In her shoes di HappyCloud (/viewuser.php?uid=114634)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
ADL
In Her Shoes.
Capitolo I.
La sua città le era
sempre piaciuta.
A qualsiasi ora del giorno e della notte, ai suoi occhi, Verona
conservava quell'aura magica e romantica che Shakespeare e il suo Romeo
Montecchi avevano contribuito a farle apprezzare; l'Arena, piazza delle
Erbe, palazzo Barbieri e il Castelvecchio erano solo alcuni dei luoghi
che Cecilia non si sarebbe mai stancata di ammirare, con lo sguardo
emozionato ed entusiasta di una bambina che osserva il mondo per la
prima volta.
Il suo posto preferito era la Casa di Giulietta, un palazzo medievale
ormai completamente ristrutturato, con un cortile sempre colmo di
turisti, giunti per rispettare la tradizione nel profano gesto di
toccare un seno alla statua dell'eroina. Ci avrebbe perso delle
giornate a sbirciare i biglietti lasciati dai giovani innamorati
nell'antro dell'edificio, talvolta per ridere delle frivolezze di
cervelli lasciati troppo a macerare nel brodo dell'amore, talvolta per
trovarsi a desiderarle, quelle sciocchezze.
La verità era che Cecilia non voleva saperne di relazioni;
quando l'unico modello di riferimento che hai sono due genitori
divorziati da anni che si odiano e che non fanno nulla per venirsi
incontro, non è facile immaginare cosa significhi avere un
rapporto serio e duraturo con qualcuno, basato su affetto e rispetto.
Se fosse cresciuta in una famiglia come quelle delle
pubblicità, dove la cosa più brutta che possa
capitare è macchiare la tovaglia con del succo d'arancia, le
cose sarebbero state diverse, e lei non si sarebbe trovata a fuggire
ogni contatto umano come si fa con la peste. Ecco, allora sarebbe
più corretto dire che lei non è che non volesse
saperne di relazioni; semplicemente, non sapeva nemmeno cosa fossero.
Dalla poca esperienza che derivava
dai suoi ventun anni, l'unica certezza che possedeva era che sarebbe
vissuta dei suoi scritti e della sua fantasia, a costo di finire a
vivere come una bohémienne in un quartiere malfamato di
Parigi, innamorata di un ballerino di can-can malato di tisi.
D'accordo, lei non era Satine e quella non era e mai sarebbe stata la
sua storia, però Cecilia aveva anche quello da imparare:
accantonare per qualche volta la finzione, fedele e al tempo stesso
illusoria compagnia, perché quella racconta, sì,
tante avventure e tante vite diverse, ma mai la propria.
La passione per la letteratura era
un'eredità di suo padre, insieme ai sottili capelli mossi
castano chiaro e gli occhi azzurro cielo. Della madre poteva vantare
solo il metro e settanta di altezza e la spruzzata di lentiggini che le
ravvivavano il viso dal colorito rosato. La scarsa pazienza e
l'acredine delle battute sarcastiche che non raramente si concedeva
erano, invece, lignaggio della matrigna, Maria Carolina, una trentenne
convinta di saperne molto più di chiunque altro della vita.
Nonostante Cecilia non avesse fatto nulla per innescarla, una cerca
tensione si era creata tra le donne di papà Ferdinando,
dovuta più che altro ad un bisogno di accaparrarsi quante
più attenzioni e regali possibili.
C'era stato un periodo in particolare di cui Cecilia non andava fiera:
il periodo nel quale aveva ceduto alla tentazione di sfruttare i sensi
di colpa di suo padre per circondarsi di cose inutili, a colmare il
vuoto lasciato dall'assenza di entrambi i genitori. Si era fermata solo
quando aveva capito che Ferdinando non avrebbe avuto il coraggio di
farlo, il giorno in cui si era presentato da lei e le aveva comunicato
di aver già contattato l'agenzia di viaggi per sapere se era
possibile fare un'escursione al Polo Sud per vedere i pinguini,
così come richiesto per scherzo da lei. Quella volta,
Cecilia aveva capito tre cose di lui: era davvero molto ricco, aveva un
pessimo senso dell'umorismo ed era disposto a fare carte false pur di
comprarsi l'affetto della figlia. Da quel momento, lei aveva deciso che
non gli avrebbe chiesto mai più soldi che non fossero per i
libri o la retta dell'università, perché era
davvero troppo avvilente avere un rapporto del genere con colui che
aveva contribuito a metterla al mondo.
Era qualcosa che non la faceva
dormire di notte e ci stava pensando anche quella mattina, mentre
camminava a passo svelto su via Ponte Aleardi, osservando l'Adige che
scorreva tranquillo qualche decina di metri sotto i suoi piedi. Un
lembo della sciarpa bianca che aveva attorno al collo stava svolazzando
nell'aria, insieme alle due piccole ciocche di capelli chiari che erano
sfuggite dalla coda di cavallo. Poche centinaia di metri e sarebbe
arrivata alla facoltà di lettere per seguire le lezioni
mattutine insieme a Lisa, l'unica vera persona fidata in un branco di
compagni di corso arrivisti e pronti a vendersi la madre pur di
prendere il voto più alto agli esami.
Cecilia preferiva di gran lunga
uscire con gli amici del liceo, soprattutto Carlo e Gianluca, due
idioti patentati che però erano sempre in grado di
strapparle un sorriso. Uno aveva miracolosamente passato il test di
medicina – e c'era da credere che suo padre, primario di
ginecologia all'Ospedale Civile Maggiore "Borgo Trento", ci avesse
messo lo zampino –, l'altro, invece, si era iscritto a
ingegneria edile e architettura, ma Cecilia mai si sarebbe fidata a
farsi progettare la casa da lui. Finché giocava con i Lego
non c'erano problemi, ma quando si trattava di vivere nelle bat-caverne e abitare nella sua personalissima visione
di Metropolis, beh, le cose cambiavano decisamente.
L'aspettavano tutti e tre al L'attimo caffè per una colazione veloce, come ogni mercoledì. Lisa era all'entrata e fumava una sigaretta, i ricci scuri
ben definiti ad incorniciarle il volto e un paio di occhiali neri, come
sempre pieni di ditate. Indossava dei jeans stretti che le fasciavano
le gambe magrissime e una giacca di pelle color cuoio, perfetta per il
clima ancora quasi estivo che stava riservando l'inizio di ottobre.
- Alla buon'ora, – si
limitò a dire e lanciò il mozzicone qualche metro
più avanti a sé. L'altra sorrise, abituata al
malumore mattutino dell'amica, e la raggiunse al tavolino dove i due
maschi si erano già accomodati ed avevano ordinato per tutti.
- Ciao decerebrato. –
Lisa riservò come al solito un'accoglienza molto calorosa a
Carlo, con il quale era guerra aperta praticamente dal primo giorno in
cui c'erano state le presentazioni. Gli altri due ragazzi cominciarono
a blaterare tra loro, lasciandoli ai loro battibecchi.
- Oh, è arrivata la
festaiola. La madre superiora ti ha concesso di uscire stasera? – la
sfidò lui in risposta.
- Rastrelli, te l'ho
già detto mille volte che devi smetterla di scriverti le
battute a casa. È abbastanza patetica come cosa, sai? – lo
prese in giro, per poi girarsi verso gli altri due. – Di
che parlavate?
- Stasera c'è una festa
da Franzoni, – esclamò
entusiasta Gianluca, divorando in pochi bocconi una brioche al
cioccolato.
- Bene, – intervenne Cecilia, senza staccare gli
occhi dal giornale. – Allora
film da me? Shutter Island?
I tre ragazzi la guardarono
rassegnati. Che l'amica non fosse particolarmente socievole non era
certo una novità, ma quando si trattava di ex compagni del
liceo diventava addirittura sorda, muta e cieca. Li evitava in tutto e
per tutto, soprattutto le ragazze, con cui non era mai andata
d'accordo. C'era stato una specie di tacito accordo nel gruppetto di
donne della terza liceo sezione B del Maffei: rapporti civili e
collaborativi fino all'esame di Stato, dopodiché tanti cari
saluti e ognuno per la propria strada. Tutte si erano attenute al patto
e ora ignoravano qualsiasi dettaglio delle reciproche esistenze che
andasse al di là del nome e cognome.
A Cecilia erano rimasti solo
Rastrelli e Lamberti, e soltanto perché lei, Molinari, era
restata incastrata – alfabeticamente
parlando – tra
di loro il primo giorno di scuola, quando la professoressa Vallanzano
aveva avuto la grandiosa idea di far sistemare i nuovi ragazzi secondo
l'ordine del registro.
Filippo Franzoni, per quanto non
fosse così distante da loro nella piantina dell'aula, era
molto lontano dal modo di pensare del resto della classe. Era uno
spocchioso figlio di papà con un bel caschetto nero e il
naso a patata che pensava di essere il re del mondo, dal momento che il
padre era uno degli avvocati più in vista della
città. Era solito guardare gli altri dall'alto in basso, ma
non disdegnava la plebe – come
la chiamava lui – quando
si trattava di organizzare feste e riempire casa per dimostrare ai soci
del Rotary Club di non essere uno sfigato senza amici, quale invece era.
- No, Ceci, non ci guardiamo un
film a casa tua; andiamo alla festa, – s'impose
Gianluca. La ragazza lo squadrò con finto disprezzo e
rispose stizzita.
- Se non ti piace Leondardo
DiCaprio basta dirlo, eh! V for Vendetta?
Lisa roteò gli occhi e
non riuscì a trattenere un sonoro sbuffo.
- Ce lo hai fatto vedere fino alla
nausea, – brontolò. – Stavolta
ti prepari in tempo e vieni. Discussione terminata.
- Non ci vengo da Filippo, non ci
penso nemmeno. Saranno anni che non lo vedo e sono stata
così dannatamente bene! Perché rovinare questo
mio equilibrio interiore? – provò
a protestare, ma l'intervento deciso di Carlo stroncò sul
nascere ogni tentativo.
- Molinari, non rompere il cazzo,
dai. Ogni volta è la stessa solfa. Stasera ti metti una
parrucca in testa, ti metti l'ombretto, la cipria e quel cavolo che ti
pare e ci divertiamo.
La biondina spalancò
gli occhi incredula: se c'era qualcosa che odiava ancor più
di Franzoni e la sua cricca erano sicuramente le feste in maschera.
Halloween e Carnevale erano solo due stupidi giorni come gli altri, con
la differenza che la gente si sentiva autorizzava a truccarsi in modo
orribile per farsi ridere dietro. Piuttosto stupido, no?
- Dopo che ho saputo che mi dovrei
pure travestire, dite addio alla mia presenza. Ma voi andate, io
starò a casa con Van Gogh.
Il suo pesce rosso, unico
sopravvissuto su cinque alla moria avvenuta nell'acquario, non era
certo un abile conversatore e le rare volte in cui si approssimava al
pelo dell'acqua per boccheggiare sulla superficie era per farle capire
che aveva fame. Aveva la testa e la lunga coda arancioni e lungo il
corpicino, di un bianco opalescente, si estendeva una striscia dorata
piena di riflessi che le aveva sin da subito ricordato il giallo dei
campi di grano di Van Gogh. Purtroppo la dura legge di Darwin non aveva
lasciato scampo a Matisse, Monet, Rénoir e, per ultimo,
Raffaello, deceduto in circostanze misteriose il giorno di Pasqua. Voci
di corridoio davano per maggior sospettato Lillo, il figlio di quattro
anni del vicino, colpevole di averlo riempito di cioccolato dell'uovo
appena scartato.
- Mi offende il fatto che tu
preferisca restare tutta sera a fissare l'acquario, piuttosto che
uscire a divertirti con noi, – esclamò
Carlo, con l'intenzione di farla sentire in colpa.
- Non si tratta di voi. E lo
sapete! – Cecilia
si bruciò la lingua nel goffo tentativo di bere d'un sorso
l'intera tazza di cappuccino. – 'Azzarola,
quanto scotta!
- Giustizia divina, – sentenziò
Lisa, godendosi intelligentemente piano il suo caffè al
ginseng. – Ce',
da cosa ci vestiamo?
I visi di Gianluca e del compare
s'illuminarono in un sorriso d'intesa.
- Noi da Teletubbies.
- Non avevo dubbi, – riprese
la ragazza, – i
coglioni si muovono sempre in coppia.
Lamberti ridacchiò
della battuta, mentre Rastrelli le regalò la sua solita
espressione da idiota alla disperata ricerca di una frecciatina
altrettanto efficace da pronunciare all'istante. Tentativo vano.
- Mi avete sentita? Non ci vengo! – urlò
Cecilia. – Non
ho nessuna intenzione di farmi vedere da Franzoni; cinque anni in sua
presenza sono più che sufficienti, no?!
Lisa, seduta accanto a lei, si
stava chiedendo quando realmente la ragazza sarebbe riuscita a dire
quale fosse l'ulteriore e principale motivo per cui preferisse la
compagnia di un pesce a quella dei suoi amici.
- Non c'entra niente il fatto che
ci potrebbe essere anche Niccolò stasera, vero?
Gianluca calamitò su di
sé tutti gli occhi dei presenti: aveva, sì, dato
voce ai pensieri degli amici – tranne
quelli di Carlo, che da quando era uscito di casa non riusciva a
ricordare se avesse chiuso o meno la finestra di YouPorn sul computer
della sorella –, ma nominando colui-che-non-doveva-essere-nominato aveva infranto numerose regole.
Niccolò Mannino era il Voldemort di Verona, almeno per loro quattro.
Cecilia aveva la strana mania di saltare al collo di chiunque osasse
pronunciare anche solo le iniziali del suddetto soggetto in sua
presenza e diventava particolarmente manesca con il primo che le
capitasse a tiro.
Nico era il ragazzo con cui aveva condiviso la sua prima volta, a
diciassette anni, a casa sua, quando ancora viveva con sua madre e lei
era 'fuori città per lavoro' – un
modo carino per dirle che se la stava spassando con qualche giovanotto
venticinquenne. Lui era stato gentile e premuroso, in quell'occasione e
nei nove mesi successivi, mesi durante i quali tutti al Maffei sapevano
che facevano coppia fissa. O forse non proprio tutti, perché
Clara Orpella – che
da quel momento in poi sarebbe diventata Clarabella – avrebbe
giurato e spergiurato di non esserne a conoscenza, perché
altrimenti mai, mai!, avrebbe osato fare da concubina a Mannino. Eh
certo, agli altri ragazzi della scuola sì, ma a lui proprio
no: questione di onore, e che diamine!
Cecilia non ci voleva credere: si era fidata completamente e ciecamente
di lui, che l'aveva pure presentata alla famiglia e che, cosa che
più le faceva ribollire il sangue, l'aveva tradita per
chissà quanto con una che non valeva nemmeno un millesimo di
lei. Quello era un chiaro esempio del grande potere delle gambe aperte
di una donna e
Cecilia l'aveva imparato a proprie spese.
Dopo una decina di giorni passati in un profondo sconforto, con la
rabbia che si mescolava allo sdegno e ad un briciolo di nostalgia, si
era imposta di smettere di pensare al viso squadrato di
Niccolò, ai suoi occhi scuri, alle sue labbra... aveva
cercato disperatamente di trovare un difetto, una falla in
quell'ammasso di ricordi che l'aveva inondata come un fiume in piena:
un atteggiamento che l'aveva sempre infastidita, una parola fuori
luogo, quella volta che proprio l'aveva trattata male... In quel
momento non aveva trovato nulla. Per quanto si fosse sforzata, non ci
era riuscita. Forse era troppo presto, forse era ancora nella fase in
cui tutto era ancora troppo doloroso per essere analizzato con
razionalità. Poi Gianluca e Carlo avevano preso in mano la
situazione e avevano fatto ciò che ogni vero amico
è tenuto a fare in casi come questi: avevano trovato il modo
di demolire e demitizzare – con
calma, passo dopo passo – la
figura perfetta di Mannino che esisteva solo nella testa di Cecilia ed
ora, a distanza di quattro anni, la sola cosa che ancora la disturbasse
era la consapevolezza di non poter cancellare il ricordo di Nico, che
l'aveva portata ad un grado di felicità mai toccato prima,
salvo poi farla sprofondare in una triste solitudine.
- Certo che c'entra Niccolò! – ammise,
senza paura di apparire vulnerabile. – Non
voglio frequentare gli stessi posti in cui va lui. Ho già
depennato quattro anni fa la voce umiliazione pubblica dalla
lista di cose che mi ha fatto.
I tre ragazzi seduti di fronte a lei trassero un respiro di sollievo.
- Non è detto che ci sia... – tentò
Carlo, conscio che le probabilità di non trovare il ragazzo
alla festa di Franzoni erano le stesse per cui lui fosse candidato al
Nobel per la fisica.
Lisa parve assorta nei meandri della sua mente per qualche istante, poi
si riscosse.
- Ce', non esiste che tu ti faccia ancora condizionare da quello. E comunque non ti rivolge la parola da
quando è accaduto quel casino, mica ricomincerà
proprio stasera!
Il cinismo freddo e drammaticamente realistico dell'amica
colpì Cecilia come una secchiata d'acqua gelida in faccia;
Lisa sapeva essere cruda e diretta fino al punto di ferire le persone,
senza averne l'intenzione. Ma aveva ragione: Niccolò non
aveva più avuto il coraggio di chiamarla o di cercarla,
quando la notizia del suo doppio gioco era diventata pubblica. Si era
limitato a scomparire dalla sua vita, dandole una dolorosa conferma
della fondatezza della pulce che le era stata messa nell'orecchio.
- Andiamo, – si
ritrovò a dire, quasi non raccapezzandosi che fosse stata
proprio la sua voce a pronunciare quella parola.
Si stava scavando la fossa da sola e l'unica speranza che aveva per
quella serata era di non dover mettere una crocetta accanto ad un punto
già cancellato di una vecchia lista.
Okay,
ho pubblicato. Non so nemmeno io cosa aspettarmi da questa storia, al
momento mi è solo chiaro che sarà sotto i sei
capitoli e che la stesura è quasi ultimata. È
diversa da C'eral'acca,
non solo in quanto ad impegno (praticamente sei volte meno lunga), ma
anche riguardo allo stile. Ho voluto provare qualcosa di diverso, a
partire dalla narrazione in terza persona che è un po'
più 'riflessiva', meno istintiva di quella in prima.
Credo che la pubblicazione sarà puntuale, ogni due
settimane.
Non mi sono dimenticata dell'ultimo capitolo di C'eral'acca, ma
voglio prendermi del tempo perché voglio che riesca
esattamente come progettato; è l'ultimo, perciò
ci tengo. Comunque, è mia intenzione pubblicare verso la
fine di febbraio, quando gli esami sono finiti e ho
voglia/tempo/energie per concentrarmi sull'epilogo.
Voglio ringraziare SunshinePol
e nes_sie
per consulti vari e betaggio.
Per quel che concerne questa di storia, prendiamola tutte come un
esperimento, nulla di più.
S.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo II.
Lisa
non fece altro che parlare della festa in maschera di Franzoni per
tutta la mattina: cosa avrebbero indossato, come si sarebbero truccate
e pettinate, che scarpe avrebbero scelto. Cecilia provava
disperatamente a seguire la lezione di storia contemporanea, ma con un
borbottio continuo di sottofondo, persino il professore faceva fatica a
spiegare, lanciando di continuo occhiatacce alle due ragazze.
- Ci divertiremo, me lo sento. Ah, giusto; non sai nemmeno cosa voglia
dire divertirsi! – le
mormorò in un orecchio, provocando uno sbuffo irritato
dell'amica.
- Ora basta, – sussurrò
Cecilia, che prese a riordinare le poche penne sparse sul piccolo
tavolino a scomparsa davanti a sé. Racimolò i
fogli mezzi scarabocchiati nel tentativo di prendere appunti e li
ficcò nella tracolla colorata. Due ragazzi la guardarono con
astio, mentre li costringeva ad alzarsi per uscire dalla fila, ed era
certa che il suo movimento repentino non sarebbe passato inosservato
nemmeno al docente, che detestava vedere gli studenti abbandonare la
lezione anzitempo. Pazienza, perlomeno si era liberata del
chiacchiericcio fastidioso di Lisa e dei suoi vaneggiamenti su trucco e
parrucco per la serata.
Il chiostro dell'università era ampio, soleggiato e
soprattutto poco frequentato, eccezion fatta per gli studenti di
passaggio. Era il posto perfetto per ripassare prima di un esame, per
gustarsi un libro nelle pause pranzo... o per fare spiacevoli ed
inattesi incontri. Melissa Cedreo e Gisella Ferris rappresentavano al
meglio l'espressione cervelli in fuga, con l'unica e determinante differenza
che i loro neuroni non erano espatriati all'estero, ma semplicemente si
erano dissolti nell'aere, polverizzati da un'inalazione intensa e
prolungata di solvente per unghie o di fissante per capelli. Entrambe
ventiduenni di belle speranze – un
marito vecchio e ricco sarebbe stato il top –, trascorrevano le giornate in
facoltà alla ricerca di volantini di feste universitarie,
trovando il tempo di sedersi in aula solo nei momenti in cui la
stanchezza di camminare su trampoli s'impossessava dei loro corpi
martoriati da lampade solari e diete dimagranti. Melissa, poi, aveva un
ulteriore tarlo: era la sorella di Maria Carolina, l'adorabile compagna
di Ferdinando, padre di Cecilia. Questo creava tra le ragazze una
specie di vincolo parentale indesiderato da ambo le parti, una sorta di
rapporto zia-nipote che era al limite dell'incredibile. Inutile
precisare che nessuno avesse interesse nel rendere pubblica una tale
complicata situazione familiare, perciò la
miglior cosa da fare era ignorarsi il più possibile e
sperare che, alla prossima cena a casa Molinari, l'altra non ci fosse.
- Ti sei fatta scaricare persino dalla tua amica stracciona?
La voce fastidiosamente acuta di Gisella la raggiunse, ma lei finse di
non coglierla. Scendere al livello delle loro provocazioni sarebbe
stato troppo nocivo per l'umore già terribilmente provato
del suo lunedì mattina.
- Lasciala perdere, Gis, – la
rimproverò Melissa, turbata dal dover anche solo parlare con
una persona tanto indesiderata.
- Sarà meglio che non ci siate da Fil stasera, non vorrei
che ci fosse odore di rotture di scatole sin dall'entrata, – la
minacciò l'altra.
Benissimo, ora Cecilia poteva dire di avere un'altra ragione per volere
disertare la festa: un'intera nottata in compagnia delle due vipere con
cui Lisa e lei erano in aperta lotta praticamente da sempre era da
considerarsi suicidio o quanto mento eutanasia. L'inimicizia e
l'acredine che intercorrevano tra le quattro ragazze avevano origine
così lontano nel tempo – probabilmente
si erano azzuffate per la prima volta mentre la cicogna le smistava
alle rispettive madri – da
risultare difficile persino dire quali fossero le vere ragioni che le
avevano spinte a detestarsi; differenti stili di vita, opposto
approccio alle persone e la presenza o meno di materia grigia erano, a
grandi linee, le diversità che le portavano ad un reciproco
odio.
Le due se ne andarono presto, ancheggiando sui tacchi e lasciando uno
sgradevole ricordo della loro presenza nella giornata della ragazza che
se ne stava a gambe distese sotto il pergolato, arresa alla serataccia
che l'aspettava.
Un turbine colorato arrivò trafelato fino a lei, non prima
di aver urtato una decina di persone: Lisa l'aveva raggiunta di nuovo,
piena di idee ed indirizzi per trovare un costume a buon mercato per la
sera. Aveva deciso che si sarebbero travestite da cortigiane
ottocentesche, possibilmente con una grande maschera a celare il viso
per scongiurare la malaugurata ipotesi di incontrare Niccolò
o le due galline appena schivate.
Cecilia capì che il proprio pomeriggio di studio sarebbe
saltato, non appena Lisa trasse dalla tasca una lista stropicciata di
negozi da vedere. Tra una piega e l'altra, si potevano leggere siti
internet da consultare e la bozza di una mappa per raggiungere una
piccola bottega nella città antica, il quartiere che
corrisponde grossomodo alla Verona di epoca romana.
- Sale in zucca, vicoletto della Polvere 13, - lesse la
biondina ad alta voce. Non aveva mai sentito di quel negozio e nemmeno
di quella stradina dal nome curioso. – Lo
conosci?
L'amica alzò le spalle e scosse la testa, ma
consultò il piccolo schizzo che aveva scarabocchiato sul
foglio, spiegando come avesse trovato tutte le indicazioni su di una
pergamena ingiallita attaccata alla bacheca della facoltà.
- Sembrerebbe vicino a vicolo San Sebastiano, sono solo dieci minuti a
piedi da qui, – proseguì.
S'incamminarono, una sorridente ed iperattiva, l'altra che avrebbe
volentieri attinto ad un po' della sua energia per trovare la voglia di
travestirsi. Era solo una stupida festa in maschera, che prendeva a
tutti?
La giornata era calda e tranquilla, il traffico scorreva senza intoppi
tra i semafori e le strade affollate del centro e l'atmosfera autunnale – le
foglie colorate a foderare i marciapiedi, le prime brezze fredde a
solleticare il viso – sembrava
essere rimandata almeno di un paio di settimane.
La parte vecchia di Verona era quanto di più bello e
suggestivo Cecilia avesse mai visto nella vita; ogni edificio, ogni
finestra e persino ogni sampietrino per terra aveva da raccontare
qualcosa, un evento, una persona, una storia. Non poteva frenare la
propria immaginazione di fronte a tanti spunti e allora la fantasia
correva ad altre epoche, dove un'altra lei, – magari
stretta in un corsetto ricamato ed una gonna ampia, i capelli
arricciati in boccoli dorati schiacciati da un cappellino e un
ombrellino a proteggerla dal sole – stava
passeggiando piano, godendosi il tenero calore del pomeriggio.
La gomitata nelle costole di Lisa la fece tornare al presente. La
guardò con stizza, mentre, sempre senza aprire bocca, le
indicava un vicoletto che non ricordava di aver mai visto prima,
nonostante passasse di frequente da quelle parti.
Una piccola insegna lilla recitava Sale in zucca, ma la scritta era poco visibile, coperta
da una folta edera rampicante che cadeva da entrambi i lati del
cartello rettangolare. C'era una sola vetrina, dove due ampi costumi,
uno da ranocchio e uno da principe azzurro, erano stati stipati con
malagrazia sopra due grucce. Entrarono un po' timorose, accolte da un
parquet scricchiolante e da una fragranza di lavanda, spruzzata da due
angioletti appesi alle pareti. Non appena mossero un passo all'interno
del modesto spazio, sovrabbondante di costumi di ogni sorta – da Batman a Pippi Calzelunghe, da un
dragone cinese a due candelieri – la
loro vista fu sopraffatta da tutto quell'affascinante disordine di
stoffe, nastri, pizzi e merletti. Una grande cassettiera occupava
un'intera parete ed alcuni tiretti erano rimasti aperti, traboccanti di
bottoni e cerniere che ne impedivano la chiusura.
- Ti ho trovato, canaglia!
Una signora cicciottella, alta poco più di un metro e
quaranta, balzò in piedi da dietro il bancone, lanciando per
aria una striscia di tulle e centinaia di paillettes color bronzo e
stringendo tra l'indice e il pollice di una mano una gemma verde.
Cecilia fece un balzo all'indietro spaventata e Lisa afferrò
l'unico appendino disponibile come arma di difesa. Si calmarono solo
quando la donna regalò loro uno splendido sorriso
rassicurante sul volto paffuto. La osservarono meglio: indossava un
maglione azzurro acceso e una sottana scura, sotto un grembiule
bucherellato da aghi e spilli; in testa, i capelli rossicci erano
raccolti in uno chignon arrangiato rapidamente, sostenuto da uno
spillone di legno un po' più lungo di quelli che le ragazze
avevano sempre visto in commercio. Al collo portava un medaglione
rotondo con dei ghirigori floreali che le poggiava sul seno prosperoso.
- Ehilà! – le
salutò cortese. – Sono
Fatima, buongiorno.
- S-salve, – tentò
Cecilia. – Vorremmo dei costumi.
- L'avevo capito, sapete? – strizzò
loro l'occhio e allargò le braccia, come a dire che non
aveva altro che vestiti da offrire alla clientela. – Tu,
Lisa, da cosa vorresti travestirti? Un procione a quadri, un unicorno
arancio, un panda a pois...? No, aspetta, forse sei più tipo
da pipistrello rosa con le ali cosparse di brillantini?
Cecilia era esterrefatta, avevo un mucchio di domande da fare a
proposito di quella stramba signora: come diamine faceva a sapere il
nome della sua amica? Dove diavolo era stato quel negozio negli ultimi
vent'anni e, cosa più importante, chi mai poteva comprare un
costume da pipistrello rosa pieno di glitter?
Lisa, però, non sembrava altrettanto scossa dall'alone di
mistero che attorniava la figura di Fatima; al contrario, si era fatta
coinvolgere dal modo di fare disinvolto e non convenzionale della
negoziante, che la stava facendo piroettare da un lato all'altro della
bottega. Le mostrò con cura tutto ciò che poteva
offrirle, a seconda della sua corporatura e dei suoi tratti somatici;
la ragazza risolse di affittare un lungo abito verde acqua con dei
volants attorno al collo ad abbellire una severa giacca chiusa da
cinque bottoni. Dietro la schiena e ai due polsi dei piccoli fiocchetti
arricchivano la stoffa, leggermente più chiara sull'ampia
gonna, che presentava dei drappeggi appena accennati.
Fatima insisté perché Cecilia ne affittasse una
copia quasi identica, azzurra come i suoi occhi, con l'unica variante
di un semplice corpetto a vista, sotto un elegante bolero blu. La
biondina non ne era molto convinta, ma quando la donna le propose una
maschera argentata con un bordino celeste e due farfalle ai lati, non
ebbe più dubbi: ciò che più le
interessava era far sparire la sua faccia dalla festa, per evitare
Niccolò, Gisella, Melissa e l'eventuale presenza di ex
compagni di liceo. Non le era chiaro chi altro potesse rimanere – viste
le scarse conoscenze di Franzoni –, ma avrebbe passato tutto il tempo con
Gianluca, Carlo e Lisa, perciò non valeva nemmeno la pena di
pensare ad altre persone.
Pagarono ciascuna il proprio costume e salutarono educatamente la
proprietaria del negozio, prima di voltarle le spalle e raggiungere la
porta.
- Riportatemeli prima di mezzanotte, mi raccomando, o rimarrete nude, – urlò
Fatima dal bancone. Le due ragazze si voltarono verso di lei e si
scambiarono un'occhiata perplessa; Lisa, la più razionale
delle due, pensò alla tempistica: come avrebbero mai potuto
riconsegnare i vestiti puliti e stirati solo un'ora dopo l'inizio della
festa? Cecilia, invece, sprofondò nello sconforto,
immaginandosi la scena di se stessa nuda di fronte a
Niccolò. Beh, non che fosse proprio una fantasia, era
più un ricordo; c'era già stata in passato e non
era finita bene, perché purtroppo anche qualcun'altra aveva
avuto la stessa idea. – Oh, suvvia, sto scherzando!
La signora ridacchiò sotto i baffi, mentre Lisa si sforzava
di sorriderle, sistemando gli occhiali che le erano scivolati lungo il
naso. Quella Fatima era davvero strana, non c'erano dubbi. Le
salutò con un bacio volante e lanciò loro, nel
vero senso della parola, un biglietto da visita. Cecilia lo
afferrò al volo e lo guardò, mentre la porta si
richiudeva alle sue spalle.
"Sale
in zucca"
di Fatima Turchetta
Vicolo
della Polvere, 13
Quando
c'è il bel tempo, Verona.
Seguiva una piccola miniatura del faccione rotondo della proprietaria,
il cappuccio di quello che pareva un mantello lilla in testa e un bel
sorriso materno.
Quando
c'è il bel tempo? Pensò la ragazza, sempre
più perplessa, girando il cartoncino per vedere se anche
sull'altro lato ci fossero delle stranezze. Rimase quasi delusa nel
constatare che il retro era candido come la neve, intonso. Lo
passò all'amica che lo reclamava e ripresero a camminare
verso vicolo San Sebastiano per arrivare alla fermata dell'autobus.
- Fa molto Ok, il prezzo è giusto la posa della signora, non credi? – commentò Lisa, sghignazzando e
restituendole il foglietto. Cecilia fece per cacciarlo in uno scomparto
della borsa, ma si raggelò quando vide che nella stampa ora
Fatima le stava facendo l'occhiolino, un pollice della mano verso
l'alto. Ma non stava sorridendo fino a qualche istante prima? Che c'era
ora, la festa di Franzoni le dava pure le allucinazioni?
I vestiti, impacchettati da uno strato di cellophane per preservarli,
pesavano una tonnellata ed erano molto più voluminosi di
quello che avevano pensato. Le ragazze s'infilarono a fatica dentro il
bus ed andarono filate verso casa di Lisa, perché
quest'ultima era davvero molto inquieta riguardo l'ultimo problema da
affrontare in previsione del party: la questione scarpe.
Cecilia non aveva nulla di adatto da indossare sotto un costume da dama
ottocentesca e la sua amica di certo non le avrebbe permesso di fare
una ricostruzione storica approssimativa, abbinando al pregiato damasco
del corpetto ricamato, un paio di ballerine del 2011 grigio
metallizzate. Nemmeno le babbucce di Scooby Doo le sarebbero piaciute,
probabilmente...
Trascorsero tutto il pomeriggio a passare in rassegna mentalmente
ciò che era sistemato e ciò che ancora era da
perfezionare. Cecilia passò da casa solo per lavarsi veloce;
di recente, meno restava in quell'appartamento da sola, meglio stava.
Sua madre non c'era mai, troppo impegnata tra lavori ed amante, e Van
Gogh ormai si rifiutava di sorbirsi le sue continue paranoie,
rifugiandosi in un angolino dell'acquario. Cosa poteva esserci di
peggio di non essere ascoltata da un dannato pesce?
Si fecero i boccoli a vicenda, incastrando i capelli tra le forcine e
l'elastico della maschera, perché di certo non correvano il
pericolo di volersele togliere. L'unico inconveniente rimaneva ancora
la decisione circa le calzature.
- Ho trovato! Saranno perfette per te! – strillò dal nulla un'entusiasta
Lisa. Aprì due ante del grosso armadio in ciliegio della sua
camera e prese a trafficare nella caotica moltitudine di vestiti e
accessori. – Eccole!
Sei fortunata, a me non vanno più.
Cecilia guardò la scatola che l'amica le porgeva, pensando
che evidentemente non condividevano lo stesso concetto di fortuna. Non aveva bisogno di togliere il
coperchio per ricordare quale orribile paio di scarpe fossero state
accuratamente sistemate all'interno. Due stivaletti color cuoio, alti
qualche centimetro sopra la caviglia, stringati, con un insulso
tacchetto di due dita. Lisa aveva gridato al miracolo quando li aveva
scovati in un mercatino vintage, durante un viaggio a Roma, ma il solo
miracolo che aveva visto Cecilia era che qualcuno avesse avuto il
coraggio di indossarli. Era proprio un tiro mancino quello che il
destino le stava facendo: sarebbe stata lei a calzare quei... cosi, perché di sicuro non avrebbe
mai avuto il fegato di dire a Lisa che quelle scarpe erano quanto di
più brutto ci fosse al mondo. Non che temesse di ferire i
sentimenti dell'amica – non
era nemmeno sicura ce li avesse, i sentimenti –, ma avrebbe fatto la parte dell'ingrata,
considerato come l'altra si fosse prodigata per la riuscita della
serata.
- G-grazie, – disse
quindi, in un tono a metà tra una domanda ed
un'affermazione. Cercò di mantenere un sorriso smagliante
anche nel momento in cui fu costretta ad aprire la scatola; non era mai
stata brava a fingere, però si fece forza e
lasciò l'aria schifata ad altre occasioni dove, era certa,
non sarebbe stata così condiscendente con il vestiario di
Lisa.
Impiegò il maggior tempo possibile ad infilarsi quei dannati
scarponcini, crogiolandosi nella magrissima consolazione che li avrebbe
utilizzati solo per una sera e, tutto sommato, forse gli altri nemmeno
li avrebbero notati, sotto tre strati di stoffa pesante. Purtroppo,
Lisa finì di truccarsi alla svelta e la costrinse a
sfoggiare gli stivaletti con qualche minuto di anticipo. E ora se ne
stavano lì, splendidi nel loro aspetto orripilante
– visivo e olfattivo, perché sapevano di pelle
vecchia, tattile e persino uditiva, perché scommetteva che
quelle suole dell'anteguerra avrebbero cigolato a meraviglia sul
pavimento di prezioso marmo di villa Franzoni. In compenso, il vestito
le stava discretamente, le metteva in risalto gli occhi e la
scollatura, e i capelli sembravano tenere la piega.
Tinky Winky e Dipsy – rispettivamente
Gianluca e Carlo – passarono
a prenderle con i canonici dieci minuti di ritardo. Erano semplicemente
ridicoli in quei costumi da Teletubbies e ciò che
più faceva sganasciare le due ragazze era che i due
sembravano a perfetto agio, conciati da mostriciattoli.
Lisa impiegò tre secondi esatti per far evaporare Rastrelli
dal sedile anteriore, con la scusa del vestito ingombrante e la
minaccia di fare di luiun
novello Farinelli. La faccia perplessa del ragazzo la indusse a fornire
ulteriori chiarimenti.
- Cielo, dimentico sempre la tua ignoranza. Carlo Broschi, in arte
Farinelli, è il più famoso cantante lirico
castrato della storia, – gracchiò
acida, ma l'espressione confusa non sparì dal volto del suo
interlocutore.
- Vuoi trasformarmi in un cantante lirico? – chiese,
ingarbugliato tra i concetti mal spiegati, a suo dire, di Lisa.
Cecilia appoggiò la fronte sul vetro freddo del finestrino e
roteò gli occhi: sapeva con certezza che la lentezza di
comprendonio dell'uno e l'alterigia dell'altra avrebbero presto portato
ad una discussione di ben poco spessore culturale.
- Ti voglio castrare, idiota! – sbottò
infatti lei, dandogli a fatica uno scappellotto sulla nuca. Finalmente,
il concetto chiaro e tondo raggiunse l'unico neurone solitario rimasto
ad abitare il cervello di Carlo, che ridusse gli occhi a due fessure e
fece correre veloce il criceto per rispondere all'offesa.
- Vai a cagare, saputella del cavolo! – sbraitò
infine. E la trivialità fu servita.
Lisa, come al solito, non si scompose ed attinse al suo vasto
repertorio di curiosità inutili saccheggiate da ogni singola
pagina di Wikipedia.
- Martin Lutero ha scritto le 95 tesi sul
water; soffriva di costipazione cronica, poverino. Perciò,
mi risulta difficile intendere questa tua frase come un'offesa.
Rastrelli... andrà meglio la prossima volta, dai! – lo
canzonò.
Carlo la guardò in tralice e se i suoi occhi avessero potuto
ucciderla, lo avrebbero fatto: Lisa sarebbe morta incenerita in un
nanosecondo. Fortunatamente per lei, la mole imperiosa di casa Franzoni
era comparsa nel campo visivo dei quattro nell'auto, ricordando loro
che era arrivata l'ora di scendere e godersi la festa.
La villa era fastidiosamente opulenta, nell'architettura pretenziosa di
stile neoclassico e nell'entrata degna di un palazzo reale. Nel
curatissimo giardino, i fiori estivi tardivi e i primi boccioli
d'autunno riempivano l'aria di un fresco e delicato profumo.
All'interno, l'arredamento era costoso e lussuoso in ogni dettaglio,
dal caminetto antico impreziosito da intarsi elaborati, ai quadri
d'arte moderna e contemporanea. Era stomachevole l'aura di
superiorità intrisa in ogni muro, nel lampadario di
cristallo che creava effetti colorati a contrasto con le luci
artificiali, nel divano di pelle italiana su cui ci sarebbero state
comodamente sdraiate almeno sei famiglie. Ma ormai le due damigelle e i
due Teletubbies erano giunti a destinazione, nell'immenso salotto colmo
di gente, e il gioco di maschere e costumi stava per iniziare. Non
rimaneva che ballare.
Lo so, nessuna traccia di
Matteo, ma, già dall'inizio del prossimo capitolo, il
protagonista sarà lui.
Preciso una cosa: forse qualcuna storcerà il naso di fronte
all'uso di parolacce e situazioni ambigue (che leggere da qui in
avanti). È una fiaba, ne sono conscia. Ma è anche
una rivisitazione in chiave moderna e i protagonisti sono ragazzi.
Perciò, sì, dicono parolacce, oltre a fare 'cose
normali', come uscire in compagnia e andare all'università.
Trovo più realistico che abbiano anche atteggiamenti
'negativi', piuttosto che proporvi dei personaggi che sono perfetti. Se
non è quello che cercate, mi dispiace. Questa è
la mia scelta, voi siete liberi di fare la vostra.
Ringrazio Nessie e SunshinePol per l'aiuto con la stesura e il
betaggio, IoNarrante per il bellissimo banner e voi che avete
letto e recensito.
P.S.Non abituatevi ad
aggiornamenti fuori programma: ho idea che questo rimarrà un
caso isolato.
Buona serata,
S.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Capitolo III.
Matteo Maestri era ben poco
interessato al design di casa Franzoni, che aveva visto decine di
volte, e molto più concentrato sulla sua birra. Bevve l'ultimo
sorso della bottiglia che aveva in mano e l'appoggiò
annoiato sul davanzale della finestra, lasciata aperta per il ricambio d'aria.
Dalla cassa nell'angolo della stanza fuoriusciva una musica infernale e
le sue orecchie ne avevano abbastanza da almeno una buona mezzora.
Aveva fumato una sigaretta, era andato in bagno, era uscito ad
accogliere persone sconosciute solo per potersi allontanare da quel
pandemonio; certo, Filippo era un amico, ma le sue feste erano sempre
una grandissima rottura d'anima: il deejay – ogni
volta lo stesso – era
un incompetente e non bastava tutto il Ferrari del mondo per annegare
la seccatura di sentirlo straziare i suoi poveri timpani per l'intera
serata. Franzoni, poi, diventava nevrastenico nel controllare che
nessuno vomitasse sugli arazzi del padre o che gli ospiti nemmeno si
avvicinassero alla collezione di centinaia di animaletti Swarovski di
sua madre. Era uno sfigato, lo sapeva bene, ma quello gli si era
attaccato come una cozza al didietro sin dalla prima elementare e
Matteo non aveva davvero il buon cuore di mandarlo a quel paese. Se ne
faceva ben poco della sua amicizia, però gli faceva un po'
pena, sempre e solo in compagnia dei suoi soldi. Chi davvero non gli
faceva pena era l'improbabile Marilyn Monroe che si stava scapicollando
dal giardino per acciuffare proprio lui, nell'ennesimo tentativo di
abbordarlo, per sé o addirittura per la sua amica, Melissa.
Dio, che disgrazia di ragazza.
Gisella Ferris si fece largo tra
gli invitati, calpestando chiunque la separasse da Maestri, solo
accanto alla porta, con quel costume da Superman che gli metteva in
mostra tutto ciò che Madre Natura gli aveva donato. Si
compiacque con se stessa per aver tanto insistito con lui
perché infilasse il suo bel corpicino forgiato da anni di
calcio in quella tutina blu attillata che lasciava ben poco
all'immaginazione. Nonostante la maschera nera gli coprisse gli occhi,
il naso e parte delle guance, quei capelli biondi corti erano
riconoscibili da almeno mezzo chilometro, soprattutto per un'attenta
osservatrice come lei. Eh sì, cinque lunghi anni di
appostamenti e pedinamenti del povero Cristo in questione stavano dando
i loro frutti: mica tutti sapevano della voglia rossastra sulla natica
sinistra che sembrava una macchia di pittura!
Raggiunse Matteo e lo
abbracciò di slancio. Lui si scostò contrariato,
imprecando ancora una volta verso il tessuto sintetico del costume che
aveva indosso che gli si era appiccicato alla pelle, neanche ci avesse
messo la colla. Per non parlare del mantello rosso legato al collo, con
cui rischiava di strozzarsi ogni qual volta uno di quegli ospiti idioti
v'inciampava e dei boxer, stretti in quella specie di sospensorio che
gli comprimeva pericolosamente i gioielli di famiglia.
La musica alta gli consentiva
almeno di sottrarsi dalla conversazione con Gisella; riuscì
a placcare Franzoni con entrambe le braccia e lo costrinse con una
stretta vigorosa a prendere il suo posto accanto alla ragazza, quella
sera particolarmente in vena di moine e complimenti, grazie a qualche
cocktail alcolico di troppo. Fece per avanzare di un passo, verso la
libertà – e
di ciò era particolarmente fiero: in pochi potevano vantarsi
di essere sfuggiti indenni dalle grinfie della signorina Ferris –, ma il suo collo rimase indietro,
avviluppato da due lacci tesi.
Era accaduto di nuovo: qualche
imbecille gli aveva pestato per l'ennesima volta il dannato mantello e
lui stava per soffocare. Ancora. Si voltò irato verso la persona
evidentemente priva di cervello che lo teneva in ostaggio, con tutta
l'intenzione di rifilargli un pugno, o quanto meno redarguirlo con una
serie di improperi e appellativi assai poco cortesi. Quando vide quegli
occhi azzurri dispiaciuti, però, non riuscì a
proferire parola; la sua bocca rimase spalancata davanti alla ragazza
che, il volto nascosto dietro una maschera argentata decorata da due
farfalle, si teneva una mano sulle labbra, non sapendo come scusarsi
dell'incidente. Lei sollevò il piede dal mantello rosso e
Matteo sentì la morsa attorno alla carotide attenuarsi, il
sangue e l'ossigeno che cominciavano a fluire normalmente.
- Scusa, scusa, scusa! – disse
lei, mentre lui cercava di riprendere fiato. Era più
sconvolto dalla vista di quella specie di principessa bionda di
un'epoca remota, piuttosto che dal dolore al collo.
- Ciao, – disse
soltanto, imbambolato. Cecilia lo guardò meravigliata, forse
aveva capito male; con la musica a tutto volume, era probabile che le
avesse sussurrato un insulto con il sorriso sulle labbra per
confonderla. Lei, nel dubbio, tacque, disorientandolo. Lui allora le
posò una mano sulla schiena e la spinse verso di
sé. Voleva solo parlarle nell'orecchio, ma la ragazza si
trasse indietro, restia a farsi avvicinare così presto da
uno sconosciuto. Probabilmente aveva pensato che fosse solo un marpione
alticcio in cerca di compagnia. Si accorse dei due Teletubbies – Teletubbies?! – dietro
di lei che parevano pronti ad attaccarlo da un momento all'altro.
Spostò la mano dalla ragazza e la lasciò ricadere
lungo il fianco; ci mancava solo di essere assaliti da Tinky Winky e
socio: una gran bella pubblicità per la propria reputazione.
- Volevi uccidermi? – le
bisbigliò, quindi, a distanza di sicurezza. La biondina
sorrise divertita, più rilassata: lui sembrava sobrio e non
le aveva messo la mano sul sedere; coi tempi che correvano, era
già un risultato notevole.
- Non immaginavo fosse tanto facile ammazzare Superman. Lo
dirò a Brainiac.
Matteo non aveva la minima idea di chi fosse questo Breniac, ma se l'aveva aiutato a rompere il
ghiaccio con la damigella, tanto valeva ringraziarlo mentalmente e
augurargli buona fortuna nello sconfiggere Superman. Naturalmente
quello vero.
Il silenzio regnò nelle menti di entrambi per qualche
istante, mentre tutt'intorno a loro l'assordante vociare degli altri
invitati e della musica riempiva il vuoto lasciato dall'imbarazzo tra
loro. Si studiarono a vicenda per pochi secondi, senza parlare,
finché Cecilia abbassò lo sguardo, a disagio.
Dì
qualcosa. Pregò
se stessa e il ragazzo perché almeno uno dei due parlasse di
un qualsiasi argomento e togliesse d'impaccio entrambi. Si sentiva una
ragazzina, mentre si torturava la stoffa della gonna tra le dita,
sollevandola di qualche centimetro, e picchiettava nervosamente la
punta delle scarpe sul pavimento. Oh cielo, le scarpe: non poteva
rischiare che qualcuno le vedesse, sarebbe scappato a gambe levate.
Liberò il vestito dalla morsa in cui l'aveva imprigionato e,
per fortuna, gli stivaletti scomparvero di nuovo sotto l'ampio tessuto
azzurro.
Nemmeno Matteo se la stava passando bene. Nonostante sapesse di essere
un bel ragazzo, non si era mai sentito troppo a suo agio nel ruolo di tombeur de femmes. Anzi, piuttosto erano le donne che si
prodigavano per conquistarlo; lui semplicemente stava spaparanzato
comodo comodo sul proprio piedistallo – eretto
dalle stesse che tanto si davano da fare per corteggiarlo – e
aspettava che fossero loro a decidere, con regole a lui ignote, chi
fosse la prescelta per provarci con lui.
Ed ora che si trovava davanti la timidezza fatta persona, una che non
pareva il tipo da faide interne al sesso femminile per accaparrarsi il
suo scettro, una che sembrava stesse aspettando una
sua mossa... magari avrebbe dovuto semplicemente
scappare. O voluto. Sarebbe stato sufficiente girarsi e
trovarne un'altra in mezzo al folto gruppo d'invitate, una che facesse
al posto suo tutto il lavoro di corteggiamento. Perché,
diciamoci la verità: lui non era proprio in grado di farlo,
non era il suo campo. Il suo campo era fatto di zolle di erba. Magari
le donne fossero facili da decifrare come una partita di calcio!
Lì l'obiettivo è fare goal, poche storie. Ma
nell'amore, qual è l'obiettivo? Un suo amico gli avrebbe di
sicuro detto farsela dare; sua sorella di nove anni gli avrebbe
risposto vivere per sempre felici e
contenti;
Gisella e Melissa avrebbero urlato farsi Matteo Meastri e vivere per
sempre felici e contenti...
E lei, la ragazza sconosciuta, cosa avrebbe risposto?
Meglio cambiare domanda.
- Ehm... – cominciò,
titubante. – Ti
va di bere qualcosa?
Cecilia lo seguì al tavolo lungo una parete, traboccante di
cibo, vino e alcolici. Armeggiò con alcune bottiglie e le
mise tra le mani un bicchiere tumbler in cui aveva preparato un Long
Island artigianale, che lei reputò abbastanza buono da
indurla a chiedergli dove avesse imparato a fare i cocktail. Le disse
che lavorava saltuariamente come barman in un locale del centro molto
frequentato, il Firefly, dove lei si ricordò di essere
entrata qualche volta in compagnia di Lisa e degli altri.
- Potresti passare di nuovo. Prometto di offrirti un drink come si deve.
A giudicare dal sorriso sincero di lei, Matteo stava facendo centro;
certo, non era comunque Giacomo Casanova, ma si complimentò
con se stesso perché non stava utilizzando tecniche trite e
ritrite e non si stava lasciando andare a facili complimenti,
soprattutto dal momento che la dama pareva il tipo da imbarazzarsi
anche per un semplice mi piace trascorrere del tempo
con te.
Cecilia rispose che avrebbe pensato alla sua offerta, ma in cuor suo
sapeva già di volerci andare il più presto
possibile, nella speranza che ci fosse lui dietro il bancone.
Parlarono per l'intera serata di tutto ciò che veniva loro
in mente, s'impegnarono a fondo perché non ci fossero
scomodi momenti di silenzio a rovinare l'atmosfera tranquilla duramente
creata da entrambi; lei accantonò la propria timidezza, lui
cercò di superare l'inadeguatezza e l'inesperienza dei gesti
e delle parole da destinarle. Cecilia tentò di non essere
scostante e fredda come al solito e Matteo si concentrò per
non strapparle di dosso la maschera e baciarla platealmente di fronte a
tutti, nonostante il desiderio di farlo lo stesse torturando da
parecchio. Temeva di spaventarla e fare la parte dell'arrapato cronico
ed era l'ultima cosa che voleva che lei pensasse. Ah, odiava nel
profondo il ruolo del corteggiatore!
Maestri approfittò di un momento di distrazione della
ragazza, intenta in una conversazione con una tizia vestita quasi come
lei, e riuscì a mandare di soppiatto un messaggio a quel
cretino del deejey, perché mettesse una canzone
più lenta di quelle elettroniche che da ore stava sparando
fuori dalle casse; aveva bisogno di un contatto con la ragazza, di
toccarla, di parlarle occhi negli occhi e il David Guetta de noantri
non stava aiutando.
Di sicuro, però, Matteo non si aspettava di doverla invitare
a ballare sulla colonna sonora de Il tempo delle mele. Quel deficiente scratcha-dischi
gliel'avrebbe pagata.
- Balliamo? – propose
Cecilia, anticipandolo. Lui non si avvide del rossore che le colorava
le guance e lei mascherò abilmente lo slancio di coraggio,
attribuendo ogni colpa al Long Island che lui le aveva preparato.
Superman le afferrò la mano e la condusse in un angolo del
salotto che si stava popolando di coppiette più o meno
credibili, lanciate in un lento, con mani strategicamente poggiate a
metà tra la schiena e il sedere.
Maestri le poggiò dolce la mano ben più su, per
non creare equivoci e metterla in fuga; non c'era fretta, non voleva
accelerare troppo le cose... no, in realtà le cose le
avrebbe volute alla velocità della luce, ma le donne erano
strane, necessitavano dei loro tempi.
Tuttavia Matteo era arrivato al punto di non farcela più,
fisicamente e mentalmente. Averla così vicina, tra le sue
braccia, il suo profumo nelle narici lo stava mandando in tilt. Si
trasse un po' indietro e la guardò in viso; l'azzurro
tranquillo dei suoi occhi lo spronò a fare ciò
che sognava da un po'.
Cecilia era nervosa. Si stava mordicchiando il labbro inferiore con
urgenza e apprensione. Cosa stava aspettando a baciarla? L'attesa la
stava facendo impazzire. Quasi le leggesse nel pensiero, Superman le
sorrise, la spinse verso di sé e la baciò. Un
bacio a stampo, breve, giusto il tempo d'imprimersi il sapore
dell'altro sulle labbra. Non appena lui si allontanò,
Cecilia aprì gli occhi: Matteo non c'era più. Lo
ritrovò qualche metro più in là,
braccato per una manica da Gisella Ferris vestita da Marilyn Monroe – costume
che proprio non le donava – e
Lady Gaga, alias Melissa Cedreo.
Lui le guardava con insofferenza e dopo qualche secondo le
mandò al diavolo, evidentemente scocciato. Tornò
così dalla sua dama.
- Scusa, eh, mi hanno praticamente rimosso dalla mia posizione.
Dov'eravamo?
Fece per riavvicinarsi, conscio che ormai alcune prerogative della
situazione di poco prima si fossero perse. Solo, sperava non per
sempre. Cecilia assecondò i suoi movimenti meccanici,
dimentica del disagio della situazione: il misero bacio che le aveva
dato non le era bastato.
- Ehi, Matti, ti cercavo! – Una
voce maschile li interruppe ancora prima potessero sfiorarsi. – Sai
dov'è Franzoni?
Matteo emise un ringhio rabbioso, mentre la ragazza non poté
esimersi dal ridacchiare della tragicomicità della scena.
Poi, però, vedendo il Danny Zuko che aveva messo una mano
sulla spalla di Superman, smise di sorridere.
Niccolò. Cecilia trattenne il respiro per qualche istante
quando la mano di lui, nel gesticolare, le sfiorò
accidentalmente il braccio. Tentò di contenere le diverse
emozioni che quell'incontro inaspettato le suscitava: rabbia,
malinconia, disgusto, freddezza. Vestire i panni di una donna
dell'Ottocento la stava rendendo ipersensibile al contatto fisico, come
una delle protagoniste della Austen o della tanto odiata Charlotte
Brontë. Se le avesse toccato una coscia, cosa avrebbe fatto?
Chiamato Ferdinando o i Teletubbies a vendicare l'ardire del baldo
giovane? Per fortuna era una ragazza del 2011, indipendente come
Elizabeth Bennet, determinata come Catherine Earnshaw e... vergine quanto Emma Bovary. Oh, buffo come ogni
cosa riconducesse inevitabilmente a Niccolò.
Superman fece spostare il ragazzo
dalla sua stessa parte ed indicò Franzoni, dall'altra
metà della sala, dietro le spalle di Cecilia. Lo sguardo di
Mannino si posò per una frazione di secondo sugli occhi
azzurri della dama che ballava con Maestri, prima di seguire la
direzione del dito. Tornò a fissare la fanciulla con aria
stupita, dimenticandosi di Matteo e di Filippo.
- Ci conosciamo? – le
chiese dubbioso.
Cecilia venne presa di contropiede. Si morse la lingua, quando un moto
di rabbia le stava per far fare un gesto avventato – per la cronaca, alzarsi la gonna,
abbassarsi gli slip e urlare: ora ti ricordi? – di
cui si sarebbe pentita all'istante, anche perché c'era il
serio rischio che la risposta di Niccolò fosse a sì,
giusto. Marta? Laura? Francesca?
Non era
pronta ad affrontarlo e, ad essere onesti, nemmeno aveva voglia di
farlo. Ne era passata di acqua sotto i ponti da allora, non avrebbe
avuto senso rivangare qualcosa che, seppur dolorosamente, era morto e
sepolto.
Accantonò la reazione orgogliosa ed indignata e
abbracciò l'altra, più ponderata e pacata; decise
di rifilargli un secco e snob no e
di volgere la propria attenzione altrove, ad esempio a ricercare la
testa ricciuta di Lisa, che mancava all'appello da ormai trenta minuti,
o controllare che quella perfida di Melissa non fosse nelle vicinanze.
Entrambi i ragazzi avevano bevuto
troppo e, si sa, la cosa più saggia da fare in questi casi
è farsi accompagnare a casa, mettersi a letto e dormire,
dormire, dormire. In alternativa, per i più coraggiosi,
esiste un'altra opzione: infilarsi due dita in gola e vomitare – in qualsiasi posto, ma non sugli arazzi
del signor Franzoni, ovviamente. Ma se c'è un'azione da non compiere
quando l'alcool ti ha tolto i freni inibitori è quella di
chiudersi in un bagno per una sveltina, soprattutto quando si indossa
un abito ingombrante e una maschera copre metà faccia del
partner.
La situazione, però,
era ormai fuori controllo; lui era eccitato e sudato e lei non era da
meno, nonostante la gonna le limitasse gran parte dei movimenti.
Semplicemente si tirò l'orlo fino alla vita, ingolfandosi
tra la stoffa e lasciando fare a lui il grosso del lavoro.
Tutti e due pensavano di non essere nemmeno lì; sembrava un
sogno, i corpi che si stavano unendo con frenesia e spasmodico
desiderio parevano appartenere ad altri. Non si guardarono mai negli
occhi, figuriamoci se almeno uno dei due si ricordò di usare
il cervello e le precauzioni.
Due minuti dopo – c'era
una ragione se l'avevano entrambi intesa come una sveltina – uscirono
ammaccati dalla stanza, lei con un gomito contuso a causa di uno
scontro con il lavello, lui con una botta alla natica, dopo aver preso
in pieno il portasciugamani.
Nell'antibagno fecero un incontro imprevisto: altri due ragazzi, visi
noti, si stavano baciando, ansimanti e su di giri, contro lo specchio.
Si fermarono nel momento in cui due paia di occhi sbalorditi li
fissarono.
I quattro si studiarono a vicenda, a coppie. Era un momento
imbarazzante per tutti e dovevano abbandonare il bagno, prima che
qualcun altro li beccasse.
- Non ci siamo mai visti qui, chiaro? Tutto ciò non
è mai successo. – Una delle due ragazze impose al gruppetto
tale versione, ma nessuno ebbe da ridire alcunché. Ognuno
prese la sua strada, rigorosamente solo.
Cecilia riuscì ad individuare Lisa. E anche Melissa. Erano
uscite contemporaneamente dal bagno, una a destra della parete di
cartongesso che nascondeva la toilette, l'altra a sinistra. Avevano
tutte e due l'aria schifata e barcollavano come due alberi travolti
dalla Bora. Non aveva idea di quanto avessero bevuto, ma, a giudicare
dalle loro espressioni assenti, doveva essere molto di più
di qualche bicchiere.
Anche lei era un po' scombussolata; dopo l'interruzione di
Niccolò, non era più riuscita nemmeno a scambiare
una parola con Matteo. Franzoni aveva ridotto ad un sibilo la musica e
imbracciato un megafono, mandando sgarbatamente tutti a casa, nelle
loro umili e sporche dimore, così come se le era sempre
immaginate lui, dove sperava di non mettere mai piede; la puzza di
povertà doveva essere un tanfo insopportabile per chiunque,
figuriamoci per uno abituato a vivere nel lusso come lui... Per questo
rifiutava tutti gli inviti a case altrui. Non che comunque ce ne
fossero molti da respingere.
Perlomeno la serata era andata a gonfie vele e si era appena chiusa in
un modo alquanto interessante...
- Forza, la festa è finita, – urlò,
mentre fermava Maestri che pareva aver perso qualcosa. – Vieni
con me.
Qualcuno bloccò anche Cecilia. Un braccio
l'afferrò in malo modo, forzandola a bloccarsi. Sperava di
trovarsi di fronte uno dei ragazzi con cui era arrivata, oppure
Superman, che era riuscito a riacciuffarla tra la folla per chiederle
il numero di telefono, o quanto meno il nome. E invece si
ritrovò l'espressione dura e furba allo stesso tempo di
Niccolò. La stava guardando perplesso, alla ricerca di
qualche particolare che gli avrebbe permesso di capire definitivamente
a chi appartenessero quegli occhi azzurri così famigliari.
- Sicura che non ci conosciamo? – Le
chiese, di nuovo. Cecilia sentiva di essere in procinto di perdere la
pazienza una volta per tutte. Davvero le sfuggiva tanta insistenza da
parte di Mannino, e la cosa la infastidiva da morire.
- Sicura, – replicò
dura, divincolandosi dalla presa del ragazzo. Lui la lasciò
libera di girargli le spalle e andare verso l'ingresso. Non fece
nemmeno a tempo a muovere un passo, che una voce la raggiunse dalle
scale all'entrata.
- Cecilia! – Gianluca
la stava chiamando per chiederle una mano nel trasporto di Lisa, che a
mala pena stava in piedi, fino alla macchina.
La ragazza strizzò gli occhi e sperò che
Niccolò non avesse sentito il suo nome. Si voltò
piano verso dove prima c'era lui e con sguardo inorridito
constatò che, per sua sfortuna, era ancora lì,
intento a fissarla con aria scioccata.
- Cecilia? – ripeté
confuso, la bocca socchiusa dallo stupore.
Il suo corpo era nascosto da almeno quattro strati di tessuto, eppure
la ragazza si sentiva nuda, esposta e vulnerabile. Avrebbe tanto voluto
dare retta a Fatima, riportandole il vestito prima di mezzanotte e
risparmiarsi una figuraccia con quello scherzo che ora assumeva un
sapore di predizione. E, oh come l'avrebbe pagata cara quel tesoro di
Gianluca Lamberti, reo di aver svelato la sua identità,
proprio quando si era illusa di essersi salvata dall'interrogatorio di
Mannino. Avrebbe pure fatto due chiacchiere con Ferdinando e Marina, i
suoi genitori, per ringraziarli sentitamente per la scelta del suo
nome; si fosse chiamata Anna o Elisa, magari sarebbe stato possibile un caso
di omonimia, ma quel Cecilia non era poi così comune e
l'aveva condannata senza possibilità di appello. E cosa dire
del nonno Molinari? Neppure l'ottantenne Pietro sarebbe stato
risparmiato dalla rabbia cieca dell'amata nipotina. Tutta colpa di
quegli occhi azzurri maledettamente inconfondibili che avevano fin
troppo facilitato il compito a Niccolò.
- Cecilia? – ripeté
quest'ultimo.
La ragazza fu costretta ad interrompere la lista mentale di ammonimenti
da compiere in un futuro molto prossimo
e lo guardò stancamente.
- Che vuoi?
Franzoni aveva trascinato Maestri al primo piano, dalla cui ringhiera
era possibile avere una perfetta visuale sulla sala sottostante in cui
era svolta la festa. Stava esponendo con entusiasmo la sua teoria, per
cui se fossero uscite circa venti persone al minuto, la stanza si
sarebbe svuotata in meno di cinque minuti. Matteo era ormai abituato
alle inutili idee di Filippo, ma ogni volta non poteva esimersi dal
pensare a quanto dovesse essere triste la sua vita, se si riduceva ad
elaborare quelle idiote ipotesi scientifiche ad ogni singola di festa.
In realtà, aveva accettato di accompagnarlo al piano
superiore solo per vedere se fosse riuscito ad individuare la ragazza
con l'abito blu con cui aveva trascorso l'intera serata. Era stato
talmente imbranato nei panni inediti di corteggiatore, che si era
dimenticato persino di chiederle il nome. Un perfetto idiota. Almeno
era riuscito ad avvistarla, a qualche metro dai gradini d'entrata;
stava già per partire a razzo giù per le scale
per raggiungerla, ma rimase fermo quando vide che non era sola. Non
erano i suoi amici Teletubbies a tenerle compagnia, ma bensì
Danny Zuko. Prese a tamburellare nervoso sul parapetto in ferro
battuto. Non poteva davvero credere che Mannino stesse ignorando ogni
tipo di codice maschile, provandoci con la stessa ragazza con cui lui
aveva maldestramente tentato di fare altrettanto per tutta la festa.
Insomma, già con la scusa del Ma ci conosciamo? di prima, aveva davvero esagerato; non che
Matteo se ne intendesse molto di tecniche di seduzione, ma quella gli
pareva fosse uscita da uno di quei romanzetti rosa che sua madre
leggeva in certi periodi del mese – chissà
perché –, quando si chiudeva in camera a
singhiozzare per ogni singola pagina di presunti amori fuori da ogni
realtà.
- Niente, – si
affrettò a rispondere Niccolò, scrollando le
spalle. Il suo sguardo dispiaciuto cozzava con l'espressione da
spaccone che avrebbe assunto uno dei ragazzoni di Grease.
Improvvisamente, le parti tra loro si erano invertite: lui era quello
timido, lei quella agguerrita e determinata a non concedergli troppo
spago.
- Bene. Buona serata, – disse
lapidaria.
- Aspetta! - la bloccò lui, quando lei ormai si stava
già dirigendo verso la porta. Cecilia si fermò,
ma continuò a dargli le spalle. – Mi
dispiace... per quello che ho combinato, dico.
- Sei in ritardo di quattro anni. – Cecilia
si accorse che Mannino non aveva intenzione di accontentarsi della sua
risposta, così decise di pronunciare altre parole, in
verità assai poco sentite - Ma accetto le tue scuse.
Niccolò conosceva bene la biondina; l'aveva osservata per
alcuni mesi, prima di farsi avanti con lei. Era schiva, riservata e
avrebbe detto qualsiasi cosa pur di togliersi uno scocciatore di torno.
Anche affermare di aver perdonato qualcosa che lui sapeva bene non
sarebbe mai riuscita a superare. Gliel'aveva detto sin da subito, sin
dall'inizio: guai a te se mi tradisci. Mentre pronunciava quella frase, aveva
sempre avuto il sorriso sulle labbra, ma era chiaro che non ci sarebbe
stato proprio nulla da ridere, se lui avesse infranto l'unica promessa
su cui Cecilia si fosse incaponita: la fedeltà. E lui aveva
rovinato tutto per una come Clara. Una facile, una da tutto e subito, una che avrebbe dovuto essere per una
volta e basta. Poi, però, c'era stata una seconda volta, una
terza, una quarta... aveva perso il conto. Aveva diciotto anni e la
mente occupata dall'Inter e dal sesso e, per quanto Cecilia potesse
essere un buona compagnia, lui non aveva intenzione di fare coppia
fissa, né tanto meno privarsi delle uscite per soli uomini
organizzate dai suoi amici in locali di dubbio gusto. Erano ragazzi ed
erano convinti di farla sempre franca. Però la Orpella aveva
parlato e se lo sarebbe dovuto immaginare: bocca larga almeno quanto le
gambe.
Niccolò tornò al presente, passando accanto a
Cecilia e parandosi davanti a lei. Non aveva idea di che avrebbe fatto,
ma sapeva di non volere che lei se ne andasse, non senza averle parlato
ancora.
- Ti conosco, Ceci. – Lei
lo guardò sprezzante: perché e come osava
chiamarla con il suo soprannome? Non erano amici, non lo erano stati in
passato e che il diavolo la maledicesse se mai lo sarebbero stati da
quel momento in poi. – Tu
non mi perdonerai mai.
La biondina si sentì in trappola: ammettere che lui avesse
ragione significava fargli sapere che tutta quella storia le bruciava
ancora e non poteva permetterselo. Non poteva concedergli altri poteri,
oltre quello inequivocabilmente palese della sua avvenenza che la stava
già mettendo in crisi.
- Ti sbagli, è acqua passata, – mentì.
Niccolò non se la bevve nemmeno al secondo tentativo.
Però sorrise e Cecilia divenne ancora più
nervosa; conosceva bene la malizia nascosta dietro quelle file di denti
bianchi come la neve e sapeva che quando lui la guardava in quel modo,
non c'era nulla di buono all'orizzonte. Infatti, Mannino si fece ancora
più vicino, con lo sguardo ora decisamente coerente con
l'aspetto da bulletto T-Birds di cui vestiva i panni. Si
abbassò per mettersi alla sua altezza e le
sussurrò delle parole nell'orecchio, nonostante non ci fosse
alcuna necessità di farlo, dal momento che la musica aveva
un volume bassissimo.
- Allora siamo a posto, – le
mise la mano sinistra sul collo e impresse le sue labbra sulla guancia
destra. – Notte,
Ceci.
L'aveva appena baciata. Aveva baciato lei.
Le sinapsi di Matteo Maestri stavano friggendo come non mai. Tra tutte
le ragazze presenti a quella dannata festa, quello stronzo aveva scelto
proprio la biondina, la sua biondina.
E ora se la stava squagliando, lasciandola ad un passo dall'ingresso,
con un'espressione fissa nel vuoto che lui sperava tanto non fosse una
conseguenza del gesto di Niccolò. Poteva essere solo
sorpresa, stupita... Matteo desiderava che non lo fosse in modo
piacevole.
Abbandonò Franzoni al piano superiore e scese rapidamente
gli scalini. Rimanevano ormai poche persone nella grande sala della
villa e la dama in blu era tra quelle, nonostante avesse raggiunto Tinky Winky e
stesse per uscire dall'abitazione.
Le picchiettò piano due dita sulla spalla e lei si
voltò, con uno sguardo a metà tra lo scocciato e
l'impaurito. Cecilia temeva fosse ancora quella strana versione di
Niccolò Mannino che le si era palesata davanti agli occhi
poco prima e stavolta era determinata a cacciarlo con un bel calcio
negli stinchi, ma invece si sentì sollevata e
inspiegabilmente felice, nel constatare che si trattava di Superman.
- Ehi, – esordì
Maestri, tornato ad essere impacciato e goffo come prima.
- Ehi, – rispose
lei, stupendosi della sua voce quasi... civettuola?!
- Ehm... – Il
ragazzo si grattò la testa nervosamente e cercò
disperato di trovare le parole giuste da dire. – Volevo
dirti che... cioè, io sono Matteo.
Cecilia gli strinse la mano con vigore. Non c'era bisogno che lui si
presentasse: sapeva bene chi fosse, le era bastato notare le
occhiatacce e assistere alla sceneggiata di Marilyn Monroe e Lady Gaga,
per capire che il proprietario di quei capelli biondi altro non era che
il loro protetto, Matteo Maestri. Lo vedeva spesso in
università e non le mai capitato di desiderare
così ardentemente di trovarsi in facoltà per
poterlo incrociare di nuovo – lontano
da Franzoni e le galline, lontano da sguardi indiscreti – nei
corridoi.
- Io sono...
- Allora? Lisa! – urlò
Gianluca, spazientito, guardando Cecilia ed indicando con le braccia la
Zanin. L'aveva già chiamata almeno cinque minuti prima e lei
ancora non si decideva a raggiungerlo; in più, Lisa si era
accasciata drammaticamente a terra e aveva avvinghiato le proprie dita
sulle gambe di Lamberti.
- Devo andare. Ci vediamo, Matteo.
Maestri rimase interdetto, mentre lei si smaterializzava di fronte ai
suoi occhi per correre verso i suoi amici. Non voleva fare l'insistente
ed, inoltre, tutto ciò di cui aveva bisogno, l'aveva appena
ottenuto: la dama era una ragazza per cui valeva la pena tirar fuori
gli attributi; non l'avrebbe lasciata a Mannino senza combattere.
Gianluca accolse Cecilia con uno sguardo di ammonimento ed astio, a
ricordarle che era parecchio che erano stati lasciati al loro destino,
proprio da lei.
- Carlo? – chiese,
timorosa di doversi occupare anche del recupero di Dipsy.
- È già a
casa, si è fatto dare uno strappo da Lele, – rispose
Lamberti.
Lisa le si attaccò con
una scimmia allo stivaletto tanto odiato e non aveva intenzione di
staccarvisi. Continuava a mugugnare frasi sconnesse nella direzione di
Cecilia, accusandola di averle rubato le preziosissime scarpe. L'amica
l'accarezzò compassionevole: credeva davvero che si sarebbe
sprecata a rubare quegli anfibi preistorici? La lasciarono ai suoi
sproloqui e tentarono a svariate riprese e in diverse tecniche a
sollevarla dal pavimento. Sentivano il fiato di Filippo sul collo, che
premeva perché tutti sloggiassero da casa sua; erano
già le tre, lui aveva sonno e doveva chiudere la casa, prima
che qualche topo di fogna tentasse di rubargli l'argenteria da sotto il
naso.
- Franzoni, non credi che se avessimo voluto, l'avremmo fatto prima, in
mezzo alla confusione?
Il padrone di casa s'indispettì ulteriormente; una vocina
nella sua testa continuava sibillina a suggerirgli che quei poveracci
erano proprio furbi: avevano già pensato al modo di compiere
un furto nella sua villa. E magari lo avevano pure fatto, quei
maledetti! Il giorno dopo avrebbe contato personalmente che non mancasse nulla tra i suppellettili
e le posate. Se fosse mancato anche solo un cucchiaino, avrebbe
scatenato l'inferno.
La sala s'era svuotata e ora non rimanevano che Cecilia, Gianluca, Lisa
e Franzoni, ad attendere che la Zanin riuscisse a muoversi – o
ad essere mossa, molto più probabile – fino
alla macchina.
Matteo comparve dal nulla, sgranocchiando un salatino che cominciava a
sentire di stantio. Guardò incuriosito il gruppetto, riunito
attorno ad una figura spalmata sul pavimento. Sorrise nel vedere che la
sua dama era ancora lì, inchiodata dalla tizia a terra che
le stritolava la caviglia. Il loro amico stava cercando di rimuoverla
dal pavimento, ma i risultati parevano piuttosto scarsi. Inutile dire
che Filippo non li stava aiutando; forse pensava di correre il rischio
di prendersi qualche malattia infettiva di cui solo i comuni mortali
che non navigano nell'oro sono portatori.
Maestri si fece avanti e coordinò con Lamberti le operazioni
per alzare Lisa, sotto lo sguardo ammirato e riconoscente della sua ragazza
dagli occhi azzurro cielo. Scollarono Lisa dal piede di Cecilia, che fu
costretta a togliersi una scarpa per placare la rabbia dell'amica, che
la chiamava continuamente ladra. Trasportarono la Zanin fino all'auto di
Gianluca, dove venne sistemata sul sedile posteriore.
- Grazie, – gli
sussurrò Cecilia.
- Non merito un premio? – tentò
lui.
Lei si alzò sulle punte e si poggiò a lui – con
un piede scalzo era piuttosto sbilanciata – e
premette la sua bocca contro quella di Superman, come nel miglior film
di fantascienza.
- 'Notte, – gli
sorrise sulle labbra.
Matteo rispose al sorriso e fece un inchino buffo con il mantello,
simbolo e causa del loro incontro. Poi, la ragazza salì a
bordo dell'auto dei suoi amici, si levò anche l'altra scarpa
e si allacciò la cintura.
Sul sedile posteriore giaceva Lisa, mezza assopita, ma ancora ben
sveglia per affacciarsi al finestrino aperto e lanciarsi in una
filippica di ringraziamento allo sconosciuto cavaliere che l'aveva
condotta alla macchina. Cecilia le lanciò l'altro stivaletto
per zittirla, ma quest'ultimo venne malamente parato e rispedito fuori
dal finestrino, nell'erba del vialetto di Franzoni.
I suoi amici non se ne accorsero e nemmeno badarono alle sue lamentele;
le archiviarono come vaneggiamenti da sbronza, fecero salire il vetro
dello sportello e partirono, sgasando sulla ghiaia.
Fu Maestri a raccogliere la scarpa dal selciato, ridacchiando fra
sé.
Due baci a stampo e una sua scarpa: prendi questa Mannino.
Lisa si addormentò quasi subito, cullata dall'andatura
costante dell'auto. Cecilia l'avrebbe volentieri ospitata da lei, ma
purtroppo quella era una delle rare sere in cui sua madre Marina
sarebbe tornata a casa. Non voleva avere problemi, soprattutto se si
potevano evitare. Aiutò l'amica ad entrare in casa, a
cambiarsi e a tuffarsi nel letto, cercando di fare il meno rumore
possibile per non svegliare i genitori. Trovò solo uno
stivaletto, che lasciò in un angolo sul pavimento e poi
tornò in macchina con Gianluca, avvisandolo di cercare sui
sedili posteriori l'altro obbrobrio, in un momento di migliore
lucidità. Lamberti annuì e la riportò
fino al suo appartamento.
Sua madre stava dormendo beatamente nel proprio letto e nemmeno i
cannoni le avrebbero disturbato il sonno. Si svestì con
calma, avendo cura di riporre l'abito da dama e la maschera sulla
gruccia, senza rovinarli. Si struccò e lavò i
denti, prima di mettersi sotto le coperte leggere.
Sorrise al soffitto e si perse nei pensieri: non era mai stata
così contenta di aver quasi strozzato qualcuno. Avvertiva un senso di assoluta
libertà e scioltezza, una condizione che da troppo le
mancava, dopo la separazione dei suoi, la maturità, gli
esami, Niccolò. E ora Mannino era ricomparso, ma lei non gli
avrebbe dato corda; lui era il passato, e lei adesso voleva guardare ai
capelli biondi del futuro.
Matteo Maestri, dall'altra parte
della città, fissò per un'ultima volta lo
strano, per non dire orribile, stivaletto che era stato lanciato fuori
dal finestrino e che sapeva appartenere alla biondina – infatti,
era uguale a quello che si era sfilata davanti ai suoi occhi per
accontentare l'amica; aprì il borsone del calcio che era
sotto la scrivania e ce lo infilò dentro.
Smise i panni aderenti di Superman per calzare un ampio paio di boxer e
una maglietta a mezze maniche. Sdraiato sul proprio letto,
osservò il soffitto. Si sentiva strano. Forse era stanco. Gli sembrava di aver
appena finito allenamento, uno di quelli tosti a cui era obbligato ad
andare settimanalmente; aveva il fiato corto, la salivazione azzerata e
il battito accelerato, come dopo una partita giocata di corsa per
novanta minuti. Peccato che l'ultimo match risalisse ad una decina di
giorni prima.
D'un tratto, la verità gli apparve nitida; era
così evidente quel che stava succedendo al suo cuore che
rimase sorpreso di non averlo intuito prima: stava per avere un
infarto. Se si concentrava bene, poteva sentire un pizzicore al
braccio...
Corse in camera dei suoi ed espose a sua madre l'accurata autodiagnosi;
lei gli fece una limonata e si fermò a chiacchierare con lui
in cucina.
- Sei il solito ipocondriaco, Matti, – lo rimbrottò. – Non
è che hai conosciuto una ragazza, stasera?
Ecco, ci
risiamo,
pensò lui. Ecco che Adriana tornava ad usare i suoi
superpoteri di mamma. Come le donne sappiano sempre le cose, per gli
uomini rimarrà sempre un mistero.
- Può darsi, – fece
il vago, consapevole che tanto lei avrebbe capito la verità.
Infatti, sorrise a trentadue denti e gli diede due colpi sulla schiena.
- Allora è tutto a posto. 'Notte, tesoro!
Si rimisero entrambi a letto, Adriana colma di orgoglio materno per il
suo pulcino con il batticuore, Matteo sempre più convinto
dell'imminente collasso cardiaco.
Ripensandoci, se avere un infarto lo rendeva così leggero,
quasi quasi l'idea lo solleticava. Era felice e non vedeva l'ora di ritrovare la sua dama blu. L'avrebbe
cercata ovunque, in facoltà, in ogni strada, edificio o città.
Ora, infatti, grazie a Tinky Winky, sapeva anche il suo nome: Lisa.
Buona sera!
Pubblico
ora perché altrimenti non ho idea di quando riuscirei a
farlo, dal
momento che devo concentrarmi sull'ultimo capitolo di CLH e ho zero
tempo libero.
Visto che il capitolo
è lungo, note finali brevi.
Brainiac
effettivamente
esiste, nel mondo dei fumetti. Ammetto di non saperne nulla, Wikipedia
è la fonte di tutte quante le informazioni - pochissime! -
in mio
possesso. Ho scelto lui come antagonista di Superman
perché Lex Luthor mi
sembrava un po' banaluccio...
Sono citate tre protagoniste della letteratura ottocentesca: Elizabeth Bennet, Catherine Earnshaw e Emma Bovary,
rispettivamente appartenenti a Jane Austen ("Orgoglio e pregiudizio"), Emily
Brontë ("Cime
tempestose") e
Gustave Flaubert ("Madame
Bovary").
Ringrazio
nes_sie che ha gentilmente e pazientemente betato... in
realtà è lei
che dovrebbe ringraziare me, vista la quantità di neologismi
che le
propongo ogni volta!
Ringrazio
anche chi legge e chi si ferma a lasciare un commento: ora ho
sonnissimo, domani sarò fuori fino a sera, ma poi giuro che
vi rispondo.
Potrei aver dimenticato qualcosa: date colpa al sonno.
Mi sto
dilungando. Stop.
S.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
Capitolo IV
Gisella non si dava pace. Era preoccupata, molto preoccupata, persino peggio di quella
volta in cui era venuta la polmonite al bimbo della governante il
giorno prima della mega festa per il suo diciottesimo compleanno. Non
era riuscita a dormire né a pensare ad altro per tutta la
notte. Quel bambino così piccolo, obbligato a riposare
febbricitante nei freddi vani asettici di un ospedale... e sua madre,
costretta a vegliarlo. E chi diavolo ci avrebbe pensato a stirare il
suo vestito di Gucci in tempo per la serata? La servitù
sapeva essere così egoista, alle volte! In quale stupida
scala gerarchica un naso colante precedeva della seta pura impreziosita
da corallini?
A distanza di quattro anni, ancora le bruciava; quella filippina
portoricana, o qualunque cosa fosse, doveva ancora pagare cara per aver
fatto stirare quell'incapace della signora Ferris, che si era provocata
un'ustione di secondo grado ad una mano.
La ragazza scacciò con una mano quei brutti pensieri, mentre
passava davanti alla Biblioteca di facoltà e girava, quasi
incespicando sui tacchi, per attraversare il chiostro.
Quella mattina, due grossi problemi l'affliggevano: il primo
riguardava, ovviamente, Matteo Maestri. Il party di Franzoni non aveva
portato i frutti che lei aveva sperato e seminato ed era tutta colpa di
quella biondina insignificante, amica della stracciona. Non era servito
il favoloso costume di Marilyn ed, anzi, forse era stato addirittura un
errore, perché Maestri sembrava così
disgustosamente votato a fare del volontariato – e il fatto
che fosse amico di Filippo ne era la prova lampante –, che
impersonare una ricca attrice di Hollywood, seppur in modo magistrale,
si era rivelato controproducente.
La seconda questione era strettamente legata alla prima; sconvolta
com'era dall'aver visto il suo futuro marito confabulare e ballare con
quello stecchino rinsecchito della Molinari, aveva dimenticato di
prendere la pillola dimagrante. E ora eccolo, lo vedeva anche lei: il
pasticcino che si era concessa la notte precedente – l'unico, lungamente agognato e sniffato e,
infine, strafogato mentre Melissa era dispersa chissà dove
– aveva preso residenza sul suo sedere. Il bastardo non aveva
avuto nemmeno il buon gusto di spandersi uniformemente sulle due
natiche, maledetto!
Non appena arrivò al secondo piano, Gisella
spintonò un gruppo di ragazze e si sedette alla prima sedia
disponibile, temendo che qualcuno potesse indovinare la bravata del
party, direttamente dal suo fondoschiena. Prese in mano l'agenda e
consultò il programma della giornata: socializzare con
quelli del terzo, flirtare con il rappresentante degli studenti,
procurarsi due prevendite gratuite per la festa della
facoltà... dannazione, che vita infernale! Trasse dalla
borsa l'ultimo numero di Vanity Fair e lo sfogliò fino all'arrivo di
Melissa. La Cedreo non era al top della propria forma: occhiali da sole
calati sugli occhi, outfit total black e niente tacchi.
- Tuo padre è di nuovo scappato con l'istruttore di tennis?
– le chiese, perché... seriamente, non aveva
nemmeno un po' di fard sulle guance!
- Non fare domande idiote, per favore, Gis, –
l'ammonì scocciata l'altra. – Sai perfettamente
che ora abbiamo assunto una donna, per non farlo cadere in tentazione.
- E allora che succede? Voglio dire, – Gisella si
guardò in giro con aria circospetta e abbassò
drasticamente la voce, – non indossi neanche sette centimetri
di tacco!
- Sto cercando di mimetizzarmi con la plebe per la mia sicurezza.
È per via della festa, – disse secca.
Alla Ferris prese un colpo. Si appoggiò allo schienale della
sedia e spalancò gli occhi: Melissa sapeva. Sapeva del
cannoncino e ora si vergognava di essere vista insieme a lei, una
debole, una che si era lasciata concupire da un dannato pasticcino
ripieno di crema alla vaniglia.
- Ascolta... – cominciò, sperando di fare
ragionare l'amica.
- No, ascolta tu, – la bloccò Melissa, mentre si
sfilava gli occhiali da sole e si avvicinava all'amica. – Se
gli altri lo sapessero, sai che fine faremmo? Abbiamo un certo status
da mantenere, che abbiamo impiegato anni a costruire e non posso
permettere che lo sbaglio di una volta ci trascini nell'anonimato, o
peggio, nell'oblio! Farò quello che è nelle mie
possibilità per tentare di tenerci a galla.
E, detto questo, si alzò dalla sedia e camminò in
punta di piedi fino alla tromba delle scale, dove indossò
nuovamente gli occhiali e si confuse tra gli altri studenti.
Gisella rimase interdetta, pensando a quale idiota fosse stata;
nell'ipotetico scenario apocalittico che si stava prefigurando nella
sua mente, qualche collega cattivo le avrebbe trovato un nomignolo
altrettanto meschino da diffondere come l'aviaria. Già se li
immaginava mettersi in coda o indire un'elezione per sceglierlo.
Sarebbe stato degradante, lo prevedeva, e soprattutto quegli avvoltoi
avrebbero acquisito più potere e notorietà di
quanti ne fossero in suo possesso in quel momento. E solo
perché la gente era perfida. Lei si era sempre guadagnata
tutto da sola e né Gambadilegno, né Brufolo Bill
e, che Dio ce ne scampasse!, nemmeno Eva la Ciofeca l'avrebbero
affondata.
Si alzò in piedi, facendo stridere la sedia, quando
improvvisamente una lampadina le si accese nel cervello. In
realtà era un raggio di sole fuori dalla finestra, ma le
sembrò sufficiente come segno divino. Divino come colui sulla cui nuca la luce si era
posata. Matteo stava studiando a qualche tavolo di distanza, annoiato e
distratto. Gisella gli si avvicinò con passo militare e
l'abbracciò da dietro. Maestri prima si spaventò,
poi, appurato che non era nessun pazzoide del lunedì
mattina, ma la sua solita stalker di tutti i giorni, tentò
di contenere il disappunto dovuto a quell'eccesso di affetto.
- Ciao, Matt! – gracchiò la ragazza, in estasi.
- Ciao, – rispose laconico.
- Divertito alla festa di Fil? – Cercò di
attaccare bottone, prontamente bloccata da una ragazza bruttina che
sedeva di fronte ad entrambi.
- Scusate, ma se dovete far conversazione, andate alle macchinette. Qui
si studia, – affermò risentita, scatenando l'ira
di Gisella.
Maestri provò ad intromettersi tra le due,
affinché si potesse scongiurare una lite tra donne per
colazione. Aveva assistito una volta ad un litigio tra sua madre e
un'altra signora al supermercato per l'ultimo fustino di detersivo in
offerta e gli era bastato. Aveva dovuto tappare orecchie e occhi a sua
sorella e ficcarle in bocca un leccalecca per distrarla, prima che la
sua genitrice tornasse a comportarsi da tale.
- Scusa, hai ragione. Niente chiacchiere, – tagliò
corto, ma Gisella ormai era partita in quarta.
- Eva, tesoro, dimmi perché mai dovrei ascoltarti, quando
sono due anni che ti dico di fare qualcosa per le tue sopracciglia e
non mi pare proprio che tu mi sia stata a sentire, –
berciò rabbiosa, zittendo la ragazza. – Dicevamo,
Matt? Ah, sì. Carina la tizia con cui hai ballato...
– lanciò l'esca, in attesa che il pesce abboccasse.
- Non sei stata molto simpat... cosa? – Matteo
dimenticò in fretta le scuse che stava per porgere ad Eva
per i modi bruschi della Ferris e, da bravo pesce lesso,
cascò nella sua rete. – La conosci?
Lasciò cadere la matita smangiucchiata a metà del
libro e si voltò verso di lei, guardandola – per
la prima volta in vita sua – con interesse. Aveva passato il
week-end a tentare di rintracciare la sua dama blu, ma le ricerche che
aveva condotto non avevano portato a nessun risultato utile. Franzoni
si era rivelato, come al solito, inutile, affermando di non non
conoscere nessuna Lisa e di non aver riconosciuto alcuno dietro la
maschera e Matteo non aveva avuto il coraggio di chiamare Mannino per
chiedere informazioni.
Gisella annuì e lo trascinò sul balcone, mentre
Matteo la seguiva mansueto come un cagnolino, stupito che il tanto
atteso giorno in cui la Ferris si sarebbe rivelata utile fosse
arrivato, dopo millenni di torture.
- Chi è? Come si chiama? Hai il suo numero? –
cominciò a sparare domande come una mitragliatrice.
- Calma, calma! – lo redarguì lei. – So
bene chi è lei e, anzi, mi stupisce il fatto che tu non
l'abbia riconosciuta. Fa questa facoltà, ma probabilmente
senza quel ridicolo costume è più insulsa di un
bastoncino dei ghiaccioli.
Lui registrò nella mente solo le parole fa questa
facoltà. I giudizi di Gisella su di lei non avevano
grande importanza, perché trovava difetti a qualunque
ragazza con cui lui volesse uscire, a meno che non fosse lei stessa.
- E allora? Io so solo che si chiama Lisa, – la
incalzò. Lisa? Che c'entrava ora la stracciona?
– Ho sentito un suo amico chiamarla così.
Dopo un attimo d'indecisione, Gisella decise di sfruttare quel
malinteso a suo favore. Doveva riconquistare la fiducia di Melissa, in
un modo o nell'altro, e se questo comportava perdere temporaneamente il diritto di prelazione su Matteo, tanto
valeva rischiare.
- La conosco, ma Lisa è la sua amica. Lei si chiama Cecilia.
– Il ragazzo parve confuso da questo caos sui nomi, ma era
troppo eccitato all'idea di averla trovata, per dare rilevanza ad un
particolare così superfluo. – E conosco anche il
suo fidanzato.
Maestri smise il sorriso che aveva stampato in viso, lasciando posto ad
un concentrato di delusione mista a sgomento.
- Credo tu l'abbia scambiata per un'altra, – provò
a ragionare. – Ha passato l'intera serata con me e ci siamo
persino baciati.
Gisella ingoiò il rospo – no, troppo calorico!
– ...ehm, diciamo che mal digerì l'idea della
stupida Molinari avvinghiata al futuro signor Ferris e
proseguì con il suo piano, ancor più determinata
ad eliminare la concorrenza.
- Mi spiace, Matt, – lo avvicinò e gli
avvinghiò un braccio, sfruttando il suo momento di
smarrimento. – È un gioco perverso che fanno
sempre lei e Mannino per tenere vivo il rapporto. Sai, dopo tanti anni
che si sta insieme, è necessario un po' di pepe e loro si
divertono così, a giocare con i sentimenti delle
persone.
Matteo era a dir poco frastornato; aveva sussultato nel sentire il
cognome di Niccolò e tutto gli era sembrato così
assurdo da avere senso. Lei che gli calpestava accidentalmente il mantello di Superman, Mannino che, tra
tutti, aveva scelto di rivolgersi proprio a lui per domandare di
Franzoni, poi sempre lui che la baciava nei pochi istanti in cui Matteo
era al piano di sopra, visibile solo a Filippo...
- Ne sei sicura? – chiese, pur continuando a sperare che
Gisella avesse preso un abbaglio.
- Prova a parlarne con Fil, se non mi credi. Tutti sanno della storia
tra Cecilia e Niccolò.
Certo, tutti ne erano a conoscenza, e se Maestri avesse effettivamente
domandato chiarimenti a Franzoni, lui non avrebbe fatto altro che
confermare che sì, la sua ex compagna di liceo aveva una
liaison con Mannino. Il piccolo particolare che non rendeva totalmente
veritiera la versione di Gisella era che la relazione era morta e
sepolta da almeno un paio d'anni.
Matteo non poteva crederci; era già capitato in passato che
la Ferris avesse inventato balle su altre persone, ma, in questo caso,
tutto sembrava coincidere. Strinse forte i pugni e cominciò
a bollire di rabbia; la dama blu e quel bellimbusto del suo fidanzato
l'avevano preso in giro. E lui ci era cascato come un cretino, usato
per ingelosire il ragazzo. Chissà, probabilmente quei due
avevano anche riso alle sue spalle, della sua goffaggine, di quei
timidi tentativi di provarci con lei...
Piantò in asso Gisella sul terrazzo e ritornò al
tavolo, solo per racimolare le proprie cose e ficcarle tutte nello
zaino. Mentre scendeva velocemente i gradini per uscire dal palazzo,
prese dalla tasca il cellulare e chiamò Filippo. Quando
rispose, non tentò nemmeno di essere educato o gentile.
- Sapevi di Niccolò Mannino e una certa Cecilia? –
ringhiò, tenendo a bada il volume della voce.
- Cecilia chi? Molinari?
- Rispondi, – lo esortò. Non era certo che il
cognome fosse quello, ma con un nome così particolare, non
c'erano molti margini di errore.
- Certo, facevamo tutti e tre il Maffei. Tutti lo sapevano.
Ma...
- E che cazzo aspettavi a dirmelo? – lo interruppe.
Franzoni non capiva che diavolo c'entrasse in quel momento quella
storia. E soprattutto perché Matteo ora gli stesse gridando
contro, riportando alla memoria un fatto che risaliva ad anni prima.
Aveva fatto un incidente e aveva perso la memoria? Perché in
tal caso meglio ricordargli che Renzo stava con Lucia, Carlo con
Camilla, Brad con Angelina e Maurizio con Maria.
- Dirti cosa? Che stavano insieme? – azzardò.
- Pensavo fossimo amici. Ti sei divertito a farmi fare la parte del
cretino?
Forse era impasticcato. Oppure aveva bevuto e ora aveva la sbronza
triste e stava cercando di far riaccoppiare Cecilia – alias
la nuova arricchita – e quel deficiente sbruffone di Mannino.
- Matti, ma che stai dicendo?
- Vaffanculo, Franzoni.
E spense il cellulare.
La
sveglia era suonata puntuale alle sette e dieci, come ogni
lunedì mattina, ma non era stata necessaria: Cecilia aveva
già gli occhi aperti almeno da qualche ora, forse non aveva
neppure dormito. Aveva passato giovedì e venerdì,
liberi dalle lezioni, a badare al figlio dei vicini con la febbre ed
era stato un ottimo diversivo, perché almeno le aveva
permesso di tenere i piedi per terra e di non pensare ogni istante alla
festa di mercoledì.
Non vedeva l'ora di parlare con
Lisa, ma questa non rispondeva alle sue chiamate e si era limitata a
mandarle un sms sintetico per comunicarle che sarebbe andata per il
fine settimana in Toscana con i suoi a trovare i nonni. Era strano,
visto che lei odiava sua nonna e, più di tutto, odiava
spendere del tempo insieme a sua madre, ma se Lisa voleva rendersi
irreperibile, significava che era meglio starle alla larga.
Probabilmente era talmente nervosa per dover passare il week-end con
quelle due streghe, da voler evitare di discutere con chiunque
altro.
Venerdì sera, Cecilia
era stata incastrata ad una cena con Marina, sua mamma, che pareva
miracolosamente essersi ricordata dell'esistenza della figlia in
occasione della riunione mensile delle Bisbetiche del bridge, così come erano state
ribattezzate da Lamberti. Marina adorava esporla come una bambola
dentro ad uno dei suoi abiti lussuosi, con qualche gioiello di famiglia
ad abbellirle quel viso troppo acqua e sapone. Era il suo trofeo, il
suo orgoglio, la sua perla... ovviamente una volta ogni cinque mesi,
quando toccava a loro ospitare la serata. Per il resto, era la
coinquilina fastidiosa che le impediva di vivere al massimo la sua vita
di donna quarantenne single e di bell'aspetto, colei che l'aveva
costretta a rinunciare alla sua giovinezza per rincorrere biberon e
pannolini e l'aveva ricompensata con smagliature e chili di troppo.
Come se avesse deciso Cecilia di venire al mondo. Eppure la ragazza si
prestava a quelle buffonate periodiche, rispondendo a tutte le domande
idiote che le amiche di Marina le sottoponevano, a tutti i consigli di
chirurgia estetica che le davano, a tutti i discorsi superficiali sul
trovarsi un marito vecchio e ricco da spennare. Le detestava,
perché erano solo un branco di donne insoddisfatte e
frustrate che riponevano inutili speranze su figli altrettanto sciocchi
e opportunisti; non era un caso che anche la signora Franzoni e la
signora Ferris facessero parte dell'esclusivissimo circolo. E per
quanto la biondina fosse consapevole di ciò, partecipava ad
ogni incontro in casa sua, perché quello era l'unico modo,
l'unico momento in cui si sentisse accettata dalla madre.
Sabato sera, invece, Gianluca e
Carlo l'avevano obbligata ad uscire con loro. Dopo aver bevuto qualcosa
in periferia, Cecilia, casualmente, aveva voluto arrivare fino al centro per
entrare in un altro locale, il Firefly, ma non c'era traccia di Matteo. Aveva
persino mandato Lamberti a chiedere di lui ad un altro barman
– la reticenza di Gianluca era presto svanita quando lei gli
aveva ricordato di averla smascherata di fronte a Niccolò
– e il tizio gli aveva confermato che era il suo giorno
libero.
A quel punto l'atmosfera si era
rilassata. Un po' troppo, in realtà, perché era
diventata una noia: uscire con due maschi non era divertente se non
c'era Lisa a stuzzicarli. Ci fosse stata, sarebbero bastati una seduta
e un pacchetto di popcorn per gustarsi la scena di quei due strapazzati
dai suoi modi spicci e dalle sue battute al vetriolo.
La domenica era stata l'apice
della pigrizia; aveva acceso il portatile e si era guardata l'ultima
serie di Grey's
Anatomy per
ingannare il tempo. Alla sera aveva due occhi rossi come melograni e un
mal di testa memorabile. Si era gettata sotto la doccia e poi dritta
nel letto. Ed era arrivato il lunedì. Finalmente avrebbe
rivisto Lisa. E voleva solo essere abbastanza fortunata da incontrare
Maestri in università.
I fogli
di appunti stavano volteggiando nell'aria come uno sciame di insetti
impazziti. I suoi fogli
di appunti.
Gli occhi infuriati di Lisa riemersero da quel tornado bianco sporcato
d'inchiostro e guardarono con astio il giovane accovacciato che cercava
maldestramente di fare ordine in quel marasma cartaceo. Li aveva
spiegazzati, impilati in un blocco un po' in un verso, un po'
nell'altro, porgendoglieli infine nel vano tentativo di scusarsi della
gomitata accidentale.
- Scusa, ero al cellulare, non ti ho vista arrivare, – si
giustificò.
- Questo era evidente, –
gli rispose glaciale, strappandogli di mano il plico disordinato.
Il ragazzo la fissò
incuriosito, come se cercasse di collocare il suo viso in una
situazione o in un luogo già visto.
- Ci conosciamo?
- Sì, – si
affrettò a dire lei, – in un'altra vita io ero un
leone e tu una gazzella. Ti ho sbranato e poi ho lasciato la tua
carcassa dilaniata alla mercé di un branco di iene. E
indovina un po'? Fammi cadere di nuovo il faldone e vedrai che
replicheremo la scena.
Lui rimase senza parole, confuso
da tanta aggressività. Lisa continuò imperterrita
a controllare di non aver perso nient'altro, oltre che del tempo
prezioso.
- Eri alla festa di Filippo Franzoni, mercoledì. Giusto?
– La ragazza s'irrigidì. Non aveva molti ricordi
di quella serata e tra gli stralci che il suo cervello aveva
memorizzato, non c'era la faccia di quello sconosciuto. C'era ben
altro, a dire il vero, ed era altrettanto scomodo e fastidioso come
quella conversione in atto. – Ci siamo divertiti...
Ci siamo divertiti? Parla
per te, emerito signor Nessuno, pensò Lisa. Poi un dubbio
l'assalì: che quel plurale non fosse casuale? Che fosse lui
il tizio del bagno, colui che le aveva lasciato una noiosissima
irritazione laggiù che
da giorni non le dava tregua? In tal caso era meglio approfondire la
conoscenza. Respirò a fondo e cambiò
atteggiamento, abbozzando un sorriso ed inaugurando un nuovo modo di
fare.
- Sì, ero proprio io,
– ammise, senza riuscire a trattenere una risatina isterica.
– Ehm, sono Lisa, comunque. Piacere".
Il ragazzo rimase come intontito
per qualche istante, mentre fissava con stupore la mano tesa verso di
lui. Alla fine la strinse forte e completò la sua
presentazione.
- Matteo.
Sto facendo delle
fotocopie. Ci vediamo in chiostro alla pausa.
Cecilia lesse il messaggio di Lisa
mentre l'insegnante cominciava la lezione di Letteratura latina, la
più noiosa del terzo anno. Levò la borsa dalla
poltroncina accanto che aveva tenuto per l'amica e iniziò a
scrivere diligentemente e in bella grafia alcune nozioni. Dopo cinque
minuti, desiderò essere rimasta a letto perché,
se proprio avesse voluto dormire, almeno sarebbe stato più
confortevole sul suo materasso a due piazze, invece che in un'aula con
la voce piatta della professoressa in sottofondo. I tre quarti d'ora
più lunghi della sua vita. Lasciò borsa e
quaderni nella stanza e si precipitò giù in
chiostro, illuminato parzialmente da un caldo sole autunnale. Ma Lisa
non c'era. In compenso, c'era Matteo, quel Matteo, che si stava dirigendo a passo
spedito proprio verso di lei. Il portamento elegante, i capelli
indisciplinati e un libro in una mano, le sorrideva con gli occhi e con
le labbra. Si sentiva patetica a contare i passi che li separavano, ma
quando se lo trovò davanti con lo sguardo un po' confuso e
un indice puntato contro, per poco non dovette reggersi alla colonna
dietro di lei.
- Claudia, vero?
Il viso della ragazza si contrasse
in una smorfia di stupore: non era proprio un inizio col botto, ma come
biasimarlo? La sera della festa c'era la musica, il rumore delle
chiacchiere degli altri invitati, il tintinnio di bottiglie e bicchieri
e nemmeno era sicura di avergli comunicato il suo nome. Aveva azzeccato
l'iniziale e le due finali: la biondina si ritenne quasi del tutto
soddisfatta. Era già assai elettrizzante il fatto che
l'avesse trovata e, prima ancora, cercata. Sorrise indulgente di fronte
allo sbaglio e lo corresse.
- Cecilia.
Matteo si picchiò il
palmo della mano contro la fronte, ridacchiando della propria studiata
sbadataggine. Era più bella di quanto si ricordasse; aveva
lo sguardo ingenuo e pulito e, per un attimo, si rese conto del
perché fosse stato tanto facile lasciarsi ingannare da
quegli occhi chiari.
- Scusa. Sono pessimo con i nomi.
Sono Matteo, ricordi? Ci siamo conosciuti da Filippo
mercoledì scorso.
La ragazza cominciò ad
annuire ancor prima che lui avesse finito la frase. Non erano necessari
tutti quei preamboli, quell'introduzione per preparare il terreno per
chiederle di uscire. Lui sembrava sguazzare a suo agio in quelle
inezie, ma per lei era solo un doloroso procrastinare il momento in cui
l'avrebbe finalmente invitata fuori.
E poi comparve Lisa,
chissà da che diavolo di parte era saltata fuori, nel
momento meno opportuno; erano quattro giorni che non si vedevano e ora
doveva materializzarsi proprio in quel frangente così
delicato?
- Ehi, Ce' – la
salutò, ignorando rozzamente Matteo.
- Ciao, – rispose,
perplessa in quella strana situazione. Lisa non aveva salutato Maestri;
Maestri sembrava a proprio agio con ciò, ed entrambi
guardavano Cecilia in attesa. Forse aspettavano di essere presentati.
– Ehm, Lisa, lui è Matteo...
L'amica stroncò il suo
intervento sul nascere, facendole intuire che non era necessario.
- Ci siamo già
presentati, – le spiegò.
Ora la biondina non capiva
più nulla. Presentati quando? E dove? E perché?
Possibile che in quei giorni di silenzio stampa della Zanin si fosse
persa qualcosa di così importante? Rimase rigida come un
baccalà per un paio di minuti d'imbarazzante silenzio,
finché Maestri tolse d'impaccio tutti, rivelando il mistero.
- Le ho appena chiesto di uscire.
Non era stato facile come aveva
progettato. Non era stato facile punto e basta. Matteo credeva che la
vendetta lo avrebbe fatto sentire meglio, pensava che vedere la ragazza
che lo aveva preso in giro rimanere spiazzata e sorpresa lo avrebbe
ripagato della ferita nell'orgoglio, ma la delusione malcelata nello
sguardo di Cecilia gli aveva fatto provare l'esatto contrario;
nonostante si fosse sforzata di sorridere e di augurar loro che
l'appuntamento fosse un successo, le si leggeva in faccia che il suo
entusiasmo non era sincero.
Dopotutto, però, non
era nemmeno giusto che si sentisse male per lei; non era stato lui a
cominciare quel gioco sporco, si stava semplicemente attenendo alle
regole stabilite da Niccolò e Cecilia e non era di certo
colpa sua se ora qualcuno ne rimaneva scottato. Nessuno si era
preoccupato per lui, perché lui avrebbe dovuto farlo? In
più, Lisa era simpatica. Stramba, quello di certo, e pure un
po' acida e perennemente sulla difensiva, ma nella mezzoretta in cui
avevano preso un caffè al bar, erano stati abbastanza abili
da mantenere la conversazione viva e frizzante. Se anche non si fossero
trovati a proprio agio ad uscire insieme come una coppia, sarebbe stato
divertente averla come amica.
Amica. Cecilia non si capacitava di cosa fosse
successo alla sua; l'intera storia le pareva paradossale: Matteo aveva
ballato con lei per quasi l'intera festa, aveva baciato lei, a lei aveva
chiesto il nome... e perché ora lui aveva chiesto un
appuntamento a Lisa?
Quando Maestri aveva pronunciato
quella frase, le era venuto un colpo. Non che la Zanin non fosse degna
di attenzioni maschili nel suo modo contorto di essere, ma tra tutti
gli uomini, proprio lui? Ed era in parte colpa della stessa Cecilia e
del suo stupido incoraggiamento a lasciarsi andare con i ragazzi,
invece che fare la solita inflessibile in cerca dell'uomo perfetto. E
Lisa, a sorpresa, aveva proprio deciso di sospendere le ricerche con
Matteo. La sfiga.
D'altro canto, Cecilia non si era
sentita di dire nulla all'amica, anche perché uscirsene con
un Ma perché cavolo ha
invitato te, quando è sempre stato con me? non le sembrava molto carino. Lei era
fatta così: i sentimenti degli altri prima dei suoi e non
dubitava che questo suo lato del carattere fosse un'eredità
di quanto successo con Niccolò. Lì, aveva
abbassato la guardia, aveva ragionato con il cuore e non con la mente
ed era rimasta impantanata in una trappola di bugie e sotterfugi, da
cui si era liberata solo grazie all'aiuto di Carlo e Gianluca.
Perciò, ora l'amicizia aveva la priorità su tutto
e per il momento – e proprio per preservarla, quell'amicizia –
sapeva di aver bisogno di restare sola; non sarebbe riuscita ad
ascoltare Lisa e i suoi discorsi su quanto sarebbe stato eccitante
uscire con Matteo. Il suo Matteo.
Dannazione, questo non era esattamente ragionare con la mente.
Si offrì di portare
entrambi i vestiti in tintoria e di riconsegnarli al negozio in Vicolo
della Polvere. Lisa le chiese più volte se volesse essere
accompagnata, ma lei declinò sempre. Era brutto da dire e
difficile da ammettere, ma sapeva perfettamente perché tutto
ad un tratto le fosse sparita la voglia di fare quattro chiacchiere e
quattro passi con l'amica: Matteo. Seppur con una gran confusione in testa,
la ragazza entrò nel lavasecco e vi lasciò
entrambi i vestiti. Pagò un'extra perché li
potesse ritirare entro qualche ora, dopo aver fatto una passeggiata a
piedi tra le vie del centro a rimuginare sulla sera precedente e a
sperperare un po' di soldi con del buon shopping terapeutico.
Anche Lisa era decisa a fare un po' di compere, in vista
dell'appuntamento con Maestri. Ancora non aveva capito il motivo per
cui lui fosse spuntato dal nulla con quella proposta, ma la ragazza non
escludeva che lui c'entrasse con il nauseante risvolto della festa di
Franzoni, tra quanto accaduto nel bagno padronale di Filippo e poi di
casa sua. Mah, era tutto strano ultimamente. Persino Cecilia, che la
spronava in continuazione a concedere più chance ai rari
baldi giovanotti che avevano il fegato di offrirle di uscire, quella
mattina non si era rivelata molto entusiasta, quando Matteo le aveva
detto di loro due. E la cosa un po' le puzzava.
Cecilia detestava il profumo delle tintorie, troppo dolce e floreale
per non farle venire il mal di testa nel giro di pochi minuti. Cercò di restare nel negozio
meno tempo possibile, poi svoltò in una via e si diresse
verso il vicoletto nascosto in cui si trovava Sale in zucca. Non appena entrò, carica come
un mulo, la proprietaria l'accolse calorosamente, insieme all'ormai
familiare sorriso gioioso.
- Cecilia, buongiorno! –
la salutò, al settimo cielo.
- Salve Fatima, –
rispose lei, decisamente qualche piano più in basso, mentre
poggiava i vestiti sul bancone.
- Qualche cosa non va?
Allora ce l'aveva proprio scritto
in faccia che non stava bene! Tentò di liquidare l'argomento
con una fallimentare mezza smorfia che avrebbe dovuto rassicurare la
donna, ma che non riuscì a convincere nemmeno per un attimo
gli occhi verdi ed indagatori della signora.
- Problemi di cuore, –
ammise infine, sconvolta da quanto poco ci fosse voluto per confessare
tutto ad una perfetta sconosciuta, soprattutto per lei che era sempre
stata una persona riservata. O forse riservata e
chiusa in se stessa lo era diventata per forza di cose,
perché sua madre non c'era mai e le rare volte in cui si
faceva trovare a casa era troppo impegnata per ascoltarla. Prima di
Cecilia c'erano l'estetista, il parrucchiere e l'amante. Ferdinando,
invece, divideva il suo tempo tra il lavoro e Maria Carolina; sua
figlia era grande ormai ed era persuaso che non avesse più
bisogno di un padre che la coccolasse e le dimostrasse di esserle
vicino, nonostante abitassero in due case diverse. C'era solo Van Gogh
a farle compagnia, ma era così poco incline a comunicare con
lei...
E invece Fatima era lì,
preoccupata per lei, in tutto il suo discernimento materno. Lei la capiva.
La fece accomodare su di un'antica
poltroncina imbottita e la esaminò attentamente.
- Oh, cielo! Cos'hai? Aritmia, uno
scompenso cardiaco, un'ipertensione arteriosa...? – Okay,
forse non è che la capisse così bene.
Cecilia rimase intontita per un
attimo, mentre quei termini medici mezzi sconosciuti la investivano.
- No, no, – si
affrettò a precisare, prima che quell'altra chiamasse
un'ambulanza o le facesse trangugiare l'intruglio contenuto in un
bicchiere, comparso magicamente dietro il bancone. –
Problemi... d'amore, – ammise, arrossendo.
Fatima tirò allora un
sospiro di sollievo e si posò una mano sul cuore,
sorridendo. Ridacchiò per un attimo rivolta al pavimento,
poi volse nuovamente lo sguardo verso la ragazza.
- Tesoro, sei così
giovane! – Le diede un buffetto sulla guancia. – E
i giovanotti della tua età sanno essere tanto sciocchi!
Hanno proprio una testa di legno. Ma ora non ti preoccupare: una volta
ho trasformato un ragazzo di legno in un bambino, questa
sarà una passeggiata!
- Ha trasformato un ragazzo di
legno in un bambino? – Cecilia aveva gli occhi sgranati.
Fatima esitò prima di
rispondere, mentre lo spillone che aveva tra i capelli pareva agitarsi.
Cecilia rifletté su quanto aveva creduto di vedere: uno
spillone che si agitava? E ora non stava forse tossendo scintille?
- Maledetta boccaccia! –
borbottò la donna. – Sì, volevo dire
che ho aiutato un bimbo con la testa di legno, metaforica eh!, a
diventare un uomo, ecco cosa intendevo. Il caro Pinoc... ehm, Pino. Lo
conosci? – continuò, farneticando. – Ad
ogni modo, come sono riuscita con Pino, così sarà
con Matteo.
Cecilia era così
abbattuta – e francamente così scettica
– da non badare al fatto che Fatima sapesse il nome del
giovanotto in questione, pur non avendolo lei mai menzionato.
- Pino? No, mi spiace, non ho idea
di chi sia, – si scusò.
Purtroppo, però, aveva
ben chiaro in mente chi fosse Matteo Maestri.
Non appena uscì dagli
spogliatoi, Matteo notò che c'era qualcosa di strano: il
campo del centro sportivo era stranamente affollato. E la casacca verde
evidenziatore che Luca gli stava porgendo gli fece intuire di essersi
dimenticato qualcosa, sopraffatto dai pensieri su Lisa, Cecilia,
Mannino e quel riccone traditore di Franzoni.
- Merda, la partita! –
imprecò, indossando la giubba.
Si accodò agli altri
che stavano ascoltando le istruzioni del mister Barcellandi, un
cinquantenne dal fisico tonico e il pugno di ferro.
- Abbiamo rimandato il
più possibile questo momento, sperando che le cose si
risolvessero, ma così purtroppo non è stato. Il
nostro centro non ha più soldi e presto chiuderà.
Per nostra fortuna, mister Amato e i suoi ragazzi hanno acconsentito a
farci allenare con loro, fondendo ovviamente le due squadre.
Perciò, da oggi diamo il via all'esperimento.
Prese allora la parola l'altro
allenatore, dal forte accento meridionale.
- Siamo coscienti del fatto che
non sarà facile, dovete imparare a conoscervi e a
collaborare. Siete tanti, come potete vedere, quindi cerchiamo di
venirci incontro. Vi abbiamo divisi in due gruppi, è solo un
test. Ora quattro giri di campo, forza.
Matteo lo osservò
attentamente: sembrava abbastanza in gamba da gestire un branco di
ragazzoni col testosterone a mille e piuttosto inclini a menare le
mani, oltre che i piedi. Li stava sollecitando a correre e Maestri
obbedì; ne aveva bisogno, per il fisico e per la mente. Il
calcio, per lui, era sempre stato soprattutto una valvola di sfogo,
prima che un divertimento e un modo per tenersi in forma. Svolsero
altri esercizi per un'ora intera, poi entrambi i coach stabilirono che
fosse tempo per una partitella informale.
Barcellandi braccò
Maestri per la maglia.
- Muovi il culo e vedi di giocare
decentemente. È una delle ultime volte che giochiamo qui,
fammi fare bella figura, – gli strizzò l'occhio.
– E non pensare che non ti abbia beccato, – lo
ammonì. – Sempre in ritardo. Per fortuna non sei
l'unico.
Il giovane ridacchiò e
gli fece cenno di aver capito, mentre si girava a guardare chi fosse
così folle da presentarsi un'ora dopo l'orario stabilito.
Smise di sorridere, quando Niccolò Mannino lo
avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla.
- Ehi, Matti.
Vennero interrotti da mister
Amato, che porse al nuovo arrivato una casacca arancione e lo
esortò a sbrigarsi, se non voleva finire a pulire i bagni
degli spogliatoi. E Dio solo sapeva che diamine ci facessero quei
ragazzi là dentro, al di là delle innocenti
scudisciate sul sedere con le salviette e della pipì negli
scarpini altrui.
- Ti sei divertito alla festa di
Franzoni? – chiese all'improvviso Matteo. Non era il
masochismo a spingerlo, semplicemente voleva scoprire se quel pallone
gonfiato sapeva che il suo gioco era stato scoperto.
Niccolò si
sistemò i parastinchi sotto ai calzettoni, inginocchiato, e
alzò lo sguardo sull'altro con un ghigno compiaciuto.
- Finché riesci a
scopartene una, ci si diverte, no?
Clara Orpella aveva aperto le
gambe per lui per l'ennesima volta, non che fosse una
novità. Sarebbe stata una vera notizia se fosse riuscita a
tenerle serrate per più di ventiquattro ore di fila. Ogni
volta si riprometteva di farlo, di non cedere alle lusinghe a parole e
a fatti di Niccolò, ma poi bastava che lui si offendesse per
un tale affronto, che lei e il suo nobile animo da crocerossina
ninfomane si sentivano in dovere di accontentarlo. Perché
lui sapeva essere un angelo per convincerla e un diavolo tentatore per
il restante tempo. E né lei né i suoi ormoni
erano fisicamente in grado di dirgli di no.
Maestri fece un passo verso di lui, deciso ad affrontarlo a viso
aperto; Mannino era così vile e sfacciato da non conoscere
il senso del pudore. Prima lui e la sua degna compagna Cecilia lo
avevano usato come un giocattolo per tenere vivo il loro rapporto, ora
gli stava confessando quanto si fossero divertiti tra le lenzuola. E
non aveva nemmeno il buon gusto di parlare della sua fidanzata in
termini più lusinghieri di una scopata. Quattro, cinque anni
insieme – neanche gli interessava saperlo con precisione
– con lo stesso ragazzo per sentirsi trattare come una
puttana. Non sapeva dire quanto tutto lo disgustasse, a partire da lei,
disposta a subire in quel modo; e, nel caso remoto in cui quel
trattamento fosse reciproco, la situazione era ancora peggiore.
Semplicemente si meritavano, quei due.
Il fischio di Barcellandi fece
scemare per qualche istante ogni istinto bellicista. Ciascuno
andò ad occupare la propria posizione, Matteo in quella di
terzino sinistro e Niccolò più avanzato, da
centravanti. Non li separavano tanti metri e non passò molto
prima che la squadra arancione s'impossessasse del pallone e tentasse
di sfondare la difesa avversaria. Mannino e il numero nove
s'intendevano piuttosto bene, erano affiatati, si notava che era da
parecchio che giocavano insieme. Maestri era rimasto indietro a fare
copertura insieme al due e al quattro, Federico e Fabio; non gli
interessava che l'attacco non andasse in porto, lo allettava l'idea di
poter terminare il faccia a faccia con Niccolò. Quando
quest'ultimo si propose in avanti, stoppando di petto la palla su
suggerimento del nove, Fabio lo placcò efficacemente e
Matteo non riuscì a fare altro che sfiorargli la caviglia.
- Matti, attento! Quella mi serve,
– rise.
Per saltare sul materasso
con lei? Si ritrovò a pensare Matteo con
stizza.
Dopo venti minuti di partita,
stavano 1-1. I verdi non stavano giocando particolarmente bene ed
entrambi i coach si stavano sgolando per stimolarli a provare qualche
soluzione migliore. E l'occasione tanto attesa arrivò;
Maestri non si sentì fiero di se stesso, mentre entrava a
gamba tesa sul polpaccio di Mannino. In un moto di coscienza,
cercò di rendere meno violento l'impatto, ma non
poté impedirsi di provare un certo piacere e sollievo a
colpirlo.
I lamenti di Niccolò e
le urla di entrambi gli allenatori non tardarono ad arrivare. Maestri
lo stava ancora guardando contorcersi dal dolore, indeciso se dargli o
meno il colpo di grazia – l'umiliazione –, quando
Barcellandi gli si avvicinò.
- Fossi in te, tratterrei quello
sputo, – gli sussurrò a bassa voce, mentre lo
costringeva a spostarsi di qualche metro per lasciare che Amato
portasse del ghiaccio al ferito. – Non so che cazzo sia
successo tra voi, ma sai bene che i problemi fuori dal campo rimangono
fuori dal campo.
Matteo ricacciò
il fiotto di saliva in gola. Aveva profondo rispetto per il mister e,
dal momento che era conscio di non essere abbastanza lucido da sapere
quale fosse la cosa giusta da fare, decise di fidarsi. Si
passò il dorso della mano sulla bocca e disse la cosa
sbagliata.
- Non sono pentito.
L'uomo lo guardò,
colpito dalla sua ostinazione.
- Lo so, te lo si legge in faccia.
Solo non dirlo a voce alta. So che siete diventati tanti, ma questo non
è il modo di distruggere la concorrenza, –
scherzò per sdrammatizzare. – Vai a farti una
doccia e tornatene a casa. Non farti vedere prima di settimana
prossima. E fingi che ti abbia dato una bella strigliata. Capito,
Maestri? – alzò la voce cosicché lo
potessero sentire tutti. – Levati dalle palle, ora!
Non l'avevano mai cacciato dal
campo. Non si era mai comportato slealmente al punto da meritarsi un
cartellino rosso. Eppure quel giorno se n'era preso uno virtuale. Per
una ragazza. No, non per quello. Lui l'aveva fatto per il suo orgoglio.
O almeno lo sperava.
Si lavò in fretta,
sotto un getto d'acqua fredda che sperava potesse aiutarlo a placare il
caldo rabbioso che lo scontro con Niccolò gli aveva
provocato. Non appena arrivò a casa, lasciò
cadere il borsone con un tonfo sul pavimento dell'ingresso, senza far
nulla per attutirne il rumore.
Adriana, sua madre, comparve con
grembiule e mestolo dalla cucina, da dove proveniva un invitante
profumo di arrosto. Stava morendo di fame; non immaginava che tentare
di spaccare uno stinco a qualcuno richiedesse tante energie.
- Ha chiamato il tuo allenatore,
– esordì la donna. – Si può
sapere dove hai la testa?
E Matteo sentì che
stava per arrivare la paternale. O maternale, o comunque si chiamasse, non sarebbe
stata piacevole. Quindi decise di giocare d'anticipo, di nuovo. Ma
per dimostrare di essere cresciuto in quell'ultima mezzora, stavolta
non avrebbe nemmeno cercato di infortunare sua madre: un gigantesco
passo in avanti!
- Dio mio, ma quanti anni crede
che abbia? Tre? Non credo ci fosse bisogno di telefonare alla mamma,
– si lamentò. Un tradimento del genere da parte di
coach Barcellandi non se l'aspettava proprio.
-
È stato
gentile, invece, – replicò Adriana, agitando il
mestolo per aria.
- Mamma, ero solo un po' nervoso,
tutto qua, – sbuffò, sedendosi sul divano e
togliendosi le scarpe. – Quel deficiente s'è
beccato solo qualche botta, la sua gamba è ancora integra,
purtroppo.
La donna cercò di
fermarlo.
- Ma...
- No, so già quel che
mi vuoi dire, – si oppose lui. – Matteo, hai ventidue anni, e che
diamine!, per quanto ancora hai intenzione di comportarti come un
ragazzino? Hai ragione. – Si
alzò e le si avvicinò, nell'opportunistico
tentativo di giocarsi la carta del cucciolo bastonato. –
Però mi hai anche insegnato a non farmi mettere i piedi in
testa da nessuno ed è esattamente quello che ho fatto.
A quel punto sua madre
aggrottò le sopracciglia e lo trascinò con
sé in cucina.
- Hai dimenticato le scarpe da
calcio al centro sportivo, – spiegò Adriana,
rivelando la ragione della chiamata del mister. – Ora,
però, mi racconti quello che è successo.
Gisella compose il numero del
destinatario sul suo I-Phone ultimo modello con la custodia rosa
glitterata e attese che qualcuno rispondesse alla chiamata dall'altro
capo del telefono. Al quarto squillo, termine massimo della sua
pazienza, udì finalmente una voce maschile.
- Pronto?
- Vuoi riavere indietro il tuo
agnellino? – domandò maliziosa. Le era uscito
bene, dopotutto. Aveva fatto bene a provare la battuta per dieci minuti
davanti allo specchio.
- Chi parla?
- Gisella Ferris, –
Quello doveva essere sufficiente a spiegare al fortunatissimo ragazzo
in linea con chi aveva a che fare.
- Chi? – chiese invece
lui, scaraventandola nello sconforto. La sua fama stava già
dando segni di cedimento, era necessario attuare il suo piano e sperare
che tutto filasse liscio. E lei avrebbe avuto notorietà e
gloria. E Matteo, dopo Melissa però.
- T'interessa ancora fare un giro
con Cecilia Molinari, sì o no? – tagliò
corto, mandando all'aria ogni prudenza.
- Cecilia? Certo che m'interessa
ancora.
Gisella sorrise soddisfatta:
finalmente qualcuno lassù
aveva deciso di darle una mano. E, forza!, che quel qualcuno lasciasse
un po' di posto per lei tra le divinità, perché
lei stava per diventarne una.
- Perfetto. Ti aspetto alle dieci
al Firefly. A dopo, Niccolò".
Ehm, sono
forse un po' in ritardo? Scusate, ma è stato un periodo un
po'
impegnativo con l'università e ho pensato fosse giusto dare
la
precedenza all'ultimo capitolo dell'altra storia, prima di contuinuare
questa. Proverò ad essere più puntuale, tanto ora
c'è solo la sessione estiva, no? No comment.
Grazie
delle letture e delle recensioni. Sono lenta a rispondere, ma
apprezzo sempre!
S.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Capitolo
V.
-
Allora?
Niccolò
era impaziente. Quella tale Gisella
l’aveva fatto scapicollare al Firefly
e ora se ne stava zitta a fissare con aria critica chiunque varcasse la
soglia
del locale. Proprio lei, che indossava un miniabito inguinale
leopardato e
degli stivali stile sadomaso: Mannino pensava che fosse
perfetta… per fare la domatrice
di elefanti al circo Orfei.
La
ragazza distolse lo sguardo dall’entrata e
lo posò su di lui, lisciando con la mano la striscia di
pelle della fronte poco
sopra l’attaccatura del naso, dove si era formata una piccola
ruga
d’espressione dovuta a paralisi da
buongusto. Tutti quei plebei l’avrebbero costretta
a ricorrere al botulino
entro i venticinque, se non si fossero decisi a vestirsi come Dio
– Giorgio
Armani – comandava.
-
Perdona la distrazione, – si affrettò a
dire, frugando nella borsa alla ricerca di uno specchietto, –
il mio compito di
fashion police è terribilmente arduo. Se solo la gente
spendesse di più in
abiti: tirate fuori i soldi, sfigati!
-
Veniamo al dunque, – tagliò corto lui. –
Sono venuto per parlare di Cecilia,
non per discutere delle ultime tendenze, né di moda
né del PIL.
PIL?
Doveva essere qualche strano acronimo
anglofono, di quelli che tanto si usavano; qualcosa tipo LOL, WTF, BTW,
FYI o
AKA. Appena arrivata a casa, la Ferris si promise di guardare su
Internet e
contribuire alla diffusione di questo PIL.
-
Prendete qualcosa?
Una
cameriera alta e slanciata con una lunga
coda di cavallo rosso fuoco li interruppe, preparandosi ad appuntare le
eventuali
ordinazioni su un taccuino elettronico. Niccolò la
guardò interessato, in viso
l’espressione da predatore pronto a scattare che assumeva
ogni volta si
trovasse in presenza di qualche bell’esemplare femminile.
-
Per me una Coca, – le ammiccò.
– Oggi sono imbottito di medicine perché
mi hanno quasi distrutto una tibia: niente alcool.
Gisella
roteò gli occhi e osservò come la
finta aria da cucciolo ferito di Mannino stesse facendo incredibilmente
effetto
sulla povera e stupida sprovveduta ragazzina da cinque euro
all’ora. Aveva
sentito tanto parlare di lui, ma non aveva mai avuto il privilegio di
vederlo
all’opera; aveva, sì, il classico fascino
mediterraneo, con la mascella
pronunciata e profondi occhi neri, però gran parte del
merito del suo successo
era attribuibile alla impenitente faccia tosta e all’immenso
ego. Tutto gli era
dovuto e le ragazze non erano che una minima frazione di quel tutto.
-
Io prendo un mojito, – Gisella
s’intrufolò
nel vomitevole contatto visivo tra i due, – così
magari, se sono fortunata,
riesco a dimenticare l’orrenda uniforme sintetica che
indossi, cara.
Il
sorriso scemò rapidamente dal volto della
cameriera che prese nota delle ordinazioni e si spostò ad un
tavolo accanto.
Niccolò guardò contrariato Gisella, rea di
avergli fatto perdere un’occasione
d’oro, e tornò a concentrarsi sulla questione in
sospeso.
-
Dicevamo
di Cecilia…
-
Hai appena flirtato come un animale in
calore con quella tizia e ora vuoi parlare del tuo agnellino?
– lo schernì di
rimando la Ferris.
-
Non sono affari tuoi. O mi dici come hai
intenzione di farmi tornare con Cecilia, oppure me ne vado, –
ringhiò alterato.
Lo snodo cruciale della questione era che in verità nemmeno
lui aveva ben
chiaro il motivo per cui tanto gli interessasse la sua ex. Era bella,
simpatica
e nemmeno troppo rompipalle; lo faceva uscire con gli amici, non si era
mai
dimostrata troppo gelosa ed era pur sempre un bel giochino da mostrare
agli
amici. Ripensandoci, doveva essere per via di quel volto angelico, da
bambina,
da innocente. Non era un caso se persino quella gallina patentata di
Gisella
amava chiamarla agnellino. Sebbene
potesse già annoverarla da anni nel lungo elenco di
conquiste con cui era
arrivato in quarta base, non gli sarebbe dispiaciuto tornare sui suoi
passi,
infangare di nuovo quel candore opprimente che traspariva da quegli
occhi
azzurri. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che
l’aveva fatto e, da
quando l’aveva vista alla festa di Franzoni, gli era scattata
l’improvvisa
voglia di un ritorno ai vecchi tempi.
-
Sarà un danettes,
ovviamente, – gli spiegò tranquilla e saccente
Gisella. Niccolò alzò un
sopracciglio, confuso, domandandosi che diavolo c’entrassero
dei budini nella
conquista della Molinari. – Nessuno fa niente per niente.
Do
ut
des,
si rispose da solo, quando Gisella si spiegò meglio. Era
sconcertato dal
livello di stupidità che quella testa ossigenata poteva
raggiungere. Decise di
rendersi di compassione e non la corresse, temendo di dover affrontare
una
lunga e complicata discussione sul latino di cui aveva solo una vaga
reminiscenza, dopo la ormai piuttosto lontana maturità.
-
Cosa dovrei fare? – s’informò lui.
La
ragazza gli sorrise affabile.
-
Solo una piccola cosuccia: dire a tutti che
tu e lei state insieme da un bel po’.
Mannino
poggiò i gomiti sul tavolo e incrociò
le dita delle proprie mani tra di loro, scrutando Gisella pensieroso:
era
davvero una piccola cosuccia quella che gli veniva chiesta.
-
Che ci guadagneresti, tu?
Questo
era ciò che gli interessava di più:
cosa poteva importare ad una sconosciuta come Gisella di accoppiarlo
con
Cecilia?
-
Non hai visto che la tua amata ha trascorso
l’intera festa di Fil con una persona in particolare?
– ribatté l’altra, mentre
la cameriera portava loro due bicchieri colmi, senza soffermarsi
né sull’avvenenza
di lui, né sull’arroganza acida di lei.
Svuotò veloce il vassoio e levò i
tacchi.
-
Maestri? – tentò lui, ricordando di aver
sorpreso Cecilia insieme a Matteo.
-
Esatto, – sorrise compiaciuta la Ferris. – E
pare che si siano trovati parecchio bene. Sfortunatamente per loro, lui
è mio e
non starò con le mani in mano ad aspettare che una sciatta
biondina me lo soffi
da sotto il naso.
-
Come pensi di riuscire a tenerli lontani?
-
Devi essere stato baciato dalla sorte,
Mannino caro, – ridacchiò Gisella, preparandosi al
grande momento di trionfo
dettato dal suo piano geniale. – Sono già
intervenuta e ho fatto in modo che
Matteo creda che tu e la Molinari stiate insieme e che quella piccola
parentesi
di mercoledì altro non sia che un gioco vostro per
alimentare il fuoco della
passione. Penso proprio che ci sia cascato.
Niccolò
cominciò piano piano a riordinare i
pezzi di quel pomeriggio al campetto, tra Matteo che dispensava calci a
destra
e manca, neanche fosse un ninja, e quella strana ed inusuale freddezza
tra
loro. Non erano mai stati grandi amici, ma c’era una bella
differenza fra avere
rapporti civili e tentare di rompere una gamba a qualcuno!
-
Questo te lo posso assicurare; sai come ho
fatto a quasi spaccarmi la tibia? – Gisella non
capì come la cosa potesse
riguardarla. – Maestri mi ha dato un calcio in allenamento.
Non avevo capito il
perché fino ad ora, ma immagino che dopotutto non sia altro
che un piccolo
danno collaterale.
-
Siamo d’accordo, quindi? – sintetizzò.
– Tu
ci guadagni Cecilia, io ci guadagno Matteo. Direi che è il
massimo del ricavo
con il minimo dello sforzo.
La
ragazza prese il suo mojito e lo sollevò
in aria, in attesa del brindisi. Niccolò si
limitò a far tintinnare
delicatamente il proprio bicchiere contro quello di Gisella, siglando
tacitamente un’alleanza che sapeva di complotto.
Ignaro
di quanto avvenuto la sera precedente
in un famoso bar del centro, il giorno del fatidico appuntamento tra
Matteo
Maestri e Lisa Zanin giunse indisturbato.
E
lei era agitata, aveva dormito male e
mangiato poco. Non immaginava fosse tanto stressante la fase di
preparazione…
soprattutto dal momento che la stava vivendo da spettatrice. Per
Cecilia, fare
l’amica in quel momento era la cosa più difficile
che le fosse mai capitata da
quando conosceva Lisa; doveva cercare di mantenere
l’obiettività, pur sapendo
di non avere alcuna voglia di farlo. Doveva dirle che il rosso le stava
male,
che l’eye-liner le appesantiva lo sguardo, che non era il
caso di indossare
degli stivaletti stile militare… avrebbe
dovuto. Eppure le parole erano ancora lì,
incastrate in gola, intrappolate
tra il desiderio di uscire e quello di scivolare giù e
morire.
-
Mi stai ascoltando?
Cecilia
abbassò il giornale che stava
leggendo e alzò lo sguardo sull’amica. Si stava
dannando nel tentativo di
evitarla, di non sentirla ripetere per la centesima volta quanto fosse
strano
l’invito di Maestri. Perché lei sapeva
perfettamente il motivo di quella
stranezza, ed era così ingiusto non poterlo condividere!
-
Certo che ti
ascolto, – mentì.
Lisa
la guardò perplessa; che diavolo le
prendeva? L’aveva spronata in ogni modo per farla uscire con
qualcuno, erano
state sul punto di litigare decine di volte appunto per questo, e ora
che aveva
accettato di farlo con un ragazzo gentile, simpatico e carino, lei non
sembrava
approvare. E la cosa peggiore era che non diceva nulla, non faceva
commenti o
dava consigli. Si limitava a stare come un vegetale sul letto, a
leggere
vecchie riviste di sua madre.
-
Verde o rosso? – le chiese, mostrandole due
vestiti simili.
Verde.
Era
la risposta
d’amica che avrebbe dato normalmente, quella disinteressata,
onesta.
Rosso.
Era
la risposta
razionale che avrebbe dato quel giorno, quella interessata eccome, non
del
tutto sincera.
Lisa
era la sua migliore amica e il suo più
grande ostacolo. Da una parte ci teneva davvero ad aiutarla a
prepararsi per
l’appuntamento, perché la Zanin lo meritava
eccome: era sveglia, a suo modo
simpatica, generosa e l’aveva sempre capita con uno sguardo,
senza bisogno di
parole. Però l’uscita era con Matteo,
l’unico ragazzo che dopo tanto tempo
avesse permesso a Cecilia di provare un interesse autentico verso il
genere
maschile che andasse ben oltre il semplice aspetto estetico.
I
due colori le stavano davanti, impressi su
quei due abitini che Lisa teneva tra la mani. Verde e rosso, come un
semaforo;
il primo per zittire la vocina diabolica nella testa e dare il via
libera
all’appuntamento, il secondo per bloccarlo, mandare al
diavolo ogni buona
intenzione e commettere un’infrazione al codice
dell’amicizia.
Cecilia
prese un profondo respiro e alla fine
decise da che parte stare.
-
Verde.
Matteo
indossò per la decima volta una
maglietta pulita e si guardò allo specchio; no, non lo
convinceva nemmeno questa.
Non gli stava bene nulla addosso quella sera. Se la tolse, gettandola
con
stizza sul pavimento e passandosi una mano nei capelli ancora bagnati.
-
L’ho appena stirata, quella, – Adriana gli
rifilò un’occhiataccia attraverso lo specchio. Le
parole non dette delle donne:
raccoglila subito e piegala decentemente
e forse fingerò di non aver appena assistito alla
distruzione del mio lavoro.
Matteo
la prese da terra e seguì le linee
tracciate dalla madre col ferro rovente per cercare di sistemarla.
-
Contenta? – sbuffò, riponendola
nell’armadio.
-
Lo sarei se lo facessi anche con le altre
ventimila che hai ammassato sul letto. E guai a te se mi dici che lo
farai
domani: questo domani non
s’è mai
visto, – lo ammonì.
-
Prima devo trovare qualcosa da mettermi…
-
Oppure potresti uscire così, tesoro, –
ridacchiò Adriana, riferendosi al torso nudo del figlio.
– Sono sicura che
Cecilia apprezzerebbe.
Il
lapsus le uscì sbadatamente dalla bocca,
mentre cercava di ricordare dal racconto di Matteo i nomi delle ragazze
coinvolte. E, a giudicare dalla faccia tesa di lui, doveva aver
sbagliato.
-
Lisa, mamma, – la corresse lui.
-
Scusa! – si difese sua madre. – Sarà che
forse questa cosa è proprio una stupidaggine. Mi dispiace
dirtelo, ma ti sei
comportato come un bambino. Invece di vendicarti, non potevi
semplicemente
parlare a quattrocchi con Cecilia?
Ancora
con quel nome? Maestri non volevo più
sentirlo pronunciare da nessuno, figurarsi da sua madre. Sapeva di aver
commesso un errore spiegandole la situazione, ma nel concitamento del
post
allenamento della sera precedente, aveva avuto un disperato bisogno di
parlarne
e purtroppo Adriana era parsa l’unica persona interessata ad
ascoltarlo a
disposizione. E ora, naturalmente, glielo stava rinfacciando.
-
So cosa sto facendo, – ostentò una
sicurezza fittizia, perché in quel momento non si poteva
dire certo di nulla.
Di Lisa. Dell’uscita. Del calcio. Di Franzoni. Di Mannino. Di
Cecilia… però
decise di aver fatto bene, chiedendo alla Zanin di uscire. Ma se anche
così non
fosse stato? Basta fare sempre le scelte giuste, basta fare sempre il
bravo
ragazzo, basta seguire sempre la retta via come un bambino troppo
diligente.
Aveva tutto il diritto di sbagliare.
-
Come credi, tesoro. Però almeno mettiti una
camicia; è pur sempre un appuntamento! – la donna
gli diede le spalle e
cominciò a frugare nel suo armadio, traendone una camicia
azzurra che
s’intonava sui calzoni beige che lui già
indossava. Poi, mentre usciva dalla
stanza, mormorò sottovoce: – Anche se con la
persona sbagliata.
Non
si voltò più nella direzione del figlio,
ma lo sentì sbuffare per quell’ennesima
frecciatina antipatica. Matteo la
osservò lasciare la camera: proprio non ce la faceva a
tenere la bocca chiusa.
Si
allacciò i bottoni e cacciò l’orlo
inferiore della camicia nei pantaloni. Di nuovo lo specchio gli
restituì
un’immagine insoddisfacente di sé stesso. Matteo
fissò per un attimo le sue
labbra riflesse, tese e mordicchiate: lo sapeva, non era colpa
dell’abbigliamento.
-
Quel braccialetto ha un rumore odioso.
Pensi di rimorchiare con quel coso?
Carlo
si stravaccò sulla poltroncina del Firefly
accanto a Gianluca, un bicchiere
mezzo pieno di un liquido ambrato e cubetti di ghiaccio tra le mani.
Lisa, la
destinataria della lamentela, non si lasciò scappare
l’opportunità di
irritarlo ulteriormente, agitando in aria il
polso per far cozzare tra di loro i ciondoli del bangle dorato
incriminato.
-
Purtroppo, Rastrelli, ho chiesto a tua
madre il fischietto che richiama gli uccelli, ma mi ha detto che glielo
avevi
già domandato tu, – rispose piccata.
Prima
che il ragazzo potesse replicare,
Cecilia s’interpose nel battibecco, già intuendo
come la situazione sarebbe
rapidamente evoluta in un crescendo di insulti e trivialità.
Non aveva
abbastanza energie per affrontare anche una discussione tra quei due,
era sufficiente
il pensiero di veder arrivare un Maestri in ghingheri e osservarlo
uscire con
un’altra al suo fianco. Qualcuno avrebbe definito masochista
la sua risposta
affermativa alla richiesta di Lisa di trovarsi tutti al Firefly
– territorio pseudo neutrale, dal momento che Matteo aveva
la serata libera – , invece che aspettare che lui la passasse
a prendere a
casa, da perfetto cavaliere. Masochismo e forse un briciolo di
volontà di
controllarli, per assicurarsi – no, per sperare
– che la serata fosse un completo fiasco. Cielo, che
tristezza: stava per
vincere il premio Patetica
dell’anno. O
del secolo. Probabilmente era questo il significato di toccare il
fondo:
tentare di boicottare l’appuntamento della propria migliore
amica con il
ragazzo perfetto. Per se stessa, non per l’amica.
-
Devo bere qualcosa, – disse ad alta voce,
alzandosi di scatto dalla sedia come un soldatino efficiente e
portandosi
vicino al bancone. Non aveva intenzione di esagerare, ma solo di
sciogliere un
po’ di tensione dovuta a tutta la frenetica preparazione del
pomeriggio e
all’attuale snervante attesa di Matteo.
-
Posso offrirti qualcosa? – Cecilia sollevò
la testa verso il barman, un debole sorriso sul viso, più
per educazione che
per reale voglia di farlo. Ma lui non la stava guardando; al contrario,
sembrava completamente preso nell’operazione di pestare delle
fettine di lime
in un bicchiere contenente zucchero. – Bevi ancora Long
Island, pesciolino?
Niccolò
Mannino e il suo profumo la
sorpresero e la stordirono, più infestanti di
un’erbaccia persistente in un
giardino perfetto. Rimase interdetta di fronte a tanta furbizia e
audacia;
utilizzare i loro trascorsi per lusingarla coi ricordi era stato un
gesto
scaltro, ma non si poteva dire altrettanto del soprannome che lui aveva
coniato
per lei anni prima e che la biondina non escludeva appartenesse anche
ad altre
frequentatrici delle mutande di Niccolò.
-
Sono più da Bloody Mary, ora, – rispose di
getto con il primo nome di cocktail che riuscì a leggere su
listino affisso
alla parete. Dimostrare di sapere ancora ciò che lei amava
bere un tempo non
bastava a farle dimenticare le ferite e il silenzio di anni. Ma lui non
si
arrese e si rivolse direttamente al barista.
-
Allora un Bloody Mary e un Long Island, –
gli ordinò, insistendo per pagarli entrambi. Cecilia si
oppose fermamente,
anche perché concederglielo avrebbe significato dover
trascorrere altri minuti
con lui, ma Mannino non sentì ragioni e lei si dovette
arrendere.
-
Beh, grazie allora.
Si
portò alla bocca il bicchiere che lui le
stava porgendo e assaggiò il gusto intenso della vodka,
mischiata con succo di
pomodoro e limone: l’insieme era forte e speziato, tanto
più con quella specie
d’insalata che il barista le aveva rifilato dentro. Cecilia
si trattenne dal
fare un’espressione disgustata, ma il retrogusto acidulo del
cocktail le impedì
di mascherarla del tutto. Mannino sorrise sotto i baffi, soddisfatto, e
pregustò l’aroma trionfale della vittoria.
-
Bleah, questo Long Island è troppo dolce…
–
mentì, riponendo il bicchiere sul bancone. – Ti
spiace regalarmi un goccio di Bloody
Mary?
Lei
gli allungò il cocktail e lui spinse
verso di lei il proprio, che lo sorseggiò rapidamente,
giusto per togliersi
quel saporaccio dal palato.
Adorava
la sua innocenza, il suo pensare
sempre il meglio della gente. Era pur sempre un agnellino, il suo agnellino e, volente o nolente,
Cecilia doveva capire di aver bisogno di un leone come lui per non
soccombere
in questo mondo. Lui doveva proteggerla dai tipi come lui.
-
Grazie per avermi offerto un drink. Buona
serata, Niccolò.
Cecilia
girò su se stessa alla cieca con il
proprio bicchiere in mano e per poco non si scontrò con la
figura imponente di
Matteo Maestri. Lui inchiodò di colpo, prima per schivare
gli eventuali schizzi
di liquido provenienti dal bicchiere, poi per schivare le eventuali e
sfuggenti
occhiate provenienti dalla ragazza che gli stava davanti. Si studiarono
reciprocamente, lei quasi intimorita dallo sguardo turbato di lui, che
si
ostinava a guardarle oltre le spalle.
La
biondina fece per salutarlo, o più
realisticamente per bofonchiare un goffo ciao,
quando Niccolò si alzò dallo sgabello su cui
sedeva e fece capolino da dietro
la sua testa e la precedette.
-
Matteo, buonasera. Non mi avrai mica
seguito per finire quello che non hai iniziato ieri, vero?
Maestri
digrignò i denti e strinse i pugni,
le braccia distese lungo i fianchi. Non riusciva a pensare ad altro che
alle
almeno venti possibilità di fare male a
quell’imbecille: la bottiglia di rum
che Davide, un suo collega, stava facendo roteare in aria avrebbe
potuto
casualmente abbattersi su quella testa di cazzo, oppure una delle
cannucce
lunghe avrebbe potuto, altrettanto accidentalmente, avvolgersi attorno
al suo
collo e stringersi, stringersi, stringersi… ma anche un bel
calcio a terminare
l’opera incompiuta durante l’allenamento sarebbe
andata più che bene. Tutto,
pur di farlo tacere e togliergli quell’espressione di sfida
dalla faccia.
Invece,
si costrinse a sorridere, anche
quando Mannino alzò il tiro e sfruttò il
passaggio di un gruppo di ragazzi
accanto a loro per appoggiare delicato una mano sul fianco di Cecilia e
farla
arretrare di una decina di centimetri. Senza schiodare quelle luride
dita dai
suoi jeans.
Si
concesse un attimo di distrazione prima di
rispondere, facendo un cenno a Davide che gli porse prontamente una
birra in
bottiglia.
-
Seguire te? Per quale motivo? Ho un
appuntamento con una ragazza. E ci lavoro qui.
-
Sentito, Ceci? – ridacchiò Niccolò,
torcendo il collo per soffiare le parole direttamente
nell’orecchio della
ragazza. Lei, in risposta, si ritrasse infastidita e
continuò a guardare il
volto turbato di Matteo.
-
Lo sapevo già. È una mia amica, quella
ragazza.
Abbassò
gli occhi, perché ricordare quel
particolare agli altri e soprattutto a se stessa non era mai cosa
facile. E la
presenza del suo ex, così vicina e a lei così
tediosamente non indifferente,
non aiutava. Ma non cambiava la realtà: Lisa e Matteo.
Nessun Cecilia e Matteo,
sebbene le sembrassero più armonici insieme.
-
Davvero? Bene. Stasera tutti ottengono ciò
che vogliono: lui con la tua amica, io con te... – sorrise
audace Niccolò, ora
affondando il naso nei capelli della Molinari.
Respira,
Matteo. Pensa ad un campo di fiori – piante carnivore che gli
staccano la testa
–; un cielo stellato – un asteroide che lo colpisce
in testa –; un mare azzurro
sconfinato – e uno squalo che lo riduce in poltiglia
–… no, non funziona.
Mannino
sapeva quali fossero i tasti dolenti
e non solo li toccava in continuazione, ma addirittura li pestava a
piè pari, li
martellava con quanto di più pesante ed appuntito potesse
ferire l’altro
ragazzo. Il tutto condito con un sorriso spavaldo che suggeriva solo di
essere
colpito.
Nemmeno
i dvd di yoga per principianti di sua
madre sarebbero riusciti a tenere calmo Matteo.
-
Dove cavolo è finita Cecilia? – Carlo
cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una testa
bionda in mezzo al bar
affollato. – È un’eternità
che la stiamo aspettando. Mi sembra di essere…
aspetta, chi era? Quella che tesseva la tela col fuso di giorno e la
disfaceva
di notte aspettando il marito, finché tre fate e dei maiali
la pungevano sempre
con il fuso e arrivava il principe a salvarla e la sposava. Un attimo,
ma non
era già sposata?
Gianluca
e Lisa si guardarono, increduli che
la mente bacata di Rastrelli fosse riuscita ad elaborare una confusione
tale da
mischiare l’epica con Perrault. Non che lui ne conoscesse la
differenza,
naturalmente.
-
Certo, Carlo. Era l’adultera de La
bella addormentata nell’Odissea, non
ricordi? – lo prese in giro Lamberti.
-
Sapete che nella versione originale lei,
Zellandine, è una principessa e lui, Troilo, un baldo
giovane messo alla prova
dal re prima di concedergli la mano della figlia? Quando lui parte per
un
viaggio, lei cade in un sogno incantato, durante il quale Troilo la
ingravida
e…
Ed
ecco la Zanin partire in quarta con uno
dei milleuno aneddoti da enciclopedia online.
-
Mi è già venuto il vomito, basta cos...
–
la interruppe Gianluca, zittito improvvisamente dalla visione di un
inedito terzetto
di persone immerso in una chiacchierata nei pressi del bancone.
Cecilia, Matteo
Maestri e l’Innominabile parevano tre estranei presi a caso
tra una folla e
messi l’uno accanto all’altro ad intrattenersi a
vicenda; a giudicare dalle
loro facce, però, nessuno sembrava particolarmente contento
di trovarsi in
quella situazione. Doveva forse intervenire? Ricordava ancora quanto
arduo
fosse stato fare guarire l’amica dall’amore acuto
per Mannino; credevano che
non ne sarebbe mai uscita, che il ricordo e le ferite sarebbero rimaste
sempre
in profondità, senza riuscire a rimarginarsi, guarire e
infine sparire, ma un
bel giorno era stata lei stessa a mettere una grossa croce scarlatta
sul caso
Mannino-Orpella, a rimettere insieme i cocci e a ricominciare a
sorridere. E
ora quel rifiuto della società aveva la faccia tosta di
tentare di gettarla di
nuovo nel tunnel, con i suoi modi ammalianti e plastificati da perfetto
burattinaio qual era.
-
Arrivo subito. – Lamberti decise di
disinnescare quella gigantesca bomba ad orologeria in atto a qualche
metro da
lui, prima che succedesse l’irreparabile.
Percorse
veloce la breve distanza che lo
separava da Cecilia e dai due ragazzi e avvertì subito con
chiarezza l’aria
viziata di acredine che regnava in quell’angolo del Firefly; sorrisi tirati, tensione
palpabile, sguardi taglienti come
coltelli affilati.
-
Ehi, ragazzi, che ci fate tutti qui?
Era
chiaro che Gianluca avrebbe dovuto
lavorare meglio sulle proprie capacità attoriali,
perché nessuno – proprio
nessuno – credette che lui fosse da quelle parti per caso.
L’amica, però, gli
regalò una smorfia di gratitudine, mentre gli altri due
erano troppo impegnati
a guardarsi in cagnesco per badare troppo al nuovo arrivato.
-
Facevamo quattro chiacchiere… – rispose
infine Cecilia, cercando di mantenersi sul più vago
possibile.
-
E allora perché non continuare al tavolo? –
Il gruppetto si voltò di scatto verso la voce acuta di Lisa,
spuntata dietro le
spalle di Lamberti con la proposta più balzana e malaugurata
che un essere
dotato di buon senso avrebbe mai potuto avanzare. – Voglio
dire, perché stare
qui in piedi, quando possiamo discorrere amabilmente con i deretani ben
assestati
su una di queste graziose poltroncine?
Detto
ciò, prese a braccetto una pietrificata
Cecilia – la cui mascella sembrava non voler più
ritornare nella posizione
naturale – ed indicò con il braccio ai ragazzi la
via più breve per raggiungere
Carlo al loro solito tavolino. Matteo, Niccolò e Gianluca
esitarono qualche
istante, nella vana ricerca di un pretesto per defilarsi dalla nefasta
piega
della serata, ma di fronte alla silenziosa, ma ugualmente temibile,
insistenza
di Lisa, non poterono che abbandonare momentaneamente gli istinti
bellici,
abbassare lo sguardo e sedersi.
-
Mi ringrazierai dopo, – sussurrò la Zanin
all’orecchio di Cecilia. – E no, non mi scoccia
usare parte del tempo destinato
al mio appuntamento a salvare la mia migliore amica dalle grinfie di un
ex
fidanzato che sembra più arrapato di un avvoltoio in calore.
Ringraziarla?
E di cosa, di preciso? Avrebbe
preferito un catetere in corpo o due dita negli occhi, piuttosto che
raccogliere in un angolo di un locale un gruppo di persone con nulla in
comune,
se non la voglia di azzuffarsi.
La
biondina si lasciò trascinare come un
fantoccio verso il tavolo, dove tutti i ragazzi si erano già
sistemati, a
debita distanza l’uno dall’altro. C’erano
infatti entrambe le sedie libere a
separare Maestri da Mannino, ma non appena Lisa si accorse di quanto
vicino
potessero finire l’avvoltoio e l’agnellino, decise
d’intervenire, rivoluzionando
i posti a sedere. Relegò l’amica sul fondo della
panchina poggiata al muro, incastrandola
tra Rastrelli e lo stesso Matteo.
Sei
persone attorno allo stesso tavolo e il
silenzio assoluto. Una vecchia canzone di Ligabue di sottofondo, a
coprire il
rumore di dita tamburellate sul vetro del bicchiere di un Bloody Mary,
gambe
tremanti e labbra torturate.
-
Ehm… è mio cugino, quello? – Carlo si
alzò
così velocemente da non lasciare il tempo agli altri di
digerire
l’informazione. Bisognava ammetterlo: per una volta tanto,
Rastrelli si era
dimostrato abbastanza veloce da defilarsi da una situazione scomoda. E
senza
inventare avvistamenti UFO o il fantasma di un bisnonno…
perché era già successo.
-
Quindi, di che parlavate? – Lisa fissò
negli occhi Mannino, attraverso le lenti degli occhiali, la cui
montatura
sembrava conferirle un aspetto ancora più arcigno e severo
di quanto la
rigidezza dei suoi lineamenti non suggerisse.
Il
ragazzo sorrise affabile, con il suo
solito charme da predatore incallito.
-
Del più e del meno. Immagino sia tu la
fortunata che stasera ha un appuntamento con il nostro caro Matteo.
Ceci mi
stava giusto accennando qualcosa, vero pesciolino?
La
biondina gli concesse solo un lieve
assenso con il capo, poi ritornò a piegare la testa verso il
basso e a guardare
il ghiaccio sciogliersi lentamente nel suo cocktail. Non aveva
né la forza né
la voglia di opporsi a lui, ai suoi nomignoli così fuori
tempo e fuori luogo.
Che diavolo le era saltato in mente di uscire? Van Gogh sarebbe stato
più che
lieto di farle compagnia, con il suo mutismo rassicurante. Magari
poteva
utilizzarlo come scusa per tornare a casa… scusate,
ho dimenticato di dargli da mangiare. Oppure, il
mio pesce soffre di solitudine e lo psicologo vuole che rimanga con
lui la sera. Perfetto, le sue scuse cominciavano ad essere
più pietose di
quelle di Carlo, ma per sfortuna lei non aveva la sua stessa faccia
tosta.
-
Già, – rispose infine la Zanin, – sono
io
il suo appuntamento.
Cecilia
non resistette un attimo di più,
scattando in piedi così celermente da incappare nel bordo
del tavolo, che vibrò
per qualche secondo. Proprio quando pensava di essere riuscita a
salvare capre
e cavoli – nello specifico, cocktail e una punta di
dignità – la sua borsa urtò
il Bloody Mary, che si riversò inesorabilmente sulla camicia
di Matteo.
-
Cazzo! – all’interessato sfuggì
un’imprecazione.
-
Oh, scusa, mi dispiace, sono davvero
un’imbranata! – si scusò subito lei,
senza sapere dove mettere le mani per aiutarlo.
Nonostante
lo scatto tempestivo di Matteo, la
macchia rosso sangue svettava nel mezzo del suo petto e quel pezzo di
sedano
incastrato su un bottone era la ciliegina sulla torta delle beffe.
-
Lo accompagni tu in bagno? – chiese Cecilia
a Lisa, mentre Niccolò ridacchiava dell’accaduto.
La
Zanin rifletté qualche istante, prima di
risponderle; se lei e Maestri fossero andati in bagno, era matematico
che quel
porco di Mannino avrebbe avuto campo libero e avrebbe fatto di tutto
per
portare Cecilia a casa con sé. C’era pur sempre
Gianluca, che era ancora seduto
con loro, ma non era una protezione adeguata e sufficiente; un piatto
di
patatine fritte davanti ai suoi occhi e avrebbero potuto persino
asportargli un
rene senza che lui se ne accorgesse. No, non poteva andare in bagno.
-
Perché non ci vai tu? – Cecilia e Matteo
rimasero entrambi sorpresi da quella decisione; in cuor loro, nessuno
dei due
aveva pensato neppure per un secondo che la ragazza avrebbe rifiutato
l’occasione di trovarsi chiusa in un bagno con il suo
appuntamento. – Sei stata
tu a sporcarlo, mica io! – rincarò la dose.
Ci
pensò Maestri a cercare di stemperare
l’imbarazzo.
-
Non è necessario, faccio da solo.
-
Non mi sembra giusto, ho combinato io il
casino ed io ti aiuterò
a sistemarlo.
Sul
momento le era parsa una buona occasione
per parlargli in privato qualche minuto, anche se davvero non aveva la
più
pallida idea di come poter chiarire il malinteso maturato alla festa di
Franzoni, senza rovinare l’uscita di Lisa. Ciò che
la spaventava e la
elettrizzava allo stesso tempo era la reazione che avrebbe avuto
Matteo:
avrebbe mandato all’aria il suo appuntamento e
l’avrebbe baciata in bagno
seduta stante o avrebbe semplicemente continuato come previsto? A
prescindere
da questo, comunque, la mossa di Cecilia rimaneva comunque una
pugnalata alle
spalle di Lisa e forse le conveniva rimanere in silenzio a rodersi il
fegato e
a rovinarsi le unghie con i denti.
Il
bagno era pieno, neanche avessero
allungato i cocktail con del diuretico. Aspettarono una trentina di
secondi, ma
la fila sembrava non muoversi di un solo centimetro, perciò
Matteo –
spazientito e a disagio, così vicino a lei – le
indicò lo spogliatoio dei
baristi, una stanzetta con la targhetta Privé,
proprio accanto al bagno. Lo seguì con lo sguardo, mentre
accendeva la luce e arrivava
fino in fondo alla fila di armadietti che occupavano una parete.
C’era il suo
nome sopra, scritto con una calligrafia femminile, tondeggiante, e
accanto un
piccolo cuoricino rosso. Continuarono a non parlarsi anche quando lui
girò la
piccola chiave nella serratura dell’armadietto e ne trasse
una maglietta nera
uguale a quella di tutti i suoi colleghi, la stampa del logo del Firefly davanti e MATTEO in stampatello
sul retro.
-
Problema risolto, – disse infine,
allargando le braccia. Cecilia tirò un sospiro di sollievo,
quel silenzio la
stava uccidendo. – Mi metto questa, non sarà il
massimo dell’eleganza, ma al
momento non ho altro.
-
Potrei provare a togliere la macchia e
asciugarla… – propose lei, avvicinandosi
cautamente al ragazzo, ma lui la interruppe
quasi subito.
-
Non ce n’è bisogno. Sono certo che Lisa non
ci baderà troppo, – esclamò rigido.
Cominciò rapido a sbottonarsi la camicia
sporca, più in fretta che poteva. Lo metteva a disagio stare
da solo nella
stessa stanza con lei, gli mancava l’aria, come quella volta
appena tornato da
casa di Filippo, dopo aver passato la serata con lei. Forse ora,
però, c’era
altro: la consapevolezza di essere stato usato, preso in giro e
canzonato aggravava
la situazione. La sola presenza di lei lo faceva impazzire, da ogni
punto di
vista; non era così immaturo – anche se sul suo
orgoglio ciò pesava come un
macigno – da non sapere e riconoscere di essere soggetto a
certe reazioni in
compagnia di Cecilia. Non gli era indifferente ed era la cosa che
più lo infastidiva:
nonostante tutto, c’era una parte, purtroppo non solo
anatomica, che lei era in
grado di risvegliare, con quel visino angelico e i suoi modi pacati. Ma
era
anche arrabbiato e stava facendo di tutto per rimanere aggrappato a
quel lembo
di amor proprio che gli impediva di riversarle addosso la frustrazione
e l’ira
causate dai suoi giochetti con Mannino.
Si
tolse la camicia e la gettò con rabbia
nell’armadietto, che si chiuse con un rumore stridulo di
ferraglia. Indossò la
maglia della divisa del bar, ignorando il rossore che colorava le
guance di
Cecilia davanti al suo torso nudo. Nonostante avesse cercato di girarsi
per non
dargli l’impressione di fissarlo mentre si cambiava, il
grande specchio sulla
parete le aveva garantito una visuale perfetta, seppur di profilo, del
fisico
di Matteo. Finse di giocherellare con la collana che aveva al collo, ma
il
tempo sembrava trascorrere a rallentatore da quando erano entrati in
quella
stanza. Pur di dire qualcosa, decise di sbilanciarsi e tirare fuori
l’argomento
scottante.
-
Possiamo parlare un attimo? – si pentì di
averlo detto non appena Matteo, che perlomeno si era rivestito
totalmente, la
guardò quasi con disprezzo, avanzando verso la porta dalla
quale erano entrati.
Che cosa mai gli aveva fatto di male per meritarsi di essere trattata
così,
indegna persino di una risposta? Quella domanda fu
un’iniezione di fiducia, che
la spinse a frapporsi, con il poco di coraggio di cui ogni agnellino
è dotato,
tra Maestri e l’uscita. Il ragazzo parve sorpreso e
infastidito, ma non fece
nulla per scapparle. Anzi, incrociò le braccia al petto,
dando tutta
l’impressione di essere pronto ad ascoltarla.
-
Che c’è? – la esortò, notando
che esitava.
-
L-Lisa… – biascicò, le
parole sembravano sfuggirle, scivolose come
sapone tra le mani. E gli occhi severi di Matteo non facevano altro che
fermare
ed alimentare la volontà di farle uscire. –
Perché Lisa?
Il
ragazzo non rispose. Nella sua testa si
stavano affollando così tanti pensieri, dubbi, domande,
accuse, parolacce che
avrebbe urlato per mezzora a squarciagola e preso a pugni lo specchio,
la
panca, qualsiasi oggetto nel raggio di due metri. Perché lei
non poteva avergli
appena chiesto quello, non poteva avergli chiesto il motivo per cui lui
avesse
scelto Lisa. Non poteva, non ne aveva diritto.
-
Dici sul serio? Perché Lisa?
– ripeté, quasi incredulo, lasciandola di stucco.
Aveva alzato la voce, era avanzato di un paio di passi e ora la stava
sovrastando fisicamente e psicologicamente. Lei indietreggiò
d’istinto, come se
mettere un po’ di distanza tra loro potesse aiutarla a
schivare il tono duro ed
inflessibile di lui. Si trovò con le spalle contro lo
specchio, senza via
d’uscita, ma fu lo stesso Matteo a spostarsi di lato. Si era
reso conto di aver
esagerato: non intendeva spaventarla, quello era soltanto il modo in
cui era
abituato ad affrontare i problemi nello spogliatoio, dove prevaleva la
voce
grossa e i muscoli più forti. Da tempo si era arreso
all’evidenza che non
sapeva trattare con le donne, figurarsi se sapeva destreggiarsi con una
situazione intricata come quella in cui si era cacciato.
Cecilia
lo guardò e nel suo viso lesse solo
stanchezza. E non capì. Ma qualcosa le era scattato dentro,
voleva sapere tutto
ciò che le stava sfuggendo ed era pronta a sacrificare la
propria innata umana
compassione verso il prossimo, pur di venire a capo di quel groviglio
spinoso
che lui stesso aveva creato.
Afferrò
il ragazzo per un braccio,
riscuotendolo dal torpore in cui sembrava fluttuare.
-
Perché questa uscita, perché lei? –
stavolta
lo ripeté in modo più dolce, per non risvegliare
l’aggressività di Maestri, ora
apparentemente domata. Non riuscì a pronunciare le ultime
tre parole che aveva
pensato: …e non me? Per
quanto quel
momento tra loro fosse intimo e privato, non volle sbilanciarsi.
Sentiva di
essersi già esposta abbastanza e non immaginava come lui
avrebbe reagito ad una
richiesta così diretta. Continuarono a comunicare con gli
occhi e con i gesti,
più che a voce. Matteo si lasciò avvicinare,
stordito dalla disarmante delicatezza
con cui lei si stava facendo avanti verso di lui. Avrebbe voluto
allontanarla,
mandarla al diavolo per l’ennesima volta, afferrarla per le
spalle e scuoterla
finché non gli avesse detto che cavolo di problema avessero
lei e Mannino,
perché il loro stupido gioco si stava spingendo troppo
oltre: l’avevano ferito,
umiliato, indotto a ripagarli con la stessa moneta e lui non era quel
genere di
persona, non lo era mai stato e mai avrebbe voluto esserlo. Ma le gambe
gli si
erano irrigidite al punto che non riusciva a fare un passo indietro da
lei, da
quegli occhioni azzurri lucidi che, dannazione, avrebbe giurato fossero
sinceri. Poteva un essere così piccolo avere la
capacità di mandarlo totalmente
in cortocircuito?
Si
osservarono, due guerrieri indecisi tra il
combattersi a vicenda per il proprio orgoglio e lo sventolare bandiera
bianca
per qualcosa di più grande, ma potenzialmente molto
più temibile della
sconfitta.
Matteo
inclinò piano la sua testa verso
quella di Cecilia e lei si lasciò trascinare dal braccio di
lui, che la
spingeva verso di sé. Ansimarono entrambi per qualche
secondo, come se stare
così vicini – ma per certi versi così
lontani – costasse fatica fisica, oltre
che mentale. Labbra vicine, socchiuse, respiro corto e affannoso. Di
nuovo la
sensazione di aver fatto un allenamento spossante al campo da calcio,
pur non
avendolo fatto. O stava diventando ipocondriaco o c’era
qualcosa in Cecilia che
lo disturbava profondamente: forse era una reazione allergica al suo
profumo,
al suo deodorante, o magari addirittura a lei! Eppure no, non ce la
faceva a
spostarsi, non poteva, stava
lì a
boccheggiare, dimentico di
quanto
male gli avesse fatto. Voleva solo un bacio, era sicuro che poi si
sarebbe
sentito meglio, le cose si sarebbero sistemate come
d’incanto.
La
biondina gli fissò le labbra con il suo
stesso identico desiderio e decise di osare. Per una volta
l’agnellino si
sarebbe comportato da cacciatore, invece che da preda. Si
sollevò sulle punte
dei piedi per raggiungere l’altezza di Matteo, in una
manciata di secondi che a
lui parvero eterni. Lei gli sfiorò una guancia con le dita
sottili, cercando
nei suoi occhi un silenzioso consenso che non tardò ad
arrivare. Lo volevano
entrambi.
Si
erano giusto sfiorati, quando sentirono un
rumore secco, che li fece scattare immediatamente l’uno
lontano dall’altra.
-
Oh, caz… ops! Merda, scusate! – Era Davide,
il collega di Matteo che li aveva serviti circa venti minuti prima al
bancone,
vistosamente più rosso in viso per via
dell’imbarazzo, ma quella condizione pareva
essere molto gettonata in quel momento nello spogliatoio. –
Non pensavo ci
fosse qualcuno qui dentro. Giuro che mi cambio e sparisco!
Ma
l’atmosfera di distensione se n’era andata
nell’istante esatto in cui Davide aveva abbassato la maniglia
della porta,
aprendo virtualmente la stanza di nuovo sulla realtà, e
cioè che Cecilia era
impegnata con quel deficiente – sì, dal verbo
latino deficere, perché
era palese che il soggetto mancasse di
intelligenza, dignità e di attributi – e lui,
Matteo, aveva un appuntamento con
un’altra, che lo stava aspettando.
-
Non c’è problema, sono rimasto qui dentro
anche troppo, – grugnì, lanciando
un’occhiataccia a Cecilia, prima di superare
Davide e uscire.
Il
disprezzo era tornato, insieme alla
freddezza e al distacco che lui non riusciva mai a nasconderle quando
le
parlava e che, in verità, non le appariva mai davvero
intenzionato a celare.
La
ragazza sorrise all’unico ragazzo rimasto
nella stanza e poi lasciò a sua volta lo spogliatoio,
sentendo gli occhi
inumidirsi. Dopo aver richiuso la porta alle sue spalle,
camminò veloce fino al
bagno, di Matteo ormai non c’era più traccia. Per
fortuna la coda si era
smaltita e lei non dovette attendere che pochi minuti per poter entrare
alla
toilette. Si guardò allo specchio e si lavò la
faccia, non le importava che il
poco mascara che indossava le colasse sulle guance. Voleva togliersi il
rossore
intenso dell’imbarazzo, del disagio e quello più
intenso della foga, del
desiderio. E di certo non si sentiva meglio nei confronti di Lisa per
essersi
gettata nelle braccia del ragazzo con cui lei doveva uscire…
maledetta festa di
Franzoni!
Ritardò
il più possibile il ritorno al
tavolo, ma il momento critico fu inevitabile. Erano ancora tutti seduti
e nulla
era cambiato; Lisa che guardava in tralice Mannino, Mannino che
guardava in
tralice Maestri e Maestri che se avesse potuto sarebbe diventato cieco,
pur di non
sopportare la vista fastidiosa di Niccolò e quella dettata
dai sensi di colpa
rivolta alla Zanin. Cecilia si domandò perché
fossero ancora lì, perché non se
ne fossero ancora andati. Ci provava gusto a farla soffrire, a
mostrarle che
l’aveva illusa per una sera? Lei era come tutte le altre,
niente di speciale.
-
Ehi, Pesciolino, finalmente!
Mannino
le fece l’occhiolino e approfittò
dell’assenza di Carlo per farla accomodare accanto a
sé. La ragazza seguì
meccanica il suo invito, davvero non le importava il posto a sedere.
Anzi,
paradossalmente, il suo ex era la persona vicino alla quale meno si
sarebbe
sentita a disagio. Infatti, neanche Gianluca sembrava una spalla
fidata,
distratto com’era dalla ciotola di tortillas che aveva
davanti.
-
Andiamo a fare un giro?
La
voce concitata di Matteo pose fine al
silenzio e rese ancor più tesa la situazione. Ad eccezione
di Lamberti, ora i
quattro avevano tutti una ragione per odiare almeno un’altra
persona seduta a
quel tavolo.
Lisa
venne presa in contropiede, ma il suo
sorriso fece intuire ai presenti che era ben lieta di trascorrere del
tempo con
Maestri. Maledisse per l’ultima volta – in quella
serata, chiaramente – quello
sciagurato di Mannino e si alzò da tavolo, lanciando una
raccomandazione
virtuale a Cecilia.
Fai
in
modo che non ti sfiori nemmeno con un bastone per la pentolaccia o
quello che
finirà per essere preso a mazzate sarà lui.
Matteo
si alzò, le afferrò la borsa e gliela
porse. Cecilia si scoprì irritata da ogni minimo cenno di
riguardo che il ragazzo
aveva nei confronti della propria amica e sentì la
necessità di pareggiare i
conti.
-
T-ti scoccia darmi un passaggio, Niccolò? –
Ecco: la frittata era fatta. Ora ci sarebbe stata la fila per decidere
chi
l’avrebbe ammazzata: Lisa era senza dubbio in pole position,
ma non si poteva
dire che gli occhi di Matteo o di Gianluca fossero più
comprensivi. L’unico che
stava sghignazzando sotto i baffi era Mannino, che già
pregustava il sapore
delicato del suo agnellino sotto ai denti. E alle mani.
-
Sono qui apposta, pesciolino.
Niccolò
bevve avidamente l’ultimo sorso di
Long Island dal suo bicchiere e lo fece sbattere di nuovo sulla
superficie
grezza del tavolo, cercando lo sguardo di Maestri. Era stato fin troppo
facile,
non dubitava che presto si sarebbe trovato – di nuovo
– tra le lenzuola di
Cecilia. E chissenefrega se si era dovuto avvalere di qualche piccolo
mezzuccio
alternativo fuori programma, tutto si era rivelato dannatamente
semplice e
ancora una volta avrebbe ottenuto quel che voleva.
Matteo,
quindi, capì di dover rilanciare:
prese la mano di Lisa e l’aiutò a districarsi tra
il percorso disseminato di
sedie attorno al tavolo, sulla via dell’uscita.
-
Ci vediamo in facoltà, Ce’. Non fare cose
di cui ti potresti pentire con persone poco raccomandabili che non
meritano le
tue attenzioni, perché sono degli sporchi bugiardi traditori
che amano far
espatriare il loro minuscolo pisellino verso mutandine femminili
altrui.
Ripetutamente. Ogni riferimento ai presenti non è da
ritenersi casuale.
Mannino
fece spallucce e aiutò un’imbarazzata
Cecilia a indossare la giacca di pelle. La biondina e Maestri si
scambiarono
solo un’occhiata frettolosa, poi si lasciarono trascinare dai
rispetti
compagni. Sfortuna volle che i due ragazzi avessero parcheggiato a
qualche auto
di distanza, perciò dovettero fare il breve tragitto
insieme, anche se Matteo
faceva di tutto per evitare Niccolò, il quale, al contrario
suo, trovava
particolarmente divertente passeggiare al fianco della Molinari,
speranzoso
d’incontrare qualche amico con cui sfoggiarla subito.
Esattamente come Marina,
forse non era un caso se a sua madre Mannino era sempre piaciuto: erano
uguali.
E
mentre salivano in macchina, augurandosi
con finta cordialità una buona serata, Matteo non
poté fare a meno di restare
per qualche secondo in più a fissare Cecilia, pronta ad
allacciarsi la cintura
di sicurezza sull’auto dell’altro. Magari era
destino che andasse così, non
c’erano né il tempo né lo spazio per
loro. Perché semplicemente lei non era la
dama blu che aveva conosciuto da Franzoni e che forse era esistita solo
nella
sua testa. Sarebbe uscito con Lisa e avrebbe imparato a dimenticare
Cecilia, ad
odiare lei e quel suo atteggiamento arrogante di chi è
disposto a tutto pur di
avere ciò che desidera; si meritava di stare con Mannino
punto e basta.
Doveva
a Davide un grosso favore.
Soltanto
quando se ne furono andati tutti e
quattro, Gianluca si riscosse dallo stato di apatia totale da
tortillas. Il
piatto vuoto, le sedie altrettanto vuote, cominciò a far
lavorare i pochi
neuroni rimasti funzionanti: Cecilia era uscita con Niccolò,
Lisa con Matteo.
Eppure…
Si
alzò in piedi, dimenticandosi di essere rimasto
solo al tavolo e di avere la bocca ancora piena di briciole di patatine.
-
Ma se Maestri aveva baciato Ceci da
Franzoni… perché cazzo esce con la Zanin, allora?
– continuò a borbottare.
Purtroppo
non c’erano più spettatori pronti
ad ascoltarlo e il quesito sollevato dalla sua domanda era destinato ad
assumere la medesima rilevanza di un anticoncezionale di fronte ad una
donna
incinta: inutile e tardivo.
Lamberti
alzò le spalle e si avventò sulla
ciotola di patatine lasciata incautamente incustodita dai loro vicini
di
tavolo. Che ci pensassero gli altri a sistemare le cose; per come
vedeva lui la
situazione, nemmeno una magia avrebbe potuto sistemare le cose.
Forse.
Sono
un caso disperato, lo sapete. Ma tra
esami, lavoro e vacanze, non ho mai tempo!
Sono
di fretta, perciò questo è quanto.
Grazie
delle letture e delle recensioni, a
cui ho già risposto!
Un
bacione,
S.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Capitolo
VI
Lisa
era l’essere più strano con cui Matteo avesse mai
avuto
a che fare.
Non
stava ferma un secondo; ora fumava una sigaretta, ora si
perdeva tra le bancarelle etniche della piazza, trascinandolo con
sé in quel
labirinto di passanti, ambulanti e cani al guinzaglio dei padroni per
il loro
giro serale. Era un vulcano d’idee e di parole, tante parole, sembrava non prendere
nemmeno fiato per continuare a
chiacchierare, tanto che Maestri era riuscito a dire solo poche frasi
nella
mezzora trascorsa da soli, dopo il Firefly.
Lisa era travolgente, ma nel modo più divertente possibile:
lo faceva ridere,
avvolta in quel vestito verde, così lontano dal suo stile da
renderla ancora
più buffa. E quegli stivaletti da biker poi! Cecilia non era
riuscita
nell’intento di farle indossare un normalissimo paio di
ballerine nere, la
Zanin riteneva che già l’abito fosse
un’ampia concessione per l’appuntamento e
non voleva rischiare di modificare troppo il proprio look.
Matteo
non credeva fosse tanto spigliata, pensava di dover
trascorrere l’intera serata a cercare di toglierle il broncio
che aveva avuto
sin dal loro primo incontro-scontro con gli appunti volati per aria,
ma, al
contrario, lei si era rivelata parecchio rilassata e decisamente
propensa al
dialogo. Aspetto molto positivo, visto che erano rari i momenti in cui
lui
riusciva ad abbattere timidezza e goffaggine e ad affrontare una
normale
conversazione senza diventare ancora più impacciato di prima.
-
Ti va un gelato? – propose infine lui, bloccando per
qualche istante l’imperitura danza di Lisa tra la folla.
-
Perché no? – rispose lei – Lo sai che il
gelato ha origini
antichissime? Già l’uomo di Neanderthal ne faceva
una sua personale versione,
nascondendo tra la neve bacche selvatiche, frutta secca e carne di
cervide…
Tutto
ad un tratto la magia di morbide onde di
crema e cioccolato svanì, lasciando spazio a deliziosa carne
di cervide con
granella di bacche e nocciole.
- Interessante…?
– si
sforzò di constatare Maestri, nonostante il tono vagamente
interrogativo.
Si
fermarono ad una piccola gelateria in via Mazzini,
accanto ad un gruppetto di turisti dall’aria smarrita.
Presero entrambi un
cono, che Matteo pagò prontamente tra le lamentele di Lisa
sulla parità dei
sessi e l’arcaicità della galanteria, mista alla
crisi economica. La rassicurò
che non sarebbe finito sul lastrico per tre euro, ma lei
tentò invano per
svariati minuti di infilargli nelle tasche almeno la sua quota.
S’incamminarono
verso la Casa di Giulietta, in direzione
opposta rispetto a Piazza delle Erbe, sperando di trovare meno marasma
di
quello che riempiva la zona di giorno, tra stranieri curiosi e
residenti
occupati a sovrintendere i lavori pubblici.
Lisa
si soffermò qualche istante su Vicolo San Sebastiano,
ricordando per un attimo il vicino Sale
in zucca, il polveroso negozio di Fatima Turchetta, ma quando
una goccia di
gelato cominciò a colarle sulla mano, si
dimenticò di abiti e merletti e tornò
a torturare le orecchie di Matteo. Lui, nel frattempo, si era goduto la
breve
quiete e le luci della città di notte, sgranocchiando la
parte superiore del
cono.
-
Mi pare che abbiamo fatto le cose al contrario… –
irruppe
Lisa, proseguendo con un discorso mentale chiaro solo a lei.
Matteo,
infatti, si voltò verso di lei, in viso
un’espressione confusa.
-
In che senso?
-
Sai, – spiegò lei con una verve da maestra
navigata, –
prima è successo ciò che è successo,
poi lo scontro in università e ora a
passeggiare sul Lungadige. Insomma, abbiamo bruciato un po’
le tappe, o
quantomeno ne abbiamo confuso l’ordine.
Maestri
continuò a camminarle al fianco, ruotando la testa
verso di lei per tentare di comprendere se lei lo stesse prendendo in
giro con
uno strano scherzo.
-
Continuo a non capire… – ammise.
-
Parlo di quello che è accaduto alla festa di Franzoni.
Lisa
gli restituì un’occhiata eloquente. Sapeva che era
un
argomento un po’ imbarazzante per i ragazzi, ma non
c’era proprio nulla di cui
vergognarsi, dal momento che entrambi erano a conoscenza
dell’accaduto.
-
Oh. – Lui realizzò finalmente ciò a cui
lei alludeva. – Te
ne ricordi? Perché eri parecchio sbronza, io ti ho solo
aiutato…
-
Beh, – lo interruppe lei, – diciamo che ci siamo aiutati a vicenda…
è stata una
collaborazione. È stato divertente, no?
Divertente
non
era proprio la prima parola che gli veniva in mente per
descrivere la situazione, ma in fin dei conti poteva concederle che il
lancio
dell’orribile stivaletto avesse avuto un certo risvolto
umoristico.
-
Sì. Di certo non ti sarai sentita molto bene dopo.
-
Non è una cosa abituale, se è quello che intendi.
È
capitato. Certo, sarebbe stato meglio se non ci fossero stati gli altri
due in
mezzo alle scatole. Saremmo potuti uscire insieme subito ed
indisturbati.
-
Già. – Cecilia e Niccolò gli stavano
facendo venire
ulcera, gastrite, bruciore di stomaco, reflusso esofageo, colon
irritabile. Il
documentario che aveva visto in tv nel pomeriggio era stato
illuminante, in tal
senso. – Quella festa mi ha provocato non pochi problemi, ma
d’ora in poi spero
che si risolvano, a partire dal fatto che non parlerò mai
più con Franzoni.
-
Addirittura? – La Zanin alzò un sopracciglio,
sorpresa. D’accordo,
non era stato il massimo trovarsi a tu per tu in bagno con Melissa e il
padrone
di casa, soprattutto per le circostanze e le condizioni in cui il tutto
era
avvenuto, ma troncare ogni rapporto con Filippo a causa di quello le
sembrava
un’esagerazione.
-
Avrebbe potuto dirmi di loro due, prima che la situazione
mi sfuggisse di mano.
Lisa,
di nuovo, si trovò a discordare con lui: forse non era
premeditata la liaison tra quei due, era probabile fosse frutto di una
momentanea euforia alcolica, ma decise di lasciar perdere. Dopotutto,
non le
importava un accidente di quella papera col cervello pieno
d’aria, figuriamoci
se si doveva preoccupare di difenderla con Maestri. Che annegasse nel
suo
profumo costoso e marcisse nella sua antipatia.
-
Inutile piangere sul latte versato. Piuttosto dobbiamo
affrontare le conseguenze: hai qualche malattia venerea? – A
Matteo andò di
traverso il gelato. Divenne paonazzo e prese a tossire furiosamente. Si
autodiagnosticò un attacco di tubercolosi, ma Lisa non era
tipo da farsi
intimidire nemmeno da quella. – Hai dolori, pruriti,
ingrossamenti? Sii sincero,
niente battutine sulle dimensioni del tuo armamentario.
Maestri
cercava di riprendersi, ma i discorsi imbarazzanti
della Zanin non lo stavano aiutando per niente. Ora il suo viso era di
un rosso
tisico e di disagio, combinazione potenzialmente mortale, secondo le
sue
nozioni mediche.
-
Quindi, è un sì o un no? – lo
incalzò lei, impassibile
anche di fronte alla tua precarissima condizione psicofisica.
– Perché dal
giorno della festa accuso qualche problemino e volevo capire se tu
fossi la
fonte di tutto.
Matteo
si voltò verso l’Adige e cominciò a
fare dei profondi
respiri, tentando di non far cadere ciò che era rimasto del
cono.
-
Io? – riuscì a pronunciare, tra un colpo di tosse
e
l’altro.
Lisa
non si fece impietosire e continuò come un treno.
-
Sì, siamo nel 2011, possiamo parlare liberamente di queste
cose. Ogni anno ci sono 340 milioni di nuovi casi registrati nel mondo
per
malattie sessualmente trasmissibili, AIDS escluso.
Pensava
forse di tranquillizzarlo e di metterlo a proprio
agio con quelle premesse?
-
Ammettendo che avessi qualcosa,– cercò di
ragionare, –
come te l’avrei trasmesso?
La
ragazza strabuzzò gli occhi, avvicinandosi a lui e
spingendo gli occhiali sul naso.
-
Non sai come si trasmettono le malattie sessualmente
trasmissibili? Matteo, sicuro di avere la quinta elementare?
Lui
arrossì per l’ennesima volta e appoggiò
entrambi i
gomiti sul Ponte delle navi, dando le spalle all’Adige.
-
Certo che lo so! – controbatté.
-
Quindi, me l’hai trasmesso quando abbiamo fatto sesso.
Il
pollice della mano di Matteo per la sorpresa si conficcò
nel cono del gelato, aprendo un varco che fece implodere
l’intera struttura su
se stessa, prima di riversarsi con un rumore secco sul marciapiede.
-
Lisa, non è mai successo! – si difese.
-
Maestri, ne abbiamo parlato finora! Hai l’Alzheimer forse?
Io, te, Franzoni e la Cedreo in bagno. – lo fissò
con insistenza negli occhi. –
No, non fare quella faccia, non tutti insieme, idiota.
Matteo
lasciò che due ragazzine sghignazzanti li
sorpassassero, prima di cambiare posizione e voltarsi verso di lei.
-
Ma io credevo stessimo discutendo del fatto che ho aiutato
Cecilia e Lamberti a trascinarti in macchina!
Per
la prima volta nella serata, Lisa si prese qualche
secondo per pensare.
-
Dopo essere stato in bagno con me? – tentò.
-
Non sono mai stato in bagno con te. – le rispose
lentamente, come per farle digerire pian piano tutte le parole.
-
E allora perché cavolo mi hai invitato ad uscire?
Perché
voglio fare
ingelosire la tua migliore amica, lo pretendo, perché non mi
posso essere
immaginato tutto quello che è successo a casa di Franzoni.
Questa
sarebbe stata la risposta sincera, quella che avrebbe
voluto darle, ma non poteva permettersi di esporsi, di ammettere
pubblicamente
di essere stato fregato e di essere rimasto incastrato in quella
intricata
situazione da allora.
-
Perché… mi andava! – mentì.
-
Dunque non perché pensavi di avermi trasmesso una
malattia…
Matteo
le sorrise bonario, rassegnato alla caparbietà con
cui la ragazza sembrava rimanere ancorata all’assurda
convinzione di essere
stata con lui.
-
No.
-
Tutto ciò è molto confuso. –
continuò Lisa, che ancora non
era persuasa del tutto. – Ma ora non pensare che io sia una
poco di buono, che
va a letto col primo che capita e poi neanche si ricorda chi
è lui. Perché io
lo sapevo, che eri tu… anche se poi, in effetti, non eri tu.
Matteo
si lasciò sfuggire un sospiro, esausto: Lisa gli
faceva girare la testa, ma non nel modo in lui avrebbe voluto.
Fuori
dal Firefly,
in una Classe A vecchia di qualche anno, Cecilia osservò i
movimenti di Niccolò
con una certa circospezione. Seduta quasi a ridosso della portiera del
lato
passeggero, con le mani in grembo, cominciò a chiedersi se
davvero fosse valsa
la pena di ritrovarsi nell’auto del suo ex, da soli, soltanto
per fare un
dispetto a Matteo… Che era ad un appuntamento con la sua
migliore amica, magari
sbaciucchiandola con trasporto in uno dei luoghi spudoratamente
romantici di
Verona. Ah, la sua città non le era mai piaciuta.
La
mano di Mannino si posò sul poggiatesta del sedile del
passeggero e il suo viso si sporse esageratamente verso quello di
Cecilia;
quella non sembrava una retromarcia, era una gigantesca accelerata.
Niccolò
completò la manovra con agilità e
imboccò la
stradina, racchiusa tra due file di auto parcheggiate. Percorsero per
qualche
minuto alcune delle vie strette e lastricate del centro, illuminate dai
lampioni e dai fari delle poche auto in circolazione in una sera di un
giorno
feriale. La biondina si accorse subito che quella che non era la
corretta
direzione per tornare a casa. Quantomeno non la sua: quella, infatti,
era la
più che corretta direzione per raggiungere
l’abitazione dei signori Mannino.
C’era stata una decina di volte in tutto, giusto per
conoscere i suoceri e
frequentare le lenzuola del loro unicogenito.
-
Vorrei tornare a casa, se non ti dispiace. – Il tono
inflessibile con cui aveva pronunciato quelle parole aveva smorzato il
tentativo di non risultare troppo infervorata; dopotutto, lui le stava
facendo
un favore. Ad ogni modo, decise di non dargli la soddisfazione di aver
immediatamente riconosciuto il percorso che portava alla sua villetta e
non
aggiunse altro.
-
Pensavo ti avrebbe fatto piacere rivedere Ned, ci vorranno
pochi minuti, dai. – Ecco che Niccolò tornava
all’attacco, con l’astuzia di
sempre, giocandosi la carta del cucciolo: emotivo, come
l’espressione che si
era appena stampato in faccia, e fisico, quello che avevano scelto
insieme al
canile quattro anni prima. E Cecilia non era in grado di resistere a
nessuno
dei due; al musetto di quella cagnolina grigia che l’aveva
subito colpita in
quella gabbia anonima e grigia, al viso compassionevole di Mannino. Il
silenzio
della ragazza valse quanto un assenso, sebbene a Niccolò non
servisse affatto;
aveva deciso che lei sarebbe ritornata ad essere sua, non gli serviva
di sapere
– e volere – altro.
-
Moll.
-
Come? – Lui finse di non capire. Tenera, dolce, ingenua
Cecilia. Forse era persino troppo facile irretirla, non gli sarebbe
dispiaciuto
che lei si dimostrasse un po’ più restia a cedere:
conquistarla sarebbe stato
una sfida maggiormente intrigante.
-
Si chiama Moll
Flanders, non Ned. – ripeté lei, spiegando
l’equivoco.
Il
nome del cane l’aveva scelto lei, ispirandosi
all’omonimo
romanzo di Daniel Defoe e alla vita della protagonista, tanto
travagliata
quanto quella del cucciolo, abbandonato in un cassonetto ad appena
qualche mese
di nascita. Ma a Niccolò questa metaforica scelta a lungo
ponderata non era
sembrata affatto divertente, perciò l’aveva
ribattezzata Ned, salvando solo il
cognome; poco importava che il cane fosse una femminuccia e che il
religiosissimo vicino de I Simpsons nulla
avesse a che spartite con lei, se non una fastidiosa voce acuta.
-
Ormai si è abituata ad essere chiamata Ned…
– Mannino
stava per riportare alla memoria ricordi che era meglio mantenere nel
passato
al fine dei suoi stessi scopi. Si accorse dello scivolone e
proseguì con la
nonchalance di cui era capace. – Sarà molto felice
di vederti, ha sempre
preferito te a me.
Almeno
il cane! Lo avesse fatto anche il padrone…
Cecilia
abbozzò un sorriso e spostò lo sguardo davanti a
sé,
ai lampioni che diventavano sempre più rari, nella periferia
che conduceva a
casa di Niccolò. Lui poggiò un gomito sullo
sportello dell’auto e continuò a
guidare tranquillo fino al viale antistante la villetta dei suoi
genitori. Il
cancello ora si apriva con il telecomando, era di un grigio
più scuro di quanto
Cecilia si ricordasse; nel giardino non c’era più
la grande quercia a cui il
signor Mannino tanto teneva, al suo posto ora svettava un ulivo dai
rami
sporgenti e pieno di frutti da raccogliere, sparsi anche sul cemento
del
cortile.
Niccolò
parcheggiò l’auto fuori dal cancello e scese
dall’abitacolo,
seguito dalla biondina. In lontananza scorsero la sagoma di un cane che
giunse
abbaiando fino ai loro piedi.
Beh,
Moll era decisamente cresciuta. L’ultima volta che
l’aveva vista, non pesava che qualche chilo, mentre ora era
grande il triplo e
superava i venticinque chili. La ragazza
l’accarezzò e lei, in risposta, le
leccò la mano con qualche esitazione.
-
Ne è passato di tempo, eh Ned? – le
scompigliò il folto
pelo sulla testa, arricciandolo tra le dita, prima che lei decidesse
che era il
momento di fare le feste al proprio padrone.
Mannino
si abbassò e si lasciò riempire di attenzioni.
Cecilia lo guardò coccolare Moll, che per lui si rotolava
sull’asfalto,
scodinzolava furiosamente, si alzava sulle zampe posteriori per cercare
di
poggiare quelle anteriori sulle sue ginocchia. Dopo qualche minuto, lui
si
alzò, stufo di essere travolto da tante manifestazioni
d’affetto. La ragazza
non poté fare a meno di pensare a quanto era successo
durante gli anni del
liceo: anche lei si era comportata come Ned, anche lei aveva fatto di
tutto per
stare vicino a Niccolò, gli aveva sempre dimostrato
fedeltà e amore. E lui si
era semplicemente stancato di lei.
-
Possiamo andare? – chiese veloce. Non si sentiva
più a suo
agio, quella scena sapeva di déjà-vu e lei non
era pronta per affrontarlo.
Aveva seppellito i ricordi del Maffei in fondo alla mente, non voleva
rischiare
di riportarli a galla.
Niccolò
fu sorprendentemente di parola: la visita durò in
effetti durata qualche minuto, lui si era premurato di offrirle
qualcosa da
bere e qualche snack, rinfrescarle la memoria su dove fosse il bagno,
senza
risultare impacciato a causa dei trascorsi e dei traumi che lei avrebbe
potuto
rammentare. Cecilia lo aveva sempre invidiato per quella sua
caratteristica
abilità nel destreggiarsi in situazioni critiche con
assoluta disinvoltura e
prontezza. Quelle peculiarità, però, erano
probabilmente anche la causa del suo
successo nel mantenere più relazioni sentimentali
– sentimentali?
– allo stesso tempo.
Risalirono
in macchina, Niccolò accese la radio ed entrambi
lasciarono allo speaker di una stazione nazionale il compito di
parlare. Tanto
nessuno dei due stava ascoltando.
Quando
l’auto sterzò per fermarsi sotto casa di Cecilia,
lei
non fece in tempo a salutarlo frettolosamente – come aveva
programmato per la
maggior parte del viaggio –, perché lui
l’anticipò.
-
So di aver fatto un casino in passato. – Oh-oh. La biondina sperò con
tutto il suo
cuore che lui non avesse intenzione d’intraprendere di nuovo
quel discorso. –
Ma Ceci, non succederà più.
Lei
si sganciò la cintura di sicurezza e lo guardò
sorridendo.
-
Lo so che non accadrà più. –
Niccolò rimase spiazzato. Ah, lei
lo sapeva? Curioso, lui aveva
detto quella frase soltanto perché in quel momento sembrava
la cosa giusta da
dire, ma non ne era molto sicuro di riuscire a non tradirla nuovamente.
–
Perché non avverrà mai più nulla tra
me e te.
Quella
risposta non gli piacque per nulla e gli fece
comprendere che il manico del coltello stava lentamente scivolando
nelle mani
della ragazza.
Cecilia
aprì la portiera per uscire, ma lui si allungò
verso
di lei, la sorpassò e richiuse lo sportello.
-
Aspetta, aspetta, parliamone. – Lei si appoggiò
stancamente al sedile, fissando la tappezzeria sul tettuccio.
– Io tengo ancora
a te. Sei pur sempre il mio pesciolino, no?
Sorrise
debolmente e le sfiorò una guancia con due dita. La
ragazza rimase immobile, respirando regolarmente. Si compiacque
dell’effetto
che quel contatto le provocava: nulla. Non ne era esaltata, non ne era
nemmeno
infastidita. Sentiva solo una grande stanchezza, dovuta alla sveglia
suonata
alle 6.30 per andare a correre, alla mattinata in
università, al pomeriggio da
Lisa, all’incontro con Matteo…
Niccolò
interpretò quella sua rilassatezza come un invito a
proseguire le carezze, lungo il collo scoperto e poi verso il braccio.
Cecilia
gli bloccò il polso, giusto un attimo prima che lui
continuasse la scia –
ribadendole la più assoluta mancanza di pudore –
sul suo seno.
-
Buonanotte, Niccolò.
Uscì
dalla macchina, ma il ragazzo si sbrigò a fare
altrettanto, non volendosi dare per vinto. La sua reticenza era
esattamente ciò
che lui desiderava. E lui la voleva di nuovo nel suo letto, il
più presto
possibile.
-
Non mi dai nemmeno il bacio della buonanotte?
Cecilia
avvertì il tono scherzoso, perciò si
limitò a
voltare la testa, mentre ancora proseguiva a camminare verso la porta
di casa.
Mannino non diede cenno di cedere e trotterellò fino a
raggiungerla e a
piazzarsi davanti a lei.
-
Non mi va di giocare, dai… – provò a
protestare.
-
Solo un bacino e prometto che ti lascerò andare a dormire.
– Posò l’indice
sulla guancia per farle
capire che non aveva intenzione di forzare la mano, almeno non quella
sera.
La
biondina ci rifletté: era esausta, Matteo era uscito con
Lisa, voleva togliersi Niccolò di torno, Lisa era uscita con
Matteo, era
arrabbiata, Matteo aveva scelto
Lisa.
Accantonò
i pensieri con stizza e si avvicinò a Mannino,
poggiandogli le mani sulle spalle. Non sarebbe stato altro che un bacio
innocente, atto a accontentare lui, a liberarsi
di lui, a irritare un inconsapevole – e magari indifferente
– Maestri.
Niccolò
gongolò nel vedere l’espressione della Molinari,
ormai persuasa a concedergli un buffetto, fosse anche per sfinimento.
Doveva
complimentarsi con se stesso, era sempre stato bravo a lavorare ai
fianchi.
Soprattutto quelli femminili. Cecilia tenne gli occhi aperti, con il
suo ex non
c’era da fidarsi, la sua tendenza a fare il provolone persino
durante il sonno
non andava sottovalutata. Gli depositò un bacetto sulla
guancia, sollevata che
lui non avesse fatto gesti avventati e infantili per deviare la sua
bocca
direttamente sulla sua. Niccolò non ci aveva provato. Quasi
quasi si
commuoveva. Ma non fece in tempo a finire il suo pensiero che lui le
afferrò la
testa tra le mani, premendole le labbra contro le sue con veemenza e
sfruttando
la sorpresa che le aveva spalancato la bocca per introdurvi la lingua.
Cecilia
si scoprì molto più forte di quanto non pensasse,
mentre respingeva le labbra
di Mannino al mittente, con maggiore grazia e delicatezza del
necessario, visto
il soggetto.
Fu
abbastanza lesto ed accorto da ritirare la lingua subito,
perché Cecilia serrò la mascella, facendo cozzare
i denti tra loro, pur di
sbarrargli l’accesso. Non insisté oltre e le
lasciò libera la testa.
Lo
schiaffo che lo colpì in pieno viso, dopo appena qualche
frazione di secondo, gli intorpidì la guancia e lo
stordì.
-
Non cambierai mai, – esclamò lei delusa, girando i
tacchi
e risalendo il vialetto per entrare in casa e abbandonare il cretino
sul ciglio
della strada.
Niccolò
rimase solo a massaggiarsi il volto dolente,
gradevolmente sorpreso dalla reazione di Cecilia. Oh, sì,
quello che aveva
visto gli era piaciuto molto: il suo agnellino si era trasformato in
una
lottatrice. Non gli restava che procurarle una tutina attillata, un
po’ di
fango e farla arrabbiare di nuovo.
Matteo
si schiarì la voce e cambiò canzone del cd per la
centesima volta, schiacciando a rallentatore i tasti
dell’autoradio. Lisa Zanin
era zitta da circa due minuti e lui non sapeva come interpretare quel
silenzio:
non ne era abituato, ignorava come fronteggiarlo e soprattutto si
chiedeva
perché fosse tanto imbarazzante.
La
ragazza stava fissando con autentico interesse le proprie
mani poco curate e le unghie cortissime, attendendo il modo adatto per
concludere l’uscita. Ma Maestri non dava cenni di voler
accelerare il processo
o quantomeno di iniziarlo; anzi, il suo sguardo perso le faceva
intendere che
avrebbe preferito piantare una tenda nel suo giardino e passare la
notte lì,
arrostendo marshmallows e carne di cervide da congelare.
-
Beh,–
esclamò lei
di punto in bianco: aveva sempre odiato il campeggio, –
grazie della serata. E
per avermi trasportato nella macchina di Lamberti dopo la festa da
Franzoni. E
per non avermi trasmesso malattie durante il rapporto sessuale che non
abbiamo
mai avuto.
-
Ehm, – Matteo avvolse le dita attorno al freno a mano,
giusto per tenersi occupato e nascondere il disagio che le parole
smaliziate di
Lisa gli procuravano, – prego.
La
Zanin lo fissò, incredula da tanta imbranataggine e si
affrettò risoluta a proseguire col discorso.
-
Senti, Maestri, ad essere completamente onesta, io ho
accettato di uscire con te per la questione del bagno. Sei carino, sei
abbastanza sveglio, – stava mentendo, però lui le
aveva offerto il gelato e lei
non se la sentiva di ammazzare il suo ego, – ma non credo che
tra di noi possa
funzionare. Sai, non credo di essere la ragazza giusta per stare con un
calciatore.
Matteo
finse di non accusare il colpo al proprio orgoglio e
si concentrò sulla sensazione di sollievo che
avvertì; trascorrere del tempo
con lei era stato divertente, ma anche un pochino pesante e…
troppo strano! E
lui di certo non poteva negare di non aver avuto un doppio fine.
-
Ad essere completamente
onesto, ti ho chiesto di uscire per fare ingelosire
un’altra, – ammise a
sua volta, sentendosi più leggero.
-
Oh, – non era certo la risposta che Lisa si era aspettata,
però in fin dei conti non le importava poi molto. A conti
fatti era quasi lusinghiero
essere scelte per quello scopo… – almeno siamo
pari. Ha funzionato?
Maestri
afferrò con entrambe le mani il voltante e ruotò
i
polsi ripetutamente, trattenendo a stento una risata assai poco
divertita.
-
Vuoi la verità? Non lo so. Forse dovrei solo dimenticarla
e guardare avanti, senza drammi o paranoie.
Lisa
annuì, senza saper bene cosa dire. Evitò con
accuratezza di approfondire l’argomento e puntò a
definire il loro rapporto.
-
Amici?
-
Certo. Ci vediamo la settimana prossima in facoltà.
Matteo
finalmente sorrise, dispiaciuto solo che il suo
ingegnoso piano per infastidire Cecilia si fosse rivelato tanto
fallimentare.
Quella
notte, in una Verona assopita e intorpidita dal primo
vero freddo della stagione invernale, quattro persone, legate fra loro
da un
singolare destino, tornarono alle loro case con umori e sentimenti
contrastanti.
Cecilia
era furiosa. Con Niccolò, con Lisa, con Matteo, con
sua madre che l’aveva messa al mondo e poi si era scoperta
inadatta a farle da
genitore, con suo padre che l’amava troppo e male, con Van
Gogh, il pesce
rosso, che pur aprendo la bocca in continuazione, non aveva mai una
parola di
conforto…
Matteo
era confuso. Aveva creduto che la serata sarebbe
servita a chiarirgli le idee, magari divertendosi e provando a
costruire
qualcosa a piccoli passi con un’altra ragazza. Beh, era
evidente che
l’obiettivo fosse sfumato. Sbadigliò, mentre
s’infilava sotto la trapunta e
ridacchiava tra sé. Avrebbe dovuto saperlo: cercare di
dimenticare qualcuna,
uscendo con la sua migliore amica, era proprio un piano del cavolo.
Niccolò
era ormonale quanto una donna in gravidanza. Aveva i
boxer in subbuglio e la gamba un po’ dolorante, in seguito
all’incidente al
centro sportivo a causa di quell’idiota di Maestri.
Ridacchiò rumorosamente,
ripensando a quello che aveva sempre considerato un amico; aveva appena
trovato
un ulteriore motivo per cui spassarsela con Cecilia e sarebbe stato
divertente:
avrebbe avuto il piacere di farla sotto al naso di Matteo.
Lisa
era irritata. Fisicamente, perché il prurito tra le
gambe la stava facendo ammattire e la crema lenitiva di sua madre non
sembrava
funzionare, ed emotivamente, perché ancora non sapeva chi
fosse l’artefice di
un tale fastidioso pasticcio.
Il
bip di un
messaggio in arrivo le ricordò che non aveva ancora tolto la
suoneria al
cellulare. Provvide subito, leggendo poi l’sms. Era di
Cecilia.
-
Com’è andata?
Lisa
compose in fretta la risposta, non conscia dell’ansia
che impediva alla sua amica di restare seduta sul letto. Infatti, la
biondina
non riusciva a rimanere ferma, passeggiando nervosamente su e
giù per la
stanza.
-
Tutto okay. Appena
ci vediamo, ti spiego; non mi va di raccontartelo così. Tu,
piuttosto?
Tutto
okay. Che
cavolo significava? Moderatamente positivo,
fondamentalmente inutile e privo di contenuti.
Cecilia
si morse d’istinto un labbro, perché quello era
proprio la risposta che più aveva temuto di ricevere, quella
che in fin dei
conti le sembrava la peggiore, dal momento che la segregava in uno
stato di
consapevole ignoranza da cui non poteva uscire, almeno fino al giorno
in cui si
sarebbero incontrate. Il che significava passare una notte
d’inferno, a
tormentarsi mente e stomaco per immaginare i diversi modi con cui quei
due
avevano passato la serata.
Fece
un ultimo disperato tentativo, strizzando gli occhi per
lo sforzo che le costava farle quella patetica domanda.
-
Non mi anticipi
nulla?
Tamburellava
le dita sul comodino ed era sul punto di
mangiarsi persino i gomiti per la paura d’insospettirla. Era
sempre stata molto
discreta sulle vite private altrui, non amava il gossip –
anche se doveva
ammettere che era pronta a cambiare idea, in caso le fosse servito a
scoprire
qualcosa in più su Matteo –, adesso stava
divenendo improvvisamente curiosa.
Lisa,
ora sdraiata e coperta fino al naso dal piumone,
aggrottò la fronte perplessa; la stranezza di Cecilia in
quei giorni proseguiva
e lei non era sicura di come andasse affrontata.
-
Da quando sei così
impicciona? Te l’ho detto, Matteo è un tipo a
posto, rimarremo in contatto. A
proposito di contatti, mi daresti il nome di un ginecologo?
A
proposito di contatti? Contatti? Di
che genere, in 3D?
Nonostante
il groppo alla gola, non riuscì a chiederle
nient’altro a riguardo e le digitò laconica
l’unico dottore che le sovveniva.
-
Guido Rastrelli.
-
Il papà di
Carlo? Qualcosa mi dice che mi sentirei a disagio a mostrare Priscilla
al padre del mio peggior nemico. Grazie comunque, buonanotte.
Cecilia
si sedette alla scrivania, i gomiti poggiati sulla
scrivania e le mani incastrate tra i capelli.
Dell’appuntamento di Lisa e
Matteo non sapeva nulla. L’unica cosa di cui era certa era
che quella non
sarebbe stata una buona notte.
Le
lezioni della facoltà di lettere non si protendevano mai
oltre il mercoledì, perciò, quel
giovedì, Cecilia si ritrovò a pretendere di
studiare, assonnata, il pensiero che correva in alternanza alla propria
disastrosa vita sentimentale e alla cena che quella sera
l’avrebbe costretta a
sedere al tavolo con Ferdinando, la sua fidanzata Maria Carolina e la
di lei
deliziosa sorella Melissa. Una vera e propria tortura ciclica, a cui si
sottoponeva quasi ogni settimana per poter dire che anche nella sua
famiglia
esisteva una tradizione; c’era chi pranzava con nonni e zii
la domenica
mattina, chi il sabato sera mangiava sempre pizza e c’era
lei, con i suoi
terribili giovedì sera a casa di suo padre, dalla quale
tornava costantemente
con il mal di testa da sovraesposizione di acidità da
matrigna.
Per
questa ragione, si preparava sempre come se dovesse
andare al patibolo: si vestiva bene – perché Maria
Carolina esigeva che lei
indossasse un abbigliamento adeguato alla sua presenza –,
pregava – soprattutto
che Maria Carolina fosse di buonumore – e accettava il
proprio crudele ed
ineluttabile destino – Maria Carolina era una
un’autentica punizione divina.
Quella
sera indossò un abito che sua madre aveva scartato,
dal momento che le andava decisamente
troppo largo, come si era premurata di dirle almeno una
decina di volte,
nonostante fosse almeno di due evidentissime taglie più
piccolo. Cecilia aveva
taciuto e ringraziato per la generosa concessione materna, senza osare
ribattere l’ovvio.
Arrivata
a destinazione, spense il motore della macchina,
cercando di perdere tempo e trovare una scusa per fuggire o quantomeno
trovare
il coraggio per affrontare la routine: fingere di apprezzare cibo,
compagnia e
atmosfera per più di due ore richiedevano un allenamento
costante ed intenso,
al quale purtroppo era abituata. Quelle serate a casa Molinari-Cedreo
le
ricordavano tanto il corso di danza classica che sua madre le aveva
fatto
frequentare in prima elementare, quando ancora sognava di farla
diventare
un’étoile de La Scala; lo detestava, le riusciva
piuttosto bene – nonostante la
pignola maestra la rimbeccasse ogni tre secondi per correggere qualche
posizione –, ma se poteva evitare di andarci, lo faceva molto
volentieri.
Tolse
le chiavi dal quadro e scese dall’auto; sapeva di non
avere alcuna possibilità di scampare alla finta cortesia di Maria Cretina, al diabete da complimenti
fraterni di Melassa e
all’assoluta
imparzialità di Ferditonto.
E lei, Cepigliaescappa, avrebbe
come al solito
trattenuto l’impulso di inforcare la via della porta,
recitando l’ormai
consueto copione di figlia e ospite modello. Condizione,
quest’ultima, che
Maria Carolina pareva sempre dimenticare, dal momento che a fine cena
amava
confinarla in cucina a lavare i piatti, mentre lei si godeva il
meritato
riposo. Riposo da cosa esattamente non era dato sapersi: la cena era
preparata
dalla gastronomia, la tavola rassettata da Ferdinando, la cucina
lustrata da
Cecilia… forse erano le sei ore settimanali di lavoro nella
profumeria dei suoi
a renderla così inesorabilmente stanca, ragion per cui aveva
ritenuto
necessario assumere una donna delle pulizie che riordinasse la casa,
facesse il
bucato e innaffiasse le tre pianticelle spelacchiate che popolavano il
giardino.
Cecilia
non si capacitava di come suo padre, un uomo
acculturato, sveglio e dinamico, potesse sopportare anche la sola
presenza di
una donna come Maria Carolina. Tutte le volte che si poneva questa
questione,
però, doveva anche ricordare che Ferdinando Molinari era lo
stesso che qualche
decennio prima aveva sposato sua madre, Marina, che di certo non era
l’emblema
della brava mamma e moglie. Il problema era che proprio non sapeva
scegliersele, le compagne. Avrebbe dovuto considerare
l’eremitaggio.
L’oggetto
dei suoi pensieri si materializzò davanti ai suoi
occhi, ancor prima che lei potesse suonare il campanello; faceva sempre
così
suo padre, precedendola di qualche secondo. Probabilmente se ne stava
appostato
alla finestra a controllare che lei arrivasse, per poi salutarla e
guardarla
con gli occhi di chi non se l’aspettava di vederla arrivare
di nuovo al proprio
cancello. Forse si stupiva pure lui di trovarla ancora lì,
pronta a sopportare
un’altra noiosa serata con lui.
D’altronde,
Cecilia non ci avrebbe mai rinunciato. Benché
tutto ciò le costasse fatica, quei giovedì sera
costituivano gli unici momenti
disponibili da trascorrere con Ferdinando e avrebbe continuato a
rispettare
l’impegno settimanale, anche se ciò comportava
fare da sguattera alle sorelle
Cedreo. Non poteva permettere che il suo rapporto con suo padre si
riducesse
alla consegna dell’assegno mensile degli alimenti.
-
Ceci, sempre puntuale, eh? – le depositò un bacio
sulla
guancia e se ne stette a fissarla per una manciata di istanti, con le
mani in
tasca. Sua figlia gli sorrise con una punta di amarezza: era davvero
così
difficile riuscire a parlare con lei? Il loro rapporto sarebbe sempre
stato
così freddo e imbarazzato? – Vieni dentro,
comincia a far buio. Allora,
l’università?
La
biondina aveva appena iniziato a raccontare l’andamento
flemmatico delle prime lezioni dell’anno accademico, quando
Maria Carolina le
si avvicinò sgambettando sulle sue mezzo tacco di vernice.
Tanta impazienza
davvero non le si addiceva. Interruppe il discorso padre-figlia
– con sollievo
da parte dei presenti –, mentre si risistemava un ciuffo di
capelli dietro le
orecchie.
-
Oh, cara, finalmente sei qui! Ti spiacerebbe andare in
cucina a mescolare le patate? Non vorrei si bruciassero.
Calò
il silenzio per qualche secondo, il tempo necessario
perché Cecilia assimilasse la domanda e se ne ponesse
un’altra: perché diavolo
non lo fai tu?
-
Tesoro, lo posso fare io… – s’intromise
Ferdinando, che si
proponeva sempre di difendere la figlia, ma che finiva sempre col fare
la
figura dell’uomo senza attributi.
-
Amore, sono certa che alla tua Ceciliuccia non dispiacerà
aiutarmi, visto che è qui tutti i giovedì a
mangiare. Sai dov’è la cucina,
cara. – Appunto.
La
ragazza si avviò mesta verso i fornelli, mentre il rumore
del campanello rimbombava per dieci secondi consecutivi nel salone
centrale:
Melissa era arrivata.
La
conferma le giunse quando la voce strascicata della
ragazza cominciò a parlare a raffica, come di consueto.
-
La macchina si è rotta. Ho dovuto prendere un taxi, ma non
avevo idea che avrei speso una tale cifra! Ho dovuto scegliere tra
pagare la
corsa e comprarmi domani una nuova pochette. Il tassista è
ancora qui fuori che
aspetta! – ridacchiò e sua sorella si
unì allo starnazzio.
-
Ferdy, ti dispiace?
Cecilia
si sporse dalla cucina, giusto in tempo per
assistere alla scena. L’uomo mise prontamente mano alla tasca
posteriore dei
pantaloni e ne trasse il portafoglio, dirigendosi verso il vialetto
esterno.
Sua figlia osservò con rassegnazione tutto il concatenarsi
di azioni, ormai
priva di commenti silenziosi da fare; il problema di suo padre era
sempre lo
stesso da cinquant’anni a questa parte: la mancanza totale di
spina dorsale.
Così era stato con Marina, dalla quale era stato prosciugato
– economicamente
ed emotivamente – e poi gettato come uno straccio vecchio,
così era con Maria
Carolina, che in quanto a spessore emotivo era l’equivalente
di un pizzocchero
della Valtellina.
Ed
eccolo, dopo un matrimonio fallito, una figlia semi
estranea, una convivenza quadriennale, ancora a elemosinare amore alle
donne
sbagliate, donne che al cui confronto il Sahara sembra
un’immensa piscina
olimpionica.
-
Bene. Ora raccontami tutto di questa nuova pochette che
vuoi comprare.
Le
due sorelle Cedreo ben presto si dimenticarono di
Cecilia, lasciata in sala da pranzo a finire di apparecchiare e
sistemare il
centrotavola.
Quando
Ferdinando rientrò dal giardino, a fatica riuscì
a
radunarle tutte e tre attorno alla tavola. Sua figlia, però,
riuscì a
rilassarsi; solitamente, la parte più indigesta della cena
era, per paradosso,
quella che non riguardava il cibo. Melissa e Maria Carolina, infatti,
avevano
l’abitudine di conversare fittamente tra di loro durante il
pasto, lasciando
gli altri due a scambiarsi imbarazzate occhiate di sottecchi e sorrisi
che
entrambi amavano illudersi fossero di complicità. Quella
sera, invece, Melissa
apparve determinata a voler approfondire il rapporto con i parenti
acquisiti. A
modo suo, certamente.
-
Allora Cecilia, qualche novità? – La biondina
bloccò il
braccio che reggeva la forchetta a mezz'aria, facendo cadere un pezzo
di
lasagna di nuovo nel piatto. Perché le stava rivolgendo la
parola? Fece per
farfugliare qualcosa, ma l’altra ricominciò a
parlare. – Io sì. Io e Matteo
Maestri usciremo insieme.
Stavolta
fu l’intera posata a cadere, stridendo all’impatto
con la ceramica della fondina, causando un brivido alla povera Caro. Se
quella
marmocchia avesse osato rovinare il servizio nuovo di Richard
Ginori, le avrebbe spezzato le ossicina delle mani una ad
una.
Cecilia
non riuscì a reagire per qualche secondo,
paralizzata da quel nome che sembrava emergere in qualsiasi posto o
situazione,
come un campo minato tutt’intorno a lei. Matteo Maestri
sembrava essere sulla
bocca di tutti, tranne che sulla sua.
-
Ceci, stai bene?
No!
-
Ce-certo, papà, – si sforzò di
sorridere e Ferdinando fece
altrettanto, tornando a mangiare, sollevato di non dover affrontare una
crisi
figliale senza aver assolutamente idea di come farlo.
-
Oddio, quel Matteo?
Brava Mely!
Maria
Carolina scordò in fretta il buon Richard e si
concentrò sulla sorella, con l’intenzione di
celebrare il momento come una di
quelle party mamas della tv. Certo,
Maestri non era esattamente il sultano del Brunei, ma compensava le
assenti
abbondanze finanziarie con un aspetto fisico niente male e un possibile
futuro
da calciatore. Tutto sommato, poteva rivelarsi un buon investimento.
Melissa
era in fissa per lui dalla prima elementare e aveva
riempito la camera che condividevano con foto sue, intere, a mezzo
busto, di
arti, di frammenti
non ben
identificabili di corpo, scattate ai giardini, in classe, a casa, al
centro
sportivo, stampate sul giornalino della scuola, della
parrocchia… il ragazzo
doveva considerarsi fortunato a ricevere tante attenzioni da parte di
una
Cedreo. E Melissa era una ragazza fortunata: all’epoca non
esisteva ancora il
reato di stalking.
Cecilia
fissò le due sghignazzare per la presunta conquista
e si immaginò come sarebbe potuta cambiare la loro faccia
nel momento in cui
avessero scoperto che il loro castello in aria si stava sgretolando ad
opera di
niente meno che Lisa. Si sentì un po’ dispiaciuta
per entrambe – sapeva bene
cosa significasse desiderare qualcosa, qualcuno,
e non poterlo avere –, ma era stufa di starsene zitta e
inerme. In fondo, stava
facendo loro un favore, le stava informando!
-
Davvero? – domandò con un sopracciglio alzato.
– Strano,
l’ho visto uscire con un'altra.
Riprese
in mano la forchetta e infilzò un ricco boccone di
lasagne. Se lo ficcò in bocca e assaporò con
gusto, mentre i visi delle donne
che la circondavano impallidivano e si contraevano in una smorfia di
stizzito
stupore.
-
Ti sarai sbagliata, – sentenziò la maggiore delle
Cedreo
che mosse in un gesto secco il braccio per afferrare il bicchiere e
scolarsi
d’un fiato il vino rosso che Ferdinando le aveva versato.
-
Non credo. Ci ho anche scambiato due parole, – E
mezzo bacio.
Melissa
la osservò inorridita, pronunciando, con un filo di
voce, vagamente isterica, le tre parole che più temeva in
quel momento.
-
Lei chi è?
Non
appena finì la frase, intuì la risposta: la lesse
direttamente nell’espressione serafica di Cecilia, che le
confermò ogni cattivo
presagio.
-
Lisa Zanin.
La
stracciona. No,
tutte, ma la stracciona no! Come aveva potuto non
prevederlo? Non avrebbe potuto, ecco perché! Chi diavolo
considerava la Zanin
parte della concorrenza? Persino Eva la
Ciofeca era meglio di… quella!
Almeno lei aveva il monociglio, Lisa che aveva di tanto speciale da
renderla
più attraente di una vasca colma di letame?
Melissa
optò per un cambio rapidissimo di argomento, ma
parve palese a tutti gli altri commensali che, nonostante lei e Maria
Carolina
discutessero di accessori e cachemire – escludendo una
più che contenta Cecilia
–, il pensiero fosse rimasto fisso su Matteo Maestri.
La
minore delle Cedreo pretese che Ferdinando
l’accompagnasse a casa, mentre Cecilia veniva invitata
a prendere il suo posto in cucina, tra le stoviglie
sporche e il pavimento da spazzare.
Perlomeno,
ora sapeva che Melissa, con l’onta subita, non le
avrebbe rivolto la parola per una quindicina di cene.
Fatima
Turchetta stava passeggiando placidamente lungo un
infinito viale alberato del centro città, in compagnia di un
bel bassotto color
cioccolato al guinzaglio con una mantellina verde e gialla. In testa
portava
una vivace berretta arancione con delle stelline iridescenti ricamate
che
lasciavano una strana scia luminosa nell’aria che si
lasciavano alle spalle.
Stava camminando da quasi un chilometro, quando la donna si
fermò in prossimità
di un grande tiglio, dietro al quale si nascose. Fece sporgere solo la
testa, e
gli occhi corsero ad osservare una finestra illuminata, al secondo
piano di un
bel palazzo ristrutturato di recente. L’ombra familiare di
Cecilia si distinse
da dietro la tenda e sostò per quasi un minuto davanti al
vetro, prima di
sparire nel buio che oscurò l’intera stanza.
Fatima
scosse la testa, corrucciando la bocca. Lanciò
un’occhiata al bassotto, che le restituì uno
sguardo torvo e accigliato.
-
Lo so, lo so. È il momento d’intervenire.
Penserò a
qualcosa. E tu smettila di fare il broncio, te lo sei meritato!
Azzardati a
mangiare di nuovo tutto il formaggio nel frigorifero e ti trasformo in
un
pidocchio, la prossima volta. Capito, GasGas?
Non so che dire, ormai lo sapete
che sono una ritardataria cronica, senza margini di miglioramento.
Purtroppo,
ciò che del prossimo e ultimo capitolo avevo già
scritto (mancava solo un paragrafo T___T ) è andato perso
quando mi si è rotto l'hard disk. Sarebbe stato troppo furbo
da parte mia salvare il tutto su un una chiavetta, naturalmente.
Vi ringrazio comunque
della pazienza e delle recensioni, a cui risponderò ora.
Grazie a
Nessie di aver betato, spero di tornare presto con il capitolo 7.
Buona giornata!
S.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
Capitolo VII
Cecilia correva. Correva talmente veloce e da così tanto che le gambe sembravano ormai andare per conto loro, mentre i polmoni le bruciavano, a corto d’aria, ma la ragazza non dava cenni di volersi fermare, né tanto meno di rallentare. Doveva arrivare a casa di Lisa a tutti i costi e al più presto possibile, e il footing mattutino le era parsa la scusa migliore.
Aveva passato la notte precedente quasi insonne, rigirandosi tra le lenzuola, controllando in continuazione la sveglia sulla scrivania, nella speranza che segnasse finalmente un orario accettabile per alzarsi, infilare le scarpe da tennis e fare una corsetta per le vie di una Verona appena accarezzata dalle prime luci dell’alba. Quando erano state le sette, aveva indossato un paio di pantaloncini e una felpa non troppo pesante, aveva sgranocchiato una barretta energetica e aveva preso il cellulare e l’i-pod dalla scrivania. La musica la rilassava, l’aiutava a tenere il ritmo, a non pensare allo sforzo e a continuare a correre. Quella mattina, però, era tutto fuorché rilassata ed era stata una sofferenza raggiungere il cancellino dell’abitazione di Lisa, che pure non distava che un paio di chilometri dalla sua. Ogni passo le era costato una fatica immensa, perché le doleva ogni dannato singolo muscolo, era stanca, il cattivo riposo le faceva percepire le gambe pesanti come macigni, ma non si voleva arrendere. Non era da lei rinunciare a qualcosa che desiderava, salvo ricevere schiaffi in piena faccia, come il disprezzo malamente nascosto da Matteo Maestri, ad esempio, che le spezzava le gambe, il fiato, il cuore.
Cecilia strinse con una mano una lancia del cancello di casa Zanin e con quella si sorresse, nella testa la voce del professore di educazione fisica delle medie che le ricordava che il fisico recupera molto più in fretta, se si sta in piedi. Forse erano soltanto idiozie, lei voleva solo sdraiarsi sul marciapiede e dormire, ma s’impose di allungare un dito e raggiungere il campanello. Stava per premere il pulsante, quando l’occhio le cadde sull’orologio da polso.
Merda, 7.15.
Avrebbe fatto venire un infarto a tutta la famiglia, oltre che procurarsi una scarica d’insulti. Ignorò il professor Golia e si sedette sul gradino che dava accesso al vialetto: perché cavolo non ci aveva pensato prima?
Prese il cellulare e mandò un messaggio a Lisa, sperando che fosse sveglia o che almeno avvertisse il rumore dell’arrivo dell’sms.
Sono sotto casa tua. Ti va di fare colazione insieme?
Dio, quanto doveva suonare disperata! Stazionare fuori dalla porta della casa della propria migliore amica di venerdì mattina, praticamente all’alba, con il cuore che batteva all’impazzata – e non solo per la corsa –, per raccogliere uno straccio d’informazione sull’appuntamento, conclusosi nemmeno quarantotto ore prima. D’altronde, non sapeva che altro fare.
Rimase immobile su quel gradino per tutti i venti minuti che Lisa impiegò ad affacciarsi alla finestra, nonostante la pelle d’oca per il freddo sulle gambe scoperte dai pantaloncini e la frequenza cardiaca che faticava a normalizzarsi.
- Sei ubriaca? Che cavolo ci fai qui? – le urlò dal secondo piano.
Cecilia si alzò con un balzo e le sorrise.
- Volevo fare due chiacchiere.
La Zanin alzò sospettosa un sopracciglio e cominciò a ragionare: sette di mattina. Ceci. Chiacchiere. Appuntamento… No. No. No. Mannino. No.
- Santissimo Legolas Verdefoglia. Porta il tuo culo disgraziato in casa. Adesso.
L’amica non ebbe neppure il tempo di chiedere il motivo di tanto disappunto, perché Lisa chiuse la finestra sbattendola, e un secondo più tardi le aprì il cancello. Cecilia entrò in casa e salutò un’assonnata signora Zanin, intenta a preparare la moka del caffè. Lei le rispose con un cenno della mano e sparì in camera.
- Sai quanti sono gli abitanti dell’Europa? 819.263.819. – Lisa comparve dal bagno in una vestaglia verde militare, ciabatte di Homer Simpson e capelli arruffati. E un evidente malumore. – Ammesso che la popolazione sia per metà maschile e metà femminile, ci sono 409.631.909 uomini e altrettante donne. Togliendo i tuoi parenti, all’incirca centocinquanta, otteniamo 409.631.759 persone. Sottrarrei un 65% tra sposati, fidanzati e simili, perciò… tre col riporto di due, sette per quattro, ehm… 143.371.115, più o meno. Eliminando i troppo giovani e i troppo vecchi, direi il 70%, restano… 43.011.334 maschi.
Cecilia la guardò senza capire, in religioso silenzio, sedendosi davanti al tavolo della cucina.
- Quindi…? – chiese, nella speranza che l’altra si spiegasse meglio.
- Scusa, errore mio. 43.011.333 maschi.
Beh, ora è tutto molto più chiaro, pensò la biondina.
- Quindi…? – riprovò.
Lisa sbuffò contrariata, infastidita e anche un po’ stupita dalla poca perspicacia dell’amica.
- Quindi, – le disse, cercando di mantenere la calma, nonostante né la situazione né il fatto di non aver ancora mangiato nulla la stessero aiutando, – esci di qua e accoppiati con uno di quei 43.011.333 uomini. Espatria, se necessario. Utilizza pure le 409.631.909 donne. Vai ad un appuntamento con un procione. Fatti suora. Tutto quello che ti pare. Ma non osare rimetterti con l’unico essere non adatto a te.
Cecilia la fissò stralunata, finalmente cominciando a riordinare le idee e leggendo tra le contorte righe di Lisa.
- Niccolò?
- No, mio padre, – le rispose l’altra sarcastica, mentre si avvicinava al fornello per spegnere la fiamma sotto la caffettiera. Prese due tazze da un armadietto e le appoggiò sul tavolo.
- Peccato, ho sempre pensato fosse un tipo affascinante, – scherzò, provocando una smorfia di disgusto sulla faccia dell’amica. – Comunque, non c’è pericolo che succeda altro tra me e Mannino: non lo rivedrò mai più. Non dopo che mi ha baciato a tradimento.
Lisa smise di versare il caffè nelle tazzine e sbatté la moka sul tavolo, facendo fuoriuscire delle gocce del liquido scuro, che macchiarono la tovaglia.
- Lo sapevo! – urlò. – Tu di certo non l’hai dissuaso, chiedendogli uno strappo a casa... A proposito, che ti è saltato in mente?
- V-volevo solo fare ingelosire un altro ragazzo che era nel locale, un tizio del corso di Storia greca, – si era premurata di citare uno dei corsi che frequentava da sola. – Probabilmente ero solo brilla.
- Comunque, nulla toglie al fatto che sia un idiota! Quello non si arrenderà nemmeno quando avrai la fede al dito e cinque marmocchi a cui badare.
- Tu, piuttosto? – Cecilia cambiò bruscamente argomento. – Com’è andata con Maestri?
Le tremò per un attimo la mano, mentre pronunciava quel nome e afferrava la tazzina che l’altra le stava porgendo allo stesso tempo. Il suo cellulare prese a suonare proprio in quel momento all’interno della tasca della felpa.
- È un bravo ragazzo. Ma non rispondi? – Lisa le fece un cenno per indicare il telefonino, dopo il terzo squillo.
La biondina appoggiò il malefico affare sul tavolo, sbirciando chi fosse il possessore di un tale tempismo e buon senso da chiamare alle 7.45, oltretutto nel bel mezzo di una conversazione su Matteo.
- È Gianluca, risponderò dopo. – Rimise il cellulare nella tasca, sperando di poter proseguire il discorso in pace. – Dicevi?
- Ci siamo divertiti, però… ti prego, rispondi! La tua suoneria mi dà sui nervi!
- Che c’è, Gianlu? – Lamberti prese a parlare così forte e veloce che per un attimo Cecilia si chiese se non si fosse trasformato in uno di quei cinesi sul treno che conversano fitto per ore, rendendoti nolente partecipante di chiamate intercontinentali. – Calmati, non ho capito nulla!
- Un disastro, Ceci, un disastro!
Gianluca le fece un rapido riassunto di come lui e il suo degno compare fossero tornati a casa ubriachi alle 5 dopo un shot party universitario e si fossero accampati nella taverna di casa Rastrelli, svegliati due ore dopo dai latrati del cane. In mezzo ad una pozza rosso sangue. Purtroppo era risultato che non avevano tentato di ammazzarsi a vicenda in una competizione tra galli, ma avevano solo fatto cadere una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997, di proprietà del padre di Carlo, il cui valore di mercato – secondo alcuni siti specialistici – si aggirava attorno al mezzo migliaio di euro. Che i due pirla ovviamente non avevano.
- Non vedo cosa potrei fare, ma sì, venti minuti e arrivo. – Riattaccò e guardò sconsolata Lisa. – Scemo e Più Scemo hanno combinato un pasticcio, come al solito. E ora chiamano me per risolverlo, come al solito.
La Zanin sorrise soddisfatta.
- Mi vesto e vengo anch’io.
Cecilia le restituì un’occhiata dubbiosa: che interesse poteva avere lei ad aiutare i due Teletubbies? Soprattutto Carlo, con cui da sempre era in atto una faida.
- Sicura?
- Rastrelli ha fatto un casino, vorrai mica che perda l’occasione di prenderlo per il culo, no?
Come non detto. Mentre aspettava che l’amica si vestisse nella camera al piano di sopra, la biondina s’imbatté nel padrone di casa, protagonista involontario di una battuta qualche minuto prima. Naturalmente, stava scherzando; il signor Zanin era quasi del tutto calvo e aveva da sempre una pancia pronunciata che sporgeva dalla cintura dei pantaloni, tanto che Lisa da bambina andava dicendo che lui stava per dare alla luce un bimbo. Questo, ovviamente, le aveva dato spunto per fare una ricerca sulle gravidanze maschili sulla rete e cominciare a raccontare aneddoti ad amici scettici e parenti scandalizzati.
- Buongiorno, – lo salutò. – Non ha una bella cera, sa?
L’uomo, infatti, aveva un colorito pallido e malaticcio e dava l’impressione di dover rimettere da un momento all’altro.
- ‘Giorno Cecilia, – bofonchiò, una mano sullo stomaco, come a trattenere tutto ciò che il suo corpo pareva intenzionato a voler espellere per vi orale. – Il cinese di ieri ha messo l’intera famiglia ko.
- Oh, mi dispiace. Lisa, però, mi è sembrato stesse bene.
- Ha preso qualcosa stanotte per digerire. Avrei dovuto imitarla.
Detto ciò, si precipitò in bagno ad abbracciare il water, avendo almeno la premura di chiudere la porta. Purtroppo la casa non aveva i muri insonorizzati.
Lisa giunse in tempo per storcere il naso davanti all’espressione schifata dell’amica.
- Sicura di star bene? – le domandò Cecilia.
- Non c’è miglior medicina che aiutare gli amici. E ridere di loro.
Matteo allungò una mano sul comodino per spegnere l’odioso rumore che da dieci minuti gli stava disturbando il sonno. Fece per premere il pulsante, ma si accorse che la sveglia non era inserita. Alzò la faccia dal cuscino e rimase in ascolto: l’odioso rumore era una dannata voce femminile! Di nuovo una di quelle cornacchie pettegole amiche di sua madre alle… 8 di mattina, lesse sull’orologio, mentre grugniva contrariato. L’unica nota positiva era che portavano sempre qualcosa da mangiare per lui: biscotti, brioches fresche di pasticceria, torte fatte in casa… non lesinavano su nulla, perché sapevano che in quel modo si sarebbero guadagnate il diritto di sottoporlo ad almeno un paio delle loro domande.
Maestri fece pipì, si lavò faccia e denti, indossò pantaloni e felpa della tuta e provò a sorridere allo specchio, in preparazione al terzo grado per il quale non si sentiva mai davvero pronto. Ma per una brioche al cioccolato, questo e altro.
Restava solo da capire l’identità della comare in questione. C’erano quattro possibilità, ciascuna con un diverso grado di pericolosità: livello uno, Annamaria. Malata di shopping, lo squadrava da capo a piedi per controllare che anche il suo colore di capelli non stonasse con l’abbigliamento. Lo costringeva a cicliche sedute di acquisti compulsivi, atti a fargli comprare più roba inutile possibile. Al momento, Maestri possedeva due sombreri, un paio di pantofole provenienti con tutta probabilità dalla collezione privata di Flavio Briatore, degli stivali pitonati, una casetta per uccelli e dei paradenti fluo, perché Anna aveva stabilito fossero degli accessori indispensabili. Non aveva mai capito se lo pensasse davvero o avesse solo dei seri problemi a tener chiuso il portafoglio, oltre che la bocca.
Livello due, Rosita. Di lei, Matteo ricordava svariati episodi dell’infanzia, quando per disgrazia sua madre lo aveva abbandonato – perché era così che si sentiva – a casa sua e quella donna gli aveva messo lo smalto sulle unghie per fare pratica. Adriana aveva riso, inconsapevole del grandissimo trauma che il piccolo Matteo avrebbe potuto riportare e, ancora oggi, lui era convinto che se mai avesse avuto una minuscola parte omosessuale di sé – l’avevano detto in tv, ma era certo che la cosa non lo riguardasse. Lui era un uomo vero! –, quella gli doveva essere stata inculcata da quella pazza ossessionata dalla nail-art.
Livello tre, assolutamente Martina. L’unica parola che gli venisse in mente per descriverla era: cougar. A quarant’anni suonati, lei ancora vestiva come una ventenne e, soprattutto, rincorreva ragazzi che a quel punto potevano essere tranquillamente i suoi figli. Per questo, con lei non si sentiva mai troppo sicuro; dopo il venticinquenne brasiliano Pedro, temeva di essere la prossima preda.
Livello di allarme assoluto numero quattro, Venera. Adriana gli raccontava spesso di come la sua amica avesse in origine pensato di farsi suora. Era una decisione presa all’età di otto anni, poi a tredici, tornando dal catechismo domenicale, aveva trovato per terra vicino ad un cassonetto un calendario pieno di nudi maschili, e lì aveva avuto una visione: no, non la Madonna, ma un modello ariano che gli aveva parlato con i propri addominali. In quel momento, Venera si era resa conto di aver appena ricevuto una vocazione più grande della precedente. Non poteva rinchiudersi in un posto in solitudine, quando tanti poveri uomini con muscoli tonici e pochi vestiti avevano bisogno di lei! Ed ecco che aveva aperto una piccola agenzia di moda a Milano, dove, guarda caso, le sue amiche organizzavano mensili brunch per offrire consulenze gratuite.
Questi quattro soggetti erano la ragione per cui Matteo aveva paura di svegliarsi ogni mattina. Pregava che ci fosse Annamaria con i muffins o Rosita con i biscotti, Martina che gli dava tutte le brioches perché lei era in perenne dieta, ma non Venera, che era solita mangiarsi il regalo destinato a lui ancor prima di varcare la soglia di casa Maestri.
Matteo si fece coraggio ed entrò in salotto, dove, di fronte a sua madre, c’era una schiena sconosciuta.
Oh, no.
Fin troppo conosciuta.
- Che cazzo ci fai qui?
Adriana lo guardò come un’ancora di salvezza dopo anni di pericoli, ma si costrinse comunque a rimproverarlo per il linguaggio. L’ospite però sovrastò la sua voce.
- Matti! – Melissa Cedreo si voltò sorridente verso di lui. – Stavo giusto dicendo a tua madre della nostra imminente uscita!
Dov’erano le amiche di sua madre, quando lui ne aveva bisogno?
Cecilia si prese il tempo di passare da casa per farsi una doccia veloce e mettersi qualcosa di più comodo e caldo, prima di raggiungere casa Rastrelli insieme a Lisa. Carlo e Gianluca le accolsero con una smorfia di dolore e panico, la chiazza rossa ancora sul pavimento chiaro e l’odore intenso del vino che riempiva la stanza. E Lisa che scattava una foto.
I tre la guardarono in cagnesco.
- Che c’è? – brontolò lei. – Mica è colpa mia se voi siete talmente idioti da non aver neanche pulito nel frattempo! E poi questa situazione urla ricatto. Rastrelli, la prossima volta che mi rompi le palle, questa fotografia finisce dritta dritta nelle mani di tuo padre…. Sempre ammesso che non scopra il danno prima.
- Lisa, da’ loro un po’ di tregua, – la ammonì Cecilia, ma lei fece spallucce.
- Carlo, a proposito di tuo padre. Non sai se ha qualche amico vaginologo – rise sotto i baffi del rossore che colorò le guance dei due ragazzi, – che faccia al caso mio? Perché vedi, ho un certo prurito…
Si stava molto prodigando affinché le guance di Tinky Winky e Dipsy raggiungessero le tonalità di un bel tramonto serale.
- Prova con un veterinario, Zanin, – rispose piccato Rastrelli.
Gianluca s’intromise subito: la situazione era già abbastanza tragica, non voleva aggiungere del sangue vero al macello già sulle piastrelle.
- Carlo, non mi sembri nella posizione di fare dell’umorismo. E tu, Lisa, se non hai intenzione di aiutare, puoi anche evaporare, grazie.
La ragazza bofonchiò un suscettibili! a denti stretti, avendo cura di farsi udire. Cecilia si sentì stranamente fiera di Lamberti, che una volta tanto si era dimostrato maturo.
- Fingiamo un furto! – esclamò subito dopo, smontando uno ad uno i complimenti che affollavano i pensieri dell’amica.
Lisa si guardò attorno e individuò ciò che stava cercando; si avvicinò a Gianluca e gli mise in mano un panno.
- Comincia a pulire, genio. Qui dentro c’è una puzza nauseabonda. Bleah.
Si coprì il naso con una mano e si appoggiò con il sedere al tavolo in legno massiccio che occupava gran parte della taverna. Il tanfo intenso del vino rovesciato le stava facendo rivoltare nello stomaco gli involtini primavera e il pollo alle mandorle della sera precedente, conditi con il caffè della mattina.
I ragazzi e Cecilia, però, non le stavano prestando attenzione, i primi intenti a salvare il possibile e la seconda ad impedire loro di strizzarsi le spugne in bocca per assaggiare il vino.
- È una bottiglia da cinquecento euro da buttare, almeno lasciaci sentire com’è! – Gianluca provò a perorare la causa, ma Cecilia stroncò sul nascere ogni protesta.
- Vi rendete conto che questo liquido è sul pavimento da ore? Non potete nemmeno accampare la scusa dei tre secondi, perché è tutto talmente antigienico che mi fa venire i brividi.
Carlo avrebbe voluto aggiungere che una volta aveva mangiato uno scarafaggio morto da giorni e non gli era successo niente, ma qualcosa lo dissuase: in qualche modo, non credeva che la cosa avrebbe convinto l’amica a far loro bere il vino da terra. E come mai la Zanin non li aveva ancora presi in giro per questo?
Alzò lo sguardo verso la ragazza e la trovò pallida come un cencio, gli occhi spalancati, non proprio uno dei suoi momenti migliori. Stranamente gli venne da sorridere.
- Se stai per morire, dillo subito. Vorrei fare una foto.
Lisa fece in tempo ad indirizzargli un assai raffinato dito medio, prima di correre verso il piccolo bagno che ricordava ci fosse nello scantinato. Cecilia la raggiunse dopo qualche istante, aiutandola a reggersi i capelli sulla testa, mentre vomitava.
- Meglio? – le chiese, sorridendo comprensiva.
- Vo-voglio andare a casa, – sussurrò l’altra.
- Mi sembra un’ottima idea.
La biondina le cedette la propria giacca e fece sedere Gianluca e Carlo sul divano per istruirli, affinché sistemassero almeno fisicamente il disastro in sua assenza; avrebbe accompagnato l’amica a casa e poi sarebbe tornata a raccogliere i cocci. Tanto era certa che i due si sarebbero messi a giocare alla playstation, non appena lei avesse chiuso la porta di casa.
Si sbagliava: Rastrelli recuperò i joystick da dietro il cuscino ancora prima che lei finisse di parlare.
- Certo che la Zanin poteva pure evitare di venire; è arrivata solo per rompere i coglioni e vomitare, – si lagnò Carlo, ridacchiando.
- Beh, capiscila. – gli rispose Gianluca distrattamente.
- Capire cosa?
- Non l’hai capito? Uffa, Rastrelli, non capisci mai un cazzo. A noi non ha detto niente, ma forse è perché vuole che rimanga un segreto, perciò non diremo nulla. Però il prurito, il ginecologo, il vomito… Lisa è incinta.
Paleografia latina. Mh, interessante… qualunque cosa fosse. Sembrava essere interessante e sembrava anche l’ultima possibilità per Matteo Maestri di incontrare Lisa Zanin. Aveva già controllato tutti gli altri corsi opzionali, ma della ragazza nessuna traccia. Perciò, doveva essere paleografia latina. Non riusciva a pensare ad una lezione meno attraente, ma non vedeva soluzioni alternative.
Ripensandoci, dopo quarantacinque minuti di disquisizione sulla scrittura in caratteri latini colta e svariati tentativi di datazione e interpretazione delle principali forme di testimonianze manoscritte in alfabeto latino, qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Qualsiasi cosa.
Quasi gli venne da piangere dalla contentezza, quando la professoressa annunciò la tanto agognata pausa. Aveva rintracciato la testa di Lisa nelle prime file dell’aula, decisamente lontano dalla sua posizione, molto più defilata, nei pressi della porta. Aspettò che si alzasse e che fosse nelle sue vicinanze e poi la salutò, fingendo stupore.
- Oh, ciao Lisa. Che coincidenza, anche tu frequenti paleologia?
La ragazza aggrottò la fronte e, naturalmente, non lasciò correre.
- Paleografia, Maestri. Non sapevo l’avessi scelto anche tu, non ti ho mai visto a lezione prima d’ora.
- Mi sto guardando intorno, – la fece breve. – Ti va un caffè?
Lisa annuì, uscì dall’aula e si girò verso l’agognata area macchinette, dando un’occhiata alla fittissima folla che la circondava. Cercò di farsi largo tra la massa eccitata di genitori, amici, nonni, zii, fidanzati, bisnonni centenari, prozii provenienti dall’America e tutto il restante e variegato parentado, accorso a festeggiare la laurea dei propri cari… e ad intasare corridoi, bagni, chiostro, spazi vitali degli altri studenti.
Odiava le sedute di laurea: l’università era gremita, puzzava di fiori e colonie delle nonne, le persone tendevano ad urlare, dimentichi di non essere al circo né tanto meno ad un matrimonio in Africa.
Matteo seguì la scia di Lisa, che come un carro armato stava abbattendo chiunque le fosse d’intralcio. Non riuscì a fermarla e la vide inserire una moneta per entrambi.
- Dovevo sdebitarmi per il gelato, – disse laconica lei, intuendo il disappunto di lui. – Caffè o tè?
- Caffè amaro, grazie. – Le sorrise e soppresse la volontà di ribattere, ormai aveva cominciato a capire qualcosina di Lisa e sapeva che se avesse osato dire qualsiasi cosa a riguardo, si sarebbe innescata una disputa infinita su una sua presunta misoginia e lui non era interessato. Almeno non a quello.
Gli consegnò il suo bicchierino di plastica in mano e selezionò il tasto del tè caldo al limone per lei.
- Lo sapevi che nel 1700, il re Gustavo III di Svezia prese due gemelli da una prigione e li costrinse a bere rispettivamente tre tazze di caffè e tre di tè? Invecchiò meglio il gemello obbligato a bere tè, morì a 83 anni.
A dire il vero no, Matteo non lo sapeva, ma non poteva davvero affermare di essere interessato. Nemmeno a quello.
- Beh, potevi dirmelo prima che bevessi il caffè! – le mostrò il bicchierino vuoto, che ben presto terminò nel cestino, insieme a tutti gli altri.
Lisa si limitò a scrollare le spalle, fissando in cagnesco la folla, che non accennava a fluire verso l’esterno, nonostante fosse una bella giornata e i primi neolaureati stessero già uscendo dalle aule. La Zanin si soffermò a contemplare un padre particolarmente apprensivo che, preso dalla foga del momento, era deciso ad immortalare la figlia – con tanto di corona d’alloro appena lanciatale in testa da un’amica – davanti alla porta del bagno degli uomini. Perché andare in giardino o in chiostro quando puoi avere un molto più che suggestivo sfondo in legno scadente e una piccola insegna con un omino stilizzato, prontamente trasformato in donna da qualche bontempone?
Matteo la vide assorta nei suoi pensieri e decise di agire: era il momento di farle la fatidica domanda. Semplice, chiara, diretta, dritta al punto.
- Allora… tutta sola stamattina?
Ecco, magari meglio partire con un giro più ampio.
- Sì, Cecilia non frequenta questo corso.
- Oh, giusto, Cecilia… – disse distrattamente, ringraziando che fosse stata lei a tirare fuori l’argomento. – Come sta?
- Potrebbe stare meglio, soprattutto se Mannino le girasse più lontano.
Oh Lisa, così gli stava rendendo tutto così facile!
- Hanno litigato?
Matteo si stava sforzando di risultare naturale e disinvolto, celando il suo più che evidente interesse col tentativo di fare una banalissima conversazione.
- Non me ne intendo molto di queste cose, ma credo che quando uno ti spezza il cuore, tu nutra del risentimento nei suoi confronti.
- … spezzato il cuore?
Matteo rimase in fremente attesa della risposta: desiderava che lui l’avesse ferita, che l’avesse fatta soffrire, perché sapeva che Cecilia lo meritava. O forse perché in quel modo lei avrebbe lasciato Mannino.
- L’ha tradita, – gli spiegò Lisa. – In più di un’occasione. E lei non l’ha perdonato, ovviamente, anche se finge di averlo fatto. Ma Niccolò non è uno abituato ad arrendersi, perciò ora le sta addosso come un koala. Ceci non sa più come dirgli di tenere manacce e boccaccia al loro posto. Questa storia è durata anche troppo.
Maestri si prese un attimo per riflettere; gli sfuggiva ancora qualcosa.
- Però l’altra sera al Firefly è stata lei a chiedergli un passaggio…
- Ha parlato di voler far ingelosire un tizio del corso di Storia greca… a quanto pare avete qualcosa in comune: un amante segreto.
Il ragazzo sorrise debolmente.
- Già. Quindi tra lei e Mannino…?
Lisa bevve l’ultimo sorso di tè dal bicchiere di plastica, che finì coll’essere accartocciato dalla sua mano, nello stesso modo in cui avrebbe fatto con la testa di un certo Niccolò.
- Credo che stavolta la questione sia chiusa definitivamente. Torno in aula.
Il ragazzo la guardò andarsene, spintonando un gruppo di amici eccitati attorno ad una neolaureata trasformata in mucca della Milka. Era un po’ stordito, non sapeva cosa dire e soprattutto cosa fare: Cecilia si era sbarazzata di Niccolò, il che significava che ora era single. Ma lui non poteva dimenticare ciò che era successo, il suo orgoglio si rifiutava categoricamente di metterci una pietra sopra e fingere che di non sentirsi ancora umiliato.
E la lezione di paleoqualcosa non l’avrebbe aiutato a fare chiarezza: capiva del latino quanto ne capiva di donne.
Nulla.
La taverna di Rastrelli odorava di ammoniaca e di un fragile retrogusto di pesca nocchiera. Nonostante le numerose ore passate a strofinare il pavimento e a spruzzare deodoranti per ambienti nell’aria, quello scantinato puzzava di Bolgheri Sassicaia del 1997. Ormai, i tre ragazzi avevano esaurito le idee per rimediare al danno; Cecilia – E se confessassi a tuo padre? – era stata tacciata di essere troppo responsabile. Gianluca – E se comprassimo solo la bottiglia e la riempissimo di Tavernello? – era stato invitato a chiudere il becco, possibilmente per sempre. Carlo – Fuggiamo all’estero! – si era premurato di risultare inutile come di consueto.
- Facciamo finta di nulla, okay? Fingeremo di non aver mai visto quel vino – propose infine Rastrelli, dopo estenuanti ore di trattative.
- Tuo padre ha milioni di bottiglie, vedrai che neanche se ne accorgerà! – gli diede corda Lamberti.
Cecilia si rifiutò di rispondere. Aveva la sensazione di aver speso gli ultimi quattro giorni a parlare con un muro, implorandoli di fare le persone mature per una volta e di prendersi le loro responsabilità.
Loro le avevano risposto con una pernacchia.
- Bene, visto che avete raggiunto una così brillante conclusione, io me ne andrei, – li informò.
Sul viso di Carlo comparve un’espressione dispiaciuta.
- No, non puoi! Dobbiamo fare le prove, prima! – la guardò con degli occhioni da cucciolo bastonato. – Tu fai mio padre, va bene? Gianlu fa Gianlu e io… io faccio io.
Lei li osservò, sperando che fosse uno scherzo, ma naturalmente, quando si trattava di quei due, sulle idiozie non scherzavano mai.
- Ti prego… – la implorò Lamberti, in ginocchio e con le mani giunte.
Cecilia riappoggiò sul divano la borsa che aveva appena raccolto da terra, in previsione di andarsene. Si sedette a sua volta sul sofà, conscia di aver ceduto alle stupide pretese dei suoi amici.
- Buongiorno, figlioli, – esclamò, cercando di imitare la voce del signor Rastrelli.
- Mio padre non dice ‘figlioli’… – brontolò Carlo.
- Sta’ zitto e recita.
Al primo piano del polo Zanotto di via San Francesco, Matteo Maestri era rimasto apparentemente solo, in mezzo a centinaia di sconosciuti. Mancavano ancora cinque minuti alla fine della pausa di metà lezione, e lui non aveva ancora deciso se tornare in aula per altri quarantacinque minuti di tortura latina, o per raccogliere le proprie cose e andare a casa a dormire.
Non appena avvertì una morsa arpionargli un braccio, capì di non avere più scelta. L’anello grosso quanto una palla da golf che svettava sulla mano che lo stava stringendo apparteneva solo ad una persona, la stessa che aveva sbattuto a fatica fuori casa quella stessa mattina: Melissa Cedreo.
- Ciao, tesoro! – gli stampò un bacio sulla guancia, lasciandogliela appiccicaticcia di un nauseante lucidalabbra alla fragola. Matteo si ripulì in fretta con il dorso della mano e si liberò dalla presa. – Allora, quando mi porti a cena?
- Melissa, ti ho già detto di non insistere. Smettila, non costringermi a diventare maleducato.
Sì, aveva deciso. Paleografia latina. La cultura era l’unico mezzo a sua disposizione per combattere la sorella più piccola delle Cedreo. Chissà, magari anche la materializzazione a sorpresa davanti a loro di Filippo Franzoni poteva rivelarsi utile allo scopo.
- Oh, guarda guarda chi c’è! – ridacchiò il nuovo arrivato, in un impeccabile spezzato, completato da dei guanti che lo rendevano un perfetto gentiluomo del 1800.
Melissa improvvisamente si fece mesta e composta.
- Franzoni, che diavolo ci fa qui? – Maestri si strofinò gli occhi con le dita, rimpiangendo le amiche di sua madre: almeno loro gli portavano i dolci, prima di rovinargli la giornata!
- A quanto pare una vecchia prozia di cui non conoscevamo nemmeno l’esistenza si laurea oggi. – Filippo si sistemò meglio i gemelli su entrambi i polsi. – Meglio coltivare le parentele, non credi? Così quando morirà, si ricorderà del caro nipotino che è venuto a sentirla discutere la tesi.
- Il tuo attaccamento alla famiglia è lodevole, – lo canzonò Matteo. – Ora scusatemi, ho una lezione.
- Fermo dove sei, – lo bloccò l’altro, – devo parlare con entrambi.
- Non ho alcuna intenzione di parlare con te.
Franzoni fissò con disgusto il vestiario di alcuni passanti: 100% poliestere, di sicuro. La cosa lo scosse fin nei boxer di cachemire.
Invece lo farai, - ribatté, finita la radiografia, – visto che ancora mi sfugge il motivo per cui hai smesso di farlo. Ti ho lasciato del tempo per sbollire la rabbia e anche perché mamma dice che è poco aristocratico essere il primo a farsi sentire dopo un litigio. Melissa, – si rivolse alla ragazza, insolitamente zitta, – poi toccherà a te.
- M-m-me? – tartagliò lei, con un risolino isterico. – Per quale assurdo motivo cerchi me? Cosa avremmo da dirci io e te, eh? Niente!
Franzoni raccolse le idee per qualche istante, cercando di ricordare le parole esatte da pronunciare a Melissa.
- Ho lottato contro la mia volontà, le aspettative della mia famiglia, l’inferiorità delle tue origini, il mio rango e il patrimonio, tutte cose che voglio dimenticare e chiederti di mettere fine alla mia agonia…
- Allora sparati, Franzoni, – gli rispose lapidaria.
Dannazione, era convinto che citare la dichiarazione di Orgoglio e pregiudizio avrebbe steso la sua preda. E invece era la sua preda a volerlo steso. Morto, però.
D’accordo, Filippo, disse a se stesso, forse è meglio passare a qualcosa di più pragmatico.
- Perché non mi hai chiamato dopo la festa a casa mia? – piagnucolò senza ritegno.
- Avrei dovuto? – urlò lei, scansandolo con una mano. – Ora scusaci, ma io e Matti abbiamo un appuntamento.
Purtroppo per lei, Maestri non era dell’idea di portarla da alcuna parte, ma era parecchio curioso di sapere cosa ci fosse stato di preciso tra Franzoni e la Cedreo.
- Che è successo a casa di Fil? – domandò sospettoso.
- Melissa ed io ci siamo baciati in bagno.
Maestri strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca e scoppiò a ridere. La stessa reazione non si poté leggere sul viso di Gisella Ferris, sopraggiunta con la borsa di Melissa, insieme ad un possibile mancamento.
- Cosa? – pronunciò con un fil di voce.
- Quindi eravate voi due!
Matteo li indicò senza smettere di ridacchiare e cominciò a percorrere un filone di ragionamento chiaro solo a se stesso: dunque, ora era a conoscenza di tre membri su quattro del piccolo party privato avvenuto nel bagno di Villa Franzoni. L’unica incognita era il tizio che si era dato da fare con Lisa, il responsabile del prurito intimo che tanto lo aveva fatto arrossire durante l’appuntamento.
- Se tu hai baciato Franzoni, – rifletté a voce alta Gisella, – allora Matti è mio.
E che cavolo! Si era fatta remore e aveva addirittura accantonato – temporaneamente – il proprio diritto sul ragazzo in questione, ma una pomiciata in toilette ribaltava le carte in tavola!
- Scordatelo, – Melissa le si avvicinò con intenzioni bellicose, – lui mi appartiene!
- Prova a ripeterlo, gallina!
Qualcuno avrebbe potuto ritenersi onorato di scatenare tanto fervore in due giovani donzelle, ma ciò che Maestri provava in quel momento di fronte a quella scena era uno strana sensazione di paura, perché entrambe possedevano un certo grado di follia omicida negli occhi e ciò era sufficiente a renderlo inquieto. Perciò, spinto da puro spirito di autoconservazione e amore per il prossimo, afferrò per un braccio Franzoni e lo portò con sé dietro l’angolo, al riparo da capelli tirati e appellativi degni di Jersey Shore.
- Questo significa che siamo di nuovo amici? – gli chiese l’altro, sistemandosi il punto della giacca in cui Matteo l’aveva toccato, sgualcendo la preziosa stoffa.
L’altro ignorò la sua domanda, arrivando dritto al punto che più gli premeva.
- Alla festa, hai visto che sono stato quasi tutto il tempo con una ragazza.
Franzoni sbuffò, contrariato all’idea di spendere tempo, fiato e parole per discutere di una così insignificante persona.
- Sì, la Molinari.
- Perché non mi hai detto che stava con Mannino? – sbottò Matteo.
- Non credevo t’interessasse, – si difese Filippo, intuendo dove l’altro volesse arrivare, ma continuando a sperare che fosse tutto un gigantesco malinteso.
- Lei m’interessa! – si era sforzato di mantenere la calma e un tono di voce basso, ma di fronte a quell’affermazione di Franzoni, non era riuscito a contenersi.
- Che pessimo gusto, Matteo, – commentò l’amico. – Ad ogni modo, dal momento che ci tieni, ti dirò quello che so, che ad essere onesti è molto poco. Si sono messi insieme al quarto anno di liceo, credo, hanno fatto coppia fissa per un po’, baci e abbracci, sai, quelle cose da plebei, fino a quando lui non ha preso a frequentare corpi altrui…
Filippo era molto più che poco informato, si nutriva di gossip come le classiche vecchie vicine di casa impiccione e pettegole. Era necessario, per tenere sotto controllo il popolo, per carpire in tempo l’arrivo di un’eventuale e insopportabile rivoluzione della plebaglia. Non si era mai troppo all’erta con i poveri.
- Sì, d’accordo, basta… – l’interruppe Matteo, pentendosene subito, – no, aspetta, lui l’ha tradita quattro anni fa?
- Lo sapevano tutti al Maffei. Beh, tutti tranne lei.
Per la prima volta, Maestri si sentì completamente dispiaciuto per Cecilia.
- E lei ha continuato a stare con lui, nonostante lui si sia sempre fatto i suoi porci comodi?
- Non sono esattamente il fan numero uno della Molinari, ma di due cose sono convinto: la prima è che sia una borghese della peggior specie, i nuovi arricchiti; l’altra è che sia abbastanza intelligente da non farsi mettere i piedi in testa da un imbecille come Mannino.
Dispiaciuto e felice.
- Che stai cercando di dirmi, esattamente?
- Dopo la scoperta del tradimento e soprattutto dopo aver saputo che l’intera scuola ne era al corrente, ha strisciato lungo i muri come un fantasma per un po’ e un giorno è tornata quella di sempre.
Dispiaciuto, felice e speranzoso.
- Quindi non stanno insieme?
- Non ne ho la certezza assoluta, ma direi proprio di no.
Dispiaciuto, felice, speranzoso e felice. L’aveva già detto?
Il momento di serenità e spiegazioni esclusivamente maschile finì nel momento stesso in cui Melissa e Gisella si resero conto che il loro amato ragazzo dei sogni le aveva abbandonate all’area macchinette, sole e spettinate in mezzo a sconosciuti che le stavano fissando come fossero state animali da circo. C’impiegarono diversi minuti, prima di individuarlo, abbattere la folla circostante e raggiungerlo, cercando di ostacolarsi a vicenda.
- Matti, scegli me! – gli gridò la Ferris sull’orlo delle lacrime.
Matteo, in risposta, le rifilò un’occhiata gelida. Non era necessario possedere una mente eccelsa per comprendere da chi fosse partito il gigantesco malinteso che aveva coinvolto Cecilia, Mannino e lui stesso; era sufficiente una buona memoria. Era stata Gisella a mettere in piedi tutta quella sceneggiata e lui era stato così cieco, stupido e ingenuo da crederle.
- Girami a largo per almeno un anno.
- A-ha, te l’avevo detto che avrebbe scelto me! – gioì Melissa.
- Che ho fatto? – finse di piangere l’altra.
Matteo le concesse l’ultima opportunità per essere sincera, ma Gisella era troppo presa dall’inscenare un piagnisteo memorabile che mancò l’unica chance di uscire da quella situazione perlomeno in modo dignitoso.
- Cecilia sta con Mannino? – le chiese piano, affinché il criceto eremita nel suo cervello potesse elaborare bene le parole.
- Sì! – tentò disperata Gisella.
- No!
La voce di una donna adulta svettò su quelle degli altri, facendo voltare i visi sbigottiti degli astanti nella sua direzione. Era una signora bassa e cicciottella, con un imponente medaglione dalla fantasia floreale al collo. Solo uno tra loro la conosceva. Più o meno.
- Prozia Fatima!
Filippo le si avvicinò con un sorriso smagliante e le braccia teatralmente aperte. Non era certo che fosse lei – e chi cavolo l’aveva mai vista? –, ma il libricino rilegato che fuoriusciva dalla borsa di maglia aveva tutto l’aspetto di una tesi. Quante vecchie potevano laurearsi in quella giornata?
La donna gli restituì un saluto tiepido, con due pacche sulle spalle.
- E lei cosa ne sa?
Lo stridore nella voce di Gisella tradì un’eccessiva dose di apprensione, che non passò inosservata.
- Ne so più di te, signorina! – la riprese Fatima. – Conosco Cecilia e so che è innamorata di un ragazzo. E non sto parlando di Niccolò.
Melissa comprese tutto prima degli altri. Doveva essere per via di quell’acutezza che l’aveva sempre distinta.
- OMG! – gracchiò. – La Molinari è innamorata di Franzoni! Posso twittarlo?
Matteo e gli altri guardarono prima lei, poi Fatima, aspettando di ricevere un’illuminazione su quel groviglio nebuloso creatosi alla festa in maschera.
- Flora, Fauna e Serenella, aiutatemi voi! – implorò la donna, rivolta la cielo. O, meglio, al soffitto. – No, tesoro, non si tratta di Filippo.
Okay, non è nemmeno Franzoni, si ripeté Maestri, allora chi cavolo è?
Per un attimo smise di respirare: merda, il tizio del corso di Storia greca. Ecco chi era.
Si sentiva talmente demoralizzato che non si accorse neppure che Lisa stava ringhiando in mezzo al corridoio, chiedendo silenzio.
- Ehi, volete stare zitti? C’è chi vorrebbe fare lezione qui! – urlò arrabbiata, ma subito si distese, riconoscendo la proprietaria di Sale in zucca. – Fatima?
Un campanello d’allarme risuonò nella mente di Filippo Franzoni. Arrampicatrice sociale, cacciatrice di dote ed eredità, plebea all’attacco della vecchia! Non valeva, lui era arrivato prima!
- Conosci la prozia? – si affrettò a chiedere alla ragazza, senza aspettare però che rispondesse. – Ti prego, cara zietta, di considerare il fatto che io sono venuto per te, pur non conoscendoti. Ogni tipo di ricompensa sarà accetta.
Ma Fatima ormai stava già accorrendo verso la Zanin per abbracciarla con i suoi soliti modi di fare materni, che naturalmente stavano mettendo a dura prova quel ghiacciolo di Lisa.
- Oh, raggio di sole, come stai? – le chiese.
Matteo tentò di non essere scortese, ma aveva esaurito ogni scorta di pazienza quella mattina stessa a casa sua, quando aveva cacciato Melissa dalla porta.
- S-scusate se interrompo questa rimpatriata, – disse con dolcezza, – ma stavamo cercando di capire di chi cavolo è innamorata Cecilia.
Doveva saperlo. Che fosse il nerd sfigato e brufoloso – era ovvio che il tizio in questione fosse brutto e pure antipatico – di Storia greca o il cantante dei Duran Duran, lo doveva sapere.
- Perché parlate di Ce’? – s’informò Lisa.
- Tu sei uscito con la stracciona e non vuoi uscire con me? – gracchiò Melissa al culmine dell’indignazione.
- Io voglio uscire solo con Cecilia! – urlò Matteo esasperato.
Lo gridò talmente forte che l’intero corridoio si voltò verso il gruppetto, in assoluto silenzio. Lui arrossì come mai in vita sua, mentre i suoi amici reagivano con mille diverse espressioni facciali e verbali. Solo Fatima sfoderò un largo sorriso gongolante.
- Bene, Matteo, – gli disse, strizzandogli le guance. – E allora credo dovresti dirglielo, tesoro.
- E il tizio di Storia greca? – chiese sconsolato.
- Conosci mica un certo Pino? Perché avete la stessa testa di legn… dura, testa dura.
Meno di un minuto dopo, Matteo Maestri veniva spedito quasi a calci nel sedere sul ballatoio delle scale della facoltà di Lettere. Fatima gli aveva messo in mano la sua borsa con tutti i libri e la giacca lasciate nell’aula di Paleografia, Lisa gli aveva scritto il numero di Cecilia sul braccio – perché non avevano tempo di cercare il cellulare – e Franzoni si era limitato al nobile gesto di tenergli aperta la porta mentre veniva spronato con cori da stadio a correre.
E lui stava correndo alla macchina, per gettare i quaderni alla rinfusa sui sedili posteriori, per trovare il maledetto telefonino nelle tasche – perché di nuovo non aveva il tempo per cercarlo –, per chiamarla e parlare con lei. Ovviamente non ricordava neanche dove fossero le chiavi dell’auto. Appoggiò tutto sul tettuccio, i libri caddero insieme alle penne, ma non gliene fregava nulla in quel momento. Frugò dappertutto, finché non le scovò sul fondo della tracolla, incastrate in quello strappo della fodera che sua madre avrebbe voluto riparare da tempo, ma che lui aveva sempre rifiutato, sbagliando. Adriana aveva sempre ragione, dannazione. Tirò forte, fino a quando non senti la stoffa cedere ulteriormente e fu libero di trarre le chiavi da quel disordine di fogli e block notes spiegazzati. Raccolse i libri e li gettò in macchina, già cominciando a cercare il cellulare. Grazie al cielo, era nella tasca dei pantaloni. Lesse frenetico il numero che Lisa gli aveva scritto sull’avambraccio e lo digitò veloce.
Rispondi, rispondi, rispondi.
La voce gentile di una signorina gli annunciò che il cliente chiamato non è al momento raggiungibile. Lui riattaccò e ci provò di nuovo, ma rispondeva solo la segreteria. Al decimo tentativo fallito, Matteo mollò provvisoriamente la spugna. Non avrebbe potuto reggere un’altra volta la tizia della compagnia telefonica che lo informava che Cecilia non era disponibile. Perché ora, mia cara signorina, Cecilia era disponibile; finalmente lontana da Mannino. Ma anche da ogni campo di ricezione.
- Proviamo così. Ehm… vedi papà, la verità è che quella bottiglia non è mai esistita. È sempre stata solo ed unicamente nella tua mente.
Cecilia ascoltò scettica l’ultima trovata di Rastrelli e si decise di aver sopportato anche troppo. Si era ripromessa di rimanere solo mezzora, ma i Teletubbies l’avevano convinta a restare per le due ore seguenti e ciò che avevano concluso era lo zero assoluto.
- Bene, dopo questa io me ne vado, – esclamò. – Devo passare in università e mi avete già fatto perdere troppo tempo.
Gianluca si alzò dal divano ed espresse con dovizia di particolari cosa sarebbe andato a fare in bagno, senza che i presenti peraltro fossero minimamente interessati. Cecilia lo guardò procedere con la sua andatura strascicata e si domandò se mai sarebbe cresciuto e, soprattutto, se mai avrebbe incontrato qualche ragazza votata al martirio così intrepida da prenderselo. La risposta era no: già la signora Lamberti era una santa, lui non poteva essere così fortunato da averne due nella vita.
- Aspetta, Ce’. – Carlo la bloccò sulla porta. – Ma Lisa sta bene?
Lei si girò e si chiese se per l’ennesima volta la volesse costringere a stare con loro.
- Penso di sì, perché?
Rastrelli si strinse nella spalle, facendo il vago. Ci mancava solo che ora facesse il misterioso!
- No, curiosità.
- Dimmi la verità. – Lo guardò sospettosa.
- Gianlu mi ha detto una cosa…
Cominciò a fissarsi con insistenza le punte dei piedi e a giocherellare con le dita delle mani.
- Cosa? – lo incalzò Cecilia.
- Non posso dirtela, – si affrettò ad aggiungere.
- E allora perché mi hai detto che ti ha detto una cosa, se non puoi dirmela? – Il ragazzo fece una faccia confusa. – Lascia perdere, Carlo. Cercate di non rompere nient’altro, e se lo fate, non chiamate me!
Quando finalmente mise il naso fuori da quel tugurio dall’odore di vino, Cecilia dovette attendere qualche istante, prima che i suoi occhi si abituassero alle luce del sole. Era una splendida giornata, ventosa ma tiepida. C’erano migliaia di foglie sui marciapiedi, ai lati delle strade, nei parchi. Prese l’autobus, percorse qualche chilometro e poi cambiò idea, scese e decise di raggiungere l’università a piedi, con il fedele i-pod già nelle orecchie. Solo quando mise la mano in tasca, si ricordò del cellulare e lo controllò. Un messaggio. La segreteria la informava che un numero non presente in rubrica aveva cercato di contattarla, mentre lei era nella taverna di Rastrelli. Le era capitato più volte che sua madre non avesse credito e che la chiamasse col numero del fidanzato di turno, perciò non si stupì e premette il tasto di richiamata senza pensarci.
Udì una voce maschile dopo nemmeno due squilli.
- Cecilia?
La ragazza rimase interdetta; di solito, era Marina stessa a rispondere o, molto più di rado, l’uomo con cui si intratteneva, che puntualmente dimenticava il suo nome e le parlava con tono scocciato. Stavolta, invece, il tono era dolce. E il nome giusto.
- Sì? – disse cauta.
- Sono Matteo. Maestri.
D’istinto si fermò sul marciapiede su cui stava camminando. Nella sua mente iniziarono a profilarsi diversi scenari catastrofici per cui Matteo Maestri si fosse abbassato a chiamare lei: loro erano gli unici rimasti sulla Terra – ma era piuttosto sicura di essere circondata da altra gente –, a Lisa era successo qualcosa – ma le avrebbe telefonato qualcuno come i signori Zanin, Gianluca o Carlo –, oppure stava soltanto sognando – ma le pareva di essere del tutto sveglia.
- Sì… – l’unico monosillabo in grado di non compromettere la situazione.
- Possiamo vederci? Magari… ora?
No, era ufficiale: era un sogno che potenzialmente poteva trasformarsi in un incubo, a seconda di ciò che Maestri le avrebbe detto. Melissa, doveva c’entrare qualcosa Melissa. Ecco, aveva capito: la stava prendendo in giro. Quell’arpia della Cedreo aveva ragione quando le aveva spiattellato in faccia che sarebbe uscita con lui, e ora entrambi stavano ridendo di lei.
- C-certo. Dove?
Brava Cecilia, via il dente, via il dolore.
- Io sono appena uscito dall’università. Ho parcheggiato sul Lungadige Porta Vittoria. Ci vediamo lì.
- A tra poco, allora.
Pochi minuti e sarebbe giunta a destinazione. La tentazione di prendere un giro più lungo e arrivare dopo era forte, ma non le avrebbe comunque permesso di evitare la conversazione. Un incidente stradale però… Si diede della scema e cominciò a camminare più velocemente. Chi cavolo pensava di essere quel pallone gonfiato di Matteo Maestri per prendersi gioco di lei?
Si scorsero in contemporanea; lui era appoggiato alla sua macchina, dall’altro lato della strada, giocherellava nervosamente con le chiavi dell’auto e si guardava intorno come se stesse facendo da palo ad una rapina. D’altronde, lei non aveva specificato dove si trovava e lui non poteva sapere da che direzione sarebbe arrivata.
Lei aspettò che attraversasse la strada, dopo infiniti secondi in cui nessun automobilista sembrava intenzionato a fermarsi e farlo passare, nonostante fosse sulle strisce pedonali. Cecilia gli diede le spalle, si rivolse verso l’Adige, con quell’acqua torbida che però su di lei aveva sempre avuto un effetto rassicurante.
Maestri si mise accanto a lei, senza appoggiarsi al muretto, in attesa che si girasse. Quando lei lo fece, lui si accorse che il vento le stava scompigliando i capelli, glieli faceva incastrare nelle ciglia e tra le labbra. Matteo stette in silenzio; erano stati entrambi vittime di una rete di bugie, omissioni, incomprensioni e lui l’aveva allontanata, accusata ingiustamente di un doppiogioco che non era mai esistito se non nella testa bacata di Gisella Ferris e Niccolò Mannino. E ora che ce l’aveva lì davanti non sapeva cosa dirle e come. Avrebbe voluto soltanto baciarla, ma lei aveva bisogno di spiegazioni, gliele doveva.
- Ehi, – biascicò, grattandosi la nuca.
- Ciao. – Cecilia mantenne le distanze e lui esitò. – Allora?
Non intendeva essere rude o maleducata, ma se proprio dovevano sbeffeggiarla, che almeno lo facessero in modo rapido, perché non sarebbe stato di certo indolore.
- Allora… – iniziò lui.
- Sai una cosa? – lo interruppe aggressiva. – Risparmia il fiato, lo so già.
Non poteva fingere, non voleva. Non era abituata a nascondersi dietro un dito, quello era il modo di fare di Gisella e Melissa, non il suo. Questa storia si era protratta anche troppo e lei era immensamente stufa di sottostare ai loro stupidi giochetti.
- Lo sai già?
Matteo la guardò stralunato. Era evidente che qualcuno tra Franzoni, la Ferris, la Cedreo e Lisa le avesse raccontato quanto accaduto nel corridoio poco prima.
- Sì, me l’ha detto Melissa. – Melissa? Matteo avrebbe puntato tutto su Lisa. – So che uscirete insieme.
- Cosa? No! – La ragazza rimase con la bocca socchiusa per qualche istante. Se Maestri non doveva comunicarle quello, per quale altro motivo l’aveva cercata? – Cecilia, ascolta, ho sempre saputo che eri tu la dama vestita di blu della festa di Franzoni. Non sapevo il tuo nome, credevo ti chiamassi Lisa, ma questa è un’altra storia. Il giorno dopo, Gisella mi ha detto che eri fidanzata con Niccolò e che mi avevi solo preso in giro…
Lei restò ad ascoltarlo in silenzio, finché tutta la verità non venne a galla. Non riuscì a trattenersi solo dopo l’accusa infamante di aver giocato con i suoi sentimenti.
- Ma non è vero! – si difese.
- Ora lo so, però fino ad oggi, tutto mi aveva fatto credere il contrario, – le spiegò Matteo. – il vostro passato insieme e la sera al Firefly, tra Mannino che compare a sorpresa, tu che mi segui in bagno e poi te ne vai con lui…
- È per questo che hai chiesto alla mia migliore amica di uscire? – gli chiese brusca.
C’era un pizzico di rimprovero nel modo in cui Cecilia aveva puntualizzato sul termine migliore amica, ma Matteo era preparato.
- Sì. Sono stato avventato, stupido ed infantile, ne sono consapevole. Ero arrabbiato, umiliato e volevo vendicarmi. Se ti consola, sappi che non mi ha fatto sentire meglio e l’uscita con Lisa è stata una delle cose più imbarazzanti della storia. – Sorrise e non si lasciò sfuggire quello che le labbra di Cecilia avevano solo accennato. – Hai detto qualcosa?
Lei sollevò lo sguardo e ripeté ad alta voce.
- Ho detto che te lo meritavi. Però ti capisco, forse l’avrei fatto anche io, nei tuoi panni. Magari siamo partiti col piede sbagliato.
- Da quel che ricordo, eravamo partiti benissimo, io e te, – la corresse. – Sono gli altri che ci hanno messo i bastoni tra le ruote. Sai una cosa? Aspettami qui. E chiudi gli occhi!
- Cosa? – domandò lei sorpresa.
- Chiudi gli occhi! – le disse di nuovo, aspettando che lei obbedisse. – Così, brava.
Cecilia non poteva vedere nulla, ma aveva sentito chiaramente che quell’ultima frase era venuta da vicino, molto vicino; gliel’aveva quasi soffiata sulle labbra. Salvo poi sparire.
Rimase per un paio di minuti così, cieca, immaginando le facce stupite dei passanti e fregandosene completamente. Ebbe un po’ di paura quando due braccia la presero da sotto le ascelle e la issarono sopra il muretto; stava per aprire gli occhi, ma la mano di Maestri glieli coprì e lei riuscì solo ad intravedere il suo sorriso.
- Sta’ buona, dai. – la rimproverò. – Prometto di non buttarti giù.
Lei rise e decise di fidarsi, nonostante non fosse per nulla rassicurata dal fatto che lui le stesse allentando i lacci di una scarpa da tennis, prima di toglierla. Le fece indossare qualcos’altro, duro e scomodo.
Cecilia aprì di scatto gli occhi, quando realizzò cosa fosse.
- È veramente lo stivaletto più brutto che io abbia mai visto. – commentò Matteo, ridendo.
- Concordo, sono terribili! – gli rispose, osservando ciò che la Zanin l’aveva costretta ad indossare come calzature alla festa di Franzoni. – Però me li ha regalati Lisa, non posso buttarli…
- Non ti ho mai detto di buttarli, – fece una pausa e si sforzò di non arrossire come un cretino, – spero solo che indosserai dell’altro, quando ti chiederò di uscire.
Cecilia avrebbe potuto cogliere il significato dietro quelle parole, ma dopo il trattamento scostante e a tratti sgarbato ricevuto da parte di Maestri, non aveva alcuna intenzione di facilitargli le cose.
- Quando mi chiederai di uscire, ci penserò, – si limitò a dire, spostando lo sguardo altrove.
- Te lo sto chiedendo ora.
- Cosa? – fece la finta tonta.
Matteo capì che lei non avrebbe accettato a meno di una richiesta esplicita, cosa che lui non aveva mai fatto. Era sempre stato circondato da ragazze come Melissa e Gisella, che si preoccupavano di fargli comprendere le proprie intenzioni, a costo di sembrare petulanti e insistenti. Non era nato per fare il corteggiatore, ma in caso di necessità...
- Esci con me. Per favore, – le disse.
Non era il massimo del romanticismo usare un imperativo, ma Cecilia stabilì che si sarebbe accontentata, totalmente conquistata da quel dolcissimo per favore imbarazzato appena sussurrato.
Si alzò in piedi, gli afferrò due lembi della felpa e li tirò verso di sé. Matteo si lasciò trascinare contro il corpo di Cecilia e non aspettò neanche un secondo in più per appoggiare la bocca sulla sua, dopo settimane passate a provare a ricordarla, poi a maledirla, a dimenticarla. Strinse la ragazza a sé, mentre le dischiudeva gentilmente le labbra, mordicchiandole perché lei concedesse libero accesso alla sua lingua. Cecilia non si fece pregare, felice come non era da troppo tempo. Annullarono il mondo attorno a loro per brevissimi istanti o lunghi minuti, nessuno dei due se ne stava davvero preoccupando.
Si staccarono soltanto quando un gridolino di Cecilia la fece sussultare. Matteo, infatti, le aveva sollevato giacca e maglione sulla schiena, per poi spingerla contro il muretto. La pietra era troppo fredda per non far sobbalzare il corpo accaldato di lei.
Risero entrambi, imbarazzati e divertiti.
- Devo proprio passare in facoltà, – si ricordò lei, poggiando la fronte sul mento di Maestri.
- Mmm… – brontolò lui. – Io ho allenamento, – controllò l’orologio, – cinque minuti fa.
Barcellandi l’avrebbe ammazzato. Pazienza.
- Dobbiamo andare, – gli sussurrò lei.
- Lo so. Ma, a proposito di calcio, avrei una richiesta da farti, visto e considerato che reputo il tuo assalto nei miei confronti un sì…
- Reputi bene, Maestri. – gli disse, sistemandogli la giacca. – Spara.
Non era mai stata al centro sportivo. All’apparenza sembrava il tipico luogo maschile: non troppo pulito, disordinato, pieno di testosterone. Matteo poteva averla convinta ad andare a vederlo giocare una partita, ma non sarebbe riuscito a farle mettere piede nello spogliatoio.
Le tribune erano abbastanza piene di genitori esaltati, qualche sporadica fidanzata annoiata attaccata al cellulare e amici pronti a prendere a male parole gli avversari anche gratuitamente. Cecilia si sedette in un angolo da sola, con un sorriso idiota stampato in faccia; il calcio non le dispiaceva, il tempo era clemente e, nonostante avesse trovato la proposta un po’ bizzarra per essere un primo appuntamento, in fondo non le importava più di tanto. Anzi, perlomeno era un’idea originale. E avere un pretesto per fissare un’ora e mezza Matteo era pura genialità.
Purtroppo, le luci del campo facevano pena e Cecilia non era sempre in grado di individuarlo, soprattutto quando erano tutti ammassati dietro al pallone, ma nulla le avrebbe rovinato la serata, nemmeno lo scadente impianto d’illuminazione.
Alla fine del primo tempo, la squadra di casa era sotto di due gol, però Maestri non sembrava particolarmente dispiaciuto. Al contrario, continuava a sbirciare verso un angolino della tribuna e a sorridere, benché il mister Barcellandi lo avesse invitato più volte – e con assai poca gentilezza – a guardare la stramaledetta porta.
- Maestri, che cazzo stai fissando, le farfalle?
Lui ci provava a concentrarsi su quei tre pali e la rete, ma il pensiero che ci fossero due occhi azzurri – quegli occhi azzurri – sugli spalti era sufficiente per distrarlo.
Durante l’intervallo, puntuale come un orologio svizzero, arrivò la strigliata di entrambi i coach. Amato fu più pacato, invitò tutti a tirare fuori l’orgoglio e a cercare di combinare qualcosa di positivo, un passo alla volta. Barcellandi li prese ad uno ad uno e quasi li appese al muro, nel tentativo di spronarli, pena un giro della vergogna nudi per il campo. Nessuno sapeva con certezza se avrebbe mai avuto il coraggio di farlo davvero, oltre che prometterlo, ma non vi era anima viva che ci tenesse a sfidare la sorte.
C’era anche Niccolò Mannino, seduto sulla panca, in disparte. Si era lamentato di avvertire ancora molto dolore, dopo il colpo subito in allenamento la settimana precedente. Naturalmente era una scusa per non dover alzare il fondoschiena, ancor più dal momento che stavano perdendo. Questo gli avrebbe dato l’occasione di poter dire che la squadra senza di lui non valeva nulla. Se ne sarebbe andato volentieri a casa, ma Amato lo teneva sott’occhio affinché imparasse i meccanismi della nuova squadra. Inutile dire che lui avrebbe preferito oliare i meccanismi della vecchia e cara Orpella.
Nella ripresa, le cose migliorarono lievemente: Matteo cercò d’impegnarsi di più e così fecero anche gli altri – le minacce di Barcellandi davano sempre i loro frutti – e in breve riuscirono a recuperare lo svantaggio. La partita finì con un pareggio.
Maestri entrò nello spogliatoio prima dei compagni. Aveva bisogno di una doccia subito, non aveva tempo per gli aggiornamenti settimanali delle misurazioni genitali.
Si lavò, vestì e pettinò come meglio poté e in fretta, ma non abbastanza da precedere Niccolò Mannino e il suo radar. Clara Orpella poteva tranquillamente aspettare, se c’era la possibilità di ritornare tra le gambe di Cecilia Molinari.
- Oh, pesciolino, che sorpresa! – le disse, avvicinandosi.
Lei alzò lo sguardo annoiata. Stava cominciando a detestare quel nomignolo, oltre colui che continuava a ricordarglielo.
- Ciao, Niccolò, – rispose per mera cortesia.
Ma lui aveva tutto un suo modo d’interpretare le cose: Cecilia stava palesemente facendo la preziosa e lei sapeva quanto tutto questo lo facesse andare su di giri.
- Mi stavi aspettando? Vuoi un altro passaggio?
Si fece ancora più avanti e si abbassò versò di lei, leccandosi le labbra, ma la biondina ci mise pochi secondi per sgusciargli via e alzarsi in piedi.
- Veramente stavo aspettando… – si sporse oltre la figura di Niccolò e incrociò lo sguardo di Matteo che stava arrivando sorridente, borsa in spalla, – lui.
- Maestri, – sbuffò l’altro. – Ma certo.
- Sai, Mannino, – aggiunse Matteo, – le bugie hanno le gambe corte. E quasi rotte. Mettiti di nuovo in mezzo tra me e lei e vedrò di far sparire il quasi.
Non aveva utilizzato un tono di voce molto minaccioso, anche perché quello non era il suo scopo: voleva che semplicemente lui lo vedesse insieme a Cecilia e che capisse che non sarebbe stato così fortunato da riuscire a separarli un’altra volta.
- Rilassati, Maestri, – ridacchiò Niccolò. – Me la sarei scopata una volta e te l’avrei restituita subito dopo. Non sono fatto per le cose serie.
Si premurò di fissare gli occhi di Cecilia mentre pronunciava quelle parole. Stava deliberatamente cercando di ferirla, di riportare a galla vecchie ferite del cuore e dell’orgoglio che sapeva lei aveva ancora difficoltà a digerire. Ma, al contrario, la ragazza sorrise: non poteva modificare il passato, non poteva tornare indietro e cambiare le cose; si era innamorata di lui, era stata con lui, era stata tradita da lui. Non esistevano formule magiche per cancellare quanto successo, e, a onore del vero, lei non le avrebbe nemmeno volute. Mannino era stato un errore necessario, per crescere, per capire cosa non desiderare in un ragazzo. Rappresentava l’uomo perfettamente sbagliato che ogni donna ha avuto almeno una volta nella vita, grazie al quale comprendi ciò di cui hai bisogno e ciò di cui puoi fare tranquillamente a meno. Cecilia ora sapeva di poter tranquillamente fare a meno di lui e vivere serena.
- E, invece, io vorrei che qualcosa di serio di noi ti rimanesse…
Cecilia fece un passo in avanti, gli appoggiò le mani sulle spalle, così come aveva fatto dopo il Firefly, e avvicinò la testa alla sua. Per un attimo, Matteo vacillò, confuso dall’espressione eccitata e di sfida di Mannino, ma quando udì il rumore secco del ginocchio della biondina che urtava l’inguine del ragazzo, non riuscì a trattenere una risata. Soprattutto per la smorfia di dolore sulla faccia dell’idiota.
- Ahia! Cazzo… porca… ah! – Niccolò si resse ad un albero, blaterando frasi senza senso, mentre Cecilia gli sussurrava in un orecchio.
– Un danno permanente, ad esempio. Salutami Clara.
Lo lasciò lì, ad inveire sottovoce contro di lei, e raggiunse Matteo, che la osservava sbalordito, ma compiaciuto. Le circondò le spalle con un braccio, attirandola a sé.
- Sei piccola, ma picchi forte! – le disse, prima di posarle un bacio sui capelli. – Pensavo fossi il classico tipo che aspetta che il karma faccia il suo corso…
- Beh, qualche volta il karma ha bisogno di una mano. – O di una ginocchiata. – Tu, piuttosto, immagino sia un caso che il nostro appuntamento sia cominciato proprio davanti a Niccolò.
- Un caso, esatto, – si finse serio.
- Hai molte cose da spiegare, mio caro, – lo redarguì.
- Taci, Molinari, ti conviene. Mi devi ancora chiarire chi cavolo sia questo sfigato di Storia greca.
Quella settimana scorse rapidissima. Cecilia aveva programmato di cominciare ad informarsi per la scelta della laurea specialistica, ma l’unica cosa in cui si applicò tenacemente in quei sette giorni fu trovare il modo di saltare quante più lezioni possibili per trascorrere del tempo nel giardino o nel chiostro dell’università o semplicemente a ronzo per Verona. In compagnia di Matteo, s’intende. Ma anche quando si riprometteva di frequentare un corso, la sua testa era altrove. Persino Gianluca se ne era accorto e cominciava a lamentare una certa insofferenza a tanta felicità. Il suo problema, in realtà, era l’assenza di Carlo, in settimana bianca con la famiglia; quella, infatti, era stata l’idea finale che i Teletubbies avevano avuto per guadagnare altro tempo prezioso e sostituire la defunta bottiglia di Bolgheri Sassicaia: allontanare il signor Rastrelli. Carlo odiava la montagna, ma si era dovuto sacrificare per la causa. Ad ogni modo, quel giovedì sera sarebbe finalmente tornato. Gli altri lo stavano aspettando da quasi mezzora, seduti in un piccolo bar del centro.
Avevano chiesto al cameriere di ripassare più tardi già tre volte per attendere lui e Lisa ormai aveva un diavolo per capello: stava morendo di sete e quel cretino sembrava non arrivare più. Si chiedeva davvero perché dovessero sempre portarselo appresso… un barboncino sarebbe stato più bello da vedere e meno rompiscatole. La Zanin continuò a battere il piede sul pavimento, sbuffando, ma nessuno sembrava abbastanza attento per darle corda; Matteo e Cecilia si stavano lanciando sguardi diabetici dalle due estremità del tavolo e Lamberti si stava facendo una sigaretta con cartine e tabacco. Ebbe tutto il tempo di fumarla in tranquillità, di Carlo nemmeno l’ombra. Fu soltanto quando avvertirono il rumore di una Vespa scassata che stava risalendo il vialetto che capirono che Lisa poteva smettere di martellare i sanpietrini con la scarpa.
Rastrelli scese quasi al volo dal motorino e lasciò che cadesse, battezzando anche il lato buono, quello sul quale non aveva ammaccature da cancello e dissuasori stradali. Di sicuro una bella strisciata sul cemento avrebbe dato quel quid alla carrozzeria.
Cecilia e gli altri lo guardarono sbalorditi correre verso di loro, sganciarsi di tutta lena il casco e quasi lanciarlo nello stomaco a Matteo.
- Ma che cavolo…? – Lisa era già in prima linea per rimbrottarlo.
- Stai zitta, parlo io, – le urlò, stupendo tutti. – Sono pronto a prendermi le mie responsabilità. Non ti lascerò crescere il bambino da sola. Io ti ho messo in questo casino, io ti aiuterò.
Nessuno fiatò per i primi cinque secondi, poi ci fu solo un gigantesco marasma.
- Tu l’hai fatto con Carlo? Quando, dove, perché?
- Ecco chi era allora!
- Tu? Tu? TU? No. No. NO.
- Ditemi che lo chiamerete Gianluca!
- Silenzio!
Fu Rastrelli ad urlare disperato per cominciare a riordinare le idee, oltre il terzo grado di Cecilia, le scoperte di Matteo, i monosillabi di Lisa e le richieste idiote di Lamberti. Lui stava per diventare papà, e che cavolo! Lui, papà. In un primo momento aveva pensato di dirlo a suo padre, di chiedergli di visitare la Zanin, di aggiustare lei e la sua… capito, no?
- Come hai osato toccarmi con le tue manacce? – gli si scagliò contro proprio Lisa.
- Fermati! – le bloccò il polso. – Non arrabbiarti, pensa al bambino!
Carlo riuscì solo nell’intento di farla infuriare ulteriormente.
- Ma che bambino e bambino? Non sono incinta, imbecille! Avevo solo un prurito intimo!
Cecilia sbarrò gli occhi, quando per la prima volta nella sua vita vide Lisa Zanin in autentico imbarazzo. Era rossa come un peperone. Eh sì, la scoperta di essere stata a letto con niente meno della sua decerebrata nemesi, doveva fare davvero male all’orgoglio.
- Ma il vomito… Gianluca mi ha detto… – cercò di spiegare Rastrelli.
- Ehi, fratello, – lo interruppe Lamberti, che sembrava in uno stato catalettico peggiore del solito. Forse non era solo una sigaretta quella di poco prima… – calmati. Avrò toppato, che ti devo dire?
- Era solo cibo cinese avariato, – gli spiegò Cecilia bonaria.
- Quindi non diventerò papà?
Rastrelli non era mai stato particolarmente sveglio, perciò nessuno si stupì che avesse bisogno di rassicurazioni in merito all’improvvisa interruzione di gravidanza mentale.
- No, Carlo, – gli rispose Matteo.
- Allora offro da bere a tutti!
Il cameriere si affacciò da dentro il locale, attirato dalle voci concitate dei ragazzi. Mostrò loro una busta di cartone dalla quale spuntava un enorme fiocco dorato con delle stelline glitterate.
- A dire il vero, è appena passata una signora cicciottella con un medaglione strano e ha lasciato questo per voi.
Cecilia prese in mano il dono misterioso e lo sfilò dalla borsa. Strappò la carta regalo e scoprì una cassetta di legno. All’interno, vi era adagiata una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997.
Maestri – che era stato messo al corrente del fattaccio da Gianluca, alla ricerca di menti fresche per risolvere il problema – diede una pacca sulla spalla a Carlo.
- Sembra che sia la tua giornata fortunata, Rastrelli: non diventerai padre e non dovrai vendere un rene per ricomprare il vino.
Il mancato papà era troppo contento delle buone novelle, – chiaro segnale dell’esistenza di un nuovo dio di sua invenzione che aveva a lungo pregato –, per pensare di formulare la domanda più intelligente in quei casi.
- Ma chi l’ha mandata? – domandò al posto suo Lisa.
Cecilia trovò la risposta in un biglietto da visita nascosto sotto la bottiglia.
"Sale in zucca"
della Fata Turchina
Vicolo della Polvere della tua scrivania, lato sud-est
Quando avrai bisogno, verrò.
Fatima.
Cecilia guardò Matteo ridere con Lamberti, Lisa lanciare maledizioni a Carlo e sorrise: era tremendamente fortunata. Poteva avere dei genitori immaturi, una futura matrigna odiosa, due arpie e un ex fidanzato pronti a complicarle l’esistenza, ma aveva anche un pesce rosso saggio e muto, tre amici insostituibili, un angelo custode con uno strano medaglione e un Superman biondo strizzato in una tutina aderente.
La sua vita le piaceva da morire.
La perfezione meglio lasciarla alle fiabe.
Carrellata di note: Legolas è ovviamente un personaggio de “Il Signore degli Anelli”. Il Bolgheri Sassicaia è un vino esistente, scelto del tutto a caso tra i più pregiati d’Italia. “Scemo e Più scemo” è un film del 1994 con Jim Carrey e Jeff Daniels. Le amiche della madre di Matteo NON sono assolutamente inventate e le potete trovare, secondo il grado di pericolosità qui: _Caline, SYLPHIDE88,IoNarrante, nes_sie. L’aneddoto sul re Gustavo III di Svezia è vero e indovinate dove l’ho trovato? La “dichiarazione” di Franzoni a Melissa è, come scritto, una citazione del film “Orgoglio e pregiudizio” del 2005 con Keira Knightley e Matthew MacFadyen. Flora, Fauna e Serenella (Serena) sono le tre fate madrine de “La bella addormentata nel bosco”.
Detto questo, vi ringrazio di avermi accompagnato fino alla fine di questo strano esperimento, che credo rimarrà unico perché non ho in programma – per il momento – di scrivere altre storie del genere. Però sto già lavorando su parecchie cose, ma presto comincerà la sessione, ergo al massimo pubblicherò one-shot originali o fanfiction.
Bene, grazie delle recensioni (a cui ho già risposto), grazie a Nessie di aver betato e a Laura del bellissimo banner (che vedrete prossimamente) :)
Baci!
S.
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