, per quanto gradevole all’udito, compiva continui sbalzi di tono, mentre quella di Lazard rimaneva fissa sulla nota dell’alterigia. O del disprezzo, quando parlava con il suo scandaloso fratello minore.

«Te lo chiederò una volta sola» premise il maggiore. Il collo si stese aristocratico, ed il mento si sollevò con superbia. «Hai ucciso per difendere un umano?»

Sarebbe stato semplice mentire: lo aveva fatto in innumerevoli occasioni, quando i suoi compagni serali gli chiedevano se li amasse. Ed era un maestro nell’addobbare la verità con un numero così spropositato di fronzoli da farla sembrare una bugia. Ma non davanti al fratello: i suoi occhi indagatori laceravano il corpo delle sue commedie, lasciando integro solo lo scheletro della verità.

«Sì» fischiò Deimos.

Le palpebre si chiusero con un tremolio, ed il monocolo venne accuratamente riposto nel taschino. Lazard era arrabbiato. Tremendamente arrabbiato.

«Siamo demoni. Ci nutriamo di umani.»

«Io no.»

«Tu sei un degenerato.»

Il gelo di quell’insulto lo abbrancò alla gola, e Deimos rabbrividì vistosamente.

«Ci sono alcuni demoni che siglano dei contratti con gli umani per il solo piacere di vederli contorcere in una lunga agonia, e questo è l’unico contatto concesso al di fuori dell’uccisione. In nessun caso, per nessuna ragione, un demone degno di questo nome aiuterebbe un umano

«Lo so.»

«Se ne sei consapevole, comportati di conseguenza» lo rimproverò spietato Lazard. «Per questa volta, nostro padre ha deciso di essere clemente. Non sfidare oltre la sua pazienza. Se vuoi divertiti con quell’Esorcista, puoi farlo» il maggiore storse un angolo della bocca come se avesse sentito un odore poco gradevole: l’idea di un demone mischiato con un essere umano lo nauseava nel profondo. «Puoi condurlo al tracollo se lo desideri. Ma ricorda che è un nostro nemico: non devi in alcun modo aiutarlo. Limitati a fare ciò per cui sei stato creato.»

Il disgusto acido del fratello gli corrose il cuore, e Deimos si appallottolò su se stesso per contenere il dolore. Faceva male essere rifiutati a quel modo dalla persona che più adorava al mondo.

«Devo fare quello per cui sono stato creato» rifletté ad alta voce. Si girò veloce su un fianco e si issò a quattro zampe, e da quella posizione invitò il fratello: «Vuoi restare con me, stasera?»

Il viso di Lazard indietreggiò come se a parlare fosse stato un verme di palude; si rialzò dalla poltrona per mettere più distanza possibile tra lui e quella vergogna che era costretto a chiamare “fratello”, risistemò il monocolo al suo posto e dichiarò:

«Non nutro alcun interesse per un corpo lordato da mille accoppiamenti precedenti.»

Abbandonò la stanza senza voltarsi indietro. Era netto nelle sue azioni e nei suoi pensieri come una lama ben affilata: non si fermava mai a metà di un colpo.

Deimos crollò sul tappeto, e si rotolò su di esso senza sosta.

Lazard gli piaceva. Ma non poteva stare con lui perché il maggiore, al contrario, lo detestava.

Lastar gli piaceva. Ma non poteva stare con lui perché era un Esorcista.

Spalancò le braccia e le gambe formando uno strano pentacolo sul tessuto morbido sotto di lui.

«Sto facendo il mio lavoro» cantilenò, risentito. «Sto facendo impazzire me stesso.»






Ed eccoci al secondo capitolo XD

Grazie a tutti voi che avete letto anche questa seconda discesa nella follia<3

Red

P.S. QUI potete trovare il Commentario a questa originale (vi sono segnate la genealogia angelica, la genealogia demoniaca, l'organizzazione della Cattedrale, le schede dei personaggi... tutte le informazioni tecniche, insomma); verrà aggiornato con il procedere dei capitoli, per evitare spoiler<3

Kiss<3

Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Giocattoli e Ossessioni ***


Capitolo Tre

Giocattoli e Ossessioni

 

Il fratello non sarebbe rientrato per consolarlo: Lazard era cinico e diretto quando Deimos era assurdo e contorto. Aveva detto di disprezzarlo ed era uscito disgustato; non avrebbe messo di nuovo piede in quella stanza per rimangiarsi le proprie parole ed abbracciare il consanguineo ferito. Era un atteggiamento troppo irragionevole, per lui.

Ogni tanto, Deimos pensava che la mente del fratello fosse una strada costituita da un unico binario: era semplice capire dove si sarebbe diretto con le parole e le azioni. Se ragionava sulla propria, invece, la associava ad un gomitolo ingarbugliato: impossibile trovare un inizio e una fine coerenti.

Sospirò, rialzandosi dal tappeto.

Avrebbe fatto una passeggiata fino allo Stige. Forse avrebbe anche trovato qualcuno disposto ad abbracciarlo.

Il vento notturno si insinuò con facilità nei bottoni aperti della camicia, senza l’ostacolo del mantello: Deimos aveva lasciato quel pezzo di antiquariato sul tappeto. Non ne aveva bisogno per proteggersi dagli agenti atmosferici. La brezza gelida quasi si rammaricò nel sentire la pelle che, anziché rabbrividire sotto i suoi soffi artici, si riscaldava per contrastare la bassa temperatura di quella serata autunnale.

Deimos raddrizzò le spalle, lasciando al vento perlomeno la soddisfazione di scompigliargli i capelli. Suo padre Lucifero aveva insegnato a lui e a Lazard come controllare la propria temperatura corporea per contrastare gli elementi fin da quando erano bambini. Non ricordava di essersi ammalato nemmeno una volta, dal giorno in cui era nato. Ed era estremamente fiero di quel suo primato: i malanni umani erano nauseabondi, con il loro corollario di catarro e muco, mentre i morbi demoniaci erano spietati, ed il più delle volte fatali.

Fu una lunga camminata: lo Stige segnava il confine estremo del regno demoniaco, un ramo di acqua torbida che divideva Infera dall’impero delle Cattedrali.

Si fermò sulla sponda limacciosa, le punte dei piedi che sfioravano le creste melmose del fiume. Stese il collo al massimo delle sue possibilità: oltre la desertica Terra di Nessuno, nell’abbraccio protettivo delle aspre catene montuose, sorgeva la punta della torre più alta della Cattedrale di Elohim.

Il marmo nero con cui era stata edificata era distinguibile nella notte solo per i riflessi argentati che la luna riversava sulle guglie e sui contrafforti: alcune mura impallidite dalle stelle emergevano dalle ombre, apparentemente sospese nel nulla.

Deimos seguì per qualche passo il corso del fiume, senza staccare gli occhi dalla Cattedrale. Tra le sue mura abitavano gli Esorcisti più capaci, ed era stata costruita in quel punto, esattamente al di fuori della Terra di Nessuno, per garantire la sicurezza alle Abbazie e alle Cattedrali minori. Illusi: i demoni non prendevano mai due volte la stessa strada, per recarsi nel mondo degli uomini. Tuttavia, la Cattedrale di Elohim incuteva un certo timore in alcuni ranghi della società diabolica: gli Esorcisti che vi albergavano erano gli unici che i demoni riconoscessero come degni avversari, ed avevano stretti contatti con tutte le Abbazie e le Cattedrali esistenti. Se un diavolo o un angelo avesse attaccato gli esseri umani, nel giro di un giorno sarebbe apparso un Esorcista di Elohim.

Deimos si gettò a sedere, naufragando con lo sguardo verso il cielo: anche Lastar figurava tra quei combattenti così spaventosi.

Un crepitio di sterpaglie poco distante risvegliò la sua attenzione: si alzò in piedi ruotando su se stesso e si diresse verso la fonte del rumore.

Un gruppo di demoni si stava avvicinando, confabulando di piani e strategie.

Deimos espresse la sua sorpresa con un saltello: era uscito in cerca di compagnia, ma non avrebbe mai immaginato di imbattersi in Astaroth e nei suoi quattro assistenti. Era quasi impossibile incontrare il Duca del Terrore al di fuori della sua mansione a causa della sua proverbiale accidia.

Astaroth non trovò particolarmente insolita la presenza di Deimos: il figlio minore di Lucifero rimbalzava da una parte all’altra di Infera come una trottola impazzita, ed era praticamente impossibile non trovarselo in mezzo ai piedi nelle circostante più strane.

«Duca» Deimos si esibì nella sua versione rivisitata dell’inchino cerimoniale.

«Principe» il tono di Astaroth rimase impeccabilmente aristocratico, così come la sua riverenza.

«Nemmeno voi riuscite a riposare?»

Un sopracciglio perfettamente curato si inalberò con fare sospettoso: non riusciva a capire se la domanda del Principe fosse una battuta di pessimo gusto sul suo vizio di passare giornate intere sdraiato sul triclinio oppure no. Il sopracciglio si riabbassò, spianando la fronte lattea. Sarebbe stato improduttivo adirarsi con quel ragazzino: era talmente irrazionale che avrebbe preso la sua rabbia come un incentivo per continuare ad infastidirlo.

«Avevo cose migliori a cui dedicarmi» rispose pigramente.

«Con tutti e quattro i vostri assistenti?»

Il quartetto si agitò alle spalle di Astaroth: due di loro saltarono sulle spalle dei compagni, e da lì si sporsero per complottare qualcosa nelle orecchie degli altri. Bizzarro come il demone dell’accidia e della vanità avesse scelto un gruppo così vivace per affiancarlo.

«Sì, ho bisogno di loro» confermò il Duca.

Deimos si acquattò a terra, vicino alle gambe del nobile, e puntò un braccio nella stessa direzione seguita dagli occhi truccati del diavolo.

«Mirate alla Cattedrale?» gorgheggiò, rialzandosi con una capriola.

Astaroth sfiorò con le unghie laccate il pesante bracciale d’oro a forma di serpente che si avviticchiava lungo tutto il suo avambraccio.

«Devono restituirmi ciò che mi hanno rubato» sentenziò, sillabando le parole con noia.

Deimos annuì emettendo una serie di versi a bocca chiusa, poi si grattò la testa in una manifestazione plateale di perplessità e indagò:

«Ma avete stretto un patto con il Messo Infernale di Elohim.»

«E con ciò?» sibilò Astaroth.

«Non è un pochino contro le regole attaccare la Cattedrale che lui difende?» Deimos si accovacciò a terra per l’ennesima volta, e prese a dondolarsi sui talloni.

La lingua del Duca saettò sulle labbra perlacee: per un attimo, il labbro inferiore acquistò un colorito roseo, che perse l’istante successivo, coperto da un argento bagnato. Deimos non si spaventò per quel fenomeno. La linfa vitale che scorreva nelle vene degli umani era rossa, quella dei demoni era viola e quella degli angeli era argentea; le labbra del Duca del Terrore erano sempre coperte di sangue angelico fresco.

«Il Messo Infernale è preparato a questa evenienza» sentenziò grave Astaroth.

Il Principe si strinse nelle spalle, accordando la sua benedizione a quella missione.

Riusciva a procacciarsi la sua dose di complicazioni giornaliere da solo: non aveva bisogno di invischiarsi in quelle altrui. Suo padre aveva stilato un rigido codice di comportamento per le gerarchie infernali, ed il caposaldo di quel regolamento era l’onore: un demone non avrebbe mai dovuto macchiare il suo nome e quello della sua stirpe rinnegando la parola data o comportandosi in maniera disdicevole. Ovviamente, Deimos era l’eccezione non scritta di quel corollario.

Non capiva cosa avesse in mente Astaroth; aveva stretto un patto con il Messo Infernale di Elohim svariati anni prima, ed ora si apprestava ad attaccare la Cattedrale. Lucifero non avrebbe gradito quell’iniziativa.

Si stropicciò un occhio, combattuto.

Lastar avrebbe avuto un bel daffare per contrastare il Duca del Terrore e i suoi assistenti.

 

***

 

Il visetto tondeggiante era il calco di quello dei putti negli affreschi delle scuole per la prima infanzia, e gli occhi grandi ricordavano quelli di un gattino spaventato. La costituzione esile come il cristallo accentuava l’aria di fragilità del ragazzo, il morbido castano dorato dei capelli e la tinta verde slavata delle iridi ammorbidivano ulteriormente il suo aspetto tenue; la pelle diafana lo faceva assomigliare ad una fanciulla sul punto di svenire.

Quell’illusione di innocenza crollava non appena il giovane apriva bocca.

«Che ti venga un accidente, Lastar! Potresti fare la revisione prima che la ruggine ti mangi le pistole, sai?»

La prima volta, la discrepanza abissale tra l’aspetto e l’atteggiamento dello Scienziato Capo gli aveva quasi causato una sincope. Dietro la facciata di zucchero e miele, si nascondeva una sorgente inesauribile di fiele e acido. La cosa più spaventosa era che Cy riusciva a pronunciare i peggiori improperi con il più innocente dei sorrisi spianato sul volto.

«Mi sono scordato di portarle prima» minimizzò Lastar.

«Un altro paio di giorni e avresti dovuto combattere i demoni in mutande. La prossima volta, appiccicati un promemoria alla fronte con lo sputo» lo criticò serafico Cy, poggiando le armi di Lastar sul bancone da lavoro.

L’Esorcista si mise in attesa all’altro capo della tavola, inquieto. Non gli piacevano i laboratori: troppo bianchi, disinfettati e privi di vita. L’unica cosa che li differenziava dagli obitori erano gli eserciti di strumenti tecnici dall’aria complessa e sofisticata.

Cy trafficò per qualche istante con le sue armi, poi decise di aver bisogno di un attrezzo sullo scaffale più lontano.

«Te lo prendo io» si offrì Lastar.

«Assolutamente no» lo freddò lo Scienziato Capo, candido. «Potresti sfasciarlo, con la tua grazia da viverna.»

L’Esorcista rimase così in attesa che il giovane raccogliesse le sue stampelle, le fissasse poco sopra il gomito e zoppicasse fino al ripiano desiderato. Le dita tamburellarono sull’avambraccio, impazienti, mentre lo Scienziato Capo metteva lo strumento nella borsa a tracolla con la massima cura e faceva ritorno al bancone.

Cy era nato con una malformazione alle gambe, per cui non poteva muovere un singolo passo senza le sue stampelle. Sua sorella, la strega Drew, diceva sempre che il fratello aveva il corpo di vetro e lo spirito di acciaio: a dispetto delle membra gracili, infatti, il cervello di Cy era la più spaventosa fucina di invenzioni di tutti i tempi, dotato di intelletto tagliente e caparbietà indistruttibile.

«Le mie povere creature» lo Scienziato Capo salì su uno sgabello per appoggiare le stampelle al tavolo ed avere così entrambe le mani libere. «Non ti sanguina il cuore, a vederle ridotte in questo stato?»

«Temo che le pistole non suscitino il mio istinto paterno» troncò Lastar.

«Ti ricordo che devi la tua vita a queste perfezioni di scienza» lo rimbeccò docilmente Cy, usando l’attrezzo preso poco prima per saldare alcuni punti.

«Devo la vita alla mia mira. Le pistole sono inutili, se non colpiscono il bersaglio» si difese brusco Lastar.

Da quando l’immagine di panna di quel ragazzino aveva smesso di intenerirlo, l’Esorcista aveva cessato di riservargli troppi riguardi nel comunicare i propri pensieri. Il cuore di Cy era ruvido come la corteccia degli alberi, e altrettanto insensibile: non sarebbe stato ferito da un commento sgarbato.

Lo Scienziato Capo, infatti, si compiacque dalla sagacia con cui l’altro si era difeso anziché offendersi.

«Non posso darti torto» concesse gentilmente, prima di tornare al suo lavoro.

Lastar si schiacciò gli occhiali sul naso, quando la sua mente accostò il bipolarismo di Cy all’inafferrabilità di Deimos. Era inutile provare a classificare il demone: poteva essere estremamente dolce ed incredibilmente irritante, così come il suo aspetto poteva toccare le punte del terrore o gli apici della bellezza.

«Ti sei zittito» Cy usò uno strano monocolo cilindrico, terminante in una lente enorme e panciuta, per analizzare le pistole con maggiore minuzia. «Stai facendo pensieri sconci?»

«No» Lastar negò con troppa energia, secondo lo Scienziato Capo, che insistette, angelico:

«Su chi li stai facendo? Qualcuno della Cattedrale?»

«Non stavo pensando a niente» vociò l’Esorcista. Alexander, Deimos, Cy: perché era circondato solo da persone irritanti?

«Di solito non è il “niente” a zittire le persone» sancì lo scienziato, finendo di rimontare le armi.

«A che punto sono le pistole?» recise Lastar.

Cy rimosse la buffa lente ed esaminò un’ultima volta le sue creazioni sotto le luci artificiali del laboratorio.

«In perfetto stato. Ora» rimarcò lo Scienziato. «Cerca di essere più puntuale per la prossima revisione.»

L’Esorcista annuì rapido, e tentò di ricomporre le pistole nella loro solita forma a croce. Le sue dita si erano appena mosse quando l’allarme mugghiò tra le pareti del laboratorio.

La testa di Lastar e quella di Cy scattarono all’unisono verso la mappa della Cattedrale che copriva il muro ad est: un piccolo cerchio rosso aveva cominciato a pulsare al primo piano, esattamente a tre corridoi di distanza dalla loro posizione.

«Hai l’occasione giusta per usare le tue fantastiche pistole appena sistemate» si congratulò Cy. «Fossi in te, sfrutterei quest’opportunità.»

«E, se io fossi in te, prenderei le stampelle. Non ti lascio qui con un attacco in corso» ordinò Lastar. «Alexander mi staccherebbe la testa, se ti lasciassi indifeso.»

«E poi ci sputerebbe dentro» rinsaldò Cy, scendendo dallo sgabello e assicurandosi le stampelle alle braccia. L’Esorcista attese che il giovane terminasse la preparazione e si avviasse claudicante dietro di lui.

Un drappo di silenzio calò sulla Cattedrale quando la sirena di allarme si spense. Nessun clangore di armi, nessun segno visibile di lotta.

«È un’infiltrazione» bisbigliò Lastar. «I demoni non sono venuti per cacciare.»

«Come fai ad esserne convinto?» investigò Cy dietro di lui.

«Non si addentrano mai all’interno delle Cattedrali per nutrirsi. Aspettano che qualche umano esca dalle mura, oppure lo attirano fuori. E lo fanno di nascosto.»

«Quelli di ieri si sono diretti contro le nostre mura.»

«Erano demoni inferiori. Non hanno le capacità necessarie per sorpassare le nostre barriere difensive.»

«Quindi stiamo parlando di un demone superiore?»

«Di un demone evoluto, perlomeno. In cerca di qualcosa di specifico.»

Le mani di Cy si agitarono sulla presa delle stampelle: i palmi stavano cominciando a sudare.

«Ma, se la memoria non mi inganna, non è mai successo prima d’ora che un demone oltrepassasse i nostri cancelli.»

Le labbra e le sopracciglia di Lastar si contrassero, corrucciandogli il volto.

«Non ad Elohim, forse. Ma è già avvenuto in passato» notificò l’Esorcista.

Cy aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma le sue labbra quasi si spaccarono in un urlo: un paio di occhi magenta comparve dal nulla e lo fissò da una prospettiva rovesciata. Lo Scienziato Capo rischiò di perdere l’equilibrio per lo spavento, e fu costretto ad uno strano gioco di stampelle per reggersi in piedi.

«Trovato!» chiocciò la vocina annessa a quei bulbi inquietanti.

Lo scenario di Cy divenne improvvisamente nero quando Lastar si parò davanti a lui. L’Esorcista aveva riconosciuto istantaneamente la treccia di capelli color prugna, gli occhi sgranati e la vistosa cucitura che tagliava a metà il collo snello della creatura: era Pruslas l’Assassina, la seconda assistente di Astaroth.

«Il nostro Messo Infernale ha stretto un patto con il tuo signore» l’ammonì lui, puntando una pistola alla sua testa. «Astaroth ha giurato di non attaccare mai, per nessun motivo, la Cattedrale.»

«Infatti il nostro signore non è qui» trillò la creatura, appesa al soffitto tramite una corda agganciata alla cintura. Slacciò il moschettone e rimbalzò a terra come se fosse stata senza peso, ergendosi poi nella sua misera altezza: arrivava a malapena a sfiorare il bacino di Lastar.

«Ma ti ha inviata lui» contrattaccò Cy.

«Si tratta di un’iniziativa personale» la piccoletta lanciò la treccia oltre le spalle ossute, e rise: «Il mio signore è tanto triste perché gli è stato sottratto qualcosa che gli è molto caro. E noi abbiamo deciso di fare qualcosa per rasserenarlo.»

«Noi?» la riprese Lastar. Non riuscì a cogliere l’espressione di Pruslas: una delle stampelle dello Scienziato lo colpì al fianco, sbilanciandolo di lato. Stava per imprecare coloritamente contro Cy, quando si accorse che il giovane lo aveva appena salvato: esattamente nel punto in cui si trovava fino a qualche secondo prima, si apriva ora una pozza frastagliata e sfrigolante.

«Quell’acido ti avrebbe sciolto la testa» si rammaricò una voce artificiale dall’alto.

Cy e Lastar non faticarono a ricondurre l’essere metallico calamitato al soffitto ad un nome: Aamon l’Alchimista, il primo assistente di Astaroth.

«Lui non sa che siamo qui» ridacchiò Pruslas. «Per cui, il patto non è stato trasgredito ed è ancora valido.»

«Temo che dovremo discutere con il vostro padrone a riguardo» si risentì Cy. «Dovrebbe fare più attenzione alle “iniziative personali” deleterie per la Cattedrale, se ha intenzione di mantenere l’accordo.»

«E voi non dovreste rubare le sue cose» inveì improvvisamente Pruslas, mandando lampi dagli occhi magenta. «Ladri!»

«Diteci cosa abbiamo rubato e ve lo restituiremo» contrattò duro Lastar, la pistola ancora in assetto di guerra.

Qualche scheggia di pavimento sibilò nell’aria quando l’Alchimista si lasciò cadere a terra: i suoi piedi di metallo creparono le mattonelle di marmo nero, ma la creatura non parve avvertire dolore.

«Me» dichiarò, atono.

Cy e Lastar si scambiarono un’occhiata smarrita.

«Sei sicuro che il tuo costruttore ti abbia oliato per bene i meccanismi?» s’inviperì lo Scienziato.

«Il vero me» inquadrò Aamon.

«E dove si troverebbe, questo “vero te”?» la sua pazienza stava per tracimare, e Lastar parlò a denti digrignati.

Pruslas puntò le sue manine verso Cy.

«Chiedilo a lui. Lui è uno dei ladri.»

«Torna dal tuo signore, e digli di parlare direttamente con me, se ritiene che io gli abbia rubato qualcosa» una stampella roteò nell’aria in direzione della nanerottola, a sottolineare l’irritazione dello Scienziato.

«Non può. L’altro ladro gli impedirebbe di parlarne con te» negò Pruslas.

«L’ha sempre fatto» avvalorò Aamon.

Lastar tirò il cane della pistola, riscuotendo l’attenzione dei due esseri.

«Sparite. Abbiamo tollerato la vostra presenza anche troppo a lungo» li avvertì.

Gli occhi di Pruslas si assottigliarono improvvisamente, riducendosi a due strette fessure di crudeltà.

«Non possiamo tornare a mani vuote…»

Gli eventi precipitarono con una rapidità impressionante: Pruslas allungò una mano per afferrare il pugnale, e Lastar la prevenne di un secondo scarso, sparandole. La creatura lanciò uno strepitio acutissimo, fissando sconvolta il buco sanguinante sul suo palmo, e continuò a schiamazzare quando un secondo proiettile le perforò lo sterno.

Lo Scienziato vide Aamon frugare nel suo tascapane, e lo imitò prontamente: le boccette di Cy e dell’Alchimista si incontrarono a metà strada in un’esplosione di vetri, annullando reciprocamente le proprietà dei liquidi contenuti all’interno.

«Grazie Cy» telegrafò Lastar, rinfoderando le pistole per estrarre la Lama Vampira: non si illudeva di aver sconfitto l’Assassina con due soli proiettili.

La nanerottola batté i pugni nella pozza del suo sangue nero, la rabbia che le distorceva i lineamenti e le scopriva le zanne. L’Esorcista portò la spada tra di loro: la linfa vitale così scura era propria solo dei Costrutti, le creazioni innaturali degli Stregoni. Sarebbe stato complesso uccidere chi non era propriamente vivo.

La Lama compì un arco verso il basso, parando a stento i pugnali di Pruslas. La piccoletta si lanciò contro il suo nemico ad armi sguainate, e non si fece intimidire dalla differenza di stazza o dalla spada notevolmente più affilata dei suoi stiletti. Rapida come una vipera, scartò di lato e conficcò un pugnale poco sopra il ginocchio del suo avversario. Con sua somma disapprovazione, la lama non riuscì a perforare la stoffa dei pantaloni, che si piegò sotto di essa per poi stendersi di nuovo, intonsa.

«Non siamo così sprovveduti» asserì Lastar, costringendola ad indietreggiare con un movimento di spada.

Cy aveva abbandonato una delle sue stampelle per avere libero accesso alla propria tracolla: Aamon sembrava intenzionato a duellare con lui, e ogni Scienziato sapeva quanto fosse impegnativa una competizione di formule chimiche. Doveva riconoscere la pozione dell’avversario dal colore e dalla presunta consistenza, dopodiché scegliere e lanciare la mistura che ne avrebbe annullato ogni effetto malefico: entrambi i processi si svolgevano in pochi secondi, per cui il cervello non poteva permettersi la minima distrazione. Una goccia di sudore rotolò sulla sua tempia: non era facile mantenere la concentrazione, con un Esorcista e l’Assassina che guerreggiavano a pochi metri di distanza. Aamon, al contrario, non sembrava minimamente turbato: gli ingranaggi nel suo cranio non erano stati studiati per farsi sviare da cose futili.

L’Assassina mise all’opera l’agilità che l’aveva resa tanto temuta, nonostante la sua scarsa altezza. Con un balzo si aggrappò al braccio dell’Esorcista e, prima che quest’ultimo avesse tempo di scrollarsela di dosso, saltò sulla sua spalla e gli trapassò una guancia con il pugnale. Quel punto non era protetto dalle stoffe modificate in laboratorio, e Pruslas esultò di viva gioia nel sentire la carne lacerarsi e il sangue rosso sommergerle le mani e il corpetto. Atterrò sul pavimento deliziata, e prese a lappare con gusto il liquido salato che le rivestiva le dita.

Il mondo di Lastar venne avvolto dalla nebbia e la testa da una nuvola di elettricità, prima che il suo ferreo autocontrollo stabilizzasse i nervi sconvolti dalla ferita. La Cattedrale tornò ad essere nitida, così come l’Assassina che correva verso di lui.

Lastar si fletté sulle ginocchia ed impugnò con maggiore forza la spada: non avrebbe avuto più di un battito di ciglia per colpire quella creatura sfuggevole.

La corsa di Pruslas si sbriciolò contro la Lama Vampira: il freddo acciaio la tranciò a metà, e al suolo ricaddero un paio di gambe ancora in movimento e un busto dall’espressione spiritata.

Lastar si premette una mano sul viso, per contenere il torrente di sangue che gli stava inzuppando il colletto e il pettorale della tunica; le braccia dell’Assassina si agitarono nell’aria, infuriate, prima di abbattersi al suolo e trascinare faticosamente il busto troncato verso le gambe ora immobili.

«Aamon!» rumoreggiò. «Aamon

Il Costrutto di metallo si voltò solo alla seconda invocazione, e registrò senza emozioni le condizioni miserevoli della sua compagna.

«Andiamocene!» starnazzò lei, afferrando con una mano la propria caviglia, che scalciò debolmente sentendosi prigioniera.

Aamon abbandonò la battaglia con lo Scienziato, e si chinò a raccogliere le membra scomposte dell’Assassina. Non batté le palpebre di bronzo nemmeno quando la Lama Vampira si appoggiò al suo volto di metallo.

«Ci dovete ancora delle spiegazioni» li minacciò Cy, sopperendo all’impossibilità di Lastar di parlare.

Aamon non proferì parola, mentre Pruslas fissò con odio l’Esorcista, che aveva abbandonato la guancia per reggere la spada con entrambe le mani.

«Ti restituirò il favore, ibrido» e sputò su quella stessa lama che l’aveva tagliata a metà.

Una vetrata della Cattedrale esplose, mettendo fine ad ogni possibile discussione: una freccia, circondata da un’aura fiammeggiante, fendette l’aria e si conficcò nella spalla dell’Esorcista. La Lama Vampira cadde a terra, e Lastar si chinò immediatamente a raccoglierla, nonostante il dardo infisso a pochi centimetri dalla clavicola.

Aamon non inferì sull’Esorcista: si voltò e si gettò oltre la finestra frantumata. Un tonfo altisonante annunciò il suo atterraggio, e una serie di rumori sordi accompagnò la sua fuga dalla Cattedrale.

«Lastar…» si preoccupò Cy, ma l’Esorcista sbottò, le parole aggrovigliate nel sangue che gli riempiva la bocca:

«Troviamo Alexander.»

«Ma sei ferito» protestò lo Scienziato.

«Appunto. Mi serve un medico» Lastar quasi si strozzò per quell’ultima frase, ed una grossa bolla vermiglia gli macchiò le labbra.

«Lo chiamo io. Tu resta fermo» comandò lo Scienziato. L’Esorcista tentò di rialzarsi, ma Cy lo rimise seduto premendogli la stampella sullo stomaco. «Resta fermo, ho detto.»

Dal camice dello Scienziato venne estratta una collana terminante in una pietra ovale e piatta, che il giovane poggiò a terra: il minerale si illuminò ad intermittenza un paio di volte, poi una sottile striscia di luce si srotolò sul pavimento, perdendosi nei corridoi della Cattedrale.

«Lo raggiungerà, così potrà arrivare fino a noi seguendo il bagliore» chiarì lo Scienziato, portandosi con fatica vicino all’Esorcista accasciato. «Hai sconfitto l’Assassina. Sii orgoglioso di te stesso.»

Lastar gli scoccò un’occhiata incendiaria, e Cy ammise, pizzicandosi il mento:

«Forse avrai tempo per sentirti fiero dopo che ti avranno ricucito la guancia e tolto quella freccia dalla spalla.»

L’Esorcista annuì, seccato.

Sperava che Alexander arrivasse presto. Quelle ferite sembravano bruciargli più di qualunque altra lesione avesse mai riportato in battaglia. Ed essendo state inferte dall’Assassina, era certo che non significasse nulla di buono.

 

***

 

L’intervento del Messo Celeste aveva mitigato i suoi patimenti, ma non li aveva annullati.

I punti sulla sua guancia tiravano e bruciavano, e non erano riusciti a fermare l’emorragia: la benda applicata sulla gota era di nuovo fradicia, e si sarebbe dovuto alzare per cambiarla. Nemmeno la freccia era stata rimossa con troppo successo: aveva morso con tutte le sue forze un fazzoletto mentre spezzavano la punta e strappavano l’asticella dalla sua carne viva, e aveva quasi perso i sensi mentre cauterizzavano la ferita con il ferro rovente. Nemmeno quelle misure erano riuscite a risolvere il problema: il bendaggio che gli circondava la spalla era di nuovo inspiegabilmente chiazzato di sangue.

Poggiò un palmo sulla fronte, sentendo la testa girare: la pressione si stava abbassando troppo a causa della continua perdita di fluidi vitali. Cercò di rialzarsi sul letto per cambiare le fasciature, ma la stanza prese a vorticare intorno a lui, immobilizzandolo sul materasso.

Si sentì quasi sollevato quando avvertì un peso poggiarsi sul suo letto.

«Ti sei ricordato di avere un paziente sanguinante, Alexander?» lo rimproverò secco Lastar. Sapeva che il Messo Celeste era molto impegnato: doveva spiegare l’accaduto ai suoi superiori e al popolo, nonché organizzare una riunione il giorno successivo per decidere le contromisure da adottare, e supervisionare i lavori di ricostruzione assieme a Cy. Ma non aveva apprezzato il modo in cui era stato abbandonato sul suo letto, con la promessa volatile di una visita durante la notte.

«Ho saputo del tuo infortunio, mio adorato.»

Il conforto iniziale evaporò completamente.

«Deimos, oggi non ho proprio voglia di sopportare le tue assurdità» lo avvertì, velenoso.

Le coperte si mossero assieme al diavolo, che scivolò più vicino all’Esorcista sdraiato.

«Volevo vedere le tue ferite» un indice saltellò dal polso alla spalla del malato, a ritmo con la cantilena del diavolo.

«Sono già stato curato» comunicò Lastar.

«E ti hanno curato male» disapprovò Deimos. L’unghia nera picchiettò senza pietà la benda sulla guancia e quella sulla spalla, facendo sobbalzare l’Esorcista sul letto.

«Non miglioreranno se continui a stuzzicarle» si arrabbiò Lastar, cercando di strisciare fuori dalla portata dell’invasore.

«Allora permettimi di fare qualcosa per te» s’impuntò Deimos.

L’Esorcista era rimasto a occhi chiusi tutto il tempo, sperando che, se non gli avesse prestato attenzione, il diavolo sarebbe sparito come un brutto sogno al mattino. Aprì le palpebre solo in quel momento e, per un attimo, pensò che l’ombra della stanza stesse creando degli improbabili effetti di luce sul volto del demone, facendolo apparire serio. La sorpresa aumentò quando si rese conto che l’espressione grave del diavolo non era una conseguenza della rifrazione: Deimos era mortalmente preoccupato per lui.

Gli occhi rossi scintillavano a malapena nell’oscurità, stretti come per trattenere le lacrime, e le labbra erano quasi sparite per l’ansia. Una mano era stretta a pugno sulle coperte e l’altra sollevata verso il suo viso, bloccata a metà dell’azione, in attesa del permesso per procedere. Quell’ultimo dettaglio lasciò Lastar trasecolato: Deimos gli era sempre saltato addosso, lo aveva abbracciato e baciato anche quando lui gli aveva detto chiaramente di non volerlo intorno. Quell’esitazione lo colpì più a fondo delle iridi offuscate e della bocca sorprendentemente muta.

«Cosa vuoi fare?» domandò, cercando con una mano gli occhiali sul comodino. Il palmo del demone si poggiò sul suo polso, bloccandolo.

«Fammi dare un’occhiata alle tue ferite» patteggiò Deimos, insolitamente composto.

Le dita del Principe mostrarono una premura non confacente al suo atteggiamento pazzoide mentre rimuovevano la benda dalla sua guancia. Le ciglia arcuate si incontrarono qualche volta, mostrando riprovazione per la cucitura sul volto dell’Esorcista.

Lastar irrigidì la mascella quando i polpastrelli vellutati del demone lambirono i punti scuri, saggiando la ferita ancora sanguinante.

«Brucia» si sfogò a bassa voce.

«Lo so. Conosco questa lesione. E non è stata medicata a dovere» l’Esorcista sentì le ultime parole carezzargli la guancia, poco prima che le labbra del demone si poggiassero sulla cucitura. Una litania soffocata scivolò all’interno della ferita, e, quando il diavolo rialzò il volto, il sangue aveva cessato di scorrere. Deimos si mise a cavalcioni su di lui, strappandogli un gemito quando il ginocchio andò a sfregare contro il livido sul suo fianco, dovuto alla stampella di Cy; da quella posizione, il diavolo poté tenerlo fermo a sufficienza per tagliare i punti con le unghie affilate e rimuoverli dalla ferita già cicatrizzata.

Lastar passò una mano sul viso, e il tatto gli restituì una sensazione di integrità.

«Magia» asserì, inchiodando con lo sguardo il demone posizionato sulle sue anche.

«Che altro, mio caro?» gorgogliò Deimos. Si passò un dito sulle labbra sporche di sangue con lascivia: voleva vedere quella graziosa ruga che si formava sulla fronte del guerriero quando tentava di sedurlo.

«Immagino di doverti dei ringraziamenti» patteggiò veloce Lastar, ma Deimos scosse il capo in cenno di diniego.

«Non ringraziarmi adesso. Devo ancora curare la tua spalla.»

Il diavolo si prese tutto il tempo necessario per squadrare l’addome dell’Esorcista, prima di arrivare alla ferita. Alexander non lo aveva rivestito completamente, dopo averlo visitato: il taglio ancora sanguinante avrebbe sporcato gli abiti, per cui gli aveva appoggiato sulle spalle solo una vestaglia da ospedale, poi era scappato, rincorso dai propri impegni. Deimos si godette ogni centimetro di pelle esposta, felice di poter vedere la muscolatura del guerriero senza l’intralcio della sua divisa.

«Credevo che dovessi curarmi la spalla» lo riprese Lastar.

«Non essere così frettoloso. Ti perderai molti piaceri della vita» lo zittì Deimos, senza distogliere lo sguardo dai suoi addominali.

«La ferita è più in alto» lo riscosse di nuovo il paziente.

«Oh, hai ragione» gli occhi del demone salirono per appuntarsi sui suoi pettorali, parzialmente nascosti dal bendaggio.

«Deimos.»

«Quanto sei borioso» sbuffò il Principe, portando finalmente la sua attenzione nel posto giusto. Scostò la fasciatura per controllare i danni, e non gradì lo spettacolo che gli si aprì dinanzi: quei barbari avevano cauterizzato l’escoriazione, e ora la spalla del suo adorato sarebbe stata per sempre sciupata da quella cicatrice irregolare. Oltre che dannoso, quel processo era stato anche infruttuoso: la lesione si era aperta di nuovo, stillando pigramente gocce di sangue.

«Non muoverti» lo ammonì Deimos. Sistemò le ciocche più lunghe dei capelli ondulati dietro le orecchie, e si chinò per adagiare le labbra sul buco aperto dalla freccia. Di nuovo, alcune parole dal sapore antico e proibito piovvero dentro lo squarcio nella sua carne che, obbedendo ad un ordine ancestrale, cominciò a rimarginarsi.

Lastar strinse i denti mentre i muscoli si collegavano di nuovo tra di loro e la pelle si ricomponeva, chiudendo la fenditura nel suo corpo. Le sue membra brulicarono di una strana vivacità elettrica durante quel processo di cicatrizzazione accelerata, e la sensazione coprì tutte le gradazioni del fastidio e del dolore.

Quella volta, però, il respiro del demone non si allontanò quando la ferita ebbe terminato di rimarginarsi: continuò a scivolare sulla sua pelle, caldo e sensuale come la bocca da cui fuoriusciva.

«Grazie, Deimos» tentò l’Esorcista, per far allontanare il diavolo da sé.

Come ogni volta, il Principe non diede peso alle sue parole: il bacino del demone si schiacciò contro il suo, le braccia si allungarono per circondargli le spalle, e l’Esorcista si trovò a respirare il profumo inebriante della chioma scomposta del diavolo.

Non era la prima volta che Deimos lo abbracciava, ma non lo aveva mai fatto in silenzio: la sua bocca era alimentata da una miscela infinita di sciocchezze, che sgorgavano senza lasciar spazio a discorsi logici.

Le mani dell’Esorcista si poggiarono sulla schiena del demone, e lì sostarono per qualche istante, preda dell’indecisione, prima di scivolare sui suoi fianchi per stringerlo a sé.

Quello era uno dei preziosi momenti in cui Deimos non recitava, non indossava maschere, non esagerava. E di fronte alla vera essenza del demone, Lastar non riusciva ad essere scorbutico.

Deimos trovò il modo di recuperare la sua farsa e distruggere quel momento in una sola frase:

«Mi stai abbracciando e sono sul tuo letto. Nella mia fantasia, la scena era un po’ meno deprimente e un po’ più movimentata, sai?»

Il Principe fece per alzarsi, ma una presa salda lo serrò contro il petto bendato dell’Esorcista. Deimos batté le palpebre, confuso, la testa adagiata sulla spalla appena sanata e il corpo bloccato contro quello del compagno.

«Non mi spingi via, oggi?» cigolò, disorientato.

«Mi hai aiutato di nuovo» constatò Lastar, senza allentare la presa. «Questo ti creerà dei problemi, vero?»

Il demone alzò le spalle, per quanto lo stretto abbraccio gli permettesse.

«Non troppi. Non troppo gravi» mugugnò.

Il viso dell’Esorcista si sollevò dalla sua chioma indomabile per fissarlo in volto. Il Principe non si preoccupò di trattenere la sua soddisfazione: adorava gli occhi di Lastar, e detestava quelle brutte lenti che sciupavano la loro bellezza.

«Non dovresti farlo. E non dovresti nemmeno intrufolarti nella Cattedrale» lo sgridò sottovoce l’altro.

Deimos si stiracchiò su di lui con un gatto, arrivando quasi ad incollare le sue labbra a quelle dell’Esorcista. Si fermò poco prima, e lo morse sul mento con una risata.

«Non farò né l’uno nell’altro, mio adorato, finché tu sarai in difficoltà» gorgheggiò, rotolando fuori dal letto con una ruota.

L’Esorcista non gli permise di sparire a suo piacere come la volta precedente: lo afferrò per un braccio e lo strattonò su di sé. Il diavolo si rovesciò sulle sue gambe di schiena, inchiodato in quella posizione scomoda dalla forza delle iridi scarlatte.

«Con tutto il dovuto rispetto, i tuoi familiari non sono le persone più accomodanti di questo mondo» obiettò Lastar, stringendo le dita sul polso fine del demone. «E non credo che le loro punizioni siano leggere.»

Il turbamento intorbidò le iridi del diavolo, spingendole a deviare verso un angolo indefinito della stanza, poi sul soffitto e sulla finestra prima di appuntarsi di nuovo sull’Esorcista. La mano del Principe salì a sfiorare i lineamenti forti del compagno, e la sua voce fluttuò incantatrice a stregare il suo udito.

«Se sei così preoccupato, perché non diventi il mio amante ufficiale?»

La proposta di Deimos fu come un tizzone infuocato: Lastar si ritrasse bruscamente, e le dita del demone si ritrovarono ad accarezzare l’aria.

«Non dovresti scherzare su queste cose» esacerbò l’Esorcista, lasciando andare il suo polso.

«Non sto scherzando» Deimos non si mosse da quella posizione, reclinato sulle cosce del compagno, i capelli sparsi in onde scure sul lenzuolo. «Potrei curarti senza troppi problemi: ogni demone vuole che il suo amante sia in perfetta forma.»

«Assolutamente no!»

Si pentì amaramente dell’eccessiva fermezza del suo tono: l’ombra della delusione rivestì il demone, che si rialzò repentinamente dalle sue gambe. Forse si era innamorato di Lastar e di Lazard perché, in fondo, si somigliavano: entrambi bollavano come disgustosa la sua promiscuità, e storcevano il naso di fronte alle sue offerte. Evidentemente, il suo amore era indissolubilmente legato allo spregio altrui.

Di nuovo, l’Esorcista lo fermò afferrandogli il braccio. Deimos stava per scrollarsi di dosso quella mano con la stessa insensibilità con cui aveva ripulito il sangue dei demoni inferiori dai suoi artigli, ma Lastar pronunciò l’unica frase in grado di placarlo:

«Non voglio diventare il tuo amante solo per essere curato.»

Il Principe rimase così immobile da sembrare pietrificato; non si udiva nemmeno il suo respiro. Poi, altrettanto improvvisamente, il demone compì un balzo che lo portò ad atterrare sullo stomaco dell’Esorcista.

Tutto il fiato che Lastar aveva in corpo detonò nella sua bocca, spalancandogli le labbra in uno sbuffo convulso. Il demone gli afferrò le guance in preda ad un’irrefrenabile euforia ed esclamò:

«Quindi le cose cambierebbero se te lo chiedessi perché sono innamorato di te!»

«Deimos, non…»

«Sono felice!» esultò, lanciandogli le braccia al collo.

Le mani dell’Esorcista ricaddero sul lenzuolo, senza più forza di ribellione: era notte inoltrata, era ferito e stanco, e non aveva più voglia di discutere con Deimos.

Un sorriso demoniaco si stampò sulla sua gola, vicino alla giugulare.

«Sono davvero felice…» il mormorio ebbe termine sulla bocca dell’Esorcista.

Il Principe lo aveva baciato in svariate occasioni, ma erano stati sfioramenti occasionali a fior di labbra. Quella volta, la bocca del demone sostò sulla sua molto più a lungo, abbastanza da avere il tempo di muoversi leziosamente sulla compagna. Il diavolo accentuò la licenziosa invasione delle labbra del compagno, sollecitato dalle mani dell’Esorcista: i palmi si posarono sulla curva delicata della sua schiena, le dita si aprirono a ventaglio per coprire quanto più spazio possibile, avvicinando il Principe al petto scoperto del mezzo demone.

Deimos si staccò prima di approfondire ulteriormente il bacio, e saltò dal materasso al pavimento con uno svolazzo.

«La prossima volta tornerò con una proposta migliore» proclamò, vittorioso, per poi battere le mani e svanire in uno sbuffo di fumo.

La camera parve vuota e senza vita, una volta che lo scoppiettante diavolo si fu dissolto. Lastar permise alla sua schiena di cedere, e ricadde pesantemente sul cuscino.

Era stata una giornata lunghissima e faticosa, ed era tempo di riposare.

Il calore del demone aleggiò sulle sue labbra finché il sonno non lo rapì.

 

***

 

Astaroth non gradiva le visite, nemmeno se provenivano dalla famiglia reale, per cui non si sforzò di alzarsi dal suo triclinio quando Deimos irruppe nel suo salotto.

«Cosa vi conduce qui, Principe?» domandò annoiato, portando la lunga pipa dorata alla bocca.

Deimos volteggiò fino al bracciolo del divanetto, su cui prese posto con spavalderia.

«La vostra Assassina, oggi, ha ferito un Esorcista» miagolò il più giovane. «L’incanto che avete posto sulla lama del suo pugnale impediva alle ferite di rimarginarsi. Ha rischiato di morire dissanguato.»

«Stava attaccando la Cattedrale. È normale che abbia aggredito un Esorcista» una serie di cerchi concentrici riempì il vuoto tra la prima e la seconda affermazione del Duca. «Quasi scontato.»

Le labbra di Deimos si stesero in tutta la loro lunghezza, ma non brillò dolcezza su quel sorriso: era gelido e tagliente come un gladio di ghiaccio.

«Non voglio che venga colpito l’Esorcista mezzo demone. Lui è mio» chiarì, senza smettere il ghigno intimidatorio.

La minaccia insita nelle sue parole non colpì troppo a fondo Astaroth: chiuse di nuovo le labbra argentate sulla pipa, con la lentezza che era propria del suo ruolo, inspirò senza fretta e schiuse la bocca nella misura sufficiente a far uscire un filo di fumo striminzito. Aspettò che tutto il vapore fosse uscito da quell’infinitesimale pertugio, poi snocciolò, pigro:

«Non ho visto il vostro marchio su di lui.»

«Non lo porta ancora.»

Il Duca ruotò il collo verso il figlio di Lucifero, flemmatico, e lo fissò con gli occhi vacui.

«Vostro fratello approva che difendiate un ibrido che non è legato a voi dal sigillo?»

«Mio fratello ne è a conoscenza.»

«Ma questa non è una risposta alla mia domanda» un'altra lenta boccata, ed una seconda lunghissima esalazione di fumo. «Quindi intuisco che il Principe Razionale non acconsenta.»

«Concentratevi sulla mia richiesta, per favore» s’inasprì Deimos. Tra tutti i demoni, Astaroth era quello che più di tutti riusciva ad innervosirlo: era talmente indolente e vanesio da non avvertire il richiamo della carne, per cui le forme seducenti del Principe erano inutili al fine di accaparrarsi la sua attenzione o il suo favore.

«Non devo toccare il vostro favorito? Come preferite» acconsentì svogliato.

Deimos scivolò ai piedi del triclinio e fece per uscire, quando Astaroth appurò:

«Spero che non vi unirete con quell’ibrido.»

Il Principe rispose con tutta la scortesia e l’esasperazione possibili:

«Perché sarebbe indegno per la casa reale?»

Il Duca reclinò il capo, ed i lunghi capelli acquamarina scivolarono sul bracciolo del triclinio.

«No. Perché, se volete proteggerlo quando ancora non è marchiato, evidentemente è importante per voi. E sarebbe un vero peccato se vi vedesse come tutti quelli che vi hanno fatto compagnia durante la notte.»

Intercorse un'altra fiacca boccata di fumo prima che Astaroth completasse:

«Come un giocattolo. Splendido, ammaliante… ma pur sempre un giocattolo. O un’ossessione» arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito affusolato, meditabondo. «Una persona che per voi è sopra tutti gli altri comincia a vedervi come tutti gli altri… Deve essere una sensazione orribile.»

«Non sono un giocattolo» ringhiò Deimos.

«Ovviamente no. Vi auguro una piacevole nottata, Principe» lo congedò il Duca, sigillando le labbra sull’imboccatura della pipa.

Deimos uscì nella notte, bollente di rabbia.

Lastar non ere come gli altri. Per lui non sarebbe mai stato un giocattolo o un’ossessione. Per lui era…

Il Principe si bloccò di colpo, paralizzato.

Cosa era lui, per Lastar?

Una vecchia conoscenza? Un fastidio continuo?

Si afferrò i capelli con le mani e li agitò con furia, prima di riprendere a correre.

Non avrebbe lasciato che le parole di un demone mezzo addormentato macchiassero il suo rapporto con Lastar. Ma, mentre cercava di convincersene, sentì il serpente del dubbio scivolare nel suo esofago e arrotolarsi sul suo stomaco.

Aspettava solo il momento giusto per morderlo al cuore.

 

 

 

 

 

Terzo capitolo.

Devo ammettere che non avevo previsto l’irruzione di tanti nuovi personaggi xD Ma è stato molto divertente descriverli<3 Astaroth, poi, si è preso da solo il suo spazio… doveva comparire solo molto più avanti. Non è indolente come sembra, quel demone XD

Anyway, fine dello sclero a caso dovuto al pomeriggio di studio di trattativa commerciale *brividi*

Al prossimo capitolo<3

Red

P.S. Per i dati tecnici, consultate il Commentario.

Licenza Creative Commons

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il Messo Infernale e la Stella dell'Est ***


Capitolo Quattro

Il Messo Infernale e laStella dell’Est

 

Gli occhi di Lastar non avevano bisogno delle lenti graduate: non avevano mai sofferto per gli sfocamenti della miopia, o per i bordi sovrapposti dell’astigmatismo. Il medico aveva dichiarato che la sua vista era pressoché perfetta: poteva risentire di abbassamenti temporanei in seguito ad eccessivo stress, ma nulla di permanente che richiedesse l’intervento degli occhiali. Eppure, Lastar li indossava da quando aveva cinque anni. Gli occhi non ne avevano bisogno, ma la sua anima necessitava di quello scudo trasparente.

Non possedeva ricordi troppo vividi della sua infanzia. I suoi primi anni di vita erano un impasto indistinto di sensazioni spiacevoli e giornate uggiose. Si stupiva della gente che parlava con gioia della propria puerizia: lui aveva trascorso quel periodo isolato tra le mura di una Abbazia, molto più piccola della Cattedrale di Elohim e dalle difese assai più scarse. Era il luogo in cui era nata sua madre, da cui era stata rapita e cui aveva fatto ritorno con il ventre gonfio.

Faticava ad assemblare nella sua memoria il viso della donna che lo aveva messo al mondo, ma ricordava perfettamente la sua schiena; aveva passato anni fissando le spalle che la madre gli rivolgeva con un’ostinazione venata di disgusto. Ricordava la curva delle scapole sotto la maglia, la forma stretta delle spalle, sempre lievemente inarcate, e la linea della spina dorsale, inalberata con boria. Aveva contato uno per uno tutti i riflessi nei capelli rossi della madre, dal ramato più sbiadito al cremisi più acceso, e aveva provato un pizzico di gioia nel ritrovare quelle stesse gradazioni sulla sua chioma scomposta, che nessun genitore aveva avuto la premura di pettinare.

La madre aveva fatto in modo che nemmeno la sua voce rimanesse impressa nei ricordi del figlio: conversare con lui le costava uno sforzo enorme, quasi dovesse sradicare le parole dal punto più profondo della propria gola e spingerle fuori dalle labbra a viva forza. Comunicava per lo più rispondendo a mugugni e vaghi cenni della mano ai tentativi di conversazione del suo bambino. Lastar aveva imparato a esprimersi ascoltando i suoi coetanei, ma la sua prima parola gli aveva fatto guadagnare solo un aggrottamento delle sopracciglia fulve della madre: le sue ciarle sarebbero state un altro fastidio da sopportare.

Aveva estrapolato la verità sulla sua nascita ascoltando i pettegolezzi degli adulti e le maldicenze dei ragazzi più grandi. Sua madre aveva chiesto più volte di abortire, ma la gravidanza era a uno stadio troppo avanzato, e avrebbe rischiato di morire di dissanguamento durante l’operazione. Circolavano voci più o meno fantasiose sulle maledizioni che la donna aveva lanciato mentre lo partoriva; la più accreditata era “uccidete questo figlio di Satana”.

La verità gli era piombata addosso come una pioggia di pietre, ed era stato quasi seppellito dal peso di quei macigni. Sua madre non aveva mai risposto alle domande su suo padre perché non voleva ricordare l’uomo che l’aveva torturata durante la prigionia. E non voleva guardare suo figlio in viso per lo stesso motivo: con il passare degli anni, i suoi lineamenti tondeggianti si erodevano sempre più nel calco di quelli del padre, e i suoi occhi sanguigni, oggetto delle chiacchiere di tutta l’Abbazia, urlavano la loro origine diabolica.

Aveva compreso anche la ragione per cui, al contrario di tutti i suoi compagni, lui non aveva un nome: la gente aveva coniato in suo onore un variopinto ventaglio di epiteti, bisbigliati con malizia alle sue spalle; i bambini lo chiamavano “occhi rossi”, e sua madre non lo chiamava affatto. Credeva che lei avesse semplicemente bisogno di più tempo rispetto alle altre per scegliere un nome adatto al proprio figlio.

L’acido di quelle scoperte si era coagulato nelle sue viscere, e lui lo aveva spurgato dando di stomaco per i tre giorni successivi. Aveva sfiorato la disidratazione: era talmente nauseato dalla sua nascita e dal suo sangue sudicio che quella sensazione ripugnante gli risaliva l’esofago ed esondava dalle sue labbra continuamente; i nervi a pezzi gli avevano pompato le lacrime fuori dalle palpebre mentre si nutriva a forza da solo. Aveva tagliato il groviglio di capelli annodati passandosi una lama di rasoio sulla testa, sperando così di diminuire la somiglianza con l’uomo che aveva fatto soffrire sua madre, e, con le stesse intenzioni, aveva nascosto le iridi vermiglie dietro gli occhiali.

Gli anni avevano sbiadito le sue speranze e alimentato la convinzione di non essere al suo posto nell’Abbazia. Ed era giunta quella sera.

«Me ne vado» annunciò alla schiena della madre. Le spalle di lei si contrassero, ma non una parola volò nell’aria. «Non sarò più un peso per nessuno. E tu potrai smetterla di nasconderti per la vergogna di avere un figlio mezzosangue.»

L’aria si condensò in ghiaccio a quell’accusa, e nessuno dei due trovò parole abbastanza calde da sciogliere quel gelo.

Lastar aveva afferrato la coperta in cui aveva raccolto i propri averi e se l’era caricata in spalla. Sua madre gli parlò per la prima volta in due mesi, senza però guardarlo:

«Mi dispiace.»

Il ragazzo non mosse nemmeno un muscolo. Se quella scusa fosse arrivata anni prima, quando era ancora un bambino speranzoso, probabilmente si sarebbe messo a piangere dalla gioia, e si sarebbe gettato ad abbracciare quelle spalle refrattarie. Ma il bambino aveva abdicato in favore dell’adolescente cinico.

«Ti sei accorta che porto gli occhiali?»

«Li hai messi oggi?» raspò la madre.

«Li porto da quando avevo cinque anni. Da otto anni» specificò; non nutriva l’illusione che sua madre si ricordasse addirittura la sua età. «E tu non li hai mai notati. Non hai notato nemmeno che mi rasavo sempre la testa per non farti vedere i tuoi capelli sul viso dell’uomo che odi. Mi sono sempre curato da solo i tagli che mi facevo quando ancora non sapevo usare il rasoio. E scommetto che non sai se i miei capelli siano ricresciuti o no» un silenzio colpevole si dipanò nella distanza incolmabile tra di loro, e Lastar terminò, adamantino: «Per cui non dire che ti dispiace. Sii sincera, e dì che sei felice che finalmente “il figlio di Satana” sparisca dalla tua vita.»

«Mi dispiace…»

«Non è vero. Se davvero ti fosse dispiaciuto, ti saresti voltata per salutarmi. Ti saresti voltata per guardarmi, almeno una volta in tredici anni. Se non puoi darmi affetto, almeno sii onesta con me.»

Abbandonò sua madre nel modo in cui lei lo aveva sempre trattato: in silenzio, senza guardarla, voltandole le spalle, mentre lei farfugliava qualcosa che non avrebbe ottenuto risposta.

Le guardie della Abbazia non lo avevano fermato quando aveva varcato i cancelli: perfino loro si erano sentite sollevate al pensiero di essere liberate dalla maledizione di quegli occhiacci rossi. Avevano lasciato che si addentrasse nel bosco che sommergeva la fortezza, sperando che il demone o l’angelo che si sarebbe cibato di lui non lo facesse soffrire troppo nell’ucciderlo.

Lastar aveva cominciato a camminare senza una meta e senza uno scopo: la sua testa era occupata da una confusione letale, così densa da non permettergli di capire se desiderasse vivere o morire. Aveva vagabondato finché non era stato davvero raccolto da un demone. Il più irrazionale di tutti.

Lastar si svegliò di soprassalto con il viso di Deimos marchiato a fuoco nelle pupille.

Si passò una mano sugli occhi, e allungò l’altra verso il comodino per recuperare le lenti da vista. In tanti anni, non era mai riuscito a buttarle. Osservò il suo riflesso bombato sugli occhiali prima di inforcarli. Le spine acri dell’affetto che aveva continuato a provare per la madre, nonostante tutto, gli impedivano di rinunciare alla sua barriera di vetro: se, quella notte, avesse davvero abbandonato ogni speranza all’Abbazia assieme alla genitrice, non si sarebbe fermato dopo qualche metro per piangere contro un albero. Aveva cercato di uccidere ogni germe di illusione dentro di lui, ma qualche bacillo era rimasto: fino all’ultimo, aveva sperato che la madre si voltasse finalmente verso di lui e gli chiedesse di restare.

Non nutriva più quei desideri puerili da tempo: gli occhiali erano diventati un espediente per non costringere gli altri a fissare troppo direttamente le sue iridi spaventose. E un modo per ricordare a se stesso che quei giorni, per quanto orribili, facevano parte del suo passato: non li avrebbe rinnegati come sua madre aveva fatto con lui per tredici anni.

Lo specchio lo colpì a tradimento con un’immagine perfettamente sana del suo viso e del suo corpo, ad eccezione della stella di pelle cauterizzata sulla spalla. Alla luce del giorno, l’opera di Deimos appariva ancora più prodigiosa: la guancia era perfettamente intonsa, come se nulla l’avesse mai scalfita. Nessuna medicina umana avrebbe potuto replicare un simile effetto.

Non rimase troppo tempo a rimirare la cicatrizzazione miracolosa: si affrettò anzi a recuperare la medicazione che Deimos gli aveva strappato la sera prima, e la applicò nuovamente sul viso. Non voleva fornire spiegazioni riguardo alla sua straordinaria guarigione.

Si drappeggiò addosso la tunica del suo Ordine, e sistemò velocemente tutti i lacci e i bottoni. Alexander aveva indetto una riunione generale per quella mattina. Non poteva tardare in alcun modo.

Uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé i ricordi gravosi del passato e le memorie conturbanti della sera precedente.

 

***

 

Il cuore si schiacciava su se stesso, come sottoposto a una pressione troppo forte, nel petto di coloro che percorrevano il pavimento marmoreo della Navata.

Con i vari piani di file, troni e seggi, scolpiti in legno indeformabile e scrupolosamente distanziati tra di loro, la gigantesca sala trasmetteva un’idea di perfetto ordine mummificato nel tempo: ogni nicchia era ben separata dalle altre, a rimarcare le differenze incolmabili di ruolo e rango tra i diversi occupanti; la sua struttura robusta e severa emanava un’aura di fissità quasi soffocante.

Lastar prese posto nel suo compartimento – quarta fila a partire dall’alto, primo posto a destra – e si servì un’occhiata del panorama.

La megalomania dell’artista che aveva affrescato la Cattedrale sarebbe rimasta impressa nei secoli grazie al dipinto che rivestiva l’intera Navata, ad esclusione delle colonne e delle pareti interne delle nicchie: la storia del mondo veniva ripercorsa nelle sue date più salienti, dall’avvento dei Grandi Saggi e dei Grandi Stregoni fino alla loro degenerazione in angeli e demoni. Avrebbe portato i mocciosi alla Navata, per la lezione successiva: sarebbero rimasti tutto il tempo con il naso per aria e la bocca aperta, e lui avrebbe potuto evitare di tenere una di quelle urticanti lezioni di storia elementare.

Perfino la disposizione delle luci era stata ideata in modo da rimarcare l’inflessibile gerarchia secondo cui la Cattedrale era organizzata: le ombre erano ricacciate negli anfratti della Navata dalle polverose lampade a olio, sorrette da pomposi lampadari; candele più modeste rischiaravano le nicchie degli strati più bassi.

Lastar osservò i suoi colleghi di piano: Cy stava zoppicando lentamente verso il seggio di Capo Scienziato, mentre le altre tre Stelle Cardinali sedevano perfettamente composte contro gli scomodi schienali di legno massiccio, indirizzando sguardi di granito alle file superiori, dove stavano prendendo posto i Messi, il Cardinale, il Diacono e infine, al primo livello, il Monsignore.

I suoi occhi purpurei scrutarono le file sotto di lui, in cui le tenebre andavano infittendosi man mano che si procedeva verso il basso: gli ultimi livelli parevano un mare di pece in cui erano affondate per sbaglio alcune perle di luce morente.

Esattamente sotto i suoi piedi, Esorcisti e Scienziati affollavano il quinto piano; coloro che ricoprivano i ranghi più elevati sedevano su seggi rialzati, che perdevano altezza ed eleganza fino a diventare normali panche per gli Scienziati e gli Esorcisti comuni. Più sotto ancora si trovavano i Maghi: la rampa degli Stregoni era simmetrica a quella degli Scienziati, come quella dei Saggi lo era alla fila degli Esorcisti. All’ultimo livello, inginocchiati sulle gradinate imbottite, stavano gli Ordini Supplicanti, visibili dall’alto come una fila puntiforme di cappucci grezzi e umili veli ingrigiti dall’oscurità. I Mestieri e il popolo non erano autorizzati a presenziare alle riunioni di quel tipo.

A ogni classe era stato assegnato un colore, per rimarcare ulteriormente l’appartenenza a una determinata casta e l’obbligo di accettare tutti i privilegi e le proibizioni che il proprio ruolo prevedeva. Gli Ordini Supplicanti erano spartiti tra i sai marroni dei Fratelli e le tonache bianche delle Sorelle; il verde distingueva gli Stregoni dai Saggi vestiti di blu, i camici grigi disgiungevano gli Scienziati dalle divise nere degli Esorcisti. Ai piani più elevati spiccavano il viola e l’argento del Messo Divino, contrapposti all’arancione striato di bronzo del Messo Infernale; l’opulenza aumentava nello zafferano venato di rame del Cardinale e del Diacono, per raggiungere il proprio apice nel rosso e oro che caratterizzavano le vesti del Monsignore.

Alcuni dettagli permettevano di discernere il grado rivestito all’interno del proprio Ordine: Cy, in quanto Scienziato Capo, indossava una magnifica spilla le cui spire di platino si annodavano attorno ad un piccolo diamante, ben diversa dai metalli semi preziosi e mal lavorati degli accessori dei suoi sottoposti; allo stesso modo, i bottoni che chiudevano le divise di Lastar e delle altre Stelle Cardinali erano piccoli capolavori di oreficeria, mente i loro subordinati dovevano accontentarsi di rifiniture assai meno pregiate. Inoltre, ognuna delle Stelle era distinguibile tra i suoi pari grazie al colore dei citati bottoni e di qualunque orpello presente nel proprio vestiario: gli ornamenti spartani di Lastar rispecchiavano il rosso pallido del sole che sorge a Est.

L’attenzione maniacale per i dettagli e le suddivisioni era spiegata nei Codici come la precauzione necessaria a identificare immediatamente il proprio interlocutore, per sapere a chi rivolgersi durante un’eventuale situazione di emergenza. Più di una volta, Lastar aveva ritenuto misera quella giustificazione così vaga.

Il Monsignore sollevò il proprio stemma – un leone d’oro che stringeva tra le fauci un rubino acuminato - e batté sul parapetto per tre volte con la pietra.

Sulla Navata calò il silenzio, e la riunione cominciò.

L’architetto che aveva progettato la Navata aveva riservato una cura particolare all’acustica: la voce del Monsignore riecheggiava con la stessa nitidezza in tutti i livelli, rendendogli possibile parlare senza sforzarsi eccessivamente.

Lastar rischiò di addormentarsi mentre i piani superiori discutevano con gli Ordini Supplicanti di questioni soporifere inerenti al clero. Alexander gli lanciò uno sguardo di rimprovero dall’alto della sua postazione di Messo Celeste, che la Stella ignorò con enorme impertinenza: era per colpa della sua negligenza nel trattare i pazienti se si era affidato alle cure di un demone.

«Ordine degli Esorcisti, Grado Stella Cardinale dell’Est, Lastar Godgrace.»

La sua qualifica si allungò sfarzosa sulle labbra del Monsignore. Lastar chinò la testa prima di alzarsi in piedi.

«Ordine degli Scienziati, Grado Scienziato Capo, Cy» annunciò cerimoniale il Monsignore.

Un rapido bisbiglio sfrecciò sulle bocche dei meno abituati a quella sala, e si spense l’istante successivo. L’assenza del cognome dello Scienziato Capo destava sempre meraviglia: si riferiva che i suoi genitori detestassero a tal punto lui e la sorella da non aver voluto lasciare loro nemmeno il cognome, per troncare ogni legame con quei fagotti indesiderati; quella leggenda da sobborghi giustificava la mancanza di nome familiare dello Scienziato Capo e del Messo Infernale, Drew. Lastar aveva evitato lo stesso destino grazie ad Alexander, che aveva inventato un cognome apposta per lui tanti anni prima.

«Vogliate spiegarci le modalità dell’intrusione verificatasi nella giornata di ieri» lo pregò imperativo il Monsignore.

«Siamo stati aggrediti da Aamon l’Alchimista e Pruslas l’Assassina, rispettivamente Primo e Secondo Assistente di Astaroth, demone superiore di estrazione nobiliare» scandì Cy, solenne nonostante le gambe malferme e le nocche sbiancate sull’impugnatura delle stampelle.

«Avete riportato alcun tipo di danno?» s’informò atono il Monsignore.

«La Stella Cardinale dell’Est è stata ferita alla guancia dal pugnale dell’Assassina, e alla spalla dalla freccia che ha infranto la vetrata nel corridoio ovest del primo piano» riferì lo Scienziato Capo.

Lastar sostenne impavido lo sguardo rapace con cui il Cardinale frustò il bendaggio sul suo volto.

«Siete stato aggredito da demoni temibili, Stella dell’Est. Lodo la vostra mirabile capacità di ripresa» si complimentò l’uomo, con il tono pruriginoso delle insinuazioni. Il Cardinale non aveva mai nutrito particolari simpatie per lui. Le sue parole, specie quelle non pronunciate, trasudavano pensieri malevoli: un essere con il sangue sporco come quell’ibrido non avrebbe mai dovuto avere il diritto di vivere insieme agli esseri umani, tantomeno di sedere su uno degli scranni più alti della Navata. Se il mezzosangue fosse stato ucciso mentre difendeva la Cattedrale, il Cardinale non avrebbe sprecato nemmeno una stilla di rammarico per compiangerlo.

«Vi ringrazio» si schermì Lastar. «Ma è merito del pronto intervento del Messo Divino, Alexander Holycross, se ho potuto riprendermi così in fretta.»

Il Cardinale sembrò rinfrancato dal poter rivolgere i suoi elogi altrove, e il Diacono proseguì nell’inchiesta:

«Come hanno potuto valicare le protezioni della Cattedrale?»

«Riteniamo che Astaroth li abbia aiutati» ammise Cy.

Le fronti dei tre piani più alti si corrugarono per il risentimento.

«Ma Astaroth, Duca del Terrore, ha stretto un patto con il nostro Messo Infernale» replicò il Diacono.

«Ordine dei Messi, Grado Messo Infernale, Drew» citò il Cardinale. «Avete omesso di informarci dello scioglimento del patto?»

La ragazza si issò con maestosità nella sua esigua statura: non arrivava alle spalle del più basso degli uomini, ma il potere che scorreva silenzioso nelle sue vene inceneriva ogni possibile scherno sulla lingua dei suoi interlocutori.

«Non peccherei mai di una simile mancanza» si discolpò lei. «Il patto è vivo e solido come il giorno in cui è stato stipulato. Se permettete, interrogherò personalmente il Duca del Terrore a riguardo.»

«Siete certa che vi risponderà?»

«I demoni non concepiscono sentimenti speculari ai nostri, ma sono vincolati da un rigido codice d’onore. Un demone non lascia mai un interrogativo in sospeso, e risponde sempre con la verità» proclamò Drew.

«Ma è comunque possibile che ometta ciò che potrebbe metterlo in difficoltà» insistette il Cardinale.

«Sono stata scelta per questo ruolo proprio perché so come strappare confessioni ai demoni» ricordò con cortese fermezza la ragazza. «Non temete: vi fornirò le spiegazioni che cercate, entro questa sera stessa.»

Il Monsignore accolse la sua proposta con un cenno affermativo della testa, e le restanti file non poterono che seguire la sua decisione e approvare a loro volta.

«Siete a conoscenza delle cause di questo increscioso attacco?» indagò il Diacono.

Le croci metalliche di Lastar sfregarono tra di loro quando il giovane sciolse le braccia dalla posizione conserta.

«Hanno affermato che due ladri presenti nella Cattedrale hanno rubato il vero Aamon al loro signore» rispose, secco.

Il Diacono lo fissò con perplessità.

«Perdonatemi, ma non è Aamon il nome del Costrutto contro cui avete combattuto?» vacillò.

«Sono confuso quanto voi» dichiarò sincero Lastar. «Ma hanno insistito su questo punto.»

«Hanno rivelato perlomeno il nome di questi presunti ladri?» si innervosì il Cardinale.

Le stampelle di Cy batterono un colpo contro il rivestimento di legno della nicchia.

«Pruslas l’Assassina ha additato me come uno dei due ladri. Ma posso giurarvi sulla mia stessa vita che non ho mai sottratto nulla ad Astaroth» annunciò Cy, la voce ferma nonostante il pallore del viso. «E hanno affermato che il secondo ladro si intrometterebbe in un eventuale chiarimento tra me e il Duca del Terrore.»

«Per quale motivo?»

«Le ragioni mi sono oscure» rivelò sconsolato lo Scienziato Capo.

Gli sguardi dell’intera Navata ruotarono verso il Monsignore, che si rilassò in qualche secondo di silenzio prima di sentenziare:

«Maghi della Quinta Cerchia, Stregoni e Saggi, ripristinate le difese attorno alla Cattedrale. Rinforzate gli scudi, moltiplicate gli emblemi di allarme, costruite trappole magiche: elaborate un piano di difesa e presentatelo al Diacono entro questo pomeriggio. Esigo che i lavori siano cominciati entro sera, e finiti entro la mattina. Scienziati, pretendo da voi la medesima serietà: elaborate nuovi sistemi difensivi, e presentateli al Cardinale quanto prima. Stelle Cardinali, riorganizzate i turni di pattuglia dei vostri Esorcisti e intensificate gli allenamenti dei Discepoli. Ordini Supplicanti, sgomberate le vecchie aule inutilizzate e rendetele fruibili come postazioni di pronto soccorso in caso di attacco. E fate in modo che nulla di tutto ciò trapeli nel volgo: se Elohim cade nel panico, trascinerà con sé tutte le Cattedrali e le Abbazie ancora esistenti.»

I tre colpi di rubino sancirono la fine della riunione.

Lastar cercò di abbandonare la sua postazione più in fretta possibile, ma Alexander prevenne la sua strategia di fuga.

«Tu stai nascondendo qualcosa» l’accusa saettò tagliente verso l’Esorcista.

La Stella dell’Est non poté fare a meno di chiedersi come Alexander potesse essere così veloce con la divisa da Messo Celeste addosso: sebbene la tunica ametista non costituisse un grosso peso, nemmeno sommata ai calzoni o alla tiara argentata che gli stringeva la fronte, i rinforzi in metallo degli stivali, la cotta di maglia e i guanti ferrati avrebbero dovuto rallentare i suoi movimenti.

«La vecchiaia ti sta facendo diventare paranoico» lo insultò velocemente Lastar.

«Togliti la benda. Se non lo farai, la considererò un’ammissione di colpevolezza.»

Era così abituato all’immortale sorrisetto sul volto scultoreo di Alexander che l’improvvisa serietà delle iridi olivastre lo atterrì tanto da convincerlo ad obbedire. Poche volte il Messo Celeste ricorreva al divario che si apriva tra di loro per ottenere disciplina, e, quando ciò avveniva, quell’abnorme baratro lasciava Lastar abbastanza disorientato da renderlo mansueto.

L’Esorcista staccò piano una porzione di benda, mettendo a nudo la pelle compatta. La mano di Alexander calò sulla sua, e coprì la gota compromettente.

«Immagino che sia superfluo chiederti di mostrarmi anche la spalla» mormorò grave.

«È così problematico che io sia guarito?» sgroppò Lastar, ma il tono di Alexander polverizzò il suo spirito di ribellione:

 «Sì, lo è. Queste ferite non guariscono in un giorno solo» il Messo gonfiò il petto in un vistoso sospiro, che sfruttò per sommergerlo di critiche quando espirò: «Non ti rendi conto della tua posizione, Lastar? Il Cardinale sfrutterebbe ogni occasione per buttarti fuori dalla Cattedrale, in pasto ai demoni o agli angeli, e tu gliene stai servendo un’infinità.»

«Non ho fatto nulla per cui il Cardinale potrebbe condannarmi» replicò Lastar.

«Invitare un demone ad Elohim è un reato punibile con la morte» sibilò a denti stretti Alexander. «Lo hai incontrato svariate volte, e ha addirittura trascorso una serata qui, nella nostra Cattedrale. E lo hai fatto tornare per curarti.»

«Non rappresenta un pericolo: è l’unico di tutta la sua specie a non cibarsi di esseri umani.»

«E credi che questo rappresenti una difesa solida?»

«Credo che non avrò bisogno di difendermi, se il segreto non trapelerà.»

«Allora, Lastar, non vedere mai più quel demone. Non sfidare ulteriormente la sorte.»

«Non posso promettere una cosa del genere.»

All’improvviso, Alexander vide la sua stessa sicurezza negli occhi amaranto dell’Esorcista: la soggezione dovuta alla sua età e al suo grado superiore erano sparite, in onore dello stendardo eretto in difesa del Principe Irrazionale.

«Perché non puoi farlo?» reiterò Alexander, una punta di esasperazione nella voce. «Non capisci che ogni tuo incontro con lui può condurti alla scomunica o all’esilio?» 

Lastar rialzò il capo, stese le braccia in posizione marziale lungo il corpo e troncò la discussione senza ulteriori indugi:

«Non prometterei una cosa simile nemmeno se me lo imponesse Lucifero in persona.»

 

***

 

La schiena di Astaroth sembrava soffrire la nostalgia del triclinio a giudicare dalla curva senza forza in cui era afflosciata: il corpo pigro del Duca del Terrore era nato per essere sorretto da comodi cuscini, e non dall’aria. Il demone leccò il sangue argenteo dalle labbra, sperando che il sapore agrodolce degli angeli lo aiutasse a sopportare quello strazio.

Il Messo Infernale di Elohim lo aveva chiamato, e lui aveva dovuto sacrificare gli agi della sua reggia per onorare il codice dei demoni: non si rifiutava mai udienza a un umano con cui si era stipulato un contratto.

Le pupille vacue ciondolarono sulla figura del Messo. Elohim aveva scelto una ragazza senza particolari meriti di bellezza come tramite con i demoni: il castano dei capelli non sarebbe stato ricordato per il suo splendore, così come la pelle abbronzata non aveva nulla in comune con la delicatezza della seta. Il corpo minuto era stato plasmato nella forgia della battaglia e non in quella dell’amore, e molte morbidezze femminili erano state soffocate dagli allenamenti sfibranti. Tuttavia, perfino il Duca del Terrore riconosceva a quella ragazza la capacitò di imporre la sua presenza agli altri: la sua aura cancellava i suoni, i colori e le immagini del mondo, convogliando lo sguardo dell’interlocutore esclusivamente su di sé. Se non avesse vissuto per così tanti secoli, forse si sarebbe sentito attratto da quella forza d’animo, alimentata dal potere che la giovane aveva imparato a padroneggiare con tanti sforzi.

Non erano stati però né il suo aspetto comune né il suo spirito quasi inumano a spingere il Duca del Terrore a scegliere lei come Messo con cui stringere un patto, tra tutti gli emissari esistenti al mondo. Erano stati i suoi occhi; non il mogano delle iridi, ma la loro forma a goccia, lievemente inclinata all’insù, così identica a quella che aveva perseguitato i sogni e gli incubi del demone da quella notte.

«Mi hai chiamato» le parole si svolsero affaticate sulle labbra bagnate del diavolo.

«Esigo risposte» esordì Drew.

Il serpente d’oro scintillò sul polso del Duca, quando questo sollevò una mano per passarla tra le lunghe ciocche acquamarina.

«Che genere di risposte?»

«Avete attaccato la nostra Cattedrale.»

«Non ho abbandonato il mio salone. E avrei preferito continuare a farlo.»

«I vostri assistenti, allora.»

«È stata una loro libera iniziativa.»

«Credevo che il Duca del Terrore avesse un migliore controllo dei suoi sottoposti.»

L’insulto non superò il muro gommoso dell’accidia del demone: vi rimbalzò contro, e giacque a terra, inascoltato.

«Inoltre, i vostri assistenti hanno asserito di aver agito per recuperare qualcosa che vi è stato rubato» aggiunse, per nulla intimidita dalla resistenza passiva del nobile. «Potrei sapere di cosa si tratta?»

«Assolutamente no.»

Non si era aspettata una replica così assoluta e così immediata dal demone indolente, per cui impiegò un secondo più del solito per articolare una risposta.

«Dovete parlarmene, o perlomeno accennarmene» patteggiò.

«Non ho alcun dovere a riguardo. I miei affari personali interessano me soltanto» sillabò lemme Astaroth.

«I vostri affari sono quasi costati la vita alla Stella dell’Est» s’infiammò Drew.

«Che sarà sicuramente preparato a questo tipo di evenienze, o non sarebbe degno di essere chiamato “Esorcista”» gli occhi neri di Astaroth si appuntarono sul gioiello a forma di serpente, quasi fosse un interlocutore migliore del Messo Infernale.

«Se non chiarirete le cause di questo incidente, saremo costretti a considerare nullo il nostro patto.»

«Il che andrebbe a vostro esclusivo svantaggio» l’espressione annoiata di Astaroth non mutò nemmeno nel pronunciare la condanna: «Posso trovare altri modi per nutrirmi, anche senza essere legato ad Elohim. Mentre la Cattedrale avrebbe molte più difficoltà ad accordarsi con altri demoni.»

Drew portò la mano destra sotto il cappuccio della pellegrina per toccare la “C” arabescata che aveva fatto tatuare sul collo. L’iniziale del fratello, per trovare coraggio nei momenti di sconforto e ricordarsi che era per lui che stava ancora combattendo.

Le parole del Duca corrispondevano alla verità. Il patto tra demone e Messo Infernale era semplice: il Messo avrebbe offerto nutrimento al diavolo, e avrebbe accettato che una porzione della sua anima venisse divorata negli intervalli e secondo le procedure previste dal contratto. Per anni aveva versato ogni goccia del suo sangue negli allenamenti che le avrebbero permesso di ripristinare la parte di anima perduta: il procedimento era lungo e complesso, e aveva impiegato mesi e mesi solo per afferrarne il funzionamento. Aveva imparato a sfruttare la sua energia magica per supplire alla sezione di spirito di cui il demone si sarebbe cibato, e occorrevano settimane perché il processo potesse completarsi. Un Messo poteva stringere il patto con un solo demone, o avrebbe rischiato la vita o, assai peggio, l’esistenza senza anima: giorno dopo giorno senza provare la minima emozione, senza avvertire odori e sapori, con gli occhi spenti e il corpo vuoto come una caverna abbandonata.

I sacrifici del Messo avrebbero procurato però un enorme beneficio: il demone con cui il patto fosse stato stretto si sarebbe impegnato a non attaccare la Cattedrale o la Abbazia, e si sarebbe assicurato che anche i suoi sottoposti e gli inferiori nella gerarchia demoniaca si attenessero a quel pacifismo forzato. Accaparrarsi l’attenzione di Astaroth, secondo solo alla famiglia reale, era stata una vera benedizione per Elohim: da quando il patto era stato stipulato, solo alcuni demoni inferiori, troppo primitivi per comprendere i comandamenti dei diavoli più nobili, avevano cercato di attaccarli. Grazie a quel contratto, Elohim godeva di un’ottima protezione, e poteva permettersi di inviare i suoi Esorcisti come supporti occasionali nelle altre roccaforti; questo le aveva permesso di divenire il baluardo della resistenza umana. Ma se Astaroth avesse deciso di ritirarsi dal patto, ogni garanzia sarebbe andata perduta, e la Cattedrale sarebbe tornata ai nefandi giorni in cui ogni alba segnava una nuova lotta contro i molteplici assalti dal confine poco distante.

«Se mi direte di che oggetto si tratta, potrei aiutarvi a recuperarlo. In questo modo voi otterrete di nuovo ciò che vi è stato sottratto» mercanteggiò Drew.

«E voi potrete continuare a rilassarvi all’ombra della mia protezione» concluse con flemmatica spietatezza Astaroth.

«Aamon l’Alchimista ha detto che state cercando il vero “lui”» seguitò Drew, ignorando lo schiaffo verbale del diavolo. «Cosa intendeva, esattamente?»

Nel bordo rossastro delle iridi onice del demone avvampò una brama insana, subito inabissata nel solito tedio; il cambiamento fu così fulmineo che la ragazza per un attimo credette di averlo solo immaginato.

«Se anche ne parlassi, non ne trarrei alcun beneficio» si lamentò aristocratico il Duca.

«Mettetemi alla prova» lo sfidò garbatamente Drew.

Di nuovo, la cornice di sangue si agitò in una smania irrefrenabile, e, come in precedenza, la fiamma tornò immediatamente a covare sotto la cenere.

«C’è una persona che non deve assolutamente sapere ciò che sto per dirti» premise Astaroth.

«Le mie labbra saranno sigillate» garantì Drew.

La testa del Duca dondolò un paio di volte, senza nerbo, poi l’argento delle labbra si increspò.

«Alexander Holycross. Se ti lascerai sfuggire un solo fiato, considererò nullo il contratto.»

La serenità oziosa con cui Astaroth parlò della possibile distruzione della Cattedrale scatenò una tempesta di ghiaccio nelle vene del Messo. Quel demone, nella sua decadente malvagità, era mille volte più spaventoso di qualunque altro diavolo: molti satanassi erano abbastanza arroganti da dare lustro ai propri poteri e alle nefandezze da essi derivate; al contrario, Astaroth segregava nel silenzio la smisurata ampiezza della propria forza e tumulava le proprie intenzioni nel loculo del viso disattento, negando al nemico ogni possibile indizio sui pensieri cristallizzati dietro i suoi occhi immobili, o sulla portata dei suoi poteri addormentati. Il nobile pareva la personificazione del fulmine: riposava nascosto in una fitta coltre di nubi fino all’imprevedibile momento in cui la sua furia si sarebbe abbattuta sulla terra; gli uomini non potevano che tremare e augurarsi di sopravvivere a una simile sciagura. La pericolosità sopita dei suoi poteri, la calma malvagità della sua mente e l’impigrita impenetrabilità del suo volto erano le caratteristiche che lo rendevano il Duca del Terrore.

«Perché non devo parlare con lui?»

«Perché lui ti ostacolerebbe nel riportarmi ciò che mi è stato tolto. E, se davvero vuoi aiutarmi, dubito che tu voglia avere come avversario il Messo Celeste» anche quella risposta fu straordinariamente pronta per la bocca intorpidita del demone.

«È per caso uno dei due ladri?» il diavolo batté lentamente le palpebre in quella che era la sua personale manifestazione di smarrimento. Drew circoscrisse l’argomento: «Pruslas l’Assassina ha parlato di due ladri. E ha detto che uno dei due è mio fratello.»

Le unghie limate si incontrarono  davanti al viso del demone, pensose.

«Pruslas deve imparare a esprimersi più correttamente» ponderò Astaroth. «No, il ladro è Alexander.»

«E per quanto riguarda mio fratello?» Drew premette le dita sul tatuaggio, un’orribile sensazione annidata sul fondo dello stomaco.

Le palpebre mirabilmente truccate del nobile si incontrarono di nuovo, e le labbra argentate si incurvarono in un sorriso malevolo. Intravide il bagliore del sadismo sul viso di Astaroth quando questo mormorò:

«Tuo fratello è ciò che cerco. Me lo consegnerai, per il bene di Elohim?»

 

***

 

«Davvero non mi lasceresti andare nemmeno se te lo ordinasse mio padre?»

L’asciugamano bagnato gli scivolò tra le mani come un’anguilla; Lastar recuperò velocemente i bordi e se li avvolse attorno ai fianchi, prima di rivolgersi rabbioso alla porta del bagno.

«Cosa sei venuto a fare?» ruggì.

«Mi godo un bello spettacolo» cinguettò Deimos, acquattato sulla soglia con il mento accoccolato tra le mani. «I vestiti minimizzano i tuoi muscoli, sai?»

Lastar non aveva mai posto particolari limiti alle visite del demone, sapendo in anticipo che Deimos li avrebbe infranti con irritante spensieratezza. Ma si augurava che il Principe avesse il buonsenso di non piombare nella sua camera, nel suo bagno, mentre lui era impegnato a lavarsi.

«Puoi voltarti mentre mi vesto?» sibilò Lastar, inforcando gli occhiali come protezione.

«Certo che posso» Deimos si stese sul pavimento e rotolò su se stesso, trovandosi supino. «Ma non ho alcuna intenzione di farlo.»

«Devo vestirmi.»

«No, non devi. È un pensiero coatto che ti ha instaurato la società.»

«Devo vestirmi

«Fai pure come se io non fossi qui.»

La riunione non lo aveva stancato, i lavori di riorganizzazione non lo avevano sfinito, ma Deimos sarebbe riuscito ad ammazzarlo, se solo avesse provato con sufficiente ardore.

«Te lo chiedo ogni volta, forse per abitudine o forse per soddisfare una vena masochista che non sapevo di avere» finse di essere sordo alla battuta sconcia di Deimos sull’autolesionismo e terminò: «Perché sei venuto qui?»

Il Principe raccolse le ginocchia al petto, sorprendendolo con il suo silenzio.

Le parole di Astaroth e quelle di Lastar si scontrarono nella sua testa, sprizzando scintille.

Nonostante l’atteggiamento scontroso e le continue negazioni, il sentimento che l’Esorcista nutriva nei suoi confronti era indubbio. L’ipotesi avanzata dal Duca del Terrore lo aveva ferito a quel modo perché non aveva negato l’esistenza di quell’emozione, ma aveva gettato un’ombra funesta sulla sua possibile evoluzione.

Per quanto irrazionale, Deimos non era uno sciocco: sapeva che, anche se l’Esorcista fosse diventato il suo amante ufficiale, la loro relazione non sarebbe stata semplice. Non solo per i sovrabbondanti ostacoli in entrambi i mondi: il suo carattere incostante, la natura inaffidabile che sfuggiva a lui stesso, lo avrebbe portato a tradirlo pur essendo innamorato di lui. Era un’azione insensata, per questo era sicuro che l’avrebbe commessa.

Non voleva che Lastar credesse di essere uno dei tanti: non lo era mai stato, fin dal giorno in cui il Principe aveva raccolto quel mucchietto d’ossa bellicose nel bosco intorno all’Abbazia.

La profezia del Duca poteva essere corretta: se si fosse unito a lui, Lastar avrebbe potuto pensare di essere il capriccio di una notte, e che il sentimento del demone non fosse forte come pretendeva.

Deimos si arruffò i capelli con rabbia: pensare non era mai stato il suo punto forte. Meglio assecondare la sua natura e cavalcare l’impulso del momento.

Sentì Lastar sobbalzare e irrigidirsi quando poggiò il viso sulle sue cosce, coperte solo dall’asciugamano. Se protestò a voce, Deimos non lo udì: poteva avvertire il calore dell’Esorcista attraverso il tessuto, e respirare il suo odore mischiato a quello del sapone.

Forse interruppe un discorso di rivolta a metà, ma non se ne curò; poggiò le mani sulle gambe dell’Esorcista, una sul ginocchio e una pericolosamente vicina all’inguine, chiuse gli occhi e mormorò suadente:

«Lastar, se ti chiedessi di dividere il letto con me, per questa notte… che cosa risponderesti?»

 

 

 

 

 

 

 

 

Quarto capitolo<3

Scusate l’attesa, il periodo di esami (finalmente CONCLUSO!!!) è stato particolarmente stressante çAç

Grazie a tutti coloro che sono arrivati a leggere fin qui. Mi rendo conto che il capitolo ha lasciato molti interrogativi in sospeso, ma non temete: i prossimi capitoli sveleranno ogni arcano<3

Ciò detto, torno subito a scrivere<3

A presto!

Red

P.S. Come sempre, per i dettagli tecnici consultate il Commentario.

Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Frammenti di passato ***


Capitolo Cinque

Frammenti di passato

 

La fronte appoggiata alle mani congiunte, la frangia scarlatta che pizzicava le nocche; le ginocchia puntate allo scalino di legno, le palpebre abbassate sugli occhi sacrileghi, la bocca cucita in un’espressione seria.

In quella posa assorta, le candele che spandevano un soffuso chiarore sulla sua testa china, la tanto dibattuta Stella Cardinale dell’Est pareva un arazzo sacro, dispiegato nell’aria polverosa dell’Ottava Cappella.

Drew si sedette al suo fianco, abbastanza rumorosamente da annunciare la propria presenza e con sufficiente eleganza da non distoglierlo troppo dalle sue meditazioni.

Lastar restò immobile qualche istante, poi scostò la fronte dalle mani, inforcò gli occhiali e si rizzò a sedere sulla panca di noce.

«Credevo che nessuno fosse alzato, a quest’ora. Perfino il sole deve ancora svegliarsi» considerò, neutro.

«Non c’è riposo per le anime in pena come noi» replicò Drew. Le ombre sotto gli occhi dell’Esorcista non erano state scurite solo dal sonno scarso e agitato che aveva seguito l’attacco degli Assistenti di Astaroth; un’ansia nascosta stava divorando dall’interno il giovane, scolorendogli le guance e contraendogli i muscoli. Non era stato difficile capirlo: la medesima angoscia le rosicchiava le viscere da quando Astaroth le aveva proposto il suo diabolico scambio.

Drew stese le gambe fasciate dai pantaloni color bronzo, dando sollievo alle ginocchia affaticate. La tunica arancione si spiegò triste sulle forme quasi assenti mentre la giovane incrociava le braccia dietro la testa.

«Sei venuto per chiedere alle divinità di alleviare le tue pene?» domandò, con un’eco di canzonatura nella voce.

La risposta di Lastar polverizzò qualunque altro tentativo di scherno.

«Non esistono gli dei. E, se esistono, hanno trovato un mondo più interessante a cui rivolgere le loro premure. Ecco perché non guardano mai questo posto disgraziato: è caduto in rovina, e loro hanno preferito cercare qualcosa di più bello anziché migliorare la nostra terra. Come un bambino che rompe un giocattolo e ne cerca uno più nuovo per rimpiazzarlo» aprì gli occhi, affilati come rasoi di rubino. «Gli dei sono creature troppo infantili per farvi affidamento.»

«Ma se non cerchi il loro appoggio, perché sei venuto in cappella a quest’ora?» domandò Drew, la voce vellutata per non infastidire l’Esorcista.

«Avevo bisogno di parlare con qualcuno di più affidabile degli dei.»

«E con chi?»

«Me stesso» Lastar inspirò a fondo, piegando la testa sul proprio petto. «Vengo in cappella a quest’ora solo per il silenzio.»

Drew annuì, lisciando le nappe della sua pellegrina. Si era recata in quel luogo per lo stesso motivo: gli dei non avrebbero risolto il problema che le aveva posto il demone. Doveva escogitare una soluzione da sola, e per farlo aveva bisogno della concentrazione che solo un luogo solitario poteva offrirle.

«Hai qualche problema che ti rode?» chiese, picchiettando il pavimento con il tacchetto dello stivale: il colpo secco si infranse nell’aria immobile della cappella.

«Ho commesso un peccato» sillabò Lastar.

Il tacco della giovane si arrestò.

«Io commetterò un peccato. Ma non so ancora di che genere» soffiò mesta Drew. Abbandonare suo fratello a un demone o condannare l’intera Cattedrale; qualunque fosse stata la sua decisione, la sua anima sarebbe stata scagliata direttamente a Infera.

«Siamo simili in modo inquietante» notò atono Lastar.

«È per questo che funzioniamo così bene come squadra» minimizzò Drew con un’alzata di spalle. «Dimmi, che genere di peccato ti tormenta?»

«Esattamente il tipo che ho intenzione di commettere» ammise l’Esorcista, dopo qualche attimo di profondo silenzio.

Drew scosse la testa, rimuginando:

«Quelli sono i peggiori. Bussano insistentemente alla tua porta finché non sei praticamente costretto ad aprire.»

Lastar annuì con vigoroso trasporto: nessuna descrizione poteva essere più azzeccata per circoscrivere Deimos.

«Qual è il genere del tuo peccato, invece?»

«Esattamente il tipo che non voglio commettere» sospirò istantaneamente Drew, incrociando i piedi sul braccio dell’inginocchiatoio. «Tu crederesti in me, Lastar?» le gambe tornarono in una dignitosa posa seduta, mentre gli occhi di un castano cupo scrutavano l’espressione dell’altro. «Anche se dovessi commettere un peccato orribile?»

Lastar si rialzò dalla panca e sentenziò, con voce salda:

«Combatterò con te, Drew. Se non tradirai i nostri Principi.»

La ragazza sorrise, ricordando i Principi che lei, il fratello e Lastar avevano stilato insieme tanti anni prima, all’epoca del loro primo incontro.

«Non lo farò» dichiarò alla schiena dell’Esorcista che si allontanava.

Lastar attese di essere uscito e di essere abbastanza lontano dalla cappella per permettere alle sue gambe di cedere. Si aggrappò alla balaustra di pietra, i bottoni vermigli della divisa che stridevano contro il parapetto marmoreo, e una mano corse ad allentare il colletto attorno alla gola.

La bocca dischiusa in cerca di aria, il respiro che scalciava nei polmoni, le dita tremanti: si sentiva come un intossicato, e la sua droga possedeva un nome e un paio di occhi rubino.

Lastar, se ti chiedessi di dividere il letto con me, per questa notte… che cosa risponderesti?

L’Esorcista tolse gli occhiali e chiuse le palpebre, gli spettri della sera prima che si rincorrevano nella sua mente agitata.

Deimos gli aveva avvelenato l’anima, e allo stesso tempo era l’unico antidoto efficace contro quelle tossine diaboliche.

E quel veleno colava dentro di lui da anni…

 

***

 

«Sei morto?»

Non aveva trovato nemmeno un ruscello da quando aveva abbandonato il suo villaggio e sua madre. Erano ormai tre giorni che vagava nel bosco, e il suo unico pasto era stato un coniglio abbastanza stupido da cadere nella trappola che aveva teso tra i cespugli.

Aveva ceduto alla stanchezza quando il sole aveva raggiunto lo zenit: mentre l’astro del giorno ascendeva, lui era crollato a terra, le labbra disidratate e il bastone che aveva usato per difendersi dalle belve abbandonato di fianco a lui.

Il demone era comparso non appena il cielo era diventato del colore dei suoi occhi malefici, e si era fermato a guardarlo con curiosità sardonica.

Lastar aveva aperto la bocca per rispondere, ma dalla sua gola era uscito solo un rantolo metallico.

Il diavolo si era inginocchiato di fianco a lui, un ghigno che si stendeva da un orecchio all’altro.

«Non sei morto, ma non manca molto» ridacchiò.

Sollevò un indice e cominciò a stuzzicargli la guancia con l’unghia nera. L’istinto di sopravvivenza di Lastar ebbe un guizzo improvviso, così come la sua mano, che corse veloce ad afferrare il bastone. La punta del faggio sfrecciò vicino al viso del demone, che fu lesto a spostarsi di lato per evitare di essere colpito.

Il diavolo si rovesciò in piedi con una capriola, e osservò piacevolmente incuriosito quel mucchietto d’ossa, che respirava come se una manciata di ghiaia gli fosse rimasta incastrata in gola e che brandiva un bastone striminzito contro di lui, il demone che con un solo colpo di mano poteva rovesciare un intero esercito.

Un diavolo normale avrebbe trovato patetica quella scena, e vi avrebbe posto fine divorando l’anima del piccoletto. Ma Deimos esisteva per il solo scopo di stravolgere le convinzioni altrui.

«Sei carino» cinguettò infatti, incrociando le braccia dietro la schiena come prova di non aggressione.

Lastar produsse uno strano ringhio, mentre il bastone ballava nelle mani indebolite.

«Non sai chi sono io? Non hai paura?»

«Sei un demone. Ed è per colpa di uno della tua razza se ho questi occhi rossi» Lastar compose quella replica ansando tra una parola e l’altra come un cavallo che ha corso troppe miglia.

Deimos inclinò la testa di lato, i riccioli corvini e rossi che solleticavano la spalla.

«Sei un mezzosangue» constatò, gustando ogni sillaba come un nettare squisito.

Le ginocchia cedettero, nonostante gli sforzi di Lastar: si ritrovò bocconi al suolo, ma non abbandonò il bastone, che agitò in direzione del demone.

«Stai lontano!» ragliò.

«Quanto fuoco!» rise di gusto il diavolo, saltellando al suo fianco. «Frena le tue fiamme, umano, non sono qui per mangiarti. E, se tu conoscessi il mio nome, capiresti perché.»

Il demone allargò i bordi del suo mantello in un’elegante piroetta, che concluse con un inchino aggraziato.

«Io sono Deimos, secondogenito di Lucifero. Sono conosciuto come il Principe dell’Irrazionale. E, se non ti affidi a me, temo che la tua permanenza in questo mondo sarà molto breve» aggiunse, inspiegabilmente divertito da quella prospettiva, portandosi un indice sulle labbra carnose.

«Perché dovrei fidarmi di uno della tua razza?» rantolò Lastar, esausto.

«Perché sono l’unico demone che mangia i suoi simili, e non esseri umani» gorgheggiò Deimos. «E perché sverrai tra due secondi precisi.»

Lastar non fece in tempo a chiedergli cosa intendesse: all’improvviso i suoi sensi si oscurarono, e l’unica cosa di cui fu cosciente furono le mani del diavolo che si protendevano per evitare che battesse la testa contro il suolo.

 

***

 

I demoni avevano un ciclo di vita molto diverso da quello degli esseri umani.

Per questo motivo Lastar era passato attraverso l’adolescenza e la pubertà fino a diventare un abbozzo di uomo maturo, mentre Deimos aveva conservato il viso vispo e gioviale del giorno in cui l’aveva raccolto nel bosco. Il Principe non era cambiato minimamente dal loro primo incontro: pareva sempre un ragazzo sulla soglia dell’età matura, gli occhi grandi perennemente sgranati dalla sorpresa e dalla curiosità.

Ricordava ancora quando si era risvegliato nello sproporzionato letto del demone e aveva realizzato di non trovarsi più nella parte di mondo riservata agli umani: i colori, gli odori e la temperatura non erano adatte al suo fisico, ma erano perfette per temprare lo spirito e il corpo degli abitanti di Infera.

Deimos era apparso al suo fianco qualche secondo dopo, chiedendogli arzillo come avesse passato la notte. Lastar aveva cercato di cavargli gli occhi.

Più lui si ribellava, più Deimos sembrava divertito dal suo spirito indomabile.

Per qualche anno, Lastar aveva cercato di capire cosa avesse spinto quel demone a strapparlo da morte certa per portarlo a Infera, dove ogni giorno aveva rischiato di incorrere nell’ira di suo padre per la tutela di quell’umano impuro.

Con il passare del tempo, Lastar si era semplicemente rassegnato: Deimos era incomprensibile per sua natura, e tentare di capire il motivo delle sue azioni era un’impresa che oltrepassava l’impossibile. Lo aveva portato con sé per capriccio, e per lo stesso vizio imperscrutabile lo aveva tenuto nascosto agli occhi del genitore. Lo aveva istruito a dovere sui luoghi da evitare e sugli orari in cui era più sicuro muoversi, e Lastar aveva assorbito quelle informazioni con un cipiglio scontroso in viso.

Non aveva abbandonato la sua diffidenza nei confronti di quell’astruso diavolo nemmeno per un giorno nei cinque anni in cui era rimasto sotto le sue cure bislacche. Il viso rotondo si era asciugato nell’adolescenza, e gli occhi rossi avevano assunto un taglio più affilato, che Deimos non aveva esitato a definire sensuale, appellativo appiccicato anche al suo corpo che diventava man mano più muscoloso.

La cosa che più aveva faticato a comprendere, in quel periodo, erano le lezioni che Deimos gli impartiva con regolarità sulla cultura demoniaca e sulla struttura gerarchica di Infera, nonché gli allenamenti cui lo sottoponeva per diventare un bravo combattente. Se anni dopo era stato nominato Stella Cardinale dell’Est, probabilmente doveva quel riconoscimento alla disciplina con cui Deimos lo aveva forgiagto.

Quando gli aveva chiesto il motivo, Deimos si era limitato a rispondere che non voleva persone flaccide intorno, e per questo lo costringeva ad allenarsi così duramente. Lastar sospettava invece che il diavolo si divertisse a vederlo sudare e arrancare sotto gli addestramenti che gli imponeva.

E quando gli aveva domandato la ragione per cui gli stesse spiegando nel dettaglio le caratteristiche dei suoi simili, Deimos aveva replicato che sarebbe stato utile per schivarli, ed evitare così il rischio di essere scoperto e cacciato. Gli aveva descritto più di una volta i terribili tormenti che avrebbe patito, se si fosse scoperto che un umano si era infiltrato ad Infera.

Deimos si era dimostrato straordinariamente gentile, per essere un demone: non gli aveva mai fatto mancare il cibo, a parte nei giorni in cui la sua anima irrazionale gli faceva dimenticare del cucciolo d’uomo che lo attendeva nella sua stanza. Né aveva mai saltato i loro allenamenti o le sue lezioni sul mondo di Infera, anche se non avevano mai goduto di un orario stabile. Il demone si presentava nella stanza a suo piacimento, e non rispondeva mai quando Lastar gli chiedeva cosa facesse in giro per tutto quel tempo.

Quella strana quotidianità di resistenza dell’umano e sfrontatezza del demone era proceduta senza grosse svolte finché Lastar non si era avvicinato alla fine dell’adolescenza: da quel momento gli sguardi del diavolo si erano fatti più insistenti e più ammirati, e, nonostante gli sforzi titanici di Lastar di dissimulare con gli occhiali o con ostinati sguardi al soffitto, la sua attenzione si soffermava con un magnetismo del tutto nuovo sulle curve provocanti del Principe.

Deimos viveva con irriverenza la sua attrazione per quel giovane, mentre Lastar cercava di reprimerla adducendo le mille motivazioni per cui avrebbe dovuto odiare quel demone: faceva parte della stirpe di suo padre, lo aveva tenuto segregato in una camera per tutti quegli anni, lo aveva torturato con tutte le sue frivolezze. Ma lo aveva anche protetto dagli altri demoni, lo aveva nutrito e istruito, sebbene con i suoi modi bizzarri, e gli aveva dimostrato più affetto della sua stessa madre. Lui, perlomeno, era più che felice di guardarlo. Non aveva mai visto le spalle del demone.

Era quasi riuscito a convincersi che il ritorto affetto che provava per il diavolo fosse una specie di patologia, dovuta al fatto di non aver visto altro essere vivente al di fuori di lui per cinque anni. Inoltre, era l’unica persona che gli avesse mai dimostrato interessamento: la gente al villaggio lo evitava per paura, e sua madre detestava il ritratto del violentatore che vedeva sul suo viso.

Era riuscito ad ancorarsi a questa convinzione, fino al giorno in cui era entrato nel bagno, deciso a immergersi nella vasca, e l’aveva trovata occupata dal demone.

Era trasalito fin quasi toccare il soffitto con la testa, e aveva cercato di guadagnare la porta, quando la voce melodiosa del diavolo lo aveva invitato:

«Puoi venire anche tu. La vasca è grande.»

«La vasca è fatta per essere usata da una persona per volta.»

«Non è vero. Nelle Cattedrali ad oriente è uso comune fare il bagno tutti insieme.»

«Non siamo in una Cattedrale orientale.»

«Hai paura di me, Lastar? O hai paura dell’effetto che potrei avere su di te

Il futuro Esorcista non capì mai cosa lo avesse spinto ad agire in maniera tanto avventata; qualcosa, nella voce del demone, era in grado di risvegliare sezioni della sua anima che lui non aveva mai nemmeno supposto di avere. Si era sciolto l’asciugamano dai fianchi quasi con sfida, e si era immerso nella vasca di fronte al diavolo, ben appallottolato su se stesso in modo che il Principe non vedesse troppe cose.

Il demone aveva steso le labbra in un sorriso che non aveva mai visto prima sul suo volto: lo pungolò dritto al cuore come un dardo di fuoco, e Lastar strinse più strettamente le gambe.

«Perché porti questi occhiali?» flautò Deimos, indicando le lenti con un dito bagnato.

«Mi servono.»

«Non è vero. Hai una vista perfetta. Perciò dimmi: li usi come maschera?»

«Sono fatti miei.»

«Ma certo» Deimos giocò per qualche istante con l’acqua, poi tornò a fissarlo. «Hai mai baciato qualcuno?»

Lastar si ritirò nell’angolo più lontano della vasca, e quasi strillò:

«Che razza di domanda è?»

«Non hai risposto alla prima, così te ne ho fatta un’altra» minimizzò il demone.

«Sono fatti miei!» ribadì il ragazzo, vagamente isterico.

Deimos scosse la testa, spargendo un’impalpabile corolla di gocce tutt’intorno.

«Mi spiace contraddirti, mio diletto: sono anche fatti miei. Non ti sei mai chiesto cosa significhi essere il demone del Peccato Irrazionale?»

Lastar fu sul punto di uscire dalla vasca di slancio, ma gli occhi del Principe lo inchiodarono al suo posto.

«Lascia che te lo spieghi, allora. Io sono nato per portare alla luce tutto ciò che è nascosto, tutto il marcio che gli esseri viventi cercano di nascondere nella discarica in fondo all’anima. La mia sola presenza fa ribollire quel calderone di marciume, e basta una mia parola perché tutti i segreti più vergognosi vengano svelati.»

Il ragazzo non riuscì a muoversi di un millimetro mentre il demone si avvicinava in un lento sciabordio di onde profumate. Le sue iridi, la sua voce, perfino la luce riflessa sulla pelle bagnata erano corde di seta rossa che si attorcigliavano attorno al cuore del giovane e lo avvicinavano irresistibilmente al diavolo.

Lastar batté la testa contro la sponda cromata della vasca quando il demone fu così vicino da sentire il suo respiro infrangersi contro le proprie guance.

«Quindi anche la pulsione che stai cercando disperatamente di nascondere… io la conosco. Anzi, si potrebbe dire che tu non la conosceresti, se non te l’avessi infusa io stesso.»

I lineamenti del Principe si confusero davanti ai suoi occhi sbarrati quando il diavolo fu così vicino che gli sarebbe bastato sporgere appena le labbra per baciarlo. Una risata beffarda si sgretolò sulla sua bocca, e Deimos saltò fuori dalla vasca in un vortice di spruzzi.

«Sono spiacente per te, ma non ho intenzione di alleviare la tua pressione oggi. È troppo divertente vederti lottare contro i tuoi bassi istinti

Dopo averlo così canzonato, il demone sparì al di là della porta del bagno.

La verità nelle parole del Principe era scesa come una colata di liquido urticante sul suo stomaco: bruciava, e il ragazzo si sforzava di ignorarla, nonostante quella continuasse a irritargli le viscere.

Circa due settimane dopo aveva restituito quella stessa sensazione al demone, quando il Principe era stato costretto a rivelargli il suo vero volto.

Aveva appena pulito gli occhiali, quindi riuscì a vedere con spietata chiarezza la scena in cui inciampò.

Stava rientrando nella stanza del demone dopo essersi fatto il bagno e rivestito. Era uno degli orari sicuri stabiliti con il Principe, per cui non sospettava minimamente quanto stava per succedere.

Aprì la porta e rimase congelato sulla soglia.

Deimos era adagiato sul letto, le ginocchia divaricate sul materasso e il collo steso all’indietro. E la bocca di un altro demone era poggiata sulla pelle liscia della gola.

Lastar rimase immobile, inorridito, mentre il suo sguardo saettava dai polsi del Principe, allacciati dietro la nuca del suo compagno, alla mano dell’altro diavolo che afferrava con foga la carne morbida dell’interno coscia.

Deimos socchiuse per un attimo gli occhi, quando il suo occasionale amante scese con la bocca lungo il collo, allargando i bottoni della camicia per avere più pelle a disposizione. E lesse il disgusto nell’espressione di Lastar.

Sentendolo irrigidirsi, anche l’altro diavolo sollevò lo sguardo in direzione della porta e notò il ragazzo atterrito sulla soglia. Sibilò qualcosa in lingua demoniaca, accigliato, e Lastar non aspettò un secondo di più per dileguarsi.

Fece appena in tempo ad arrivare in bagno prima che le sue ginocchia diventassero d’acqua e si abbattessero sulla dura pavimentazione. Lastar premette una mano sullo stomaco e una sulla bocca, in un disperato tentativo di arginare i conati.

Una mano insinuante gli scompigliò gentilmente i capelli, una volta che l’apparato digerente fu placato.

«Ti ha tanto sconvolto quello che hai visto?» la voce di Deimos lo raggiunse dall’alto, e Lastar allontanò bruscamente le dita sulla sua testa.

«Se sei già impegnato, non dovresti venire a stuzzicare me» abbaiò il giovane.

«Non sono impegnato. Quello è solo un mio amante. Uno dei tanti.»

«È così che vivi? Prendendoti gioco delle persone?»

La rabbia gli fece schiumare il sangue nelle vene, e aveva intenzione di rigettare tutta quell’ira sulla fonte del suo disagio: lo aveva illuso facendogli credere di essere speciale, mentre in realtà era solo uno dei suoi tanti giocattoli. Era peggiore perfino della gente del villaggio: loro erano stati coerenti con il loro disprezzo, mentre il demone si era trastullato con i suoi sentimenti, ingannandolo per tutto quel tempo.

Le calunnie evaporarono sulle sue labbra e la furia si dissolse non appena vide l’espressione del Principe.

Una tristezza sorda, inasprita di rassegnazione, aveva rabbuiato le iridi cremisi e spento la solita luminosità insolente del viso.

«Non ti ho raccontato tutta la verità sull’essere il Principe del Peccato Irrazionale. Significa essere stranieri nel proprio corpo.»

Deimos incrociò le gambe e ruotò su se stesso, poggiando una mano sul collo: non voleva che Lastar vedesse il segno rosso che il suo amante gli aveva lasciato.

«Posso prendere delle decisioni, ma so che non le rispetterò mai. È la mia natura, non posso ribellarmi. È logico che una persona compia una scelta e vi sia fedele; e proprio perché è logico io non posso farlo. Se prendo una decisione, so che la tradirò, anche se è l’ultima cosa che vorrei.»

«Per esempio?»

«Per esempio, avevo giurato che tu non avresti mai visto come induco tante persone in tentazione.»

«Ma sono capitato per caso.»

«Già, per caso. Esattamente nell’orario che ti avevo detto di seguire» una risatina amara sgorgò dalle labbra del diavolo. «Alcune volte è frustrante. Ti senti come se fossi in costante balia di una corrente che ti conduce solo in porti sgraditi. Ma è meglio che tu non lo capisca: se arrivassi a comprendere quella sensazione, impazziresti. Io no. Io sono strutturato per questo.»

«Tu sei già impazzito da tempo.»

Un fruscio alle sue spalle fu il segnale che Lastar si era alzato in piedi.

«Hai molte persone… come quello di prima?»

«Più delle stelle che stanno in cielo. Angeli, demoni e umani.»

«Volevi che anche io diventassi uno dei tanti nella tua schiera?»

«Ti ho salvato perché eri divertente. Gli umani normali tremano al mio cospetto. Tu invece avevi la forza di lottare, anche se eri più fragile del bastone che reggevi in mano. Inoltre, non hai mai smesso di odiarmi, almeno un po’. I miei occhi rossi ti ricordano troppo i tuoi» Deimos si voltò, tenendo la mano asserragliata sul collo. «Tu mi piaci, Lastar, Mi piaci quasi quanto mio fratello.»

Il ragazzo afferrò il polso affusolato del demone e lo scostò dal suo collo, rivelando il marchio irregolare e sanguigno. Assegnò un’occhiata sprezzante a quel segno di lussuria e domandò:

«Se per te non sono come gli altri, dimostralo. Resta qui, e non tornare da quell’altro.»

«È una cosa molto logica, quella che mi chiedi di fare. È molto probabile che non la farò» lo schermì Deimos, allontanandosi con un passo ballerino.

«Lo so. Ma non riesco a credere che il Principe dei demoni non sia in grado di scegliere nemmeno una volta.»

La spina dorsale di Deimos si snodò in mille angolazioni diverse quando il diavolo eruppe in una risata senza ritegno.

«Punti all’orgoglio» si sbellicò.

«La colonna portante dell’anima dei demoni è la fierezza, e farebbero di tutto per preservarla intatta. È stata una delle tue prime lezioni» snocciolò Lastar.

«Che hai incamerato bene» le unghie nere del diavolo si inseguirono sulla spalla del giovane e poi sul collo, fino a pizzicargli il mento. «Allora saprai anche che non puoi trattenere un demone senza un valido motivo.»

Anche quella volta, Lastar non pensò: la presenza del diavolo annullava ogni traccia di razionalità nella sua mente.

I lembi aperti della camicia invitarono le sue mani ad insinuarvisi all’interno, scivolando sulla schiena nuda del demone. Le dita si sorpresero per la morbidezza della pelle del Principe, così inusuale per un maschio di Infera; anche quell’epidermide levigata era accuratamente studiata per indurre il prossimo ad indugiare su di essa e sui peccati che dischiudeva.

Deimos non si fece scrupoli e rise di nuovo quando il ragazzo non riuscì a fare altro che abbracciarlo. Sentiva quelle mani inesperte tremare appena sulla sua schiena, contraddicendo l’apparente inflessibilità dell’espressione del giovane.

«Si vede che sei uno che non ha mai nemmeno baciato qualcuno» lo prese in giro.

Lastar non ebbe modo di replicare a quell’illazione e nemmeno alla successiva mossa del demone: gli occhiali vennero divelti dal loro posto e scaraventati a terra, una mano lo afferrò per la nuca e lo abbassò verso il diavolo. La lingua del Principe guizzò tra le sue labbra prima ancora che lui riuscisse a capire cosa fosse successo.

«Dovrai andartene» lo avvertì Deimos, temporeggiando sulla sua bocca. «Sei stato visto da un demone. È pericoloso che tu resti.»

Si scostò da lui ghignando: la notizia e il bacio improvviso avevano trasecolato il ragazzo, lasciando spalancati i suoi occhi scarlatti, che Deimos trovava semplicemente splendidi.

«E dove?» riuscì a comporre quando lo stupore si fu in parte dissolto.

Deimos osservò fuori dalla finestra che si apriva ad est.

«La Cattedrale più vicina al confine con Infera è la Cattedrale di Elohim. Ti accompagnerò fino al fiume, e poi dovrai fare affidamento solo su te stesso» annunciò. Il Principe si sollevò sulle punte dei piedi e gli arruffò la chioma amaranto. «Non fare quella faccia disperata. Tornerò a trovarti.»

«E come farai a sapere dove trovarmi?» volle sapere Lastar.

Un ghigno malvagio distorse il viso del diavolo.

«Potrei metterti il mio marchio. Ricordi, quello che noi demoni usiamo per marcare le nostre prede o i nostri preferiti?»

I diavoli possedevano un marchio personale, che si formava sulla pelle della vittima o del prescelto insinuando un pungiglione della loro aura oscura nella pelle: quello era uno degli ultimi insegnamenti del Principe.

«Ma dovremmo lottare» obiettò Lastar.

«Questo se tu fossi un mio avversario, o una preda che voglio mangiare. Ma…» Deimos si divertì immensamente nel vedere la tonalità di rosso raggiunta dalle guance del giovane. «Non se io volessi mangiarti in un altro senso

«È un ragionamento piuttosto logico, quello che stai facendo.»

«Un Principe deve essere in grado di scegliere, almeno una volta.»

Non ricordava con precisione come avessero raggiunto la camera. Ricordava solo le dita del diavolo strette attorno al suo polso che lo guidavano nella stanza, che poi erano salite ad accarezzargli il volto.

Non voleva essere famelico come il demone che aveva visto prima, per cui spogliò lentamente il Principe di fronte a lui. Rimase incantato dal fisico che emergeva dagli stracci colorati e dai vestiti, perfetto come se una mano attenta avesse scolpito ogni singolo muscolo, ogni ricciolo della chioma indomita. Deimos non ebbe la stessa premura, e gli abiti del ragazzo furono rapidi a raggiungere il pavimento.

Lastar si trovò di nuovo sospeso in quella condizione acquosa in cui annegava in presenza del demone: la sua testa diventava inconsistente e sfuggente come una medusa, e tutto ciò che restava era istinto.

Non era mai più riuscito a vivere le emozioni di quella notte: aveva provato, qualche anno dopo, con una ragazza della Cattedrale che lo aveva corteggiato con encomiabile insistenza, ma l’esperienza lo aveva lasciato profondamente deluso. Le sensazioni scialbe di quella notte non erano paragonabili alla meraviglia nello scoprire il corpo sensuale del demone, l’agitazione nel farsi condurre lungo quel sentiero sconosciuto, l’emozione travolgente scaturita dall’unione con il diavolo.

Gli occhi scarlatti si illanguidirono nel contatto con i gemelli, le braccia del demone lo guidarono nei movimenti, così come le gambe morbide, che risalirono il bacino fino ad allacciarsi attorno alla vita. Le mani del diavolo scesero a premergli sulle anche per incitarlo a portarsi dentro di lui.

Le membra di Lastar tremarono violentemente quando il corpo di Deimos si inarcò sotto il suo alla prima spinta. Le mani del demone lo condussero in quelle movenze per lui del tutto nuove, le iridi purpuree lo avvinghiarono più saldamente al Principe e i suoi gemiti arrivarono a intossicargli il cuore.

Dubitava che per Deimos l’esperienza fosse stata straordinaria come per lui: aveva avuto più di mille amanti, certamente più esperti di un ragazzino umano. Ma aveva sorriso genuinamente soddisfatto quando Lastar si era adagiato su di lui, ansante.

«Considerando che questa era la tua prima volta, non sei andato male.» cinguettò, carezzandogli i capelli sudati.

Un bruciore lancinante all’anca sinistra dirottò gli occhi di Lastar dal viso del compagno al suo osso pelvico. Un’ombra nera e fumante si stava ritorcendo sulla sua pelle, assumendo man mano la forma dello stemma reale.

«Domani il marchio sarà ultimato» bisbigliò Deimos nel suo orecchio. «E io potrò ritrovarti ovunque andrai.»

Sapeva che era una completa follia: aveva giaciuto con un demone, e ora portava il suo stemma. Ma non riusciva a pentirsene, e non riusciva a capire se quella scelleratezza partisse da lui stesso o se gliela avesse iniettata quell’inafferrabile diavolo.

Accantonò qualunque pensiero quando si chinò sul Principe per essere lui, quella volta, a baciarlo per primo.

 

***

 

Deimos allungò le gambe verso l’alto, sgranchendo muscoli e ossa insieme.

Ripensava alla sera prima, quando era andato a trovare Lastar alla Cattedrale, e alle parole di Astaroth.

Il demone dell’accidia gli aveva consigliato di non unirsi all’ibrido, e si era sorpreso della sua volontà di proteggerlo anche se non era stato marchiato.

Sorrise amaramente.

C’erano molte cose che Astaroth non sapeva.

Ad esempio, che lui e Lastar erano già giaciuti insieme una volta. Tuttavia, Lastar all’epoca era talmente giovane e influenzabile che probabilmente aveva ceduto solo perché non aveva ancora sviluppato le barriere necessarie a difendersi dal magnetismo del Principe. Ecco perché era così difficile sedurlo ora che era più maturo e addestrato a resistere ai demoni.

Inoltre, il Re del Terrore non sapeva che Lastar era stato marchiato.

Per un certo periodo, almeno. Fino a che suo fratello, Lazard, non aveva brutalmente rimosso lo stemma reale dalla pelle del giovane.

 

 

 

 

 

 

 

 

Scusate il ritardo, ma i preparativi e la partenza per il Giappone mi hanno tenuta lontana dal pc ç_ç
Questo capitolo è postato dall’arcipelago nipponico, quindi ad un orario improponibile in Italia XD

Anyway, che dire del capitolo… non avevo previsto questo scorcio di passato, ma poi le scene si sono susseguite e ho deciso di assecondarle XD

Piccolo avviso: è probabile che d’ora in poi i capitoli si faranno più corti. Motivo: lo studio in Giappone è molto impegnativo, e non sempre abbiamo tempo di rimanere al computer. Per cui, per evitare di farvi aspettare eoni geologici per un aggiornamento, posterò capitoli più brevi<3 Al mio ritorno in Italia, probabilmente torneranno ad allungarsi XD

Ancora una volta, grazie a tutti voi che siete arrivati fin qui a leggere<3

*bows*

Red

Per i dati tecnici (schede dei personaggi, genealogia demoniaca, genealogia angelica ecc.), consultate il Commentario. Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1504726