Revenge - Perchè proprio a me?

di Aout
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Perché è tutta colpa di Barbie ***
Capitolo 2: *** Perché era destino ***
Capitolo 3: *** Perché dei sogni non c'è da fidarsi ***
Capitolo 4: *** Perché sbraitare è perfettamente inutile ***
Capitolo 5: *** Flashback ***
Capitolo 6: *** Perché scappare è perfettamente inutile ***
Capitolo 7: *** Perché trattare le cose razionalmente è perfettamente inutile ***
Capitolo 8: *** Perchè fare il supereroe è perfettamente inutile (o quasi) ***
Capitolo 9: *** No, per favore, per favore, non adesso ***
Capitolo 10: *** Perché davvero non smaniavo dalla voglia di conoscere Sorriso-Malvagio Senior ***
Capitolo 11: *** Perché, ripensandoci, forse dei sogni è meglio fidarsi ***
Capitolo 12: *** Nuovi scontri... ehm, incontri, volevo dire incontri ***
Capitolo 13: *** Perchè il mondo è pieno di occhi dai colori improbabili ***
Capitolo 14: *** Di discorsi senza capo né coda ma con i soliti, maledetti occhi rossi ***
Capitolo 15: *** Sì certo, come no? Io sono Frankenstein e lui è il mostro di Lockness! ***
Capitolo 16: *** Di piccoli puntini all’orizzonte e rivelazioni inquietanti (non più del solito, comunque…) ***



Capitolo 1
*** Perché è tutta colpa di Barbie ***


Titolo                                               Revenge
 
Sottotitolo                             Perché proprio a me?
 
Sotto-sotto titolo              Dannatissimi film dell’orrore
 
 
 
 
 
 
 
Prologo
Perché è tutta colpa di Barbie
 
 
N.d.a. Per adesso il rating è giallo solo per qualche parolaccia sparata qua e là, poche comunque.
Cosa succederà in seguito, e se il rating si rivelerà più necessario, per ora non so dirvelo… buona lettura!

 
 
C’è un motivo per cui odio il bar dell’università.
Questo motivo si chiama Barbara Darrel.
Detta Barbie, ha capelli biondi, occhi azzurri, gambe chilometriche e…beh, avete capito, insomma, tutte le solite cose.
E insieme alla borsetta firmata e al barboncino nano e scorbutico si ritrova pure un bel carattere di merda, diciamolo. Scusate la rudezza, ma quando ci vuole ci vuole.
E quando una ti tratta come ti tratta, dopo che ci hai condiviso tutta l’infanzia, allora beh, non c’è proprio definizione migliore. O comunque a me al momento non ne viene in mente nessuna.
Volete saperla, la storia? Quella struggente e strappalacrime che vi farà tirare fuori tutti i kleenex che avete e alla fine vi farà pure provare pietà per questo povero, piccolo sfigatello?
Sì?
Oh, beh, non ci vorrà più di qualche secondo.
È qualcosa di molto classico e noioso, qualcosa che potete trovare in tutti i telefilm di serie B, o anche C o D, che vi vengono in mente.
Io e lei, nelle giornate di sole, a correre, piccoli e gioiosi, per i prati, da buoni vicini di casa fare le torte di fango in giardino, costruirci una bella casetta sull’albero, e lì confidarci tutti i nostri più reconditi segreti e vivere le nostre fantasiose avventure.
Ecco, ve l’avevo detto, sempre la solita brodaglia.
E poi, poi però si cresce, ci si perde di vista e, nello specifico, lei diventa alta, bellissima e levissima, mentre io rimango… beh, io. Piccolo e sfigatello, per l’appunto.
Ho sempre avuto una cotta per lei, ma non ho mai avuto il coraggio di confessarglielo?
In realtà no, ma se completa il quadretto che si è formato nella vostra piccola testolina, allora potete comodamente pensarlo, a me non cambia molto.
L’amore in questo caso non c’entra un fico secco, o almeno non ha una parte fondamentale, mi spiace. E, ve lo dico sinceramente, non c’entra nemmeno molto l’invidia, checché se ne voglia pensare.
Al tempo conservavo persino quel briciolo d’affetto, maturato negli anni, che mi faceva desiderare il meglio possibile per lei ed ero felice anche se quel futuro gioioso la separava da me. Pensate un po’ ‘sto cretino, dico io…
No no, il problema è lei. È sempre stato lei.
Lei che sulla casa sull’albero non ci vuole più salire perché altrimenti le si sporcano le scarpe nuove. Lei che “oddio tesoro, ma lo sai che quel cappello è out da almeno due secoli?”, quando l’avevo messo perché era stato il primo regalo che mi aveva fatto, escluse le torte di fango ovviamente.
Lei che, in mezzo ad una caffetteria colma di gente, di cui i più facenti parte del mio corso di matematica, mi sfotte deliberatamente perché per mantenermi al college devo lavorare in un bar come una ragazzina qualunque, mentre suo padre, il chirurgo, lo stesso che da piccolo mi regalava le caramelle, apre un nuovo studio a New York e quel college, lo stesso che frequento io guarda un po’ la sfiga, se lo può permettere eccome.
Che odio profondo.
Come come? Siamo tornati all’inizio, dite? Sì, esatto, questa noiosissima filippica mi è servita per arrivare a questo punto.
Perché, se lei non mi avesse costretto a cercare un altro lavoro, se non fossi finito in questo negozio di città e se lei non avesse quella bocca larga che si ritrova, allora magari tutto questo non sarebbe successo.
Allora magari avrei liquidato i miei sogni infantili come, beh, sogni infantili.
Avrei continuato a vivere la mia vita noiosa, ma che in fondo mi stava anche bene.
Avrei  magari un giorno trovato qualcuno disposto a sposarmi, avere dei figli, a vivere con me i suoi ultimi giorni su una veranda davanti a qualche campagna del sud.
E invece no, con uno schiaffo, neanche troppo metaforico, sono finito in un mondo impazzito, che è sempre il mio anche se completamente diverso da come lo avevo immaginato, accerchiato da esseri che fino a poco tempo fa popolavano solo i miei film dell’orrore preferiti, a scoprire un sacco di cose che, col senno di poi, avrei volentieri ignorato.
 
Piacere, sono Daniel Noah Thompson e qui comincia l’incubo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Inizio subito col dirvi che i personaggi della saga in questa storia ci saranno tutti, ma proprio tuttituttitutti (beh, più o meno, s’intende…) lo stesso Daniel è un personaggio della saga in un certo senso, beh, più o meno, più meno che più… comunque non dilunghiamoci…
Chi sarà? Il cugino perduto di Taha Aki? Il figlio di Aro resuscitato? Il giovane e scapestrato gemello cattivo di Edward trasferitosi in Islanda perché nessuno se lo filava?
Potrebbe essere, ma la domanda giusta è: credete davvero che potrei anticiparvelo adesso?
Eh no, miei cari, vi toccherà spupazzarvi tutti i miei vaneggiamenti e le lagne di Daniel (che sono più o meno la stessa cosa, in realtà…), che si intensificheranno man mano che si andrà avanti, giàgià…
Per quanto riguarda lo stile, come vi sembra? L’ho già sperimentato altre volte, ma resto sempre un po’ in dubbio…
Comunque, visto che ancora una volta sono riuscita a dilungarmi, mi sa che adesso è meglio che vi saluti, che le note lunghe non piacciono.
Con la speranza di un commentuccio,
Aout
P.S. Il primo capitolo arriva tra una settimana di sicuro, magari anche meno ;)

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Capitolo 2
*** Perché era destino ***


Capitolo 1
Perché era destino

 
 


- Dan, puoi prendermi “Deep Purple”, per favore – Brian era al bancone, mentre io, ultimo arrivato e quindi ufficialmente facchino tuttofare, ero nel retrobottega, a sistemare alcuni degli ultimi scatoloni appena arrivati.
- Scusa, ma non ho capito, cos'è che vuoi? -
- "Deep Purple", per favore, non facciamo aspettare i clienti – disse sorridente rivolto a un uomo calvo davanti a lui che mostrava già evidenti i segni di un probabile attacco isterico.
- Ehm... -
Perché, perché proprio un negozio di musica mi ero andato a scegliere? Un conto era saper fare un caffè in un bar, un conto era conoscere a memoria tutta la discografia dell’ultimo cantante country texano che fa musica dagli anni ’20 e solo quattro persone comprano i suoi CD, giusto quei quattro che l’anima, la vengono a rompere a me.
- “Deep Purple” Dan, il terzo album dei, indovina?, Deep Purple. Corridoio a sinistra, ultimo scaffale a destra, in alto. – disse Brian rivolto verso di me, che intanto ero arrivato al bancone, alzando elegantemente un sopracciglio.
Cavoli, a questa avrei potuto arrivarci persino io.
-Sì, arrivo subito. – esalai, già stanco di una giornata di lavoro che era appena cominciata.
Mi avviai velocemente, mentre sentivo Brian ululare un "intanto vuole altro, signore?" al cliente, come dire che ci avrei messo minimo vent'anni a compiere la rischiosa missione.
Che odio.
Ero appena arrivato allo scaffale e stavo tentando di recuperare il CD, ovviamente al di fuori della mia portata.
Ero arrivato e, giuro, ero a tanto così dal prenderlo, quando accadde.
 
Una donna blu, una casa in mattoni e un paio di occhi.
 
Li vidi davanti al mio sguardo, come flash di una macchina fotografica, in rapida successione: una donna blu, una casa in mattoni, un paio di occhi.
Occhi rossi.
A quel punto ero già caduto per terra, con la schiena appoggiata allo scaffale dietro di me e le mani nei capelli.
- Oh, caspita! Si sente bene, signore? - una ragazzina mi si era avvicinata e mi guardava allarmata.
Avrei tanto voluto rispondere di sì, che era tutto ok e non c'era da preoccuparsi, ma in quel momento non riuscivo nemmeno a trovarle, le mie corde vocali. Ero lì, seduto molto poco elegantemente per terra, impegnato a ritrovare il respiro e con la testa che girava e girava.
- Dan, Dan che hai? - a posto, era arrivato anche lui, Brian "sottuttoio".
- Niente, tutto ok, un piccolo mancamento. - fortuna che almeno la parola l'avevo ritrovata.
Come un animale azzoppato, mi alzai piano, da solo ovviamente, dato che sembravano tutti troppo occupati a fissarmi ad occhi sbarrati.
- Ma cosa...-
- Senti Brian, posso prendermi il resto del pomeriggio libero?- non lo lasciai nemmeno finire di parlare, avevo fretta.
Lui mi guardò, perplesso e ancora con quello stramaledettissimo sopracciglio alzato.
Non c'erano pomeriggi liberi per i nuovi assunti, e questo lo sapevo perfettamente, l'avevo accettato come condizione per quel nuovo lavoro, più una paga misera ed un collega scostante. Ma, che cavolo, ero quasi svenuto sul pavimento, me la meritavo pure qualche ora di riposo, no?
- Io... sì, sì vai e riposati, ci vediamo domani. -
Crudelio Demon che mi concedeva una cosa del genere?
Meglio filarsela, e in fretta, prima che cambiasse idea.
Annuii, quasi commosso dalla sua gentilezza, e, dopo aver deposto sull'appendiabiti nel retrobottega la mia divisa, o meglio la mia squallida giacca gialla e nera che pretendeva di essere una divisa, presi il cappotto e uscii in strada.
 
La prima cosa che feci fu fermarmi alla gelateria di fronte: "Bunny's Time".
Sembra strano che, dopo una cosa del genere, uno si fermi in gelateria, ma era quello che facevo sempre da piccolo, quando qualcosa mi preoccupava, e purtroppo l'abitudine è rimasta.
Forse non era troppo salutare, come abitudine, ma costituiva comunque un buon sedativo per l'ansia. E considerando che i ragazzi della mia età raggiungevano lo stesso effetto friggendosi il cervello con droga o alcool, mi consideravo piuttosto fortunato.
Entrai e comprai un cono piccolo al cioccolato e alla menta, i miei gusti preferiti da quando avevo capito per la prima volta cosa fosse un gelato.
Uscii pochi secondi dopo, lasciando una mancia piuttosto alta dato che non avevo avuto il tempo di calcolare le percentuali, come ero solito fare. Sperai vagamente che il negoziante non si aspettasse un trattamento del genere ogni volta, dato che, vista la piega che stavano prendendo le cose, sarei andato lì molto spesso.
Con in una mano il gelato, ormai quasi finito, e nell'altra le chiavi, mi avviai verso il mio scooter, parcheggiato pochi metri più in là.
Il mio scooter, e di scooter parlo, non di moto, non credo meriti questo nome, era fermo tra una bicicletta rosa con un cestino della stessa tonalità e una motocicletta argentata,
probabilmente dello stesso modello di quella di Ghost Rider.
Quando misi le chiavi nel quadro, stavo silenziosamente pregando perché partisse senza fare troppo rumore.
Dopo i primi sei tentativi andati a vuoto gli stavo energicamente inveendo contro nella vana speranza che almeno almeno mi concedesse la grazia di partire.
Solo al dodicesimo, e dico dodicesimo, tentativo, fui accontentato.
Con una bella zaffata di fumo, qualcosa che mio padre, ecologista fino al midollo, non mi avrebbe mai perdonato, finalmente partii verso l’alloggio.
 
Erano passati quindici minuti esatti e solo allora, sdraiato sul mio durissimo letto a doghe, cercando di ignorare la musica assordante della camera fianco che mi stava martellando il cervello, potevo concedermi di pensare a quello che era successo.
Calmati, Dan, respira...
Calmarmi? Col cavolo che potevo calmarmi! Le allucinazioni erano tornate ed io, io ero più che giustificato a disperarmi!
Ma non è detto…
Ah no, stupida piccola vocina interiore? Che avesse almeno la grazia di spiegarmelo lei allora cosa stesse succedendo!
Ma no, no era vero, dovevo calmarmi e ragionare un secondo.
Quando era successo l’ultima volta? Erano passati almeno almeno otto o nove anni, di sicuro.
Ecco, otto o nove anni di illusioni, evaporati così, in un secondo.
Fra l'altro, manco avessi visto qualcosa di particolarmente chiaro: una donna blu, e già qui c’era da preoccuparsi, una casa in mattoni, chissà dove e chissà quando soprattutto, e poi, dulcis in fundo, un bel paio di occhi, rossi giusto per non farsi mancare niente.
Presi la bottiglietta d'acqua al mio fianco e bevvi un sorso, cercando ancora una volta di ritrovare quella calma che sembrava avermi definitivamente abbandonato.
Da piccolo vedevo cose piuttosto stupide: sapevo che quel giorno avrebbe piovuto, che l’anta dell’armadio si sarebbe rotta, che il regalo per natale sarebbe stato il tanto desiderato aeroplanino telecomandato. Erano cose semplici, facilmente ignorabili, che mi avevano solo fatto eleggere a piccolo genietto di casa, nulla più.
Il guaio, quello vero, c'era stato il giorno prima del mio decimo compleanno.
Quella mattina, e me lo ricordo perfettamente, certe cose sono difficili da dimenticare, chiesi a mio zio se, per favore, evitava di andare alla stadio quel giorno che, io lo sapevo, ci sarebbe stato un piccolo incendio e nella calca qualcuno si sarebbe pure fatto male.
Ecco, a quel punto il mondo era crollato.
Perché l’incendio c’era stato, io l’avevo previsto, e mio zio, credendo le mie semplici e sciocche fantasie di un bambino semplice e sciocco, era pure tornato a casa con qualche contusione e un occhio nero.
Capite da soli cosa accadde dopo o devo anche stare a spiegarvelo?
Seguirono tante domande a cui io, ragazzino ingenuo, non sapevo rispondere e pure una bella strigliata che di certo non meritavo. Sapete una cosa? Fui persino costretto a seguire una terapia con uno psicologo infantile che passò le prime sei ore a convincermi che avevo semplicemente una fervida fantasia e che quella era stata una coincidenza, le altre sei a darmi le caramelle perché mi ero lasciato convincere.
Ma quelle non erano mai state fantasie e forse in fondo lo avevo sempre saputo. Anche in quel momento, seduto sul letto con la bottiglietta d’acqua in mano, io sapevo che quella non era stata un’allucinazione, ma una visione del futuro. Il problema era che ammetterlo significava anche mettere in discussione tutte le paturnie mentali che mi avevano perseguitato negli anni, e pure un discutibile numero di leggi fisiche, quelle che tanto mi piaceva studiare.
Perché proprio adesso, poi? Quando avevo deciso che no, una cosa del genere non sarebbe mai più dovuta succedere, allora erano semplicemente scomparse, senza tornare più a infastidire quella che già mi si prospettava come un'adolescenza difficile.
O almeno fino a quel punto. Ma adesso, eccole di nuovo: una donna blu, una casa in mattoni e un paio di occhi rossi.
Ecco cosa mi spaventava tanto, gli occhi rossi, rossi come le fiamme dell’inferno, che mi fissavano, che mi volevano. Quel particolare, che improvvisamente mi tornò in mente, mi fece rabbrividire.
Che cosa volevano da me?
La prima cosa che feci, e per favore non giudicatemi, allora vivevo ancora nella mia felice ignoranza, fu chiedermi quando mai avessi potuto fare del male ad un coniglio bianco, l’unica cosa con gli occhi rossi che al momento mi veniva in mente…

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Capitolo 3
*** Perché dei sogni non c'è da fidarsi ***


Capitolo 2
Perché dei sogni non c’è da fidarsi 

 
 


Un corridoio buio dalle pareti in pietra.
Sul pavimento lucido scivola aggraziata una figura minuta, il bordo del mantello scuro sulle sue spalle le sfiora leggero le caviglie.
- Jane
Una voce sulla sinistra la chiama, lei si ferma.
- In missione, dunque?
Dalla penombra emerge una seconda figura, esile come la prima ma appena più alta.
- Infatti.
La voce, benché chiara e bellissima al pari dell’altra, sembra irritata.
- Qualcosa non va, sorella?
 

- Dan…

 
La seconda figura le si avvicina, si sposta così velocemente che il movimento è impercettibile. Fa per sfiorarla, ma lei si ritrae.
- Nulla, Alec. – esita per un attimo, ma sono un secondo – Dopo tutto questo tempo ci voleva un po’ di movimento. – poi, il tono si fa più sereno.
- Sì… - risponde, titubante e chiede: - Qual è la meta?
- Nord America.
 

- Daniel, svegliati…

 
- Non vorrai dirmi che… ? – il tono adesso è sorpreso.
- No, no tutt’altro. – lo rassicura – Scusami, ma ora devo andare, bisogna recuperare Felix e Demetri.
La prima figura fa per andarsene, ma l’altra, con un altro movimento fulmineo, la ferma, poggiandole una mano sulla spalla.
- Me ne parlerai, al ritorno?
Non c’è risposta. I due si guardano negli occhi.
Occhi rossi. 
 
 
- DANIEL!
- AAAH!
- AAAH! – Andrew  fece un passo indietro, con il libro di algebra davanti a sé, come a volersi proteggere da qualcosa. Da me? – SI PUÒ SAPERE PERCHÈ URLI?
- Che succede?
- Come “che succede”?! Succede che sono le otto passate ed io, da buono, anzi, ottimo compagno di stanza, stavo cercando di svegliarti dal tuo letargo,quando tu mi hai urlato contro!
- Svegliarmi? Stavo dormendo… - un sogno. Un semplice, stupido sogno idiota.
Che sollievo! Anche se, a rigor di logica, forse sarebbe stato meglio definirlo incubo…
- Ma sei scemo? – Andrew mi guardò da sopra i suoi occhiali cerchiati di corno con un’espressione perplessa – Domanda stupida, chiedo venia. Su, vedi di muoverti che altrimenti arrivi tardi a lezione.
-Aspetta… sono le otto? Vuoi dirmi che è mattino?
Andrew, che chiaramente si stava chiedendo se non fossi improvvisamente uscito di testa, mi rivolse un altro sguardo perplesso.
- Appena torni in te dimmelo, ok? Io intanto vado, non voglio arrivare in ritardo. – e, detto questo, uscì dalla stanza.
Confuso, buttai l’occhio verso la sveglia, appoggiata sul comodino vicino al letto.
Lo schermo a led segnava le 8. 10  a.m.
Avevo veramente dormito tutto quel tempo? Tutto il pomeriggio e tutta la notte? Ma cosa mi stava succedendo?
Erano le otto e dieci…
Un momento, le otto e dieci?! Alla faccia del ritardo!
Con tutta la rapidità di cui fui capace, non troppa insomma, mi precipitai giù dal letto, cosa che mi provocò un fortissimo giramento di testa, e mi diressi spedito verso il bagno andando a sbattere l’alluce contro lo stipite in legno del comodino.
Bene, poteva andare peggio?
Sette minuti dopo, dolorante e assonnato, stavo già scendendo le scale a tutto spiano.
Quindici minuti ed ero già seduto al mio posto nell’aula B del Complesso Est, di fianco ad un Andrew particolarmente impegnato a ignorarmi, e dall’altra parte a Nicole, che mi stava raccontando di un qualcuno che aveva fatto qualcosa a qualcun altro, o qualcosa del genere. Ero appena arrivato e stavo ancora tentando di riprendere fiato per prestare attenzione a cosa stesse dicendo.
Il fatto che non mi limitassi nemmeno ai miei soliti “Mmh”, “Ah ah”, “Ahm”, dovette insospettirla non poco.
- Stai bene, Dan? Mi sembri pallido, più del solito se non altro... Ma, ti sei pettinato? - disse infatti ad un certo punto, spostando una ciocca dei capelli scuri, che mi pendolava davanti allo sguardo.
- Ssh, per favore Nicole, sto ascoltando.
La sua espressione mi diceva chiaramente che quella era la risposta sbagliata.
Osservai i suoi minacciosi occhi cerulei… avrei avuto la forza di sopportare il suo interrogatorio? Al momento non ne ero del tutto certo.
- Si può sapere cosa…?
- Signorina Morrison, se la lezione non le interessa, la pregherei di lasciare l’aula, almeno per dare la possibilità, a chi dei suoi compagni è qui per ampliare la propria conoscenza, di ascoltare. – disse il Professor Brown, fino a qualche attimo prima impegnato nel suo solito, noiosissimo discorso di inizio semestre.
Per un qualche motivo oscuro al genere umano, quel giorno sembrava uscito dallo stato di trance che lo accompagnava di solito. E aveva sgridato Nicole.
Se non fosse stata irrimediabilmente tragica, la situazione sarebbe stata oltremodo divertente. Peccato però che, appunto, poi Nicole avrei dovuto sorbirmela io.
- Chiedo scusa di averla interrotta professore, non accadrà più. La prego, continui. – il tono pacato con cui rispose non nascose il rossore sulle guance, le narici dilatate e le sopracciglia aggrottate. Se avesse potuto, forse avrebbe ruggito.
Essere ripresa come una scolaretta… e indovinate un po’ su chi si sarebbe sfogata poi?  
Deglutii, pronto al peggio. Che sarebbe arrivato, di sicuro, lo dimostrava lo sguardo rabbioso che mi stava rivolgendo in quel momento.
Fantastico, era anche colpa mia adesso… beh, buono a sapersi.
Dovevo trovare una scusa, in fretta.
Già, peccato però che un certocorridoio buio continuasse a tornarmi in mente. Un corridoio e due figure inquietanti con, indovina indovinello, pure gli occhi rossi! Che, tra parentesi, non erano quelli di un coniglio… ma si può sapere perché ce l’avevo tanto con gli occhi rossi ultimamente?
Ma era stato soltanto un sogno, no?
Magari pure quello che mi sembrava successo ieri non era mai realmente accaduto.
Ma certo, probabilmente ero solo stanco! Stanco? Macché, sicuramente avevo la febbre, ecco perché poi avevo dormito tutto quel tempo!
Mmh, riuscivo a prendermi in giro in modo meraviglioso, dovevo ammetterlo.
Quando finì la lezione mi ero quasi convinto, peccato però che mi fossi completamente dimenticato di trovare una soluzione valida.
Cavolo!
Ero a un palmo dalla porta quando sentii Nicole afferrarmi il braccio.
- Non mi sembra che tu abbia altre lezioni per adesso, mi sbaglio? – disse con il tono più falsamente ingenuo che avessi mai sentito.
- In realtà Andrew voleva qualche ripetizione di trigonometria. Vero, Andrew? – mentii spudoratamente, cercando tra le teste che stavano uscendo dall’aula, i capelli biondi del mio compagno di stanza.
- Ma davvero? Strano allora che sia sgattaiolato via così velocemente, non trovi? -
La guardai con lo sguardo più innocente che riuscii a fare. Incredibile quanto le mie capacità di recitazione crollassero di fronte a lei.
- Vieni, sediamoci nel parco. – disse, trascinandomi di peso fuori dall’edificio.
 
Ci fermammo pochi minuti dopo e, in men che non si dica, mi ritrovai seduto su una fredda panchina in pietra davanti a uno sguardo severo e indagatore.
- Hai due possibilità, Daniel-San: dirmi subito cosa ti succede o aspettare che io ti abbia portato al limite della sopportazione e dirmelo comunque. Cosa decidi? – eccola lì, ancora a fissarmi con quegli irritanti occhi azzurri.
Ma come diamine riusciva ad essere così intuitiva?
Fosse stata una qualunque altra persona al mondo l’avrei già mandata a quel paese in duecento modi diversi, qualcuno magari anche vagamente sottile e spietato.
Ma lei era Nicole. Quella che mi aveva indicato l’aula di matematica la prima volta che avevo messo piede al campus. Quella che aveva abilmente insultato davanti a tutti una certa ragazza bionda. Quella che, per quanto potesse sembrare strano per un ragazzo e una ragazza della nostra età, era l’amica più sincera che avevo.
E non potevo mandarla a quel paese. O almeno non quando si stava preoccupando per me in modo così evidente.
Ma dirle la verità… quello era sicuramente fuori discussione.
Perciò, che inventarsi?
- Dunque…
- È ancora per quella stronza, vero?- non mi lasciò nemmeno finire di parlare – È così?
La risposta che mi veniva in mente al momento era “chi?”.
Poi però capii.
- Non avresti dovuto cambiare lavoro. A chi vuoi che importi di gente come quella? Sai che i professori stanno tentando di convincerla a cambiare college, no? E ci credo, è stupida come una mucca, con tutto il rispetto per le mucche! E se non andrà via lei, figurarsi, la sbatteranno fuori loro, te lo dico io! Credi che le Kappa-delta-alfa-comesichiamano, la accetteranno ancora nella loro confraternita con quei voti che si ritrova?
- Nicole…
- E chi se ne frega se suo padre, “Mister Cardiochirurgo” dell’anno, non è d’accordo! Conoscessero lei, scommetto che i suoi pazienti, col cavolo che andrebbero da lui! È come se…
- Nicole! Datti una calmata.– finalmente ero riuscito ad arginare quel fiume di parole, quasi non ci speravo più. – Non è come credi. Come potrebbe importarmi? Lo sai che il lavoro l’ho cambiato perché è stato il proprietario a sbattermi fuori, quindi, per favore, piantala di preoccuparti.
- Ma…– disse abbassando il capo e prendendo un respiro – Non me la racconti giusta, Daniel-San. Allora, che hai?
- Mi sono svegliato tardi, Nicole, solo questo. – dissi, ostentando un sospiro di impazienza, anche se forse era più di sollievo - Stanotte ho dormito troppo e ho fatto pure un sogno strano. Non me lo ricordo, ma non doveva essere niente di bello. – risposi alla sua espressione perplessa. Una mezza verità è sempre meglio di una bugia intera, no? Ed è pure più credibile, ammettiamolo. – Dovresti smetterla di farti tutti questi viaggi mentali, sul serio, alla tua piccola testolina non fanno per niente bene. – la ammonii, toccandole la fronte con un dito e sorridendo.
- Mmh – disse, scrutandomi ancora. – Se lo dici tu…
- Facciamo così Sherlock, - la interruppi - ti offro un buon cappuccino se abbandoni l’argomento, contenta? Sempre che io abbia superato l’interrogatorio, ovviamente…
- Sì, certo andiamo. – disse scoccandomi un’altra occhiata sospettosa – Però, da gentiluomo, dovresti almeno almeno offrirmi anche un muffin…
- Muoviti va, sfruttatrice.
 
Mentre camminavamo il mio pensiero si soffermò ancora una volta sul sogno. Un sogno!
Come potevo preoccuparmi tanto per un innocuo stupido sogno?
No, sarebbe andato tutto bene.
Esseri con gli occhi rossi, donne blu, visioni del futuro, ma come avevo potuto credere anche solo per un attimo che cose del genere potessero veramente esistere?
Fortuna che Nicole mi aveva riportato con i piedi per terra. Il problema era Barbie? E sai che problema, nella vita c’erano cose di gran lunga più importanti di cui preoccuparsi!
Buttai un attimo l’occhio alla mia destra dove una sgarbata ragazzina dai capelli scuri e gli occhi azzurri camminava a passo spedito.
Beh, forse la nostra non era proprio una storia d’amore alla Jane Austen, constatai, ma non avrei scambiato la nostra amicizia per nulla al mondo, per quanto questa affermazione possa sembrare stucchevole.
E lo è, stucchevole intendo, ma ero in uno di quei rari momenti felici che mi capitano una volta ogni mille anni ed evitai di guastarlo con una considerazione del genere.
Sì, sarebbe andato tutto bene.
 
Jane.
Un momento, dove avevo già sentito quel nome?
 
 
 




 
 
Note: Allora, come vi sembra fin qui? Sto ancora delineando un po’ i protagonisti della storia, perciò l’azione sembra tardare un po’ ad arrivare. Ma arriverà, non disperate, dovete solo avere un po’ di pazienza…
Non ho molto da dire (o meglio ce l’avrei, ma non voglio annoiarvi più del dovuto), perciò preferisco salutarvi qui.
Spero solo che il capitolo, più lungo dei miei standard, non vi risulti noioso.
Alla prossima,
Aout

PS. Daniel-San --> Karate Kid

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Capitolo 4
*** Perché sbraitare è perfettamente inutile ***


Capitolo 3
Perché sbraitare è perfettamente inutile





“Se il valore della derivata prima della funzione è minore di 0 e maggiore di 1, la funzione è strettamente crescente nell’intervallo considerato. Se invece la funzione F di X è compresa, per valori interni, tra 0 e 1…

Una strada stretta. Piove e c’è un forte vento. Un uomo con un cane al guinzaglio, cerca riparo sotto una vicina tettoia, mentre una donna, in lontananza, tenta di aggiustare il suo ombrello, divelto dal vento.

No, Daniel concentrati. Coraggio.
Cosa stavamo dicendo? Sì giusto, se invece la funzione F di X è compresa, per valori interni, tra 0 e 1, con 0 e 1 non necessariamente appartenenti all’intervallo considerato, allora la funzione è strettamente decrescente. Se infine la derivata della funzione risulta nulla nel punto preso in esame, tale punto si definisce come…

La scena si fa più veloce, le immagini non sono chiare. Un muro, una vetrata, una cappello verde e una sciarpa rossa. E ancora i contorni si confondono, presa da un vortice la scena cambia di nuovo.
Delle figure minacciose strisciano sull’asfalto. Mentre avanzano le loro ombre si distendono in modo innaturale sulle pareti in mattoni. Non si fermano.
Ancora un passo e il loro volto sta per mostrarsi, solo un ultimo, piccolo passo…

- Adesso basta! – con un grido esasperato piantai i pugni sulla scrivania e mi alzai di scatto.
Fortuna che almeno ero in camera mia, completamente solo, non in un luogo pubblico dove di certo un comportamento del genere sarebbe stato poco apprezzato.
Forse avrei dovuto anche preoccuparmi degli altri abitanti del dormitorio, quelli al di là del sottile cartongesso alle mie spalle, ma lo avrei fatto in seguito, in quel momento dovevo pensare ad altro. E disgraziatamente quell’ “altro” non era affatto il teorema di matematica che tentavo invano di ripetere ormai da svariati minuti e che continuava perennemente a sfuggirmi.
Camminavo avanti e indietro in preda a una sorta di folle delirio che non sapevo se ricondurre alla rabbia, alla paura o semplicemente all’ansia.
Erano ore che le cose andavano avanti così. Riuscivo a studiare due righe e poi, quando finalmente mi convincevo che la tortura dovesse essere finita, ecco che tutto ricominciava.
Era passata una settimana, dico io, un’ intera settimana da quando quelle… quelle “cose” erano ricomparse per la prima volta, per quale diamine di ragione non se ne andavano? Perché non mi lasciavano in pace come avevano fatto negli ultimi dieci anni?
E invece no, loro puntualmente ricomparivano. Sempre più di frequente sbucavano fuori dalla mia testa, incontrollabili, balenavano davanti ai miei occhi, oscurandomi la vista e tutti gli altri sensi.
Ormai dovevano aver deciso che evidentemente rovinare le mie dolci ore di sonno non fosse più abbastanza e allora erano venute a tormentarmi anche di giorno!
In un attimo finivo di nuovo lì, su quella strada sotto la pioggia, senza che potessi fare nulla per impedirlo. Sempre la solita strada, il solito tipo con il cane, la donna con l’ombrello, i muri, la sciarpa e poi… poi c’erano loro, ovviamente, quelle figure incappucciate e minacciose che scivolavano come serpenti sull’asfalto scuro…
DRIIN!
Lo squillo del telefono mi fece saltare. Sentivo il cuore che batteva all’impazzata e avevo il fiatone. Possibile che fossi veramente così spaventato?
DRIIN!
Al secondo, dannatissimo squillo risposi, più per far tacere la suoneria che per altro.
- Pronto? – dissi, piuttosto aggressivo.
- Daniel? Daniel sei tu? - aveva risposto una voce maschile, al momento non la riconobbi.
- Sì… chi è?
- Brian! Si può sapere dove diamine sei? Lo sai che ore sono?
Porca di quella… era sabato! E cosa facevo io il sabato al posto di andare a far festa come tutto il resto dei miei compagni?
- Cazz… scusami Brian, arrivo subito, mi ero…
- Dimenticato per caso? Oggi era il giorno dei nuovi arrivi, quindi vedi di muovere subito il tuo dannato posteriore e forse non ti farò licenziare!
Se fosse stato possibile quelle minacce a vuoto mi avrebbero fatto arrabbiare ancora di più. Ci mancava giusto lui da aggiungere al quadretto felice della mia giornata!
Gli sbattei il telefono in faccia perché ero abbastanza sicuro che non sarei riuscito a trattenermi dall’insultarlo. E in quel caso allora forse sì, che un nuovo lavoro avrei dovuto cercarlo sul serio…
Abbandonai il libro di matematica lì dov’era, Andrew si sarebbe dovuto sbrigare da solo a mettere a posto la sua stupida scrivania sempre così maledettamente ordinata.
Presi il portafoglio e il cellulare e uscii in quella fredda e fastidiosa aria autunnale.
Raggiunto lo scooter mi venne la nausea a pensare al tempo che ci sarebbe voluto per accenderlo, tuttavia lui, cosa mai accaduta a memoria d’uomo, mi sorprese e partì immediatamente.
Arrivai poco dopo e, una volta entrato, tirai dritto, senza minimamente preoccuparmi di andare a salutare Brian. Se era così impaziente di prendersela con me, che almeno si prendesse lui la briga di venirmi a cercare.
Quando varcai la porta del retrobottega ero arrabbiato nero, quando vidi le decine di scatole che mi aspettavano per essere aperte e svuotate, cominciai a vederci rosso.
Non so esattamente quanti insulti tirai dietro a quegli innocenti involucri di cartone, ma nemmeno Brian, e dico tutto, volle venire a darmi la bella strigliata che mi aspettavo, limitandosi a ordinarmi, sì d’accordo forse non con il tono più dolce di questo mondo, di finire entro il mattino successivo, per poi uscire.
Rimanere lì fino a tardi non mi sembrava nemmeno poi così terribile, o almeno non come lo sarebbe stato la settimana precedente. In quel momento la prospettiva di allontanare la mente da cose come lo studio o il sonno mi pareva meravigliosa.

Come previsto ci vollero all’incirca tre ore per finire di svuotare le scatole.
Tre lunghissime ore spese a mettere in ordine alfabetico i CD nella giusta posizione su tutti quegli scaffali che, visto la piccola cittadina, avevo la netta sensazione non si sarebbero mai svuotati.
A quel punto, e per quanto mi riguarda era di certo un fatto eccezionale, ero euforico. E non solo perché finalmente ero riuscito a finire quel lavoro inutile e sfiancate, ma perché l’attività fisica mi aveva impegnato tanto che le visioni non erano più comparse, nemmeno una volta!
Che arrivassero più frequentemente quando la mia mente era concentrata su qualcosa?
Come scoperta era particolarmente piacevole. Pensai distrattamente che forse avrei dovuto darmi al fitness, alla boxe o al pilates, qualunque cosa fosse…
Con un ritrovato buonumore, un buonumore che non ricordavo nemmeno quando avessi provato per l’ultima volta, mi avviai verso l’uscita. Il pensiero che forse quella notte avrei dormito era davvero, davvero rassicurante.
Ci misi un attimo a chiudere la porta d’ingresso con le chiavi di servizio. Constatai che aveva appena cominciato a piovere ed io, uscito quasi in pigiama, non avevo nulla con cui coprirmi. Ma smisi subito di preoccuparmi di una cosa così futile e mi avviai verso lo scooter.
Ora, ripensandoci, quante probabilità c’erano state che alla partenza si fosse acceso al primo colpo?
Pochissime, praticamente nessuna. Eppure era successo.
D’accordo, ma allora quante ce n’erano che, proprio in quel momento, proprio quando la pioggia stava aumentando, mentre io ero sempre e comunque a capo scoperto, mentre un venticello che di leggero non aveva nulla cominciava ad alzarsi e le ombre della sera erano calate da un pezzo, decidesse alla fine di lasciarci le penne?
Beh, accadde anche questo.
Accadde ed io, come uno stupido sprovveduto, dopo aver tirato qualche maledizione a quel catorcio senza neanche troppa convinzione, decisi di farmela a piedi, almeno per il primo tratto.
Dopodiché, giunto in un bar, al caldo e possibilmente con una ciotola di noccioline in mano, molto probabilmente avrei chiamato/supplicato Nicole che, dopo qualche battutina sarcastica, varie e lamentevoli preghiere da parte mia e magari anche la promessa di improbabili futuri favori, mi sarebbe venuta a prendere con la sua Station Wagon per poi trascinarmi a qualche festa a base di adolescenti in crisi ormonale nei dintorni.
Poco male, avrei anche potuto sopportarlo per una volta. Ero così di buonumore, malgrado la dipartita del mio automezzo, che magari avrei anche potuto divertirmi. Beh, magari.
Ecco, solo il fatto che in quel momento fossi felice avrebbe dovuto farmi capire che qualcosa evidentemente non sarebbe andata nel modo giusto.
E infatti, non fu esattamente questo ciò che accadde.
E non accadde perché proprio in quel momento, in quello stramaledettissimo momento, sentii il mugolio di un cane impaurito e, con la coda dell’occhio, vidi una donna vestita con un cappello verde e una sciarpa rossa che inveiva contro il suo ombrello, appena ribaltato dal vento.
Inconsciamente, un brivido lento e raggelante cominciò a salirmi su per la schiena.
Finché, ad un certo punto, non la vidi.
Nella vetrina di un negozio di antiquariato, a cui stavo passando davanti proprio in quel momento, era appesa l’insegna anni ’80 di quello che doveva essere una specie di bar. Ritraeva un profilo femminile, illuminato con una forte luce al neon azzurra, immerso in un bicchiere da cocktail dorato.
Una donna blu.
Che stupido ero stato! E cieco, soprattutto! Possibile che fossi così arrugginito nel guardare le mie visioni da aver completamente frainteso?
Mi girai, praticamente soprappensiero, ancora non in grado di realizzare cosa stesse realmente accadendo, e allora vidi anche quella casa.
Una casa in mattoni.
Era proprio davanti al mio sguardo, dall’altra parte della strada, perfettamente normale, qualcosa che si può osservare ogni giorno in ogni parte del mondo, totalmente ed inesorabilmente anonima. Ma non per me.
Appena capii, e vi assicuro che mi ci volle un po’, mi lasciai cadere sul marciapiede, ormai completamente fradicio di pioggia e con lo sguardo inebetito fisso in avanti.
Perché io lo sapevo, ci avevo messo del tempo, ma alla fine perfino io ci ero arrivato. Perché alla mia visione mancava solo una cosa.
Degli occhi rossi.






Note: Solo una cosa: NON badate alle mie speculazioni di matematica, d’accordo? Diciamo che io e lei abbiamo un rapporto piuttosto complicato, ecco, solo questo.
Vi saluto ora, alla prossima (con un nuovo e fondamentale tassello, giàgià),
Aout

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Capitolo 5
*** Flashback ***


Capitolo 4
Flashback
 

 

16 Agosto 1994, Stato del Mississipi, contea di Harrison

 
 
 
Faceva moltissimo caldo quel giorno.
Nel cielo, coperto appena da una leggera coltre di nubi dopo la nottata di pioggia, splendeva il sole. La sua luce fastidiosa, che si rifletteva nel piccolo stagno del cortile le mandava, a ritmo con le onde create dal vento, bagliori accecanti negli occhi.
Si alzò e, stancamente, andò a tirare la tapparella verde della finestra dall’altra parte della stanza.
Guardò distrattamente l’orologio: erano le undici e quaranta. Fra poco sarebbero arrivati.
Con un sospiro si diresse verso la cucina dove, in pentola, bolliva ormai da ore la sua zuppa di pesce gatto, rinomatamene la più buona del quartiere.
Stava giusto per aggiungere un piccolo pizzico di zenzero, quell’ingrediente segreto che non avrebbe mai confessato a nessuno, nemmeno sotto tortura, quando suonarono alla porta.
Poggiò il cucchiaio di legno che aveva in mano sul tavolo ed andò ad aprire.
Un super agitatissimo Daniel la superò veloce, senza badarci troppo e si catapultò nella stanza alle sue spalle.
- Daniel, Daniel! Torna subito qui! – sbraitò sua figlia dalla soglia - Scusa, credo che lo zucchero delle merendine che ha mangiato non gli abbia fatto troppo bene. Quanto mai gliele hai comprate, Sean! Comunque, come stai? – Madison, piccola e slanciata come al solito, sfoggiava un nuovo taglio di capelli, che le ricadevano in ciocche scomposte lungo il viso in un rosso abbagliante. Portava due borse scure sotto le braccia ed era seguita a pochi passi dal marito.
- Sto bene grazie. Ma, cos’è questa novità? – disse, con tono innocente – Salve Sean. – aggiunse poi.
- Cosa...? Oh, intendi questi? – rispose la figlia mentre entrava, prendendo una ciocca di capelli tra le dita sottili – Nulla di che, diciamo che volevo cambiare.
- Diciamo che secondo Monsieur Qualcosà il rosso sarà il colore di lancio delle nuove sfilate parigine e che tu non ha saputo resistere all’occasione di seguire i suoi consigli. – disse Sean, in quel suo solito tono un po’ sussurrato che la prima volta che l’aveva incontrato le aveva fatto una bruttissima impressione, insieme ai pantaloni stracciati e alla camicia lunga da hippy. Fortuna che almeno adesso indossava qualcosa di accettabile, alla sua età doveva pur essere arrivato il tempo di imparare come vestirsi o quello in cui sua figlia si fosse stancata della moda anni ’70.
- Innanzitutto si chiama Monsieur Bellamy, in secondo luogo è il più importante coiffeur del Quartiere Latino e, infine, lui non centra proprio niente con i miei capelli! -  lo rimproverò Madison per poi dirigersi nell’altra stanza, a recuperare Daniel probabilmente.
Tornò poco dopo con il discoletto in braccio.
- Questa non è casa tua, Daniel. Ci siamo capiti? Non puoi semplicemente scorrazzare in giro, come ti pare! Adesso chiedi subito scusa alla nonna, forza.
Daniel, con il broncio e le piccole sopracciglia aggrottate la fissò dritto negli occhi e poi disse, con una vocina sottile sottile:
- Scusa nonna.
- Non importa piccolo. – rispose allora lei – Ma la prossima volta almeno salutami prima, d’accordo?
Il bambino rispose al sorriso che gli aveva rivolto e sulle sue piccole guance rosee apparvero subito delle fossette.
- Ciao nonna! Adesso posso tornare di là, però? -
- Va bene, vai. – gli rispose, ma il bambino era già corso via. Chissà cosa voleva vedere di così importante…
- Scusaci ancora. Non era mia intenzione portare tutta questa confusione. – disse allora sua figlia, con espressione colpevole.
- Oh, non ti preoccupare, Madison, ho avuto una figlia anch’io, ricordi? E ti assicuro che questo bambino non è niente in confronto. Non ha ancora bruciato nessun tappeto, giusto?
- Tappeto? – chiese Sean, ancora con espressione perplessa.
- Uhm, è successo tanto tempo fa. Avevo nove anni, continuerai a rimproverarmelo per quanto ancora? – rispose lei, dopo aver sollevato un poco le tapparelle – Comunque, hai bisogno di aiuto in cucina? Sai, io sono diventata davvero bravissima! Se vuoi posso darti una mano. – aggiunse poi, cambiando argomento.
- Sì certo! E poi, altro che tappeto! – sussurrò Sean.
Madison gli rispose con una linguaccia, molto poco adatta alla sua età, e si diresse nell’altra stanza. Lei la seguì dopo qualche minuto, dopo aver indicato al genero dove sistemare le loro valigie.
La trovò ai fornelli, era davanti alla pentola con in una mano un cucchiaio di legno e nell’altra una pericolosissima scatola di metallo.
- CHE FAI? – proruppe ansiosa, recuperando il barattolo dalle sue mani, evitando per un pelo il disastro.
- Volevo aggiungere un po’ di curry, ci starebbe una meraviglia con questa zuppa…
- Curry? Nella zuppa di pesce? Tesoro, lo sai che ti amo tanto, ma non è che potresti allontanarti da qui e cominciare a tagliare il pane? Per favore? – aggiunse in ultimo con uno sguardo supplichevole.
 La figlia le lanciò uno sguardo tagliente per poi sbottare un “Ah, voi altri! Non capite l’arte!” seguito da una risata cristallina.
Cynthia la osservò mentre prendeva il tagliere dal cassetto.
Era un vero peccato si fosse tinta i capelli, si ritrovò a pensare, così non le assomigliava più così tanto. Anche se, quel sorriso… beh, era davvero inconfondibile.
Ciò che la distrasse da quelle riflessioni fu il pigolio acuto del piccolo orologio a cucù del salotto.
- Caspita, già mezzogiorno… meglio che vada a preparare la tavola.
- Non ti preoccupare, me ne occupo io. Sai solo dirmi dove… - la interruppe Madison.
- Non ci pensare neanche! Credi che ti abbia adibito al taglio semplicemente per tenerti lontana dai fornelli? No no, ho proprio bisogno di quel pane, perciò, impegnati! – le disse, mentre già si avviava alla porta sul retro.
Era bello che, dopo tutto quel tempo che non si vedevano, sua figlia non le riservasse rancore. Che il loro rapporto fosse andato a posto, in ordine, come avrebbe sempre dovuto essere?
 
Stava recuperando la tovaglia dalle grucce in giardino dove l’aveva appesa appena qualche ora prima. Era la tovaglia bianca, quella che riservava solo per le occasioni migliori. E una riconciliazione come quella, e lo era benché nessuno sembrasse desideroso di farlo notare, era di certo il momento giusto per usarla.
Notò Daniel quando ormai era già sulla soglia.
Era seduto sui gradini del piccolo magazzino degli attrezzi in fondo al cortile, aveva in mano il suo Buzz, il pupazzo da cui non si separava mai, e guardava in alto. Lo sguardo era perso tra le nuvole bianche.
- Che stai facendo, piccolo? – gli chiese, avvicinandosi.
- Guardo il cielo.
- Ah sì e perché? – gli chiese ancora, sedendosi a fatica al suo fianco, con la tovaglia spiegazzata sulle ginocchia.
- Non sei arrabbiata con me, vero nonna? – le disse inaspettatamente lui, girato, fissandola con i suoi grandi occhi scuri.
- Tesoro, no. Perché mai dovrei essere arrabbiata con te? – rispose, poggiandogli una mano gentile sulle spalle.
Il bambino non le rispose e, vagamente assente, tornò a sollevare la testa.
- Daniel? - Cynthia era un po’ confusa in quel momento, il nipote era sempre stato un po’ criptico, fin da piccolissimo, ma proprio non riusciva a capire cosa gli fosse preso. Che c'entrasse il motivo per cui era sgattaiolato all’interno come una furia?
Il bambino rimase ancora in silenzio, indifferente e, solo dopo qualche secondo, alzò il ditino paffuto verso il cielo, dicendo solennemente:
- Fra poco apparirà lì.
- Cosa apparirà, tesoro? – inconsapevolmente la sua voce si era fatta più ansiosa.
Ma non c’era motivo di preoccuparsi, giusto? I bambini dicono tante di quelle cose insensate, pensino quelli intelligenti come il piccolo Daniel!
Ancora una volta lui si girò verso di lei e, sempre con il suo solito sguardo serio un po’ troppo adulto, le rispose, come fosse la cosa più ovvia del mondo, semplicemente:
- Ma l’arcobaleno.
Lei rimase un secondo interdetta.
- Ma, tesoro mio, – le disse con un tono dolce e decisamente sollevato - è piovuto da troppo tempo perché appaia l’arcobaleno.
Il bambino le rispose solo con una leggera alzata di spalle, per poi rivolgere di nuovo la sua attenzione alle nuvole.
Trascorsero qualche secondo, forse un paio di minuti, nel completo silenzio, ad osservare il cielo.
Poi improvvisamente Daniel proruppe:
- Eccolo eccolo! – mentre, ancora con quel ditino alzato, indicava una sottile striscia colorata che, appena visibile, stava per saltar fuori da una nuvola passeggera.
Lo sguardo di Daniel era così allegro, felice, speranzoso. Davvero troppo simile al suo perché potesse semplicemente ignorarlo.
- Come facevi a saperlo? – gli chiese roca. Qualcosa di incomprensibile sembrava averla presa. Si sentiva attanagliata dall’angoscia, dalla rabbia, dalla paura creata da quei ricordi che adesso fluivano incontrollabili nella sua mente, come un fiume in piena, senza che potesse fermarli – DIMMELO!
Ricordi di tempi che aveva dimenticato, ricordi troppo dolorosi per essere riportati indietro.
Inconsapevolmente aveva preso Daniel per le piccole spalle.
- Lo sapevo che ti saresti arrabbiata con me! – disse lui, tra le lacrime – Lo sapevo!
- Dimmi dove hai visto l’arcobaleno! DOVE?
No, non poteva stare succedendo, non di nuovo.
Quella paura, quel senso di perdita, la colpevolezza… Sì, ecco, il senso di colpa era la cosa che le faceva più male, quello che nelle notti più disperate riusciva perfino a svegliarla. E allora si ritrovava lì, seduta sul letto, completamente sola.
- Io… io l’ho visto e basta!
Adesso fissava gli occhi scuri del nipotino, a pochi centimetri di distanza. Così grandi, così sinceri, così innocenti… esattamente uguali ai suoi.
Lo lasciò andare giusto pochi secondi prima che arrivasse Madison.
- Che cosa sta succedendo?
Lei non rispose, guardava a terra.
- Daniel, Daniel! Su dai, non piangere. – disse lei, prendendo il figlio, sciolto in lacrime, in braccio. La squadrò per un attimo, poi esclamò: - Noi ce ne andiamo. –  senza mezzi giri di parole.
Fu come una pugnalata.
- Hai capito?
Le bastò alzare lo sguardo un attimo e incrociare i suoi occhi accusatori per sentire che qualcosa si era spezzato e forse questa volta per sempre.
 
Non fece niente. Rimase lì, nel prato, per ore intere.
Non li salutò, non ce n’era bisogno. Quali scuse avrebbero potuto giustificarla?
Solo quando ormai stava arrivando il tramonto ed il sole piano piano scendeva oltre l’orizzonte, si riscosse.
Rientrò in casa e la prima cosa che fece fu dirigersi verso la camera da letto. Aprì il primo cassetto del mobile di fianco alla finestra, un piccolo armadio in legno, rifinito da tante volute dipinte a mano in banco avorio. Dopo che ebbe buttato alcune scartoffie sul letto, senza prestarci troppa attenzione, si mise a cercare una piccola scatola in metallo che, chissà quanti anni prima, aveva riposto in quei cassetti.
L’aprì piano e prese, con delicatezza, la collana che conteneva.
Era un grosso medaglione argentato. Bastò sollevare la porticina sul davanti per scoprire ciò che nascondeva all’interno.
Un ritratto. Raffigurava due ragazzine, una di fianco all’altra.
Sulla sinistra, una sua versione molto più giovane dalle lunghe trecce chiare, le rivolgeva un sorriso sereno, mentre sulla destra un'altra ragazzina la fissava con due grandi occhi scuri, così malinconici e così terribilmente poco adatti a quel viso che, nei momenti in cui si riaffacciava incontrollabile alla sua mente, vedeva sempre allegro e vivace.
Con mano tremante lo accarezzò piano.
Era quello l’ultimo ricordo che le rimaneva, l’unica prova che lei fosse mai veramente esistita.
Quei bellissimi capelli neri… quante volte li aveva pettinati? Quante volte li aveva desiderati?
Era così bella sua sorella, così bella e impudente.
Ah, che rimane da fare se non soffrire, quando ormai il tempo per rimediare agli errori è finito e non c’è possibilità di tornare sui proprio passi?
Cynthia non aveva risposta.
 
 
 









 
Note: Sì, questo non era esattamente ciò che vi aspettavate. D’accordo, non era assolutamente ciò che vi aspettavate.
Ma, cercate di capirmi. Questo capitolo era terribilmente necessario, ed era terribilmente necessario fosse messo esattamente qui. Avevo bisogno di infarcire un po’ la trama e di darvi qualche indizio fondamentale. Però, tranquilli, vi assicuro che al prossimo capitolo ci saranno tutti le creature soprannaturali che volete, talmente tante che non saprete nemmeno più dove metterle e tornerà ovviamente anche il solito vecchio POV ironico di Daniel.
Perciò, vedete un po’ se riuscite a perdonarmi questo capitolo, molto lungo ma spero non troppo noioso…
Alla prossima,
Aout

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Capitolo 6
*** Perché scappare è perfettamente inutile ***


Capitolo 5
Perché scappare è perfettamente inutile

 
 
 
 
Qui troverete ancora qualche parolaccia qua e là, credo sia il modo più veritiero per esprimere tutta la frustrazione di un ragazzo del ventunesimo secolo…
Inoltre, sicuramente noterete anche come questo capitolo sia un po’ particolare, ma è (un bel “teoricamente” qui ce lo mettiamo) un effetto voluto, in quanto per rendere più efficace la narrazione dell’azione ho deciso di seguire il flusso dei pensieri di Daniel.
Ma vedrete da voi, per ora vi auguro semplicemente una buona lettura!

 
 
 
 Ero nel panico, nel panico più totale.
Da cosa lo capivo?
Dunque, innanzitutto c’erano le gambe: molli, tremanti e praticamente inutilizzabili.
Poi c’erano le mani, più o meno nella stessa situazione, appoggiate, anzi, aggrappate all’asfalto bagnato su cui mi ero lasciato cadere come un corpo morto poco prima.
Poi ancora c’era la vista, annebbiata da tutta quella pioggia che non la finiva più di cadere, ma più probabilmente anche da altro.
Mantelli e occhi rossi.
Mi balenavano davanti agli occhi, uno dietro l’altro, ancora e ancora.
Uno sguardo fugace all’asfalto davanti a me, poi ancora quelle figure cupe.
Uno stralcio dell’insegna del Caffè dall’altra parte della strada, e poi ancora quelle ombre.
Una rapidissima occhiata alla viuzza che stava giusto alla mia destra e poi ancora quelle tre stramaledettissime persone, persone?, che scivolavano aggraziate lungo una stretta strada asfaltata.
Quella stretta strada asfaltata.
Cazzo.
Quanti secondi erano passati? Pochi, pochissimi, eppure io ero già in piedi, più veloce di quanto mi sarei mai potuto aspettare. Ero lì, teso al massimo, a vagliare tutte le possibilità che mi restavano da scegliere, a riflettere su quale fosse la scappatoia, se mai esistesse, che mi avrebbe permesso di sfuggire a quell’incubo.
Avrei potuto, pensavo, correre verso il Caffè, giusto davanti a me, un posto molto facile da raggiungere. Che cosa mi diceva che quei cosi, no le persone gli occhi rossi proprio non li avevano, non mi avrebbero seguito anche all’interno? Beh, di quello avevo intenzione di preoccuparmi in seguito.
Stavo giusto movendo il primo passo in avanti, quando pensai che forse l’idea migliore sarebbe stata quella di darsela a gambe, punto e basta. Che non fossi un buon corridore era un’altra di quelle cose di cui al momento mi fregava poco.
Ma qualcosa lo dovevo fare per forza, sarebbe stato meglio tutto fuorché rimanere lì, immobile, tutto fuorché affrontare ciò che mi aspettava.
Fra l’altro, che cosa fosse esattamente “ciò che mi aspettava”, non lo sapevo. Che mai doveva succedere? Che cosa volevano quelli da me? E poi, ero veramente, veramente sicuro, al cento per cento, senza ombra di dubbio, che volessero me?
Deglutii. Disgraziatamente quella era l’unica cosa di cui fossi certo.
Per cui, in definitiva, dovevo muovermi, su questo io e me stesso eravamo piuttosto d’accordo.
Muovermi e non rimanere lì come uno stoccafisso cosa che, fra l’altro, proprio in quel momento stavo facendo!
Dannata la mia lentezza!
Quando li vidi, con la coda dell’occhio, capii immediatamente di essere fottuto, inequivocabilmente ed inesorabilmente fottuto.
Erano tre figure e stavano strisciando, anche se probabilmente non è giusta come definizione dato che parevano danzare sui rollerblade, proprio nella viuzza che gli avevo visto attraversare poco prima.
Cazzo, cazzo cazzo.
Non potevo nemmeno distinguerli bene a causa di tutta quella pioggia, solo quando si fermarono a una ventina di passi da me riuscii a vederli meglio. E “meglio” è un eufemismo dato che non riuscivo a capire nemmeno se fossero maschi o femmine, coperti com’erano da quei lunghissimi mantelli neri.
Non che il fatto fossero maschi o femmine avrebbe potuto o meno risollevarmi…
Sulla sinistra si stagliava, davanti a quel cielo scuro, la figura più alta e massiccia, così alta e così massiccia che pensai di mettermi in ginocchio e implorare pietà fin da subito, giusto per mettere immediatamente le cose in chiaro.
Sulla destra c’era invece una figura più slanciata, che avrebbe potuto perfino appartenere a una persona normale. E dico “avrebbe” perché quel modo di scivolare sull’asfalto poteva essere definito tutto fuorché normale.
A quella vista, ancora non mi ero messo a correre.
E ciò che me lo impediva non era affatto la paura paralizzante, che comunque c’era eccome, precisiamolo, quanto la considerazione che, se anche mi fossi mosso, comunque non sarei mai riuscito a sfuggirgli.
Tuttavia devo dire che contribuì in parte anche la figura centrale, che era, rispetto alle altre due piccola, piccolissima.
Un bambino? Pensai. E che male avrebbe mai potuto farmi un bambino?
Ecco, quello fu l’errore più grande: sperare, sperare che alla fine una possibile uscita dall’incubo ci fosse.
Ecco, sperare fu come tirarsi da solo la prima di tante, successive coltellate.
 
Solo dopo qualche secondo, durante il quale ci osservammo reciprocamente in silenzio, mi resi conto che forse sarebbe stato meglio ricominciare a respirare, giusto per non stramazzare a terra fin da subito
- Daniel Thompson?
Era stata la figura slanciata a parlare.
Non so esattamente per quale motivo, ma una piccola particina del mio cervello, quella che in quel momento non era evidentemente occupata a tenere tesi i nervi pronti allo scatto, registrò che quella voce, quasi sicuramente di un uomo, era una delle cose più belle che avessi mai sentito, quasi come un canto.
Avevo sprecato un intero secondo in quella considerazione idiota, un intero secondo lontano da quel lugubre paesaggio più che degno di un film dell’orrore, anche se magari di quart’ordine.
Solo dopo un po’ mi chiesi finalmente per quale motivo mi avesse chiesto il mio nome. Come faceva a conoscere il mio nome? E da quando i criminali/ mostri/ o qualunque altra cosa fossero, te ne chiedono conferma?
- Daniel Noah Thompson?
Ripeté ancora. Arrabbiato? Ansioso? Preoccupato?
Non avrei saputo dirlo.
Un secondo… preoccupato, forse di aver sbagliato persona?
- No. – Certo che quella sì, che era una risposta veramente stupida. Possibile che avesse mai potuto uscire dalla mia bocca? – No, non sono io.
Colosso si mise a ridere. O a grugnire, forse. Il grugnito più armonico che avessi mai sentito. Cavoli se mi faceva male lavorare in un negozio di musica…
Quello che vidi risplendere per un attimo sotto il cappuccio della figura slanciata fu invece un fugace sorriso. Un terrificante, inquietante fugace sorriso.
E poi mi fu davanti.
E quando dico “davanti”, intendo proprio davanti, il che era una cosa assolutamente impossibile considerando il fatto che neanche mezzo secondo prima era a venti passi da me.
L’unica cosa che potei fare a quel punto fu un inutile, leggerissimo passo indietro.
 
In quel momento, io e Sorriso-Malvagio, ci trovavamo sotto alla tettoia da cui, lo realizzai allora, in realtà non mi ero mai mosso.
- Non devi temerci, non abbiamo intenzione di farti alcun male. – disse lui, con una voce molto tranquilla, quasi mi stesse suggerendo una buona ricetta per i Brownies.
Non volevano farmi del male? Davvero? Oh, giusto, avevamo un appuntamento per il tè allora, ed io me l’ero completamente scordato? No perché, se era veramente così, che cominciassi almeno a mettere l’acqua sul fuoco…
Che pessimo sarcasmo,decisamente non degno di me, ma liberatorio almeno. Anche se, ovviamente, quelle battutine le pensai soltanto, non le dissi, non ero mica diventato scemo tutto d’un colpo.
Anzi ero lucido, lucidissimo e pure fottutamente terrorizzato, ribadiamolo, se non si era capito.
Il tizio, Sorriso-Malvagio, che evidentemente non attendeva alcuna risposta o segno di vita, decise improvvisamente di togliersi il cappuccio.
Lì, boccheggiai.
Perché lui era bellissimo, sul serio, ogni singolo essere senziente sulla terra l’avrebbe constato.
Veramente bellissimo, bellissimo e terribile allo stesso tempo.
Ma non fu la pelle bianca come l’avorio a terrorizzarmi, né i denti, affilati?, della stessa tonalità, appena scoperti da quel sorriso obliquo, benché le due cose contribuissero parecchio.
No, furono gli occhi. Occhi rossi come le fiamme, come il sangue, occhi perfino troppo rossi, come non ne avevo mai visti…
Un secondo… mai visti? Non erano quindi quelli della mia visione?
Non che la cosa importasse un gran che al momento, ben inteso, solo il fatto che fossero rossi significava che era finalmente giunto il momento di mettere in atto il mio magistrale piano di fuga.
Mossi un timido passo a sinistra, ma bastò una leggera occhiata scettica del  mio avversario per dissuadermi. Certo che ero veramente un coniglio però…
- Immagino sarai un po’ confuso…
Confuso? Chi, io? Ma figuriamoci, e perché mai dovrei essere confuso? Ci sono solo degli esseri spaventosi, dalla pelle diafana e dagli occhi rossi, che si muovo alla velocità della luce, cosa fra l’altro fisicamente impossibile, gli stessi di quelle allucinazioni che mi hanno tenuto sveglio e allarmato per tutta l’ultima settimana, che sono semplicemente venuti ad uccidermi. Confuso?
Ma se quella era una cosa così logica e normale!
D’accordo, con il sarcasmo dovevo proprio finirla. O gli rispondevo per le rime sul serio, o era meglio che si zittissero anche i miei pensieri.
- Demetri, muoviti. – disse una delle altre due figure, con un tono lento e particolarmente scocciato. Ipotizzai fosse la più piccola, vista la voce acuta, ma avrei anche potuto sbagliarmi. Oltretutto mi pareva perfino familiare...
 
Tuttavia Sorriso-Malvagio, che razza di nome era “Demetri”?, non si scompose e continuò.
- Daniel, – e dicendolo, sottolineò tutte quante le sillabe di quel nome, giusto per ribadire quanto fosse stato ridicolo il mio buffo tentativo di ingannarli, come non se non me ne rendessi conto perfettamente da solo, – so che ci hai visti arrivare, perciò preferiremmo rimandare i convenevoli a più tardi, se non ti dispiace, visto che già sai quanto basta.
No no, aspettate un attimo. Come io so? E che cosa esattamente dovrei sapere? Come fai a sapere tu, poi?
Le mie visioni… loro non… no, non poteva essere. Eppure… come potevano conoscerle?
Loro sapevano e addirittura le… sopravvalutavano?!
- Un uomo importante desidera conversare con te. – disse ancora, facendo un pericolosissimo passo in avanti – Ci ha chiesto di accompagnarti da lui.
Porca vacca, lurida e zoppa! Ed era un uomo normale o aveva anche lui la pelle bianca e gli occhi rossi?
Notai distrattamente che pure gli altri due, o almeno Colosso, che da solo riempiva buona parte del mio campo visivo, si stavano avvicinando.
Che mi rimaneva da fare?
-Scordatelo. – Ero veramente stato io a parlare? Io, quello che aveva iniziato a correre verso il Caffè?
Io, quello arrivato ad un palmo dalla porta?
 
Una corsa che durò appena qualche secondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Una piccola sopresina per voi, capitolo pubblicato in anticipo! Contenti? (balla di fieno trasportata dal vento…)
Comunque, ho deciso di farlo per due motivi: innanzitutto il capitolo era già pronto da un po’ e non vedevo l’ora che qualcuno mi dicesse cosa ne pensava (non sapete quanto mi sia divertita a scriverlo!) in secondo luogo, visto che il mio computer mi sta facendo degli scherzetti molto divertenti negli ultimi giorni, manco fosse il primo d’aprile, tipo cancellare pagine e pagine di fanfiction, per il puro piacere di farlo, addirittura mentre le sto scrivendo, ho preferito pubblicare, ci manca solo che perda pure questo (qui ci starebbe bene un bel “ancora”, ma questa è un’ altra storia…).
Perciò, eccovi i Volturi! Che ve ne pare?
(prometto che poi diverranno più malvagi di così, non disperate…)

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Capitolo 7
*** Perché trattare le cose razionalmente è perfettamente inutile ***


Capitolo 6
Perché trattare le cose razionalmente è perfettamente inutile

 
 
 
 
Eravamo in aereo.
In aereo? E chi avrebbe mai potuto sospettare che il tutto si sarebbe risolto in un viaggio intercontinentale?
Eppure, pareva proprio così.
Stavamo viaggiando in aereo, me lo ripetevo spesso per aiutarmi ad accettarlo come un dato di fatto, un aereo che, a parte noi quattro, pareva completamente deserto.
Non avevo sentito un fiato nemmeno dalla cabina pilotaggio, il che in effetti all’inizio mi pareva un po’ strano… tutto il viaggio in pilota automatico? Non che ne potessi essere così sicuro in realtà, considerato dove mi avevano messo, ovvero in fondo, vicino alla coda.
Gianni e Pinotto, alias Colosso e Sorriso-Maligno, alias Felix e Demetri da quanto avevo capito, che con dei nomi del genere non avrebbero nemmeno fatto troppa difficoltà a far carriera nel mondo del cabaret, erano qualche fila più avanti.
Bambola-Assassina era invece seduta esattamente dalla parte opposta rispetto a quella in cui mi trovavo io, a capo dell’aereo. Era un soprannome quello, azzeccatissimo a mio parere, che le avevo dato appena qualche ora prima.
 
Dopo che Colosso mi aveva caricato sulle spalle, e intendo proprio caricato dato che un sacco di patate sarebbe stato sicuramente trattato meglio, avevamo cominciato a “viaggiare”, lui correva ed io tentavo di non sfracellarmi a terra insomma, ad una velocità inaudita.
Le foreste, le strade, tutto si era fuso davanti al mio sguardo in una grossa macchia di colore indefinita che mi aveva costretto a tenere gli occhi aperti quasi fino alla fine.
E si era pure lamentato, quel Felix, nome che associavo istintivamente a quello del gatto dei cartoni animati, che “gli uomini di una volta non esistono più”, quando mi aveva visto barcollare in cerca dell’equilibrio perduto, dopo che mi aveva scaricato a terra. Avrebbe solo dovuto ringraziare che non gli avessi vomitato addosso, altroché!
Comunque, in prossimità dell’aereo, c’era stato il mio ultimo, disperato tentativo di fuga. Non che in precedenza ce ne fossero stati di rilevanti, ben inteso, a parte la corsa verso la salvezza finita in un bicchier d’acqua e qualche strategico calcio rifilato al marmoreo Colosso con cui al massimo ero riuscito a far del male a me stesso.
Fatto stava che, appunto, arrivato in quell’oscura pista d’atterraggio, davanti al portellone di un piccolo aeroplano bianco, avevo tentato il tutto per tutto.
Non so se fossi stato influenzato da qualche film di Kung Fu, cosa che non tendevo ad escludere del tutto, ma decisi di buttarmi giù dalla scala che stavo percorrendo, così da finire nel buio e tentare di nuovo di darmela a gambe.
Beh, se avete bisogno di sentirvelo dire, sappiate che ciò non servì ad un altro, emerito niente.
Sorriso-Malvagio ci mise un attimo ad intuire il mio piano criminale, a prendermi per la manica e a rimettermi, con una bella strattonata, sulla giusta carreggiata.
In compenso Colosso pareva veramente divertito dai miei innumerevoli, tragici tentativi di fuga. Forse rischiare la morte ingiustificatamente era da “uomini veri” a suo parere.
E dico “ingiustificatamente” perché penso che, in effetti, a guidarmi nelle mie imprese disperate alla ricerca della libertà, come la tigre che per slegarsi dalla corda a cui è legata si morde la zampa, fosse quella sensazione, una sorta di irritante e pessimista vocina interiore, che la pelle, avrei fatto molta fatica a salvarla. Una sensazione che avrei volentieri spinto via, ma che ormai era quasi diventata parte di me.
Comunque, era stato una volta dentro che avevo avuto la visione fugace del viso della terza figura, che all’asciutto aveva finalmente deciso di togliersi il cappuccio.
Quella che mi ero ritrovato davanti a quel punto altro non era che una ragazzina molto piccola, non avrei saputo dire di quanti anni esattamente, con i capelli corti, le labbra piene e le ciglia lunghe.
Più bella e terribile di Sorriso-Malvagio, molto, molto di più.
Quegli occhi, su un viso così giovane, mi sembravano incredibilmente fuori posto, stonavano proprio. E quel sorriso, quello che mi rivolse dopo che mi sorprese a fissarla, con immagino non l’espressione più indifferente di questo mondo, mi pareva decisamente peggiore dei peggiori sorrisi di Sorriso-Malvagio, il che all’inizio, dovevo ammetterlo, credevo impossibile.
Beh, il soprannome se l’era proprio meritato, le stava a pennello, di quello ero certo.
Peccato che, nel caso specifico, fossi certo solo di quello.
Non sapevo niente di niente, di dove stessimo andando, di chi i miei rapitori fossero, di cosa esattamente volessero da me. Non sapevo niente, non potevo fare niente per cambiare le cose e mi era concessa un’unica misera scelta, cioè quella di rimanere lì, mezzo rannicchiato su quella odiosa e dannatamente comoda poltrona, con le orecchie tese per captare qualunque cosa di quello che stessero dicendo, qualunque cosa che mi potesse fare capire di più.
Caso volle che qualcosa riuscii veramente a comprenderlo.
Cose frammentarie, cose probabilmente inutili, talmente poche che servirono semplicemente ad accrescere la mia ansia e la mia paura. Ma quel “qualcosa” era sempre meglio dell’abisso oscuro ed impenetrabile che riservava il “niente” di poco prima.
 
Ero appena stato, come dire?, accompagnato da Sorriso-Malvagio al mio posto, dopo aver superato allarmato Bambola-Assassina, e stavo ancora ragionando sulle possibilità che mi rimanevano per la fuga.
Rompere il finestrino e buttarmi di sotto? Entrare in bagno e, passando per i condotti dell’aria, raggiungere il portellone anteriore? Semplicemente sorprenderli con un balzo magistrale, per poi superarli e raggiungere la porta, fingendo che non si fosse appena definitivamente chiusa alle mie spalle? Sì, lo so, erano piani piuttosto stupidi e particolarmente malcongeniati, soprattutto perché non tenevano conto di una piccola e non proprio marginale caratteristica fisica dei miei avversari: la supervelocità. Comunque, fu proprio mentre vagliavo quelle ipotesi assurde che li sentii parlottare.
Erano Colosso e Sorriso-Malvagio che, appena quattro o cinque file avanti a me, stavano spettegolando di non so esattamente che cosa. Non capivo quasi nulla, riuscivo semplicemente a cogliere qualche stralcio di conversazione e, potevo scommetterlo, solo quello che decidevano loro di farmi sentire.
Dopo i primi minuti ero perciò particolarmente scoraggiato, visto che avevo ottenuto poco o niente, ed era escluso che attuassi uno dei miei ormai leggendari piani di fuga dato che eravamo partiti da un pezzo, sempre che non mi volessi buttare senza paracadute da un aereo in volo, ovviamente.
Perciò, rimasi ancora in ascolto, attaccato com’ero ad una qualche vana speranza che non riuscivo nemmeno a figurarmi bene.
Beh, fu a quel punto che Colosso fece un affermazione singolare. Con tono annoiato chiese infatti a Sorriso-Malvagio se per caso il temporale che in quel momento stava infuriando fuori, ed era talmente forte che questa frase in particolare la sentii appena, non avrebbe abbattuto quel “ridicolo aggeggio volante”, parole sue, dato che lui non aveva proprio nessuna voglia di farsi tutto il tragitto ancora con, altre parole sue, quell’ “umano deboluccio” in spalla, per di più cercando di non farlo affogare nell’oceano.
Tralasciando il fatto che definirmi “umano” era una chiara dichiarazione di intenti, e che comunque fossi del suo stesso parere riguardo alla nuotata fuori stagione, ciò che mi colpii di più fu l’affermazione che seguì a questa. Il suo amico di bevute, sì insomma Demetri, rispose infatti, testualmente, “se ci tieni, chiedilo a lui”, risposta che provocò uno degli sguardi più spaventosi che avessi mai visto, quello di Colosso, non più troppo divertito, dritto su di me, in evidente atteggiamento da spia mancata mentre tentavo di ascoltarli.
Dopo che si fu girato di nuovo, mentre il mio cuore tentava di ritrovare i battiti persi, pure Colosso infatti pareva un fotomodello ma la parte “terribile” batteva spudoratamente la parte “bella”, cominciai a ragionare.
 
Prima di tutto, loro non erano umani, visto che aveva tenuto a specificare che io lo fossi.
E va beh, non ero un genio, ma a questo ci ero arrivato anch’io e ben prima di quel momento, e per ora sapere a quale specie di alieno appartenessero passava in secondo piano.
In secondo luogo, e punto ben più importante, loro sapevano delle mie visioni.
D’accordo, effettivamente sapevo pure quello, ma ora avevo capito davvero quanto importante fosse un dettaglio che mi era, incredibilmente, quasi passato di mente, un dettaglio fondamentale direi: loro le sopravvalutavano.
Pensavano infatti potessi riprodurre, a mio piacimento ma si può?, le visioni ed usarle per prevedere le condizioni climatiche.
Le condizioni climatiche? Ma che, scherziamo? Come diamine era anche solo lontanamente possibile potessi determinare quando il temporale sarebbe finito? Come potevano pretendere potessi davvero saperlo fare, esattamente? Uhm?
Ero lì per colpa di quelle dannatissime visioni… ed era perché avevano bisogno di qualcuno che prevedesse il futuro, che lo prevedesse bene, come pensavano sapessi fare io.
E quindi, a cosa mai poteva portare una scoperta del genere?
In sostanza, avevo capito una cosa sola e avrei agito, in mancanza d’altro, esclusivamente in ragione di quella. Che il mio spirito di sopravvivenza superasse ancora la vocina pessimista che mi dava ormai per spacciato, riusciva a sollevarmi almeno un pochino l’umore.
Se erano veramente così convinti, e lo erano, che le mie visioni fossero tanto, ehm… “potenti”, se così possiamo dire, beh, che continuassero pure a crederlo, non stava certo a me fargli cambiare idea.
Non sarei di certo stato io a dir loro la verità, a confessargli quanto in realtà fossi scarso come veggente, quanto per me il futuro non fosse altro che un guazzabuglio di scene confuse e indefinite.
Prima o poi lo avrebbero scoperto comunque? Sì, era probabile ed io lo sapevo perfettamente. Ma al momento ero davvero troppo stanco per preoccuparmene troppo, chissà fosse contavo ancora sulle mie vane capacità di attore mancato…
 
 
 
 
Mura antiche, il sole nel cielo, una via stretta vicino a un torrente. Statue bellissime, ambigui sorrisi e buio.
Tutto buio e spaventosamente vuoto.

 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Ok, lo so, in questo capitolo non succede praticamente niente, ma, se volete, potete considerarlo semplicemente come un proseguo del capitolo precedente (in fondo li ho pubblicati a distanza di pochissimo…)
Vi saluto adesso, non so che dire di interessante. Alla prossima,
Aout ;)

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Capitolo 8
*** Perchè fare il supereroe è perfettamente inutile (o quasi) ***


Capitolo 7
Perché fare il supereroe è perfettamente inutile
(o quasi)





-Ehi, tu.
Andrew, sempre lui. Ma, dico io, almeno usare un tono un pochino più gentile, no? Non chiedevo mica tanto a quel benedetto ragazzo, solo svegliarmi con più calma, giusto perché riuscissi, almeno una volta in tutta la mia esistenza, ad alzarmi con il piede giusto.
No, d’accordo, di urlare di prima mattina proprio non avevo voglia. Anzi, meglio tenerselo buono Andrew, altrimenti quegli appunti di fisica quantistica, quelli per cui lo stavo lisciando da una settimana, non me li avrebbe di certo passati…
- Ehi, parlo con te.
Che tono arrabbiato! Si può sapere che avevo fatto? Forse lasciato in disordine la sua scrivania? Non so, poteva anche essere. Gli avevo spostato qualcosa o forse avevo lasciato del cibo in camera?
Non avrei saputo dirlo con certezza, Andrew era pieno di sorprese riguardo a cosa potessi e cosa non potessi fare in quella che era la nostra camera, non la mia, come gli piaceva ripetere continuamente…
- Dici che uno schiaffo posso tiraglielo?
Un attimo, però quella voce… quella voce roca e musicale, quella voce scura e armonica, non era certo simile al solito gracchio irritato con cui mi si rivolgeva Andrew…
Oh, oh.
Una marea di immagini diverse, tutte sovrapposte l’una all’altre, tutte scure e inquietanti, mi si abbatté addosso nello stesso momento.
Ne fui travolto. Mantelli neri, uomini pallidi, bambine con gli occhi rossi… vennero tutte di seguito, tutte disordinate, tutte troppo veloci per non confondermi.
Aprii gli occhi.
- Ma buongiorno, vedo che si è goduto il soggiorno.
Davanti a me Colosso sfoggiava un sorriso obliquo e terribile e mi fulminava con quelle fiammelle accese che erano i suoi occhi.
No, non era poteva essere. Gli occhi rossi, insomma, erano un incubo, no? Doveva esserlo!
No no, non poteva essere tutto vero, non aveva senso!
Stavo sognando, bastava solo che mi dicessero che stavo sognando, per favore…
- Felix, meglio muoverci. – disse Sorriso-Malvagio, fermo davanti al portellone dell’aereo.
Con un’ espressione scocciata Colosso mi prese per il braccio e mi fece alzare per poi spingermi verso l’uscita.
- Ehi! Lasciami! – dissi, cercando, inutilmente ma non c’era nemmeno bisogno di dirlo, di svincolarmi.
- Calmati amico o ti farai male. – rispose Colosso, indovinate?, divertito da quella cocciutaggine, quasi stesse rimproverando un bambino che non sapeva stare al suo posto.
- È una minaccia? –
Ma, ehi! Non avevo mica scelto l’atteggiamento ossequiente per conservare la pelle più a lungo possibile? Che mi stava succedendo? Da dove arrivava tutto questo improvviso spirito di rivalsa?
Colosso mi osservava torvo, indeciso se prendersela o mettersi a ridere.
Sorriso-Malvagio sospirò. – Daniel, qualunque cosa tu abbia…- altro sospiro - ti assicuro che questa storia andrà a finire bene, d’accordo? Perciò, perché non eviti di crearci tutti questi… problemi? Vorrei davvero evitarli…
Qualunque cosa abbia… cosa? Che almeno finisse una frase era chiedere troppo?
- Non ti faremo del male. – ripeté, quasi come fosse una sorta di litania senza significato, non sembrava crederci nemmeno lui.
- Uhm… - “no, stai zitto, per favore stai zitto, d’accordo?” urlava la mia vocina interiore, la stessa che soffocai con una gomitata – Ed è una cosa che dite a tutti quelli che rapite o è un onore che viene riservato a me e a me soltanto? – risposi con un sorriso.
Sorriso-Malvagio mi fisso dritto negli occhi.
Nessuno si mosse, non respiravo nemmeno. Il mio sorriso si era ovviamente spento come per magia.
Solo dopo alcuni secondi, appena qualche attimo prima che raggiungessi l’embolia, lo vidi distendere le labbra e, visto che non voleva evidentemente smentirsi, il suo fu un sorriso terribilmente malvagio.
Contemporaneamente, alle mie spalle, sentii Colosso ridere, o grugnire armonicamente che fosse.
- Come vuoi. – disse poi Sorriso-Malvagio mentre usciva, in modo semplice e tranquillo, pure con una leggerissima alzata di spalle.
Dietro di me, nello stesso identico momento, sentii Colosso strattonare ancora il mio povero braccio, mentre aggiungeva in modo enfatico: - Sapessi chi siamo, ragazzino… - senza ovviamente abbandonare il solito tono divertito.
Era strano dirlo, ma vederli ridere erano stato due volte più spaventoso di tutto il resto. Fino a quel momento se non altro…

Ebbi solo una fugace visione del paesaggio circostante, prima di essere nuovamente issato sulla schiena di Colosso. Ero quasi certo che la pista d’atterraggio fosse uno spiazzo ocra tutto ricoperto da un acciottolato di pietre ed ero praticamente sicuro che i lampi verdi che mi balenavano davanti allo sguardo fossero colline. Mentre mi reggevo, sempre tentando di evitare lo sfracellamento, sentii perfino il rumore di un fiumiciattolo in lontananza.
Il problema, uno dei tanti, era che quelle potevano essere veramente delle colline qualunque, di un qualunque paese del mondo. Mi sentivo giusto di escludere i poli artici e il deserto del Sahara, ma la cosa finiva lì.
Ma si può sapere come avevo fatto ad addormentarmi?
Almeno, da sveglio, avrei potuto capirci qualcosa… che so, magari avrei contato le ore del viaggio per orientarmi sulla destinazione! Avrei potuto fare un sacco di cose! Forse io… forse avrei…
No, a quel punto erano finiti i “se”, i “ma”, né tanto meno c’era più spazio per i condizionali. C’erano solo tantissimi “perché a me?”, talmente tanti che mi schiacciavano a terra, quelli più la supervelocità di Colosso che rischiava di farmi vomitare da un momento all’altro.
Perché tutto quello, perché proprio a me? Che avevo fatto di male, esattamente? Uhm?
Quanto avrei desiderato essere al college in quel momento. Mi mancavano le litigate con Andrew per il suo dannato ordine, gli esami impossibili, le irritanti alzate di sopracciglia di Brian, mi mancavano perfino le occhiatacce di Nicole.
Nicole… quanto avrei voluto che tutto quello non si rivelasse che uno stupido incubo…
Beh, ma non lo era. Dovevo accettarlo, giusto? Giusto?
Giusto. E dovevo fare qualcosa.
Ecco, bene, la ritrovata fiducia in se stessi, il coraggio di voler compiere un’azione eroica e tutto il resto erano davvero, davvero molto interessanti, ma cosa esattamente potevo fare?
Rispondere in modo sarcastico e farli irritare ancora di più, ecco, in quello era stato davvero bravissimo!
Ma poi? Non mi rimaneva altro che accettare la sconfitta e darmi per vinto? Rinunciare a qualunque speranza?
Se solo avessi potuto… se solo ci fosse stata la possibilità di cambiare… cambiare il futuro? Mmh, osservazione interessante…

Sentii che Colosso rallentava.
Non mi ero accorto che la luce fosse cambiata, il sole del mattino che ci aveva accolto fuori dall’aereo aveva semplicemente lasciato il posto all’ombra.
Dove eravamo? Davanti a me vedevo solo un lungo corridoio lastricato di pietre, un tunnel buio, freddo e vuoto. Un brivido risalì la mia schiena, sembrava quasi ci stessimo introducendo volontariamente nelle fauci di un mostro…
Sorriso-Malvagio annuì a Colosso e poi sparì in un soffio. Non avevo la minima idea di cosa si fossero detti o se effettivamente si fossero detti qualcosa, fatto stava che Colosso riprese a correre, ma più lentamente, tanto che riuscivo quasi a guardare quello che avevo intorno.
Ecco, a quel punto non mi rimanevano che pochi minuti, potevo scommetterci. Dovevo sbrigarmi. La certezza di poter fare qualcosa fu un ottimo spunto per tentare di fare ciò che avevo in mente.
Le condizioni del tempo? Beh, forse quelle no, ma negli ultimi tempi di visioni ce n’erano state tante, talmente tante che… possibile non le potessi chiamare volontariamente?
Chiariamo, non è che improvvisamente mi considerassi un supereroe in grado di fare cose del genere, ben inteso, semplicemente avevo fatto due più due.
Cosa avevo scoperto appena la sera prima?
Le visioni arrivavano quando la mia mente era occupata in qualcosa. E chi era bravo a occuparsi la mente meglio di me?
Era debole come considerazione, ma provare era sempre meglio che rimanere spettatori passivi dell’evolversi del destino, che si stava evolvendo parecchio male per quanto mi riguardava.
Cominciai a ripetere l’alfabeto, la prima cosa che mi venne in mente di fare, ma mi accorsi subito che quello non era abbastanza. Passai ad una poesia di Blake, una di quelle che alle scuole elementari ti inculcano nel cervello insieme al fatto che devi mangiare le verdure, ma no, non funzionò.
Sentivo che l’aria intorno a me si faceva più fredda, dovunque fosse il luogo dove voleva portarmi Colosso, avrei potuto scommettere che ci fossimo vicini, molto vicini.
Ero scoraggiato a quel punto, ma non mi ero arreso, non ancora.
Cosa stavo facendo l’ultima volta che avevo avuto una visione? Se il valore della derivata prima… matematica? Beh, a quel punto che rimaneva se non tentare il tutto per tutto?
Se il valore della derivata prima della funzione è minore di 0 e maggiore di 1…
Una sala circolare, il pavimento chiaro, una botola al centro.
Funziona? Che fossi veramente riuscito a combinare qualcosa di buono nella mia vita?
La funzione è strettamente crescente nell’intervallo considerato se…
Un altro mantello nero, capelli scuri, parole gentili.
Appunto, no. Che mai poteva significare? Non vuol dire niente! Perché, perché non riuscivo a vedere niente di anche solo lontanamente comprensibile?
Di nuovo: se la funzione F di X è compresa, per valori interni, tra 0 e 1…
Uno sguardo…gli occhi della mia vecchia visione, erano loro?
Un sorriso fugace, un risposta brusca, freddo, buio e dolore.

Fu in quel momento che sbattei contro il pavimento.
- Rimani qui, non ti muovere, chiaro?
Da quella posizione Colosso sembrava arrivare ben oltre i suoi consueti otto metri e mezzo d’altezza. Rispondere malamente a quel punto sarebbe stato molto, molto più che folle da parte mia.
Mi osservai intorno: ero in una saletta abbastanza piccola, la prima cosa che pensai fu ad un ufficio, uno di quelli che si vedono nei film di spionaggio, quelli che si trovano all’ultimo piano dei grattacieli più alti, in cui un’aitante segretaria con gli occhiali ti offre qualcosa da bere e ti chiede se hai un appuntamento.
Beh, quando vidi entrare quella ragazza mora capii che forse non avevo sbagliato di molto.
Gli occhiali non c’erano, ma la gonna corta e i capelli raccolti in un perfetto chignon sulla nuca, sì.
Appena mi vide, mi sorrise affabile, i suoi occhi verdi erano un piacevolissimo cambiamento. Poi andò a sedersi alla sua scrivania, un lungo tavolo in mogano in fondo alla sala, e riprese a far scorrere veloci le dita su un portatile scuro.
Ma… ehi! Non poteva ignorarmi così! Mi meritavo più di un sorriso, porca vacca!
Ero stato impacchettato, issato su un aereo e scaricato nel suo ufficio, non poteva semplicemente fare finta che non ci fossi! Non lei che aveva gli occhi verdi e la pelle di un colore normale! Proprio no!
Avevo la bocca spalancata e pronta ad una serie di improperi quando Colosso rientrò dalla porta da cui era uscito poco prima.
E non era solo.











Note: Resistete solo un altro po’, d’accordo?

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Capitolo 9
*** No, per favore, per favore, non adesso ***


Capitolo 8
No, per favore, per favore, non adesso

 
 


“Avete presente quando il cuore comincia a battere veloce, velocissimo e sembra volervi uscire dal petto? Quando batte veloce come le ali di un colibrì, quando vi mozza il respiro e vi permette solo di starvene lì, come degli emeriti imbecilli, con la bocca aperta e gli occhi sbarrati?
Ecco, quella era esattamente la situazione che stavo vivendo in quel momento. E la stavo vivendo per colpa di quella… quella cosa che era appena entrata insieme a Colosso.
Non avrei proprio saputo bene come definirla al momento…
Modella? Troppo riduttivo.
Venere di Botticelli? Ancora, decisamente, troppo riduttivo.
Angelo? Troppo discostante con quell’inquietante pelle diafana, i denti bianchi, e sempre visibilmente affilati meglio specificarlo, e gli occhi viola. Viola, non rossi… oh beh, la cosa era comunque poco rassicurante.
Dicevo, ero seduto lì per terra, con le gambe mezze aperte, la bocca ridicolmente spalancata e gli occhi sbarrati. Una posizione imbarazzante anche per i miei standard.
Quando entrò stava ridendo con Colosso, una risata cristallina e bellissima.
Non appena mi vide, girò piano la testa e i suoi lunghi capelli rossi ondeggiarono nella mia direzione. Rimasi catturato da quello sguardo e, solo dopo che lei ebbe distolto il suo, riuscì a guardarla meglio, fu lì che notai quanto il vestito che indossava fosse corto, veramente corto.
Colosso, che evidentemente si era accorto di quanto la mia espressione fossa acuta ed intelligente in quel momento, grugnì divertito nella mia direzione e scosse appena la testa con un velo di… pietà?, sì, di pietà nello sguardo, quasi ci fosse stato bisogno di sottolineare la situazione, mentre mi alzava da terra.
- Salve Gianna. – disse poi, rivolto alla segretaria dagli occhi verdi, quella che odiavo istintivamente quasi più di Sorriso-Malvagio.
- Buongiorno Felix. – rispose lei, educata e professionale.
D’accordo, la odiavo immensamente.
Ma non ebbi tempo di pensarci, dato che Colosso, dopo aver fatto un inquietantissimo occhiolino alla suddetta segretaria, mi condusse fuori dalla stanza, camminando.
Oh, camminare era un piacevolissimo cambiamento.”
 
 
 
- Signorina, ehm… signorina, mi sente? Si sente bene? Signorina?
Alice, piano piano, mise a fuoco la faccia grassoccia del commesso della concessionaria, che la fissava con i suoi piccoli occhietti perplessi.
- Io… - le ci volle un intero secondo per riprendersi e rendersi conto che quella che aveva visto non era altro che una visione - Mi scusi, - disse poi, dirigendosi verso la porta - devo andare.
- Ma, ma la nuova Honda… non vuole più vederla? Potremmo concordare uno sconto speciale per…
- No, sarà per un’altra volta, grazie e arrivederci. – ripeté, seminandolo in due falcate.
Appena un battito di ciglia ed era già seduta al posto di guida della sua Porche gialla. Partì subito, senza aspettare un secondo in più, e, se i suoi occhi guardavano la strada asfaltata davanti a lei, lo sguardo era rivolto da tutt’altra parte. 
Cercava di recuperare quella stanza grigia, quegli occhi scuri, ma, per quanto ci provasse, non riusciva proprio a trovarli.
Chi era quel ragazzo? Che ci faceva a Volterra? Che cosa era successo?
E... possibile che l’avesse già visto?
Uhf, tante domande e nessuna risposta.
Si aspettavano la prossima mossa di Aro da un bel po' di tempo in effetti… ma tutto quello cosa poteva mai significare?
Quale sciagura si sarebbe abbattuta su di loro, stavolta?
Aveva decisamente bisogno di parlare con la sua famiglia, subito, magari loro si sarebbero fatti venire qualcosa in mente.
O almeno, lei ci sperava.
 
 
Era seduta sulla poltrona del soggiorno. Quella grande, comoda e bianca davanti al camino, con tutte le rifiniture in pizzo che le piacevano tanto.
Sulle ginocchia, stese in avanti fino al poggiapiedi, teneva un libro dalla copertina chiara, aperto a metà di una noiosa e lunghissima descrizione delle Alpi svizzere.
- Non sei certo costretta a leggerlo, se non ti piace, sai? – disse suo padre, in quel momento seduto al piano a suonare il Notturno di Chopin.
Ormai l’ho iniziato, tanto vale finirlo. Pensò.
Era particolarmente piacevole evitare di parlare, per una volta. Quando c’era suo padre, la comunicazione a distanza non era per niente un problema.
- Sei proprio cocciuta. – rispose con tono allegro.
Da qualcuno avrò pur preso.
Anche se non poteva vederlo da quella posizione, Renesmee era sicura che suo padre avesse sorriso.
- Sai, Edward, non credo di ripetertelo abbastanza spesso, ma questa cosa del parlare da solo si sta facendo davvero inquietante, sai? – la voce era quella di Jake, seduto sul divano insieme allo zio Emmett, a guardare una partita di Football.  
- Battuta vecchia, Jake – per lui poteva anche fare un’eccezione e sprecare qualche parola – Impegnati di più la prossima volta.
- Cocciuta e saputella. Ah, cosa abbiamo mai fatto di male, noi? – quel rimprovero era detto con un tono così dolce, calmo e affettuoso che Renesmee non ci credette nemmeno per un secondo.
Lo raggiunse e, dopo essersi seduta al suo fianco, gli appoggiò una mano sul braccio mostrandogli la scena appena avvenuta attraverso i suoi occhi e dimostrandogli quanto il suo sarcasmo fosse da migliorare.
- Molto, molto saputella. – gli disse lui, scoccandole un bacio sui capelli ricci.
Ah, il suo Jacob, sempre il solito.
- Dimmi un po’ zio, come vanno i Titans? Perdono come al solito? – chiese ad Emmett, seduto poco più in là, ancora intento ad osservare la partita alla televisione, sordo alla loro conversazione.
- E da quando perdono, sì può sapere? No no, li stanno stracciando quei Bears, come carte di caramelle. – rispose lui, compiaciuto, rivolgendole uno di quei suoi ampi sorrisi.
Parevano gli unici, loro due, interessati alle partite di football in casa. Renesmee si chiese per un attimo se avesse preso quell’inaspettata passione per gli sport più da Nonno Charlie o dallo zio…
Ma non ebbe il tempo di trovare una risposta.
Infatti si accorse, con la coda dell’occhio, che suo padre si era alzato e rivolgeva il suo sguardo alla grande vetrata all’ingresso.
Le sopracciglia aggrottate e l’espressione seria non annunciavano decisamente nulla di buono.
- Che succede Edward? – chiese Jasper, raggiungendo in un attimo il fratello. Doveva aver sentito il cambiamento di atmosfera dall’altra stanza.
- Alice sta tornando.
No, per favore, per favore, non adesso.
Pensò Renesmee. Non era un pensiero che aveva richiamato, era comparso lì, da solo, il risveglio di una paura neanche troppo sopita.
Suo padre le rivolse uno sguardo fugace. – Ha solo avuto una visione confusa, niente di che, adesso vado a parlarle. – disse poi, uscendo dall’uscio.
Renesmee era sicura che l'avesse detto solo per tranquillizzarla. Quanto mai non era riuscita a reprimere i suoi pensieri!
Ma se c’entravano loro, e l’espressione di suo padre la diceva lunga a riguardo, lei doveva assolutamente sapere, non c’erano storie.
Per questo, quando tutta la famiglia si portò in cortile, lei li seguì. Se avessero voluto escluderla avrebbero dovuto portarla via di peso, altrochè!
Suo padre, in risposta, le rivolse un altro sguardo preoccupato.
So che non sembra, ma sono abbastanza matura per affrontare tutto questo.
L’auto di Alice sgommò e si fermò a pochi metri da loro. Alice uscì e sembrava che la Porche non si fosse nemmeno arrestata completamente.
- Chi è? – chiese suo padre, con tono perplesso.
- Non ne ho la minima idea, Edward, mi pare evidente. – rispose sua zia, scocciata forse.
- Ma… - continuò suo padre.
- Che hai visto, Alice? – intervenne Jasper che le era arrivato vicino e le appoggiava una mano sulla spalla sottile.
- Non ne sono sicura…
- In che senso non ne sei…
- Nel senso che non ne sono sicura, Emmett, - disse, rivolta al fratello che l’aveva interrotta - io… - fece un sospiro - le mie visioni sembrano più confuse del solito in questo momento.
Renesmee notò che il suo sguardo si faceva vacuo e lontano.
 


 
 


Note: Le cose cominciano a farsi complicate, ve lo dico, così siete pronti. Fra l’altro, nei prossimi capitoli vi aspetta un colpo di scena niente male, ma non voglio anticiparvi niente…
Comunque… diciamo due paroline (sono informazioni potenzialmente inutili e che non vi interessa sapere, ma che io voglio dirvi lo stesso XD):
- quella che vede Daniel a inizio capitolo è Heidi, se non si era capito. Ha gli occhi viola perché indossa le lenti a contatto azzurre che si combinano con le sue iridi rosse (Meyer docet) e veste vestiti succinti perché è la cosiddetta preda/predatrice che rintraccia spuntini per i Volturi…
- Emmett tiene ai Titans perché sono del Tennesee, come lui…
- non vi dirò nemmeno sotto tortura a quale libro mi riferissi quando ho scritto delle “Alpi svizzere”, mettetevi il cuore in pace… XD
- Alice stava comprando una nuova moto, sì. Vedo i Cullen come collezionisti provetti, che volete farci…
Altro? Oh, giusto.
Devo scusarmi con voi, innanzitutto per questo capitolo che è proprio cortissimo (mi farò perdonare), e poi perché ho pubblicato in ritardo… scusate, ma è stata una settimana piuttosto (moltissimissimo, se mi concedete il termine) impegnativa…
Va beh, alla prossima (c’è ancora qualcuno, sì, vero?),
Aout ;)

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Capitolo 10
*** Perché davvero non smaniavo dalla voglia di conoscere Sorriso-Malvagio Senior ***


Capitolo 9
Perché davvero non smaniavo dalla voglia di conoscere Sorriso-Malvagio Senior
 

 
 
 
 
“Questo sì, che sarebbe uno sfondo perfetto per un film dell’orrore.”
Era un pensiero sciocco da fare in quel momento. Un pensiero, intercalato da molte espressioni volgari in più, che forse mi serviva a stemperare la tensione, quella che traboccò esattamente quando Colosso mi condusse sulle soglie di quella stanza circolare.
Dopo aver camminato per qualche minuto, completamente immersi in un’ atmosfera fredda e cupa che era così lontana dal piacevole calduccio dell’ufficio dell’odiosa segretaria dagli occhi verdi, eravamo finalmente giunti .
Un “lì” che pareva proprio venire da un altro tempo.
Sì, va beh, d’accordo che non avevo assolutamente la benché minima idea di dove fossi, che i miei rapitori erano dei mostri inquietanti e che, beh, io ero evidentemente in grado di “prevedere il futuro”, benché non riuscissi ancora ad accettarlo del tutto, ma credere ad un viaggio nel tempo, era assolutamente fuori dalla mia portata. Insomma, meglio vedere un asino volare che guardare tutte le conoscenze scientifiche, che avevo così faticosamente acquisito negli anni, crollare miseramente.
Esclusa quindi l’ipotesi che l’aeroplano su cui avevamo viaggiato fosse una macchina del tempo, più che altro al momento prevaleva l’ipotesi “navicella spaziale”, mi dissi che quel posto doveva essere molto antico.
Le pareti erano in pietra chiara e si allungavano sino al soffitto altissimo, che sicuramente contribuiva parecchio al clima artico e pure a quei dannatissimi brividi, che preferivo attribuire al freddo piuttosto che al panico.
Pareva spoglia, quella stanza, esclusa la presenza di un tombino, un tombino?, nel centro esatto del pavimento e alcuni troni in legno che, austeri, seguivano la curvatura delle pareti.
Troni.
In una stanza a forma di torre.
Con il pavimento in pietra e le finestre bifore a gettare luci convulse nell’atmosfera brumosa.
Mmh… forse era meglio riconsiderare l’ipotesi del viaggio nel tempo…
Mi chiesi distrattamente quante stranezze avrei ancora potuto sopportare prima di crollare svenuto per terra.
L’ambiente, me ne accorsi poi, non è che fosse proprio vuoto, come mi era parso all’inizio. Quando il mio sguardo tornò a rivolgersi avanti, infatti, dopo che ebbe misurato il resto della stanza, vidi che c’erano parecchie persone. Persone?
Erano strette in diversi gruppetti e parlavano, parlavano. Le espressioni tranquille, rilassate, forse persino allegre, mi facevano pensare che non si rendessero nemmeno conto di quanto fossero perfettamente bianche, immobili, bellissime, troppo “bellissime” per elaborare pensieri sufficientemente coerenti, e del tutto simili a statue, esclusi quei trascurabilissimi occhi vividamente rossi.
Quando li vidi girarsi verso di me, contemporaneamente, tutti, mi resi conto che invece dovevano proprio saperlo, visti quegli sguardi curiosi e accesi verso quello che altro non era che un semplice “umano deboluccio” in confronto a loro.
Giuro che, se non avessi sentito quella mano pesante sulla mia spalla, quella di Colosso che molto probabilmente sospettava le mie intenzioni, niente mi avrebbe impedito di darmela a gambe seduta stante.
Non fate quella faccia, si chiama “istinto di sopravvivenza” e si faceva sentire peggio di una scheggia conficcata sotto un’unghia che sta facendo infezione. Scusate la metafora purulenta, ma temo sia difficile cercare di descrivere in altro modo il panico che mi assaliva in quel momento.
Comunque, fu un uomo vestito di una tonaca scura, o mantello?, a rivolgersi a me. Al suo fianco era annoiatamente appostata la versione scocciata di Bambola-Assassina. Non la vedevo dalla partenza, ma diciamo che non mi era mancata particolarmente.
Beh, in realtà, non è che lui si rivolse proprio a me.
- Felix, finalmente sei tornato. – disse infatti con una voce serena, immagino volesse essere rassicurante. Ah, tentativo inutile.
Mi fissava, quell’uomo inquietante. Aveva lunghi capelli neri, più scuri del suo mantello, pelle pallida e occhi scuri. Scuri e rossi sì, ma lattiginosi.
Fu quando capii che li avevo già visti, forse per la prima volta proprio quel giorno di non troppo tempo prima quando ero crollato sul pavimento del negozio di musica, che iniziai sensibilmente a tremare.
E lui se ne accorse.
E mi sorrise.
Povero Sorriso-Malvagio, povera Bambola-Assassina, quanta strada dovevano fare prima di riuscire veramente a fare un sorriso terrificante! Terrificante quanto quello che era rivolto verso di me proprio in quel momento.
- Salve, Daniel.
“Corri! Fuggi sciocco! Mi spieghi perché sei ancora fermo lì come un deficiente, brutto stupido?”, la mia vocina interiore pareva più arrabbiata del solito.
E aveva ragione, porca vacca se ne aveva. Non riuscivo a muovermi, parevo totalmente paralizzato dalla paura.
- Chiedo venia per la rudezza delle mie guardie, non era mia intenzione spaventarti più del dovuto.
Più del dovuto? Guardie?
Un attimo… più del dovuto?
Lì per lì mi venne da ridere, quanto doveva essere ridicola quella situazione?  Poi, in effetti, mi resi conto che, beh, ero circondato da mostri, in un luogo sconosciuto e con a rischio la mia bella pellaccia, e allora mi venne da piangere.
Fantastico, la paura mi rendeva pure isterico, oltre a farmi tremare come una foglia.
Ci fu un secondo di stallo.
Perché c’erano sempre questi stramaledetti secondi di stallo? Chissà, forse l’uomo in nero si aspettava una risposta.
Illuso. Pensai scioccamente.
Allora, che altro potevo fare?, mi presi un attimo per guardarlo meglio, per notare quella pelle pallida, più pallida di quella degli altri, e forse… fragile?
Non so, la prima idea che mi venne fu che fosse vecchio, era strano a dirsi dato che sul suo viso non appariva niente che avrebbe mai potuto ricordare le rughe. Ma sembrava, che cosa terribilmente strana da dire, sembrava trasudare età da tutti i pori, ecco. Non riuscivo a figurarmi bene l’espressione giusta, ma pareva veramente antico… porca vacca, forse stavo impazzendo sul serio.
Poi, venne il momento in cui Sorriso-Malvagio Senior parve essersi stancato di aspettare una risposta, che non aveva alcuna intenzione di arrivare.
- Che scortese sono stato! – proruppe. E dico proprio “proruppe”, con una voce squillante che mi fece saltare di un metro e mezzo sul posto, con buona pace di Colosso.
- Non mi sono presentato. – ancora quel sorriso, mamma mia in vita mia non ne avrei più sopportato nessuno. – Il mio nome è Aro e qui ti trovi a Volterra, in Italia. – non mi diede il tempo di assorbire questa nuova, sorprendente e spaventosa informazione, – D’altra parte, immagino tu abbia intuito il motivo per cui sei qui.
Aveva sottolineato con la voce in modo inconsueto la parola “intuìto”. Troppo inconsueto considerando che io ero quello che poteva vedere.

Le cose potevano andare peggio?

Si avvicinò, Man In Black, veloce quanto lo era stato Sorriso-Malvagio Junior il giorno prima, e mi prese la mano. Non che volesse fare la mia conoscenza, la prese e basta. E la sua pelle era così maledettamente fredda
Mi sorrise ancora.

… come non detto.

Non che non cercassi di sottrarmi, non fraintendetemi.
Ma cercate di capire. Colosso, alle mie spalle, ero abbastanza sicuro avrebbe potuto staccarmi la testa semplicemente movendo un mignolino, la sua gigantesca figura emanava così tanta minaccia che forse gli sarebbe bastato soffiare e avrei detto addio al mio tanto amato scalpo spettinato.
In secondo luogo, ero circondato da tanti altri esseri pallidi e sicuramente pericolosi se non al suo pari, quasi.
E in terzo luogo, beh, vi assicuro che trovarsi di fronte a quegli occhi, vederli davanti a me, nella realtà, parve forse ipnotizzarmi.
Continuava a sorridere, il maledetto. Perché non potevamo fare le persone serie per una volta, vista la situazione?
In quel momento la sua espressione cambiò.
Oh, cazzo. Come ha fatto?
- Daniel, vedi… - quello fu il sospiro teatralmente migliore che avevo mai sentito - temo di doverti comunicare una scomoda verità. – Uhm? – Temo che il mondo sia molto diverso da come lo hai sempre conosciuto.
Ok, non poteva essere. Insomma, tutto ma non una soap-opera.
Mi sentivo come incastrato in un film di quart’ordine. Più che una soap-opera, forse una sorta di telefilm dove improvvisamente creature soprannaturali varie ed inconsuete suonano alla tua porta e ti dicono “ehi, esistiamo anche noi, non te n’eri mai accorto, razza di cretino?” o qualcosa del genere.
Sulle labbra di Sorriso-Malvagio Senior apparve l’ombra di un sorriso proprio in quel momento, subito represso. Ma che cazz…
- Vedi, Daniel, - ripeteva il mio nome di continuo perché pensava potessi avere una crisi d’identità da un momento all’altro? E ancora rideva… ma che cavolo aveva da ridere? – gli uomini non sono esattamente la razza più… evoluta, se mi permetti il termine, che abbia fatto i suoi primi passi nel mondo.
Alieni. Diamine, lo sapevo che erano alieni. Porca vacca.
- Ahaha meraviglioso, assolutamente meraviglioso, queste nuove generazioni! – come affermazione mi lasciò sbigottito. Non ero l’unico isterico in zona, eh? E non la smetteva di ridere! Odiavo non capire l’ironia della situazione, – dicevo? – riprese – Oh, giusto, dunque, date le tue particolari peculiarità, vorrei farti un dono, Daniel.
Ecco, ci mancò tanto così che stavolta non mi mettessi a ridere io. Un dono? Un dono?
Se non fosse stata una carta d’imbarco diretta per casa mia, giurai a me stesso che gli avrei dato la risposta più crudele mi fosse venuta in mente. Era già lì, sulla punta della mia lingua biforcuta.
- Oh, Daniel, non essere così frettoloso.
Tu… cosa? Come hai…
Fu a quel punto che, chissà come e perché, i miei occhi riuscirono a staccarsi dal suo sguardo magnetico per un momento.
Mi bastò.
Notai che, alle sue spalle, non c’era più nessuno.
Dov’erano finiti tutti quegli uomini e quelle donne pallide? E Colosso?
Oh caspita, dove diamine era finito Colosso?
Terrificante, notai, il fatto che mi sentissi più rassicurato con lui e la sua combriccola che con quell’uomo in nero.
A quel punto cercai con tutte le mie forze di arretrare, di staccare la mia mano sudaticcia da quel ghiacciolo.
Giuro che tentai sul serio, giuro che ero seriamente convinto che quella pelle fosse fragile quanto sembrava, ma lui non mollava.
Perché non mi mollava?
- Sei confuso, lo so, ma avremo tempo per parlare, dopo.
Oh porca, porca, porca vacca. Quello era il sospirato momento in cui avrei perso la pellaccia, me lo gridavano istintivamente tutti i pori, un grido tanto forte che mi sorpresi di non sentirlo davvero nelle mie orecchie.
“Corri, corri!” ripeteva la vocina, inutile, flebile, rassegnata.
E poi fu buio.
E dolore.
E fiamme.
 
Aprii gli occhi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Quanto adoro il titolo di questo capitolo? Va beh, scusate, non ve ne fregherà niente…
Comunque volevo… ehm, come dire… me lo fate un piccolo favore? Prima di abbandonare la fanfiction perché “caspita lo sviluppo della storia è davvero demenziale”, attendete il prossimo capitolo, per favore? Lo fate per questa povera scrittrice in erba, sì?
Che altro dire? Beh, se volete recensire, non siate timidi! Non mordo nessuno (solitamente :D)!
Alla prossima (ù.ù non vedo l’ora),
Aout ;)

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Capitolo 11
*** Perché, ripensandoci, forse dei sogni è meglio fidarsi ***


Capitolo 10
Perché, ripensandoci, forse dei sogni è meglio fidarsi

 



 
 
Aprii gli occhi e la prima cosa che mi trovai davanti fu un grosso omuncolo bianco e ricoperto di peli. Le zampe pesanti, gli occhi vuoti e scuri, la barba lunga fino ai piedi.
Perplesso, raddrizzai la testa, prima riversa su una superficie liscia e bianca, e mi accorsi che non si trattava che dello sciocco portamatite che Nicole mi aveva regalato quel Natale, convinta che il fatto che le avessi confidato che “caspita, non sarebbe proprio niente male diventare uno jedi”, significasse volessi assomigliare ad uno yeti, sì, insomma, a Big Foot.
Ah, Nicole, e guai dimenticarsi le protagoniste di Sex and the City!
Nicole…



Nicole?
Una superficie liscia e bianca?
Abbassando lo sguardo mi accorsi che era un libro, quello di matematica a giudicare dai grafici.
Il mio portapenne?
E sì, era proprio lui.
Sulla mia scrivania?
Beh, in quanto a disordine cronico c’eravamo proprio…
Lasciai vagare lo sguardo per la stanza, sui poster dei dinosauri di quel patito del mio compagno di stanza, sul mio letto sfatto, sulle mie mensole affollate di cose inutili.
Per la mia stanza.
La mia stanza…
- Waaah! – l’onda d’urto di quell’urlo mi fece perdere l’equilibrio e, in men che non si dica, era già seduto sul freddo pavimento in legno, con la sedia riversa a terra al mio fianco, a farmi compagnia.
Calmati, calmati, calmati.
Stavo andando in iperventilazione. Non soffrivo d’asma dall’età di nove anni, era quello il momento giusto per farsela ritornare?
Conta fino a dieci.
Beh, almeno provaci.
- D’accordo, d’accordo, va tutto bene. – forse dirlo a voce alta avrebbe potuto aiutarmi.
La stanza circolare… io c’ero! La casa in mattoni, gli occhi rossi, gli uomini pallidi, la pioggia, la donna blu, quella sciarpa, quel cappello, l’ombrello, gli occhi rossi, gli occhi rossi, l’uomo con gli occhi rossi…
Ok, come non detto.
Come era possibile… io, io non lo capivo, non lo capivo assolutamente!
Io ero, io ero… oh cavolo, cos’era successo? Non lo sapevo…
No, no aspetta, pensaci un attimo.
D’accordo, l’ultima cosa che ricordavo era… beh, era l’uomo con gli occhi lattiginosi. Me lo ricordavo proprio davanti a me mentre mi diceva qualcosa… il dono, sì, c’entrava un dono di qualche tipo. E poi… e poi cosa?
Non ricordavo altro tranne… tranne quel dolore lancinante al collo. E poi il buio. E le fiamme.
Istintivamente portai le mani all’incavo della spalla.
No, constatai, non mi faceva male per niente, non c’era nulla fuori dal normale e di fuoco, ovviamente, nessuna traccia.
Mi ricordavo anche… Sorriso-Malvagio, poteva essere? Colosso… e pure Bambola-Assassina. Oh, come dimenticare Bambola-Assassina?
Piano piano sentivo che i dettagli lottavano per affiorare dalla nebbia che in quel momento mi riempiva prepotentemente la testa.
Il viaggio in aereo, il temporale. Poi, poi le colline, il fiume, l’Italia.
Ma io non ero mai stato in Italia.

Nient'altro che un incubo.

 
Quel pensiero spuntò fuori dal nulla. Non era una consapevolezza che avevo ragionato, era apparsa così, da sé.
Un incubo…
Una risata isterica si disperse nell’aria, era quasi agghiacciante. Solo dopo qualche secondo mi accorsi che ero io a provocarla, ero io il pazzo isterico. Ma al momento non me ne fregava proprio niente.
Un incubo! Solo un incubo!
Eccolo, finalmente, sentivo salire quel sollievo, quello che avevo tanto aspettato.
Tutta la paura, che fredda e assassina mi si era attaccata alle ossa, svanì in un secondo. Era la sensazione più bella che avessi mai provato in vita mia. Fra tutte le gioie della mia esistenza, quella mi parve al momento la più grande, il sollievo cancellava e superava incondizionatamente tutto.
Stupida mente evidentemente bacata, stupidi film dell’orrore che mi fissavo a guardare al calar della sera, stupido, stupido io che avevo potuto credere anche solo per un secondo a tutto quella storia assurda!
Ah, era una sensazione assolutamente meravigliosa…
- Driin!
Ruotai piano la testa verso sinistra, lo sguardo fisso verso il cellulare scuro che campeggiava fiero sul letto.
A pensarci, e lo pensava la parte imbecille del mio cervello, quella sarebbe stata sicuramente una magnifica sequenza cinematografica.
- Driin!
Ripeté nuovamente il telefonino, evidentemente per nulla intimorito dallo sguardo minaccioso che gli stavo rivolgendo in quel momento. Sentivo che il masso di cemento, dissipatosi poco prima, cominciava a riformarsi, dritto sulla bocca del mio stomaco.
- Driin!
Non sapevo che cosa esattamente mi spinse ad alzarmi, sinceramente non ne avevo la più pallida idea, eppure lo feci.
La mia mano, quando toccò lo schermo liscio, non tremava neanche.
Era ferma. Irremovibile. Terribilmente irritata, forse. Più probabilmente troppo incredula e spaventata.
No, non può essere.
- Driin!
Fu infatti con una tono flebile e insicuro che risposi.
- Sì. – non avevo nemmeno la forza di formulare una domanda come si doveva, la voce mi si spezzò.
- Daniel, Daniel sei tu?
Con lo sguardo inebetito rivolto in avanti, pareva non riuscissi veramente a realizzare quello che Brian mi stava dicendo.
Brian.
- Si può sapere dove diamine sei? Lo sai che ore sono?
Sapevo già che sarebbero state quelle le sue parole. L’avevo saputo da quando avevo sentito quel maledetto, primo squillo.
Sapevo quello ed anche che, beh, ero inesorabilmente fottuto.
Di nuovo.
La mia mano improvvisamente si fece molle, debole, e il telefonino cadde per terra. Produsse un tonfo sordo il cui eco mi riempiva le orecchie peggio di quelle ultime, fatali, parole di Brian.
Non ci pensai un secondo, in quel momento pensare mi avrebbe distrutto, e, recuperata la giacca con il portafoglio per inerzia, uscii dalla porta, completamente inebetito.
Quale emozione era quella che mi spingeva a scendere le scale? Panico, paura, rabbia forse?
Probabilmente tutte quante insieme e molte, molte di più.
La peggiore? Forse la consapevolezza, che sentivo forte e mi atterriva. Era quella che mi mozzava il fiato, quella che minacciava di farmi perdere i sensi da un momento all’altro.
Con passo incerto scesi i primi gradini e per poco non andai a sbattere contro un ragazzo dai capelli scuri, che mi gridò improperi a cui non prestai assolutamente alcuna attenzione.
Uscii dalla porta del dormitorio che mi sentivo come, che situazione ironica!, come in un sogno, le mie gambe si muovevano da sole, non sapevo né dove fossi diretto, né tanto meno perché fossi diretto proprio , ma il mio corpo pareva deciso a farmi allontanare il più in fretta possibile dal campus.
- Daniel! Ehi Daniel, dove vai?
Oh no, non lei, non adesso.
- Daniel, ma vuoi fermarti?! – Un braccio sottile mi strattonò la giacca e, giratomi indietro, mi ritrovai di fronte a due occhi azzurri e svegli.
- Daniel…! – cominciò, con un tono che ben si accoppiava a quell’espressione irritata – Daniel, ma cosa… che hai? – poi, però la voce cambiò. Sembrava preoccupata, Nicole, e perplessa.
Beh, lei che era sempre stata così intuitiva, come avrebbe mai potuto ignorare la faccia da disperato che dovevo avere in quel momento? E lo ero, ero proprio disperato, ma non era certo il caso lo sapesse anche lei.
- Nulla, Nicole, sono in ritardo per il lavoro. – la voce che mi era uscita dalla bocca era bassa, irritata, molto più arrabbiata e disinteressata di quanto avessi voluto.
Mi fissò ancora, sotto le sopracciglia corrucciate.
- Dan…
- Brian mi ammazza se non mi muovo. – caspita, parevo proprio furioso.
- Ma, ma… Daniel, io… non ti capisco. Adesso mi spieghi cosa…
Distrattamente, vidi le nuvole alle sue spalle addensarsi, sembrava stesse per prepararsi un bel temporale.
Una strada stretta. Piove e c’è un forte vento. Un uomo con un cane al guinzaglio, cerca riparo sotto una vicina tettoia, mentre una donna, in lontananza, tenta di aggiustare il suo
ombrello, divelto dal vento.
No, stavo perdendo tempo, ne stavo perdendo veramente troppo.
Meglio un taglio netto.
- Daniel, Daniel mi senti? Sei pallido, così pallido! Che ti succede, qualcosa non va? Sai che puoi parlarmene, io…
In quel momento le mie labbra toccarono le sue.

Che cosa??? Le mie labbra fecero COSA???

Un secondo dopo mi stavo già allontanando e lei era rimasta lì, ammutolita, con gli occhi sgranati. Non mi stava seguendo, come avevo previsto.
L’avevo fatto per quello? L’avevo fatto perché mi serviva una giustificazione per il mio comportamento, perché sapevo che così sarei riuscito ad allontanarmi più velocemente?
Forse. Forse però volevo un addio come si deve, volevo fare in modo che mi ricordasse, Nicole, anche se dei mostri pallidi mi stavano inseguendo, anche se sarei finito avvolto dalle fiamme.
 
Raggiunsi il mio scooter e quello partì subito. D’altronde, l’aveva già fatto la prima volta.
A quel punto, era finalmente arrivato il momento di cominciare a pensare a qualcosa da fare, una cosa qualunque, che novità. Se inseguimento fallimentare doveva essere, sì la solita vocina pessimista era inevitabilmente ritornata, che almeno durasse il più a lungo possibile.
Aeroporto.
L’idea nacque da sé, ancora una volta.
Sì, insomma, pareva proprio che in tutta quella storia un viaggio in aereo non sarei proprio riuscito a scamparmelo.
E poi, dove? Ci avrei pensato in seguito.
Il primo volo sarebbe andato bene, il primo volo che non richiedesse un passaporto, quello che avevo lasciato in stanza e non avevo la minima intenzione di andare a riprendere, o di risorse finanziarie che non possedevo.
Se la sarebbero sudata la mia pellaccia. Era quella una convinzione, o forse un desiderio, che, ovviamente, non avrebbe portato a nulla di buono. Ma, che cavolo, mi ero già arreso la prima volta, in quel sogno o visione che fosse, forse adesso… adesso che sapevo, le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa…
No, non l’avrebbero fatto, lo sapevo, ma se mi avesse abbandonato anche la speranza, fin da subito, mi sarei sentito un fallito su tutta la linea.
Avevo baciato Nicole, io, il che, più o meno, significava che avrei potuto conquistare il mondo.
Un mondo che non fosse popolato da creature pallide e dagli occhi rossi, però.

 


 
 
Note:
“Un taglio netto”: New Moon.

Auguri a tutte le donne!

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Capitolo 12
*** Nuovi scontri... ehm, incontri, volevo dire incontri ***


Capitolo 11
Nuovi scontri…ehm, incontri, volevo dire incontri





Situazione ridicolmente classica, quella.
Me ne stavo seduto nel posto più scomodo che la classe economica potesse offrire. Il passeggero al mio fianco, un uomo dalle calvizie incipienti, si era addormentato, situazione classica appunto, e stava lentamente scivolando nella mia direzione, inesorabilmente soggetto alla forza di gravità. Non potendo fare molto a riguardo, appoggiai stancamente la testa allo schienale e chiusi gli occhi.
Tutta quella tensione accumulata mi stava creando un non indifferente mal di testa e potevo solo tentare di ignorare il fatto che prima o poi, piuttosto “prima” visto che ormai eravamo partiti da parecchio, saremmo inesorabilmente atterrati. E a terra, ne ero certo, non mi aspettava nulla di edificante.
Voltai la testa verso sinistra, così, giusto per far qualcosa, e mi azzardai a guardare in basso, verso le lande desolate, e desolanti nel mio caso, che si estendevano davanti al mio sguardo.
Visto da quella prospettiva sembrava tutto molto freddo, là sotto. Un brivido mi attraversò e l’unica cosa che potei fare fu stringermi un poco di più nella mia vecchia giacca di pelle. Molto cool, secondo Nicole, ma terribilmente inutile contro il freddo.

- Salve, un biglietto, grazie. – disse, agitato da quella lunghissima fila che gli era sembrata infinita.
Ventisette persone. Ventisette. Ma tutta quella gente doveva partire proprio quel giorno?
- Per dove? – la donna in blu seduta davanti al computer gli sorrise affabile, ma lo sguardo era un po’ troppo ironico...
Oh, doveva veramente piantarla. Non è che adesso tutti quelli che gli sorridevano ce l’avevano con lui!
- Oh, giusto. Ehm, dunque… il primo volo disponibile?
Le dita sottili della donna sfiorarono il computer con leggerezza.
Con fare circospetto, intanto, si affrettò ad estrarre il portafoglio dalla tasca interna. Il maledetto tentò di scivolargli a terra… o forse erano solo le sue mani che erano terribilmente sudate.
Dannazione, doveva calmarsi, l’avessero creduto qualcuno di sospetto, ora dei controlli, non sarebbe partito più e allora… niente di buono, niente, niente di buono.
- Abbiamo tre voli in partenza. Il primo per Washington, poi uno per Seattle e uno per Boston. Partono rispettivamente fa un’ora, fra quaranta minuti e fra un’ora e mezza. – rispose squillante la donna.
Tutti e tre continentali, constatò. Bene.
Beh, “bene” era proprio una parolona, vista la situazione, ma almeno non era necessario nessun passaporto e, azzardando un po’, i suoi contanti sarebbero anche potuti bastare. In realtà, poi avrebbe probabilmente dovuto vivere sotto un ponte, ma era un problema da affrontare in seguito.
Dove, dunque?
Un posto lontano e isolato.
Un posto che, almeno, fosse sufficientemente conosciuto. E lui era stato solo…
- Direi Seattle… - quasi sulla West Coast… beh, meglio di niente, dall’altra parte del paese era già qualcosa.
- Oh, mi scusi. – lo interruppe la donna – Ce n’è anche uno in partenza per Anchorage, se fa subito il biglietto, fa in tempo a salirci. Parte a minuti.
Un posto ancora più lontano e ancora più isolato. Non c’era mai stato, ma era la soluzione giusta, cosa poteva sperare di meglio di una partenza immediata?
- D’accordo e Anchorage sia.
Beh, esisteva sempre la possibilità che gli Occhi Rossi odiassero gli orsi polari. Poteva anche essere…

- Salve è il vostro comandante che vi parla. Siete pregati di allacciare le cinture…
Aprii gli occhi e mi accorsi con orrore che l’uomo alla mia destra era inevitabilmente franato sulla mia spalla.
Dannazione, mi ero addormentato ancora? Ma da quando avevo bisogno di tutte quelle ore di sonno?
- Mmh mmh… - Se non altro quando mi schiarii la voce l’uomo ebbe l’accortezza di alzarsi, anche se borbottando qualcosa di incomprensibile e con un’espressione scocciata.
Avevo dormito… senza incubi, sì insomma quegli incubi? Beh, piuttosto buona come cosa. Anche se era di certo meglio evitare di illudersi. Una volta sceso… lì sì, che sarebbe cominciata la corsa verso la salvezza.
Cavoli, che cosa drammaticamente nerd da dire.
Che la forza sia con te. Sussurrò la mia stupidissima vocina interiore, come fosse il momento giusto per certe considerazioni.
La ignorai, chiudendo la cintura di sicurezza. Poi respirai, lentamente.


- Ma questo sarebbe perfetto!
Sua sorella teneva tra due dita un tablet di ultima generazione, poco prima ancorato saldamente al bancone della sezione tecnologia del supermarket da una catenina in ferro.
- Kate… – le disse, semplicemente, guardandosi intorno circospetta. D’accordo che quel posto era praticamente deserto, ma com’era possibile che in quei mille anni sua sorella non avesse ancora capito il significato dell’espressione “non attirare l’attenzione”?
- Come sei tediosa e paranoica, Tanya… dicevo, secondo te, gli piacerebbe?
Con un gesto veloce, tanto veloce che nell’intero supermarket probabilmente, sicuramente, lo notarono solo loro, recuperò il tablet dalle mani della sorella, per poi prenderla sottobraccio e allontanarla da quegli oggetti, potenzialmente troppo fragili per lei.
Non perché fosse maldestra, insomma, nessun vampiro lo era, giusto perché emanava scariche elettriche e ancora pareva dimenticarsene.
Come quando, appena dopo la trasformazione, l’aveva quasi fritta, tentando di abbracciarla. Mmh, brutti ricordi…
- Garrett non sa nemmeno cosa sia un tablet, Kate. L’ultima volta che l’ho visto stava giocando con i soldatini…
Piccata, la sorella le rivolse un’espressione scocciata. – Il mio compagno non gioca con i soldatini. Erano riproduzioni originali della Guerra d’Indipendenza, d’accordo? Mi stava solo spiegando la battaglia…
- Soldatini, fidati. – le ripeté, con un sorriso malizioso.
- Sarà, - proruppe allora lei - ma è un gran pezzo d’uomo anche se gioca con i soldatini!
Sua sorella, la guerriera implacabile, quella che già da umana maneggiava i colteggi meglio di un macellaio, sembrava aver ingoiato un barattolo di miele da quando aveva conosciuto quel Garrett.
Insomma, neppure ai vecchi tempi, quando si nutrivano d’amore, per usare un buon eufemismo, era così zuccherosa. Chissà cosa avrebbe pensato Irina vedendola…
Irina… no, non doveva pensarci. Perché ci stava pensando? Non doveva.
Si girò verso la sorella e le rivolse uno sguardo confuso… davvero quell’espressione sognante non le si addiceva affatto.
- Queridas, guardate un po’ che belle cose che ho preso dallo speziale, oggi. – disse Carmen, appena arrivata da chissà dove, con la sua solita espressione gioviale. Seguita come un’ombra dal solito, serio Eleazar.
- Credo si dica farmacista, Carmen. Erborista, al massimo… - disse, senza poter evitare di rivolgere uno sguardo allarmato a Kate, che stava fissando l’innocuo sacchettino con la sua stessa espressione.
- Vi vedo, chicas. Potrei sapere da quando non vi piacciono più i miei incensi?
Entrambe, contemporaneamente, le rivolsero un’espressione ironicamente perplessa.
Doveva essere piuttosto comica come situazione, visto il sogghigno di Eleazar. Beh, “sogghigno”, al massimo al massimo riusciva a sollevare elegantemente gli angoli della bocca.
- Oh, ma noi adoriamo essere intossicati dai tuoi incensi, figurati. Come non potremmo…? - disse Kate con ironia.
- Ah ecco, mi sembrava. – rispose Carmen sorridendo, non si capiva mai se non fosse in grado davvero di comprendere il sarcasmo o se facesse semplicemente finta…

Pochi minuti dopo si stavano già dirigendo all’esterno dell’edificio.
Non è che fossero soliti fare quelle uscite “famigliari”, per così dire, ma si era improvvisato il bisogno impellente di Carmen di nuovi intrugli odorosi, o “profumi d’oriente, chicas” come le piaceva definirli, e quello di Kate che doveva assolutamente prendere un regalo a Garrett per l’anniversario di non-si-ricordava-bene-che-cosa, il che, contando che era un vampiro dalla memoria perfetta, era piuttosto grave. E così erano partiti loro quattro, era quasi impossibile separare Carmen ed Eleazar, almeno Kate e Garrett non erano così evidentemente innamorati, non in pubblico, solitamente almeno… ah, che cosa dannatamente ingiusta, lasciando l’ultimo arrivato a casa, a giocare coi soldatini appunto.
- No, senti, non se ne parla proprio che torni a mani vuote. Torno indietro, prendo il tablet e arrivo, voi cominciate ad andare. – Kate non aspettò nemmeno una risposta, era semplicemente scivolata via, con buona grazia degli umani della sala. Se non altro parevano non essersi accorti di nulla… fortuna sfacciata.
- In realtà anch’io dovrei cambiare… - chiocciò Carmen, con una vocina così dolce che pareva il dispiacere fatto a persona.
Ma lo fanno apposta?
- Io vi aspetto alla macchina. – E se non vi date una mossa, vi lascio a piedi. Ma questo non lo disse, lo pensò solo a voce molto alta. Sperò che il suo sguardo fosse stato abbastanza eloquente.

Stava uscendo dalla porta di servizio e aveva una mezza idea di sgattaiolare fuori dal tetto e andare a casa direttamente a piedi. In fondo, quanti chilometri potevano mai essere? Non troppi, non per chi ha da mille anni un fisico parecchio adatto alla corsa.
Stava già assaporando il suo buon libro, il camino e la sua amata calma, se lo spirito guerriero di Garrett glieli avessero permessi, lui e gli incensi di Carmencita.
Si sentiva spossata. Non stanca, ovviamente i vampiri non possono essere stanchi. In più poi, anche se non l’avrebbe mai ammesso apertamente, a casa l’aspettava la nuova puntata della sua serie tv preferita e non poteva assolutamente perdersi il nuovo matrimonio di Brooke. Non se ne parlava proprio.
Stava pensando a questo quando aprì la pesante, non per lei, s’intende, porta a doppia anta dell’uscita e un ragazzo le venne a sbattere contro. Non proprio “contro” dato che i suoi super-riflessi le permisero di scansarsi in tempo, ma, in compenso, il suddetto ragazzo sarebbe finito carponi se non si fosse agganciato alla maniglia di sicurezza con prontezza.
- Dovresti prestare più attenzione… – disse pacata e gentile verso di lui.
La reazione al suo sorriso amichevole però non fu esattamente quella che si sarebbe aspettava.
Il suddetto ragazzo infatti, capelli e occhi scuri, giacca di pelle e jeans malandati, molto anonimo insomma, la fissò con uno sguardo allibito. Gli occhi, già di per sé stessi piuttosto grandi, si spalancarono, insieme alla bocca e in faccia gli si dipinse l’espressione più terrorizzata che avesse mai visto, più o meno.
Poi, il ragazzo si mise a correre.
Ecco, lo sapevo che spasimare un po’ di tranquillità era chiedere troppo.
Pensò, prima di andargli dietro.








Note:Questa non ve l’aspettavate, eh? Eh?
Se ve lo aspettava non ditemelo, lasciatemi crogiolare un po’ nella mia felice ignoranza… Che ve ne pare? Uhm, non sono sicura di volerlo sapere…
Comunque:
Che la forza sia con te: Star Wars
“Nutrirsi d’amore”: le tre sorelle erano considerate succubi (demoni succhia-anima o simili) ai vecchi tempi (poi Tanya scoprì il sangue animale… e il resto lo sapete) in quanto si innamoravano di giovani uomini, si divertivano con loro e poi, di loro, si nutrivano. (Meyer docet) Già niente di allegro…
Vi saluto, speranzosa e in preda all’ansia, alla prossima,
Aout ;)
PS Chiedo scusa se non risponderò subito alle (eventuali) recensioni ma domani parto, ci sentiamo in settimana (:

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Capitolo 13
*** Perchè il mondo è pieno di occhi dai colori improbabili ***


Capitolo 12
Perché il mondo è pieno di occhi dai colori improbabili

 
 
 
 
- Un tè, grazie.
Davanti a me stava, arcigna, una cameriera pallida e dai capelli grigio topo. Ero seduto al bancone di quel piccolo bar, immobile, da più di due minuti ormai, aspettando invano che mi venisse data una risposta.
Immobile… ma dico, vi rendete conto?
Stavo immobile.
Per quale ragione non avevo ancora cominciato a correre, vi chiederete, preferibilmente urlante e magari sventolando le mani in aria preso dal panico? Sì insomma, perché non manifestavo quel terrore che doveva attanagliarmi?
La donna, comunque, pareva ben lungi dal preoccuparsi delle mie preoccupanti elucubrazioni mentali…
- Ehm… un tè, grazie. – dissi di nuovo, più forte.
Uno sbuffo spazientito, un ticchettante rumorio di tacchi sul parquet e poi finalmente la cameriera si decise a prepararmi la sospirata bevanda calda. Calda… ingurgitare qualcosa che non fosse quell’aria gelata che in quel momento scalpitava nei miei polmoni, sarebbe stato fantastico.
Ma, insomma la questione è alquanto fondamentale, com’era che ero così tranquillo?
Beh, dunque… io, come dire?
Io… ecco… io, sapevo che gli Occhi Rossi non sarebbero arrivati .
Speravo intensamente, sul serio, che quella consapevolezza nascesse dal fatto che no, non mi avevano aspettato al terminal con uno striscione di benvenuto, né fuori dall’aeroporto, né tanto meno li avevo trovati a bersi un cappuccino in quel bar.
In realtà, però, io lo sapevo e basta. Ne ero, in qualche modo, sicuro, ecco.
Deglutii la poca saliva che mi rimaneva in bocca, aspettando anelante il tè caldo che non arrivava e di cui avevo profondamente bisogno, considerando quanto ormai fossi prossimo al congelamento. E avevo scelto volontariamente l’esilio in Alaska… ma Honolulu, no?
Dopo qualche eterno minuto, finalmente il tè arrivò e mi ritrovai subito a scottarmici la lingua, sotto lo sguardo di quell’antipatica cameriera.
Stavo proprio assaporando quel momento, ecco, quel tè era riuscito, vai a sapere come, a regalarmi un momento di tranquillità, un momento finalmente felice, anche se puramente temporaneo e, nello specifico, molto, molto breve, comunque.
Beh, diciamo che avrei dovuto accorgermi che le cose non sarebbero potute andare bene nemmeno per un effimero, passeggero istante.
Infatti, se un secondo prima la tazza era saldamente ancorata alla mia mano destra, un secondo dopo si era infranta per terra e il suo contenuto bollente era sparso sulla mia camicia scura.
L’attimo aveva infranto l’attimo.
Perché li avevo visti. Loro.
Beh, insomma, non è che fossero proprio loro, ma, cavoli, ci andavamo dannatamente vicino.
Un uomo e una donna stavano passeggiando ad appena qualche metro da me, avevano dei pacchetti in mano e sarebbero potuti sembrare normali passanti. Sarebbero, vista la pelle spaventosamente pallida. Si muovevano con una fluidità così sovrumana che non dubitai nemmeno per un singolo istante di aver preso una cantonata, era fuori discussione. Erano decisamente troppo simili a loro.
A quel punto, non pensai.
Non pensai alla mia pelle scottata da quella bevanda alla lava pura, la solita parte imbecille del mio cervello constatò che quella cameriera doveva essere particolarmente frustata per avercela con uno sconosciuto, non pensai che quei due avevano continuato per la loro strada ignorandomi e che magari non stavano cercando me, non pensai che, se anche si fosse realizzata l’improbabile possibilità che non mi avessero visto, una fuga rocambolesca avrebbe segnalato la mia presenza più di un coro da stadio.
Non ci pensai e cominciai a correre.
Superai con un balzo, e conoscendomi fu già tanto che non andai a schiantarmi sullo stipite del tavolo, la sedia davanti a me. Superai la scostante cameriera, lievemente sorpresa, aprii la porta con una certa irruenza e mi diressi lungo il corridoio del supermarket.
Cavoli, cavoli, cavoli. Ma perché ero venuto lì, eh? Noleggiare una macchina e fuggire verso qualche desolata landa del nord, questo avrei dovuto fare!
Ma no, prendiamoci un tè, con calma, tanto non sei inseguito da degli esseri spaventosi, giusto, Daniel? Constatò sarcasticamente la mia irritante vocina interiore.
Entrai dalla prima porta che trovai aperta. Con mio grande dispiacere, mi accorsi che le scale portavano verso l’alto. Ma verso l’alto dove?
Lo scoprii qualche secondo dopo, quando sbucai su un tetto in cemento, dove il freddo era tale che pure i miei denti si erano arresi e avevano smesso di battere.
Cazzo e adesso?
Pensai, molto prosaicamente.
Mi girai e mi guardai attorno. Fino a quel momento non l’avevo ancora fatto, era stato troppo il terrore. Se mi fossi girato, se li avessi trovati… non so, ma non sarebbe stato di certo un bene, ecco.
Beh, mi accorsi che non c’erano. Non c’era nessuno lì, con me, a congelarsi, proprio nessuno.
Che fare?
Scendere, subito. Sul serio, morire assiderato non era mai stato un mio desiderio e non avevo proprio alcuna intenzione di provarci in quel momento.
Perciò scesi le scale. Piano piano, con sguardo circospetto, calcolando ogni gradino al millimetro. Quanto dovessi risultare ridicolo era una cosa da ignorare in quel momento.
Eccoci, la porta. Bene, aprila e inizia a correre, d’accordo?
Sì, correre… facile a dirsi, ma il lavoro avrei dovuto farlo io. D’accordo, ci siamo, tre due uno…
 
Occhi gialli.
Mi osservano, da lontano.
Sono malinconici, non ci sono lacrime, ma bruciano, lo percepisco.
Li vedo allontanarsi, veloci. Non posso raggiungerli, non posso.
Brucio anch’io, troppo per muovermi, troppo.
 
Occhi gialli, davanti a me.
Feci appena in tempo ad appoggiarmi alla maniglia di sicurezza prima di cadere carponi per terra.
Visioni nei momenti migliori, eh? Stavano cercando di uccidermi per caso? Anche loro?
- Dovresti prestare più attenzione… - mi disse, quella bellissima ragazza.
Aveva i capelli rossicci, più o meno, un viso dolce a cuore ed un sorriso lieve ad incresparle gli zigomi alti. La sua pelle era candida, come la neve.
Troppo candida.
Sì, ma gli occhi?
Non importa, corri.
Che potevo fare? Ricominciai la fuga, lontano, oltre quell’essere bellissimo, alla fine del corridoio, lontano da quella visione oscura che mi aveva lasciato una profonda malinconia addosso, senza sapere esattamente il perché.
 
Con un fiatone degno di un cavallo da corsa, ero giunto a qualche centinaio di metri dall'entrata del supermarket, sì, resistenza pessima. Mi appoggiai stravolto ad ringhiera in ferro, lì vicino, tentando di riposarmi un attimo. Non avevo più forze, ero stravolto, e così, quando quella gentilmente decise di rompersi, mi ritrovai per terra, con la faccia immersa nella neve bianca. Con il fiato che mi rimaneva, poco a dirla tutta, mi girai appoggiando la schiena a terra, cercando inutilmente di ritrovare un respiro normale.
- Stai bene?
Davanti al cielo blu cobalto che mi feriva la vista, comparve improvvisamente una cascata di capelli ricci.
- Waaaah! – urlai nella sua direzione, tirandomi, subito, in piedi - Non t-ti av-vicinare! – balbettai rivolto verso di lei, penso per il freddo agghiacciante, e mi accorsi con orrore che era proprio la stessa donna da cui ero scappato. Da cui avevo cercato di scappare, evidentemente.
Mi rispose uno sguardo vagamente perplesso. Mi accorsi, in quel momento, che brandivo davanti a me un pezzo della ringhiera, che già si stava sbriciolando arrugginita tra le mie mani.
Lei, direi divertita ma forse esagero, mi disse: - Uhm, non voglio farti del male… - ma suonava un po’ dubbiosa come affermazione. Se non altro, e questo già era un buon punto a suo favore, non era assolutamente paragonabile alla stessa frase uscita dalla bocca di Sorriso-Malvagio.
Non che sia mai realmente accaduto, ben inteso. Oh almeno, credo…
Scrollai la testa per riordinare le idee, il mal di testa stava aumentando e mi distraeva.
Fissai lo sguardo su quell’espressione perplessa, innocente, su quegli occhi dorati.
Dorati… ma perché dorati?
- Non sono stupido… - osai – Il fatto che tu non abbia gli occhi rossi non cambia le cose… io, io non ancora capito cosa volete da me, ma non… voi, non… - la testa prese a girare più velocemente, il fiato a farsi più pesante. Che mi stava succedendo?
Lo sguardo della donna pallida si fece più affilato: - Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando…-
Stupido, stupido! Le stai dando troppo indizi, non lo capisci, sciocco? Loro non lo sanno, non sanno che hai visto tutto!
Uhm, ottima osservazione.
Se solo… se solo fossi riuscito a pensare razionalmente, se solo… ma la testa girava veramente troppo.
Mi aggrappai più forte a quella sbarra di metallo, come un’ancora per tenermi attaccato alla realtà, ma quella si sbriciolò, troppo arrugginita per sopportare appena una leggera pressione.
- Chi sei, tu? – mi chiese la donna, avvicinandosi.
- Non… –  tentai di dire, ad un passo da lei, cercando di retrocedere.
Ma quando il mio piede sinistro non trovò appigli sulla neve chiara alle mie spalle, semplicemente caddi, di nuovo.
Il mio sguardo si fece scuro, la mia visuale si strinse sempre di più su un abisso nero. L’ultima cosa che vidi, anche se sfocata e confusa, fu quel viso a cuore, con le sopracciglia contratte.
Poi… poi una landa chiara si dipinse davanti al mio sguardo, ma non era più quella in cui mi trovavo qualche secondo prima. Tante statue, tutte affiancate, stavano da una parte di una grossa radura, tutti rabbiose, con le fauci, fauci?, aperte, ringhiavano.
Gli occhi spalancati e rossi, scarlatti, brillanti.
Dall’altra parte del campo qualcuno stava dritto, con sguardo fiero… qualcuno che avevo già visto…
Poi, persi conoscenza.
 
 
- Cosa succede? – chiese, fermandosi – Demetri?
La guardia, immobile a qualche metro di distanza da lei, non si muoveva, fissando un punto davanti a sé.
- Si muove.
- Dove, Demetri? – chiese, annoiata e con tono irritato. Odiava ripetersi.
- Era a Providence, fino a qualche secondo fa, ma adesso… si muove. Credo si stia dirigendo verso sud. Warwick, c’è un aeroporto. – rispose lui, sempre con il solito sguardo vacuo.
- Credi? – fallire una missione così semplice non era nemmeno lontanamente pensabile.
Demetri si girò verso di lei, lo sguardo affilato: - È ancora indeciso.
- Potrebbe averci…? – chiese serio Felix, rimasto in silenzio fino a quel momento.
- Forse, meglio muoverci. L’America non mi piace.

 
 
 
 
 
 
 
Note: Chiedo scusa per il ritardo, ma sono tornata giovedì sul tardi e sono riuscita ad articolare poco o niente fino a ieri ;)
Dunque, dunque… capitoletto un po’ scarno, eh? Beh, mi rifarò *risata malefica*…
Per quanto riguarda le note puramente tecniche: secondo la Meyer (Guida Ufficiale) Demetri è in grado di rintracciare chiunque voglia in quanto riesce a seguirne la “traccia mentale”. Ora, cosa si intenda esattamente con questo termine... beh, io non ne ho la più pallida idea, perciò ho dato la mia approssimata interpretazione al tutto, vedete di non soffermarvici troppo (:
Ora del dodicesimo capitolo, dedico una piccola sviolinata a chi recensisce <3, a chi preferisce, a chi ricorda, a chi segue e anche solo a chi apprezza… grazie, grazie mille perché siete voi il motore della storia ;)
Beh, alla prossima,
Aout ;)

 

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Capitolo 14
*** Di discorsi senza capo né coda ma con i soliti, maledetti occhi rossi ***


Capitolo 13
Di discorsi senza capo né coda, ma con i soliti, maledetti occhi rossi

 
 
 
La trovarono immobile, immersa nella neve fresca fino alle caviglie, a fissare un punto davanti a lei con un’espressione perplessa e allarmata.
Più allarmata che perplessa. Ma neanche troppo a pensarci bene…
Il suddetto “punto davanti a lei” era un ragazzo, sulla ventina, con i capelli scuri e disordinati, che era appena, letteralmente, crollato ai suoi piedi.
Cosa sta…?
- Tanya, Tanya che succede? – per l’appunto, Kate aveva compreso perfettamente l’antifona – E chi diamine è quello? – l’avevano appena raggiunta, tutti e tre, da chissà dove.
- Perché è riverso a terra, se non altro. – intervenne Eleazar, con il suo solito tono grave.
- Ehm… - tutte domande ottime, quelle, sicuramente. Il problema, immaginò, era che non aveva la minima idea di quali fossero le risposte giuste da dare.
Perché un ragazzo era appena svenuto davanti a lei? Eh, a saperlo. Forse però chiedersi perché avesse deciso di proteggersi con una sbarra arrugginita da lei, e lei non era solitamente considerata un pericolo, non dagli umani se non altro,era più… interessante.
- Sono l’unica a pensare che, se lo lasciamo lì, congelerà? – almeno c’era l’atteggiamento da crocerossina di Carmen a farli rinsavire.
Lo spostarono e, visto che il parcheggio in cui erano capitati era isolato, come quasi tutto il resto dei luoghi in Alaska, non l’avevano certo scelta a caso, riuscirono senza problemi ad adagiarlo su una panchina lì vicino.
- Ci stai lasciando sulle spine per un motivo o…? – azzardò Kate, con la sua solita nonchalance.
In effetti era rimasta in silenzio per tutto il tempo. E non di proposito. Capitava raramente che un vampiro fosse soprapensiero ed era disgraziatamente quello il caso.
Stava pensando ad un sacco di cose e lo svantaggio di essere una creatura dalla mente ampia era che ci pensava contemporaneamente, il che era francamente stancante.
- Terra chiama Tanya? – riprese Kate e nel suo tono scherzoso si intuiva una punta di preoccupazione.
- Che è successo? – intervenne infatti il prode Eleazar, con tono serio.
Era giunto il momento di mettere un po’ d’ordine nella sua testa ed esporre qualcosa di utile.
- Quando mi ha visto ha iniziato a correre, - cominciò, - anche se secondo me stava già scappando da prima. Mi ha fissato ed aveva un’aria così spaventata che, beh, ho dovuto seguirlo. Siamo arrivati qui e, appena si è accorto che l’avevo raggiunto, mi ha… mi ha detto che non era uno stupido e che il fatto che non avevo gli occhi rossi non ingannava nessuno. Pressappoco, almeno.
Lasciò che la portata dell’informazione raggiungesse gli altri.
- Credi che sappia…?
- Dei vampiri? Oh sì, l’ho capito quando mi ha guardata negli occhi. Il problema è…
- È che bisogna capire da quale vampiro dagli occhi rossi lui stia fuggendo.
Succedeva spesso che lei e Kate facessero dei discorsi così, che si rubassero le frasi a vicenda, era una cosa per cui Carmen era solita prenderle in giro, come Irina un tempo. Ma d’altronde, con un migliaio di anni alle loro spalle, era logico si capissero al volo.
Certo, quello non era decisamente il momento per ironizzare su cretinate del genere, giusto perché esisteva la remota possibilità, remotissima ringraziando il cielo, che quel ragazzo stesse scappando da dei particolari occhi rossi.
Quelli, per capirci, che avrebbe rivisto volentieri solo in un falò, nel falò per la precisione, magari smembrati e urlanti. Non amava indugiare su certi particolari macabri, ma si sa, la vendetta, per i vampiri, è irrinunciabile.
Si riscosse, pensare a Irina in quel momento era decisamente controproducente. Non che non avrebbe potuto meditare la strage dei Volturi e intanto vivere una serena vita normale, in fondo, lo faceva tutti i giorni…
- Eleazar, credi di… - tentò, ma si accorse che il ragazzo si stava risvegliando.
 
 
I miei occhi furono brutalmente feriti dalla crudele luce del sole, quando li aprii.
La prima cosa che vidi, fu il cielo blu cobalto sopra la mia testa.
La mia testa… la sentivo rimbombare così forte che sembrava che una squadra di picchi avesse deciso di ridurla in polvere.
Con calma, non era certo mia intenzione cadere di nuovo a terra svenuto, mi alzai sulla panchina su cui ero adagiato pochi secondi prima.
Una panchina?
Alzai piano la testa e mi accolsero otto occhi gialli. Otto?
Ma che cos’è, li lasci un attimo da soli e si moltiplicano?!
- Ah, che mal di testa. – fu l’unica affermazione coerente che riuscì ad esalare in quel momento. Non avevo in realtà molte altre cose da dire.
Quando sei spacciato, sei spacciato, non è che le parole possano cambiare molto la situazione…
- Salve. – disse, educatamente, la donna dai capelli rossicci da cui avevo tentato invano di sfuggire qualche minuto prima.
Beh, almeno sei sicuro che quello è successo veramente, con tutte le cose che stanno non-capitando negli ultimi tempi…
- Cazzo. – fu la mia, per nulla educata, risposta. Mi succedeva di rado, ma quando avevo perso le parole, ci mettevo un bel po’ a ritrovarle.
- Mmh, giuste parole, ragazzo. – disse, con un filino di ironia, un altro paio di occhi gialli, quello che campeggiava su un viso ovale incorniciato da dei lunghi e liscissimi capelli biondi. Mi pareva già vagamente ostile, quel tono.
- Come ti chiami? – riprese la donna di prima, Riccioli Rossicci, con un’ espressione pacata, gentile. Pensai, inconsciamente, che era probabilmente la più autorevole del gruppo. Non che avessi dato particolare attenzione agli altri due, un uomo ed una donna, sempre bellissimi, ovviamente, e dai capelli scuri. L’uomo, in particolare, mi stava fissando intensamente e mi faceva sentire, che spiacevole, spiacevole paragone, una succulenta braciola di maiale, perciò era logico evitassi di guardarlo a mia volta.
- Nome? Io Kate, - disse ancora quella ossigenata, visto che non sembravo intenzionato a rispondere, accompagnando le parole al portarsi la mano al petto, per indicarsi. -Lei Tanya. - fece lo stesso con Riccioli Rossicci -  Tu…?
Credeva di stare parlando con un troglodita? No, seriamente? Al momento, al posto che ridere, e comunque la situazione era terribilmente ridicola, le rivolsi uno sguardo a metà tra lo sbigottito e l’offeso. E lei, di queste sfumature, evidentemente si accorse eccome.
- Beh, se dessi un segno di vita potremmo capire chi sei, da dove vieni, cosa ci fai qui… e un paio di altre cosucce…
- Per esempio? – non so, ma probabilmente il mio orgoglio personale mi costringeva a mostrare che sì, avevo anch’io una qualche proprietà di linguaggio, insomma!
Lei sembrò sorpresa di constatarlo. - Per esempio perché hai paura di gente dagli occhi rossi.
Uhm, vediamo un attimo… oh giusto. Mi hanno rapito, trasportato su un aereo, condotto in un castello medievale da qualche parte sperduta d’Italia e accompagnato da un tizio inquietante, più inquietante di loro se non altro, che, ancora non ho ben capito come, mi ha incendiato una spalla.
Ciliegina sulla torta? Quasi sicuramente tutto questo è avvenuto solo nella mia testa!
Peccato che l’unica cosa che riuscì ad articolare di tutto questo ben sviluppato discorso fu un flebile: - Voi non avete gli occhi rossi…
L’ossigenata, Kate a quanto pareva, un nome normale finalmente, mi fisso sarcastica: - Beh, almeno adesso sappiamo che non è daltonico…
- No, ascolta. – riprese Tanya, anche questo un nome se non altro lontanamente accettabile, cercando, era evidente, di riordinarsi le idee, - Perché stai scappando dagli occhi rossi? Quali occhi rossi? Cosa sai di loro… di noi? – aggiunse poi, fissandomi. La sensazione da braciola sul fuoco era piuttosto presente.
- Ehm… - davvero non sapevo cosa dire, - No, un attimo, sono confuso. – almeno mettere le cose in chiaro sarebbe stato un buon primo passo.
- Noi pure, guarda te. – ancora quella Kate, ma stare un secondo, uno piccolo piccolo,  zitti?
- Voi siete… - respira, - Cosa volete da me? – in fondo, la domanda cruciale era quella.
- Niente! Ma non era chiaro il concetto? – Kate era ufficialmente entrata nella mia lista nera, sicuramente, - Visto che non abbiamo idea di chi tu sia…
- Oh, chiedo scusa se mi era saltato in testa l’irragionevole dubbio che steste mentendo! – quel tono accusatorio, non mi andava giù - In fondo siete solo creature dagli occhi improbabili, dalla pelle pallida come quella di un morto, con una velocità supersonica e la forza di un carro armato! – esclamai, con la nettissima impressione che no, questo non lo dovevo dire… - Ehm… -cercai diplomaticamente di riparare all’errore - Cioè io… loro… voi… - ma, a parte l’elencazione di tutti i pronomi personali, non ci riuscì un gran che.
- Chi ti insegue, ragazzo? – chiese la donna con i capelli scuri, con una voce dolce e preoccupata, non che mi si potesse ingannare così semplicemente… - Rispondi, coraggio. Potremmo… - e qui sembrava proprio starci bene un “aiutarti”, ma immagino non volesse sbilanciarsi - capirci di più di tutta questa storia.
- Ehm… - iniziavo a pensare che chi mi trovavo dinnanzi non avesse nulla a che fare con chi mi aveva non-rapito. Perciò, ma forse cercavo semplicemente di togliermi un peso dal petto, dissi - Non lo so. Nel senso che io…
- Nel senso che hai delle visioni troppo poco chiare? Magari solo delle sensazioni, che ti hanno condotto qui? – disse l’unico uomo del gruppo.
Lo fissammo tutti e tre sbigottiti.
Ma sapete delle visioni allora! Brutti… siete in combutta con loro! Lo sapevo, fidati solo di quelli che hanno gli occhi marroni o azzurri, se proprio proprio verdi, porca vacca!
- Eleazar, cosa stai dicendo? – chiese Tanya.
- Questo ragazzo ha i poteri di Alice. Credo siano un po’ diversi, ma forse è solo perché lui è ancora un umano, non so. Credo stia fuggendo da qualcosa che ha visto accadrà, giusto?
Al momento riuscivo a emettere solo suoni inarticolati.
Come fa lui a…? Cosa significa “ancora umano”? Chi diamine è Alice?
Passò un buon minuto di silenzio tombale, in cui ognuno di noi doveva essere immerso nei proprio pensieri. I miei erano pieni dei soliti e noiosi “ma si può sapere che ho fatto di male? Per quale crimine orrendo devo essere punito? A parte aver ucciso qualche zanzara d’estate non ce n’è nessuno, cavolo!” o giù di lì.
Poi, Tanya parlò: - Chi ti sta inseguendo, descriviceli, forza. – mi fissava con un cipiglio tanto autoritario e preoccupato che risposi. Risposi? Diamine, pure con sincerità!
- Non ricordo molto… erano tre, uno si chiamava Felix, l’altro Dimitri, no Demetri, e c’era anche una bambina… io non so chi fossero so solo…
- Cazzo. – interloquì Kate. Con quell’affermazione si era guadagnata ufficialmente la cancellazione dalla mia lista nera.

 
 
 
 
 
Note:  Salve, come va?
Scusate se non ho pubblicato ieri ma ci sono stati alcuni problemi logistici assolutamente molto complicati (in realtà non mi ero accorta fosse sabato il che risulta giusto un tantino preoccupante, comunque…), ma oggi son qui con il nuovo capitolo!
Sapete una cosa? Ho notato che la volta scorsa si è aggiunta un po’ di gente che ha messo la storia tra le seguite/preferite! Ma quanto sono contenta :3 Se vi andasse di farmi sapere se lo sviluppo delle vicende disastrate di Daniel vi piace, beh, fatemelo sapere, per l'appunto ;)
Per quanto riguarda questo capitolo, a parte il fatto che non so se riuscirò a perdonare Tanya per quella sua visione particolarmente poco carina, per il resto spero che non vi sia dispiaciuto il dialogo un po’ particolare tra i cinque. Adesso finalmente si conoscono!
Che dire ancora? Non so, ancora grazie a chi legge e a chi me lo fa sapere ;)
Alla prossima,
Aout ;)

Ah, Buona Pasqua!

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Capitolo 15
*** Sì certo, come no? Io sono Frankenstein e lui è il mostro di Lockness! ***


Capitolo 14
Sì certo, come no? Io sono Frankenstein e lui è il mostro di Lockness!

 



 - Non li sto difendendo, Kate, ma sarebbe un suicidio!
Ero seduto ai piedi di una statua raffigurante un’opera d’arte moderna, che fosse un leone con un grosso cappello a cilindro o un albero senza foglie, dipendeva tutto dalla prospettiva. Accanto a me stavano la donna riccia, Tanya, e quella con i capelli scuri, Carmen.
Davanti a me, invece, erano appostati in assetto di guerra gli altri due, Eleazar, e via nuovamente ai nomi impossibili, e Kate.
- Credi davvero potremmo semplicemente rimanere indifferenti?
Continuavano così da… da un po’, in effetti, ed io ero ancora troppo sconvolto per poter intervenire, anche se quello di cui si stava discutendo era il mio destino. Non che tra le possibilità che mi venivano offerte, o “imposte”, visto che non riuscivo ad avere voce in capitolo, ce ne fosse anche solo una buona, eh.
Troppo sconvolto.
 
- Cazzo, questo non va affatto bene.
Intuitiva la bionda liscia, ero davvero colpito.
- No, non è possibile…
- Calmati, noi… troveremo un modo per risolvere la situazione solo… solo non ho idea di come… - Tanya aveva alzato lo sguardo e mi fissava, come a soppesarmi.
Una braciola, io l’avevo detto.
- Ragioniamo. – disse, con una voce ancora più bassa e roca il tipo con i capelli scuri.
- Ragionare? E di cosa vorresti ragionare, esattamente, uh? I Volturi staranno per arrivare qui, ormai! Per Odino!-
- Beh, Kate, sai, non è detto…
Piantatela di fissarmi così, seriamente.
- Hai idea di quando sarebbero venuti a prenderti?
Cosa? Chi? Quando? Dove? Ok, ufficialmente non ci capivo niente. E io odiavo non capirci niente.
La mia espressione dovette farglielo capire.
- Non avrai un potere particolarmente sviluppato, immagino, ma qualcosa avrai visto, no? Sentito, al massimo, qualcosa che ti ha condotto qui, mi sbaglio?
Potere? Ah, fantastico, si cominciavano ad usare termini fumettistici, a posto.
No, non sono sarcastico, sempre meglio una tutina aderente degli Occhi Rossi.
- No. – mi alzai dalla panchina su cui ero ancora seduto, quel discorso andava chiarito. Io dovevo sapere – No, io… io non ho la benché minima idea di cosa stiate parlando. – il che, ormai, avrebbe dovuto essergli chiaro - Perciò, prima mi dite quello che, porca vacca, dovrei sapere e poi vi dico quello che so io. Mi sembra uno scambio equo, no?– non so se fossero più sorpresi loro della mia presa di posizione oppure io. Ma, insomma, avevo appena scoperto l’unico loro punto debole, la paura per gli Occhi Rossi, e come potevo non approfittarne? – Immagino non vogliate avere i Vol… qualcosa tra i piedi, giusto?
Mi risposero quattro sguardi freddi.
Mmh, ottima idea, Daniel, pare tu sia riuscito a renderti nemici gli unici che, in linea di massima, non volevano ucciderti. Sinceri complimenti.
Deglutii e mi imposi di non mettermi a frignare. Insomma, ne sarebbe andato della mia nuova immagine da… da cretino-che-crede-di-poter-prendere-in-mano-la-situazione-e-combina-un-casino, come intuivo da quelle espressione terrificanti.
- Non sei il ragazzo ingenuo e spaventato che sembri.
Frase un po’ troppo stereotipata, ma no, non sono ingenuo, mai detto. Malinformato, al massimo.
 
Ecco, diciamo che poi, quando era iniziato il film dell’orrore vero e proprio, le cose erano andate peggio.
Svenire due volte di seguito era stato un mio record personale, sicuramente.
 
- Siamo vampiri.
Dopo interi eoni, anche se in realtà tutto quel casino non era successo più di una settimana prima, finalmente sorridevo. Dovevo proprio darne atto a Tanya, un’ottima battuta.
Poi… beh, poi mi accorsi che nessuno di loro condivideva la mia ilarità. Carmen sembrava dispiaciuta, quasi.
- No, non è vero. – come mi fosse uscito quel tono allegro, non lo sapevo.
- Daniel…
- Ma questo non è possibile! – e ora arrabbiato. Sempre detto che questa storia mi faceva diventare isterico.
- Voi, insomma non… - no, mentono, stanno mentendo– Insomma è giorno! Volete dirmi che i vampiri possono uscire di giorno? – ottimo, constatazione brillante.
Kate, per tutta risposta, alzò un dito verso l’altro, ad indicare in cielo.
- Nuvole. – disse, con quella tenera ed ingenua semplicità che mi chiarì che no, non aveva ancora capito che non ero un troglodita.
- Ascoltami. Il fatto che sia giorno non ci tocca, la nostra pelle ha una leggera reazione al sole, tutto qui. Possiamo comodamente uscire fuori a tutte le ore.
- Niente bare? – chiesi e lo chiesi perché avevo terribilmente bisogno di chiederlo.
- No.
- Ma voi… voi vi… insomma cosa… - diciamo che questa parte mi spaventava troppo. Non riuscivo a formulare come si doveva quella frase.
- Come ci nutriamo, vuoi sapere questo? – Tanya, sempre più brillante. Ad un mio stentato assenso, continuò: - Di sangue. – e lì cominciai a impallidire. E indietreggiare. – No, aspetta. Noi abbiamo gli occhi dorati perché ci nutriamo solo di sangue animale.
La fissavo a bocca aperta come fosse un alieno.
No, mi spiace, niente alieni in questa storia.
Giuro che tentai di prendere la situazione con razionalità, ma crollai sulla panchina dietro di me.
Qual era la naturale conclusione di quel discorso? La mia mente matematica lo sapeva eccome.
Occhi gialli sta a sangue animale, come occhi rossi sta a … oh, cavoli!
 
Ci vollero due minuti interi perché riprendessi lucidità. Dopodiché, ce ne vollero altri due perché mi convincessi che sì, tutto quello stava succedendo veramente e no, non c’erano possibilità di dimenticare tutto e tornare al mio dolce, dolce college.
Poi era arrivata la batosta. Un’altra.
 
- Hai un potere e i Volturi, Aro, lo vogliono.
 
E li ero svenuto la seconda, memorabile volta.
Adesso, seduto alla base di quella statua, neanche troppo lontana dalla panchina su cui mi trovavo prima, i vampiri “vegetariani”, così si erano ridicolmente definiti, un po’ confusi sul significato ultimo della parola, stavano discutendo il da farsi.
- Ascolta, Kate, non possiamo batterli, non noi cinque e basta, non possiamo. Non possiamo nemmeno chiedere aiuto ai Cullen, non sono certo costretti a darcelo!
- È solo un ragazzo. – mi aveva difeso Carmen. Se non avesse avuto un marito così stronzo, intuivo fossero sposati, mi sarebbe stata anche simpatica. Ma, appunto, pareva che Eleazar volesse darmi in pasto agli squali. Letteralmente.
- No, non è questo il punto. – era intervenuta Tanya – Non possiamo permettere che Aro ottenga ciò che vuole, un veggente. Dobbiamo parlarne con i Cullen e vedere che fare, dopo quello che è successo con Benjamin…
- Sì, ma…
- Driin!
Rimasero tutti fermi un secondo. Solo un secondo.
- Pronto. – poi, Tanya prese il telefono e rispose – Alice… - disse, con l’aria preoccupata. Quella Alice? Quella che Eleazar aveva detto avere il mio stesso potere? Vuol dire che… - Oh. – disse semplicemente Tanya, fissandomi intensamente.
Beh, alla luce delle nuove informazioni, probabilmente assomiglio più a un succulento ortaggio, che a una braciola di maiale.
 

***


Kyle aveva sete. Molta, molta sete. Dove diamine era finito il Bruno?
- Kyle, dobbiamo muoverci. – disse Trey, con la stessa espressione impaziente sul volto che probabilmente aveva anche lui.
- No, è presto, dobbiamo aspettare il segnale.
- Ho sete, Kyle. Abbiamo sete, il Bruno non può pretendere che resisteremo ancora per molto, assiepati qui. – quegli occhi, scarlatti, lo fissavano irati e folli.
Folli sì, la sete li stava facendo impazzire.
Kyle fece spaziare lo sguardo sugli altri, in piedi sulla neve fresca al loro fianco. Tutti pallidi, tutti immobili, tutti assetati. Alcuni guardavano davanti a loro, pregustando già il futuro pasto, gli altri invece fissavano lui, per niente amichevoli.
No, non avrebbe potuto frenarli ancora per molto.
Il Bruno non può pretendere tanto da me, sono troppi. E troppo giovani soprattutto.
- Ancora qualche minuto, poi andiamo. – quella frase sembrò rincuorare Trey, che tornò di fianco ad Abegail, la sua compagna.
Kyle tornò a fissare il proprio sguardo sul cielo di fronte a loro, in attesa.
Il sole, che fino a poco tempo prima era stato coperto da una fitta coltre di nubi, stava lentamente facendosi spazio. Kyle sentì improvvisamente che i suoi raggi caldi gli sfioravano le membra.
Con interesse, osservò la sua mano destra, sollevata davanti a lui. Tanti piccoli cristalli luminosi ne ricoprivano la superficie liscia, parevano diamanti. Kyle si trovò a pensare, come tutte le volte, che quella era una cosa straordinaria, che mai avrebbe smesso di meravigliarsene.
Poi, un suono gli fece alzare la testa di scatto.
Erano passi, veloci. Qualcuno stava correndo nella loro direzione.
Pochi secondi e apparvero i capelli biondi di Alan all’orizzonte.
Il segnale.

 
 


 
Note:ù.ù finalmente si entra nel vivo dell’azione! (+o-)
Beh, non ho molto da dire su questo capitolo… ah, spero che sia risultato sufficientemente chiaro che i pezzi tutti in corsivo sono piccoli flashback…
Ok, adesso vado.
Alla prossima,
Aout ;)
PS Perdonate il capitolo, un pochino più corto degli standard :)

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Capitolo 16
*** Di piccoli puntini all’orizzonte e rivelazioni inquietanti (non più del solito, comunque…) ***


Capitolo 15
Di piccoli puntini all’orizzonte e rivelazioni inquietanti (non più del solito, comunque…)

 

 
- Mmh... – mormorò Eleazar, assottigliando lo sguardo rivolto verso di me, facendomi sentire ancora più insignificante e impotente di fronte a loro.
Supervelocità, superforza, bellezza inimmaginabile e una dolce e tenera passione per il sangue. Insomma, non è che mi potessi sentire particolarmente a mio agio, lì.
- Non riesco a…
Continuò, sempre rivolto verso di me, prima di girarsi improvvisamente alla sua destra.
Tutti e quattro, in effetti, nello stesso, preciso momento, si voltarono nella stessa direzione, fissando lo sguardo dorato in un punto indefinito all’orizzonte. La sincronia era stata perfetta in modo lievemente inquietante.
Stupidamente, mi girai sorpreso anch’io e l’unica cosa che potei constatare fu che… beh, c’era un sacco di neve.
Tutto lì, solo ed esclusivamente una grigia distesa di neve fresca.
Mah.
- Sono loro? – chiese Carmen, con una punta di apprensione nella voce limpida.
- È soltanto uno. Dubito siano loro, non avrebbe senso separarsi, non a questo punto. – intervenne Kate, con una voce fredda e calcolatrice.
Loro? Loro, loro? Oh, porca vacca…
Passò ancora qualche attimo, in cui tutti continuavamo a fissare, imperterriti, quella distesa vuota. Personalmente, stavo cominciando a chiedermi se non mi stessero per caso prendendo in giro.
Poi, improvvisamente, una figura scura, null’altro che un puntino insignificante, apparve all’orizzonte.
Un secondo prima era lì, ferma e decisamente piccola, poi, subito dopo, era già a distanza ravvicinata.
Si fermò giusto un passo davanti a Kate che, lo notai in quel momento, aveva rilassato i muscoli.
Io invece, e con tutta sincerità era più che dovuto, feci un provvidenziale passo indietro.
Mi ritrovai quel… quel vam…vamp… coso, a pochi metri, centimetri, di distanza e devo ammettere che per i miei nervi, già prossimi al crollo, non fu per niente un toccasana.
Constatai anche che quel… sì insomma, avete capito, era molto spaventoso, sul serio. Certo, con Sorriso-Malvagio Senior nessun avrebbe mai potuto competere, tuttavia… diciamo che pure quel biondo non scherzava.
Il viso era circondato da lunghi capelli disordinati, legati sulla nuca in un codino. Indossava una camicia bianca leggera, una di quelle che, viste in paesaggi del genere, fanno istintivamente rabbrividire, e un paio di pantaloni della stessa foggia, anonimi.
Anonimi… anonimi, già, peccato che un piccolissimo particolare non fosse poi così facilmente trascurabile.
Suvvia, ormai dovreste esserci arrivati, no?
Parliamoci chiaro, avete presente gli occhi rossi e lattiginosi di Sorriso-Malvagio Senior? Sì? Bene, dimenticateveli.
Quelli dorati degli eschimesi? Beh, dimenticate pure quelli.
Non avevo mai visto, mai, in tutta la mia esistenza, occhi così… così arancioni. Come si fa, ditemi voi, ad avere gli occhi arancioni?
- Garrett. – esalò Tanya, tirando un sospiro di sollievo e aggiungendo poi, con tono preoccupato – Che ci fai tu, qui? 
- Kate mi ha mandato un messaggio. – disse lui, con una ancora più roca di quella di Eleazar, - E lui sarebbe il “potenziale problema” di cui parlavi? – per poi rivolgersi verso di me, indicandomi e soppesandomi. Oserei dire pure con un leggero compiacimento.
- Più che lui, sono i Volturi che lo seguiranno. – e detto ciò, Kate si aggiunse a quello sguardo di… sfida? Disprezzo? Mah, non avrei saputo dirlo, sapevo solo che, di certo, non rappresentava niente di amichevole.
Se poi Garrett, ormai mi sono stancato di commentare i nomi, l’avesse smessa di stringere così spaventosamente le mascelle, sarebbe stato anche meglio.
- Garrett? – chiese Carmen, un po’ preoccupata. Aveva notato anche lei l’espressione irrigidita?
- Sto bene. – rispose lui, con nonchalanche – Ce la faccio. –
Sfida, sguardo di sfida, quello, assolutamente. Anche se, sapere “sfida a che cosa?” mi sarebbe piaciuto…
– Cosa diamine c’entrano adesso i Volturi?
Non avevo mai sentito una parola detta con tanto odio represso.
Mai fare incazzare il biondo. Registrò, saggia, la mia coscienza.
- Bene, così magari potreste spiegarlo meglio anche a me, già che ci siamo. – dissi e sì, il mio cervello era evidentemente scollegato alla lingua.
Non so perché, ma lo dissi. Lo dissi sul serio. Forse stavo semplicemente impazzendo.
E allora? Il mondo, al momento, mi sembrava la cosa meno razionale fosse mai esistita, perché avrei dovuto esserlo io?
Il biondo, Garrett per l’appunto, mi fissò con uno sguardo scettico. Come dire: “Come osi parlarmi, tu che non hai nemmeno un briciolo del mio fascino all’Indiana Jones ossigenato?”.
O forse smaniava semplicemente per assaggiarmi. Poteva essere.
- Sa prevedere il futuro. – disse Eleazar, indicandomi, come stesse constatando che non ci sono più le stagioni di una volta – E Aro lo vuole per questo. A quanto pare li ha visti arrivare, è scappato e ha trovato noi. – Uhm, caspita, tutta la mia tragedia personale ridotta a due frasi in croce… - Ma non era questo il punto, Dios mìo. – concluse, lievemente irato.
- Che cosa ti ha detto Alice, Tanya? – chiese Garrett.
- Mi ha detto semplicemente che lui non dovrebbe essere qui. – rispose lei, che aveva in mano il cellulare ancora aperto.
- No, seriamente? – interloquii, insomma, quella risposta doveva essere sarcastica.
Ok, ok, lo so, insomma, loro sono vampiri, come si può rispondere così?
Ma, ascoltatemi, la situazione si stava facendo troppo assurda per non rispondere, troppo, seriamente.
Mi sentivo… insomma, nessuno vorrebbe sentirsi preso in giro da delle creature fantastiche, vi pare? Era come se Trilli mi stesse dicendo di battere le mani per evitare la morte delle fate, suvvia!
Non dovevo essere lì? Beh, certo che non avrei dovuto esserci.
Porca vacca, nemmeno cose come i vampiri avrebbero dovuto esistere, no?
Tanya alzò un sopracciglio.
- In che senso? – le chiese Eleazar.
- Nel senso che, secondo Alice, lui dovrebbe essere dai Volturi in questo momento, mentre, beh, è qui.
- Questo non ha senso. – disse ancora lo spagnolo. Sempre che fosse spagnolo la lingua che aveva usato pochi attimi primi… - Intendi forse dire che fra poco sarà insieme ai Volturi?
Dovevo ammettere che il fatto che ne parlasse così tranquillamente mi metteva i brividi.
- No, Eleazar, ti sto dicendo che, secondo Alice lui è dai Volturi in questo momento.
Al che, di nuovo, mi ritrovai tutti gli sguardi addosso.
Ma quand’è che avevo mai desiderato tutta questa attenzione, si può sapere?
- Questo non ha…
- Senso? – interruppi il biondo. Io interruppi il biondo.
Ma sì, se dovevo combattere per vivere e fallire, che almeno lo facessi con stile. – No, non ha senso, mi pare che questo l’abbiamo appurato. Ma non potremmo preoccuparci del fatto che stanno arrivando i… quelli, piuttosto che dei poteri che fanno cilecca di qualche veggente?
 
I miei poteri non fanno cilecca.
Pensò Alice, con ben poca cognizione di causa. Ma Edward lo sapeva, i pensieri accidentali non vanno presi troppo in considerazione.
Quella da considerare, in quel momento, era invece la visione che, persistente, continuava ad occupare la mente della sorella.
Il ragazzo, in quel momento, era in una segreta del Palazzo dei Priori in preda alla trasformazione. Lo vedeva davanti a sé, chiaramente. Lo sentiva urlare, i battiti del suo cuore scandivano impazziti un tempo che, lo sapevano, sarebbe presto scaduto.
Già, peccato che il ragazzo in questione fosse, in quel momento, a pochi chilometri da loro e non aldilà dell’oceano. Fosse umano e in compagnia del clan di Denali.
Non capisco.
Alice aveva intuito, una sorta di sensazione, che qualcosa stava accadendo in Alaska e li aveva chiamati, sapeva che quel ragazzo, in qualche modo c’entrava. Ma… 
Ma la visione non cambiava, perché non cambiava?
Nel senso, avrebbe potuto essere che la possibilità di quel futuro fosse ancora lì, che si stesse per realizzare. Eppure, Alice continuava a sostenere che era un futuro troppo vicino, per realizzarsi effettivamente, che il ragazzo sarebbe già dovuto essere in Italia in quel momento per essere in quella fase della trasformazione.
D’altronde, non aveva osservato insieme a lei l’evoluzione dei fatti? Non aveva visto Felix accompagnare il ragazzo nella torre, parlare con Aro? Non aveva visto anche lui il morso?
Questo non ha senso. Perché non sta succedendo?
- Cosa dici, Alice? – chiese la voce distorta di Tanya, dal cellulare.
- Cosa dico? Cosa… io non lo so, non riesco a vedere oltre alla realtà che mi si para davanti, non so perché… - esalò la sorella, con tono deluso.
Tutti loro, nella stanza, erano fermi, immobili, come scolpiti nel marmo.
Perfino la sua bambina, Reneesme, se ne stava lì, di fianco a Jacob, mano nella mano con Bella, ad osservare la scena con quegli occhi troppo consapevoli.
Una piccola parte della sua immensa mente si chiese se avrebbe fatto meglio a tenerla lontana da tutta quella strana storia…
Intanto, i pensieri di tutti gli riempivano la testa, assordanti.
Oh, poveri noi…
Dobbiamo muoverci!
Un’altra guerra, in questo momento…
Di nuovo. Perché accade di nuovo?
Dovremo chiamare qualcuno.
Sopravvivremo, stavolta?
Umpfh, sempre pensato che confidavano troppo nei poteri del folletto. Ma se non riesce a vedere noi, non riesce a vedere Reneesme, non è certo così impensabile che anche qualcun altro possa bloccarla, no? Devo andare a riferire a Sam, appena ci capisco qualcosa…
Jacob. I suoi pensieri si sovrapposero improvvisamente a tutti gli altri.
- È un veggente anche lui. – disse Edward, rivolto agli altri. – Non abbiamo mai avuto a che fare con... è possibile, che questo c’entri qualcosa.
- Cosa stai cercando di dirci, Edward? – disse Carlisle, fissandolo serio.
- Bella, – disse inaspettatamente lui, rivolto alla moglie – ricordi che una volta di dissi che forse non sentivo i tuoi pensieri perché viaggiavano ad una frequenza diversa da quella di tutti gli altri? – Bella, sorpresa di quella domanda, annuì.
- Vagamente, ma…
- Intendi dire che quel ragazzo… interferisce con Alice?
- Beh, potrebbe…
 
- Secondo te è realmente possibile? – chiese Tanya a Eleazar.
- Non so davvero. Anche se… no, i loro poteri sarebbero troppo collegati, se così fosse. Ogni potere è a sé. O almeno, così ho sempre creduto, ma…
Cosa è possibile? Quale potere? Di cosa diamine state parlando?
Un bel minutino era passato tutto dalla mia stupida affermazione. Inizialmente tutti erano rimasti a fissarmi, che novità!, poi si erano avvicinati al cellulare nelle mani di Tanya ed erano rimasti in ascolto.
In ascolto di cosa, ancora non mi era dato di capirlo.
- Ma…- tentai, prima di bloccarmi.
Perché? Beh, ma perché era successo di nuovo. Di nuovo, gli sguardi di tutti si erano fissati su un punto sulla sinistra.
Beh, almeno stavolta notai subito quello che stavano osservando.
Era troppo evidente per sfuggirmi, benché non fossi altro che un umano deboluccio.
 
 

 
 
 

Note: Chiedo immensamente scusa per il ritardo, ma, visto come è pressante la scuola in questo periodo, mi sono vista costretta a pensare prima al rendimento che a EFP. Da adesso in poi temo anche che sarò costretta ad allungare di qualche giorno (solo qualche giorno, eh!) la settimana di consegna.
Voi non disperate, i capitoli arriveranno, solo un po’ più lentamente ;)
PS Non ho la minima idea se “Dios mìo” abbia un qualche senso logico in spagnolo, non avendolo io mai studiato, nel caso, chiedo venia ;)

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