Le avventure di Mycroft Holmes e Miss Josephine Watson

di hikarufly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno a Londra ***
Capitolo 2: *** L'Istituto Beata Bartolomea ***



Capitolo 1
*** Ritorno a Londra ***


Chiuse la valigia con un piccolo sospiro e il rumore secco della chiusura ermetica del suo bagaglio. Era abituata a viaggiare leggera, almeno in abiti e oggetti. Nel cuore, questa volta, portava un peso ancora maggiore del solito.

Scese le scale, sorprendentemente leggiadra nel suo abito accollato, chiuso e rigido. Nell'ingresso, due ragazzini la osservavano come se stessero aspettando la bara di un qualche parente che stava per essere portato al cimitero. La donna si avvicinò a loro, diede un lieve bacio sulla fronte ad entrambi e se ne andò senza una parola, superando la servitù e il suo sostituto, che a una rapida occhiata sembrava burbero, noioso e grigio. Tutto quello che lei stessa sembrava, questo è vero, a una prima occhiata al suo abbigliamento, al suo portamento: era nei suoi occhi che c'era qualcosa di diverso. Josephine era stata una governante per moltissimi anni, anche se era ancora una donna piuttosto giovane: quarantun anni potevano sembrare tanti, a quell'epoca, ma lei si sentiva ancora in forze, almeno fisicamente. Negli ultimi ventiquattro anni aveva fatto molte esperienze: tre famiglie presso cui aveva cresciuto e accudito otto bambini, di diverse età e sesso, nonché i suoi tre inverni da infermiera nelle Indie orientali. Eppure, il suo aspetto non era logorato o sfiorito: era una donna che dimostrava i suoi anni, ma in maturità e non in fatiche. I suoi capelli più castani che ramati, ricordo di una qualche antica discendenza scozzese, erano appena striati di grigio, e nella pettinatura stretta in cui erano legati era impossibile notarlo. Gli occhi erano vispi e attenti, di un marrone quasi nocciola, e si posarono sull'austera casa che aveva occupato negli ultimi sette anni con un pizzico di nostalgia. Aveva amato molto quei due ragazzini, figli di un padre severo e una madre morta troppo giovane. Pensò a loro per molto del suo viaggio verso Londra: a che pro farsi spezzare il cuore ogni volta che doveva ricordare a se stessa che non erano figli suoi, ma di qualcun altro? Aveva deciso di prendersi del tempo: aveva qualche risparmio e poteva sempre dare lezioni privatamente, qualche ora al giorno, qualche volta a settimana. Tanto per non affezionarsi troppo ai suoi allievi... sì, come se fosse possibile, per una come lei.

Il cocchiere la lasciò presso una piccola locanda, The Fox and The Hound. Decisa a distrarsi, per un pomeriggio, infilò i suoi guanti più austeri ed eleganti e si diresse verso Hyde park. Stava passeggiando, un po' mesta, quando sentì qualcuno chiamarla.

«Miss Watson!»

Josephine si voltò, la fronte aggrottata, non riconoscendo precisamente chi era la donna paffutella, di poco più giovane di lei, che la chiamava a gran voce.

«Sono Minnie... Minnie Stamford!» si presentò questa, quando la raggiunse, con il fiato corto per la corsa.

«Minnie! Certo, mi ricordo...» replicò Josephine, ricordando la giovane.

«Sì, lo so, sono un po' ingrassata» si giustificò l'altra, mentre Josephine le faceva cenno di non farlo.

Passeggiarono per un poco insieme, discutendo dei vecchi tempi alla loro scuola. Era un istituto piuttosto grande, dotato di buone apparecchiature, in cui giovani signorine di medio-buona società potevano trovare una istruzione più che eccellente, sia nel campo delle lettere, per l'insegnamento, sia in quello medico, per una professione di infermiera o levatrice.

«Così sei tornata a Londra» disse Minnie «in cerca di un'altra famiglia con bambini da accudire? O un medico, magari, da assistere? Eri brava in entrambi i campi»

Josephine scosse la testa.

«No, non ora. Dopo così tanti anni presso i Darlington, preferirei prendermi un po' di tempo, capire cosa voglio fare...» spiegò, ricevendo l'occhiata tipica di chi sa di cosa si sta parlando, anche senza dettagli. In fondo, Minnie era una governante quanto lei.

«Dove stai ora quindi? Da tuo fratello?» domandò ancora Minnie.

«Oh, no» replicò immediatamente Josephine. Suo fratello Harry aveva la orribile abitudine a bere e parlare troppo, soprattutto se le due cose venivano fatte insieme «Per il momento alloggio al Fox and Hound, ma dovrei trovarmi una sistemazione, possibilmente senza spendere troppo e con un poco di spazio per delle lezioni private»

Lo sguardo di Minnie si accese immediatamente. Nonostante molti anni fossero passati da quando erano due ragazzine in uniforme, e non fossero state amiche particolarmente strette, Josephine ricordava cosa stava a significare. Lasciò che fosse lei a parlare, comunque, di propria iniziativa.

«Sai, credo di doverti presentare una persona»

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Capitolo 2
*** L'Istituto Beata Bartolomea ***


Minnie Stamford e Josephine Watson entrarono all'Istituto Beata Bartolomea, la cui unica pecca, forse, era l'essere un'istituzione cattolica e non protestante. Minnie condusse la vecchia amica verso l'ala dedicata alla medicina, e precisamente nella grande infermeria. Era deserta, se non per qualche bambina con la tosse e un uomo in camice, che osservava gli occhi e la gola di una di esse, con solerzia e un poco di amorevolezza. Josephine si guardò intorno, constatando che se non era cambiata l'architettura stile neogotico della stanza, di sicuro le attrezzature e il resto erano decisamente più moderni.

«È davvero troppo tempo che manco» sussurrò all'amica, ma la sua voce fu abbastanza forte da attirare l'attenzione dell'unico uomo della stanza.

Il suo camice era immacolato, se non fosse stato per qualche macchia di sostanze chimiche e bruciatura, decisamente recente, e sotto di esso aveva un completo elegante ma semplice. Era piuttosto alto, e anche paffuto, il che gli dava un'aria gioviale, proprio come Minnie, anche se al contrario di quest'ultima emanava un certo senso di autorità e rispetto. Era dotato di grandi occhi azzurri, molto gentili, capelli corti e brizzolati e una lieve barba ben curata. Era il ritratto di ciò che un gentiluomo dovrebbe essere, anche quando, senza congedarsi dalla piccola inferma che stava visitando, si rivolse alle due signore.

«Indie orientali oppure occidentali?» domandò, con voce profonda quanto basta, e ben modulata, senza staccare gli occhi dalla bambina. Josephine osservò Minnie, che le lanciò un'occhiata divertita.

«Credo, Miss Hannah, che starete molto meglio e molto presto, perciò la prossima volta che ci vedremo mi farete vedere quanto brava siete diventata a fare la riverenza» disse poi l'uomo alla bambina, che annuì con un sorriso raggiante, ricambiato dal suo “medico”.

L'uomo si alzò e raggiunse le due signorine, con un inchino di cortesia, e riprendendo a utilizzare della strumentazione poco lontana da loro.

«Posso chiedervi carta e penna, Miss Stamford? Temo di aver lasciato il mio taccuino nel cappotto» domandò, di nuovo senza guardarla ma con un tono tanto cortese da non necessitarne.

«Oh, temo di non averne con me, mi dispiace!» esclamò Minnie, come se avesse appena scoperto di aver perso l'occasione della sua vita.

«Prego» si intromise Josephine, cercando nella propria ampia borsetta ed estraendone un taccuino, da cui prese alcuni fogli non rilegati e una penna «tenete»

L'uomo alzò gli occhi dal suo lavoro, con un'espressione incuriosita e sorpresa, prendendo ciò che lei gli offriva con un sorriso cortese.

«Grazie, Miss. Dunque non volete rispondere alla mia domanda, ma sembrate generosa abbastanza per sorvolare questa mancanza» affermò poi lui, iniziando a trascrivere quelli che sembravano dei dati sui fogli. Josephine si sentì piuttosto in fallo, e non sapeva neppure perché.

«La vostra domanda?» chiese, ricordando poi quelle strane parole da lui pronunciate prima di finire di parlare con la piccola Hannah.

«Sì. È evidente che siete stata un'infermiera, oltre che una governante, e dato che è più che ovvio che siete stata al fronte, mi chiedevo se fosse successo nelle Indie orientali o in America» spiegò, apparentemente senza sforzo nel conciliare la sua scrittura matematica e il suo discorso. Josephine non seppe bene cosa replicare, e si limitò a osservare l'espressione maliziosa e divertita di Minnie.

«Ditemi, avete problemi con il violino?» continuò lui, come se la sua curiosità fosse stata effettivamente soddisfatta, prima, e stessero chiacchierando amabilmente.

«Scusate?» chiese ancora Josephine, sicura che stesse parlando con lei, ma con la necessità di domandargli se era così.

«Quando ho bisogno di pensare, trovo che suonare il violino sia il miglior modo per concentrarmi. Mi piace cucinare, raramente brucio qualcosa e molti dei miei esperimenti di quel genere sono piuttosto gustosi. Mi considero cortese, anche se a volte tendo a perdermi nelle mie elucubrazioni mentali e finisco per ignorare le persone. Per il resto, a parte qualche eccezione, sono un uomo piuttosto silenzioso» spiegò, tranquillamente, continuando a scrivere simboli e formule su carta.

«Perdonatemi, non capisco perché stiate dicendo questo» lo apostrofò Josephine, una punta di impazienza nella voce. Era stata troppo abituata ai libri, forse, e non più a uomini farneticanti? Ne aveva quasi cresciuti due, negli ultimi anni, in fondo.

«Stavo giusto parlando a Miss Stamford, questa mattina, della stanza al piano di sopra, nel palazzo in cui mi sono appena trasferito e di come Mrs Patmore, la mia padrona di casa, sia così dispiaciuta di non avere in inquilino in più. Inoltre, il piano su cui si trovano il salotto e gli altri spazi sono decisamente troppo grandi per le mie abitudini frugali, e che non darei fastidio a una mosca. Perciò, mi viene da pensare che il suo presentarsi così, d'improvviso e senza motivi particolari, con una vecchia compagna di studi, senza impiego e reduce da tante esperienze, sia un modo per invitarvi a esplorare questa stanza sfitta. Perciò mi sembrava doveroso farvi sapere pregi e difetti di un potenziale coinquilino, Miss...?» concluse, restando in sospeso, in attesa che questa misteriosa “compagna di studi”, “senza impiego” e “reduce da tante esperienze” gli rivelasse l'unico dettaglio che non aveva potuto dedurre da solo.

«Watson. Josephine Watson» disse Minnie Stamford, precedendola, convinta che l'amica non avrebbe spiccicato parola.

«Bene, Miss Watson» esclamò dunque l'uomo, concludendo la sua scrittura con un punto e restituendole la penna e i fogli avanzati «vi aspetto domani, per vedere la stanza. Perdonatemi, ma devo scappare. Devo far avere questo» ed indicò i fogli che aveva riempito «ad un collega, forse ho trovato il modo per risolvere una brutta faccenda... potrei chiamare questo il metodo Hannah» aggiunse, facendo un piccolo occhiolino alla bambina, che si coprì la bocca per evitare di mostrare qualche dentino mancante.

«Ma... signore!» ribatté infine Josephine, rincorrendolo verso la porta ma fermandosi quasi subito, perché anche lui si arrestò. Dopo qualche istante in cui recuperò i fili dei suoi pensieri, riprese a parlare.

«Non so come abbiate fatto a capire tante cose su di me, non so dove sia questo luogo in cui dite esserci una camera libera, non so neppure il vostro nome!» disse Josephine, sconcertata, senza pensare poi alla sconvenienza di un uomo, sposato o meno che fosse, che proponga a una signorina di condividere un appartamento. L'uomo si portò una mano al mento, chiusa, aggrottando la fronte come in un momento di forte concentrazione, per poi indicarla.

«Indie orientali. Sicuramente» disse, per poi fare altri pochi passi, raggiungendo la porta.

«Il modo in cui l'ho capito, forse, ve lo spiegherò. Il luogo è il 221B di Baker Street, e il mio nome è Mycroft Holmes. Spero sarete tanto cortese da non disattendere il vostro impegno di domani. Signorine...» le salutò poi, facendo un cenno come a togliersi il cappello che aveva lasciato qualche piano sotto, sia alle due donne che alle bambine nei lettini, che lo salutarono con un sonoro e corale “Arrivederci, Mr Holmes!”.

«Straordinario, no?» disse poi Minnie, quando lui fu uscito, con un sospiro tale che Josephine seppe di poter scommettere tutti i soldi che possedeva che la sua vecchia amica aveva una cotta per quell'uomo.

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