implosion

di fioredaparete
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



 Era il 15 di settembre, avevo appena compiuto 17 anni ed ero sul punto di iniziare il mio penultimo anno di liceo. Mi aspettavo un anno esattamente uguale al precedente: stessi genitori ultraperfetti, stesso fratello rompiscatole, stessi amici, stessa scuola, stessi professori…  insomma, la solita routine, ma non avrei mai immaginato che la mia vita potesse essere sconvolta da qualcuno in così poco tempo.
 
-Destiny Peterson, non vorrai fare tardi il tuo primo giorno di scuola! - ovviamente mia madre era già sull’attenti, pronta a darmi addosso come ogni giorno e a ricordarmi quanto dovessi essere perfetta, che dovevo fare onore alla famiglia anche quest’anno, a differenza di mio fratello.

Beh, se tuo padre è il sindaco di una piccola città come Monroe ( North Carolina), dove tutti ti conoscono, non  puoi farne a meno.

Eh già, mio padre è Donald Peterson: politico, grande persuasore di masse e… il padre perfetto, come molti sostengono. La verità è che come padre è un grandissimo incapace, lui non è neanche un padre, è un… un… un estraneo che ogni tanto si degna di tornare a casa per cena; per lui fare il padre è un passatempo, un hobby, la sua vita è fare il sindaco, tutto il resto viene dopo, molto dopo.
E, come in tutte le “favole” che si rispettino, l’uomo perfetto deve per forza sposare la donna perfetta. Ecco che entra in gioco mia madre, Nora, anche lei perfetta solo agli occhi degli altri. Lei però, a differenza di mio padre, non è così male come genitore, anzi, si occupa di noi anche troppo. Per mia madre la famiglia viene prima di tutto, è lo sfondo perfetto per una campagna elettorale perfetta… è come se tutta la famiglia dovesse entrare in politica.
Cosa manca per formare una famiglia perfetta? Ah già… i figli perfetti.

Io e mio fratello, poveri esseri indifesi, prigionieri di un mondo a cui non sembriamo appartenere.

Brian, il mio fratellino, cosa dire di lui? E’ un adolescente come tanti altri… ultimamente è in una fase che mi piace chiamare “asocialità cronica”: se ne sta tutto il giorno rinchiuso in camera sua, non rivolge la parola nemmeno a me; mette piede fuori di casa solo per andare a scuola, e questo perché mamma lo obbliga ad andarci, se no Dio solo sa quando lascerebbe la sua stanzetta.

E in fine ci sono io, la martire della casa, sempre pronta a rimediare alle cacchiate di mio fratello, che non sono per niente poche, e a compensare il suo far nulla quotidiano.
“Devi portare avanti il buon nome della famiglia, sei tu il nostro futuro” mi ripetono sempre i miei.
Ecco perché cerco di essere sempre perfetta in tutto, di non deludere mai nessuno: sono capitano delle cheerleaders, a scuola me la cavo discretamente, ho una borsa di studio assicurata per studiare Legge alla Columbia e ogni anno, negli ultimi tre anni, sono sempre stata eletta Rappresentante degli Studenti. Eppure, non mi sono mai sentita realizzata, o semplicemente soddisfatta della mia vita, era come se qualcun altro la vivesse al posto mio.
 
-No mamma, ora mi alzo.

-Beh sbrigati, e fatti bella, devi farti notare!

-Come sempre…

-Tuo padre è già uscito, mi ha detto di salutarti, ora vado a tentare di convincere tuo fratello ad alzarsi. Brian, giù da quel letto! - concluse sbattendo la porta.

Mi alzai in fretta e furia e corsi in bagno. Mi guardai allo specchio e l’unica cosa che riuscii a vedere era una ragazzina assonnata e depressa. Quella non ero io, o almeno, non volevo essere io.

-Ho proprio bisogno di un “extreme makeover”- dissi tra me e me.

Avevo i capelli arruffati, tipo la criniera di un leone, solo un po’ più scura, e i miei occhi, anche loro marroni, erano circondati da degli enormi cerchi neri… in poche parole, sembravo un panda.
Mi tuffai sotto la doccia e mi misi un filo di trucco in faccia, tanto per evitare commenti del tipo “ecco la ragazza panda” oppure “ehi panda girl, ti va se dividiamo del bambù a pranzo?”.
Ok l’ultimo era patetico e improbabile, ma avete capito il senso.

Uscita dal bagno trovai sul mio letto una busta di plastica, di quelle che si usano per conservare gli abiti, la aprii e dentro ci trovai… un tailleur GRIGIO.
Ma davvero? Per caso mia madre pensava che stessi  andando ad un colloquio per un posto da segretaria?!?

Ovviamente, gettai nell’armadio la malefica busta e scelsi un vestitino a fiori dal taglio vintage e dai colori primaverili, abbinato ad un paio di ballerine beige con le borchie (per la cronaca, adoro le borchie).

Scesi in cucina per la colazione e, come avevo previsto, Brian era ancora di sopra ad abbracciare il cuscino. Mi preparai un toast con la mia marmellata preferita, presi un bicchiere di succo d’arancia e mi caricai la borsa sulla spalla.
Decisi  di andare a scuola a piedi, giusto per evitare il solito discorso “pre primo giorno” che mia madre mi faceva ogni anno, in cui non dimenticava mai di aggiungere le personali scuse di mio padre per non essere presente nemmeno quell’anno: volevo sentirmi libera quel giorno, senza pressioni, senza delusioni o nervosismi vari, ecco perché non mi degnai di salutare nessuno e filai spedita fuori dalla porta, pronta ad affrontare un altro anno.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ero per strada, immersa nei miei pensieri, quando mi si fermò davanti una porche nera, evidentemente appena uscita dalla concessionaria.

Mi bastò sentire un “Desyyyy” per capire che era Bridgit.
Sì, era la mia migliore amica, ma il suo atteggiamento da barbie super viziata a volte mi dava proprio sui nervi.

-Ehi, Bridgit! Regalo di compleanno?

- Alla fine papà ha ceduto- disse strizzando uno dei suoi meravigliosi occhi azzurri. Quando dico che è una barbie, non mi riferisco solo all’atteggiamento, lei è una vera e propria “bambola” : grandi occhi azzurri; lunghi capelli biondissimi,  lisci come spaghetti, e un’innata passione per il rosa.

-Non posso passarti davanti e lasciarti a piedi, salta su!

Salii sull’auto e partimmo.

-Come mai tua madre non ti ha accompagnato?- mi chiese distogliendo ogni tanto lo sguardo dalla strada.

-Non avevo voglia di sorbirmi il “discorso”.

-Tuo padre è impegnato anche quest’ anno?

-Già. - tentai di aggiungere qualcosa, ma, anche se mi sforzavo di mostrarmi indifferente alla faccenda, la verità era che avrei proprio voluto che mio padre mi accompagnasse a scuola il primo giorno, che si mostrasse fiero di me davanti a tutti, cosa che non accadeva da quando era stato eletto sindaco.

Non parlammo per quasi tutto il viaggio.

Stavo cercando di scacciare la malinconia dalla mia testa già abbastanza incasinata quando Bridgit ruppe il silenzio: - Eccoci qui! Nuovo anno, nuova vita dicono. Dai, fatti coraggio, quel brutto muso non si abbina affatto a quel vestito così carino, stampati un bel sorriso in faccia e scendiamo.- disse dandomi una delicata pacca sulla spalla.

Feci proprio come mi aveva detto, mi stampai in faccia un sorriso a 32 denti e scesi dall’auto, come se la mia vita fosse solo una lunga passeggiata in discesa.

Non feci in tempo a mettere il secondo piede fuori dalla macchina che mi ritrovai subito tra le braccia di Daniel, capitano della squadra di nuoto della scuola nonché mio migliore amico dalla terza media.

-Ti sei alzata eh?- disse sorridendo dolcemente, come solo lui sapeva fare.

Alzai lo sguardo e mi persi nei suoi grandi occhi marroni, i suoi capelli biondi ondeggiavano al vento e il suo sorriso era così sincero, così familiare, l’unica cosa veramente bella di quella mattinata.

Ok, lo ammetto, tra noi c’era stato qualcosa, ma niente di serio, avevamo chiuso perché eravamo entrambi dell’idea che rimanere solo amici sarebbe stata la cosa migliore, quello che avevamo era troppo importante per trasformarsi in una semplice avventura adolescenziale.

-Se lo dici tu…- risposi ricambiando il sorriso.

- E diventi sempre più bella, scricciolo. – ridacchiò e mi strinse con più forza, dandomi un leggero bacio sulla fronte, quasi come se si fosse dimenticato che dietro di lui c’era la sua ragazza.

- Ciao, Jordan.-  le dissi liberandomi dall’abbraccio di Daniel.

-Ciao! Mi sei mancata in questi mesi. – rispose lei ignorando la situazione. Infondo, lei sapeva benissimo ciò c’era tra me e Daniel e sapeva altrettanto bene che il nostro rapporto non andava al di là dell’amicizia e, comunque, lui è fatto così, è affettuoso… a volte anche troppo affettuoso.

-Anche tu, da morire! Come avrò fatto a sopravvivere per tre mesi senza i tuoi insulti contro mio guardaroba?

-Ma lo sai che lo faccio per il tuo bene! -  detto questo, scoppiammo a ridere e ci abbracciammo.

Jordan faceva parte della squadra delle cheerleaders di cui ero capitano ed era una delle mie migliori amiche.

-Mi dispiace interrompere i saluti, ragazzi, ma le lezioni avranno inizio tra qualche minuto.- ci informò il Professor Dawson.

Ci avviammo alle rispettive classi.

Stavo quasi per raggiungere l’armadietto che mi avevano appena assegnato quando andai a sbattere contro un ragazzino magro, non troppo alto e con grandi occhiali da nerd. Non mi ci volle molto per rendermi conto che si trattava di Elliott.

-S-s-scusa – balbettò nervosamente.

-Figurati, non fa niente- gli tesi una mano e lo aiutai ad alzarsi, ma, appena si fu stabilizzato su entrambe le gambe, mi fissò intensamente con aria terrorizzata e scappò via a gambe levate.

“Ho sempre pensato che fosse strano” – dissi fra me e me.

 Raggiunsi in fretta l’aula in cui di solito si svolgeva il corso di Lettere. Salutai con la mano i vari compagni presenti e presi posto accanto a Daniel, che seguiva il corso con me.

-Chissà come sarà la nuova insegnate.- fece lui.

-Cosa?- risposi sorpresa.

-Ma come, non hai saputo? Keller è stato trasferito in un altro istituto.

Non riuscivo a crederci, da quando ero in quella scuola il Professor Keller era sempre stato il mio insegnante preferito, l’unico che era davvero riuscito a farmi appassionare ad una materia.

Distolsi lo sguardo da Daniel per concentrarmi su una donna che era appena entrata in classe. Dimostrava circa una quarantina d’anni, era alta, bionda e non aveva per niente l’aria di essere contenta di trovarsi in quella determinata situazione, anzi, sembrava addirittura scocciata.

-Buon giorno, studenti. Io sono la Signorina Samantha Blake, la vostra nuova insegnante di Lettere. Come già saprete, il Signor Keller non insegna più in questa scuola, quindi dovrete sopportarmi per i prossimi due anni.

Nessuno osò aprire bocca, ci limitavamo solo a fissarla. Aveva un’aria così severa…

Al termine dell’ora presi le mie cose e mi diressi fuori dall’aula, ma venni fermata da delle parole pronunciate con tanta freddezza da raggelare il sangue :- Destiny Peterson, suppongo.

-Sì, Miss Blake, sono io.

-Keller mi ha parlato molto bene di lei.

-Ne sono lusingata.- cercai di mantenere un tono neutro perché, anche se cercai di non darlo a vedere, quella donna mi terrorizzava.

-Ma io non sono lui, non mi lascerò far abbindolare da lei, dalla sua condotta eccellente, dalle numerose attività che svolge e dalla sua reputazione in questa scuola.

-I-io...- balbettai nervosamente.

-Lei, per me, è esattamente sullo stesso piano degli altri, sono stata sufficientemente chiara?

-Certo, chiarissima.  Arrivederci Signorina Blake.- chinai la testa e raggiunsi la porta a grandi passi spediti.

Bene, era il primo giorno di scuola e mi ero già fatta nemica un’insegnante. Sapevo che avrei dovuto rimboccarmi le maniche per piacerle, ma non mi sarei arresa.

Il resto della mattinata fu piuttosto tranquillo. Ero persino riuscita a capire qualcosa di matematica, tutto grazie alla mia idea geniale di sedermi accanto a Lydia, nota per essere una secchiona senza rivali. Ora mancava solo decorare l’armadietto, cosa che avrei fatto di certo il giorno dopo, e tutto sarebbe tornato normale, la solita vecchia routine.

Convinsi Bridgit ad accompagnarmi a casa. Rimasi qualche minuto davanti al portone della scuola mentre lei andava a prendere la sua splendente macchina nuova, che aveva posteggiato nel garage privato del Preside per evitare che si rovinasse. Dio solo sa come aveva fatto a farcela entrare.

Vidi venire verso di me Diana, una spocchiosa che si comportava come se fosse Afrodite scesa sulla Terra, e Katie, una sorta di leccapiedi che la seguiva ovunque.

-Ciao Destiny, è da un po’ che non ci si vede.- disse lei con aria di superiorità.

-Sai com’è, Diana, quanto qualcuno non ti interessa non lo cerchi.

-Sei sempre così simpatica… Ci sarai alla festa di stasera?- naturalmente alludeva al party che gli studenti organizzavano ogni anno dopo il primo giorno di scuola.

-Non penso, non sono in vena di festeggiare oggi…

-Oh, ma dai, devi venire assolutamente! Non sarebbe una festa se non ci fossi tu.

-Ci penserò.

In quel preciso istante la macchina di Bridgit comparve, lei lanciò un’occhiataccia a Diana & co. e mi fece cenno di salire.

Non avevo idea del perchè Diana fosse così carina con me, a dire il vero, non mi interessava neanche.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


-Certo che quella è proprio una strega. Che diavolo voleva?- Bridgit continuava a scuotere la testa a destra e a sinistra con disapprovazione.

-Mi ha chiesto se sarei andata al party di stasera, non so il perché.
-E tu che le hai detto?

-Che non penso di andarci, il che sarebbe la verità.

-Bene, non darle soddisfazioni, è solo una schifosa.

-Lo so.

-E poi, io non sarò lì per colpa di quella stupida cena con mia madre e il suo nuovo lui, non potrò massacrarla come vorrei se ti facesse qualcosa.

- Riesco a difendermi anche da sola…

-Sì, ma ci terrei proprio a strapparle quei quattro fili che ha in testa, varrebbe anche la pena di rovinarmi le unghie per uno spettacolo de genere.- concluse accennando un sorrisetto malefico.

Alzai gli occhi al cielo e le sorrisi divertita.

Bridgit parcheggiò davanti al cortile di casa mia.
Prima che potessimo slacciare le cinture di sicurezza, i nostri sguardi si spostarono contemporaneamente sulla casa di fronte, quella della Signora McGraw.
Un’auto d’epoca era parcheggiata nel suo vialetto, credo fosse una mustang degli anni ’60 (se non si fosse notato, ho una vera e propria passione per le macchine antiche), e un ragazzo che non avevo mai visto prima era piegato a cambiarle una gomma.

-Mica male il nuovo vicino.- fece la mia amica con aria interessata, molto interessata.
-Non so nemmeno chi sia, non penso abiti qui- replicai.

Ma Bridgit non aveva tutti i torti, quello non era il tipico ragazzo della porta accanto, non era nemmeno il genere di ragazzo che si incontrava di solito in una città come Monroe, era … diverso.
Indossava un gilet in denim che lasciava le braccia scoperte, si intravedeva un piccolo tatuaggio, ma non capivo bene cosa fosse, un paio di skinny jeans neri, stivaletti da motociclista e un cappello borsalino, di quelli che non stanno bene a nessuno, ma che lui portava con tanta disinvoltura da risultare ancora più interessante. Due ciuffi castani gli cadevano dolcemente sugli occhi, coperti da una paio di occhiali da sole dalla montatura rotonda.

Doveva essersi sentito osservato, perché si voltò di colpo verso di noi.

In un secondo tutto ciò che mi circondava era scomparso, davanti a me c’era solo lui, per un attimo mi sentii come se la mia testa fosse un palloncino pieno di elio, pronto a prendere il volo da un momento all’altro.

-E’ meglio che vada.- dissi scendendo dall’auto. Più che altro stavo letteralmente scappando.
-Desy…- Bridget mi fece cenno di fermarmi.

-Cosa?- risposi nervosa.

-Sta venendo qui!- disse lei esaltata.

E aveva ragione. Quel ragazzo di cui non sapevo assolutamente nulla, che solo a prima vista mi aveva fatto sentire come una fitta allo stomaco, che mi aveva fatto dimenticare il mondo, si stava dirigendo a grandi passi nella nostra direzione.

Aveva le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans e la sua bocca, che di tanto in tanto si chiudeva a masticare una chewingum (cosa che avrei considerato disgustosa se fosse stata fatta da qualsiasi altro ragazzo), accennava un sorriso.


Avrei voluto scappare, chiudermi in casa e non uscire mai più, ma ogni muscolo del mio corpo, ogni neurone del mio cervello me lo impediva, ero bloccata.

Si avvicinava sempre di più e il mio cuore era sempre più sul punto di scoppiare.

“Vorrà solo guardare l’auto da vicino” pensai tentando di calmarmi.
Ma invece no, non voleva vedere l’auto, e ne fui certa quando si fermò esattamente di fronte a me. Aveva ancora le mani in tasca e mi guardava l’alto in basso, questa volta però non sorrideva, quello era più un ghigno, come se stesse leggendo i miei pensieri, uno ad uno.
Provai una stranissima sensazione in quell’istante, un misto di paura e attrazione, qualcosa di inspiegabile, che crebbe improvvisamente quando si tolse gli occhiali e i suoi grandi occhi verdi incontrarono i miei. Avrei potuto guardarlo per ore, avrei potuto accoccolarmi fra le sue braccia e restare lì, per sempre.

La mia piccola nuvoletta si dissolse al suono della sua voce:- Ciao.- disse senza staccare lo sguardo da me.

-C-ciao- balbettai.

-Piacere, Evan. Evan Green.

Sapevo chi era. Era il nipote della signora McGraw!
Era di Charlotte ed era stato cacciato da ogni scuola presente in quella città. Dopo essere stato espulso dall’ultima scuola disponibile per averci provato spudoratamente con un’insegnante, i suoi genitori l’avevano mandato a vivere dalla zia. La signora McGraw aveva raccontato questa storia a mia madre qualche settimana prima.

-Piacere, io sono Destiny Peterson.- gli strinsi la mano, fu come toccare una presa elettrica.

-La figlia del sindaco, lo so. Wow, Destiny, è un gran bel nome! – non mi aveva ancora lasciato la mano. Continuava ad avere quella sorta di sorrisetto malizioso stampato in faccia.

Bridgit ci guardava sbalordita, come se stesse guardando un film.

-Grazie, ma puoi chiamarmi Desy se vuoi, ormai lo fanno tutti…- cercai di distogliere lo sguardo dai suoi occhi e ritrassi la mano.

-A quanto pare nessuno si rende conto del significato di questo nome. Non puoi essere sminuita così, vorrà pur dire qualcosa se ti chiami “destino”.- quelle parole mi colpirono con una tale forza che riuscii a fare frettolosamente un passo indietro.

-Mia madre si starà preoccupando, sarà meglio che entri. Bridgit, lo stesso vale per te. E’ stato un piacere conoscerti, Evan.- e corsi velocemente dentro casa.

Sentii in lontananza un “Ci vediamo a scuola!” seguito dal rombo di un motore.

Ma cosa mi prendeva? Quel ragazzo non mi piaceva! Era completamente, totalmente, assolutamente sbagliato!
Ma quando mi ero trovata vicino a lui, per quel breve momento, mi ero sentita diversa. Quello che provavo per Evan non era amore, non poteva esserlo, era più una sorta di curiosità, come se ci fosse di più da scoprire su di lui. In un certo senso, mi incuteva un leggero timore. Ma la cosa veramente strana, era che volevo conoscere quel timore ancora più a fondo, volevo vivere di quell’emozione così apparentemente spaventosa, non volevo altro che quello.

Dopo aver sbattuto la porta, mi accasciai per terra, con la schiena appoggiata al muro, rannicchiata in posizione fetale, quasi avessi appena assistito ad un omicidio.
Mi misi le mani tra i capelli e poggiai la testa sulle ginocchia.

“Perché? Perché mi sento così? Non lo conosco neanche! Smettila Destiny, smettila!” un milione di pensieri mi passavano per la testa e non riuscivo a fermarli. Giravano e giravano e giravano…

-Destiny, tutto ok?- alzai la testa e vidi mio fratello, in piedi davanti a me.
-Tutto bene, Brian. Solo un po’ di stress, niente di che.

-Non mi sembra niente di che. E, stress il primo giorno di scuola? A chi vuoi darla a bere? Spara, che è successo?

-Davvero, ti ho detto che sto bene. Ora torna nella tua tana e lasciami in pace!

-Come vuoi, capo. Se mi cerchi, sto dormendo. Anzi, è meglio che non mi cerchi proprio.- mi fece un cenno con la mano e salì le scale, dirigendosi in camera sua.

Sapevo che ci era rimasto male, anche se cercava di non farlo notare. Mi era dispiaciuto trattarlo così, ma non avevo altra scelta, avevo bisogno di stare sola e non avrei sopportato un interrogatorio dal mio fratellino.

Mi alzai tremante, cercando di non barcollare per poi cadere a terra. La testa mi girava talmente forte che, arrivata in cucina, dovetti appoggiarmi al piano di lavoro, che si trovava al centro della stanza.
Aprii il frigorifero e presi un bicchiere d’acqua, in cui versai dello zucchero, dicono che faccia bene quando ti senti fiacco o affaticato, ma questo non cambia il fatto che sia davvero disgustoso.

Appena mi sentii abbastanza in forze da salire in camera mia, lo feci. Mi gettai letteralmente sul letto e chiusi gli occhi.

Quando mi svegliai erano le sette e mezza di sera, avevo dormito per ben tre ore!

All’improvviso sentii delle voci provenire dalla stanza di Brian. Mi stropicciai gli occhi e tentai di capire cosa stava succedendo.
Si sentiva chiaramente la voce stridula di mia madre, che gridava furiosamente:- Tu sei una vergogna per questa famiglia! Non ti meriti tutte le attenzioni che ti dedichiamo! Ti comporti come se non ti importasse di nulla!

-E infatti hai ragione mamma, non mi importa. Non ho scelto io di essere parte di questa famiglia “perfetta”, pertanto mi sento libero di non interessarmene.- la voce di Brian era calma e pacata.

-Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire crescere un figlio insolente e irrispettoso come te, Brian! Tuo padre sarebbe molto deluso da questo tuo comportamento!

-Esatto, sarebbe! Perché, dov’è mio padre in questo momento? Dov’è stato per metà della mia vita?- aveva cominciato a gridare anche lui e nella sua voce rotta avvertivo come un accenno di pianto.

Mi sentii in dovere di intervenire.

-Non permetterti di…- mentre mia madre cercava di terminare quella che aveva tutta l’aria di essere una minaccia con tanto di insulto finale, irruppi nella stanza.

-No mamma, ha ragione.

-Ti ci metti anche tu adesso? Cos’è, un complotto contro di me?

-Desy, stanne fuori.- Brian interruppe la discussione.

-Mamma, ti dispiacerebbe uscire un attimo?- le feci cenno di uscire dalla stanza e in un attimo ci ritrovammo in corridoio. Sbattei la porta, la guardai dritto negli occhi e dissi:- Tu non hai il diritto  di trattarlo in questo modo, è solo un ragazzino! E ha ragione quando dice che papà ha un ruolo importante in tutta questa storia. Da quando è diventato sindaco, da quando ha smesso di interessarsi a noi, a te, tutto è cambiato e Brian ne è la prova più evidente!

-Come puoi solo pensare che tuo padre, che fa di tutto per noi, sia la causa di questa situazione?- lo sguardo di mia madre era pieno di disprezzo.

-Non è una situazione, è tuo figlio mamma! E’ mio fratello e sta soffrendo esattamente come soffro io!

-Anche in te ho notato dei cambiamenti, signorina! Esci di casa senza salutare, torni e non avvisi nessuno, e ora ti metti a discutere con me, tu non eri così Destiny.

-Tu non sai chi sono io, non l’hai mai saputo, l’unica cosa che sapevi era chi volevi che io fossi, ma non mi hai mai conosciuta davvero.-chiusi la discussione e tornai in camera mia.

Quella discussione mi aveva scosso, era la prima volta che parlavo così sinceramente con mia madre.

Non me la sentivo di rimanere in quella casa. Mi cambiai d’abito, presi la mia borsa e scesi di corsa al piano di sotto.

-Ora dove stai andando?- chiese spazientita mia madre. Era seduta a schiena dritta sul divano, al buio, cosa che fa solo quando è profondamente turbata.

-Fuori.- feci per aprire la porta.

-Cosa ti è successo, Desy?- ora mia madre sembrava sul punto di piangere, era quasi… umana.

-La gente cambia, cresce.- misi un piede sul patio.- Ah, e non chiamarmi “Desy”.- misi l’altro piede fuori e mi chiusi la porta alle spalle. Mi sentivo bene, quasi come se mi fossi appena liberata di un peso enorme, che giaceva sulla mia schiena da anni.

Presi l’auto che di solito prendevo per andare a scuola quando i miei non c’erano e che mia madre usava solo per andare a fare la spesa.
Non sapevo dove andare, sapevo solo che non volevo stare sola, volevo confondermi fra la gente, dimenticarmi di tutta la mia vita, anche solo per un secondo.
Girai la chiave, spinsi sull’acceleratore e, senza neanche accorgermene, mi ritrovai a quella festa a cui poche ore prima mi ero categoricamente rifiutata di andare.
Era all’aperto, nel giardino dell’immensa villa di Trevor, un riccone che la gente frequentava solo per i privilegi che comportava essere amico di una Paris Hilton al maschile.
Mi feci strada fra la folla e mi guardai intorno, cercando di trovare qualcuno che conoscevo: Trevor aveva invitato praticamente tutta la scuola, e ovviamente nessuno si era fatto scappare l’occasione di ubriacarsi e farsi fotografare ad una festa del genere.
C’era gente ovunque: sull’enorme scalinata che portava all’ingresso principale della villa e attorno alla piscina c’era una confusione indescrivibile, mi sorprendeva che nessuno fosse ancora caduto in acqua. Io ero nel mezzo del  cortile, sulla “pista da ballo”.

Finalmente riuscii a scorgere due facce conosciute: erano Daniel e Jordan, ma non volevo interromperli, stavano ballando, appiccicati l’uno all’altra, ma allo stesso tempo era una scena così dolce da far venire il diabete. Mi avvicinai al tavolo delle bevande e presi un bicchiere di birra (birra.. io odio la birra. Dovevo essere proprio fusa al cubo.), quindi mi diressi verso una panchina vuota.

Ero quasi arrivata a destinazione quando una ragazza dai foltissimi capelli neri mi venne addosso e mi fece rovesciare il contenuto del bicchiere sul vestito, che per giunta era bianco.
Chi poteva essere se non Diana: stava ballando con un ragazzo, più che ballare, ci si stava strusciando vergognosamente. Quasi non si accorse di me, finchè non diedi fiato alla mia boccaccia:- Brutta…- non riuscii a finire la frase che subito lei si girò e mi lanciò un’occhiataccia, che mascherò subito con la sua solita faccetta da gattina coccolosa.

-Oh, scusa tesoro ma, a mio parere, ti ho fatto un favore.- e sorrise maliziosamente. Era ancora avvinghiata a quel burattino, sembrava che gli avesse fatto qualche sorta di incantesimo, era così preso da lei, non le toglieva gli occhi di dosso, poi capii il perché… il vestito che indossava la copriva a malapena e i suoi modi scabrosi le avrebbero permesso di accalappiare anche uno dell'altra sponda.

-Figurati Diana, non volevo interromperti, torna al tuo lavoro. Sembra faticoso, ma scommetto che pagano bene.- la mia boccaccia aveva colpito ancora.

La musica, che fino a pochi secondi prima si sentiva così’ chiaramente, aveva smesso di suonare e tutti i presenti si erano voltati verso di noi per godersi lo spettacolo.
Diana mi fissava con i suoi occhi di ghiaccio, come se stesse immaginando di uccidermi a mani nude.

-Come ti permetti! Parli proprio tu, piccola sciocca, che sogni ancora di fare colpo sul ragazzo della tua migliore amica. Sei così brava a criticare gli altri quando non sei migliore di nessuno. Solo perché il tuo paparino è il sindaco di questa misera città non vuol dire che tu possa andare in giro a dire e fare tutto quello che vuoi. Non hai la minima idea di chi ti sei messa contro, Destiny Peterson, e nemmeno la tua amichetta  bionda potrà proteggerti.- non aveva urlato, anzi, aveva quasi bisbigliato, ma quelle parole erano riuscite a stendermi.
Mi diede una leggera spinta e si riattaccò al suo “giocattolino”. La musica era ripartita e gli altri avevano fatto finta di niente ed erano tornati a farsi i fatti loro.
Mi sentivo come se mi avessero appena schiaffeggiato.

Ad un tratto vidi Daniel dirigersi di corsa verso di me, Jordan lo seguiva a ruota.

-Desy, che è successo? Stai bene?- mi chiese lui preoccupato. Mi aveva messo una mano sulla spalla e mi guardava fisso negli occhi.

-Certo, che vuoi che sia, è solo una stronza.

-Una stronza che con le parole ci sa fare… Sei tutta bagnata, lascia, faccio io.- si tolse la giacca e fece per mettermela sulle spalle, ma lo fermai di colpo.

-Smettila, Daniel! Non vedi che la tua ragazza è qui accanto a noi? Dovresti pensare a lei, non a me! – Jordan mi fissava confusa.

-Non avevo intenzione di fare nulla di sbagliato…

-Beh, l’hai fatto. – mi guardò con gli occhi pieni di un misto di disgusto, rabbia e preoccupazione.

-Cosa ti ha detto?- era così freddo che ebbi difficoltà a riconoscerlo.

-Quello che avrei dovuto capire molto tempo fa. Ora tornate a divertirvi, fate come se non fossi mai venuta. Anzi, non sarei proprio dovuta venire.

Feci un passo indietro e li lascia lì, a guardarmi sconvolti.

Ma cosa mi era preso? Avevo permesso che mi condizionasse, che realizzasse il suo scopo. Tutto quello che voleva era dimostrarmi che era migliore di me, e ci era praticamente riuscita.
Bridgit aveva ragione, non ero in grado di gestire dei conflitti, forse riuscivo a farmi ascoltare come rappresentante degli studenti, ma quella era tutta un’altra storia, in quel campo ero debole.
Avevo persino ferito il mio migliore amico a causa della mia stupidità. Non si meritava niente di tutto quello che gli avevo detto: aveva tentato di essere gentile e io l’avevo ripagato con una sfuriata.

-Ma guarda, Destiny Peterson è qui presente stasera!- la voce di Trevor, amplificata da un paio di enormi casse, interruppe la mia “fuga strategica”.- Che fai, ci canti qualcosa?

-Non sono in vena! – gridai svogliata.

-Ma dai! Allora balla un po’, cheerleader!- gridò a sua volta facendomi l’occhiolino ed esibendosi in un balletto raccapricciante.

-Strozzati, Trevor.- dissi allungando il passo e facendomi strada fra la gente che mi fissava ridendo e spettegolando.

-Ci vediamo a scuola, bellezza!- concluse con uno sfoggio della sua solita sfacciataggine.
 
Quando raggiunsi l’auto nel parcheggio aprii lo sportello, mi lanciai sul sedile e lo richiusi in tutta fretta.  Mi fermai per un paio di minuti a contemplare l’oscurità, quando mi accorsi che le lacrime mi stavano riempiendo gli occhi e mi stavano rigando il viso, senza che potessi controllarmi. In pochi secondi cominciai a singhiozzare e, d’istinto, tirai un pugno al volante.

“Perché sono così stupida?!” gridai contro me stessa.

Non potevo tornare a casa, non potevo chiamare Bridgit, ma avevo bisogno di qualcuno. Il punto era che tutto quelli con cui sarei voluta stare in quel momento erano occupati a farsi i fatti loro, o a pensare a cosa non andasse in me.
 
Parcheggiai nel vialetto, scesi dalla macchina e mi appoggiai  allo sportello chiuso, sospirai talmente forte che si fece viva una voce nel buio della notte.

-Non hai l’aria di esserti divertita, sembravi così impaziente di uscire prima…-  era Evan. Stava fumando, seduto sugli scalini del portico della casa di fronte, con i gomiti appoggiati alle ginocchia.

-Non ho voglia di parlarne, non è stata affatto una bella serata.

-Dovrai pur sfogarti con qualcuno e,  guarda caso, io non ho niente da fare.- si stampò in faccia quel ghigno sexy che mi aveva tanto colpito la prima volta che ci eravamo parlati (quella mattina, ma i particolari sono irrilevanti).

-Perchè dovrei sfogarmi con te? Non ti conosco neanche.- ma, anche se cercavo in tutti i modi di convincermi del contrario, avevo una gran voglia di parlare con lui.

Attraversai la strada deserta e mi sedetti accanto a lui sulle scale.

-Fumi?- mi chiese porgendomi la sigaretta, poi la ritrasse e continuò, guardando in basso- Certo che no, non sei quel genere di ragazza.

-E tu che ne sai di che tipo di ragazza sono?- dissi assestandogli una piccola pacca sul braccio.

-Capitano delle cheerleaders, rappresentante degli studenti, figlia del sindaco, so un bel po’ di cose sul tuo conto, ragazzina.- aveva lo sguardo fisso nel vuoto, e sorrideva. Era così bello quando sorrideva.

Ero tremendamente rigida, ma la sua naturalezza mi fece sciogliere:- Non chiamarmi ragazzina. Come sai tutto questo?

-Ho le mie fonti.

-Ora non esagerare, ci basta il tuo aspetto a farti sembrare misterioso.- gli presi il cappello e me lo misi in testa.

-Sai, ti sta piuttosto bene.- aveva spostato lo sguardo su di me, mi guardava dritto negli occhi e mi lasciò spiazzata.

-G-grazie- di sicuro non mi stava affatto bene, ma quell’innocente bugia mi fece sentire meglio.

-Allora, che è successo?- si avvicinò. Ora riuscivo a vedere il tatuaggio sul suo braccio. Era una barca, o meglio, una specie di veliero, e non era tanto piccolo come mi era sembrato quella mattina.

-Di tutto, a volte penso che la mia famiglia sia solo un’ insieme di persone che si sono ritrovate per caso sotto lo stesso tetto.

-Almeno i tuoi non ti hanno cacciata di casa per aver commesso un errore… ma… - si chinò su di me per… annusarmi? – Non avevo idea che bevessi!- e scoppiò in una risata divertita e incredibilmente rilassante.

-Non bevo! È che un’idiota mi ha rovesciato della birra addosso.

-Wow, lite fra adolescenti! Avrei voluto esserci.

-Non è divertente.

-Oh, sì che lo è.- continuava a guardarmi negli occhi, sembrava che mi capisse. – Senti, si sistemerà tutto, intendo, in casa tua. Non so tutti i dettagli, ma sono un esperto nel deludere la gente e so che le liti, e il disagio, non durano mai troppo a lungo. Forse però io non sono l’esempio più adatto…- ora la sua risata si era fatta più cupa, quasi amareggiata.

-Grazie, davvero.

-Ehi, i buoni vicini si sostengono.

Non potei fare a meno di ridere.

Mi alzai e feci per andarmene:- Allora, ci vediamo domani.

-Aspetta!- mi afferrò il polso e si tirò su. Eravamo così vicini che potevo sentire il suo respiro su di me.

Quel ragazzo aveva qualcosa, qualcosa di speciale, sotto quell’aspetto da ragazzaccio alla Johnny Depp degli anni ’80, non sapevo cos’era e non sapevo se sarebbe stata una buona idea scoprirlo, ma non volevo tirarmi indietro.

I suoi occhi verdi mi scrutavano e sembrava sul punto di dirmi qualcosa.

-Giusto, il cappello.- me lo sfilai e glielo porsi.

-Certo, il cappello.- la sua mano era scesa dal polso fino a stringere la mia. Sentii un fuoco attraversami dalla testa ai piedi e, per un attimo, provai l’impulso di alzarmi sulle punte e baciarlo, e lui sembrava volere lo stesso.

Ma perché? Da dove nasceva quell’attrazione?
Mi spostò una ciocca di capelli e ne approfitto per accarezzarmi il viso. Sentivo che sarei potuta cadere ai suoi piedi da un momento all’altro, letteralmente.

-A domani, stammi bene.- concluse con queste parole.

Provai quasi dolore a lasciarlo, come se la corda che ci legava l’uno all’altra fosse stata tagliata di colpo.

Quando entrai in casa mi accorsi che mia madre non c’era, probabilmente dormiva, e mio fratello non aveva messo piede fuori dalla sua stanza.

Raggiunsi la mia camera, scostai la tenda che copriva la finestra, ed eccolo lì, seduto sugli scalini, che mi fissava. Accennò un sorriso e mi fece un cenno con la mano, risposi.

Quella sera, per la prima volta dopo molto tempo, mi addormentai con il sorriso sulle labbra.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 
Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto, mi girai verso la sveglia e vidi che erano appena le sei.
Non riuscii a riprendere sonno, quindi mi alzai e cominciai a prepararmi con calma.

Vi lascio immaginare la mia reazione quando appena mi guardai allo specchio vidi lei, la mia peggior nemica, quella con cui avevo dovuto combattere duramente il giorno prima, “panda girl” era tornata. Solo che quella mattina, per togliermela di torno dovetti faticare più del previsto, tanto che quando ebbi finito ero già in ritardo e indossai in fretta e furia i miei jeans preferiti e la prima camicetta che mi capitò a tiro.

Mi affacciai alla porta di Brian, sperando di riuscire a convincerlo ad andare a scuola, e lo trovai seduto sul letto che mi fissava, come se sapesse che sarei andata da lui.

-Piaciuta la sorpresa?

-Intendi tu che sei già in piedi? Da morire.

-Sai che non intendo questo.

Lo guardai confusa. Il suo volto si fece sorpreso e continuò:- Non dirmi che non l’hai visto!

Lo? Cosa significava?

-Chi è che dovrei vedere?- infondo però, sapevo benissimo di chi stavamo parlando.

-Ti basta scendere le scale.

-Tu non vieni?

Accennò un sorrisetto malizioso e rispose:- Desy, tu mi conosci, forse meglio di chiunque altro, sai che non è nel mio stile arrivare puntuale a scuola.
-Scusa, l’avevo dimenticato.-dissi sorridendo.

-Ah e, Desy... grazie per avermi difeso ieri sera.

-Figurati.

Arrivata ormai in fondo alle scale, svoltai a destra, in direzione della cucina e, proprio come avevo immaginato, vidi mio padre e mia madre seduti, sorseggiando caffè e chiacchierando allegramente. Proprio come ai vecchi tempi, quando tutto era ancora normale.

-Ma guarda! - papà alzò lo sguardo e tirò fuori un sorriso che avrebbe potuto fare concorrenza a quello del gatto di “Alice nel paese delle meraviglie”. – La mia adorata figliola in tutto il suo splendore! Vieni, ti accompagno io a scuola stamattina.

-Cos’è, ti senti in colpa per ieri, temi che le scuse che hai chiesto a mamma di riferirmi non siano bastate e pensi di sfoderare quel tuo sorriso da papà premuroso e sistemare tutto? Credi davvero che sia così facile?

Non avevo previsto quella situazione, non avrei neanche voluto vederlo e, per un attimo, invidiai Brian. Avrei voluto avere il suo coraggio, infischiarmene del mondo e dormire, ignorando tutto e tutti.

-Ti prego, lascia che ti accompagni a scuola, fammi solo questo favore. -si era alzato e aveva le mani atteggiate in segno di preghiera.
In effetti, un passaggio mi avrebbe fatto comodo.

-Ti aspetto in macchina. E ti faccio presente che sono in ritardo.

Presi una mela al volo e raggiunsi l’auto. Dopo essere sprofondata nel sedile del passeggero ed essermi sistemata la borsa sulle ginocchia, appoggiai la testa al finestrino e guardai fuori, guardai la casa di fronte.

Ma lui non c’era.

Mi sentivo così stupida, così ingenua. Non conoscevo Evan, ma era riuscito a catturarmi solo con uno sguardo, con un sorriso e una serie di battute squallide. Non sapevo quando l’avrei rivisto, se l’avrei rivisto e tantomeno cosa avrei fatto se l’avessi rivisto, ma sapevo che volevo rivederlo.

Il  mio cuore perse un battito quando sentii la portiera sbattere. Mio padre girò la chiave nel quadro e partì in fretta e furia.
Non parlammo quasi per niente durante il tragitto, ma, quando eravamo solo a pochi metri dal cancello della scuola, lui ruppe il silenzio.

-Allora, quando sono le elezioni?

-La prossima settimana proponiamo le candidature.

-Hai la vittoria in tasca, ne sono sicuro. Devi cominciare a farti notare, fare propaganda…  – sembrava così fiducioso.

-Papà, è solo il secondo giorno di scuola. – la mia freddezza era riuscita a rovinare il momento, e forse era proprio quello che volevo.

-Lo so.

-Scusa, non volevo essere scortese. – sì invece. – Passi anche a prendermi?

-Dopo ho un incontro di lavoro e starò fuori fino a tardi, quindi…

-Certo, non fa niente. –aprii in fretta la portiera.

-Destiny, sono molto fiero di te. Lo sai questo, vero?

Ricacciai indietro le lacrime e lo guardai dritto negli occhi.

-E’ per questo che non sei mai presente alle gare delle cheerleaders, o alle assemblee che presenzio? E’ per questo che, da qualche anno, gli auguri per il primo giorno di scuola me li fai il giorno seguente? E’ per questo che non torni mai a casa per cena? Non ti preoccupi neanche di quello che succede alla tua famiglia, sempre se si può ancora chiamare così.

Sentivo le lacrime rigarmi il viso e non mi accorsi di star gridando fino a quando lui non me lo fece notare.

-Sapevate tutti che sarebbe stato diverso, che sarei stato più distante, quando vi ho detto che mi sarei candidato, e mi avete appoggiato. Non puoi permetterti di crollare adesso, non quando manca così poco al college. Tu sei forte, Destiny, lo so per certo. Sei il nostro futuro.

-Io, sempre io. Ma perché io? Papà, io non sono un’alternativa. Tuo figlio sta attraversando una fase molto delicata della sua vita, ha bisogno di suo padre in questo momento, e tu riesci solo a pensare a mantenere l’onore della famiglia, a come fare bella figura. Beh, ti dico una cosa. – presi un respiro profondo e mi preparai a fargli aprire gli occhi e a dirgli quello che non avrebbe mai voluto sentirsi dire. –Tutto quello che stai facendo, lo stai facendo per te stesso. Noi siamo solo il tuo mezzo per apparire come un padre modello agli occhi dei cittadini. Non è più come prima, e tu lo sai perfettamente.

-Non penserai davvero questo?

-Sì, lo penso. E non sarà facile farmi cambiare idea a riguardo.

Mi guardava sconvolto e, se mi ricordo bene, negli occhi aveva un pizzico di, non so, colpevolezza?

-Perfetto, ora sono davvero in ritardo. Ci vediamo quando deciderai di prenderti una pausa da te stesso.

Scesi dalla macchina e sbattei la portiera con una violenza tale che ebbi paura che si rompesse.
Sentii una serie di “Oh, guarda, c’è il sindaco!” “Salve Signor Peterson.” “Buona giornata Signor Peterson!” e vidi l’auto allontanarsi lentamente, fino ad un incrocio, dove scomparve tra i tronchi degli alberi.

Ero clamorosamente in ritardo e crollare in quel momento sarebbe stato piuttosto sconveniente. Quindi mi gettai la borsa in spalla e cominciai a correre, finchè qualcuno mi afferrò il braccio.

-Dove scappi? Penso che tu mi debba una spiegazione.

-Daniel, non ho davvero tempo in questo momento. Dopo possiamo parlare quanto ti pare.

Cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma mi tirò a sé e mi fissò implorante.

-Ho bisogno di parlarti adesso. Possiamo entrare insieme, mi inventerò una scusa per il ritardo.

Mi trascinò in palestra, che nessuno utilizzava mai durante la prima ora. Ci sedemmo su dei materassi impolverati.

-Cosa ti è preso ieri sera. Da quando stai a sentire Diana? –sembrava così deluso, non l’avevo mai visto in quello stato.

-Non lo so. Io… non so cosa mi stia succedendo ultimamente.

Non riuscivo a guardarlo, ma trovai comunque la forza per continuare.

-A volte penso a cosa sarebbe successo se non avessimo mai rotto, se stessimo ancora insieme. A volte ti guardo e rivedo quel ragazzino che, alle elementari, pensavo di voler sposare – risi come una sciocca- ,ma poi ti vedo insieme a Jordan e sembri così felice, e mi ricordo perché siamo arrivati a questo punto: volevamo entrambi la felicità l’uno dell’altra. Diana mi ha solo fatto ripensare a tutto questo. E ora ovviamente sembro un’emerita deficiente.

-Assolutamente no.

Mentre parlavo si era avvicinato sempre di più. Mi aveva avvolto un braccio attorno alle spalle e, in quel momento, aveva il mento appoggiato sulla mia testa e la scuoteva leggermente, a desta e a sinistra.

-Destiny, tu sei stata importante per me, e lo sarai sempre. Abbiamo preso quella decisione di comune accordo e ne sono felice, e penso che, infondo, lo sia anche tu. – aveva un sorriso meraviglioso, così vero. – Sei una ragazza incredibile e sono certo che avrai tutto quello che ti aspetti dalla vita. Troverai qualcuno che saprà apprezzarti, e amarti, per quello che sei.  Ora sei solo confusa, anche io lo ero, poi mi sono accorto di stare bene con Jordan e l’ho superata. Ce la farai anche tu.

-Ma come fai a sapere sempre cosa dire?

-Che ci vuoi fare, è un dono. C’è chi ce l’ha e chi no, io ce l’ha.

Scoppiammo entrambi a ridere.

-Approposito di Jordan, dov’è adesso?

-Ehi, anche io voglio la mia libertà!

Scoppiammo di nuovo a ridere, lui si alzò e mi porse la mano per aiutarmi.

-Dai, torniamo in classe, piagnucolona. La Blake non sarà molto contenta di sapere che abbiamo saltato la sua lezione.

Samantha Blake, ovvero la megera bionda che il giorno prima mi aveva esplicitamente fatto capire che non provava alcuna simpatia nei miei confronti. Ma come avevo fatto a dimenticarmi che in prima ora avevo proprio lei!?!

Non avevo mai corso così veloce, in pratica facevo tre gradini alla volta, Daniel dovette starmi dietro.

Arrivati alla porta della classe, la prof stava uscendo, fece giusto in tempo a rivolgermi un’occhiataccia e a dirmi:- Se arriva in ritardo anche il secondo giorno di scuola, non prevedo un anno proficuo per lei Miss Peterson.

Ah, se la odiavo.

Qualche ora dopo mi trovavo davanti al mio armadietto, che avevo finalmente deciso di sistemare. Stavo attaccando qualche foto, di quelle che riescono sempre a strapparti un sorriso, quando una mano affusolata, con le unghie laccate di fucsia, si appoggiò allo sportello e lo sbattè con una forza brutale, rischiando di amputarmi un paio di dita.

-Quale parte di “non andare a quella festa” non ti è chiara? Tutti parlano di quello che è successo tra te e Diana!

-Bri, era successa una cosa a casa, non sapevo dove andare, ho preso la macchina e mi sono ritrovata lì. Sarei venuta da te, ma eri impegnata. – non avevo intenzione di farla sentire in colpa, non l’aveva di certo fatto apposta,  ma avrei davvero voluto che fosse stata lì per me in quel momento.

-Okay, nessun problema. Solo, la prossima volta parlamene. Sei una brava ragazza, Desy, e le brave ragazze non dovrebbero mischiarsi a gente come lei. Almeno, non senza una Bridgit al loro fianco.- mi sorrise facendomi l’occhiolino e mi abbracciò.

-Allooora, com’è andata la cena con Steven?- le chiesi  mentre ci dirigevamo a braccetto verso la mensa.

-Non so davvero cosa ci trovi mia madre in lui, apparte che ha dei bei capelli ed è ricco sfondato. Ieri sera era tutto un “saremo una bellissima famiglia, io amo davvero tua madre” e bla bla bla. Comunque, a me basta solo che Gladys sia felice. –Bridgit aveva l’abitudine di chiamare sua madre per nome, come se fossero solo amiche.

Ci servimmo e cercammo un tavolo libero, il più lontano possibile da quello di Diana, che non avevo ancora avuto il dispiacere di incontrare.

-Oh –fece Bridgit – andiamo a dare fastidio ai piccioncini!

Quindi, ci sedemmo al tavolo che Daniel e Jordan avevano occupato.

-Ehi! Felice di rivederti.- disse lui.- Va meglio?

Annuii.

-Perché? Che è successo? – chiese Jordan mentre giocherellava distratta con la forchetta.

-Desy era un po’ tesa per ieri sera, l’ho incontrata all’ingresso e ne abbiamo parlato… niente di che. – Daniel rispose prima che riuscissi ad aprire bocca e gli fui grata per avermi evitato un colossale momento di imbarazzo.

Passammo il resto della pausa pranzo a ridere mentre Daniel ci raccontava della sbronza di Trevor della sera prima.

Al suono della campanella mi fermai con Bridgit e Jordan.

-A che ora oggi pomeriggio? –chiese Jordan.

-Oggi pomeriggio? – ripetei io confusa.

-Gli allenamenti delle cheerleaders, intelligentona! Devi bere più caffè la mattina. –fece Bridgit assestandomi una leggera pacca sul braccio.

-Certo, gli allenamenti. –me ne ero totalmente dimenticata. – Facciamo alle quattro e mezza?

Le ragazze mi congedarono con un “perfetto” sincronizzato e si diressero verso la loro classe.

All’ora dopo la prof. di biologia aveva preparato un filmato sulla sintesi del DNA, quindi avremmo dovuto recarci tutti nell’aula multimediale.
Quando varcai la soglia della stanza buia, una puzza di chiuso mi stese. Ma perché non si decidono mai ad aprire le finestre?!
Feci un respiro profondo prima di chiudermi la porta alle spalle e presi posto accanto…  a Katie. Accidenti al buio!

-Bel coraggio che hai a farti ancora vedere in giro. – ma che problemi aveva quella ragazza?

-Beh, sei tu quella che ora va in giro senza la sua padrona, non finirai nei guai?

-Sono seria, Peterson. Diana non è il tipo che è un bene far arrabbiare. Sa come renderti la vita un inferno, letteralmente.

Aveva un tono teso, quasi impaurito.
Non finimmo la conversazione, dato che il documentario cominciò di colpo, e quando finì, Katie era già sparita.

Non riuscii a non pensare alle sue parole durante il tragitto verso casa. “Sa come renderti la vita un inferno, letteralmente”. Cosa intendeva Katie? Per caso, Diana aveva sempre voluto distruggermi? Stava solo cercando un pretesto per attuare il suo piano? Di sicuro, l’avrei scoperto più in là.

Alla fine del sentiero, fui attratta, come sempre negli ultimi giorni, dalla casa della signora McGraw, la casa di Evan.
Questa volta però fu diverso: il suono di una chitarra classica giunse alle mie orecchie, era accompagnata da una voce maschile, graffiante e armoniosa. Fu come seguire il canto  di una sirena, non riuscivo a smettere di seguire quella voce.
 
In the night, I hear 'em talk, 
the coldest story ever told 
Somewhere far along this road, he lost his soul to a woman so heartless...


La seguii  fino a girare attorno alla casa. Mi trovai davanti ad un’alta scala anti incendio nera, che si espandeva a zigzag lungo la parete di mattoni, formando delle ampie impalcature (sì, la casa della McGraw è parecchio strana). E proprio su una di quelle, eccolo. Indossava una camicia di flanella a quadri, sui toni del verde, gli stessi skinny jeans neri del giorno prima, ai quali aveva agganciato delle bretelle bordeaux, stivaletti da motociclista e il suo immancabile borsalino. Era seduto con la chitarra appoggiata sulle ginocchia, le gambe a penzoloni e la testa china. Aveva gli occhi chiusi e suonava, come se la musica lo tenesse in vita, come se fosse parte di lui, era incredibilmente emozionante guardarlo. Non riuscivo a staccare gli occhi da lui, dalle sue movenze, era  così… così affascinante.
 
How could you be so heartless? 
Oh... How could you be so heartless? 



E poi la mia goffaggine entrò in gioco.

Feci un passo avanti e misi accidentalmente il piede su un ramoscello, che si spezzò. Il rumore lo fece voltare di colpo, nella mia direzione. Mi guardò con aria interrogativa, come per dire “che ci fai qui?”. Speravo che invece non fosse un “come mai ti aggiri furtivamente sul retro di casa mia?”

-Non fermarti. Era… bella. –dissi con il cuore in gola.

Il silenzio era palpabile. Sembrava che il mondo si fosse zittito per sentire cosa avevamo da dire.

-Figurati, non era niente di che. – gli angoli della bocca gli si incurvarono e guardò in basso, con aria imbarazzata.

-Davvero, sei molto bravo. – ed era vero. Avrei voluto sdraiarmi sull’asfalto e restare lì a sentirlo suonare per ore ed ore.

Mi scrutò attentamente con quei suoi occhi grandi e verdi, occhi sembravano nascondere un’enorme segreto e un’altrettanto grande sofferenza.

-Sali. – mi fece un cenno con la mano.

Esitai, ma in quel momento l’unico posto in cui mi sentivo davvero di dover essere era lì, con lui.

Salii le scale, un gradino alla volta, cercando di non guardare in basso (sì, soffro di vertigini).

Mi sedetti a gambe incrociate accanto a lui, lontano dalle sbarre.

Evan fece schioccare la lingua e scosse la testa in segno di disapprovazione, poi appoggiò la mano sul mio ginocchio, un brivido percorse il mio corpo dalla testa ai piedi e trattenni il respiro, mi afferrò il polpaccio e sciolse le mie gambe dall’incrocio, poi le fece scivolare lentamente giù dall’impalcatura, in modo che assumessi la sua stessa posizione.

-Soffri di vertigini, vero? –aveva il tono di che sta per tuffarsi da una scogliera incredibilmente alta.

Annuii tenendo gli occhi serrati.

-Respira. –mise la mani sui miei fianchi e mi spinse delicatamente verso le sbarre, fino a farmi sedere esattamente sul bordo dell’impalcatura.
-Ti tengo io.

Mi sentivo come sospesa nel vuoto. Avrei dovuto essere terrorizzata, ma lì, tra le sue braccia, ogni mia paura scomparve. Tutto ciò che prima per me era sbagliato, o pericoloso, era improvvisamente diventato giusto.

Era ancora pieno giorno, ma si riusciva comunque ad intravvedere la luna nascente, che si faceva spazio da le nuvole leggere, il cielo era di un azzurro pastello e, seduta lassù, mi sembrava quasi di poterlo toccare, era uno spettacolo.

-E’…

-Shh- mi interruppe subito – hai ancora un nano secondo, goditelo.

Richiusi gli occhi e presi un enorme respiro. Giusto in tempo per sentire un tonfo e le urla agghiaccianti di Mrs. McGraw.

-Cos’è stato?- chiesi allarmata.

Ma Evan non sembrava nervoso, anzi, in un certo senso, sembrava… divertito.

-Diciamo che in cucina non sono un gran genio. Mia zia mi aveva chiesto di mettere l’arrosto in forno e controllarlo mentre lei potava le rose in giardino, ma mi sono ricordato del timer solo cinque minuti fa e tu mi hai fatto perdere la cognizione del tempo…

-Ah, così ora sarebbe colpa mia?
-Certo. – strizzo l’occhio e sfoderò un’adorabile espressione da cucciolo innocente.

Scoppiammo a ridere al’unisono.

-Non hai intenzione di darle una mano?

-Fidati, scendere adesso non sarebbe una buona idea.

Sghignazzammo e restammo in silenzio per un po’.

Decisi di rompere il ghiaccio.

-Ieri ho notato il tuo tatuaggio, -dissi a bassa voce sfiorandogli con le dita il braccio tatuato, lui mi fissò intensamente la mano. – ma non ho voluto chiederti il significato. Perché la barca?

Staccò lo sguardo da me e lo diresse in lontananza.

-A volte mi assale il desiderio di fuggire, di andarmene lontano. A te non capita mai?

-Ogni giorno, da tre anni a questa parte.

-Da bambino mio padre mi portava ogni domenica al molo, a vedere le barche. Ho sempre desiderato di prenderne una e girare il mondo, vedere posti nuovi. Ma, con il tempo, quel desiderio si è trasformato in un bisogno incontrollabile di allontanarmi dalla realtà, di scappare da questo posto e di non metterci più piede.

Era incredibile come potessimo essere tanto diversi e allo stesso tempo tanto simili, capivo perfettamente come si sentiva.

-E’ per questo che cerchi la solitudine, che ti comporti da ribelle, ti fa sentire… libero?

Gettò la testa all’indietro, chiuse gli occhi e aspettò un po’ prima di rispondere.

-Troppe domande. La curiosità uccise il gatto, sai?

Lo guardai storto e mi accorsi di una cosa… ero tremendamente in ritardo.

Mi lanciai letteralmente giù dalla scalinata, senza badare all’altezza, mentre attraversavo la strada corsi anche il rischio di farmi ridurre a una schiacciatina da una macchina che correva a tutta velocità.

Raggiunta la mia camera, ancora in preda al fiatone,mi infilai in tutta fretta l’adorabile divisa gialla e bianca della squadra e pregai di riuscire ad arrivare a scuola in tempo, a piedi.

Ma, appena uscita dalla porta di casa, vidi Evan, seduto in auto, il gomito appoggiato con classe sullo sportello e gli occhiali rotondi calati sul naso.

-Forza, ti accompagno io.

-Davvero? - facevo fatica a credere che volesse davvero scarrozzarmi in giro.

-Qualunque cosa per evitare di pulire la cucina. E poi, sei davvero carina con quella gonna, prove delle cheerleaders?

-Si dice allenamenti.

-Ancora meglio!-sorrise di gusto e sgommò facendo stridere le ruote sull’asfalto.

-Non resterai a guardare.

-Perché me lo ordini tu, principessa? – mi guardò con sufficienza attraverso la fessura tra il bordo del cappello e gli occhiali da sole. Era così meravigliosamente irritante.

Quando aprii lo sportello della decappottabile e alzai lo sguardo verso il campo da football della scuola, mi accorsi che più della metà delle ragazze mi stava fissando, o meglio, fissava il misterioso ragazzo che mi aveva accompagnata.
Cercai di fare finta di niente.

Afferrai i pompon che avevo gettato in fretta sul sedile posteriore prima di salire in macchina e mi sistemai la gonna.

-Grazie, di nuovo. – dissi a bassa voce ad Evan, che stava rimettendo in moto la mustang.

-Grazie a te, per la chiacchierata, è stato bello.

-E’ vero. –Mi resi conto che, quando ero con lui, ogni mio problema sembrava insignificante, riusciva sempre a farmi dimenticare il mondo circostante, c’eravamo solo noi, e questo mi tranquillizzava.

Mi sorrise e mi salutò con un :-Ci vediamo in giro, spero. –poi ripartì.

Sentii le guance avvampare e le gambe cedermi, era lo stesso effetto che aveva avuto su di me la mattina prima, un’emozione che avrei voluto provare ancora, e ancora, e ancora.

-Circolare, circolare! Non c’è niente da vedere! Ochette pettegole, fatevi i fatti vostri per una volta! – Bridgit si stava facendo strada tra le altre ragazze che si erano fermate ad ammirare il nuovo arrivato, avanzava con fare da modella e si fermò a circa un centimetro e mezzo da me. Mi prese per mano e con un sorriso smagliante mi disse:- Ma quello non è il bel tenebroso che si è trasferito nella casa della vecchia McGraw? Ieri ti guardava con gli occhi dell’amore e oggi ti accompagna agli allenamenti… c’è qualcosa che non mi hai ancora detto?

Era davvero su di giri, sembrava una bambina che aspettava il suo regalo di natale.

-Non vorrei deludere le tue aspettative da telenovela, ma non è successo assolutamente niente. Ero in ritardo e si è solo offerto di darmi un passaggio.

Evitai di parlare della scena sulla scala e della chiacchierata della sera prima.

-Come vuoi… ma le tue guance rosse e il tuo sguardo sognante non mentono, è ovvio che in un certo senso ti piace.

-In un certo senso…

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Non sono qui per raccontarvi la storia della mia vita, ma di come qualcuno sia riuscito a cambiarla radicalmente… e penso che siate già riusciti a capire chi sia questo “qualcuno”.


Era trascorso circa un mese dall’inizio della scuola: avevamo presentato le candidature a rappresentante degli studenti, l'istituto era tappezzato di volantini con sopra la mia faccia; a scuola me la cavavo, anche se continuavo ad arrancare in matematica; la situazione a casa era sempre la stessa, forse l’atmosfera era un po’ meno gelida, ma nessun cambiamento radicale, e io ero sempre… io, o almeno, non avevo ancora previsto cosa sarei diventata in seguito.

Non avevo visto Evan molto spesso in quei giorni: la mattina, quando uscivo per andare a scuola, la sua auto era già sparita, per poi ricomparire la sera tardi. Ogni volta che ne usciva aveva sempre l’aria furtiva e attenta, come se nascondesse qualcosa, ma non mi ero mai fermata a pensare ad una possibile spiegazione, probabilmente voleva solo evitare sua zia, insomma, non è che quella donna fosse il massimo della vitalità.
Era il giorno delle elezioni. Ero candidata assieme a Missy Drake, popolare, bella, simpatica a tutti, insomma, assolutamente perfetta; Martin Stevens, direttore del giornale della scuola e qualcun altro che si era proposto all’ultimo momento, ma non sapevo di chi si trattasse.

Mi ero fermata con Daniel e Bridgit davanti all’ingresso principale, dovevamo presentarci tutti nell’aula magna per l’annuncio dei risultati e il discorso del vincitore.

-Sappi che sono qui solo ed esclusivamente per te. - Bridgit mi guardò con fare d’accusa. –Dovrò starmene seduta per circa due ore a sentire una sfilza di secchioni che parlano di come cambieranno il sistema scolastico… guai a te se non vinci, non ho intenzione di perdere tempo!

-Ma è ovvio che vincerà, non hai presente con chi stai parlando, Bri? – la rimproverò Daniel mettendomi un braccio attorno alle spalle.

-Beh, non c’è che dire,tu sei proprio l’immagine della candidata perfetta, e non fraintendermi, sono felice di sostenerti, avrei anche portato i pompon, ma qualcuno me l’ha impedito…

-Ragazzi… - niente da fare, riuscivano sempre a mettermi in imbarazzo.

Pronunciarono uno “scusa” in tono colpevole e ci riunimmo in un abbraccio di gruppo.

-Siete meravigliosi. - ero completamente schiacciata, ma riuscii comunque a far uscire un filino di voce.

Suonò la campanella.

Salimmo quei pochi gradini che conducevano alla porta. “Questa è l’ultima cosa che avrei voluto fare oggi…” pensai fra me e me. E, come se mi avesse sentito, la mustang blu di Evan accostò proprio ai piedi delle scale.

-Peterson! – suonò il clacson e mi salutò con la mano.

Corsi immediatamente verso di lui, era ancora seduto in auto.

-Che diavolo ci fai qui? – l’ultima volta che si era fatto vedere a scuola, gli altri non avevano avuto occhi che per lui, forse perché era una faccia nuova, o perché incuteva timore, oppure era semplicemente strano vedere uno come lui in compagnia di una perfettina come me… resta il fatto che, per quanto lui fosse estremamente attraente, e sincero, e diverso dalla marmaglia che mi circondava, il disagio che provavo a farmi vedere con lui era insopportabile.

-Sali, ti porto in un posto.

-Come faccio a non presentarmi alle elezioni? – avrei davvero voluto dirgli di andarsene, di mettere in moto e uscire dalla mia vita, ma non ci riuscivo, non potevo.

Scese dall’auto e le girò intorno, fino a fermarsi davanti a me. Mi poggiò una mano sulla schiena, facendomi rabbrividire:- Semplice, fai retromarcia, sali in macchina, e ti allontani con classe verso l’orizzonte.- disse rivolgendo lo sguardo in lontananza e facendo un gesto drammatico con la mano.

-Io non...

- Andiamo, golden girl, -bisbigliò avvicinandomi le labbra all’orecchio- corri un rischio, vivi, lasciati andare! O preferisci rimanere in questo porto per sempre? Credevo che fossi decisa a salpare una volta per tutte.

Ero paralizzata, il mio cuore andava a mille e l’unica cosa che riuscii a dire fu :- Andiamo.

-Così si fa!- aprì la portiera e aspettò che mi sedessi per richiuderla, poi face un salto e atterrò sul suo sedile.

-Desy, che fai?- vidi Bridgit e Daniel che correvano preoccupati verso di me.

-Fatemi sapere chi ha vinto.- rimasi sorpresa dal mio tono indifferente, era come se non mi importasse di niente e di nessuno.

Bridgit mi rivolse un’occhiata esitante, poi guardò Evan e mi sorrise:- D’accordo, vai, ti copriamo noi.- poi aggiunse a bassa voce:- E divertiti.

-Che cosa?!?- Daniel non sembrava condividere la gioia di Bridgit. – Dove pensi di andare con quel ragazzo? E approposito… chi cavolo è? Credevo che tutto questo contasse per te, che ti prende?

-Rilassati, amico, non la sto rapendo, la porto solo a fare un giro, poi ve la restituisco.- rispose Evan, fermandosi ogni tanto per masticare la chewingum che aveva in bocca. – Ah e, piacere, Evan Green.

-Credi davvero che mi interessi?

-Non preoccuparti, ho solo bisogno di una pausa da tutto questo. – lo rassicurai, poi chiesi ad entrambi di entrare e, quando si furono allontanati, allacciai la cintura.

-Dove andiamo?- chiesi mentre ci allontanavamo dalla scuola, e dal mio quartiere, e… dalla città.

-Tu fai davvero tante domande, signorina. Rilassati e goditi il viaggio.

Mi resi conto che non ci stavamo allontanando molto da Monroe, Evan aveva imboccato un sentiero che girava vorticosamente attorno ad una collina, il panorama era mozzafiato.

Aveva acceso la radio e il volume era al massimo, in quel momento stavano trasmettendo una vecchia canzone degli Aerosmith.

Si levò il cappello e me lo sistemò velocemente in testa. Il vento gli scompigliava i capelli e lui rideva, rideva davvero. La sua risata era la cosa più incredibile che avessi mai sentito, era rilassata, divertita, mi faceva venire voglia di lasciarmi andare del tutto.
 Ero come ipnotizzata, non riuscivo a smettere di guardarlo. Aveva un carisma allucinante, qualunque cosa facesse era speciale.

Si alzò in piedi sul sedile, staccò una mano dal volante e la portò in alto buttando la testa all’indietro. Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, ma non era un grido di paura o di rabbia, piuttosto un grido di sollievo, sembrava che stesse assaporando la libertà.

Provai quasi invidia, ma poi realizzai che quel ragazzo stava guidando l’auto, su cui ero seduta anche io, in piedi e con una mano sola, e per di più eravamo sul ciglio di un dirupo. E uscii dalla trance.

-Sei impazzito? Scendi! – ero completamente terrorizzata, ma non riuscii lo stesso a trattenere le risate, insomma, aveva l’aria così divertita, sembrava un bambino troppo cresciuto.

Gli afferrai un lembo della canottiera bianca e lui abbassò lo sguardo.

-Calmati, ho tutto sotto controllo! – si risedette – Sei troppo tesa, devi scioglierti un po’.

Quelle parole risuonarono nella mia testa una decina di volte prima che mi decidessi a sciogliermi sul serio.

Appoggiai le mani sul bordo del parabrezza della decappottabile e mi tirai su, proprio come aveva fatto Evan prima.

-Mi sorprendi!- gridò lui sorridendomi.

Non potei fare a meno di sorridere a mia volta: davanti a me non c’era nulla, solo una strada sconfinata (beh,  doveva per forza avere una fine, ma avete capito che intendo), il vento mi accarezzava i capelli e, quando spalancai le braccia, mi sembrò di volare. Mancava solo l’urlo finale e, dopo aver gridato più forte che potevo, capii il perché del sorriso così incredibilmente vero di Evan: mi sentivo libera, spensierata, ogni mia preoccupazione era scomparsa, mi sentivo… viva.

Avevo il fiatone e non riuscivo a smettere di ridere.

-Come fai?

-A fare cosa?- mi guardava soddisfatto, quasi fiero.

-A sapere sempre cosa fare, ad avere sempre tutto sotto controllo.

-Non so sempre cosa fare. A dire il vero, non lo so quasi mai. “Carpe diem”… mi è sempre piaciuta come frase. L’unico modo per godersi a pieno la vita è quello di vivere ogni attimo come se fosse l’ultimo. Forse è questo il mio più grande difetto: non ragiono, agisco e basta.

-In un certo senso, ti ammiro per questo.

 Il troppo pensare mi aveva sempre frenata, potrei scrivere un libro elencando tutte le mie occasioni perse.

-In questo caso, avresti dovuto pensare prima di parlare.– era diventato improvvisamente cupo, non lo avevo mai visto così serio.

Non capivo il perché di quel cambiamento improvviso, forse avevo ragione ad avere paura, forse avrei dovuto seguire quella sensazione che provavo all’altezza dello stomaco e che mi suggeriva continuamente di stargli lontana.
Ci scambiammo uno sguardo intenso, credo che il mio fosse solo spaventato, ma il suo… il suo era una dichiarazione, sembrava che volesse raccontarmi una storia che a parole non era possibile raccontare, ma per quanto i suoi occhi verdi fossero incredibilmente espressivi, continuavo a non capire cosa ci fosse dietro.

-Ci siamo.- disse spegnendo il motore.

Ci fermammo davanti ad una vecchia, anzi vecchissima, fabbrica abbandonata: l’erba appassita, le pareti grigie logorate dal tempo, alcune finestre sbarrate, altre rotte, il tutto metteva i brividi.

-Perché mi hai portata qui?- ero scettica e sulla difensiva. Ora che mi trovavo sola con lui, a chilometri da casa mia, fidarsi di uno sconosciuto sembrava, anzi era, la decisione più sconveniente. Perché lui era questo, uno sconosciuto, non sapevo praticamente nulla sul suo conto, se non che aveva una brutta reputazione e molto probabilmente una fedina penale non immacolata.

- Hai lo sguardo chi vuole conoscere, i tuoi occhi brillano davanti ad una porta chiusa. Vuoi sapere di più su di me? Vuoi conoscermi? Eccoti accontentata.

-Ma perché tutto quest’interesse per me? Avresti potuto mandarmi a quel paese molto tempo fa, quanto mi hai vista gironzolare a casa tua, ma non lo hai fatto, e ora vuoi che ti conosca meglio…

-Senti… io provo qualcosa, non so cosa di preciso, ma so che di te mi importa, e molto. Ho capito che eri speciale dalla prima volta che ti ho vista.

Non credevo che avrebbe mai pronunciato quelle parole. Tremavo come una foglia, non riuscivo a collegare il cervello il resto del corpo. Per lui ero… speciale.

-Vieni, stai tranquilla, sembra che abbia visto un fantasma.

Peggio, mi ero appena resa conto di essermi innamorata, di Evan Green.
Tutto quello che aveva detto di provare per me, io lo provavo per lui, ma con il doppio dell’intensità.

Mi prese la mano e mi condusse sul retro del palazzo, che sembrava messo meno peggio della facciata principale.
Attraversai una porticina di ferro arrugginita e venni sommersa da una nuvola di fumo, di sicuro tabacco e…beh, qualcos’altro.

-Ehi, bellissimo! – una ragazza bionda spuntò dal nulla e mi spinse via, facendomi quasi cadere a terra. Era magra come un chiodo e indossava delle calze nere aderenti, a cui aveva abbinato un largo maglione nero. Aveva i capelli totalmente fuori posto e si muoveva come un pipistrello in volo, sbandando da una parte all’altra, ma emanava comunque una sorta di fascino.

Si fiondò letteralmente su Evan e lo… baciò, esattamente come avevo sempre sognato di fare io. Ma quello non era un bacetto qualsiasi, era un vero e proprio bacio.

Quella scena mi lasciò senza parole, la situazione in sé era già inquietante, ma quello… quello era troppo. E quello che mi aveva detto prima? Era tutta una balla? A questo punto non sapevo più cosa pensare.

Lui la spinse via delicatamente, come se si salutassero sempre così, e si diresse ad un tavolo su cui era poggiato un pacchetto di sigarette.

-Felice di rivederti, Marianne.

Mi massaggiai le tempie, cercando di elaborare quello che avevo appena visto, quando mi si avvicinò un altro ragazzo, un po’ più basso di Evan, con un cappello da baseball calcato in testa, girato al contrario, e delle profonde borse sotto gli occhi azzurri come l’oceano.
Mi accarezzò il viso.
Avete presente il telefilm “The Walking Dead”? Ecco, sembrava uno dei personaggi, dei morti intendo, ma anche lui, come Marianne, aveva un non so che di misterioso e affascinante.

-E tu chi sei, bel faccino? –serrai gli occhi. Il suo tono di voce era calmo e inquietante.

Evan intervenne protettivo e gli puntò la sigaretta accesa contro, come per avvertimento.

-Giù le mani, Bryce. Lei sta con me.

Era un modo per dire che ero la sua … ragazza?

-Bene, bene… -Marianne mi squadrò con i suoi enormi occhi marroni screziati di verde, il trucco sbavato la faceva sembrava ancora di più una pazza – Evan ha un nuovo giochino. E questa bambolina ha anche un nome? – sembrava che cantasse, e potrei giurare sul mio autografo di Rob Lowe che non sbattè le palpebre neanche una volta.

-D-destiny. – distolsi lo sguardo dai suoi occhi.

-Oh, andiamo Bryce, così la terrorizzi! – Marianne gli diede un colpetto sul braccio e si allontanò. –Quello è compito mio… - si voltò e mi fece l’occhiolino, poi mi raggiunse di nuovo, mi afferrò il braccio e mi fece sedere a forza su un gradino. Lei si sedette accanto a me, assumendo una posizione che avrebbe fatto invidia ad un contorsionista. –Alloooora… dove vi siete conosciuti? Ti ha conquistato con il suo fascino da ricercato? Ti ha cantato una serenata al chiaro di luna? Uhhh, ha inventato qualche frase d’effetto col tuo nome, vero?

-Piantala, psicopatica! –la interruppe Evan, sbracato su una poltrona e con i piedi incrociati sul tavolo.

-Evan… - “giochetto”… ero solo un giochetto. Lei lo conosceva, sapeva com’era fatto, quello che diceva doveva per forza avere un senso. “Vorrà pur dire qualcosa se ti chiami destino” aveva detto esattamente così la prima volta che ci eravamo incontrati, e quella ragazza lo sapeva perfettamente. Era davvero così prevedibile, faceva davvero così con tutte? – è meglio se andiamo.

-Aspetta!- si alzò di scatto e mi prese il polso, ma io lo ritrassi. –Non starla a sentire, è una pazza!

-Evan, per favore.

Marianne stava ridendo da sola, in silenzio, coprendosi la bocca con una mano, come se si fosse ricordata qualcosa di divertente, mentre Bryce era scomparso… quel tipo era davvero, davvero inquietante.

 Evan prese le chiavi e tornammo all’auto, senza pronunciare una parola.

-Cos’è successo?- aveva lo sguardo fisso sulla strada.

-E me lo chiedi? Mi dici che vuoi che ti conosca meglio, che provi qualcosa per me, e mi ritrovo in una catapecchia impregnata di fumo con due stralunati e, per giunta, una di loro ha un’idea ben precisa di chi tu sia. E sto cominciando a farmene una anche io.

Avevo pronunciato le ultime parole con un filo di voce, ma era bastato a farlo voltare con espressione sconvolta verso di me. I suoi occhi mi scavavano dentro.

-Che vuoi dire?

-Evan, io a mala pena ti conosco! Mi sono lasciata abbindolare da te, dalle tue attenzioni e dalle tue frasi profonde e mi sento incredibilmente stupida per questo. Ho visto come baciavi Marianne prima, ora non dirmi che non ti comporti così con tutte.

-Io…

-Svolta verso la scuola, ho una questione in sospeso.

Non vedevo l’ora di scendere da quella macchina e di allontanarmi da Evan il più possibile, e quando si fermò nel cortile della scuola, cercai di non voltarmi indietro.

Era appena suonata la campanella che segnava la fine delle lezioni, ero arrivata giusto in tempo per vedere Bridgit che usciva dalla porta principale con l’aria sconfitta.
Non appena mi vide, mi venne incontro, senza fretta, camminando.
Per un po’ ci guardammo e basta.

-Allora?- non reggevo più quella tensione.

-Mi dispiace, Desy, davvero.- poggiò una mano sulla mia spalla e mi fissò con compassione.

-Per cosa? Spiegati.

-Hanno annunciato solo che eri stata squalificata, così hanno dovuto eleggere il secondo classificato…

-Chi ha vinto, Bridgit?

Ma non c’era bisogno che rispondesse, perché proprio in quel momento, dalla porta uscii il, o meglio la fortunata, alla quale tutti si rivolgevano con finti sorrisi e facevano i complimenti.
Diana, il misterioso ultimo candidato. Dovevo aspettarmelo…

Ero pronta e fiondarmi su di lei e sfogare tutta la mia rabbia, ma venni interrotta da una voce roca proveniente dagli altoparlanti, la voce del Preside Palmer :- Destiny Peterson è desiderata nel mio ufficio, il prima possibile.

Scoccai un’occhiata dubbiosa a Bridgit, ma lei mi rispose con un’alzata di spalle, quindi mi diressi al “patibolo”senza fare ulteriori domande.

-Credo che lei sappia perché l’ho convocata, Miss Peterson.

-La sorprenderebbe se dicessi “non proprio”?

-Allora mi sembra che questa sia la risposta a tutte le sue domande. Come la spiega?

Mi mostrò una fotografia, una fotografia che ritraeva me, mentre salivo sulla mustang di Evan proprio prima di entrare a scuola.
Quella strega infernale l’aveva scattata e ovviamente l’aveva subito portata dal preside, e così dovetti dire addio a un pezzetto del mio futuro. Di sicuro, non avrebbe continuato a respirare per molto.

-Era successa una cosa e lui mi stava riaccompagnando a casa, era un’emergenza… - ma non ero affatto una buona bugiarda.

-Siamo onesti, Destiny. – Palmer non era arrabbiato, solo evidentemente deluso.

-Mi dispiace… qual è la mia punizione?

-Mi sembra che essere squalificata dalle elezioni a rappresentante, dopo tutto il lavoro che ha fatto, sia sufficiente. Per ora chiuderò un occhio, data la sua condotta eccellente, ma mi auguro che non accadrà più nulla del genere.

-Glielo assicuro, grazie.- e mi avviai a testa bassa verso la porta. Ma mi aspettava qualcosa di peggio della ramanzina del Preside, quella sera  avrei dovuto raccontare tutto ai miei. Per fortuna mio padre sarebbe dovuto stare fuori fino a  tardi, quindi mi sarei salvata per metà.

Prima però avevo un’ultima cosa da fare, dovevo parlare con Daniel.

A quell’ora sarebbe dovuto essere agli allenamenti di nuoto, quindi mi catapultai in palestra.

Per entrare in piscina mi fecero indossare quelle disgustose pattine di plastica che tutti si passano, avrei preferito staccarmi i piedi a morsi piuttosto che rischiare di beccarmi un fungo, quel ragazzo mi doveva davvero un enorme favore.

Era proprio di fronte a me, ma era di spalle, stava parlando con Chace, un suo compagno di squadra che ogni tanto si univa a noi per qualche uscita, un tipo carino.

Aveva un asciugamano poggiato sulle spalle larghe, ma si intravvedeva comunque il suo fisico scolpito, un di quelli capaci di far sciogliere mezza popolazione mondiale di sesso femminile, e non solo.

Chace mi notò oltre le testa di Daniel e mi salutò. A questo punto Daniel si voltò e la sua espressione inizialmente incuriosita di fece cupa di colpo.
Gli feci un  cenno col capo e lo invitai ad avvicinarsi.

Si dirigeva verso di me con l’eleganza tipica di un campione e mi fece ricordare perché ero stata così presa da lui negli anni passati.
Si scrollò l’acqua dai capelli dorati e cercò di assumere un’espressione seria, come se non riuscisse ad essere arrabbiato.

-Avevi ragione. – era tutto quello che volevo dirgli. –Non dovevo andarmene con Evan, ho fatto un enorme sbaglio, avrei dovuto starti a sentire. Mi dispiace.

-Quando ho sentito che avevi perso non ero arrabbiato, o soddisfatto, ero solo dispiaciuto per te, Destiny, perché so quanto ti stai impegnando.

-Sei uno dei pochi a cui importa davvero di me e io ti ho completamente ignorato.

-Ti sei almeno divertita col tuo “amico”?

-Meglio non parlarne.

-Quando vuoi, io ci sono sempre per te, ricordatelo.- mi accarezzò i capelli. Aveva il viso chino sulla mia testa e mi guardava preoccupato. Sembrava che stesse sentendo tutte le mie insicurezze e le mie paure.

-Lo so.

Mi strinse a se e mi baciò la fronte, come era solito fare per tranquillizzarmi, e funzionava, sempre.
Poi fummo interrotti dal fischietto isterico dell’allenatore che convocava la squadra.

-Fatti valere, mi raccomando!

-A domani, piccola.

Ma come avevo fatto a prendermela con lui, per due volte di fila? C’è proprio da dirlo, quel ragazzo era un angelo.

Ma non era Evan…

 
 
La sua auto non era sul vialetto, non era ancora tornato a casa. Meglio così.

Presi un respiro più che profondo e feci scattare la maniglia della porta.
Ad un primo sguardo la casa era deserta, nessuno in vista, sarei potuta sgattaiolare in camera, chiudermi dentro a chiave, alzare la musica al massimo ed estraniarmi completamente dal mondo esterno, dovevo solo fare le scale.
Purtroppo la mia famiglia aveva scelto proprio quel giorno per riunirsi. Erano tutti in salotto: mamma, Brian, persino papà, che tenevano un enorme striscione celeste con su scritto in bianco, a caratteri cubitali, “congratulazioni!”.

-La mia sorellina è capo-secchiona anche quest’anno!

-Piantala, Brian. E’ un grande onore e siamo tutti fieri di Destiny, vero caro?

-Ma è ovvio!

Mio padre mi avvolse un caloroso abbraccio, un abbraccio da padre. Mi mancava il fiato, e non solo perché stringeva troppo forte. Quando all’abbraccio si aggiunsero anche gli altri, non riuscii a controllarmi.

-Per favore, staccatevi.

-Okay, troppo affetto, scusa. E’ che siamo così felici per te. – mia madre era tutta un sorriso.

-Ma non dovreste. Io… io non…

-Dicci tutto, tesoro.

-Io non ho vinto. – in un certo senso dovetti sputarle a forza quelle parole.

-Come sarebbe? – papà passò gradualmente da entusiasta a dubbioso a profondamente deluso.

Intanto Brian si era spaparanzato sul divano e si godeva lo spettacolo.

-Ho marinato la scuola proprio oggi che c’erano le elezioni e mi hanno sorpreso, quindi sono stata squalificata. –parlavo ad occhi chiusi, come se mi aspettassi che qualcosa mi piombasse addosso da un momento all’altro.

-Come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere!? Sai cosa c’è in ballo? Tutto questi ti serve, Destiny. Perché non lo capisci?

-Magari siete voi che non capite! Non capite che magari io tutto questo non lo voglio!

E mio padre disse finalmente la verità, forse per la prima volta.

-Non mi interessa quello che vuoi tu, mi importa di quello che è giusto che sia e quello che è giusto ora è che tu vai al college, che fai legge, ti costruisci una carriera e che porti avanti il buon nome della famiglia!

-Don…

-No, mamma. Lascialo parlare. Era da tanto che voleva dirlo, vero? Beh anche io mi sono liberata di un peso oggi. Che a voi vada bene o no, non sono la rappresentante degli studenti, avrò una piccola macchia sul mio curriculum, pazienza. Non mi importa. Anzi, ne sono quasi sollevata e di sicuro non mi aspetto il vostro appoggio in questo momento, fatevene una ragione.

Avevo detto quello che pensavo, e mi sentivo bene. Per la prima volta nella mia vita, non mi sentivo in colpa.

Li lasciai lì, delusi, sconvolti, arrabbiati e tutto quello che erano. E dato che, a quanto pare, quello era il giorno delle verità, decisi di dirla tutta, fino in fondo.
Avevo bisogno di stare bene e l’unico che poteva farmi sentire in quel modo, che poteva farmi dimenticare tutto, era Evan.

Era seduto lì, sui gradini, con una bottiglia di birra poggiata accanto.

Mi sedetti accanto a lui e rivolsi lo sguardo verso casa mia.

-Non dovevo portarti lì, non ho dato importanza a quello che pensi tu e ho sbagliato. Perdonami. – prese un sorso di birra e rimase a testa bassa.

-Non importa.

-Cosa? – si girò sorpreso.

-Ho detto che non importa. – non distolsi lo sguardo, permisi solo alla mia bocca di far uscire tutto quello che aveva dentro. –Senti… mi sono ripromessa di essere sincera, ed è quello che voglio fare. Quando sono con te io mi sento… bene, non importa dove siamo, o con chi siamo, io con te sto bene, Evan.

-Non sai quello che dici, io non sono una buona influenza, l’unica cosa che so fare è provocare dolore alla gente. Io sono quello che hai visto in Marianne e Bryce, sono come loro.

Gli misi un dito sotto il mento e gli sollevai la testa, in modo che mi guardasse in faccia.

-Ho bisogno di te, Evan. Hai detto che provi qualcosa per me, dimostrami che è vero, e che non l’hai detto tanto per dire.

-Sei sicura di volerlo?

-Non sono mai stata così sicura.

Mi prese il viso tra le mani e piantò i suoi occhi nei miei. Dietro quello schermo verde smeraldo intravvedevo una sorta di conflitto interno, come se stesse combattendo con sé stesso.

-Guardami bene, guardami e dimmi che non hai paura. La tua vita cambierà, tu cambierai, e la colpa sarà solo mia, te lo dico per esperienza personale. Non posso sopportare di vederti soffrire per causa mia. Devi fare una scelta, Destiny.

Sentirgli pronunciare il mio nome fu un’emozione incontrollabile.
Ero pronta a rinunciare a tutto pur di vivere di quella sensazione, ma non mi rendevo conto di essere pronta a rinunciare anche a me stessa.

-Non posso dirti che non ho paura, perché ne ho, ma non voglio permettere alla paura di impedirmi di essere felice, anche se solo per poco. Ho fatto la mia scelta.

E fu così che mi baciò.

Di colpo dimenticai ogni cosa: la punizione, la sclerata dei miei, il bacio con Marianne... c'eravamo solo noi.
Non fu come me l'ero immaginato, fu addirittura meglio.
Le sue labbra sapevano di alcool e tabacco, ma non era così disgustoso come potrebbe sembrare, sapeva di “cattivo ragazzo” ed era divertente pensarla in questo modo.
Mi teneva stretta, come se non dovessimo lasciarci più.

-Sei speciale. –mi bisbigliò tra un bacio e l’altro.

E in quel momento, come sempre quando eravamo insieme, mi sentivo davvero così… speciale.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



-E tu? Cosa vuoi dalla vita?- mi chiese Evan incuriosito.

Eravamo nella sua camera. Non fraintendetemi, sua zia era fuori quella mattina e ne avevo approfittato per raggiungerlo, tra l’altro era anche sabato e avevo la giornata libera.
Non c’era niente di particolare in quella stanza, niente che lo rispecchiasse, era anonima: le pareti tinte di un tenue color panna, un letto matrimoniale, coperto da un piumone a toppe, una poltrona e una piccola lampada da tavolo, tutto qui.

Lui era seduto a gambe incrociate sulla poltrona, che un tempo doveva essere stata bianca, con la chitarra appoggiata sulle ginocchia e accennava qualche accordo.

-Studierò legge e diventerò avvocato.

-Non ti ho chiesto cosa farai, ti ho chiesto cosa vuoi, e non mi sembri affatto convinta. – mantenne un tono piatto e non alzò lo sguardo, rimase a fissare le corde della chitarra.

-E’ quello che deve essere, nella mia vita non c’è spazio per i sogni o per le ambizioni, il mio destino è segnato.

Ripensai alla discussione che avevo avuto con mio padre una ventina di giorni prima. Tanto per cambiare, non ci eravamo più rivolti la parola se non tramite mia madre, che come al solito faceva da intermediario. Da quel giorno però, papà aveva totalmente cambiato atteggiamento nei confronti di Brian, forse aveva una piccola speranza di farlo diventare il suo nuovo erede dopo la mia improvvisa ribellione. Resta il fatto che non avevo mai visto mio fratello così sereno: papà passava molto più tempo a casa, chiacchieravano, Brian gli raccontava i suoi problemi, che non erano affatto pochi, e lui ascoltava, senza fiatare, come farebbe un bravo genitore.

Nel frattempo avevo cominciato anche io a notare dei cambiamenti… in me stessa: ero diventata più indipendente, dicevo quello che pensavo e facevo quello che volevo, senza rimpianti, ed ero felice.
Avevo anche cambiato stile. Certo, non ero diventata punk o emo come si potrebbe immaginare, ma avevo completamente smesso con  le stampe a fiori e le ballerine ed ero passata ai giubbotti di pelle e agli stivaletti (in un certo senso quella era stata colpa di Evan). Un giorno, per togliermi un sfizio, feci  un salto dal parrucchiere e ne uscii con i capelli di almeno dieci centimetri più corti e scalati, il che non sembrerebbe niente di che, se non aggiungo che mi ero fatta tingere le punte di fucsia.

-Nessuno è soggetto al proprio destino, semmai è il contrario. E ora sii sincera, golden girl, cosa vuoi davvero?

Mi fermai a pensare ad una risposta. Cosa volevo davvero?

-Ho sempre sognato di essere indipendente, di vivere per conto mio, viaggiare… ti sembrerà stupido, ma fino a poco tempo fa volevo diventare un’artista, ero abbastanza brava, ma i vari impegni mi hanno costretto a smettere.

-Immortalare il mondo così come lo vedi. Mi piace, è un concetto profondo.

-Peccato che non si realizzerà mai.

-E chi te lo assicura? Devi combattere per quello che vuoi, devi vincere le tue paure e abbattere le mura che ti circondano. – sembrava che credesse davvero a quelle parole, era totalmente preso e mi guardava come se volesse invitarmi a girare il mondo su una mongolfiera, con gli occhi pieni di speranza. Poi si stampò in faccia quel suo sorrisetto strafottente e aggiunse:- Preferisci rimanere chiusa in uno studio legale per tutta la vita?

Di certo quella non era un’opzione da tenere in considerazione.

-Aspetta…

Afferrò la chitarra e cominciò a suonare.

Seventeen years by her side
Broke the same bread
Wore the same clothes and we said
We’re sisters with nothing between
If one of us fall
The other will soon be following


Possibile che quel ragazzo riuscisse a dare spettacolo anche in una stanza vuota?

La prima volta che lo avevo sentito cantare, sulla scala anti-incendio, avevo sperato con tutta me stessa che parlasse di me, e ora era così, mi guardava negli occhi e raccontava la mia storia, quella canzone parlava esattamente di come mi sentivo.

She had a fire inside
And that terrified you
You swore that you’d never lose your control
Baby, let yourself go
’cause part of you hides
And I know the hunger inside of you’s strong
You can only hold back the river so long
Oh, you don’t have to go it alone
Oh, you don’t have to go it alone


Mi alzai e presi a ballare sul letto, a volteggiare e desiderai che quel momento, così magico, non finesse mai.
Evan mi seguì e si fermò proprio di fronte a me, mettendo l’anima nell’ultima parte della canzone.

Run for your life, my love
Run and you don’t give up
All that you are
All that you want
Run for your life right now
And if you don’t know how
I’ll come back with you and take all that’s true
And leave all that’s burned behind
Run for your life

 
-Devi correre, correre per la tua vita e non fermarti a pensare a quello che potrebbe succedere, sii egoista per una volta e prenditi quello che vuoi!

Era questo quello che amavo di lui, mi faceva riflettere e mi incoraggiava a rompere gli schemi, tutto con lui era un’avventura.

Mi baciò con tanta foga che cademmo entrambi sul letto e mentre rimbalzavano, su e giù, ridevamo come se non ci fosse un domani, lasciando che tutti i pensieri se ne andassero lontano.

Il suo viso era incredibilmente vicino al mio e la sua mano mi accarezzava dolcemente i capelli, scendendo sul collo e tornando indietro, sulla nuca.

-Io ti amo, Destiny.

Mi amava. Lui, che aveva sperimentato di tutto, che avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra ragazza, amava proprio me.

-E sentiamo, cos’è che ami di me?- gli chiesi atteggiandomi a “femme fatale”, cosa che risultò assolutamente ridicola.

-Questo. Sei vera, sei intelligente, hai una luce negli occhi che mi incuriosisce, guardi il mondo in modo diverso… - avvicinò di nuovo le labbra alle mie, ma si trattenne ad una distanza sufficiente per poter aggiungere – e ti ho mai detto che sei tremendamente sexy con questi capelli?

-Ma smettila! – lo spinsi via ridendo, poi lo afferrai per le bretelle e lo ritirai a me per un ultimo bacio.

-Andiamo, voglio darti una cosa. – disse prendendomi la mano.

Mi concessi un minuto per ammirare il suo sorriso, così caldo e sincero.

-Non puoi darmela qui?

-Ma sei matta? Non sarebbe nel mio stile.

-Come vuoi, ma se mi porti in un’altra cantina diroccata te ne faccio pentire!

Rise e mi arruffò i capelli, mentre borbottava qualche battutina ironica sul fatto che una “bambolina” come me osava minacciarlo.

-Ti amo.

-Lo so. – mormorai abbracciandolo.

Non sapevo come mai non avevo avuto la forza di rispondere “anche io”, ma scacciai in fretta il pensiero.

Evan mi prese di nuovo per mano e, pieno d’entusiasmo, si catapultò giù per le scale. Per fortuna, si accertò che non facessi un ruzzolone epico.

-Devo fare un salto a casa prima, devo prendere una cosa.

-Ti aspetto. – mi baciò sulla guancia e chiuse la porta d’ingresso.

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Cercai la macchina fotografica.

Volevo avere un ricordo di quell’esperienza, di quella persona che aveva dato una svolta alla mia esistenza. Negli anni a venire avrei voluto ripensare ai miei diciassette anni, aprire un armadio in cui avevo nascosto una vecchia scatola di legno, di quelle intagliate che si vedono nei film d’epoca, aprirla e trovarci una vagonata di vecchie foto, lettere e ricordi vari, e riviverli tutti, uno ad uno.

Ed eccola là, la mia fedelissima ‘canon’, che aveva immortalato anni di premiazioni, dibattiti, competizioni con le cheerleaders e noiosissime cene in famiglia.

La accesi e ci ritrovai una foto che avevo scattato un paio d’anni prima: ritraeva me, Bridgit e Daniel, abbracciati e sorridenti, credo fosse il primo giorno di scuola. Io mi trovavo in mezzo, come sempre, dividendo quei due, che non si erano mai sopportati più di tanto.

Mi assalì una profonda nostalgia: in quell’ultimo periodo non ci eravamo frequentati molto, li vedevo raramente fuori dall’orario di lezione. Daniel non era molto felice della mia riappacificazione con Evan, mentre Bridgit era sempre ‘troppo impegnata’, ma il suo evitarmi di continuo diceva il contrario.

-Ancora con lui, eh? – Brian apparve sulla soglia della mia camera.

-Già…

-Sai come la penso sull’argomento.

-Cosa vuoi che ti dica, Brian? Io lo… insomma, sto bene con lui, mi rende felice e ho davvero bisogno di stare bene in questo momento..

-Il punto è che questa non sei tu, sorellina. I capelli, i vestiti, l’atteggiamento… non sei tu e quel tipo non è fatto per te. – era serio e, per un attimo, in lui vidi mio padre.

-Credevo che saresti stato dalla mia parte.

-Io sarò sempre dalla tua parte, e questo lo sai. Se ti rende felice, sarò il primo ad appoggiarti.

-Ti voglio bene. – lo abbracciai nascondendo il viso nel suo torace ampio e facendomi sfuggire una lacrima.

-Vai adesso. Già mi immagino papà in fibrillazione con la giugulare che pulsa mentre impreca contro di voi.

Ridemmo a crepapelle immaginandoci la scena. Poi gli presi il viso tra le mani e, guardandolo dritto negli occhi, gli dissi decisa :- Questa sono sempre io, Brian, e non ho intenzione di cambiare, soprattutto per un ragazzo.

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-A tuo fratello non piaccio, vero? – mi chiese Evan mentre ci dirigevamo verso la sommità di una collinetta.

-Vuole solo proteggermi, sai come siete fatti voi maschietti. – gli diedi una leggera pacca sul braccio in segno di conforto.

-Destiny, sei al sicuro con me. Lo sai, vero?

Gli spostai il cappello all’indietro per guardarlo meglio.

-Lo so dal primo momento in cui ti ho visto.

Mi mise le mani sulle spalle e posò le labbra sulle mie, con una dolcezza tale da far cariare i denti, poi tirò fuori dalla tasca dei jeans una catenina dorata, a cui era appesa una chiave.

Le nuvole oscuravano leggermente il sole e il vento faceva ondeggiare le fronde degli alberi, producendo un soffice fruscio.

-Hai ragione, non sarebbe stato “d’effetto” darmela a casa.- dissi emozionata. –è bellissima.

-Sono davvero felice che ti piaccia.- concluse abbracciandomi stretta.

-Perché una chiave?

-Così… mi sembrava carina.

Carina? Insomma, dopo quel discorso mi sarei aspettata qualcosa di poetico e significativo piuttosto che un “mi sembrava carina”, mi aveva persino portata lontano da casa per farmela avere,  ma non potevo lamentarmi per una cosa così ridicola, sospirai delusa e aggiunsi:- Non la toglierò mai, per nulla al mondo.

-Senti, io dovrei tornare alla fabbrica, devo parlare di una faccenda con Bryce. Se vuoi che ti lasci prima a casa, per me va bene.

La prima volta che avevo messo piede in quella catapecchia non mi ero esattamente sentita a mio agio, e nei giorni seguenti avevo evitato di seguire Evan fin lì, ma era la sua vita e volevo farne parte, quindi decisi di fare un altro tentativo.

-Nessun problema, vengo con te.

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-Bryce! – Evan entrò con gran classe,cappello calato sugli occhi e andatura rilassata, e schioccò le dita, faceva molto “Donnie Brasco”.

-Dimmi tutto, grande capo.- Bryce saltò e si stese su un divano impolverato, portandosi le mani alla nuca. Questa volta indossava una camicia a quadri sui toni del blu, perfettamente intonata agli occhi, sembrava più  umano dell’ultima volta che l’avevo visto e portava lo stesso cappello da baseball, sotto il quale spuntavano dei ciuffi di capelli biondissimi. Devo ammettere che, tralasciando l’altezza, era davvero un bel ragazzo.

-Vieni, dobbiamo parlare di domani. E’ tutto pronto?

- Quasi, manca definire gli ultimi particolari.

E  imboccarono un lungo corridoio, troppo buio per capire dove portasse.

Io rimasi sola sulla porta d’ingresso. O almeno, credevo di essere sola.

Un ragazzo era appoggiato ad uno degli stipiti di una porta. Era alto, snello, dai capelli lunghi e scuri, e mi fissava. Sembrava che volesse dirmi qualcosa, i suoi occhi erano così penetranti che, per un attimo, provai l’impulso di indietreggiare.

-Quello è Christian, è un tipo tranquillo, qui nessuno ha mai capito cosa gli passi per la testa. Beh, credo che sia quello che contraddistingue ognuno di noi. – Marianne sbucò da dietro le mie spalle, facendomi sussultare per lo spavento.

Portava i capelli raccolti in una sorta di coda di cavallo e indossava un lungo vestito viola, che aveva abbinato ad un paio di stivaletti borchiati.

-Vedo che Raperonzolo è passata al lato oscuro… bei capelli, dolcezza. – disse facendomi l’occhiolino e indicando le mie ciocche rosa.

-Grazie… -ero totalmente distratta, continuavo a fissare la porta a cui era appoggiato Christian, che nel frattempo era scomparso.

Ero così distratta che non mi accorsi che Marianne si era avvicinata spropositatamente a me e fissava allucinata la chiave che avevo al collo.

-Si è disturbato a farti un regalo, devi piacergli sul serio.

-Non penso che si sia disturbato. Mettiti in testa che IO. NON. SONO. TE. Evan non si sta divertendo e basta con me!

-Wooow, placa i tuoi bollenti spiriti, bambolina. Sai, all’inizio credevo che fossi completamente senza spina dorsale, ma sto cominciando a ricredermi, ha grinta. Devo ancora capire da dove la tiri fuori, ma mi piaci.

Non sapevo se prenderlo come un complimento o dare importanza alla parte in cui mi chiamava “pappamolle”, quindi mi limitai a sorriderle.

-Non volevo essere una carogna. – si era sdraiata a testa in giù su una poltrona. – E’ che non sono molto brava a socializzare.

Quello non era per niente ovvio.

-Figurati.

-Allora… ci degnerai della tua presenza domani?

-Domani?- mi venne in mente la conversazione tra Evan e Bryce che avevo origliato poco prima.

-Evan sarà anche l’ultimo arrivato, ma ha già una certa fama, organizza delle feste da briiiividoo! – e si rialzò in piedi, con tanto di capriola.

Un party, e come mai Evan non mi aveva detto niente?

-Credo proprio che ci sarò.

-Oh, tesoro, arrivi giusto in tempo. Stavo giusto parlando con Destiny della festa di domani.

-Ah sì? – Evan mi sembrò sorpreso. Si avvicinò a me, mi mise un braccio attorno alle spalle e mi baciò la guancia. –Beh, credo che a questo punto tu non possa più tirarti indietro, sei una di noi.

Non avevo la minima idea di cosa significasse, so solo che mi fece venire i brividi, e mi piaceva.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Stavo cercando di scegliere cosa avrei indossato quella sera, quando squillò il mio cellulare.

-Ehi Evan, che succede?

-Ciao, senti, dovresti venire con la tua auto, io non riesco proprio a liberarmi. - in sottofondo c’era un rumore assordante e doveva gridare per farsi sentire.

Avrei voluto sbattergli il telefono in faccia, ma non riuscii a dire altro che:
-Non preoccuparti, sono lì tra un’ora.

Mi meravigliai della mia improvvisa disponibilità. Insomma, ci andavo per fargli un favore e lui mi dava anche buca? Avevo accettato di farmi vedere a quel party credendo di fargli un piacere, ma quando gli avevo detto che ci sarei andata si era mostrato tutt’altro che entusiasta. Erano giorni che mi calcolava sempre meno e la sua freddezza era diventata abituale.

Beh, ormai ero quasi pronta e, se non altro, avremmo di certo chiarito alla festa.

Finito di angosciarmi, ripresi ad esaminare il mio armadio. Alla fine optai per un top bordeaux senza maniche,  a cui abbinai una minigonna nera e un paio di zeppe nere. Il freddo di inizio novembre cominciava a farsi sentire, quindi raggiunsi di soppiatto il guardaroba all’ingresso, dove di solito appendevamo le giacche, e afferrai il gilet di pelle che Brian sfoggiava per cercare di sembrare un duro.

Crepai dal freddo comunque. Che posso farci se sono stupida?

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“Calma, Destiny. Non conosci nessuno, Evan si comporta da emerito stronzo e probabilmente ti stai avviando verso un inevitabile suicidio sociale, ma non importa, puoi farcela.”
Continuavo a parlare da sola, cercando allo stesso tempo di non sbagliare strada, cosa molto facile al buio. Posso giurare di aver visto un vecchietto che mi guardava come se fossi da rinchiudere.

Ero quasi arrivata alla fabbrica e sentivo il cuore battere più forte a ogni metro che percorrevo. Era notte, la strada era deserta e io ero in preda al panico, perciò decisi di chiamare l’unica persona che avrebbe potuto farmi rinsavire, Bridgit. Accostai sul ciglio della strada e lasciai i fari accesi, per sicurezza. Il telefono squillò un paio di volte…

-Che vuoi?

-Aiutami.

-Certo, chiama solo quando hai bisogno. Mi hai deluso, Destiny, non mi sarei mai aspettata di diventare la seconda scelta.

-Bri, ti prego, io…

Aveva già attaccato.

E così, ero sola. La mia migliore amica aveva deciso di troncare i rapporti con me, e aveva ragione, con il passare dei giorni Bridgit era diventata la mia seconda scelta, il tutto senza che me ne accorgessi; il mio ragazzo, se potevo ancora chiamarlo così, si era allontanato da un momento all’altro; il mio migliore amico mi disprezzava e la mia famiglia… beh ormai avrete capito in che situazione mi trovavo.

Quando arrivai davanti all’edificio potevo sentire la musica rimbombare attraverso le mura, non era la tipica musica dance che si sente di solito in discoteca: era rock puro, forte, roba alla ‘Guns N Roses’ o  ‘Nirvana’.

Quasi tutte le macchine che erano parcheggiate nei dintorni erano di colore scuro, tendente al nero, mi sembrava di trovarmi all’interno di un film gotico, e la mia Ford argentata faceva davvero una figuraccia lì in mezzo.

Feci un respiro profondo, spensi il motore e scesi dall’auto. Pur arrancando nel buio, riuscii a trovare la porticina dell’ingresso sul retro. Se la musica da fuori era assordante, all’interno era insopportabile, dovetti tapparmi le orecchie, ma poco dopo mi ero già abituata al frastuono.

Come al solito, Marianne mi assalì. Questa volta mi stupì indossando un adorabile abitino giallo acceso, anche se non aveva osato rinunciare ai suoi stivaletti e ai capelli alla ‘mi sono appena alzata dal letto’.

-Sei venuta! Complimenti, hai un look FAN-TA-STI-CO!

-Grazie! – gridai cercando di sovrastare la musica. –Anche tu stai bene, sei… diversa!

-Non ti ci abituare. – mi zittì mentre si accendeva una sigaretta.

-Posso? – le chiesi.

Me ne porse una e si offrì di accendermela. Era la prima volta che fumavo, non volevo che si notasse, ma ovviamente dovevo fare la mia figura: il fumo mi andò di traverso e mi esibii in una serie di colpi di tosse tanto forti che, se non ci fosse stato tutto quel rumore, avrebbero creduto che avessi la polmonite.

-Sei proprio una pappamolle! – mi rimproverò Marianne sghignazzando.  –Prendi, aspira e trattieni, così arriva ai polmoni… ecco. – mi mise una mano sulla schiena e si assicurò che non facessi lo sbaglio di prima.

Fumare non era un gran che dopo tutto, l’odore, la bocca secca, devo dire che lo odiavo proprio, ma mi piaceva l’idea di tenere una sigaretta in mano con aria di superiorità, come faceva Marianne, mi faceva sentire potente.

Qualche minuto dopo Bryce si avvicinò a noi.

-Ecco le mie signore! Splendore, Marianne.

-Ciao sgorbio, come te la passi? – Marianne gli rivolse un sorrisetto ironico e lui sembrò cogliere lo scherzo.

-Tutto bene strega, hai per caso qualcosa di più forte della nicotina?

-Mi dispiace…

-Pazienza, vorrà dire che mi divertirò con qualcos’altro.

Spostò lo sguardo su di me, uno sguardo furbo, inquietante, e mi sorrise, lasciandomi di sasso. Mi scostò i capelli dal viso e disse:- Bene… vedo che hai cambiato look. Sai, non avevo mai notato quanto fossi bella… - si sporse ancora di più e avvicinò le labbra al mio collo, mi spostai di scatto.

-Che cavolo credi di fare?

Cercai l’appoggio di Marianne, ma era completamente distratta, stava ballando da sola in cerchio a ritmo di ‘Smells Like Teen Spirit’ dei Nirvana.

Bryce mi posò una mano sulla spalla tremante, per rassicurarmi.

-Rilassati, tesoro, era solo uno scherzo!

-Cosa?

-Scherzo: espressione di carattere giocoso, usata tradizionalmente per far sorridere, o addirittura ridere, la gente.

Certo che quei tipi scherzavano in modo piuttosto strano...

-Sappiamo tutti di te ed Evan. E’ il mio migliore amico e l’ultima cosa che oserei fare sarebbe soffiargli la ragazza, anche se starti lontano mi costa un certo sforzo…  In ogni caso, tu lo rendi felice, è un altro con te e avete la mia benedizione, puoi considerarmi un fratello maggiore.

-Un fratello maggiore?

-D’ora in poi puoi fidarti di lui come puoi fidarti di me. – nel frattempo Marianne si era ripresa dalla febbre del sabato sera.

Era strano che mi chiedessero di fidarmi di loro, ma, in fondo, anche io volevo provare ad accontentarli.

-Sì, baby, gli amici di Evan sono anche nostri amici. –aggiunse Bryce.

-Approposito di Evan, dov’è?

-Proprio lì. – Marianne puntò il dito alle mie spalle e mi girai giusto in tempo per vederlo attraversare il corridoio, in tutto il suo splendore. Quel ragazzo non si smentiva mai: indossava una camicia bianca, quasi completamente sbottonata, in modo da lasciar intravvedere gli addominali scolpiti, dei jeans neri, tenuti su da un paio di bretelle; questa volta non indossava il borsalino, ma portava i capelli spettinati, gli coprivano a malapena gli occhi. Aveva una camminata incredibile, così sicura, autoritaria, così attraente, sembrava che nella stanza non ci fosse nessuno, nessuno apparte lui. Aveva un’espressione cupa e pensierosa.

-Quant’è sexy. Devo confessarti che provo una leggera invidia nei tuoi confronti. – Marianne si fece vento con la mano.

Quando ci notò, si diresse subito verso di noi, senza cambiare di una virgola umore.

Mi sentii improvvisamente spiazzata. Che avrei dovuto dirgli? Avrei dovuto confessargli quello che provavo, che non sopportavo più il suo atteggiamento da “maschio indipendente”? Sì, dovevo dirglielo, doveva sapere tutto.

Ma Evan, come sempre, non fece altro che sorprendermi: prima che potessi aprire bocca, mi mise un braccio attorno alla vita e mi baciò.

-Ciao. – mi disse guardandomi con quell’aria da “bellone tormentato”.

-Ciao. – e lo baciai di nuovo, questa volta fu più intenso.

Marianne sfoggiò tutta la sua finezza in una serie di conati di vomito.

-Vieni con me, andiamo in un posto più tranquillo. –fece segno agli altri di seguirlo sul retro del palazzo.

Mentre camminavamo fui fermata da Christian, il ragazzo del giorno prima. Mi prese per un braccio e mi guardò esattamente come mi aveva guardata la prima volta, con un’espressione preoccupata (cosa abbastanza strana considerato il fatto che non ci eravamo mai neanche parlati).

Volevo sentire quello che aveva da dirmi? Che lo volessi o no, decisi di fermarmi con lui.

-Voi andate avanti, vi raggiungo. –dissi a Marianne.

-Sai dove trovarci. –mi rispose lei senza dilungarsi troppo, anche se era evidente che voleva sapere cosa stesse succedendo.

Christian si appoggiò  ad una colonna, con le braccia conserte.

-Che fai qui? –mi chiese spazientito.

-Scusa?

-Non prenderla a male, so di te ed Evan, solo che credo che questo non sia il posto per una come te.

-Perdonami, ma non credo che siano affari tuoi.

Feci per andarmene ma mi sfiorò il braccio, probabilmente avrebbe voluto afferrarmelo di nuovo per bloccarmi, e parve implorarmi di restare lì e di ascoltarlo. Da lontano non ero riuscita a notare quanto fossero profondi i suoi occhi, erano di un meraviglioso blu tendente al grigio.

-Perché ti importa così tanto di me? Non mi conosci neanche.

-Non lo so, okay? So solo che sei diversa e so che Evan non farà altro che rovinarti.

-Questa è la dimostrazione del fatto che non sai niente di me.

-Oh, andiamo! Ti ho vista ieri, eri completamente spaesata e terrorizzata. So come è fatto Evan, affascinante, autoritario, oserei dire un gran pallone gonfiato, ma dietro quella corazza impenetrabile non c’è un marshmallow e, se fossi in te, mi allontanerei il più possibile da lui e dai suoi amici.

-E tu, che cosa ci fai qui?

-Io non sono come te, è per questo che sono riuscito ad inquadrarti.

-Beh, mi dispiace, ma ora devo proprio andare. Cerca un altro modo per  rimorchiare, perché il “sei diversa” e il “il tuo ragazzo è un imbecille” sono piuttosto vecchi.

Me ne andai di corsa, cercando di travolgere nessuno mentre raggiungevo gli altri.

Forse cominciavo a capire perché Evan non voleva che conoscessi il suo gruppo: Christian non era il primo ad essersi mostrato scettico riguardo alla nostra storia, anche Marianne mi era parsa sorpresa. Ma non potevo farci niente, più venivo a conoscenza della cattiva reputazione di Evan e più ne ero attratta.

Giunsi in una stanza piuttosto piccola, adibita a salottino, in cui erano stati posti due divani e un tavolino da caffè al centro, l’ambiente era illuminato da un imponente lampadario. Certo che, per quanto alcuni spazi di quel palazzo fossero inabitabili, altri erano degni di un hotel.

I ragazzi si erano tutti sistemati sui divani, chi sbracato a pancia all’aria, chi seduto educatamente, intorno al tavolino, che era stato riempito di pacchetti di sigarette, alcolici e accendini.

Marianne sbattè un paio di volte la mano sul divano, invitandomi a sedermi accanto a lei, ma non potevo, Evan era proprio di fronte a me, appoggiato al muro, con una sigaretta in bocca (eh sì, Marianne aveva ragione, era davvero sexy).

-Sono felice che tu sia venuta.

-Anche io, devo parlarti. Tu…

-Non rovinare il momento. – mi interruppe, facendomi andare fuori di testa. –E’ una festa. Le feste non sono fatte per parlare, ma per divertirsi.

-E’ questo il punto, Evan, non si può parlare con te! –gli piantai l’indice sul torace, con fare accusatorio. –Pensi sempre e solo a divertirti, a vivere, a cogliere l’attimo fuggente!

Lui mi prese la mano e se la portò al petto.

Mi guardò sogghignando e alzò le sopracciglia.

-Forse è questo che ti piace così tanto di me.

Quel ghigno, quel ghigno aveva il potere di far scorrere il sangue nelle mie vene con il triplo della velocità.

Non riuscii a resistere, lo baciai, come se non ci fosse un domani.

Ormai l’attrazione che provavo per lui era talmente forte che era diventata vitale per me. Qualunque cosa facesse, non riuscivo a rimanere offesa o arrabbiata con lui.

                                                                        

 You're my bad boy fairytale 
 Since jamming with the dark side 
 I wanna be your bad girl 
 You bring out my wild side 
Your eyes your lips your touch 
His talk, sadistic rush, your sexy kinda swag 
The best i've ever had 

 



Le sue mani si spostavano con agilità sul mio corpo minuto e le sue labbra incontravano ripetutamente le mie, rubandomi ogni singolo respiro.

Partì un colpo di tosse, e tornammo alla realtà.

-Ehi, prendetevi una camera, ragazzi! –disse Bryce, e subito dopo si rivolse ad una figura che aveva appena messo piede nella stanza. –Amico, finalmente, ti stavamo aspettando.

Mi girai e vidi che alle mie spalle c’era Christian, impalato, che ci guardava con disgusto.

-Unisciti a noi, Tunner! – gli disse Evan dandogli una solida pacca sulla schiena, poi di rivolse a me.

-Questo musone è Christian Tunner, non è così male come sembra.

-Sì, ci siamo già visti…

Se fossi stata fortunata, nessuno avrebbe visto le mie guance andare a fuoco.

Passai il resto della serata a pomiciare con Evan, sotto gli occhi di tutti, cosa che non era assolutamente nel mio stile, ma erano tutti talmente fatti che non mi feci molti scrupoli.

Eravamo abbracciati, ubriachi fradici e non riuscivamo a smettere di ridere; ballavamo sulle note di una musica inesistente, appiccicati come cozze, avvolti da nuvole di fumo.

Verso le due Bryce ci raggiunse, portando con sè quello che mi avrebbe fatto passare una delle peggiori notti della mia vita, se non la peggiore.

-Evan, ho trovato quello che mi avevi chiesto. –aveva un sorrisetto soddisfatto stampato in faccia.

-Grandioso, dai qua! – Evan gli strappò di mano un minuscolo sacchetto trasparente che conteneva una decina di pillole, ne prese una e la mandò giù con un sorso di Burbon.

-Io ci andrei piano se fossi in te, è roba forte.

Posata la bottiglia, si appoggiò barcollante sulla spalla dell’amico e gli baciò una guancia.

-Ti voglio bene, piccoletto.

In seguito mi prese i fianchi, spingendomi delicatamente contro il muro, a cui appoggiò una mano. Ero racchiusa tra il suo corpo possente e la parete.

-Ora tocca a te. – mi disse a bassa voce.

-Preferirei di no… - sì, avevo paura. L’alcool e il fumo erano una cosa, ma sapevo come andava a finire quando si cominciava con le droghe, o almeno ne avevo sentito parlare.

La distanza fra lui e me si ridusse ad un paio di centimetri. I suoi occhi verdi scrutavano i miei.

-Andrà tutto bene, ci sono io con te.

Era proprio quello che mi preoccupava, ma riusciva ad essere talmente persuasivo che, come al solito, finii per fare quello che mi chiedeva.

Lanciai un’occhiata a Christian, sdraiato sul divano, che rispose abbassando lo sguardo in segno di sconfitta.

Evan si posò un’altra pasticca sulla lingua e avvicinò le labbra alle mie, ce la scambiammo con un bacio. Ora che ci ripenso, sembrava una scena tratta da “I ragazzi dello zoo di Berlino”.

-Ti amo. – mi sussurrò.

 
 

Nobody does it like you 
You got me feeling so caught up

 but im loving all the crazy things you make me do 

 



Diventò tutto più intenso, non so come spiegarlo meglio, ma i colori diventarono più vivi e i suoni più forti.

Andò tutto alla grande, fino a quando non mi sentii girare la testa. Mi accasciai a terra e mi guardai intorno, ero sola. Solo Christian venne a soccorrermi, mi reggeva la testa, tenendola stretta al suo petto e mi ripeteva di resistere, ma la sua voce si affievoliva sempre di più, fino a spegnersi del tutto.

 
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Non ricordo cosa successe dopo. Tutto quello che mi viene in mente è che, quando riaprii gli occhi, mi trovavo nel mio letto.

Mi sentivo affaticata e avevo un gran mal di testa. Il vecchissimo coniglio di pezza appoggiato sulla poltrona sembrava che ballasse la samba e, più lo guardavo, più mi veniva la nausea. Mi voltai verso l’orologio, ma invece che uno, ne vidi due e dovetti strizzare gli occhi per far scomparire quello fasullo. La sveglia segnava le quattro meno dieci.

Fissai il soffitto per una decina di minuti, cercando di riaddormentarmi.

Ad un tratto sentii il campanello. Chi poteva essere alle quattro del mattino?

Qualcuno si diresse a grandi passi verso l’ingresso, la serratura scattò e la porta si aprii producendo un leggero cigolio.

-Dov’è? Sta bene?

Le mie orecchie rimbombavano, ma riuscii comunque a capire che si trattava di un uomo.

-Vattene, Green.  E’ colpa tua se si trova in questo stato.

Brian sembrava furioso.

-Ho bisogno di vederla. Ti prego Brian, fammi entrare.

-Esci da casa mia!

Udii un tonfo, poi più nulla. La porta si richiuse violentemente e i passi di Brian si facevano più forti man mano che saliva le scale.

Si avvicinò lentamente al mio letto, cercando di non fare troppo rumore, e si sedette accanto a me.

Sentivo la sua voce soffusa mentre mi accarezzava delicatamente i capelli, sembrava che stessi assistendo a quella scena da un’altra postazione, come se quel corpo non fosse più il mio e io fossi solo una spettatrice.

-Cos’hai combinato, Desy?

Dopo di che, sprofondai nel sonno.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Aprii gli occhi con lentezza, cercando di abituarmi alla luce del sole che filtrava attraverso le tende leggere.
Il mal di testa non si era azzardato a migliorare e dovetti fare uno sforzo decisamente doloroso per mettermi a sedere. Almeno la nausea era scomparsa.
Mi stropicciai gli occhi e cercai di mettere a fuoco la mia camera e il mondo circostante.
Era quasi mezzo giorno, i miei sarebbero tornati da un momento all’altro e, per di più, era lunedì e sarei dovuta andare a scuola. Ormai però era troppo tardi per presentarmi in classe, e mi sentivo comunque troppo debole, quindi mi rassegnai all’idea che avrei perso un altro giorno di lezioni… uno in più, uno in meno, che differenza avrebbe fatto?
Mi alzai barcollante e mi avvolsi nella mia morbidissima vestaglia di cotone, se c’era qualcosa che riusciva a sempre a farmi stare meglio erano quel pezzo di stoffa, la caffeina e una maratona di Modern Family.
Scostai la tenda e diedi uno sguardo alla casa di Evan. Non mi ricordavo quasi nulla della notte precedente, solo che stavo ballando con lui e un attimo dopo ero a casa. Chissà se stava bene, se era successo qualcosa anche a lui, avrei voluto vederlo.
Sentii un rumore di piatti e dei passi provenire dal piano di sotto, mi decisi a scendere.
Quando misi piede in cucina, il familiare odore amaro del caffè mi invase e mi sentii subito rinvigorita.

-Te ne ho messa da parte una tazza, pensavo che ne avessi bisogno. – mi disse Brian dolcemente, indicando con un cenno del mento la caffettiera. Aveva i capelli arruffati e il viso stanco, come se non dormisse da giorni, due profondi cerchi scuri gli contornavano gli occhi ed era completamente assorto nei suoi pensieri.

-Pensavi bene! – presi una tazza e la riempii di caffè, mi misi a sorseggiarlo appoggiata al bancone.

-Ho sentito papà, lui e mamma non ce la fanno a tornare per oggi, prenderanno il primo volo di domani mattina.

-Ancora meglio!

Guardando mio fratello con più attenzione, mi accorsi che aveva la mano destra fasciata, la teneva nascosta sotto il tavolo.

-Che è successo alla tua mano?

Lui si scostò una ciocca scura dagli occhi e aggrottò le sopracciglia, confuso, poi mi mostrò la mano e con una scrollata di spalle rispose:- Sono solo caduto, niente di grave.

-Sicuro? Sembri distrutto. Se è successo qualcosa, sai che puoi dirmelo…

-Destiny – mi interruppe bruscamente – va tutto bene. Piuttosto, come stai tu?

-Io? Sono solo stanca.

-Solo stanca… - dalla sua gola uscì una risata amara – Hai ingoiato una chilata di pillole, è già un miracolo che tu sia qui in questo momento.

Sembrava che si sentisse colpevole e … amareggiato.

Mi avvicinai a lui e gli accarezzai i capelli, lui scosse il capo con disapprovazione.

-Non avrei dovuto lasciarti uscire, sapendo dove saresti andata, con chi saresti stata.

Sapevo che quella conversazione non avrebbe portato a niente di buono, perciò tagliai corto.

-Non fartene una colpa, è stato un mio sbaglio, tu non c’entri niente.

 
E prima che potesse replicare aggiunsi:- Vado a cambiarmi, scendo fra un po’.
 
 
Sì, stavo scappando da una possibile discussione con mio fratello, che non pensava ad altro che al mio bene. Solo che a volte quel problematico ragazzino di sedici anni si comportava in modo molto più responsabile di quanto non stessi riuscendo a fare io, e non potevo accettarlo, non quando fino a qualche mese prima io ero l’unica adulta in quella casa.

Mi infilai in fretta una felpa nera, il giubbotto di pelle e la mia adorata gonna di denim a balze. Non persi tempo a truccarmi, non so il motivo, ma non me la sentivo di guardarmi allo specchio ed esaminare ogni singolo cambiamento che avevo affrontato nell’ultimo periodo.

Quando tornai di sotto, Brian era ancora seduto al tavolo della cucina.
Gli diedi un bacio frettoloso sulla guancia, fingendomi allegra.

-Ci vediamo dopo!

Lui assunse un’espressione allarmata e mi trattenne, afferrandomi una spalla.

-Aspetta. Dove stai andando?

-A scuola, ho una cosa da fare.

-Certo, a quest’ora? Dimmi la verità, Desy, dove stai andando?- ora mi parve davvero, non preoccupato, più che altro… spaventato. –Vai da lui? Perché se è così, scordati di mettere anche solo un piede fuori da quella porta.

-Ora datti una calmata, Brian! E lasciami! Sto davvero andando a scuola, devo parlare con una persona.

Brian parve sgonfiarsi.

-Scusa, non volevo aggredirti. E’ che, dopo ieri sera, sento di doverti proteggere molto meglio di quanto non abbia già provato a fare.

-Non preoccuparti, va bene. A proposito, tu perché non sei a scuola?

-Avevo qualcosa di più importante di cui occuparmi.

-Questa scusa non regge più.

-Ma questa volta è vero. – mi sorrise dolcemente, dolcezza mista ad un leggero nervosismo.

-A proposito, non dire niente a mamma e papà di tutto questo, darebbero i numeri.

 
Brian esitò per un attimo, come se pensasse che non fosse la cosa migliore da fare:- Come vuoi.

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Ero seduta sul corrimano della scala principale della scuola e pensavo e ripensavo a cosa le avrei detto, quando Bridgit varcò la porta al suono della campanella.

Si fermò di colpo e incrociò le braccia, cercando di mascherare la sorpresa che, nonostante tutto, le si leggeva perfettamente sul volto.

-Ormai ci si fa l’abitudine a non vederti più in giro. Devi divertirti proprio a fare la trasgressiva.

-So che sei furiosa, e hai perfettamente ragione ad esserlo. Volevo solo…

-Lascia perdere, Destiny, non sono dell’umore per stare a sentire le tue stronzate. Nessuno di noi lo è.

Fece per andarsene.

-Non vuoi nemmeno sentire che ti ho portato un buono da duecento dollari per quell’adorabile boutique in centro?

Si fermò di colpo e arretrò, com’ero certa che avrebbe fatto. Niente e nessuno poteva far arrabbiare Bridgit così tanto da farla rinunciare ad una giornata di shopping.

-Quella all’angolo con quelle deliziose tende gialle all’ingresso?

Annuii. – Me l’hanno lasciato sotto la porta un paio di giorni fa, ma ormai quella roba non fa più per me, non saprei che farmene.

-Ah già, dimenticavo che ora sei tutta pelle, borchie e piercing…

-Eviterei i piercing, non mi sono spinta così in là, ho sempre il terrore degli aghi.

D’un tratto il suo sguardo si addolcì e rividi la Bridgit che mi aveva sempre sostenuto, sebbene controvoglia.

Fece un passo avanti e mi buttò le braccia al collo, stringendomi in un abbraccio affettuoso. Mi era mancata così tanto.

-Mi dispiace. Sei una completa idiota, ma non avrei dovuto voltarti le spalle.

-Sono io quella che deve scusarsi, tu hai fatto quello che avrebbero fatto tutti.

-Se sei felice io dovrei essere felice per te, non è questo che fa un migliore amica?

-Credevo che fossimo d’accordo sul fatto che tu non sei come le altre.

Scoppiammo a ridere e per un attimo sembrò ancora il primo giorno di scuola, quando tutto era ancora normale.

-Perciò… come va col tuo bel fuorilegge? Ti diverti? Ah e che volevi dirmi ieri sera quando mi hai telefonato?

Mi sedetti con un sospiro sugli scalini e le raccontai per filo e per segno tutto quello che si era persa: il ‘ti amo’ di Evan; le feci vedere la collana che mi aveva regalato e lei sgranò gli occhi, gesto che mi parve assolutamente forzato, ma lasciai correre; le dissi della fabbrica, di Marianne, Bryce e gli altri, persino di Christian; delle divergenze con Evan; infine le raccontai della festa della sera prima, tralasciando il piccolo incidente con la droga, non volevo farla incavolare più di tanto.

-La piccola Desy che si fa un vita, e per giunta avventurosa! Non me lo sarei mai aspettato.

-A chi lo dici…

-Quel Christian sembra un gran bel tipo. Che dici, hai intenzione di presentarmelo?

-Bridgit! – la rimproverai con un sorriso. –A proposito di bei tipi, che mi dici di Daniel? Devo scusarmi con lui per la …. tremilacentottantaduesima volta?

-Non hai saputo? - lei fece tanto d’occhi.

-Di che parli?

-Lui e Jordan hanno rotto.

-Cosa?

-Già. Pare che lui fosse tanto preoccupato per te che non la considerava più, sai com’è Dan quando ha qualcosa per la testa, lei si è stancata e l’ha piantato. Bastarda, voglio vedere dove troverà un altro come lui.

-Aspetta, tu non lo reggevi o sbaglio?

-Infatti.

-Chi ti capisce è bravo, Bri. Ad ogni modo, dov’è ora?

-Prova al campo di atletica, ultimamente passa ore a correre, dice che lo aiuta a schiarirsi le idee.

Non sapevo se fossi più scioccata per il fatto che Bridgit e Daniel avessero legato o perché lui aveva rotto con l’unica persona che l’avesse davvero fatto apparire felice per colpa mia. Fatto sta che mi misi a correre verso il campo (e io e la corsa non siamo mai, e dico MAI, andate d’accordo).

Sentivo in lontananza la voce acuta di Bridgit che mi gridava:- E tanto per la cronaca, che cavolo di capelli hai?!

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Quando raggiunsi le gradinate che circondavano la pista avevo il fiatone e pensavo che, da un momento all’altro, sarei stramazzata al suolo. Mi appoggiai ad una balaustra e presi un profondo respiro.
Avevo lasciato gli occhiali a casa, perciò tutto quello che vedevo da lontano erano tanti puntini neri che giravano in tondo attorno ad un enorme rettangolo verde.

Ad un tratto mi saltò agli occhi un puntino più chiaro, una testa bionda, e sperai con tutte le mie forse che fosse la testa di Daniel.

Mi precipitai giù dalle scale, ma venni bloccata da una schiera di ragazze in gonnella gialla, coda tirata in cima alla testa e sguardo assassino.
Da quando avevo cominciato ad uscire con Evan non mi ero più presentata agli allenamenti delle cheerleaders.
Riuscii a scorgere Jordan in fondo al gruppo, aveva la testa bassa e una vaga espressione di rancore sul volto, quando Diana mi si piantò davanti.

-Guarda un po’, chi non muore si rivede.- disse con un ghigno.

-Evita le frasi fatte, Diana. Che ci fai qui?

-Potrei farti la stessa domanda, dato che non fai più parte della squadra da un pezzo. Ad ogni modo, Chelsea mi ha chiesto di partecipare.

-Chi? – quel nome non mi diceva assolutamente nulla.

-E così, tu devi essere la famosissima Destiny Peterson.

Una voce vellutata e affascinante mi costrinse a girarmi. Mi ritrovai di fronte una ragazza alta, snella, dai lunghi capelli neri e dai lineamenti orientali, doveva essere coreana, o al limite cinese.

-E tu saresti…?

La ragazza ridacchiò. –Chelsea Lee, nuovo capitano delle cheerleaders.

-Tu hai…

-Preso il tuo posto? Esattamente. Dal momento che non ti presentavi più, le altre hanno deciso di eleggere un nuovo capitano.

-E fortunatamente la nostra Chelsea ha accettato di sostituirti. – intervenne Diana.

-Oh… capisco. – non avevo idea di cosa avrei potuto dire a quel punto.

-E di’ a Bridgit che siamo stanche dei suoi ritardi.

Jordan di fece avanti, la sua pelle scura risplendeva come ambra alla luce del sole e aveva gli occhi pieni di rabbia.

-Jordan…

-No. – tagliò corto e liquidò le mie scuse con un gesto brusco della mano. – Non ti voglio ascoltare, mai più. Torna a fare la civetta in giro e lasciami in pace.

Detto questo, se ne andò. Le altre ragazze mi stavano guardando come se fossi una macchia spuntata chissà come su un bel vestito firmato.

Abassai lo sguardo e mi allontanai, sentendo che i loro occhi famelici mi seguivano, ma cercai di fare finta di niente.

Non mi resi conto di stare proprio nel mezzo della pista da atletica finchè una decina di ragazzi che correvano in fila indiana per poco non mi travolsero, gridandomi di togliermi di mezzo.
Mi scostai in fretta e mi sdraiai sull’erba morbida del campo da calcio, lo sguardo al cielo.

Avevo perso anche le cheerleaders. Tutto quello che avevo costruito fino ad allora stava andando in pezzi. Era come il domino: quando una piastrina cade, non c’è più modo di impedire anche alle altre di franare.

Improvvisamente il sole fu oscurato da un’ombra.

Mi alzai di scatto e diedi una testata piuttosto pesante alla persona che era china sopra di me.

-Ahi! Cacchio, Destiny, sapevo che avevi la testa dura, ma non pensavo così tanto!

-Dan? – chiesi proteggendomi gli occhi dal sole.

-No, sono un bandito che, casualmente, si è messo ad osservarti a distanza molto ravvicinata. Ma tranquilla, se continui ad andare in giro tirando testate alla gente non ti si avvicinerà più nessuno. – rispose lui sarcastico mentre si accasciava sul prato accanto a me.

-Mi hai spaventata…

-Beh, scusa. – mi accarezzò la spalla.

Il sole si rifletteva sui suoi capelli biondi proiettandovi attorno una sorta di aureola dorata.

-Che ci fai qui?

-Se devo essere sincera… - non riuscivo a guardarlo in faccia. Sapevo che era arrabbiato e non potevo biasimarlo per questo, ma era più facile affrontarlo senza vedere direttamente il disappunto nei suoi occhi.

- Io sono sempre stato sincero con te e tu mi hai scaricato, il minimo che puoi fare è spiegarmi  perché, di punto in bianco, ti presenti qui.

-Ho saputo di te e Jordan.

-E pensi che sia colpa tua.

-Non lo è?

-Non tutto ha a che fare con te, Desy. Anche se devo ammettere che ultimamente molti dei miei problemi li hai causati tu. – non era mai stato tanto freddo e diretto. Provai una fitta di senso di colpa allo stomaco.

-Daniel, non avrei mai voluto ferirti. Non pensavo che te la saresti presa così tanto…

Si sporse verso di me e mi si parò davanti, aveva come un fuoco negli occhi e sembrava disperato.

-Come avrei potuto non prendermela? Sei una delle cose a cui tengo di più al mondo e non dovrei reagire mentre ti vedo amoreggiare con uno sconosciuto, e per giunta uno con la sua fama?

-Non capisci.

-Allora spiegamelo! Spiegami perché ad un tratto hai preso a comportarti in questo modo! Perché ad un tratto mi sembra di non conoscerti più bene come pensavo?

Aveva definitivamente perso la pazienza. A quel punto non avrei potuto trovare nessuna scusa plausibile, aveva ragione, ma non mi avrebbe comunque fatto cambiare idea.

-Non lo so, va bene?! Fino a un paio di mesi  fa tutto era normale, poi incontro questo misterioso ragazzo e … non so più niente, Daniel. E’ successo e basta.

-Perché voi ragazze siete sempre attratte dal mistero, dalla favola irrealizzabile? Non vi basta mai quello che avete? Le favole non esistono, sono solo una fregatura.

Non sapevo che dire. Aspettai in silenzio che continuasse, sapevo che da un momento all’altro ne avrebbe avuto abbastanza anche lui, ma speravo comunque che aggiungesse qualcosa.

Finalmente si decise a parlare.

-Non mi importa. – aveva bisbigliato e, per un momento, pensai di aver capito male.

-Come?

-Non mi importa che tu stia con lui. Anzi, in realtà mi importa, e anche troppo, ma non posso mandare tutto a monte. Non potrei sopportare di perderti per gelosia. Sento di doverti proteggere, ma non me lo permetti. La scelta è tua e devo rispettarla. – lo conoscevo troppo bene per non accorgermi che stava cercando di convincere più che altro sé stesso.

Gli appoggiai una mano sulla spalla in segno di conforto.

-Dan, tu, Bridgit e Brian siete tutto quello che ho e sto facendo di tutto per non perdervi, ma ho bisogno di Evan e ho bisogno che tu lo capisca. Non mi perderai, ma devi fare uno sforzo e accettare questa mia decisione.

-Quel tipo è uno stronzo.  – borbottò fra sé e sé.

 
- A piccoli passi. – risposi ridacchiando.

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Finito di parlare con Daniel, decisi di tornare a casa. Malgrado avessi dormito come un sasso, avevo ancora un gran sonno.

Vidi la signora McGraw  che potava le rose, aveva la testa coperta da un largo cappello di paglia e  indossava un grembiulino a fiori sotto ad un giaccone verde da giardiniere.

-Buon giorno. – mi avvicinai. – Per caso Evan è in casa?

Lei si irrigidì all’istante, quasi l’avessi insultata. Alzò lo sguardo e mi guardò storto, attraverso gli occhialoni dalla montatura dorata.

-Mio nipote è venuto qui per tenersi lontano dai guai, signorina Peterson. – disse in tono di rimprovero.

-Certo, ma non vedo come questo possa riguardarmi.

-Ah, non ti riguarda? Perché a me risulta che quello che gli è successo stanotte abbia a che fare con te, ragazzina.

Stanotte? Di che cavolo stava parlando?

-E’ in casa, sì o no?

-Guarda tu stessa. – mi esortò ad entrare con un cenno della mano.

Avanzai incerta e salii i gradini. La porta della stanza di Evan era chiusa, quindi bussai.

-Zia, non voglio il brodo di pollo, per la quarantaduesima volta, sto bene!

Aprii di poco la porta e sporsi la testa al di là di questa.

Lui era appoggiato al davanzale della finestra e guardava fuori. Era a torso nudo e potevo vedere che aveva molti più tatuaggi di quello che avevo pensato, erano all’incirca una quindicina.

-Niente brodo di pollo, spero sia una bella notizia.

Si girò di scatto e sgranò gli occhi.

-Tu… tu non dovresti essere qui.

Prima mi porgeva l’altro lato del viso, ma quando si girò mi accorsi che aveva un livido piuttosto brutto poco al di sotto dello zigomo.
Mi diressi a grandi passi verso di lui e gli sfiorai il volto, facendolo trasalire.

-Mio Dio, che hai fatto?

-Non preoccuparti, non è nulla. – rispose lui scostando il viso.

-Sei impazzito? Non è nulla? Chi… - d’un tratto mi parve di sprofondare in una voragine. Mi venne in mente la mano fasciata di Brian, la sua espressione colpevole quando gli avevo chiesto cosa gli era capitato, la litigata furiosa che avevo sentito la sera prima al piano di sotto…
Ma, Brian?

Senza rendermene conto, mi ritrovai a correre a tutta velocità giù per le scale, poi da un capo all’altro della strada.

Sbattei la porta furiosamente. Brian era sbracato sul divano, stava guardando una replica del Saturday Night Live, mi affrettai a spegnere il televisore.

-Ehi, ma che fai? – protestò.

-Che cavolo hai combinato?! Ti ha forse dato di volta il cervello? Non posso credere che proprio tu abbia fatto una cosa del genere! – avrei voluto prenderlo a pizze. E lui era lì, che mi guardava come se non avesse idea di cosa stesse succedendo.

-Desy, frena! Di che parli? Io…

-Dimmi cosa è successo alla tua mano. Dimmelo, Brian!

Lui parve colto alla sprovvista, ma alla fine si arrese e cominciò a raccontarmi per filo e per segno quello che era successo quella notte.

Sentii le gambe cedere, mi girava la testa e dovetti sedermi per evitare di cadere.

-L’hai preso a pugni. Ma sei matto?

-Che avrei dovuto fare secondo te? Eri ridotta a un vegetale e quel coglione non si è neanche degnato di prestarti soccorso! Ti ho vista lì, sulla porta, svenuta e indifesa e mi è venuto un colpo. Ho temuto che… per un attimo ho pensato che… - si prese la testa fra le mani e si morse il labbro, sembrava sul punto mettersi a urlare.

-Aspetta… che vuoi dire con ‘non ti ha prestato soccorso’? Come sono arrivata a casa?

-Ti ha accompagnata quel tipo con gli occhi chiari… ora non ho presente il suo nome. Dai, quello alto coi capelli arruffati.

-Christian. – il suo nome usci dalla mia bocca sotto forma di un sussurro.

-Sì, lui. Quando poi Evan è venuto qui, con quella finta aria da cane bastonato, pregandomi di lasciarlo entrare, non ci ho visto più, Desy. Non volevo che si avvicinasse di nuovo a te, non voglio che lo faccia mai più.

Non capivo più nulla. Non era stato Evan a soccorrermi, era stato Christian. In un attimo rividi tutta la scena: io che mi accasciavo a terra in preda a un mal di testa insopportabile, Evan che mi fissava terrorizzato, senza fare un passo, Christian che mi ripeteva di resistere, che mi abbracciava e mi prometteva che non se ne sarebbe andato, poi di colpo eravamo solo io e lui in quella stanza, la serata non si era conclusa, sembrava solo che la gente che fino ad allora era stata in quella stanza si fosse stancata e avesse deciso di spostarsi da un’altra parte; in effetti, non mi ricordavo nessuno che si fosse preoccupato per me apparte Christian… nessuno.

-Destiny, mi stai ascoltando?- mi posò una mano sulla schiena, la allontanai all’istante.

-No, Brian, non posso, non ce la faccio.

Lo lasciai lì, che mi guardava sconvolto e affranto.

Quel giorno non misi piede fuori dalla mia camera. Era come una cella, le cui sbarre si stringevano sempre di più, fino a farmi soffocare.
E’ vero, a volte restare all’oscuro di tutto fa meno male della verità. La verità è crudele, spietata. La verità distrugge e sparge sale lungo il sentiero.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***



 Come ogni lunedì mattina, il corridoio del terzo piano era affollatissimo. Se la loro patologia era simile alla mia, la lentezza spaventosa degli studenti era dovuta all’incapacità di realizzare che, da quel giorno, avrebbero dovuto affrontare un’altra settimana di scuola.

 
-Signorina Peterson, è un piacere riaverla in classe, non mi ricordavo quasi più la sua faccia!

La Blake era davvero un amore quando ci si metteva d’impegno.

-Sorridi e annuisci. Non fare movimenti bruschi, altrimenti la belva sente il bisogno di attaccare. – Bridgit mi sussurrò all’orecchio imitando uno di quei programmi che trasmettono su Discovery Channel in cui c’è qualche malato che passa la sua vita a fotografare gli uccelli e cerca di fare silenzio per non spaventarli.

-Temo che quella belva non si placherà mai, colpa della menopausa.

-La vecchiaia è una vera e propria malattia, spero inventino qualche sottospecie di siero della giovinezza prima che raggiunga i trent’anni, non potrei sopravvivere con tutte quelle rughe, puah.

-PETERSON E SCOTT, PER CASO INTERROMPO LE VOSTRE CHIACCHIERE?!

La belva si era lanciata all’attacco. Aveva quei quattro capelli biondi che si ritrovava ritti in testa e gli occhi spalancati, mi ricordava quei gatti pelati che piacciono tanto alle vecchie zitelle o ai ricconi gay.

-Ci scusi Signorina Blake.

-Allora Peterson, rispondi alla domanda.

-Ehm…


F!!! Quella megera mi mise una F in Lettere! Non avevo mai preso un voto più basso di A+ in quella materia!
Niente da fare, mi odiava e avrei davvero voluto sapere il perché.

E le cose non fecero che andare peggio.
 
Ero davanti al mio armadietto e tentavo di armeggiare con la serratura, quando la porta dello sgabuzzino alla mia sinistra si spalancò e ne uscì Elliot, che si sistemò frettolosamente gli occhiali sul naso, mi scoccò un’occhiata nervosa e corse via tremante. Ora che ci penso, non ero mai riuscita a spiccicare più di una parola con quel ragazzo, pareva che avesse sempre chissà quale entità sovrannaturale alle calcagna.
Ma non fu questa la cosa strana. Qualche secondo dopo la porta si aprì di nuovo e, questa volta, ne uscì Lydia! Avete capito bene?!? Lydia! Lydia la secchiona, rossa come un pomodoro e con un sorriso da ebete stampato in faccia.
Mi trattenni dal vomitare lì, in mezzo al corridoio, ma devo ammettere che quei due erano perfettamente complementari.
Ma che cacchio dico? Erano disgustosi! Puah! Bleah! Ew!
 
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-Hai saputo di Elliot e Lydia?

Ero in auto con Bri, che si era offerta di darmi un passaggio a casa.

-Scherzi? Vuoi che non lo sappia?

-Già, è difficile che ti sfugga qualcosa.

In effetti, Bridgit era la regina indiscussa del gossip.

-Questo nasino alla francese è un vero e proprio rileva-notizie, non c’è niente, e dico NIENTE, che possa sfuggire al mio fiuto.

Sbuffai alzando gli occhi al cielo.

-Vuoi fermarti a studiare?

-Nah, non sono proprio in vena di studiare oggi. Pensavo di fare un giretto per negozi.

-Come se non ci fossi già andata ieri. Ad ogni modo, te lo chiedevo perché più tardi passerà anche Daniel e…

-Adesso che me lo fai notare, ci sono già andata ieri, posso fare a meno di qualche completino nuovo per un giorno. Viva la cultura!

 
D’accordo, la situazione stava decisamente degenerando.

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-Donzelle.

-Wow, Brian, che cambiamento radicale!

-Tranquilla Bri, è in debito con me, è tutto normale.

-Felice che tu sia tornata a frequentare gente decente, sorella.

Gli sferrai un leggero pugno sulla spalla.

-Chiudi quella bocca o te ne faccio pentire, fratello.

Lui mi diede un bacio sulla guancia e si gettò sul divano.

-Non devi studiare?

-Pfffft.

Tipico…


 
 
-Che tipo di debito ha contratto il tuo fratellino, Desy?

-Lascia perdere, niente di cui vantarsi in giro.

-Che cavolo vuol dire “baldanza”?

-Daniel, sei il solito ignorante.

-Che posso farci se non sono nato nel diciottesimo secolo?

-Beh…

-Piantatela voi due! Sto cercando di leggere!

-Destiny, certo che la Blake ha ragione, sei di un’arroganza insopportabile!

-Ti ha detto davvero così?! Possibile che quelle poche volte che sono assente mi perdo tutto il divertimento?

Bridgit colse l’occasione per raccontargli per filo e per segno tutto quello che era successo quella mattina a scuola.

-Destiny Peterson ha preso F? HAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHA!

-Zitto Dan, non è divertente. – lo rimproverai corrucciata.

-Dai, scricciolo, sì che lo è.

Sebbene non riuscissi a digerire l’accaduto, mi scappò un risolino.

-EEEEEEFFEEEEEEEE perché LA NOSTRA RAGAZZA HA PRESO UNA EEEEEEEEFFEEEEEEEEE!

Certo che, quando quei due andavano d’accordo, era ancora peggio di quando litigavano.

-Sssssshhhh! Mi squilla il telefono!

Silenzio.

-Pronto?

-Che programmi hai per stasera?

Mi alzai dal letto e mi allontanai abbastanza da non far ascoltare la conversazione a Bridgit e Daniel.

-Evan.

Nelle settimane successive alla festa non ne avevo fatto parola con nessuno, nemmeno col diretto interessato. Avevo deciso di tenere per me quello che Brian mi aveva confidato riguardo a Christian.
Preferivo far finta che non fosse mai accaduto nulla, che fosse stato solo un brutto sogno.

-E chi se no? La voce suadente non ti dice nulla?

Risi.

-Sputa il rospo, Green, che vuoi?

-Io, te, festa da paura, posto da paura, gente non così da paura, Bryce, Mare e compagnia. Che ne dici?

Festa?

I batti del mio cuore ormai non erano più distinguibili l’uno dall’altro.

-Ci sto.

-Scendi per le nove, e porta chi vuoi!

-A dopo allora.

-Ti amo.

-Sì…

Mi ridiressi a grandi passi in camera mia.
I miei amici si girarono di scatto verso di me.

 
-Vi va di andare ad una festa?
 
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-Non avevo capito che ci saremmo andati con il tuo ragazzo.

Bridgit era sfavillante in un sexissimo abitino argentato e tacchi altissimi. Io avevo scelto di indossare un semplice paio di skinny jeans scoloriti, la mia amatissima t-shirt dei Rolling Stones e un paio di tacchi.

-Se non ci tieni a venire, fa niente.

-Eh no, cara. Mi sono agghindata e ora esco.

Daniel bussò alla porta della mia camera e quando finalmente gli demmo il permesso di entrare, lo fece fischiando.

-Wooow! Siete uno schianto! Sì, persino tu, Raperonzolo.

Le guance di Bridgit si colorarono di un rosa appena percettibile e lei abbassò subito lo sguardo, nascondendo un sorriso.

-Beh, anche tu non scherzi!

Indossava una semplicissima camicia bianca e dei jeans, ma era proprio quella semplicità a renderlo bellissimo.

-Il mio migliore amico è un modello! – dissi scoccandogli un bacio sulla guancia.

-Grazie mamma… - rispose lui imbarazzato.

-Vogliamo muoverci? Di sicuro Evan non è il tipo che perde tempo ad aspettare noi.

Bridgit ci spinse letteralmente fuori dalla porta, mentre Daniel si lasciò scappare un lieve grugnito svogliato, il tipo di verso che chiunque fa la mattina quando la luce del giorno entra dalle finestre e ti acceca.

 
Evan era già appostato sotto casa mia, a bordo della sua mustang.
Non portava il borsalino neanche quella sera, forse era un’esclusiva del giorno… avrei potuto chiederglielo, ma mi parve una stupidaggine.  Indossava i suoi soliti jeans neri, una t-shirt bianca e una giacca di pelle nera, che lo faceva apparire ancora più attraente.

-Salite o no?

Dan e Bri mi lanciarono un’occhiata dubbiosa, a cui risposi salendo in auto, accanto ad Evan ovviamente, che mi salutò con un rapido bacio.

 
-Sei davvero sexy. – disse squadrandomi dalla testa ai piedi. Riuscivo a sentire i finti conati di vomito di quei due infami seduti sui sedili posteriori.

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-TU GUIDI COME UN PAZZO! – gridò Daniel, Evan rispose con un ghigno.

-Dovremmo presentargli Christian, è lagnoso quasi quanto lui.

Christian.

Non avevo sentito quel nome durante le ultime due settimane e non potei fare a meno di ripensare alla sera della festa, alla sua voce, ai suoi occhi, alla sua gentilezza, il suo modo di comportarsi, come se mi conoscesse da una vita…

-Era una battuta, non volevo offendere nessuno. – Evan mi diede un colpetto sul braccio, riportandomi alla realtà. Io abbozzai un sorriso.

-Dovremmo esserci quasi, fatemi fare una telefonata.

-Si può sapere dove ci sta portando? – mi chiese nervosa Bridgit.

-Con lui non si può mai dare niente per certo.

-Bryce! Qual è il palazzo? Perfetto. La scala è quella a destra o quella sul retro? Okay, arriviamo.

Evan attaccò il cellulare e ci invitò tutti a scendere dalla macchina e a seguirlo.

Ci condusse fino ad un vicolo, in fondo al quale c’era una scala che portava ad una specie di seminterrato in cui risuonavano musica rock e urla agghiaccianti, sembrava che ci stessero girando una scena di Spartacus.

-Che razza di posto è questo? – bisbigliò Bridgit.

-Ehi, pesi morti, restate dietro di me.

-Simpatico… - borbottò Daniel.

Mi sentivo terribilmente in colpa. Perché li avevo portati con me? Perché io ero lì?

Sbucammo in un enorme salone, adibito a discoteca, al centro del quale era posizionato un ring, sì, un vero e proprio ring da boxe. Ecco da dove provenivano le grida, sulla piattaforma si stavano scontrando due energumeni stramuscolosi in calzoncini.

-E quello? – chiesi ad Evan indicando il ring.

-E’ l’ultima trovata di Bryce. Fa un certo effetto, non trovi?

-Di certo si nota.

Daniel e Bridgit si stavano guardando attorno, un po’ scandalizzati, un po’ presi dalla musica. Conoscevo quella sensazione, stavano cercando di sentirsi a loro agio.

-Ecco il nostro uomo!

Bryce si avvicinò e abbracciò Evan, in quel modo stranamente virile di abbracciarsi che hanno i maschi.

Evan fece un passo avanti, si portò le mani alla bocca e lanciò un bacio alla folla, che si esibì in applausi e schiamazzi di vario genere.

Il suo solito charme…

-Auguri amico! Vent’uno, sei anziano! – gli disse Bryce assestandogli una pacca sulla spalla.

-Non mi avevi detto che era il tuo compleanno. – feci io.

-Non mi sembrava necessario, non ho mai amato questo giorno.

-Ad ogni modo, auguri tesoro. – lo guardai negli occhi, sorridendo, e gli diedi un bacio, che lui ricambiò con passione.

-Auguri splendore! – Marianne ovviamente. Solo che questa volta, invece di cacciarmi via e avvinghiarsi ad Evan, ci abbracciò entrambi, dopo di che diede un bacio sulla guancia a lui.

-Grazie Mare.

-Diventi ogni anno più bello! – gli disse con occhi sognanti.

-Mare, mi conosci da neanche sei mesi. – rispose lui accarezzandole la spalla con compassione.

-E’ uguale. – concluse Marianne con una scrollata di spalle. –Vieni con me, stellina!

-Veramente, dovrei restare coi miei amici. Sai, non sono di quest’ambiente. – le risposi incerta.

-Oh, se la caveranno alla grande. Se sono quei due, direi che hanno già risolto.

Li indicò con un cenno della mano. In effetti, sembrava si stessero divertendo… un po’ troppo per i miei gusti.

-Destiny, ti lascio cinque minuti, devo salutare un po’ di gente. – mi disse Evan.

-Fai con comodo, la tengo d’occhio io. – lo rassicurò Marianne facendogli l’occhiolino, gesto che faceva pensare che avesse qualche tic nervoso.

Mi prese per mano e ci dirigemmo al banco degli alcolici, dove Mare fece il pieno, mezz’ora dopo non riuscivo a capire come facesse a reggersi ancora in piedi.

Pensavo di essere ubriaca anche io, dato che mi parve di vedere Evan che baciava una ragazza, e poi un’altra, e un’altra ancora…

-Dai, manico di scopa, andiamo a ballare! Solo… reggimi. – mi disse Marianne prima di scoppiare in un attacco di risa.

La trascinai in mezzo alla pista e cercai di abbandonarmi completamente al ritmo ridondante della canzone.

Niente da fare, continuavo a guardarmi attorno in cerca di Christian.

Che dico? Di Evan! Evan.

No, siamo sinceri, cercavo davvero Christian. Nonostante avessi cercato di lasciarmi alle spalle quello che era successo due settimane prima, volevo parlargli, chiedergli spiegazioni.

-Guarda!–Marianne mi prese per le spalle e mi fece voltare verso il ring, sul quale ora non c’erano più i due lottatori, ma Evan e Bryce che si scambiavano battute provocatorie. La musica era più bassa, a mala pena udibile.

-Avresti il coraggio di sfidarmi, tappetto?

-Sei il re degli insulti e ti limiti a “tappetto”? Andiamo Evan, sai fare di meglio.

-Hai ragione, verginella.

Ci fu un boato.

Bryce sogghignò.

-Okay, questa era cattiva, fratello.

-Me l’hai chiesto tu. Che c’è, hai paura?

-Ma che.

Ad un tratto scorsi Marianne, ubriaca fradicia, al centro del ring, che reggeva un enorme cartello con su scritto “THIS IS WAR” e lo agitava cercando grossolanamente di imitare una valletta.

-Si comincia! – gridò.

 
Di colpo Evan e Bryce si scagliarono l’uno contro l’altro, con una furia mai vista. Se non avessi saputo che erano migliori amici, mi sarei davvero preoccupata che uno dei due uccidesse l’altro.

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-Siete pazzi!? Potevate farvi male sul serio!

I due ridevano a crepapelle, sobbalzando ogni tanto per il dolore provocato dai numerosi lividi che si erano provocati a vicenda pochi minuti prima.

-Sei così bella quando ti preoccupi. – mi disse Evan con gli occhi brillanti per l’alcool. –Mai pensato di fare l’infermiera? Oh, saresti davvero sexy con quel camice.

-Piantala, festeggiato. Ringrazia il tuo amico che ti ha conciato così, o me ne sarei occupata io.

-Ti prego Evan, regalami la tua ragazza! – gemette Bryce, che nel frattempo si stava godendo le coccole di Marianne. La scusa di lei era stata “mi fa pena, è troppo stupido per fasciarsi un braccio da solo”, ovviamente non l’avevo bevuta.

Evan tirò un pugno sulla spalla dell’amico, che lanciò un urlo straziante.
Scoppiammo tutti a ridere.

Passammo il resto della notte a scherzare. Ad un certo punto Bridgit e Daniel si unirono a noi.

-Che diavolo è successo qui?- chiese allarmata Bridgit.

-E’ complicato. – le risposi.

-Ehi biondina! Perché non vieni qui a fasciarmi le ferite? – le disse Evan, ancora in preda all’effetto dell’alcool.

-Te le faccio vedere io le ferite, bell’imbusto!

Aveva già sfoderato le unghie perfettamente smaltate, e non avrebbe esitato ad usarle, se Daniel non l’avesse trattenuta.
 
______________________________________________________________________________
 
Non fu una brutta serata, mi sarei aspettata di peggio.

Tornammo a casa alle prime luci dell’alba, questa volta guidai io. Evan le aveva tutte, ubriaco e acciaccato, saremmo di sicuro ruzzolati giù da un dirupo.

 Bri e Dan si addormentarono  come sassi sul sedile posteriore, mentre Evan si era accomodato con la testa appoggiata alla mia spalla.

-Grazie. – mi aveva sussurrato ad un tratto.

-Non preoccuparti.

-Des?

-Dimmi.

-Dimenticati che era il mio compleanno, okay?

Avevo dovuto dimenticare già troppe cose per causa sua, una in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Non mi disturbai neanche a chiedergli il motivo.

-Perché? Era il tuo compleanno?

Lui rispose con una risata soffocata, poi, prima di sprofondare di nuovo nel sonno, mi diede un leggerissimo bacio sul collo.

Gli lanciai una rapida occhiata con la coda dell’occhio.

In quel momento, mentre dormiva, sembrava così pacifico, ricordava un angelo.

Come può il male nascondersi dietro a qualcuno che ti ricorda un angelo?

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Quel posto mi metteva i brividi, ma, al tempo stesso, mi attraeva: le luci soffuse, l’odore pungente
dell’ alcool etilico, i numerosi disegni appesi alle pareti, il rumore fastidioso della macchinetta per tatuaggi…
Il tatuatore era un omone sulla quarantina, calvo, barbuto, robusto, dall’aspetto minaccioso e, inutile dirlo, interamente coperto di disegni di vario genere, dalle semplici scritte al dragone gigantesco che aveva ritratto lungo il braccio destro; si faceva chiamare “Lingua di Fuoco” o qualcosa del genere.

-Pronto, ragazzo?

-Fai quello che devi. – rispose Evan a denti stretti. Chi l’avrebbe mai detto, pieno di tatuaggi e col terrore degli aghi.

Avevo il mento poggiato sulla sua spalla nuda e osservavo l’ago bucargli la pelle all’altezza del cuore.
Sette lettere, piccole e nere, scritte con un carattere semplice ed elegante.
Un nome, il mio nome.
Destiny.
Evan era serio e pensieroso.

-Ti piace? – mi chiese.

Era una bella domanda. Insomma, era ovvio che mi piacesse, ma era pur sempre un tatuaggio. Era permanente.

-Lo adoro. – risposi baciandogli la guancia.

-Ci avrei scommesso.

Il nostro bacio fu interrotto bruscamente da un colpo di tosse, Lingua di Fuoco ci fissava con lo sguardo accigliato.

-Davvero adorabili , ma questo è un posto per gente tosta. Tu vuoi qualcosa, ragazzina? Magari un fiorellino o un unicorno, sono bravissimo con gli unicorni!

Alla faccia della tostaggine...

-Ehm… n-no g-grazie. Magari un’altra volta.

E ce la demmo a gambe.
 
__________________________________________________________________________________
 
-Sai che ti ci vedrei con uno di quei dragoni tatuato sulla schiena? – disse Evan accarezzandomi delicatamente le spalle con un dito.

-Dici? Non riesco a decidermi tra quello e il pirata col sorriso malefico.

Lui rise, in quel modo meraviglioso che aveva di ridere, e mi baciò con dolcezza.

-Oggi sei tutto zucchero. Insomma, il tatuaggio, la dolcezza improvvisa, il baciarci in auto come due ragazzini… mi sembra di essere in un libro di Sparks, dovrò stare attenta alle carie.

-Ehi, da dove proviene tutta quest’ acidità?

-Hai ragione, scusa, è che… -  è che ho paura. Va tutto troppo veloce, non sono nemmeno sicura di volere che vada e basta. Ho paura ma, non so come, mi ritrovo sempre al punto di partenza: qui, con te, con la consapevolezza di non poter stare senza di te, e il presentimento che, prima o poi, succederà qualcosa, qualcosa che ci separerà per sempre.

-Ti ricordi la prima volta che ci siamo baciati? – sbottò lui all’improvviso.

Che domande, certo che la ricordavo!

-E come potrei dimenticarlo? E’ stato l’esatto contrario di quello che avevo immaginato: il momento sbagliato, il posto sbagliato, il…

-Il ragazzo sbagliato.

Rimasi di sasso. Non era quello che intendevo… o forse sì?

-Cosa?

-Il ragazzo sbagliato. Ti stai rendendo conto della fregatura in cui ti sei cacciata, vero? Sono passati mesi, avresti dovuto partecipare a quelle gare di ginnastica in cui eri tanto brava, avresti dovuto prepararti per i test d’ammissione all’università, non per gli esami di recupero, avresti dovuto stare con quel Daniel, non con un buono a nulla come il sottoscritto. E’ tutto sbagliato. – scrollava la testa, con aria colpevole.

-Sì, Evan, è tutto sbagliato. –  risposi secca. Lui alzò lo sguardo, accostò e mi guardò negli occhi. – E’ tutto perfettamente sbagliato. Sono stanca di questo tira e molla, dei sensi di colpa, delle paure. Ho paura, è vero, ma se sto facendo uno sbaglio voglio farlo per bene, voglio pagarne le conseguenze ma voglio vivere questo orrendo e gigantesco errore come se non esistesse un domani! Quindi smettila di commiserarti, eri molto più divertente quando consideravi la vita come un sinonimo di “rischio” e “pericolo”!

Avevo ufficialmente perso ogni controllo. Quelle parole erano fuoriuscite dalla mia bocca come un fiume in piena. Il punto è che era proprio quello che volevo dire, ma non pensavo che avrei mai avuto il coraggio di farlo.

Evan mi guardava come se avessi appena inghiottito un rospo vivo.

-Non avevi promesso a Bryce che saresti passato alla fabbrica stasera? – aggiunsi per rompere il silenzio imbarazzante che si era creato. Lui non rispose, si limitò a mettere in moto l’auto, e non aprì bocca per il resto del tragitto.

Non sapevo a cosa avrebbero dato origine le mie parole, ma una cosa era certa, l’avrei scoperto molto presto.

Ci fermammo a qualche metro dal palazzo, restammo in macchina.
 Evan scoppiò a ridere, catturando la mia attenzione.

-Sei incredibile.

-Sì?

-Sì. Potremmo sembrare completamente diversi ma, in realtà, siamo più simili di quanto ci piaccia pensare.

-Credo anch’io.

-Vieni qui.

Mi abbracciò stretta, mi fece sistemare a cavalcioni su di lui e mi baciò cingendomi i fianchi. Io mi accoccolai sul suo petto, respirando il suo profumo e l’odore del tabacco che gli impregnava ancora i vestiti.

-Ahia!

Senza volere avevo poggiato la mano proprio sul punto in cui si era appena fatto tatuare il… il mio nome.

-Cavolo, scusa! Ecco, sono la solita frana. Non ne faccio mai una giusta, parlo tanto di fare le cose per bene quando…

-Sta’ zitta… - e mi baciò ancora, accarezzandomi il viso con le mani ruvide. I suoi capelli mi solleticavano la fronte, il che mi fece sorridere.

-Eccolo. – disse guardandomi intensamente, quasi sovrappensiero.

-Che intendi?

-Quel sorriso, mi era mancato. Sei così bella quando sorridi.

Mi aveva detto che ero bella, ma non era il fatto in sé che mi fece trasalire, era la cosa giusta al momento giusto, era quella la parola perfetta per riempire lo spazio bianco.

A quel punto, il nostro abbraccio si era trasformato in qualcosa di più: più delicato, solido e allo stesso tempo così fragile, era un modo per dire “non lasciarmi” e “sarò sempre qui per te”. Sentivo i nostri cuori battere all’unisono, era un suono bellissimo.

Il tutto fu interrotto dal passaggio di una volante della polizia, la sirena ci assordò letteralmente.

Aspettammo che il quel suono ridondante si allontanasse, ma non si allontanò. L’auto svoltò proprio in direzione della fabbrica, seguita da un’altra.

Evan ed io ci fissammo attoniti, senza muovere un muscolo.

-Cos’è successo? – feci io, con quel poco di voce che mi rimaneva. –Cos’avete fatto? Evan, cos’hai fatto!?

Mi accorsi di star gridando e cercai di moderare il tono.

-Niente, non abbiamo fatto niente… - rispose lui a fatica.

-E allora che ci fa la polizia proprio qui, al vostro ritrovo? Evan, dimmelo!

-Che devo dirti se non lo so!?

-PARLA, EVAN! – ora stavo davvero gridando, ero in preda al panico.

-NON.LO.SO! – scese dall’auto e sbattè violentemente lo sportello, facendomi sussultare.

Trattenni il respiro per circa dieci secondi, cercando di riprendere il controllo, poi lo seguii.

Ci mettemmo a correre in direzione della fabbrica. Più ci avvicinavamo più si faceva chiaro un suono acuto, angosciante… erano urla disperate.

Evan si fermò di colpo all’imboccatura del viale che conduceva al palazzo, ormai invisibile.

-Merda. – sussurrò.

Eravamo circondati da una fittissima coltre di fumo, come tutto il resto, davanti a noi le fiamme divampavano, alte e violente, inghiottendo completamente il vecchio palazzo diroccato.

-Ma… cosa…?

-Vieni, muoviti!

Continuammo ad avvicinarci: le automobili della polizia erano parcheggiate di fronte all’ingresso principale, uno degli agenti stava telefonando, da quello che riuscii a capire si trattava dei vigili del fuoco. Man mano che i miei occhi si abituavano al fumo, riuscii a riconoscere la fonte di quelle grida, scorsi una figura minuta accasciata per terra, che scuoteva la testa e continuava a ripetere una litania che mi risultò impossibile decifrare. Marianne.

Mi precipitai da lei.

-Marianne! Marianne, tutto bene? Che è successo?

Era completamente coperta di fuliggine, il maglione scucito e i jeans a brandelli, e aveva dipinta sul viso, bagnato di lacrime, un’espressione di profondo terrore.

-Marianne, rispondimi! – ripetei.

-Come ha fatto a succedere? Ero lì e, in un attimo… è successo tutto in un attimo. Dovevamo correre, ci abbiamo provato… perché io sono qui? Perché io?

-Frena, chi c’era con te?

Poi capii.

-Marianne, dov’è Bryce?! – intanto Evan ci aveva raggiunte.

Lei scoppiò di nuovo a piangere.

-Marianne, maledizione, concentrati e dimmi dove cavolo è Bryce! – Evan parlò tra un colpo di tosse e l’altro, sembrava incapace di trattenere la rabbia. Era la prima volta che lo vedevo in quello stato, era terrorizzato.

-Eravamo in salotto, mi ero alzata per prendere un… un bicchiere d’acqua. – tratteneva a stento le lacrime – Ad un tratto c’è stata un’esplosione e… e ci siamo ritrovati a correre da un lato all’altro del palazzo. Non si riusciva a respirare, non ci sono finestre… non sapevamo dove andare, lui gridava e io avevo così tanta paura…

-Lui dov’è!?

-Io non … non l’ho visto uscire. – Marianne aveva pronunciato quelle parole con una rassegnazione tale da farmi venire i brividi.

Vidi il panico crescere negli occhi di Evan, che si alzò di scatto e corse a tutta velocità verso la porticina sul retro.

 
-Sei impazzito!? VUOI MORIRE?! – gridai mentre si allontanava, ma era troppo tardi.
 
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-C’è una fuga di gas e quell’idiota si accende una sigaretta.

Evan era visibilmente distrutto.

-Non è stata colpa sua, non se ne sarà accorto, l’odore non è poi così inconfondibile. – non sapevo come comportarmi, cos’altro avrei potuto dire?

-Non dire stronzate, Destiny. Come ha fatto a non accorgersene!? Perché non se n’è accorto!?

-E’ normale che tu sia arrabbiato, era il tuo migliore amico. Nessuno di noi aveva pensato a qualcosa del genere, non è colpa di nessuno, tantomeno tua.

-Sto bene.

-No, non e vero.

-Ti ho detto che sto bene. Ho solo bisogno di riflettere.

-Scusatemi, capisco la delicatezza della situazione, ma dovremmo interrogare l’altra ragazza, quella bionda. – disse ad un tratto l’agente che aveva chiamato i pompieri, che nel frattempo erano riusciti a placare le fiamme.

-A proposito, dov’è Marianne?

Mi guardai intorno in cerca della mia amica, ma niente. Ad un tratto mi venne in mente dove avrei potuto trovarla.

Ed eccola lì, seduta per terra, ai piedi della porta sul retro.

-Mare, tutto apposto?

Esitai per un attimo, ma alla fine andai a sedermi accanto a lei.

-E’ che mi sembra tutto così strano. Insomma, Bryce morto. Mi sembra assurdo che d’ora in poi non potrò più vederlo, non potrò più ridere della sua faccia da accannato, non potrò più tirargli giù la visiera del berretto per infastidirlo, non passeremo più intere giornate a parlare del più e del meno …

-Tu gli volevi bene. Tutte quelle litigate, eppure…

-Eravamo come fratelli, lui mi conosceva come nessun altro, e ora non ho più nulla. Lui era tutto quello avevo, Destiny, tutto! Adesso sono sola.

-Non dire sciocchezze! – le misi un braccio attorno alle spalle, in segno di conforto. – Hai me. So che non sarà lo stesso, odio i berretti da baseball e dopo quella festa disastrosa non toccherò più nessun tipo di droga, ma, nonostante tutte le nostre divergenze, ho imparato a volerti bene e non me la sento di abbandonarti, soprattutto ora.

A quel punto, lei mi strinse in un abbraccio affettuoso, e cominciò a singhiozzare.

Si interruppe solo per aggiungere :- Sei davvero una brava ragazza. Ti prego, stai lontana da Evan.

Poi riprese a piangere.
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Lasciai Marianne lì dove l’avevo trovata, ancora scossa per le sue ultime parole, e tornai indietro per dire ai poliziotti di darle qualche minuto per schiarirsi le idee.

-Non dovremmo avvertire qualcuno? Tipo i suoi genitori. – dissi ad Evan.

-Niente genitori. Bryce viveva qui, da solo. Ogni tanto Marianne passava a tenergli compagnia, gli portava del cibo, dei DVD, cose così. Aveva soltanto noi, eravamo noi la sua famiglia.

Loro o Marianne?

-Allora sarà meglio chiamare gli altri.

-Me ne occuperò io… più tardi.

In quel momento, Evan mi sembrava un completo estraneo: il ragazzo affascinante, sicuro, sempre composto, sempre perfetto, che avevo conosciuto fino ad allora, era diventato fiacco, vulnerabile, triste. Ma, anche in quel caso, preferì rimanere solo con sé stesso.

-Se vuoi restare, io sono qui per te. – gli dissi.

-Non voglio rimanere qui, Destiny.
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Lo seppellimmo il pomeriggio seguente.

Mi ero infilata un normalissimo vestito nero e avevo raccolto i capelli. Mi sentivo piuttosto insicura, non avevo mai partecipato ad un funerale, non avevo neanche avuto il coraggio di presentarmi a quello di mio nonno, un paio d’anni prima.
Non sapevo nemmeno cosa ci stessi andando a fare, io e Bryce non eravamo mai stati uniti, ma c’era qualcosa che mi spingeva a farlo, una voce dentro di me si ostinava a ripetermi che era la cosa giusta.

Marianne ed Evan avevano convenuto che il luogo più adatto fosse una collinetta che distava un paio di chilometri dalla fabbrica, quella dove Evan mi aveva regalato la collana quando avevamo cominciato a frequentarci. A quanto dicevano loro, Bryce era solito trascorrere lì ore intere a fissare il panorama, sdraiato sull’erba, era il suo posto preferito.

Il rituale fu piuttosto strano, ma, del resto, la stranezza non era mai abbastanza per quei ragazzi.
 Il sottofondo musicale era tutt’altro che lugubre, avevano messo su un vecchio CD di Bryce, “i più grandi successi di Britney Spears”.
La bara, che ancora oggi non riesco a capire da dove l’avessero tirata fuori, era interamente ricoperta da graffiti dai colori più disparati e, sopra di essa, era appoggiato l’inconfondibile berretto da baseball di Bryce. A vederlo mi si strinse il cuore, era così giovane.

C’erano tutti, persino Christian, con la sua espressione corrucciata: ognuno si prendeva un minuto per dire quello che pensava di Bryce, anche solo una parola, la maggior parte erano insulti o battute scherzose, ma si intuiva che ogni singola persona lì presente aveva a cuore quel ragazzo così strano, pazzo, inquietante, ma a suo modo così simpatico e amichevole.

Io sedevo accanto a Marianne, raggiante nel suo vestitino giallo, il preferito di Bryce.
Lei cercò in ogni modo di convincere Evan a parlare, ma lui non volle saperne.

-Era il tuo migliore amico, glielo devi.

-Non azzardarti a dirmi quello che devo fare! Sì, era il mio migliore amico, e quello che provo adesso non ha bisogno di essere condiviso, in più penso che voi non vogliate saperlo. – detto questo, si alzò e girò i tacchi.

-O non gliene frega niente, o è quello che soffre più di tutti. – disse Marianne scuotendo la testa, poi aggiunse :- Dovresti dire due parole, Bryce era pazzo di te.

Sentii le guance andare a fuoco.

-No, Mare, non posso.

-Sì che puoi!

-E cosa dovrei dire? Non lo conoscevo neanche!

-Quello che ti viene, per favore!

E così, eccomi là, in piedi davanti ad una massa di fattoni per parlare della morte di uno di loro. E la parte peggiore è che non mi sentivo neanche troppo a disagio!

Presi un respiro profondo e… via.

-Ciao a tutti… ehm… la maggior parte di voi mi conoscono, ma per quelli che non hanno ancora avuto la sfortuna di conoscermi, sono Destiny. Io e Bryce non eravamo esattamente amici, a dire il vero, la prima volta che l’ho visto ho pensato “allora i morti viventi esistono!”. Cavolo, non è esattamente la cosa migliore da dire in queste circostanze… scusate. Ad ogni modo, nonostante il nostro primo incontro non proprio perfetto, Bryce mi ha fatto capire il vero senso del detto “l’apparenza inganna”, quel piccoletto avrà potuto essere completamente fuori di testa e, a prima vista un tipo parecchio bizzarro, ma si è rivelato un ottimo amico, una persona di cui potersi fidare. Faceva di tutto per quelli che amava, e penso che, per esperienza personale, Marianne ed Evan possano testimoniarlo. Per il resto, tutto quello che mi viene in mente pensando a lui sono le innumerevoli volte che ha provato ad approcciare con me, ma forse era proprio quello il suo fascino, la completa mancanza di vergogna. Mi ricordo anche che, un giorno, mi chiese di considerarlo un fratello maggiore, e sapete cosa? Ci ho provato, ma era talmente basso che facevo fatica a credere che fosse più vecchio di me. In conclusione, dato che molto probabilmente starete pensando di lanciarmi qualche pietra, non se lo meritava. Quello che gli è capitato è terribile. Quanti anni aveva? Venti? Ecco, come può qualcuno morire a vent’anni? Aveva tutta la vita davanti, ma credo che gli avrebbe fatto davvero piacere vedere tutti voi, la sua famiglia, qui a rendere questo momento meno tragico, anzi, quasi comico. Me lo immagino ridere, seduto lì, in mezzo a voi, con la sua sigaretta tra le dita, e il cappello calcato in testa. Vorrebbe che ci ricordassimo di lui così, sorridente, e, personalmente, non l’avevo mai visto senza il suo sorrisetto stampato in faccia. Quindi, ciao Bryce, ci fumeremo una canna per te, non penso che te le faranno portare in Paradiso, o d’ovunque tu sia adesso.
 
Concluso il discorso, guardai la folla. Mi fissavano tutti, chi ridendo, chi con espressione soddisfatta, chi piangendo, come Marianne, poi scoppiarono tutti in un sonoro applauso.

Non mi sarei mai aspettata quella reazione. Avevo parlato col cuore, niente di più, niente di meno.

Tornai al mio posto sorridendo come un’ebete.

-Sei stata grande. – mi disse Christian tenendomi per il polso.

-Niente di che, avrebbe potuto farlo chiunque. – cercai di mantenere un tono neutro, ma non era affatto facile.

-No, non sminuirti. Hai colpito tutti.

-Beh, grazie…

-Sei stata magnifica! – Marianne mi saltò letteralmente addosso e mi abbracciò con una forza tale da farmi mancare il respiro.

Quando allentò la presa, io non la mollai, anzi, la strinsi forte, e scoppiai a piangere.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


- Brian, Zac, volete qualcosa?

- No, grazie tesoro, stiamo apposto così. – la voce delicata di Zac giunse dal soggiorno, mentre io mi trovavo in cucina, intenta a prepararmi un sandwich.

Zac Rosen, compagno di classe di Brian, nonché suo tutor di biologia. Capelli rossi, viso tempestato di lentiggini e dolcissimi occhi verdi, un ragazzo veramente carino, se non per il fatto che era indubbiamente gay. Brian non si faceva problemi, in fondo era l’unica persona con cui aveva socializzato durante l’ultimo anno. Non fraintendetemi, mio fratello sarà pure stato un tipo strano, e anche parecchio, ma non avevo il minimo dubbio riguardo al suo orientamento sessuale.

Quando tornai da loro, li vidi intenti a spettegolare. La prova dell’eterosessualità di Brian? Il fatto che stessero parlando della sorella di Zac, e che il mio amato fratellino la stesse definendo una gran … ehm… no,  meglio di no.

- Quel maglione è incredibilmente sexy, sei da togliere il fiato!

- Aw, grazie Zac.

Aveva scelto Marianne l’outfit che indossavo quel pomeriggio: maglione corto nero, qualche centimetro sopra l’ombelico, che lasciava intravvedere le braccia attraverso le maniche strappate; pantaloni verdi di velluto a vita alta e stivaletti neri.

- Ho visto il tuo belloccio qui fuori quando sono arrivato. Davvero niente male.

Ovviamente si riferiva ad Evan. Brian gli scoccò un’occhiataccia.

- Brian mi ha detto quello che è successo, quella notte intendo.

- E’ passato del tempo, è tutto apposto adesso. – non avevo la minima voglia di parlarne, ero riuscita a lasciarmi quell’episodio spiacevole alle spalle, sebbene a volte l’immagine di Evan che mi guardava terrorizzato e poi spariva nel nulla tornasse a tormentarmi.

Sentii Brian ridere sommessamente, fu una risata amara.

- Amore, fossi in te lo manderei a ‘fanculo e me ne cercherei un altro. – aggiunse con un’espressione risoluta in volto. - Sei deliziosa e il mare è strapieno di pesci. Certo, lui è davvero attraente, e chissà quali altre doti nascoste ha…

- Rosen! – Brian gli tirò una pacca sulla spalla. Dovette fargli male, perché l’amico si accasciò sul divano mugolando come un cucciolo ferito.

- Okay, scusate… mi sono lasciato trasportare dall’immaginazione. – disse con voce rotta.

Io soffocai una risata divertita e mi avviai alle scale.

Quando entrai in camera mia, Marianne era ancora sbracata sul letto, intenta a sfogliare l’ultimo numero di Rolling Stone.

- Uh, cibo! – esclamò con gli occhi brillanti.

Posai il vassoio coi panini sul letto e mi sdraiai.

- Tuo fratello è davvero carino. – disse mentre addentava un panino al tacchino come se non mangiasse da mesi.

- Ma che avete tutti oggi?! – risposi alzando le mani al cielo per la disperazione. – E vacci piano, Mare, ha sedici anni.

- Due anni di differenza non sono mica una tragedia, non dirmi che il fatto che Evan abbia quattro anni in più di te ti crea dei problemi.

“Sei davvero una brava ragazza. Ti prego, stai lontana da Evan.”

- Approposito di Evan… il giorno del funerale… - vidi Marianne irrigidirsi, era evidente che era stato un duro colpo per lei, ma non potei fare a meno di andare avanti. – Quel giorno mi dicesti una cosa.

Era passata circa una settimana dalla morte di Bryce, e nessuno ne aveva più parlato. Non eravamo più tornati alla fabbrica, ormai di quel palazzo restava solo un cumulo di cenere e macerie.

- Ne ho dette tante. Ero sotto shock, Destiny, non devi dargli peso.

- Mi hai detto di stare lontana da Evan.

Lei sembrava combattuta, come se stesse cercando di decidere se inventarsi una scusa o dirmi la verità. Perché c’era sicuramente una verità, non proprio felice, nascosta dietro quelle parole.

Dopo una lunga pausa, finalmente si decise a parlare.

- Lui… lui è così. Nessuno riesce mai ad attraversare il muro che c’è attorno a lui, non te lo permette. All’inizio è eccitante,è così imprevedibile che non riesci quasi a stargli dietro, ma ci provi comunque. Ha il fascino di una città in fiamme, lui brucia e tu non riesci a staccargli gli occhi di dosso. Ma, proprio come dice il proverbio, se giochi con il fuoco finisci per bruciarti. Lui ha questa… passione innata per l’autodistruzione, e mentre il suo fuoco si consuma, tu ti consumi con lui. Ti affezioni a lui e alla sua anima tormentata, e lui ti prende il cuore, e lo riduce in cenere. Ti priva della tua essenza, diventi così tanto dipendente da lui che, senza di lui, non sai più chi sei.

Le sue parole e l’intensità con cui le aveva pronunciate mi fecero correre un brivido lungo la schiena.

- E’ successo anche a te? – le chiesi con tutta la calma possibile.

- Succede a tutti. L’unico con cui Evan era stato capace di aprirsi era Bryce. Quando è morto è andato in pezzi.

Mi venne subito in mente la reazione di Evan quando, durante il funerale, Marianne gli aveva chiesto di fare un discorso: aveva dato di matto, sottolineando il fatto che lui fosse stato il suo migliore amico e che voleva tenere quello che provava per sé; dopodiché se n’era andato, senza guardare in faccia nessuno, nemmeno me.

- La prima volta che ti ho vista, ho pensato che fossi gelosa, che ti desse fastidio vederlo con un’altra. Ora non so più cosa credere…

- Non voglio che ci cada anche tu… tutto qui.

- Ci sono già dentro fino al collo, Mare.

- Sii sincera con me, come ti tratta?

- Come al solito… molto bene. – la sua domanda mi lasciò un po’ spiazzata. Dalla morte di Bryce, Evan era diventato ancora più freddo e distaccato del solito. Spesso scompariva e quelle poche volte in cui riuscivamo ad incontrarci insisteva per non parlare di lui, cambiava discorso quando gli chiedevo come stava, cosa provava, continuava a rispondere “non capiresti”. Cominciavo a pensare di non essere nient’altro che una distrazione per lui.

La conversazione fu interrotta dallo squillo improvviso del mio cellulare.

- Hai dato tu a Christian il mio numero? – chiesi fissando lo schermo, senza la minima intenzione di rispondere alla chiamata.

- Perché proprio io? Non sono mica l’unica ad averlo, sai?

- Mare… - sfoderai il mio famigerato sguardo accusatore.

- D’accordo… è colpa mia. Ma che vuoi farci? Quel ragazzo è totalmente pazzo di te. Sì, è piuttosto inquietante e non ho mai perso troppo tempo a parlarci, ma so riconoscere quando qualcuno ha una cotta per me, e lo stesso vale per gli altri.

- Il fatto è…

- Evan, lo so.

Sapevo che Marianne aveva ragione, ne ero sicura. Sapevo che quella era una relazione tossica, non avrebbe fatto altro che distruggermi, ma non potevo farci niente, quel nome era pura musica per le mie orecchie, non potevo e non volevo farne a meno.

- Perciò… - continuò lei, probabilmente prevedendo che non avrei più proferito parola. – Mi sembra inutile chiederti se verrai al drive in stasera.

- Il cinema dici?

- Già.

- Certo che vengo, perché non dovrei?

- Era proprio quello che intendevo…

La guardai storto.

- Ma non hai un compito in classe domani?

- Non mi faccio problemi per quello.

Era un normalissimo compito di Letteratura inglese. Avrei fatto un figurone, come al solito, se non fosse stato che la mia copia di Racconto Di Due Città giaceva intonsa in un angolo del mio comodino. L’avrei letto appena fossi tornata a casa.

- Come preferisci. In questo caso ci tocca darci una mossa.

Raccattammo in fretta borse e cappotti e scendemmo al piano di sotto.

- Dove andate così di fretta? – ci chiese Brian.

- Cinema drive in, volete venire? – rispose Marianne lanciando occhiate significative a mio fratello.

Le pestai di proposito il piede.

- Ahia! Ma sei pazza?!?

- Oops…

- Non mi sembra una brutta idea, e poi mi sembra che per oggi lo studio sia stato sufficiente. – disse Zac.

- Guido io. – Brian fece per alzarsi.

- Fermo fermo, tu che cosa? – feci io. – Ma se non hai neanche la patente!

- Ho il foglio rosa e l’età per guidare.

- Scordatelo. – dissi in tono perentorio.

- Mamma! – strillò lui. Lei accorse immediatamente.

- Che ti serve, Brian?

- Ti scoccia se prendo in prestito la tua auto?

- Tu stai uscendo? E’ successo qualcosa?

- Sì o no, mamma?

- Non vedo perché non dovresti.

- Ci vediamo più tardi. – Brian mi sventolò le chiavi sotto il naso e uscì a gradi passi di casa, seguito a ruota da Zac.

- Arrivederci, Signora, dica al Signor Sindaco che il suo ultimo discorso in favore dei diritti dei gay mi è piaciuto un casino!

Mamma gli sorrise cordialmente, poi si rivolse a me. – Divertitevi.

- Ciao, mamma. – dissi fredda.

Brian, con Zac seduto sul sedile del passeggero, stava mettendo in moto l’auto, mentre Evan era a cavallo della sua Mustang e stava aspettando me e Marianne.

- Ecco le mie ragazze. – ci disse in tono allegro. Marianne gli rivolse un sorriso smagliante e si sedette sul sedile posteriore. – I tuoi amici non vengono? – aggiunse lui accarezzandomi delicatamente il ginocchio e posando le labbra sulle mie.

- Avevano da fare, domani abbiamo un test.

-Quei due sono così cariiiini, sembrano Ken e Barbie. – disse Mare con aria sognante.

- Quello è tuo fratello? – mi chiese Evan indicando la macchina parcheggiata dietro la sua.

- Sì, è stata un’idea di Marianne.

- Non pure lui, ti prego! – esclamò lui disperato. Lei gli tirò un cazzotto piuttosto violento sulla spalla.

- Disse lo sciupa femmine.

Quell’affermazione mi diede leggermente fastidio.

Evan si accese una sigaretta e alzò un braccio, facendo segno a Brian di seguirlo.

 
Mentre partivamo, mi voltai a dare un’occhiata a casa mia. Vidi la testa di mia madre sporgere da dietro le tende. Sebbene non sapesse nulla dei miei trascorsi con Evan, era chiaramente preoccupata; conosceva la sua fama e non lo vedeva di buon occhio. Fortunatamente non aveva ancora raccontato nulla a mio padre, altrimenti mi sarei ritrovata in un convento di suore di clausura in Alabama – forse l’Alabama era anche troppo vicino.

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Ci fermammo in un largo spiazzo, tappezzato di automobili, vecchie e nuove. Più avanti erano disposte delle sedie e in fondo era stato montato un grande schermo, come quello di un normale cinema.
Il tempo era particolarmente a nostro favore, il cielo era limpido e le stelle cominciavano ad emergere nell’oscurità della notte.

Arrivammo giusto in tempo, sullo schermo comparvero dei grossi numeri in stile vintage, il conto alla rovescia.
Ironia della sorte, proiettavano Requiem For A Dream.

- Io vado a fare compagnia ai due pargoletti, si sentiranno sperduti, poverini. – sbottò Marianne, scendendo dall’auto e trotterellando tutta pimpante verso quella di Brian.

- Spero che tuo fratello sappia difendersi come si deve, altrimenti ti ritroverai Marianne come cognata. – mi sussurrò Evan divertito mentre mi metteva un braccio attorno alle spalle.

Fortunatamente la sua Mustang era decappottabile, non avemmo problemi né di visuale né di udito. Era tutto perfetto, romantico, e Jared Leto rendeva tutto migliore.

- Tu a quanto pare non hai avuto problemi.

Lui mi guardò con un’espressione simile a quella dei cuccioli, confusa e sorpresa, sembrava così vulnerabile. Cavolo, quanto avrei voluto baciarlo.

- Che vuoi dire?

Deglutii a fatica.

“Ti prende il cuore, e lo riduce in cenere.”

- Che tu hai saputo difenderti. Sarà stato facile per te lasciarla.

- Questo non ha senso, Destiny, non c’entra niente. – la sua voce si fece più bassa, più calda, e lui si avvicinava sempre di più.

- N-no…?

- Noi siamo un’altra storia. – mi sfiorò dolcemente le labbra con le sue, facendomi rabbrividire. – Con te è diverso. – disse infine. Poi il suo tocco si fece più deciso, la vulnerabilità che avevo intravvisto nei suoi occhi era completamente sparita, mi passò una mano sulla schiena, baciandomi con foga, fu quasi violento. Era come se vedesse solo me, e, in un certo senso, era proprio quello che cercavo, qualcuno che volesse solo ed esclusivamente me, anche se solo per un minuto.

E neanche io vedevo altro che lui: i suoi capelli arruffati, i suoi zigomi pronunciati, la sua tipica espressione corrucciata, i suoi grandi occhi grigi…

- Christian…

- Cosa? – disse staccandosi improvvisamente da me. Ansimava e aveva le guance arrossate, l’espressione di chi si è svegliato di colpo dopo una lunga dormita.

Non mi ero resa conto di aver parlato ad alta voce, speravo solo che Evan credesse di non aver sentito bene.

- Niente… senti, non ho seguito molto il film, vado a fare una passeggiata. – gli dissi aprendo lo sportello.

- Ce ne possiamo andare se vuoi, andiamo in un posto più tranquillo…

- Non preoccuparti, vado e torno.

Se ne rimase lì, seduto in macchina, a scrutarmi con sguardo indagatore, mentre io mi nascondevo dietro ad un albero, inghiottita dall’ombra, prendevo il telefono e…

- Non ci credo. Sei proprio tu o sono davvero così sbronzo da immaginarmelo?

- Dove sei?

- Al… al drive in.

- Dove di preciso?

- Prima sedia a sinistra, sotto lo schermo… sì, sono piuttosto sicuro che sia la prima, o forse è la seconda…

- Non ha importanza, stà fermo lì.

Superai di corsa una fila di macchine. Vidi di tutto: ragazzi che si baciavano, o facevano altro; gente che si scambiava pillole di varia forma e colore; gente addormentata…

E finalmente lo notai. Prima sedia a sinistra, felpa grigia, jeans vintage strappati  e capelli neri all’aria. Non avevo mai pensato che sarei stata tanto ansiosa di vederlo, ma il solo stargli dietro, senza che mi guardasse, mi fece trasalire. Gli diedi un leggero colpetto sulla spalla, facendo attenzione a non uscire troppo allo scoperto.

Lui si alzò così in fretta da far quasi rovesciare la sedia. Gli occhi gli brillavano, un po’ per la sorpresa, un po’ per l’evidentemente grande quantità d’alcol ingerita. Più per l’alcol, pensai.

Mi si appoggiò letteralmente contro, accarezzandomi una guancia.

- Perché non mi hai mai risposto? – bisbigliò. Puzzava di birra.

- Io… mi dispiace. – ed era vero, ogni volta che vedevo il suo nome sul display e cliccavo su “rifiuta” era come se un minuscolo spillo si conficcasse nel mio cuore.

- Ti ho chiamata così tante volte. – Decine di minuscoli spilli…

- Lo so.

- Perché sei qui, Destiny?

- Volevo vederti.

- Dimmi che hai cambiato idea. Dimmelo, ti prego. – il suo tono era a dir poco disperato, tanto sofferente quanto lo era la sua espressione. Cominciava a sudare e i capelli gli si arricciavano leggermente sopra le orecchie, le labbra erano rosse, molto rosse, sembrava un bambino.

- A proposito di cosa?

- Di noi, di te e di Evan. Dimmi che hai scelto me. – lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Non mi aveva mai detto niente a proposito, non l’avevo mai lasciato parlare. Io e Christian non eravamo mai stati molto intimi, c’era una specie di magnetismo tra di noi, okay, ma niente di più. Non avevo mai pensato a lui in quel senso, non seriamente almeno.
Era vicino, troppo vicino.
All’improvviso, in quello che mi parve un secolo, si chinò per baciarmi. Io mi scansai e mi parve che le ginocchia gli cedessero e che si reggesse in piedi a fatica.

- Christian. – dissi, cercando di sorreggerlo. – Sei ubriaco, non ti rendi conto di quello che fai.

- Lui. – indicò un punto a caso in lontananza. – Lui non ti merita.

- Lo so.

Lo misi di nuovo seduto, consapevole degli sguardi interessati che la gente ci rivolgeva.

- Vi… vi state usando a vicenda.

- Shh. – gli diedi un rapido bacio sulla guancia. – Hai qualcuno che ti riporti a casa?

- E’ con me. – disse all’improvviso un ragazzo biondo, seduto accanto a lui. Mi parve di averlo già visto, alla fabbrica.

Ringraziai il cielo perché era notte e sarebbe stato impossibile notare il rossore sulle mie guance.

-Ah, d’accordo, allora…

- Tranquilla, non dirò niente in giro, torna da Evan. – aveva un sorrisetto malizioso stampato in faccia, sembrava tranquillo.

Non sapevo che dire. Gli rivolsi un cenno di ringraziamento e tornai indietro sui miei passi.

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L’auto di Evan era ancora là dove l’avevo lasciata, lui era sdraiato sul suo sedile, la testa ciondolante all’indietro, fissava il cielo.

- Contenta? – disse. Per un attimo mi domandai se parlasse davvero con me.

- Come, scusa?

- Ti è piaciuto? – il suo sguardo era spento, vuoto, la voce era piatta e inespressiva, sembrava morto.

- Non ti seguo.

- Christian Tunner.

Avvertii una fitta all’altezza dello stomaco e la vista mi si annebbiò leggermente.

- Non… non è… - riuscii a dire, con un filo di voce.

- E’ davvero un bel ragazzo. – aggiunse con calma, una calma che mi metteva i brividi, nessun essere umano aveva un tale autocontrollo. – Ma pensavo che tu puntassi più in alto, Des. – ogni singola parola che usciva dalla sua bocca mi colpiva come uno schiaffo in pieno volto. – Così delicato, così gentile, così pieno di buone intenzioni.

- Smettila. – sbottai.

- Scusa? – era la prima volta che mi guardava da quando ero tornata.

- Ho detto smettila, Evan. Non è successo niente.

- Oh ma avresti voluto. Ammettilo, Destiny, è attraente, non ti biasimo.

- Evan, basta.

- Coraggio, raggiungilo. Anzi, ti dirò di più, scopatelo! – questa volta fu un pugno in pieno stomaco. Gli occhi cominciavano a bruciami, mi morsi forte il labbro e permisi al dolore fisico di distrarmi da quello emotivo.

- Come puoi…?

- La tua prima volta dovrebbe essere speciale e uno come lui è proprio quello che ti ci vuole. – sottolineò le parole “prima volta” assaporandole affondo, come se si stesse prendendo gioco di me, come se chiamarmi vergine in tono dispregiativo equivalesse a dirmi che avevo i piedi troppo grandi o i denti storti. - Cosa ci fai con me, Des? Io sono un buono a nulla, non ti rendo giustizia. Io sono un demone! Porto solo dolore e distruzione! Vuoi la felicità, ragazzina? Allora gira i tacchi e vattene, stammi più lontana che puoi, non ho niente da offrirti.

Detto questo, mise in moto e fece marcia indietro, scomparendo nella notte.

Provai l’impulso di lasciarmi cadere a terra e rimanere lì, immobile, ma resistetti.

Le urla di Evan avevano destato la curiosità di gran parte dei presenti, i cui sguardi ora mi stavano seguendo mentre vagavo senza meta, finchè non trovai la vecchia Ford di mia madre e mi ci gettai dentro.

- Andiamo a casa, Brian.

Mi ci volle un attimo per accorgermi che ero seduta accanto a Zac, sul sedile posteriore, mentre su quello del passeggero c’era Marianne.

- Desy, che è successo? – mi chiese mio fratello.

- Che ti ha detto quel bastardo?! – disse Mare.

- Niente, non è successo assolutamente niente, voglio solo tornare a casa e dormire per … tutta la vita magari.

- Io ti avevo detto di mandarlo a ‘fanculo… - fece Zac.

- Io quello lo ammazzo. – aggiunse Brian in preda alla rabbia.

- Puoi per favore mettere in moto? Ti prego. – notando il mio tono, smise di replicare e fece come avevo chiesto.

Non mi accorsi di star piangendo fino a quando Zac non mi avvolse con le sue braccia esili.

 
- Uomini, sono tutti stronzi. – mi disse baciandomi dolcemente sui capelli.

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Quella notte, non riuscendo a prendere sonno, decisi di dare un’occhiata a Racconto Di Due Città, quel minimo necessario per non prendere un’insufficienza troppo grave. Speravo che la lettura mi avrebbe distratto.

“Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della
follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la
primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo
nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell'altra parte…”
 
Ad un tratto, la flebile luce emanata dalla lampada scomparve e venni risucchiata dall’oscurità.
 
Ero Lucy Manette (non so spiegare come facessi a saperlo, ma lo sapevo). In  qualche modo, sapevo tutto di lei, ero diventata in tutto e per tutto quella ragazza. Lei era tutto quello che avrei sempre voluto essere io: coraggiosa, leale, piena di speranze, sicura….

All’improvviso fu come essere trasportata a forza in un altro luogo. Di fronte a me c’era quello che pensai dovesse essere Charles Darnay, mio marito. La cosa curiosa, ciò che mi lasciò di stucco, era che di fronte a me non avevo il personaggio di un libro, di qualcuno che, prima d’ora, avevo solo immaginato, associandogli carattere e caratteristiche fisiche provenienti solo ed esclusivamente da un angolo remoto della mia fantasia, di fronte a me avevo Christian. Indossava abiti tipici di quel periodo: camicia bianca, pantaloni neri eleganti, un panciotto grigio che faceva risaltare l’azzurro opaco dei suoi occhi, un cappotto nero. Era bellissimo, e sorrideva dolcemente, il suo sguardo trasmetteva amore e solo amore, nei suoi occhi vedevo una promessa.

Sebbene avesse l’aspetto del ragazzo che conoscevo, l’essenza era quella di Darnay: l’incarnazione della giustizia e del senso del dovere, un pilastro per Lucy. Era l’esatto opposto dell’uomo che gli apparve al fianco: alto, snello, lo sguardo intenso e le labbra atteggiate a un leggero ghigno; portava una redingote blu chiusa fino al colletto, che gli fasciava il busto e lo faceva sembrare ancora più alto. Riconobbi subito i suoi inconfondibili occhi verdi, non poteva essere che Evan.
Anche in questo caso, l’aspetto era quello di Evan, ma l’anima era quella di Sydney Carton, personaggio dalla vita dissoluta e dedito all’alcol, il suo più grande peccato.

E così, da un lato avevo una certezza, la promessa di una vita felice, tranquilla, che mi parve completamente giusta; dall’altra c’era un futuro imprevedibile, un vicolo cieco, di cui non riuscivo a vedere la fine, ma che mi attraeva con una forza che difficilmente sarei riuscita a contrastare.

Darnay mi prese una mano e la baciò con dolcezza, Carton afferrò l’altra e se la portò  al petto, con fare possessivo.

Guardai attentamente prima uno, poi l’altro, poi fu tutto buio.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


- NON CI POSSO CREDERE! – gridò mia madre irrompendo bruscamente in camera mia. – Non sei ancora vestita?! Lo sapevo che non dovevo farti uscire ieri sera! Ti senti male?

- Sto bene, mamma. – mugolai. – Vattene via. – aggiunsi ficcando la testa sotto al cuscino.

- Hai un quarto d’ora per vestirti, ti accompagno io a scuola oggi. – disse uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.

Avevo ancora il libro appoggiato sul petto.

Galleggiavo ancora in quel mistico baratro tra sonno e veglia, in cui i ricordi non sono ancora affiorati del tutto e l’unica certezza è che sei vivo, respiri e te ne stai beatamente accoccolato ad un cuscino straordinariamente comodo. Niente preoccupazioni, niente pensieri, solo nebbia.

Purtroppo però, la nebbia tende a dissolversi, troppo in fretta a volte.

 Ricordai gradualmente la notte precedente: Christian, il litigio con Evan, il sogno…

Rotolai letteralmente giù dal letto, atterrando dolorosamente sulla spalla sinistra.
I miei capelli erano talmente aggrovigliati che un piccione non ci avrebbe pensato due volte a deporci le uova e a farne la sua casa. Non avevo il tempo di farmi una doccia, quindi li tirai su in una coda di cavallo – adoravo come le ciocche rosa risaltavano quando li acconciavo così.
Mi infilai di corsa un paio di jeans, gli stivaletti neri, una t-shirt grigia e una giacca di velluto nera. Ero sicura che sarei morta assiderata, perciò afferrai una sciarpa ampia a fantasia scozzese che pensavo sarebbe stata bene col resto.

Quella sciarpa era di Evan…

Mi ci aggrappai istintivamente, inspirando l’aroma, ancora piuttosto forte, di tabacco e colonia che emanava, dirigendomi a grandi passi verso la finestra.

L’auto non c’era, probabilmente non era neanche tornato a casa.

- Piantala di amoreggiare con quella sciarpa e muovi il culo, mamma è isterica. – Brian era appoggiato allo stipite della porta, con le braccia incrociate e un’espressione seria sul viso.

- Corro.

- Aspetta, ci sono anche io! – esclamò posandomi una mano sulla spalla dolorante, sussultai.

- Tu vai a scuola?! Che ti sei calato?

- Fai meno la spiritosa, Christiane F., ho il compito di Scienze. Non mi porto Zac dietro per niente, dovrà pur servire a qualcosa.

- Molto umano, complimenti, vedo che stai crescendo bene fratellino.

- Ehi, ho una…

- Reputazione da difendere . – gli feci il verso. Lui in tutta risposta mi diede una leggera pacca sul braccio.

- Dai su, siamo già in ritardo.

- Tu vai avanti, ho dimenticato il cellulare.

Il mio telefono era ancora nella tasca dei pantaloni che avevo indossato la sera prima, la batteria al minimo e un nuovo messaggio.

Il mio cuore fece un salto, quasi volesse uscir fuori dal petto.

 Evan. Evan. Evan.

MI SONO IMMAGINATO TUTTO? – Christian.

Ignorai deliberatamente il messaggio, dopo aver fissato lo schermo per svariati minuti, ficcai il cellulare nello zaino e corsi giù.

Mi lanciai sul sedile della macchina di mamma, che sembrava di malumore.

- Cos’è questa puzza di fumo?

Brian strabuzzò gli occhi e mi lanciò uno sguardo complice. Chissà quante sigarette si era fumata Marianne mentre eravamo al drive in.

- E’ colpa mia.

- Brian, che cavolo dici?

Non potevo permettere che si cacciasse in altri guai, aveva finalmente cominciato a legare con papà, e se quest’ultimo avesse saputo qualcosa del genere lo avrebbe cacciato a calci di casa.

Mia madre era un misto di rabbia, incredulità e pura esasperazione.

- Dai ma’, non fare quella faccia. – disse Brian con un mezzo sorriso. – Sono o non sono un delinquente? Fumare è il minimo, non dirmi che non te l’aspettavi.

Soffocai una risata. Mio fratello era un vero e proprio esperto nel pararsi il fondoschiena.

- Non so davvero cosa fare con te.

- Comincia col partire ed evitarmi di essere rimandato in Biologia per il terzo anno di fila.

Lei mise in folle e ci muovemmo così velocemente che ebbi paura che finissimo fuori strada.

- Giù, tutti e due! DI CORSA!

Ci catapultammo giù dall’automobile e andammo verso il cancello della scuola. Puntuali per un pelo.

- Volo in classe, buona fortuna. – mi disse Brian scoccandomi velocemente un bacio in fronte.

- Anche a te!

Andai verso l’ingresso, dove sostavano Bridgit e Daniel.

- Ho lo stomaco in gola. – sbottò lei. – Libro del cavolo, è più interessante guardare Gladys mentre si fa la messa in piega.

- A me è piaciuto. – disse Dan.

- Ma non mi dire! – rispose Bridgit sarcastica. – Tu l’hai letto Desy?

- Più o meno…

- Il primo che arriva si becca il posto accanto a Lydia! – strillò Daniel lanciandosi sulle scale. Lo seguimmo a ruota, tentando invano di sorpassarlo.

Ovviamente fu lui il primo ad entrare in classe, e si meritò di sedersi accanto a quel genio di Lydia, futuro premio Nobel per la stronzaggine.
Dall’altro Lato sedeva Elliott, che nessuno sarebbe riuscito a far alzare, perciò Bridgit, furbissima, fece gli occhi dolci a Leonard, il cui banco era esattamente dietro quello di Lydia. Lui si spostò immediatamente al posto di lei, con aria imbambolata.
Io me ne rimasi al mio posto: primo banco sulla destra, estraneata dal resto dell’umanità.
La Blake si aggirava sinuosamente tra i banchi distribuendo i fogli su cui avremmo dovuto svolgere il compito, i suoi tacchi a spillo ticchettavano sul pavimento di marmo producendo un suono incredibilmente fastidioso. Io fui l’ultima a cui venne consegnato il foglio.
Non sembrava impossibile, erano tutte domande di base, del tipo “chi è Sydney Carton?”, “elenca le caratteristiche principali di Lucie Manette”, e un paio di domande a risposta aperta. Avrei potuto rispondere persino se avessi letto solo il riassunto su Wikipedia.

Impugnai saldamente la penna e ne appoggiai la punta sul foglio…
Provai a farla scorrere, ma non successe niente.

“Chi è Sydney Carton?”

Mi venne in mente l’immagine di Evan in redingote blu, con i suoi luminosissimi occhi verdi e il suo sorriso, quel sorriso che ti fa sentire felice di essere vivo.

Scossi la testa, come se bastasse a mandare via quel pensiero.

Mi voltai leggermente a sinistra, per dare un’occhiata ai miei amici: Bridgit, sporta esageratamente in avanti, stava trascrivendo parola per parola le risposte di Lydia, mentre Daniel, che era sempre stato un tipo onesto, era evidentemente nel panico.

- Peterson, perché non consulta direttamente il libro? – sbottò la Blake alzando gli occhi dal giornale che stava leggendo, e che, come tutti sapevano, nascondeva al suo interno l’ultimo numero di Cosmopolitan.

Abbassai di scatto la testa.

Black out.

“In quale periodo storico è ambientato il romanzo?”

Niente.

“Come si chiama il padre di Lucie, e quale sarà la sua sorte?”

Buio.

“Quale azione eroica viene compiuta di Sydney?”

Voragine.

“Descrivi  Mme Defarges.”

Baratro.
 
Guardami bene, guardami e dimmi che non hai paura. La tua vita cambierà, tu cambierai, e la colpa sarà solo mia, te lo dico per esperienza personale. Non posso sopportare di vederti soffrire per causa mia. Devi fare una scelta, Destiny.”  Mi aveva detto la prima volta che ci eravamo baciati. Eppure mi aveva fatta soffrire, eccome. Ma non mi sentivo come se fosse colpa sua, per me la responsabilità era mia e basta.
Perché l’avevo lasciato andare via quella sera? Perché non gli ero corsa dietro? Ora era chissà dove e io me ne stavo là, sola e triste, infinitamente triste, senza la minima idea di cosa fare o di come rimettere insieme i pezzi del mio cuore.

- Tempo scaduto.

Fu come risvegliarsi improvvisamente da uno di quei sogni in cui si immagina di cadere nel vuoto.

Tenevo ancora la penna in mano, con una forza tale che le nocche mi erano diventate bianche.
Il foglio era così com’era stato all’inizio dell’ora, bianco, pulito, intonso.
La Blake lo ritirò con una smorfia di disappunto.

<> avrei voluto sbattere la testa al muro, e anche piuttosto forte.
Bridgit era soddisfatta, così come Lydia, Daniel invece aveva la stessa espressione ansiosa di poco prima.

- Io non sono fatto per imbrogliare! – piagnucolò lui sedendosi sui gradini dopo che fummo usciti dall’aula. – Sono una brava persona!

Bridgit scoppiò a ridere. – Il mio invece è andato benissimo.

- Desy? – mi chiese Daniel.

- Eh? Sì… è andato… diciamo bene.

- Quella strega mi boccia e addio nuoto.

- Le conviene studiare, Ross. – La biondona era spuntata da dietro un angolo.

Daniel era visibilmente sconvolto.

- S-s-signorina Blake! Io… ehm… non volevo chiamarla… insomma… studierò.

- Bravo ragazzo. – concluse lei alzando il mento con espressione fiera e soddisfatta, poi si allontanò.

- Un giorno di questi morirò di crepacuore.

- Ma se hai il fisico dell’atleta! Fai prima a buttarti da una finestra se vuoi morire. – replicò Bridgit.

- Questa conversazione non ha senso! – gridò Daniel in preda al nervosismo. – Ehi, Destiny, cos’è quella faccia? Tutto okay?

Mi girai sorpresa.

- Sto bene. Ho lezione ora, vado.

Non appena raggiunsi il piano sottostante, sentii che qualcuno mi correva dietro. Daniel mi afferrò il braccio e mi costrinse a voltarmi.

- Non me la dai a bere. – disse.

- Lasciami in pace, Dan, per favore.

- Ma che cos’hai?

- Sono affari miei.

- Beh, scusa se mi preoccupo per te, credevo che gli amici servissero a questo.

- Non cominciare adesso.

- Cos’è, Evan ha sostituito tutti noi? Non hai più bisogno di nessuno a quanto pare. – il tono della sua voce si alzò quando gli voltai le spalle. – Quando ti accorgerai che ti sta prendendo in giro? Quando metterai la testa apposto?!

- Smettila! – gli andai incontro a grandi passi. Trasudavo rabbia e frustrazione da tutti i pori. – Non puoi permetterti di parlarmi in questo modo! – gli sferrai un pugno sul petto. Non volevo essere violenta, agii d’istinto.

Continuai a colpirlo, ancora, e ancora, e ancora. Lui non oppose resistenza. Non so per quanto andai avanti.
Quando esaurii le forze, Daniel mi afferrò i polsi e me li fece abbassare, poi, cogliendomi di sorpresa, mi avvolse tra le sue braccia. Appoggiai il viso sul suo torace ampio e tonico, sapeva di sapone e limone, e mi dava uno strano senso di sicurezza.

- Parla con me. – mormorò.

- Non… - respiravo a fatica, gli occhi e la gola cominciavano a bruciarmi violentemente . – Non so cosa mi succede. – singhiozzai leggermente, ma cercai di nuovo di trattenermi. – Daniel, cosa mi succede? – finalmente decisi di lasciarmi andare, mi abbandonai alla tristezza, a quella profonda tristezza che da mesi ormai invadeva la mia anima, e scoppiai in lacrime.

 
- Shh. – ripeteva Daniel tra un mio singhiozzo e l’altro, mentre mi accarezzava con dolcezza i capelli. – Andrà tutto bene, sono qui. Sono qui per te.
 
_________________________________________________________________________________
 
Dopo la mia scenata di quella mattina, Daniel aveva convinto Bridgit a riaccompagnarmi a casa alla fine delle lezioni.

- Brian! – gridai vedendo mio fratello attraversare il cortile della scuola.

- Desy… Che faccia! E’ andata così male?

- Non preoccuparti. Tu piuttosto, il test?

- Una BOMBA, sorella! Quasi quasi passo all’altra sponda per ricompensare Zac come si deve. – disse lui con un mega-sorriso.

- Sono davvero felice per te.

- Sicura? Non sembra. – scrutava il mio viso con aria preoccupata.

- Davvero, Brian, sono solo stanca. Approposito, vuoi un passaggio? Io torno con Bridgit.

- Con Betty Spaghetti? No grazie,preferisco camminare, e poi ho un’altra ora.

 
- Come vuoi, ci vediamo a casa.

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- Non vuoi proprio spiegarmi cosa succede? – mi chiese Bridgit stando molto attenta a non dar sfogo a tutta la sua curiosità.

- Daniel non ti ha detto niente?

- Solo che ti sei sentita poco bene.

- E’ così…

- Forse passi troppo tempo con quel gruppo di fattoni.

- Che intendi? – chiesi infastidita.

- Dai, non ho voluto farti pressioni perché ti conosco, so quanto sei fragile infondo, ma il punk non fa per te, quelli sono solo una distrazione.

- Piantala, Bri.

- Quei tizi mi mettono i brividi.

- Non sono quello che potrebbero sembrare…

- Probabilmente quello biondo è morto di overdose.

- Adesso basta, Bridgit! – sbottai.

Lei mi guardò colpita, poi si schiarì la voce e mi porse le sue scuse.

Ci fu una lunga pausa.

- Dov’è Evan? – chiese lei rompendo il silenzio.

Eravamo di fronte a casa McGraw e la sua Mustang ancora non si vedeva. Nemmeno sua zia era in casa, quella mattina si era recata a Charlotte per il compleanno della sorella. Forse era partito anche Evan, ma ne dubitavo, non aveva un buon rapporto con i suoi genitori.

- Se solo lo sapessi…

- Senti, Desy… - disse mentre mi giravo per prendere lo zaino. – Lo sai che con me puoi confidarti, sei la mia migliore amica.

Era da tempo che non glielo sentivo dire, e constatare che era assolutamente sincera in quel momento mi fece piacere.

 
- Grazie, Bri. – le dissi scendendo dall’auto.

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Non avevo alcuna intenzione di alzarmi dal letto.
Ero stesa a pancia in su, lo sguardo fisso al soffitto.

Dov’era?

Continuavo a tenere stretta a me la sua sciarpa. Ricordavo il giorno in cui me l’aveva data : in realtà non me l’aveva proprio regalata, me l’aveva avvolta attorno al collo un giorno in cui il freddo era stato particolarmente pungente e io non mi ero azzardata a restituirgliela.

Passai ore in quella posizione, pensavo che mi sarei addormentata da un momento all’altro, ma non avvenne.

Come avevo potuto farmi stravolgere la vita da un ragazzo? Era tutto pianificato, era tutto perfetto. Poi mi ritrovo questo belloccio a cavallo di una macchina d’epoca davanti casa e perdo la testa. Io non ero così, non ero mai stata quel tipo di persona; certo, i ragazzi come Evan mi attraevano, ma non nel modo in cui mi aveva catturata lui. Non ero stata più capace di immaginare il mio futuro dal giorno in cui l’avevo incontrato, non senza che lui ne fosse una parte, e anche piuttosto importante.
Pensavo che nessuno riuscisse a capirmi fino infondo come faceva lui; che nessuno mi amasse come mi amava lui; che nessuno potesse farmi sentire come solo lui riusciva a farmi sentire; nessuno era come lui.
Poi ci si mettevano Marianne, e Brian, e Daniel, e Bridgit, e Christian… Dio, Christian. Era un continuo “lui non è per te, ti farà soffrire, non sei più tu da quando stai con lui…” e bla bla bla. Non sapevo più a chi dare ascolto, se a loro, alla mia testa, o al mio pazzo e scellerato cuore.

Quasi l’avessi chiamato ad alta voce, il mio telefono cominciò a squillare.

Christian.

- Quando parli del diavolo.... – dissi tra me e me.

- Christian, non sono in vena di discussioni oggi.

- Tu non sei mai in vena di discussioni, Destiny. Piantala di ignorarmi.

- Non ti sto ignorando. – risposi mettendomi a sedere sul bordo del letto.

- Non so se da te è diverso, ma a casa mia il non rispondere né al telefono né ai messaggi si chiama ignorare.

Non replicai.

Aveva l’affanno, come se avesse corso.

- Sei ancora lì?

- Cosa vuoi, Christian? – ero esausta.

- Voglio sapere se l’alcol ieri sera mi ha giocato un brutto scherzo o se invece era tutto reale. Io… io mi ricordo…

Un brivido mi corse lungo alla schiena. Avevo la bocca secca.

- Cosa? Cosa ricordi?

- Ricordo il tuo viso. Ricordo la tua espressione angosciata, la tua mano sulla mia spalla quando mi hai aiutato a sedermi. Sei apparsa dal nulla, mi era sembrato un sogno, un bellissimo sogno…

Non ricordava la mia telefonata, non ricordava che lo avevo chiamato io.

- Ricordi quello che ci siamo detti?

-  Non proprio, solo alcuni flash. Mi pare di aver capito che eri con Evan, e ricordo la rabbia che ho provato in quell’istante.

Il cuore mi si bloccò in gola, io ricordavo quello che mi aveva detto. Dimmi che hai scelto me.

All’improvviso sentii il rombo di un motore e lo schiocco di una portiera che si apriva e poi sbatteva violentemente. Corsi alla finestra.

Evan.

Provai l’impulso di spalancare la finestra e buttarmi giù, in tempo per raggiungerlo.

- Voglio vederti. – sentii la voce profonda e roca di Christian in lontananza, alla vista di Evan la mano con cui reggevo il cellulare mi era ricaduta lungo il fianco.

- Destiny?

Mi costrinsi a tirar fuori la poca voce che mi era rimasta.

- Non è possibile, Chris.

- Ma…

- Non posso e basta! – strillai, incapace di controllarmi.

- Mi hai chiamato Chris… - mormorò prima che gli attaccassi in faccia.

Gettai il telefono sul letto con tutta la forza che avevo e mi morsi il labbro per impedirmi di gridare.

Passai l’ora seguente a camminare avanti e indietro dalla porta alla finestra.
Non sopportavo l’idea che io dovessi starmene lì a struggermi per lui, che mi sentissi costretta ad allontanare qualunque persona che tentasse di aiutarmi per paura che mi convincessero a separarmi da lui. Ogni istante passato a pensare a lui, ogni secondo che trascorrevo senza vederlo mi provocava una fitta al cuore.

Lui però non sembrava preoccuparsene.

Ne avevo abbastanza, ero stanca di soffrire da sola. Volevo essere la sua ossessione, così come lui era la mia.

Così, presi il coraggio a due mani ed uscii di casa, incurante di chi fosse presente.

L’assenza della signora McGraw mi evitò di perdere gran parte del tempo che avevo a disposizione.
Feci le scale di corsa e notai che la porta della sua camera era spalancata, ci mancò poco che mi  ci lanciassi dentro. Mi fermai sulla soglia.
Evan era seduto sul letto, la chitarra in braccio.
Non riuscivo a muovermi, me ne stetti lì impalata, guardandolo fisso.
Accortosi improvvisamente della mia presenza, posò lo sguardo su di me. Nel momento esatto in cui i suoi occhi incontrarono i miei, mi trasformò in un essere inerme e vulnerabile, avrei potuto cadere ai suoi piedi se solo me lo avesse chiesto. Ma, per una volta, volevo essere io a condurre il gioco, in quel momento, ero io quella forte.

Posò lentamente la chitarra e si alzò muovendosi con cautela, come se si stesse avvicinando ad una belva feroce. Sostenni il suo sguardo.
Si fermò ad un centimetro dal mio naso. Era così vicino che potevo sentire il suo respiro, mi venne in mente una sera, qualche mese prima, sul portico di casa sua…

- Quella è la mia sciarpa. – bisbigliò.

Io me la sfilai dal collo con lentezza, senza staccare un attimo gli occhi dal suo viso. In quei due smeraldi colsi un guizzo, un lampo di desiderio. Gettai la sciarpa a terra.
Evan continuava a stare immobile di fronte a me.
Cominciai a sbottonarmi la giacca. Mi presi il mio tempo, un bottone alla volta, quando mi liberai anche di quella, la bocca di lui si stava curvando in un lieve sorriso.
Continuavo a guardarlo.
Afferrai un lembo della mia t-shirt e feci per togliermi anche quella, ma lui posò una mano sulla mia e deglutì a fatica.

- Che stai facendo? – chiese con un filo di voce.

Non parlai. Scostai la sua mano e mi tolsi la maglietta.

Appoggiai le mani sui suoi fianchi e gliele passai sulla schiena da sotto la camicia, accarezzandolo con delicatezza. Evan trasalì leggermente. Pensò lui a levarsi quella camicia bordeaux, che evidenziava il verde dei suoi occhi… anche se devo ammettere che era molto meglio senza.

Eravamo ancora lì, occhi negli occhi, nessuno dei due mosse più un muscolo.
Poi sentii come una scossa, gli misi una mano sulla nuca e lo attirai a me. Ci baciammo con una passione che non avevamo mai osato tirare fuori prima di allora. Io continuavo a baciarlo e nel frattempo cercavo di sfilarmi le scarpe, per poi allontanarle con un calcio, mentre lui armeggiava con la chiusura dei miei jeans.
Scomparsi anche quelli, mi prese per la vita e ricademmo entrambi sul letto, avvinghiati come prima.
Evan mi baciò dolcemente il collo, accarezzandomi i capelli, io accarezzavo i suoi, assaporavo le sue labbra e mi perdevo nel suo profumo, venivo confusa dai suoi gesti, dal tocco delle sue mani, dai suoi baci…

 
E successe quello che doveva succedere.

_________________________________________________________________________________
 
 
Al mio risveglio, Evan era sdraiato accanto a me, avvolto dal suo lenzuolo celeste, che ricopriva il suo letto, eravamo nella sua stanza, in casa sua.

Era successo davvero. Avevo davvero fatto… quello che pensavo di aver fatto.

Mi guardai attorno: i miei vestiti, tutti i miei vestiti, erano sparsi sul pavimento, appallottolati, quelli di lui lo stesso.

Sembrava in pace, dormiva come un bimbo. Aveva ancora quell’accenno di sorriso sulle labbra, i capelli scompigliati gli ricadevano sugli occhi.

<< Sono nuda, nel suo letto, con lui, è fatta.>>

Arrivata a quel punto, non potevo più tornare indietro.

L’avevo fatto, gli avevo dato tutta me stessa.
 
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


- Te ne vai già?  - mi chiese Evan mentre mi allacciavo gli stivali.

-Ho passato la notte qui, Evan, è già abbastanza sospetto. 

- Neanche stessimo facendo qualcosa di illegale. - mi abbracciò da dietro le spalle e mi baciò il collo.

- Credimi, non c'è niente che vorrei di più di restare a letto con te, ma devo davvero andare.

Mi alzai, a malincuore, presi le mie cose e feci per andarmene.
Strano, avevo sempre pensato che sarebbe stato lui a lasciarmi in quello stato, intontita, ancora mezza addormentata, col ricordo della notte precedente che affiorava con lentezza, dopo essersi divertito con l'ennesima ragazza che gli si era buttata tra le braccia. 
Stentavo a credere che quella ragazza fossi proprio io.

- Des?

Mi fermai di colpo.

- Sì? 

- Prendi la sciarpa. - mi disse con un mezzo sorriso,  indicando il pezzo di stoffa a quadri che giaceva ai piedi del letto.

Ricambiai il sorriso e la raccolsi.

- Ci vediamo.

- Beh, lo spero proprio. - fece lui con la sua solita voce suadente, che come al solito mi fece rabbrividire.

_________________________________________________________________________________
 
Non appena rientrai a casa, mi trovai davanti tutta la mia famiglia: mamma sprofondata nella poltrona, il colorito cadaverico e gli occhi sbarrati puntati su di me; papà, che fino ad un secondo prima stava evidentemente marciando avanti e indietro di fronte alla porta d'ingresso, si bloccò improvvisamente;  e Brian se ne stava comodamente sdraiato sul divano, incurante di ciò che stava accadendo.

- Ve l'avevo detto che era ancora viva. - affermò quest'ultimo.

Se non avessi avuto ben presente chi era mio fratello, avrei davvero pensato che non gli importasse. Probabilmente fingeva disinteresse per evitare che i miei sospettassero qualcosa di Evan e di tutti i casini che avevo combinato nei mesi precedenti. 

- Si può sapere dove sei stata? - mi chiese mio padre, chiaramente furioso.

- Ho dormito da Bridgit.

- Non è vero, ho sentito sua madre, ha smentito. - fece mia madre.

<

- Da Jordan.

- Non ci avevi litigato?

- Da Daniel.

- Piantala, Destiny. - papà era rosso di rabbia. 

Ci fu una lunga pausa in cui nessuno osò aprire bocca, un minuto che a me parve un'ora. 

- Eri con quel ragazzo? - la voce di mia madre fu un sussurro, talmente debole che credetti di essermelo immaginato.
Vidi Brian trattenere il respiro, gli occhi sbarrati e l'aria di chi sente di avere sulle spalle il peso del mondo, ma sa di non poterlo più reggere a lungo .

- Cosa? Quale ragazzo? Cos' è questa storia?! - il viso di mio padre da rosso divenne viola, poi blu, poi di una strana sfumatura di nero, ebbi paura che potesse scoppiare da un momento all’altro. 
Mamma continuava a guardare il pavimento, come se ci fosse qualcosa di particolarmente interessante stampato sopra. 
Guardai mio fratello.  Lui scosse leggermente la testa e mi restituì lo sguardo, uno sguardo che diceva "non ne so nulla" e "mi dispiace". 

- I-io... io non so di cosa tu stia parlando, mamma... - era una di quelle situazioni in cui mentire diventa difficile, nessuna scusa sembra plausibile e la voce fatica ad uscire.

- Il nipote di Josephine,  ti ho vista salire in macchina con lui l'altra sera. - aveva ancora gli occhi rivolti al suolo,  la voce sempre appena udibile.

Sentivo di star per vomitare.

- Quel pagliaccio vestito da rockettaro? Quello che hanno bandito da Charlotte? 

- Non lo hanno bandito, papà...

- Quello che è.  - aveva ricominciato a girare in tondo, teneva i pugni serrati, come se si stesse trattenendo dal colpire qualcuno.

- Papà, ti prego, non prendertela con Destiny, lei... - nel frattempo, Brian si era alzato ed si era avvicinato a mio padre, con cautela.

- Sta' zitto, Brian! - lui si girò improvvisamente e lo afferrò per il collo della maglietta. Brian era terrorizzato.
 
- Quel pezzo di merda se la faceva con mia figlia,  proprio qui, sotto il mio naso! Tu lo sapevi, non è vero? Non è vero?!

Lui non rispose, continuava a tenere gli occhi fissi su quello che fino a qualche secondo prima era stato suo padre, ansimava.
Non riuscivo a sopportare quella scena, mi misi tra mio padre e mio fratello e cercai di dividerli.

- No, lui non ne sapeva niente. - affermai. Sapevo che Brian mi stava guardando sbalordito, lo ignorai. 

- Donald, calmati. Lascialo stare! - gridò mia madre. Lui obbedì. Mio fratello crollò sul divano, respirando a fatica. 

- Questa è tutta colpa sua. - sussurrò mio padre mettendosi le mani nei capelli. - I voti, i vestiti, i capelli, l'atteggiamento,  tutta colpa sua.

Altro silenzio. 

- Non voglio che tu lo riveda. - sbottò lui.

Avevo il cuore in gola.  Non avrei mai voluto sentire quelle parole, per questo avevo sempre tenuto segreto quello che c'era tra me ed Evan, perché quando mio padre dava un ordine lo faceva seriamente.

- Papà,  non puoi...

- Ho detto che non voglio che tu riveda quel tizio.

- Ma, non ne hai il diritto! - mi sentivo un'adolescente viziata, una di quelle che di solito sono le protagoniste di qualche insulsa serie di MTV.

- Mettiamola così,  se io ti rivedo in giro con lui, lo ammazzo con le mie mani. È chiaro, Destiny?

- Don... - sussurrò mia madre, ma lui la ignorò.

È chiaro, Destiny? - ripeté mio padre, con tono due volte più brusco, dal momento che non otteneva una risposta.

- Cristallino.  - risposi con voce fredda.

Lui recuperò la giacca e la cravatta, si sistemò i capelli all'indietro, e si avviò verso la porta d'ingresso.

- Dove stai andando? - gli chiesi,  temendo che potesse commettere qualche sciocchezza.

- In Municipio,  ho una faccenda da sbrigare. 

- Ma è sabato mattina. - ribattè mamma.

- Ho detto che ho da fare, ci vediamo stasera... forse. - detto questo, uscì sbattendosi violentemente la porta alle spalle. 

Nessuno disse più una parola. Ce ne stemmo lì,  a fissare il vuoto, per qualche minuto,  dopodiché io mi trascinai, letteralmente, in camera mia.
Crollai sul letto, qualche secondo dopo sentii la porta della camera di Brian chiudersi, poi lo stereo pompò a tutto volume una canzone dei Black Sabbath.
Volevo gridare. Volevo prendere a pugni il muro fino a farmi sanguinare le nocche. Volevo rompere qualunque cosa mi capitasse a tiro. Volevo soffrire, soffrire davvero, in modo da dimenticare il dolore che avevo provato venendo privata dell'unica cosa per me davvero importante.
Perché mia madre aveva fatto una cosa del genere? Perché tradirmi in quel modo? Mi sentivo vuota, mi sentivo ferita,  mi sentivo tradita, ma, più di tutto, mi sentivo viva. Quella folle discussione aveva provocato dentro di me una sorta di esplosione.
Mio padre non voleva più vedermi assieme ad Evan? Allora non mi avrebbe vista.

- Pronto, Bri?

- Destiny, come stai?

- Uno schifo, come ben saprai.

- Mi dispiace per Gladys, tua madre l'ha colta di sorpresa. Ma dov'eri?

- Da Evan, mio padre sa tutto.

- Oh, merda.

-Già,  e se non trovo una soluzione sono fregata alla grande. Ha minacciato di ucciderlo se non smetto di vederlo.

- E tu smetti di vederlo.

- La fai facile. Senti, non è che potrei stare da te per qualche giorno? Solo finché non si calmano le acque.

-Tesoro, so che ieri ti ho detto che ci sarò sempre per te, ma non intendevo dire che sono disponibile ad aiutarti a realizzare il tuo piano contorto per rovinarti la vita. In più, non penso che Gladys sarebbe d’accordo..

- Mi stai scaricando?

- Ti sto aiutando.

- Beh, in questo caso, grazie mille.

- Dai, Desy... Desy?

Attaccai il telefono, senza replicare ulteriormente.
 
Non riuscivo a credere che la mia migliore amica fosse stata capace di negarmi il suo aiuto in una situazione del genere. Sapevo che Evan non le era mai andato a genio, ma sfruttare quell’occasione, convinta per giunta di potermi aiutare… no, non capivo proprio il suo punto di vista.
 
- Bellona! Voglio tutte le novità, mi annoio a morte. – dovetti allontanarmi dal cellulare per evitare che la sua voce squillante mi perforasse i timpani.
 
- Ehi, Mare…
 
- Wooo che problema c’è? – a quanto pare, a giudicare dalla voce, ero palesemente sconvolta.
 
- Da dove posso cominciare? Vediamo… il compito di ieri è andato di merda, Christian insiste per vedermi, ho ceduto alla frustrazione e ho passato la notte a casa di Evan, i miei l’hanno scoperto, mio padre ha sclerato e mi ha vietato di vederlo fino al resto dei miei giorni, o almeno dei suoi, e, come se non bastasse, Bridgit ha appena rifiutato di aiutarmi.
 
- Ochetta stronza… Frena un attimo! TU HAI PASSATO LA NOTTE DA EVAN?! Dal nostro Evan? Sexy Evan? Quell’Evan? Ho capito bene?
 
- Hai capito bene.
 
- Vuol dire che voi due…?
 
- Già…
 
- Voi avete…?
 
- Esatto…
 
- OH.MIO.DIO.
 
- Mare…
 
- Dopo quello che ti ha fatto? Dopo tutto quello che quel bastardo ti ha detto?! Ragazza mia, ma a cosa pensavi?
 
- Marianne, per favore.
 
- Okay, okay, scusa. – fece un profondo respiro, di circa due/tre minuti. – D’accordo, ti ascolto.
 
- Volevo chiederti, dato che la situazione a casa ora come ora non è più sostenibile, se posso stare da te per qualche giorno.
 
- Certamente! Hai chiamato proprio al momento giusto, i miei sono fuori città per due settimane e io sono sommersa da un cumulo di noiosa, anzi noiosissima, noia noiosa. Mi farebbe proprio comodo un’amica.
 
- Grazie mille, non sai che favore mi stai facendo.
 
- Solo, non capisco come mai vuoi evadere, Evan non puoi vederlo comunque.
 
Pensavo che una persona come Marianne mi avrebbe capita al volo, ma probabilmente stentava a credere che una come me volesse infrangere, oltre alle regole della scuola, anche quelle di casa propria.
 
- Il fatto è che… ecco… non voglio smettere di vederlo.
 
- Vuoi proprio rimanere scottata eh?
 
- Se non sai tu la risposta, non so a chi altro rivolgermi.
 
- E’ davvero curioso…
 
- Cosa? – chiesi.
 
- Che una ragazza già bruciata in passato ami il fuoco.
 
 
- D’accordo, ti aspetto, passa quando vuoi. – aggiunse dopo una lunga pausa.
 
- Grazie, Mare.
 
E misi giù.
 
- Allora, te ne vai davvero? – la testa di Brian sbucò da dietro la porta socchiusa.
 
- Bussare non ti piace proprio, eh?! – strillai in preda al panico, lui scosse la testa.
 
- Proprio così. – dissi secca io.
 
- E mi lasceresti con quei due? – indicò il piano di sotto.
 
- Sai che normalmente non lo farei, Brian, ma questa è una situazione… particolare.
 
- Perché c’è di mezzo Evan…
 
Annuii .
 
- Dove pensi di andare?
 
- Da Marianne.
 
Il viso di mio fratello si illuminò, gli occhi brillarono e le guance si colorarono leggermente.
 
- Ah sì?
 
- Vacci piano, ragazzino, conosco quello sguardo! Mare sarà anche un bel tipo, ma è pericolosa.
 
Lui si avvicinò a me e mi mise una mano sulla spalla.
 
- Senza offesa, ma non credo che tu possa dire qualcosa a riguardo. – mi disse sorridendo.
 
- Come vuoi, sta’ attento però. – e lo abbracciai.

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Brian rimase nella mia stanza finchè non ebbi finito di riempire il mio borsone da viaggio. Sono quel tipo di ragazza per cui viaggiare è una tragedia, perché non riesce a separarsi da nessuno dei suoi capi di vestiario, quindi dovetti fare i salti mortali, oltre a servirmi dei muscoli di Brian, per chiudere la sacca.
 
- Non farti troppe canne mentre sei via. – mi ammonì mio fratello.

- Per chi mi hai presa, scusa?

- Ehi, l’hai detto tu che Marianne è pericolosa! – si stampò in faccia un sorrisetto beffardo.

Sollevai a fatica il borsone e mi avviai lentamente verso le scale.

- Vuoi una mano con quella? – mi chiese indicando il mio bagaglio.

- No, grazie, faccio da sola.

- Non posso credere che tu te ne vada. – aveva un’espressione abbattuta, quasi delusa.

- Non sarà per molto, te lo assicuro. – vedendo che non replicava, aggiunsi – Ti voglio bene, piccolo.

- Sei intelligente, Desy, non farti fregare. – mi disse dandomi un ultimo abbraccio, prima di lasciarmi andare.

- Che stai facendo? – non appena mia madre mi vide varcare la porta dì ingresso, di corsa e con quel borsone issato sulla spalla, si alzò di scatto dal divano, si asciugò le lacrime, che aveva evidentemente versato dopo la discussione di poco prima, e mi corse dietro con aria angosciata.

- Vado da un’amica per qualche giorno.

- Ma… perché ? – mi prese per un polso e mi implorò con lo sguardo di cambiare idea.

- Voglio starmene un po’ tranquilla.

- Destiny, ti prego, non ce n’è bisogno. Possiamo…

 
- Di’ a quel despota che ti sei scelta come consorte che ha vinto. – furono le ultime parole che pronunciai prima di andarmene.

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Mi sentivo troppo in colpa per prendere l’auto di mia madre: la sua figlioletta perfetta aveva rinunciato alla perfezione e se n’era appena andata di casa, sarebbe stato troppo farle sparire anche la macchina. O almeno, io la vedevo così.
Chiesi ad Evan di accompagnarmi.

Lo vidi scendere in fretta e furia gli scalini di fronte a casa. Indossava un paio di jeans e una maglia nera a maniche lunghe. Sprigionava la bellezza delle cose semplici, aveva un’espressione serena e pacifica, come se avesse dormito una settimana.

- Dove te ne vai, fuggitiva?

- Da Marianne, conosci la strada?

- Ooh sì. – il suo tono era allusivo, mi scoccò un’occhiata veloce, che colsi al volo.

- Idiota.

Lui rise. Dio, se era bello.

- E posso chiederti il motivo di questa tua decisione?

- I miei ci hanno beccati.

- Ahia.

- E mio padre ha minacciato di ucciderti se ci rivede “pomiciare sotto il suo naso”. E, dato che il tuo bel viso mi piace da morire, ho pensato di tenerci il più lontano possibile dai suoi occhietti accusatori.

- Proprio il romanticismo vecchio stile che ci piace tanto…

- Lo so, ma che dovevo fare?

- Non ti sto giudicando, Des, mi piace che tu sia pronta a rischiare tutto per me, è… eccitante. – sorrise e mi accarezzò il ginocchio.

Ridacchiai.

Evan mi lasciò proprio di fronte a casa di Marianne, una semplice casetta bianca dal tetto spiovente in mattoni scuri, dava l’impressione di essere ordinata anche all’interno.

Quando lei mi aprì la porta, un qualcosa di enorme mi cadde addosso. Impiegai un attimo per rendermi conto che era un cane, messo per lungo era alto quasi quanto me.

- Aww le stai già simpatica.

- Toglimelo di dosso! – non ho mai avuto un bel rapporto con i cani. A guardarli sono carini, ma quando si tratta di interagirci sono a dir poco pessima, troppo affettuosi.

- Dai, dalle affetto, lei lo sta facendo! – Marianne si chinò ad accarezzare la bestia. Ad un primo sguardo mi sembrò un incrocio tra un pastore tedesco e qualche altra razza di cui non sapevo pronunciare il nome.

- Brava, Amica! Sì, sei proprio una brava cagnolona.

Mi rialzai da terra e mi scrollai di dosso i peli di cane che avevano cosparso il mio maglione.

- Sai, sono più un tipo da gatto.

- Oh, anche io. – rispose con noncuranza.

- Ma… fino a prova contraria, quello è un cane.

- Non riuscivo a decidermi, quindi quando mamma e papà mi hanno chiesto se volevo un cane o un gatto ho tirato la monetina.

Mi girava la testa.

Non appena ritornai in me, mi accorsi che l’interno della casa era davvero ordinato come avevo immaginato: spazioso, dal design moderno e minimalista, mobili di legno scuro, divani e poltrone in pelle nera, pareti candide e fiori e piante da tutte le parti, qua e là giaceva mutilato qualche giocattolo di Amica.

- Vieni, ti mostro la mia camera! – mi prese per mano e mi trascinò al piano di sopra, correndo attraverso tutto il corridoio, fino ad una stanzetta con le pareti dipinte di giallo: su ogni muro erano appese riproduzioni delle opere di Klimt; al centro della stanza sorgeva un letto a una piazza e mezza, coperto da un piumino a fantasia etnica e sovrastato da cuscini di ogni colore possibile e immaginabile; la libreria era strapiena di libri, per lo più di Palahniuk; alzando gli occhi sul soffitto, mi accorsi che era cosparso di macchie di vernice, al centro stava un lampadario fatto di cristalli di varia forma, che rifletteva la luce e proiettava arcobaleni su tutte le pareti.

- Wow, è così…

- Me? – chiese lei ridacchiando.

- Già.

- Tu puoi dormire nella stanza dei miei se vuoi, oppure ti sistemo una brandina qui. Ma sì, vada per la brandina, ti voglio il più possibile vicina a me! – sentenziò con un gran sorriso.

Marianne si avvicinò alla finestra, scostò la tenda e rimase a guardare la strada, mi avvicinai.

Evan era ancora là sotto, se ne stava seduto sul cofano della sua Mustang e fumava una sigaretta. Ad un tratto alzò lo sguardo e ci fece un cenno.

- Allora… com’è? – mi chiese Marianne richiudendo la tenda.

- Come se tu non lo sapessi.

- Non sto parlando del sesso, ma dell’essere innamorati.

- Cosa? Io non sono… - non sono innamorata.

Lei sembrò ignorare la mia risposta e si gettò sul letto, facendo volare i cuscini.

- Voglio una canna.

Sospirai alzando gli occhi al cielo.

Mi guardavo attorno, esaminando ogni oggetto presente in quella stanza, al suo interno regnava una sorta di caos ordinato, tutto era stranamente al suo posto.

All’improvviso Marianne fece un balzo e si alzò dal letto.

- LO SO! – gridò.

- Cosa?! – gridai a mia volta.

- So dove procurarmi dell’erba. – lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. – Andiamo, su! – e si mise a correre.

- Ma… sono appena arrivata.

- Avrai tempo per ambientarti più tardi.

Mentre uscivamo, il cane ci corse dietro, ululando senza sosta.

- Amica, a cuccia! Brava la mia puttana. – Marianne le diede un bacio sul muso.

- Scappi di già? Marianne ti ha terrorizzato in fretta. – disse Evan vedendoci uscire di casa.

Mare gli prese il mento tra due dita e avvicinò il viso al suo, per un attimo ebbi il presentimento che volesse baciarlo.

- Mmh, caro il mio coglione, se non fossi così dannatamente sexy ti avrei già preso a calci in culo.

- Ah, aggressiva, mi piace. – la assecondò lui. Mi sentivo il terzo in comodo, di nuovo.

Lei lo lasciò con uno scatto del polso, facendolo voltare. Lui sogghignò e si aggiustò i capelli.

- Dove andate di bello?

- Da Clark’s . – rispose Mare, armeggiando con le chiavi della macchina.

- Vi accompagno, sono giusto a corto… se capisci che intendo.  Saltate su.

 Marianne mi lanciò un’occhiata, poi si rivolse a lui – Non mi sembra una buona idea.

- No, va bene. – intervenni io, per la prima volta da quando avevamo messo piede fuori di casa.

Marianne esitò un attimo, poi salì sulla macchina, io la seguii.

- Dove stiamo andando di preciso? – chiesi.

- Clark’s, è un bar della zona, il proprietario è famoso per le sue scorte di erba, non lo trovi mai sfornito, e poi a noi della cricca fa sempre un ottimo prezzo. – rispose Evan.

Marianne se ne stava in un angolino del sedile posteriore a braccia incrociate, con aria contrariata.

Il tragitto non era lungo, arrivammo all’incirca dopo cinque minuti. Evan accostò di fronte ad un localino molto suggestivo: costruito completamente in legno scuro, l’insegna era di un verde brillante e l’ingresso era dominato da rampicanti che sbocciavano in splendidi fiori sui toni del viola, all’interno le luci gialle soffuse creavano un’atmosfera accogliente.
Non appena entrammo, il ragazzo che stava al bancone ci fece un cenno, sorridendo.

- Guarda chi si vede! Datemi un attimo e sono da voi, ragazzi. – disse. Era molto bello, non una bellezza classica, un diamante grezzo piuttosto. A prima vista mi ricordò Bryce, il che mi fece rabbrividire leggermente: era alto e biondissimo, portava i capelli a spazzola,alla Billy Idol, pelle chiara e sorriso ammaliatore, indossava una camicia scozzese a maniche corte e dei jeans strappati.
Ad un tratto mi resi conto che l’avevo già incontrato prima di allora, la prima volta alla fabbrica e poi proprio al drive in, era seduto accanto a Christian.

- Chi è quello? – chiesi a Marianne.

- Quello è Clark.

- E il bar è suo?

- Tecnicamente è dei suoi, ma quando ha compiuto diciotto anni gli ha chiesto se poteva “ereditarlo”, e così ha cambiato il nome in Clark’s e l’ha preso in custodia.

- L’ho già visto prima… alla fabbrica.

- Che occhio, Desy, brava! Sai, ho sempre avuto una cotta clamorosa per lui, gli sono andata dietro per anni. – era sovrappensiero. – E avrei anche avuto qualche chance, se non fosse che…

- Che… cosa? – le chiesi in preda alla curiosità.

- Che è gay.

- Che? Davvero?

- Già… gran bello spreco, eh?

Mentre parlavamo, Clark si avvicinò a noi. Salutò prima Evan, poi Marianne, che sembrava portargli rancore, come se l’essere gay fosse colpa sua, poi si concentrò su di me.

- E così ci rivediamo, capelli rosa. – avendolo così vicino, riuscivo a notare i minimi particolari del suo aspetto. Era tanto alto che mi sovrastava, e i lineamenti marcati, gli zigomi spigolosi, ricordavano quelli di un folletto; portava un cerchietto spesso d’argento al lobo sinistro , e i suoi occhi erano due smeraldi, come quelli di Evan, ma forse ancora più verdi.

- Vi conoscete? – chiese Evan sorpreso. Io scoccai un’occhiata al folletto e lui annuii impercettibilmente.

- Di vista.

- Destiny. – tesi la mano a Clark.

- Clark. – rispose lui stringendola. – Vi serve qualcosa suppongo. – aggiunse facendo scorrere lo sguardo sugli altri due.

- Ti è rimasto niente? – gli chiese Marianne.

- Io ho tutto e basta. Scusate un attimo. – si allontanò e raggiunse un altro ragazzo, alto e bruno.

Mi sentii mancare.

Presi Mare per un braccio e le sussurrai all’orecchio. – Ma quello è Christian?

- Sono amiconi quei due, si direbbe quasi che Clark gli faccia il filo. – rispose lei con un sorrisetto.

Ridevano e scherzavano, mentre io mi voltavo e vedevo Evan in preda ad un eccesso di testosterone. Aveva gli occhi in fiamme.

Clark tornò.

- Perdonatemi, vogliate seguirmi, prego.

Si fece precedere dai due e poi mi bloccò con una mano. – No. Tu stai qui, sei pura.

- E tu che ne sai? – dissi bruscamente.

- Emani purezza. MONICA, UN CAFFè PER CIUFFO ROSA! – gridò ad una ragazza bruna, molto sexy e tutta curve, che aveva preso il suo posto al bancone, lei annuì e si diresse alla macchinetta del caffè, ondeggiando a ritmo di musica.

 
Quando mi voltai, i tre erano già spariti.

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Cercai di far finta di niente, mi avvicinai al bancone e ritirai il mio caffè. Andai a sedermi ad un tavolino, mentre aspettavo che i miei amici facessero ritorno.

Quasi sputai l’intero contenuto del mio bicchiere quando qualcuno si sedette di fronte a me.

- Si direbbe che mi stai seguendo. – disse Christian con un sorriso.

- Che fai qui?

- Passo ogni mattina, io e Clark siamo buoni amici, cosa ci fai tu qui?

- Ho accompagnato Marianne ed Evan.

Vidi la sua mascella irrigidirsi di colpo.

- Ah, c’è… Evan. – disse a denti stretti.

Come si permetteva di farmi scenate di gelosia? Lui non era nessuno per me, non ero tenuta a dargli spiegazioni.

- Sì, Christian, c’è anche Evan. E sai perché? Perché noi due stiamo insieme, e davvero non capisco il motivo del tuo starmi continuamente addosso, cosa vuoi da me?! – feci sbattere la mano sul tavolo, il caffè traboccò leggermente.

- Voglio proteggerti! – gridò lui. Poi, accorgendosi che alcuni lo guardavano, si schiarì la voce e moderò il tono. – Ascolta… ci sono cose che lui non ti ha detto, e che a quanto pare nessuno ti ha fatto sapere, e io non voglio che tu passi dei guai per colpa sua.

- Non mi interessa, io lo… - non riuscii ad andare avanti, come era accaduto molte, anzi tutte le volte prima di allora.

- Vedi? Non riesci neanche a dire che lo ami, mentre lui te lo avrà detto innumerevoli volte, non è vero?

- Non sono fatti tuoi! – avrei voluto alzarmi e girare i tacchi, ma c’era qualcosa che mi tratteneva, qualcosa di lui che, nonostante tutto, mi inteneriva. Volevo ascoltare quello che aveva da dire, ma non pensavo che ne sarei stata in grado.

- Forse hai ragione, forse non sono fatti miei, ma dal primo momento che ti ho vista, alla fabbrica, ho pensato “ma che ci fa lei con quello?” . Poi c’è stata quella festa… - si interruppe, come se non riuscisse più a parlare. – Ho avuto paura che l’avesse fatto di nuovo…

- Fatto cosa? Di chi stai parlando? – non capivo più niente.

- Destiny, non voglio che pensi che per te io provi solo compassione. – allungò una mano per prendere la mia, lo lasciai fare, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi, che in quel preciso momento ricordavano il cielo durante una tempesta. – Tu per me non sei un cucciolo smarrito, okay? Penso solo… che meriti molto di più.

- Che volevi dire prima con “che l’avesse fatto di nuovo”? – chiesi cercando di evitare l’argomento sentimenti. Ritirai la mano.

Lui parve scosso dalla mia domanda, probabilmente si era già pentito di aver introdotto quel discorso.

- Conosci il motivo per cui è stato spedito qui?

Non sapevo se potessi spifferare i segreti del mio ragazzo al primo belloccio che me lo chiedeva, ma la voce era già stata messa in giro prima che lo sapessi io, quindi corsi il rischio.

- E’ andato a letto con un’insegnante. – risposi con noncuranza.

Lui parve perplesso.

- E per questo l’hanno cacciato da quella scuola.

- Vuoi dire che c’è dell’altro?

- Non ti fanno trasferire in un’altra città per aver fornicato con la tua prof.

- Cos’è successo a Charlotte, Christian? – ero davvero in ansia.

- Chiamami. – bisbigliò mentre si alzava.

- Come?

Vidi Evan e Marianne avvicinarsi.

Christian ed Evan di scontrarono a metà strada tra il mio tavolo e la porta, spalla contro spalla, verde e azzurro, la tensione era palpabile.
Mare sgranò gli occhi e corse a sedersi accanto a me.
Christian era leggermente più alto di Evan, continuò a guardarlo dall’alto in basso, un misto di rabbia e disgusto, poi distolse lo sguardo e uscì a grandi passi dal locale.

- Che cavolo è successo? – mi chiese Mare a denti stretti.

Evan si lasciò cadere sulla sedia e lanciò un’occhiata furiosa alla porta.

- Coglione. – mormorò.

Io me ne stetti in silenzio, non aprii bocca finchè non decidemmo di andarcene.

- Ci vediamo, belli. – ci salutò Clark con un sorriso.

Mi fermai un attimo a guardarlo, mentre Evan e Marianne si dirigevano verso la macchina. Lui parve accorgersene.

- Ehi, ciuffo rosa.

- Ho un nome.

- Certo, lo so. – continuava a sorridere.

- Okay, ti saluto. – dissi, girando i tacchi infastidita.

- Senti… - mi voltai. – Evan sarà anche selvaggio e bellissimo – disse agitando le mani in modo drammatico. - ma Christian non si merita di soffrire ancora.

Ma perché tutti gli sconosciuti continuavano a rimproverarmi?

- Ancora? Se ti riferisci a quello che è successo al drive in, io…

- Sai a cosa mi riferisco. – mi guardò dritto negli occhi.

- Veramente no...

– Non mi piacciono i bugiardi.

Detto questo, sparì tra la folla.

 
Ne avevo abbastanza della gente criptica.
 
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Continuavo a pensare a Christian, e ad Evan, e al mistero di Charlotte.
Non volevo chiamarlo, non ero pronta a sentire di nuovo la sua voce, io… io non riuscivo a ragionare quando sentivo la sua voce.

- Mare, tu sai qualcosa sul perché Evan è stato mandato qui? Voglio dire, oltre a quello che è successo quando era al liceo.

- Mhh…

Dopo una canna e mezza, Marianne era completamente fuori uso. Se ne stava sdraiata sul letto, in posizione da stella marina, gli occhi semiaperti e un sorriso da ebete.

- Mare? – cercai di rianimarla. Niente.

Quando cominciò a russare ebbi la certezza che non avrei avuto nessun’informazione utile da lei, quindi scesi sul vialetto, cercando in ogni modo di evitare Amica, e telefonai a Christian.

Rispose immediatamente, come se stesse aspettando da ore col cellulare in mano che lo chiamassi.

- Ciao.

- Ciao. – dissi io.

Ci fu un attimo di silenzio.

- Possiamo vederci? – chiesi.

Ebbi come l’impressione di poter percepire il suo sorriso attraverso il telefono.

- Non aspettavo altro.
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Era primo pomeriggio, una bella giornata, decidemmo di incontrarci in un piccolo parco non molto lontano da casa mia, fu facile raggiungerlo a piedi.

Quando arrivai, Christian era già seduto su una panchina, all’ombra di un salice quasi interamente spoglio,  teneva un libro tra le mani.

- Che leggi? – gli chiesi indicando il libro. Lui alzò lo sguardo e sorrise leggermente.

- Oh, ehm… è Fitzgerad. – rispose, mostrandomi la copertina.

- Il buon vecchio Scott. Uhh, Belli e Dannati!

- L’hai letto?

- Se l’ho letto? Io venero quell’uomo!

Gli brillavano gli occhi, e penso che brillassero anche a me, dopotutto non capita tutti i giorni di incontrare un ragazzo a cui piace Scott Fitzgerald.

- Cavolo, mi piaci sempre di più.

Ricambiai il suo sorriso. Davvero un bel sorriso.

E’ strano, ma, in quel momento, mi venne una voglia incredibile di baciarlo.

Mi schiarii la voce e mi preparai a sputare il rospo, rimandare ancora non sarebbe servito a niente.

- Possiamo finire la conversazione di prima?

- Certo. E’ solo che… non mi capita spesso di parlare con te con questa facilità, stavo temporeggiando.

Provai una profonda pena nei suoi confronti. Diceva che non mi considerava un cucciolo smarrito, ma lui, per me, era esattamente quello.

- Cos’è successo a Charlotte? – stronza che sono.

Vidi la luce nei suoi occhi spegnersi gradualmente. Sembrava si stesse trattenendo, mi aspettavo che si alzasse, si scusasse per avermi illusa, e tornasse da dov’era venuto.

- Non credo di volerlo davvero fare, forse dovresti chiederlo al diretto interessato…

- Avrei chiamato te se avessi avuto quest’opzione?

Rise.

- Smettila. – dissi.

- Di fare cosa?

- Di sorridere in quel modo. – non era il sorriso sexy di Evan, era un sorriso da bambino, il sorriso più bello del mondo.

- In quale modo? – non cambiò espressione.

- Piantala! Mi… mi deconcentri. – la mia affermazione parve sorprenderlo.

- Ah sì? – si avvicinò leggermente, sempre con quel sorriso stampata in faccia.

- Basta, Chris! – dissi ridendo. Lui si zittì immediatamente, assumendo un’espressione seria.

- Chris. – mormorò. - Ieri, al telefono, mi hai chiamato Chris.

- Sì, è stato un impulso, non l’ho fatto apposta, insomma, il tuo nome è piuttosto lungo e ho pensato che un nomignolo… - risposi in fretta, in preda al nervosismo.

- Fammi finire, ti prego.– mi interruppe lui. – Tu… tu mi hai chiamato Chris, e io… io non ho capito più niente.

- Oh, Christian. – non era quello che volevo, non volevo spezzargli il cuore.

- Lo so, lo so… non avrei dovuto parlare. Allora… dovrei dirti quello che ti interessa davvero.

- Tu mi interessi.

- Parliamone in un altro momento, ti va?

Annuii, anche se non mi tranquillizzava affatto il dover rimandare un discorso del genere. Non volevo spezzargli il cuore, ma mantenere il suo intatto avrebbe significato strappare il mio a metà.

- Evan aveva una ragazza. – disse dopo una lunga pausa.

- Non mi sembra un gran che come segreto. Okay, potrei essere un po’ gelosa, ma glielo concedo.

- Destiny.

- Oh, scusa. – mi zittii.

- Lei era… fantastica. Era bella, era intelligente, era sveglia,  era divertente, carismatica, quando rideva… quando rideva tutto il mondo, anzi, tutto l’universo rideva.  – parlava non come se quello fosse solo un pettegolezzo, ma come se avesse vissuto quell’esperienza in prima persona. – Si conobbero al college, lei studiava Legge, e lui a malapena si presentava alle lezioni di Filosofia. Quando Evan la guardava, lei sembrava dimenticare qualunque altra cosa, ma tu questo lo saprai già. – arrossii. –Era diventata completamente dipendente da lui, quando lui non c’era, lei moriva dentro, quando lui  stava male, lei stava male, sembrava non avere più il controllo di sé stessa. Evan non sembrava capire quanto lei fosse fragile, continuava ad agire d’impulso e a vivere la propria vita spericolata come se lei fosse solo una spettatrice, mentre ci si trovava esattamente nel mezzo. – prese fiato per un attimo, poi riprese a parlare. – Un giorno lui la portò ad una festa. Sembravano divertirsi, non si staccarono l’uno dall’altra per tutta la sera. Le aveva detto che l’amava, lei era su di giri. Evan lasciò il locale presto, nessuno lo vide uscire con la ragazza, lui evitò di rispondere a chi gli chiedeva dove fosse lei, e se ne andò. A fine serata, la trovarono in bagno, stesa per terra, morta per una reazione scatenata dall’aver inghiottito una pasticca di ecstasy. – strinse i pugni, tanto forte che le nocche sbiancarono.

Non riuscivo a parlare, stavo ancora elaborando quello che Christian mi aveva appena confidato.
Era come se nella mia testa si fosse creata una coltre di fumo, così fitta che i pensieri non riuscivano a separarsene, non riuscivo a pensare chiaramente.
Evan non mi aveva mai parlato del suo passato, neanche un accenno a quale facoltà frequentasse, o ai suoi amici di allora, per quanto ne sapevo, la sua vita a Charlotte non era mai esistita.

- Come… - riuscii a dire dopo qualche minuto. – Come fai a conoscere tutti questi particolari? Sembra quasi che tu abbia assistito a tutto questo.

Christian fissò il vuoto e fece un lungo respiro, era evidente che raccontare quella storia l’aveva sconvolto.

- Li conosco perché anche io sono di Charlotte. – scandì ogni parola alla perfezione, come se volesse essere certo di pronunciarle correttamente. – Li conosco… li conosco perché lei era la mia migliore amica.

Le mie labbra si schiusero e un sospiro di sorpresa ne fuoriuscì. Avevo sempre pensato che fosse strano il fatto che Christian sembrasse provare del risentimento nei confronti di Evan, avevo pensato che forse avevano avuto dei trascorsi, ma non avrei mai potuto immaginare niente di simile.  Evan trattava Christian con una tale indifferenza… ma d’altronde Evan non era certo il tipo che affrontava le situazioni complicate di petto.

- Perché anche tu sei venuto qui?

Dalle sue labbra scaturì una risata amara.

- Volevo fare l’eroe. Volevo evitare che lo rifacesse, che qualcun altro pagasse per i suoi peccati.

- Ma Evan… insomma, lui non l’ha…

Christian mi interruppe prima che riuscissi a terminare la frase.

- Evan se n’è andato strafatto da quella festa, e qualche ora dopo lei era morta per colpa della droga. Per me è stato lui ad ucciderla, e poi l’ha lasciata lì.

Non sapevo se fossi sul punto di vomitare o di scoppiare a piangere.

- E quando mi hai vista, alla fabbrica, ti ho ricordato lei. – dissi quasi tra me e me.

Questo spiegava anche perché ogni persona che incontravo e che aveva in qualche modo a che fare con Evan finiva per mettermi in guardia da lui.

- Quando ti ho incontrata, Destiny, io l’ho rivista in te. Prima di innamorarmi di te, io vedevo solo Rachel.

Rachel.

Ricapitolando… Evan aveva probabilmente causato la morte della sua ex ragazza, nonché ex migliore amica di Christian, che quindi conosceva Evan da un bel po’ di tempo, e che mi aveva appena confessato di essere innamorato di me. Erano troppe rivelazioni per un pomeriggio.

- Mi dispiace tanto, Christian. – fu la sola cosa che riuscii a dire.

Quella frase non mi era mai piaciuta, non mi era mai sembrata di conforto. Perché dire che ci dispiace per qualcosa di cui non abbiamo nessuna colpa? Sarebbe stato più giusto dire “condivido il tuo dolore”, ma, in effetti, neanche questo sarebbe stato molto appropriato. Non avevo la minima idea di quello che Christian stava provando, quindi come avrei potuto condividere un dolore che non comprendevo? In quel momento, “mi dispiace” mi parve la cosa meno sbagliata da dire.

Lui si dipinse in faccia un sorriso malinconico e si passò una mano sulla fronte, scostandosi i capelli che gli erano ricaduti sugli occhi.

- Non preoccuparti, ormai ho imparato a fare i conti col dolore.

Lo guardai con attenzione: era pallido, sembrava dimagrito, non l’avevo mai visto così turbato.
Posai una mano sulla sua. Misi per un attimo da parte il mio dolore e la mia frustrazione e mi concentrai sulla sua.
Ma lui ritrasse la mano da sotto la mia.

- Voglio solo che mi prometti una cosa.

- Cosa? – chiesi.

- Voglio che tu stia attenta. A quanto mi dici, Evan con te è diverso e voglio crederti…

- Lo è. – dissi, ma lui continuò come se non avessi aperto bocca.

- So che ti ha detto che ti ama, ma… stai attenta okay? Evan è così, continuerà a sfoderare tutto il suo fascino finchè non raggiungerà il suo scopo.

- E quale sarebbe il suo scopo? – il mio tono era tagliente.

- Quando ti farà pressioni per portarti a letto, e fidati, lo farà, pensaci due volte. –rimasi senza fiato. – Sei una ragazza intelligente, sono sicuro che non faresti un passo del genere senza rifletterci, ma … ricordati quello che ti raccontato, fallo per Rachel.

- Christian… - la voce mi morì in gola.

Dovevo dirglielo? Non potevo mentirgli, non potevo nascondergli quello che avevo fatto. Ma come avrei fatto a dire quelle parole?

- Che c’è? – aveva di nuovo quell’espressione ingenua, sarei riuscita a distruggere la sua purezza? Sarei riuscita a sopportare che l’intera immagine che aveva di me venisse completamente modificata? – Cos’è quella faccia?

- Christian, io ho… - non ce la feci. – No, niente.

- Ehi, qualunque cosa sia, non ti giudicherò. – i suoi occhi indagavano, mi scavavano dentro.

Sentivo gli occhi bruciarmi, le lacrime erano sul punto di rigarmi le guance.

- Io e Evan…

Vidi l’espressione di Christian passare dalla curiosità alla sorpresa, e infine alla più completa incredulità.

- No.

- Christian…

- Non l’hai fatto, mi stai prendendo in giro.

- Christian, io…

- Mio Dio, come ho potuto credere così tanto in te?!

- Christian, ti prego! – stavo piangendo.

Lui si alzò di scatto e fece per andarsene, poi si voltò di nuovo verso di me.

- Mi dispiace.

- Per cosa?

- Per aver fallito anche con te. – poi se ne andò.

Rimasi a guardarlo, finchè non riuscii più a distinguere la sua figura dai rami curvi degli alberi.

- Merda! – gridai a denti stretti tirando un calcio alla panchina.

- Tutto apposto, signorina? – mi chiese un vecchietto dalla schiena ricurva. Aveva un’espressione gentile, gli occhi dolcissimi, dei baffi candidi e indossava un cappotto di velluto a coste marrone e una coppola a quadri.

- No, non è tutto apposto. Ho appena ferito un ragazzo adorabile, il mio attuale ragazzo è uno stronzo, non so più di chi fidarmi, ho realizzato di essermi rovinata l’esistenza per uno stupido capriccio, a questo punto sono diventata quello che nessuno vorrebbe mai avere nella propria vita, e per giunta credo di essermi appena rotta un piede, quindi no, niente va bene, l’adolescenza fa schifo! – gli rovesciai quella valanga di problemi addosso senza mai prendere fiato e me lo lasciai alle spalle, con la sua espressione comprensiva, mentre mi allontanavo zoppicando, come avrei fatto a tornare a casa a piedi in quelle condizioni?

- Ehm, signorina? – mi richiamò l’ometto.

- Che c'è?! – chiesi esasperata.

- Non so se potrà farla stare meglio, ma io sarei felice di avere una ragazza come lei come nipote. – disse con un sorriso che mi fece sciogliere il cuore.

- Grazie. – risposi mentre una lacrima mi scendeva lentamente sulla guancia.
 

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