Sfumature

di aliasNLH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Soho ***
Capitolo 2: *** Zoho ***
Capitolo 3: *** Mappo ***



Capitolo 1
*** Soho ***




-Sfumature-
 
 
 
 
 
Perché a volte basta solo chiedere per ottenere
(un aiuto, un sorriso, una carezza).
***
 
    “L'amigdala, o corpo amigdaloideo, è una parte del cervello che gestisce le emozioni ed in particolar modo la paura”.
    Il ragazzo seduto in biblioteca, circondato da decine di volumi, enciclopedie e quaderni di appunti ricoperti da una fitta scrittura imputabile al giovane stesso, mormorava a voce bassa la definizione, facendo scorrere velocemente gli occhi sulla pagina. Quella di studiare alla biblioteca pubblica era diventata un’abitudine sin da quando le vacanze estive erano iniziate, perché difficilmente sarebbe stato disturbato da studenti desiderosi di passare la mattinata a fare i compiti.
    Voltando pagina si portò distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio, a confondersi con i già numerosi ciuffi castano scuro trattenuti da una molletta trovata per caso in borsa, evidentemente appartenente alla sorella considerata l’improbabile sfumatura rosa acceso. Ma andava bene lo stesso se l’alternativa era passare le ore, altrimenti di studio, a litigare con i propri capelli, il caldo e il sudore, irritandosi più di quanto non fosse già.
    “A livello anatomico scientifico viene definita anche come un gruppo di strutture interconnesse, di sostanza grigia facente parte del sistema limbico, posto sopra il tronco cerebrale, nella regione rostromediale del lobo temporale, al di sotto del giro uncinato (uncus) e anteriormente alla formazione dell'ippocampo” si stropicciò gli occhi stancamente, trovando difficile concentrarsi sulla definizione che avrebbe dovuto imparare a memoria, che rileggeva ininterrottamente da venti minuti, per cui non provava il minimo interesse Ha una struttura ovoidale (in latino amygdala significa mandorla) situata nel punto più basso della parete superiore del corno inferiore di ogni ventricolo laterale. È in continuità con il putamen, dietro alla coda del nucleo caudato”.
    A volte si sentiva di studiare solo per non sentirsi un perdente, sebbene non ne avesse un reale motivo. Era stato uno studente modello per tutto il periodo delle medie e del liceo, diplomato con ottimi voti e ora abbastanza ben avviato al terzo anno della Facoltà di Medicina. Quasi nessun problema con la giustizia, se si sorvolava sul fermo per ubriachezza a quindici anni fuori da una discoteca, ora astemio, in salute e con la testa relativamente a posto. Annoiato. Come un puntolino poco più scuro in un’intera valle di grigio opaco, spento nella fioca luce della sera, aveva letto una volta, trovando questo paragone incomprensibile e incredibilmente calzante insieme.
    “Si ritiene che l'amigdala sia coinvolta nel sistemi di comparazione degli stimoli ricevuti con le esperienze passate, nell'elaborazione delle esperienze olfattive e nel comportamento sessuale. Oltretutto rappresenta un centro di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni, ed è coinvolta anche nei sistemi della memoria emozionale”.
    Se, una volta tornato a casa, avesse trovato Anna ancora davanti alla televisione e le tazze della colazione nel lavello, con tanto di sciacquatura di piatti stagnante dall’odore disgustoso, le avrebbe gridato dietro – continuò a divagare prestando sempre meno attenzione al testo.
    Sua sorella, che teoricamente sarebbe dovuta rimanere in casa per fare i compiti, passava la mattina a dormire e vedere sit-com smielate, facendo rumore e commentando senza tregua tanto da averlo costretto ad andare a studiare altrove. Con tutta sincerità, raramente aveva incontrato persone irritanti quanto lei.
    Fortunatamente per lui, il giorno successivo si era organizzata con delle amiche e sarebbe rimasta tutta la mattina ad un Acquapark.
    “È ritenuta il centro di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni, coinvolta anche nei sistemi della memoria emozionale” riprese forzandosi di continuare nonostante la frustrazione crescente “Mentre l’ippocampo "rimembra" i fatti, l’amigdala ne giudica la valenza emozionale. L'amigdala quindi fornisce a ogni stimolo il livello giusto di attenzione, lo arricchisce di emozioni e, infine, ne avvia l'immagazzinamento sotto forma di ricordo”.
    Il suo desiderio, al momento, era quello di finire il capitolo di neuroscienza, tornare a casa, accendere il ventilatore e non pensare più a niente. Starsene in pace senza alcuna seccatura almeno fino al giorno successivo, quando avrebbe sentito la voce stridula della madre chiamarlo per costringerlo ad alzarsi e aiutarla a sistemare la casa prima che andasse al lavoro.
    Insofferente, poggiò pesantemente la testa su una mano e cercò di reprimere il crescente desiderio di staccare il cartello “Vietato fumare” dalla parete e accendersi una sigaretta. Cosa che avrebbe fatto se una delle bibliotecarie – quella che lo squadrava sospettosa tutti i giorni – non avesse notato il pacchetto di Marlboro spuntare da una delle tasche del suo zaino e sbucasse dalle scale per controllarlo.
    “L’amigdala è dunque l'archivio della nostra memoria emozionale, per ciò analizza l’esperienza corrente, con quanto già accaduto nel passato” concluse la pagina con uno sbuffo, cerchiando l’ultima definizione con un evidenziatore e allargando lo sguardo sugli appunti presi a lezione, confrontando i due testi. Si sentiva la testa bollire e la pazienza venire meno.
    Non ne poteva più. Tutta la sua vita sembrava reggersi sulla noia e le scocciature che puntualmente apparivano a rovinargli la giornata. Sua madre che aveva sempre qualcosa da dire e le sue ansie pressanti, sua sorella su cui avrebbe volentieri sorvolato, un padre più assente che altro, sempre in giro per lavoro; degli amici che sentiva e poi per una settimana si dimenticava della loro esistenza. Gli esami che si avvicinavano e un caldo insopportabile che non aiutavano certo a metterlo di buon umore. Il tutto condito con una bibliotecaria petulante e il ronzio inutile del condizionatore, difettoso da anni, che invece di rinfrescare l’ambiente sembrava scaldarlo ulteriormente.
    Sospirò pesantemente per l’ennesima volta – troppe per essere contate – chiedendosi se non fosse il caso di uscire a fumarsi qualcosa prima di rivedere il capitolo che era riuscito finalmente a concludere.
    «Ehi» lo chiamò una voce femminile, esitante, distraendolo dalla lettura «mi senti?»
    «Scusa?» chiese di rimando, cercando di non far trasparire il fastidio scatenato dall’essere stato disturbato, alzando lo sguardo dal volume di anatomia. Dall’altra parte del tavolo cui era seduto, c’era una ragazza.
    Aggrottando le sopracciglia ne studiò il viso ovale e i larghi occhi grigio chiaro – simili ai suoi, si trovò a pensare durante l’intero esame della figura di lei – seminascosti dai lisci capelli biondi, tagliati regolari alle spalle, e dalla frangia che le copriva le sopracciglia. Non sembrava essere molto alta e indossava un leggero vestito bianco dai bordi neri, che le arrivava fino alle ginocchia.
    Tornando al viso – senza averla riconosciuta come una delle persone viste in biblioteca durante il periodo in cui era stato lì – vide le sue labbra stirarsi in un leve sorriso che lo mise inspiegabilmente a disagio.
    «È la seconda volta che ti chiamo, la prima eri troppo concentrato» lo informò facendo un passo indietro e fissandolo dritto negli occhi, probabilmente a disagio per l’esame a cui la stava sottoponendo, oppure semplicemente perché il riflesso degli occhiali di lui non le permetteva di vederlo chiaramente in viso «stavo quasi per farla finita».
    «Che?» arricciò il naso di rimando, lasciando cadere le spalle e mostrando più fastidio di prima. Cosa diavolo voleva da lui?
    «È che ti ho visto ancora qui» spiegò lei inclinando il capo «di solito vai via prima  di pranzo e per mezzogiorno il piano è vuoto» fece un pausa «non mi aspettavo di trovarci ancora qualcuno».
    Lui la guardò confuso, come non avesse capito quello che gli era stato detto. Confuso e sempre più irritato da quella presenza imprevista.
    «Generalmente arrivi per le otto e mezza, le nove quando ti presenti con la faccia arrabbiata» riprese a parlare lei, ripercorrendo un filo mentale che il ragazzo ignorava di aver creato un giorno dopo l’altro «ti siedi ad uno dei tavoli del secondo piano e non ti stacchi dai libri fino alle undici almeno. Poi ti alzi e te ne vai per ritornare la mattina successiva. Raramente salgo al secondo piano, ma so che ci sei perché Livia, la responsabile al bancone, quella più giovane, sale spesso a controllarti» alzò le spalle lievemente «visto che oggi ha smesso prima del solito ho pensato te ne fossi già andato…»
    «Ma che fai? Mi spii?» alzò la voce confuso se non vagamente spaventato, senza effettivamente capire cosa volesse. Sospettoso, perché sembrava veramente conoscere bene le sue abitudini mentre lui non l’aveva mai notata prima.
    «No» si affrettò a negare lei candidamente, come non le fosse mai venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto pensare qualcosa del genere del suo comportamento «certo che no».
    «Allora come fai a sapere che vengo qui, a che ora e le mie abitudini?» indagò sospettoso.
    «Come ho già detto vengo spesso qui e un giorno dopo l’altro certe scene diventano parte del quotidiano. Sarei una persona incredibilmente distratta se non avessi notato nulla dopo mesi di routine quotidiana» la ragazza continuava a parlare, a voce bassa e calma, ma nella quale sembrava esserci come una sfumatura ambigua, qualcosa di strano. Che non andava bene e gli metteva i brividi.
    «Si può sapere cosa vuoi?» la interruppe nuovamente, molto più diretto rispetto a poco prima, sempre più insofferente nei suoi confronti e a disagio ogni secondo che passava.
    La vide prendere un respiro profondo e lanciare un’occhiata circolare tutt’intorno, soffermandosi sulla porta che dava sulle scale e sui banchi vuoti dall’altra parte della sala, prima di tornare a lui.
    «Va bene» esalò tutto d’un fiato, smettendo di intrecciare le dita tra loro e facendo ricadere le braccia lungo i fianchi. L’ansia percepita nel comportamento di lei sostituita da una fermezza che lo mise maggiormente a disagio, nonostante non sapesse dirne esattamente il motivo «dammi una- no, almeno due ragioni per le quali io non debba buttarmi da quella finestra, adesso».
    «…»
    «…»
    Aveva capito male, non c’erano dubbi. Doveva aver chiaramente capito male, fischi per fiaschi, Roma per toma, cozze per- aveva capito male, malissimo. Non c’erano altre spiegazioni. Sua nonna gli aveva detto che studiare troppo e farsi troppe fisime mentali lo avrebbe fatto ammalare, ma non credeva potesse succedere sul serio. Possibile che il troppo impegno portasse, come effetto collaterale, oltre che una fame da lupi, tutta una serie di allucinazioni uditive di dubbia provenienza? Perché non le aveva dato retta quando ancora era in tempo?
    E perché ora doveva pensare che concedersi un minimo di sana immaginazione potesse essere considerato sintomo di una qualche malattia? Magari quella ragazza gli stava chiedendo di poter chiudere la finestra perché sentiva freddo. Con trentacinque gradi all’ombra e in pieno agosto.
    «Tu vuoi che io faccia… cosa!?» esalò stridulo.
    «Ti ho chiesto di darmi-»
    «Lo so cosa hai chiesto» sbottò infastidito, interrompendola. Non era sua intenzione mostrarsi petulante, ma gli era sfuggito. La richiesta era talmente assurda che per un attimo era venuto meno anche il tono irato.
    «Allora rispondimi» controbatté con ovvietà, mostrando una calma e una sicurezza che tutto dicevano tranne che una richiesta del genere potesse essere provenuta da lei.
    Era una domanda? Doveva rispondere? E cosa avrebbe potuto dire?
    «Se è uno scherzo io-» s’interrupe incapace di proseguire, mordendosi un labbro nella foga di esprimere quanto gli stava passando in testa «senti, io non ho niente contro le ragazze che cercano di abbordare in biblioteca con tecniche strane o simili – anche io una volta ho fermato una che mi piaceva chiedendole se per caso non ci fossimo già visti da qualche parte – ma usare una scusa come questa» scosse la testa con disapprovazione «rischi che scappino a gambe levate» sottolineò il suo ragionamento con lo svolazzare di una penna in aria «sempre che non decidano di prenderti sul serio e portarti gentilmente alla finestra perché tu possa concludere il tuo intento» rise seccamente.
    Lei lo fissò per una manciata di secondi prima di sospirare affranta.
    «Non ho certo chiesto a te perché rappresenti il mio ideale di ragazzo» sollevò il mento socchiudendo gli occhi e studiando la figura del giovane, dalle scarpe di tela ai pantaloncini neri, fino alla punta dei capelli scuri «preferisco i biondi».
    «Preferisci i biondi» ripeté lentamente, come a sincerarsi di aver capito bene quanto gli era stato detto «e io ho un debole per le more, invece. Vai a tingerti e poi, magari, possiamo riparlarne».
    «Non era previsto ci fosse qualcuno a quest’ora» ripeté ancora «tu di solito vai via prima. Pensavo di essere da sola».
    Sbuffò in risposta. Per quanto ancora avrebbe insistito a riguardo?
    «Non vedo il problema» le disse comunque, interrompendo il contatto visivo e tornando a sfogliare il libro – che aveva abbandonato quando era arrivata – nella speranza che si stancasse e se ne andasse da sola «se hai qualcosa da fare fallo pure, basta che non mi coinvolgi. Grazie».
    “In un certo senso, abbiamo due cervelli, due menti - e due diversi tipi di intelligenza: quella razionale e quella emotiva” lesse la prima frase che gli capitò sotto gli occhi, a mostrarle che sì, adesso era concentrato su qualcosa di veramente importante e no, non sarebbe più rimasto ad ascoltare i suoi vaneggiamenti “Il nostro modo di comportarci nella vita è determinato da entrambe: non dipende solo dal QI (quoziente dell’intelligenza), ma anche dall’intelligenza emotiva. La complementarietà del sistema limbico e della neocorteccia, dell’amigdala e dei lobi prefrontali (destro e sinistro), significa che ciascuno di essi è solitamente una componente essenziale a pieno diritto della vita mentale
    «Quindi» la sentì dire lentamente, nuovamente attirato dalle sue parole nonostante il fermo proposito di ignorarla «se io ora ti dicessi che sto per andare alla finestra e farlo… me lo lasceresti fare senza provare a fermarmi?»
    «Non mi piace impicciarmi dei fatti degli altri. Semplicemente non mi interessa. Sei libera di fare tutto quello che ti pare, purché tu non lo faccia in mia presenza, sono un tipo impressionabile» continuò a reggerle il gioco, momentaneamente indeciso se indossare le cuffie per evitare di sentirla ancora parlare con quella vocetta petulante o fare i bagagli e andarsene.
    «Puoi andare in bagno nell’attesa, così potresti dire che non mi hai nemmeno vista» suggerì allargando gli occhi e accennando alla porta al di là del corridoio che, come diceva il cartello multicolore attaccato su di essa, era l’anticamera per le due toilette, quella maschile e quella femminile.
    “Tra questi si distingue la psicologia cognitiva che studia le funzioni più complesse della mente
umana” riprese esasperato “ad esempio come si elaborano le percezioni per produrre giudizi, decisioni, soluzioni di problemi oppure come i pensieri vengono rappresentati nella nostra mente, codificati, immagazzinati e poi recuperati-”
    «Senti» alzò gli occhi al cielo incapace di trattenersi oltre, stanco e irritato dalla sua presenza, desideroso solamente che quel seccante imprevisto biondo dalle battute esagerate e fuori luogo svanisse nel nulla, così come gli era apparsa davanti poco prima «te l’ho già detto: il gioco è bello quando dura poco, ma io detesto giocare, specie oggi, soprattutto ora e tanto meno con te» abbassò la testa sui fogli nella speranza che scomparisse veramente «ora se non ti dispiace vorrei stare da solo, grazie».
    «Anche io lo vorrei» rispose scuotendo la testa e smuovendo dolcemente i capelli sul suo viso, sfiorando le spalle con lentezza «come vorrei portare a termine quanto mi sono prefissata, ma ci sei tu che non faciliti molto».
    «Ma si può sapere chi sei?» sibilò alterato.
    «Mi chiamo Andrea» rispose dopo parecchi secondi di silenzio, sfregandosi un palmo sull’altro avambraccio, ignorando il momento di stupore del ragazzo, probabilmente imputandolo al fatto che non si sarebbe mai aspettato potesse rispondergli sul serio.
    «Bene, Andrea» sillabò il nome lentamente, come ad imprimerselo indelebilmente nella memoria «quello che vorrei sapere è se, con questo tuo simpatico teatrino e desiderio di darmi più fastidio di quanto io riesca a sopportarne al momento, tu ti renda conto di cosa…» lasciò la frase in sospeso nel tornare a guardarla, il fiato mozzato in gola e le parole che avrebbero dovuto seguire ferme da qualche parte tra le corde vocali e l’ugola «cosa diavolo stai facendo?» completò mentre sul finire della domanda il tono di voce saliva di qualche ottava, strozzandosi sulle ultime sillabe.
    Quella ragazza, quell’Andrea – come aveva detto di chiamarsi – era indietreggiata di qualche passo, arrivando a toccare con la schiena il davanzale della finestra, aperta per far passare un filo d’aria nell’altrimenti caldo torrido del secondo piano.
    Lo guardò per un momento prima di darsi una spinta all’indietro con le braccia e sollevarsi da terra.
    «Cosa ti sembra che stia facendo?» domandò retorica, senza tuttavia mostrare segni di sarcasmo o impazienza nella voce così come nelle espressioni.
    «Ti stai sedendo sul davanzale?» azzardò lui esitante, sentendosi la gola secca e un improvviso rivolo di sudore sulle tempie «Perché magari trovi che le sedie della biblioteca sono troppo morbide o scomode?»
    «Ti sto lasciando solo, come richiesto» stese le labbra malinconica, aggiustando la presa sugli infissi e dondolando leggermente, seguendo il ritmo dei suoi movimenti con le gambe «adesso potresti per favore girarti o andartene per un po’? Non hai risposto e se non ti spiace vorrei che tutto finisse prima che quelli del piano di sotto finiscano di pranzare».
 
 
Bene, non dirò molto a commento, se non che, ciò che ha dato origine a questo racconto, è un fatto accaduto veramente (ma non vi dirò quale, niente sconti mi spiace).
Ho deciso di scrivere e postare questo per una persona molto vicina a me e che si riconoscerà subito leggendola.
L’ho scritta come lei, un po’ ironica, un po’ malinconica e molto lunatica..
 
Un bacio e grazie per averla letta.
 
 
NLH


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Capitolo 2
*** Zoho ***


 

-Sfumature-

 

 

 

 

«Ti sto lasciando solo, come richiesto» stese le labbra malinconica, aggiustando la presa sugli infissi e dondolando leggermente, seguendo il ritmo dei suoi movimenti con le gambe «adesso potresti per favore girarti o andartene per un po’? Non hai risposto e se non ti spiace vorrei che tutto finisse prima che quelli del piano di sotto finiscano di pranzare».

 

Lui ammiccò un paio di volte, fissandola dondolarsi sul davanzale seguendo il ritmo imposto dal caldo vento estivo che le faceva frusciare l’abito attorno alle gambe, prima di dilatare lievemente le palpebre e riflettere seriamente – per la prima volta da quando la conversazione era iniziata – su quanto gli aveva detto. Per un attimo si chiese come potesse essere stato così sfortunato da essere capitato in una situazione del genere.

Gli aveva detto che si sarebbe… buttata – era diventato incredibilmente difficile pensarlo – da quella stessa finestra da lui aperta poche ore prima per arieggiare se non gli avesse dato sufficienti motivi – due – per non farlo. Più che una richiesta inaspettata si trattava di una situazione di pericolo non realmente accertato.

Aveva letto qualcosa del genere, qualche mattina prima, nel capitolo pratico riguardante quello che stava studiando proprio quel giorno, riguardo alle connessioni celebrarli e il sistema nervoso di risposta. Trattava una situazione da tutti i giorni: una donna sta camminando e sente una macchina arrivare alle sue spalle. Anche se si trova su un marciapiede e non in mezzo alla strada, l’istinto è quello di voltarsi a controllare che non sia una minaccia. Di fatto una parte del cervello – l’amigdala, la cui definizione tanto cercava di ricordare – invia l’avviso di possibile pericolo, mettendo in primo piano l’istinto di fuga, rendendo prioritario l’aumento di adrenalina in caso di sforzo fisico improvviso. È solo con l’intervento successivo del sistema cognitivo che la minaccia trova reale accoglimento o una smentita.

Quindi questo era quanto.

L’amigdala poteva anche avere il compito di suscitare le emozioni e metterle in corsia preferenziale, ma non era in grado di capire se il pericolo era reale o meno. Il compito di definire se la minaccia potesse essere considerata imminente o meno spettava al sistema cognitivo. E il suo, di sistema cognitivo, gli stava gridando di darsi una mossa e smettere di tentennare incapace di decidere.

E se invece si fosse trattato solo di uno scherzo ben orchestrato e i suoi amici – quelli che durante i periodi di sospensione dei corsi si divertivano a mettere in difficoltà lo sprovveduto di turno – Simone e Francesco tanto per dirne due, si trovassero nascosti dietro uno degli scaffali a filmare la scena, pronti a saltare fuori e prenderlo in giro?

In un caso del genere doveva essere la sua reputazione, la priorità.

Aggrottò la fronte per la quantità di pensieri accavallati l’uno sull’altro.

Era uno scherzo, non poteva essere altrimenti, decise respirando profondamente e rilasciando l’aria tutta in una volta, a mostrare l’assoluta certezza nella sua decisione. Vai a farti un giro, le avrebbe detto con sufficienza, io non ho tempo da perdere con una come te. Come poteva pensare, quella ragazzina petulante e dalla mente contorta, avrebbe trovato comprensione o un orecchio disposto ad ascoltare i suoi vaneggiamenti?

Smettila di darmi fastidio, ecco cosa bastava dirle per mandarla via.

«Non provare a farlo! Sono stato chiaro?» alzò la voce nell’esprimere quanto pensato fino a quel momento incrociando le braccia al petto e fissandola duramente, come a sottolineare la sua fermezza. Poi ammutolì.

Eh sì, gliele aveva proprio cantate.

Evidentemente la sua amigdala trovava che la sua stessa sopravvivenza non fosse che una mera quisquilia in confronto alla tragedia che stava per consumarsi davanti ai suoi occhi. La possibilità che potesse essere tutto un inganno, evidentemente, non era stata presa in considerazione del suo cervello e, di conseguenza, il suo sistema cognitivo aveva reagito di conseguenza. Tradito dal suo stesso corpo, rilassò le spalle, che vergogna.

Sospirò ancora. L’ansia aveva prevalso, niente sarebbe stato più come prima.

«E perché?» incurvò un sottile sopracciglio biondo in risposta.

«Hai promesso» si affrettò a ribattere lui allungando repentinamente un braccio nella sua direzione, la mano lievemente aperta, dicendo la prima cosa che gli passava per la testa «non con me presente! Sono un tipo impressionabile».

«Tranquillo, ti lascerò il tempo di andare a chiuderti in bagno».

«In bagno?»

«Esatto, così puoi far finta di non avermi mai nemmeno visto» annuì seriamente un paio di volte, come stesse seriamente prendendo in considerazione l’idea di mettere in pratica quanto detto «poi tranquillo, mentre cado ti do una voce, così sai quando tornare».

Lui aprì e chiuse la bocca una o due volte – non avrebbe saputo dirlo – sempre più sconcertato, sempre meno sé stesso, mentre la fissava con gli occhi spalancati, chiedendosi probabilmente se non fosse nuovamente affetto da allucinazioni uditive.

«Prometto anche che se sopravvivo non dirò mai a nessuno di averti visto».

«Tu sei fuori di testa» riuscì ad articolare con una certa difficoltà.

«Non sono pazza. Non lo sono» gli sorrise apertamente facendogli pensare tutto il contrario.

Certo, chi mai avrebbe ritenuto sana di mente una persona che al primo incontro chiede una cosa del genere?

Doveva pensare velocemente a cosa dire. Una ragazza sconosciuta, due ragioni per vivere, velocemente. Doveva pensare a qualcosa. Con una certa fretta. Gli aveva dato proprio una bella gatta da pelare.

«Non sei un po’ troppo tranquilla per una che sta per…» cercò di prendere tempo interrompendosi ancora sulla stessa parola, incapace di continuare. Buttarsi, perché era diventato improvvisamente così difficile dirlo? Buttarsi. Alla ricerca di qualcosa, in un’avventura. Da una finestra.

Chissà perché quell’accostamento di parole suonava tanto amaro. Non era certo la prima volta che sentiva quella frase e in un paio di occasioni l’aveva usata anche lui – per scherzo o esagerazione – definendo con cruda chiarezza un’immagine già distruttiva di suo.

«Troppo tranquilla?» ripeté lei inclinando lievemente la testa «Perché? Cosa dovrei fare secondo te?»

«Gridare istericamente» disse di getto elencando quelli che, secondo la maggior parte dei film da lui visti, rappresentavano i principali sintomi richiesti «piangere, disperarsi e raccontare tutti i motivi per cui si sta facendo... quello che si sta facendo. Piangere».

«L’hai detto due volte» gli fece notare pacatamente, intervenendo nel monologo agitato «piangere, intendo».

«Perché dovrebbe essere così!»

«Cosa ne sai tu?» gli chiese dopo un attimo, durante il quale era rimasta a contemplarlo gesticolare e infervorarsi senza tuttavia muovere un passo nella sua direzione «Ne hai viste molte di persone che volevano gettarsi da una finestra?»

No, anche detto da lei suonava acre e violento. Si chiese come mai prima non avesse mai pensato quanto una semplice frase come quella sarebbe diventata tanto detestabile da ascoltare e pronunciare

«Sì, cioè…no» quasi si morse la lingua per la stupidaggine che stava dicendo «voglio dire, non dal vivo» esitò ancora, realizzando quanto fuori luogo fosse la sua risposta ma incapace di fermare il fiume di parole a cui aveva dato inizio «solo nei film. Quando ci sono tutti che vogliono fermare la persona che… insomma, che vogliono fermarla e lei grida loro di non avvicinarsi, altrimenti si sarebbe buttata sul serio».

«Quelli che lo fanno non sono veramente motivati o convinti» ribatté lei con più fervore e trasporto avesse avuto fino a quel momento «pensano di volere la loro morte, si prendono i giorni per decidere se farlo o meno e poi, all’ultimo non ne hanno il coraggio» mulinò improvvisamente una mano in aria, facendolo nuovamente sobbalzare per paura potesse perdere l’equilibrio.

«Perché dire a qualcuno che sta cercando di salvarti che, se si avvicina, si butta di sotto?» continuò imperterrita «uno si butta e basta se vuole farlo, no? Senza troppi se o ma».

«Quindi tu… mi ha chiesto di darti dei motivi perché… ?»

«Eri lì e non sapevo cosa fare con uno spettatore imprevisto» ribatté seguendo una logica tutta sua «mi è sfuggito, non che volessi chiedertelo veramente. Non ti avevo calcolato» assottigliò gli occhi di modo da dargli la sensazione di essere fulminato «non sono come quelli che stanno sul punto di farlo e poi non sanno se continuare o meno».

«I tuoi… le tue motivazioni allora-» tentò nuovamente di chiedere, in difficoltà e con un rivolo di sudore gelato – se lo sentiva scorrere lungo tutta la schiena – che non portava alcun beneficio alla calura, troppo freddo per essere ben accetto.

«Loro avranno le loro, io ho le mie, non ti è sufficientemente chiaro?»

«Ma tu perché vuoi farlo?» deglutì a vuoto, gola e bocca troppo secche perché potesse portargli sollievo «Perché vuoi…» ancora non riusciva a dirlo. Buttarti. Deglutendo ancora inutilmente ne studiò la figura, soffermandosi sulle braccia sottili e la carnagione pallida, chiedendosi se il vero motivo per cui volesse morire in modo tanto improvviso non fosse per sottrarsi ad un altro tipo di morte, magari più lunga e sofferta, come una malattia.

Possibile che la sua motivazione fosse legata alla paura di dover finire la sua vita in un letto d’ospedale, circondata da medici e troppo debole o debilitata per fare altro che respirare e attendere la morte, un giorno dopo l’altro.

«Perché buttarmi da una finestra?» ripeté nuovamente facendolo sobbalzare, come provasse piacere nel continuare a ripetere quella parola. Come volesse vedere la reazione di lui o convincersi di quello di cui stava parlando «perché è il metodo più semplice e veloce che ho trovato».

«Il… metodo più semplice?» si era già arrivati a quello? Una mera scelta di tipologia?

«Se cadi da un’altezza considerevole non c’è modo di sopravvivere, finirebbe subito senza troppo dolore e sofferenza» socchiuse gli occhi, improvvisamente lucidi «nessuno che si operi più a riportarti indietro, nessuno che potrà mai sentirsi in colpa per non essere riuscito a salvarti e, soprattutto, sai che con te finiranno anche tutti i tuoi problemi».

La vide respirare profondamente, come a calmarsi e riprendere il controllo della maschera pacata indossata fin dall’inizio della conversazione. Quando riaprì gli occhi il trasporto di poco prima sembrava sparito.

«Non avendo a disposizione un’auto per intossicarmi di carbonio né volendo che mia madre mi trovi in casa in una pozza di sangue – che avrebbe potuto essere ancora fresco e di conseguenza non sarebbe servito a niente – ho dovuto pensare a delle alternative» guardò di lato, sfuggendo  al totale sconcerto negli occhi dell’altro. Il ragazzo sembrava non essere in grado di continuare la conversazione, fisicamente e mentalmente.

«Non mi piaceva l’idea di finire sotto un treno – pensa ai disagi – quindi ora sono qui» continuò imperterrita «è l’unico posto che conosco e a cui ho accesso ed è adatto».

Come può, si chiese, essere adatta una biblioteca a qualcosa del genere?

«Ma perché?» tornò ad alzare la voce lui scuotendosi dal torpore che lo aveva colto, muovendo un altro passo e arrestandosi immediatamente nel vederla irrigidirsi «quello che voglio sapere non è perché hai scelto una finestra piuttosto che altro! Voglio il perché! Cosa ti spinge a farlo?»

La risata che seguì quelle parole poteva somigliare ad un latrato, una risata breve e secca che a lui sembrò più disperata di tutte le frasi e le espressioni calme sfoggiate fino a quel momento. Un cinismo che stonava con l’aspetto delicato e le labbra morbide che l’avevano emessa.

«Motivazioni?» rise ancora «Tu vuoi sapere il perché?» rise più forte, tanto che lui sperò raggiungesse il piano inferiore e insospettisse le bibliotecarie tanto da farle salire a redarguire l’ospite molesto «Non sono importanti i motivi per cui lo faccio, quello che conta è l’opposto. Perché non dovrei farlo?» gli domandò con tono di sfida «perché dovrei vivere? Cosa in questo mondo potrebbe spingermi a non rinunciare ad esso?»

Lui bloccò il continuo intrecciarsi delle dita – che aveva iniziato inconsciamente quando la situazione sembrava essere precipitata – troppo sconcertato da quanto aveva sentito per fare altro se non continuare a fissarla senza spiccicare parola.

«Non mi interessa più niente, non c’è nulla che mi piaccia o mi entusiasmi. È stato quando me ne sono resa conto che ho iniziato a prendere in considerazione l’idea di suicidarmi» l’aveva detto, chiaramente e senza esitazione, come stesse recitando la lista della spesa, senza tremiti o sentimenti «non mi è nemmeno servito valutare i pro e i contro, ho deciso e basta. Nessun sentimento contrastante o altro. Semplicemente non sentivo più voglia di vivere» stirò le labbra, ancora in quel sorriso falso «non riuscivo ad essere più nemmeno delusa da nulla».

Fece un respiro profondo chiudendo un attimo gli occhi, come ad attendere che lui immagazzinasse quanto detto.

«Venivo qui abbastanza spesso, quando andavo alle medie, e quindi so più o meno le abitudini di quelli che frequentano questo posto. Sarebbe stato più facile senza di te» fece un breve pausa durante la quale staccò le mani dal davanzale per intrecciarle in grembo e stringersi nelle spalle, portandolo a fare un istintivo passo in avanti, temendo il peggio.

Andrea soppesò quel gesto da sotto le ciglia e continuò come non si fosse mai mosso, forse ritenendolo ancora troppo lontano perché potesse fare affettivamente qualcosa. In fondo, cinque passi possono essere lunghi chilometri in certe situazioni.

«In breve non ho sufficienti motivi per fermarmi, così quando ti ho visto qui ho pensato che potesse essere un segno, o qualcosa del genere. Se non fossi stata in grado di trovare da sola motivi sufficienti avrei potuto chiedere a te» ridacchiò «in fondo la tua presenza non è da considerare solo una seccatura imprevista, non trovi?»

La vide inclinare la testa e scrutarlo come a capire se avesse altro da dire. Hai finito?, gli stava chiedendo silenziosamente, se non hai altro da dirmi e non riesci a trovare delle motivazioni valide, posso andare?

No, maledizione, lui non aveva affatto finito pensò con urgenza, venata da una sottile irritazione. Non poteva aver finito. Aveva altro da chiederle, non poteva certo liquidarlo così.

«E non hai pensato, che so… di farlo da casa tua?» si rendeva pienamente conto dell’assurdità e del rischio delle continue domande e insinuazioni che il suo cervello sovraeccitato continuava a sfornare, ma doveva assolutamente continuare a farla parlare. E se discutere di fiori e piante sarebbe stato se non insensibile almeno fuori luogo, sapeva che riguardo alla sua decisione, se non altro, gli avrebbe risposto.

Era consapevole che, fosse veramente riuscito a dissuaderla dal suo intento, avrebbe potuto scavalcare il balcone dell’appartamento in cui viveva e farla finita senza più alcuna voce contraria, ma sperava nell’arrivo di qualcuno – magari la bibliotecaria che veniva a controllare non si stesse fumando una canna tra i suoi preziosissimi libri – che si facesse carico del problema. E magari gli dicesse come sentirsi dopo un’esperienza del genere.

«Casa mia è al secondo piano» fece perdere lo sguardo sulla stanza, senza guardarlo, con una nota diversa nella voce. Sempre pacata, sempre apparentemente calma, ma venata da un lieve tremolio e una sfumatura di fondo che lui fece una certa fatica a riconoscere. Furia, rabbia o tristezza.

«È alto» tentò di prolungare il discorso, pregando come mai aveva fatto che qualcuna delle donne al piano di sotto venisse a controllare cosa mai stesse combinando lo studente irritabile e dipendente dal fumo passivo. E trovasse Andrea sufficientemente in pericolo da meritarsi tutta la sua attenzione, sollevandolo dalla gravosa responsabilità che, senza rendersene conto, si era addossato nel rimanere e lasciare che ogni parola pronunciata lei avesse il peso della verità.

«Alto ma non abbastanza» ribatté abbozzando un sorriso con l’angolo delle labbra.

«Hai idea di quanti siano sei metri? È tanto» la paura delle conseguenze delle sue affermazioni stava iniziando a scemare man mano che continuava a parlare. Se lei ha tanta voglia di morire, chi sono io per fermarla?, si chiese all’improvviso sentendo l’ansia scendere, lasciandolo più stanco e frustrato di prima. Se non ha voglia di vivere perché stava cercando di fermarla?

«Ho sentito di una ragazza, più giovane di me, che si è buttata dalla finestra all’inizio dell’estate» Andrea era tornata a guardare il nulla e dondolarsi con grazia sul davanzale, come non si rendesse conto di essere sul bilico, o forse capendolo anche fin troppo bene «era al terzo piano ed è caduta come un peso morto a terra, in giardino, sfondando un cespuglio. È stato un volo di dieci metri eppure ne è uscita non solo viva, ma persino incolume. Qualche graffio, del dolore alla schiena e al ginocchio, ma nessuna frattura o danno permanente» concluse con una secca scrollata di spalle «capisci? Non si è fatta niente nonostante l’altezza. È stata soccorsa subito e non è successo niente. Non voglio finire così!»

Lui la osservò parlare per tutto il tempo senza dare segno di voler ribattere a quanto detto, in piedi a poca distanza da lei e le braccia lungo i fianchi. La squadrava con gli occhi socchiusi e i denti serrati, un nervoso tale che le mani tremavano impercettibilmente per via della forza con cui le teneva serrate. Pugni che trattenevano un nuovo sentimento.

«Dicono che è come volare, sentirsi liberi e provare quanto non si è riusciti a provare nella vita di tutti i giorni. Dicono che è bellissimo. Come il cigno che canta alla morte» sembrava malinconica, se non sognante «vivere non è altro che una preparazione alla morte. Quando non ci si sente più di vivere significa che è ora di morire e allora perché non provare a volare prima di passare oltre? In fondo una volta che smetti di cadere è tutto finito, senza sentire niente, senza più preoccupazioni, senza doversi giustificare per il proprio aspetto».

Provò ad immaginarsela dopo la caduta, dopo il volo che sembrava tanto desiderosa di fare, immobile a terra, ferma con il viso contratto in un lieve sorriso – come quello che stava sfoggiando in quel momento, tirato, falso e immobile – per l’eternità.

Valeva così poco per lei la vita? La considerava sul serio solo un attimo di passaggio, un’esistenza senza valore se non nel momento in cui le si pone fine?

Irrigidì la mascella nel pensarla tanto indifferente, scostante e superficiale.

Senza rendersi conto di averlo fatto fino a quando non sentì il prurito al palmo e il penetrante rimbombo della stanza, batté con forza una mano sul tavolo. Per bloccare il flusso continuo di domande, per farla smettere di sputare sentenze come avesse veramente capito tutto dalla vita. Per sé stesso, che aveva paura di riconoscersi in quelle affermazioni.

«Non si è fatta niente?»

 

...

NLH

 

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Capitolo 3
*** Mappo ***


 
-Sfumature-
 
 
 
 
 
«Non si è fatta niente?»
 
    Adesso i ruoli sembravano essersi invertiti. Adesso era lui a strascicare le parole da dietro una maschera di finta calma, i muscoli contratti da una tensione nervosa, la voce a stento controllata e un bagliore freddo negli occhi. Grigio ferro nel grigio liquido di lei, incerta e insicura dopo le sue prime parole. Adesso era lei a temere una reazione di lui.
    «Tu credi seriamente non si sia fatta niente?» ripeté duramente «Che lei si sia buttata» adesso riusciva a dirlo, a sputarglielo in faccia con tutto quanto gli passava per la testa «che non si sia fatta niente e allora la storia per lei si può definire chiusa? Pazienza non è andata allora chiudiamo qui il capitolo e apriamone uno nuovo?»
    La fece sobbalzare per via della foga con cui terminò la frase, alzando improvvisamente la voce – incurante delle conseguenze – e battendo un piede a terra.
    «Cosa credi? Che adesso lei sia felice e contenta? Chi ti dice che non passi le ore, i giorni della sua vita a pensare e ripensare a quanto a fatto, magari rammaricandosi e chiedendosi perché le cose siano andate a quel modo?»
    «Se vuole veramente-» tentò di parlare senza successo perché lui non le diede l’occasione di concludere.
    «Cosa ne sai se passa i giorni a sorridere e dirsi che tutto va bene, che ha commesso una sciocchezza, che non la ripeterà più, che può dire a chi le sta intorno e si preoccupa che ora possono stare tranquilli?» addolcì il tono chinandosi leggermente in avanti e inchiodando lo sguardo nel suo «E chi ti dice che la notte, quando chiude gli occhi e non ha più nulla a distrarla, ogni singolo dettaglio di quel giorno non le torna in mente prepotente, incapace di fermare il flusso di ricordi e smettere di provare dolore?»
    Lei trattenne il respiro, altrettanto incapace di liberarsi dagli occhi di lui.
    «Perché fa male, vero? Deve fare un dannatissimo male, che ne sia pentita o meno» non sapeva come mai ne era tanto certo, di quello che stava dicendo, ma sentiva che era così. Che doveva essere a quel modo «quindi non dire più che le va tutto bene. Non farlo».
    Strinse i pugni respirando lentamente, cercando di fare ordine nei pensieri, urgenti e pressanti, che si affollavano nella sua mente, sulla soglia della sua bocca, desiderosi di uscire e dare sfogo ad ogni emozione trattenuta.
    «Non dire che non hai più nessuna voglia di vivere, non farlo» ripeté «perché essere vivi è qualcosa che non tutti hanno. Essere in salute e poter dire che sì, posso uscire di casa e andare dove voglio. Poter camminare o andare in bicicletta. Vedere, anche. Riguardare la vita che si è vissuta fino a quel momento e non provare dolore, rimorso paura e ferite che probabilmente non si rimargineranno mai».
    La vide continuare a fissarlo incredula e immobile e la rabbia tornò prepotente, soffocando qualunque sentimento di empatia potesse aver avuto.
    «Chiedendomi delle motivazioni per continuare a vivere, mi stavi chiedendo di salvarti o di confermarti la tua decisione?» sibilò battendo nuovamente una mano sul banco e facendola sussultare, le mani strette tra loro «Cos’è? Ti aspettavi un discorso tipo di Gettysburgh a riprova che sì, è la decisione giusta scavalcare quella finestra e gettarsi di sotto?»
    «Di certo non mi aspetto che ne derivi la nascita di una nuova America» cercò di rispondere, alterata, intromettendosi per quel che riusciva nel fiume di parole d’accusa e dolore che il ragazzo le stava riversando addosso. Coltelli, pugnali che oltrepassavano la sua fermezza e i suoi pensieri, conficcandosi in profondità, fino in fondo, sempre più giù.
    «Certo che no!» continuò facendo un altro passo verso di lei, sempre meno preoccupato delle conseguenze, sempre più irritato e nervoso «Non ti dirò mai che non saresti morta invano, perché non è così! Cosa credi di ottenere facendolo? Credi forse che le persone vivranno con te la tua morte, spinte a ricordarsi del tuo gesto e di quello che eri?».
    Gli occhi di lei si dilatarono, come avesse colpito nel segno.
    Quelli di lui si assottigliarono, iniziando a bruciargli.
    «Potrei dartene mille di motivi, ma sarebbero i miei, non i tuoi» fece un respiro, forse esagerato, nel tentativo di controllare le emozioni, che facevano pressione e scottavano tra le palpebre «potrei dirti che morire non farà cambiare nulla, che il mondo continuerà come ha sempre fatto, portando persone come te e me a desiderare di porre fine a tutto. Che da morti non si può fare più niente, perché è solo da vivi che si ha la possibilità di fare qualcosa. Perché è solo dicendolo – come sembra che tu abbia fatto con me – che qualcuno potrà chiederti ti fermarti. Perché è solo quando fai qualcosa che ti verrà detto che c’è qualcuno che ha bisogno di te, che starà male se gliene farai, che ti vuole bene» ancora una pausa, più lunga e meno efficace a trattenere la tempesta che si stava combattendo al suo interno, mentre le frasi si susseguivano rapide senza apparente logica «perché se si ha ancora la forza di reagire, anche solo per difendere le proprie idee, allora si può continuare anche a vivere» pronunciò le ultime incrinandole, sentendo il fiato spezzarsi.
    E alla fine fu costretto a dargli uno sfogo, a tutta quella frustrazione, a tutta quella rabbia e quella tristezza accumulata e poi gettata fuori in una volta sola, tramite parole che mai avrebbe pensato di pronunciare. Infischiandosene del fatto che era un maschio, che se altri fossero venuti a saperlo lo avrebbero preso in giro a vita e che, dannazione, lui non aveva assolutamente nessun motivo per piangere come una femminuccia.
    Diede una via di fuga alle lacrime di improvviso dolore che gli rigarono lievemente le guance, con un pianto silenzioso – privo della furia che aveva animato i suoi gesti e le sue parole – donando un significato a quanto detto più profondo di quanto avrebbe mai immaginato.
    Nessun altro rumore dalle sue labbra, nessun singhiozzo dallo sterno; solo quegli occhi che adesso sembravano mercurio – grigio liquido e mobile – testimoni della delusione e del sollievo.
    Perché ammettere tutto quello lo faceva sentire male, ma dirlo lo rendeva, parola dopo parola, più leggero di quanto non si fosse mai sentito. Perché erano state tante le volte in cui aveva pensato che la sua vita andava avanti solo perché non poteva essere fermata, che quanto gli accadeva succedeva e basta, come un copione costante che continuava regolare ad occupare l’esistenza di ciascuno. Perché non sapeva quantificare le volte in cui si era chiesto coma mai potesse esserci di interessante in quello che faceva – lo studio, l’università, gli amici, la famiglia – da fargli nascere la voglia di svegliarsi e affrontare la giornata con gioia o aspettativa.
    Perché anche lui aveva pensato che il mondo non era altro che grigio, grigio e grigio noia, delusione, indifferenza e insofferenza. Grigio tristezza.
    «Tu vuoi che io ti fermi» continuò abbassando il tono, rallentano il gesticolare e addolcendo l’espressione irata in una più morbida ma ugualmente dolorosa, per lei, perché a volte la pietà non è altro che un’arma «per questo motivo mi hai chiesto due motivazioni. Non perché ero una presenza imprevista né perché non riesci a trovarne di tue. Tu non vuoi morire, e questo è tutto. Senza troppi fronzoli o giri di parole, senza finzioni».
    C’era consapevolezza mista a rabbia, disappunto e pietà, tra le righe. C’era il desiderio di porre fine a tutto, anche se ancora non sapeva in cosa consistesse quel tutto. Se alla discussione, al dolore, alla vita o qualcos’altro di cui lei non era a conoscenza. Al momento sapeva solo che quelle parole, ogni sillaba a cui dava vita, le si conficcavano in profondità, tremando e scivolando poco più giù ad ogni aggiunta.
    «Quando muori è finita. Non c’è più niente da dire o da fare» il tono di voce gli si era abbassato inconsciamente tanto da assomigliare ad un sussurro troppo basso e fuggente per essere portato lontano anche dalla lieve brezza che scorreva pacifica tra loro, costringendo Andrea a chinarsi lievemente in avanti – verso il pavimento, verso l’interno – per ascoltare quanto le stava dicendo «non importa se credi o meno possa esserci qualcosa dopo, tutto finisce lo stesso».
    Non aprì gli occhi, non si mosse più, trattenne il respiro mentre la voce finiva di uscire gelida e lenta dalle labbra.
    Ci fu un lungo silenzio e il buio le si strinse addosso fino a diventare insopportabile e costringerla a socchiudere le palpebre. Poi lui tornò a muoversi, il suono del frusciare dei vestiti che anticipò quello di un respiro rilasciato senza fretta.
    «Smettila di tenere tutto per te, altrimenti alla fine scoppierai e allora sì che non ci sarà più alcun ragazzo imprevisto a fermarti».
    Sentendosi svuotato, senza accennare ad asciugare le lacrime che avevano solcato traditrici il suo volto, la vide mordersi il labbro inferiore con delicatezza, come non fosse sicura di quello che stava facendo, per poi rafforzare la presa sul davanzale, tanto forte da far sbiancare le nocche. La vide chinare il capo sul petto e tremare leggermente. Poi le girò le spalle e attraversò il corridoio su cui a lungo si era discusso, dirigendosi in bagno.
    Non c’era altro che poteva fare. Non poteva afferrarla e tirarla a sé, schiaffeggiarla e farle capire quanto quel suo comportamento fosse in grado di ferire, sé stessa ancora prima di chi le stava attorno. Non poteva semplicemente portarla via perché doveva essere lei ad allontanarsi e fare la scelta giusta, se mai una scelta si possa considerare assolutamente corretta.
    Andrea, non vedendo altro nel suo campo visivo se non il bianco candido del vestito indossato quasi senza nemmeno guardalo, quella mattina, tornò a mordersi il labbro, più volte e con maggiore forza, premendo con decisione e tremore assieme, tagliandolo in un angolo, già secco per via della calura. Fu solo quando avvertì la netta sensazione di sentire in bocca un insolito sapore metallico, misto alla saliva, che rilassò impercettibilmente la mascella, focalizzando l’attenzione su quello che stava facendo.
    C’erano due sottili macchie rosse sulla gonna candida. Sangue. Immobilizzata nella posizione in cui si era raccolta man mano che quel ragazzo – quello sconosciuto che non aveva previsto di incontrare mai e che ora, per quanto ne sapeva, poteva anche essersene andato veramente, lasciandola sola a mettere fine a tutto – studiava incredula quegli scarlatti fiori, improvvisamente spuntati nel bianco immacolato del suo essere. Tornò a chiudere gli occhi solo quando si accorse che la vista le si faceva meno chiara, come fossero stati improvvisamente ricoperti da una patina che le impediva di vedere nitidamente i contorni del rosso sul bianco.
    Rosso su bianco, come aveva vagamente immaginato sarebbe diventato il suo vestito dopo l’impatto. Con un respiro strozzato si chiese come mai ora il pensiero potesse farla rabbrividire tanto, quando, fino a poco prima, non era in grado di suscitargli alcuna emozione. Muovendo le dita sentì il marmo liscio sotto i polpastrelli ed immaginò di spingersi all’indietro, sollevando le gambe – ne sentì il peso come fossero realmente in movimento – e poggiare i piedi al di là della finestra, sul tettuccio. Respirò con leggerezza nel sentire le tegole ruvide e irregolari sfiorarle i piedi, trasmettendole il calore del mezzogiorno attraverso le suole leggere dei sandali, come se in realtà non li avesse addosso.
    Muovendo lentamente la testa, a seguire il movimento familiare di quando guardava fuori da quella stessa finestra – tempo prima, quando ancora non era altro che uno squarcio di cielo tra le mura grigie della biblioteca – vide il condominio dirimpetto, i due pini scuri che ostruivano la visuale della strada, il giardino poco curato della villetta accanto e lo scorcio di cielo – piovoso, soleggiato o coperto da una spessa coltre di cinereo manto – che le facevano compagnia, silenziosi nel loro continuo immutare.
    Poi guardò verso il basso, percependo il suolo – grigio scuro, asfalto – che si allontanava impercettibilmente ad ogni sua occhiata.
    Sentì come un capogiro e il respiro aumentare d’intensità nello sporgersi maggiormente. Nello sbilanciarsi in avanti verso il vuoto.
    Spalancò di scatto gli occhi, il cuore in gola e il respiro affannato, con la paura di essere veramente sull’orlo del precipizio e di stare per perdere l’equilibrio, cadere di sotto e mettere fine a tutto. Alla sua vita, ai suoi sogni – che magari non sapeva ancora di avere – alle sue speranze, a tutto quanto aveva. Smarrita, impiegò non pochi secondi nel rendersi conto di essere ancora seduta sul davanzale, le mani serrate con forza al tessuto della gonna. Con una calma che non sentiva più propria tornò a guardare il suo vestito notando le due macchie di sangue sfumate ai bordi, accompagnate da altre macchie dal colore indefinito.     Grigio chiaro, forse?
    Grigio chiaro, come quello delle piastrelle che dal cancello portavano al portone d’ingresso del condominio in cui viveva, che erano state testimoni di numerose liti e lanci di oggetti dalla finestra del secondo piano da sua madre a suo padre. Grigio sporco come il bagno della stazione in cui si era chiusa per sottrarsi allo sguardo accusatore del suo ex ragazzo, che dopo averla scaricata con una patetica scusa non aveva gradito che lei si fosse messa a ridere per poi nascondersi a piangere.
    Grigio sfumato di bianco, come i capelli dei suoi nonni, come li ricordava nella loro ultima vacanza insieme al mare, bagnati dall’acqua e schiariti dal sole. Grigio metallo, come quello dello scivolo su cui si rifugiava la sera, quando non aveva voglia di tornare a casa e assistere all’ennesimo litigio o al silenzio pesante che aleggiava tra le mura, anche in camera sua.
    Grigio e basta, come il mondo era diventato nell’attimo in cui lui l’aveva lasciata sola, su un davanzale a rendersi conto di quanto in realtà il mondo fosse colorato senza che lei se ne fosse mai accorta.
    Quante tonalità di grigio potevano esistere ancora?
    Quante ancora le avrebbero fatto tornare alla memoria la sua vita, i suoi dispiaceri, le sue arrabbiature, i suoi affetti, i suoi successi?
    Un’altra macchia sfumata fiorì sulla gonna, anticipata da un leggero peso che veniva a mancare al viso per farsi sentire sulle gambe. Una leggera goccia che faceva tuttavia un’enorme differenza da una sua qualunque gemella, come di pioggia ad esempio.
    Poteva trattarsi di lacrime? Stava perdendo il controllo?
    Con la paura di quello che avrebbe potuto fare, ora che era completamente sola, tornò ad abbassare lo sguardo sul proprio grembo, coprendo il viso con i capelli che le erano scivolati via da dietro le orecchie, attendendo che il senso di solitudine e abbandono passasse. Aveva il terrore che sarebbe caduta se solo avesse fatto una mossa in quello stato.
    Si sentiva sola. Aveva bisogno di qualcuno.
    Gli occhi tornarono a bruciarle e spinse la testa all’indietro, nel tentativo di calmarsi. Sentiva il respiro farsi meno regolare, il cuore battere dolorosamente nel petto e il viso corrucciarsi nel tentativo di tornare a distendersi, a mostrare anche solo un pallido sorriso a riprova che tutto stava andando bene, che non era rimasta solo lei ad affrontare tutta quella paura improvvisa.
    «Hai l’espressione di una bambina che sta per piangere ma non lo fa… come dovesse dimostrare di non averne alcun bisogno».
    Si raddrizzò di colpo rischiando seriamente di sbilanciarsi, aprendo gli occhi per vedere chi le avesse parlato. Riconosceva quella voce. Con un misto di confusione e un’inattesa gioia fece scorrere lo sguardo su quelle scarpe di tela che un tempo dovevano essere state bianche ma che ora sembravano un agglomerato di grigi diversi. Grigio polvere, grigio terra, grigio gomma. I pantaloncini neri alle ginocchia, larghi e lisi ai bordi, l’elastico seminascosto da una maglietta chiara.
    Labbra piene e morse nel mezzo, naso lievemente all’insù, occhi larghi seminascosti da occhiali dalla montatura sottile, capelli lisci e scuri, lasciati crescere qualche mese di troppo e disciplinati sbadatamente con mollette da ragazzina.
    Era lì, davanti a lei, più vicino di quanto non lo fosse mai stato. Con un lieve sorriso, gli occhi rossi e un bicchiere d’acqua in mano.
    «Non prendermi in giro» sussurrò tra un respiro e l’altro, tornando a chiudere le palpebre. Ora che sapeva che era lì e che sentiva il suo calore tanto vicino, non aveva bisogno di vedere per sapere di non essere più sola «qui il bambino frignone, tra i due, sei tu. Sbaglio o quelle di prima erano lacrime?»
    Quelle sfumature grigie che le avevano mostrato una dimensione che pensava perduta per sempre. Quel particolare colore bagnato che aveva visto tanto spesso allo specchio, dopo quella furiosa litigata con la sua migliore amica ai tempi delle elementari, quel rossore a circondarle, come quando era morta la nonna e lei non era stata in grado di fare altro se non guardare la bara ricoperta di fiori bianchi, chiudendo fuori tutto il resto del mondo, le condoglianze e i falsi dispiaceri di chi le era stata intorno.
    «Tieni» le disse porgendole il bicchiere che prese con mano lievemente tremante senza portarselo alle labbra e appoggiandolo sul marmo accanto a sé. Poi lui le tese quella stessa mano, senza dire nulla, senza guardarla negli occhi, preferendo fissarsi il palmo, assorto in una preghiera. Che lei la prendesse.
    Fissandosi la propria, di mano, la alzò lentamente e ricoprì la distanza con quella di lui in un tempo che le sembrò infinito. Poi, quando le dita sottili sfiorarono quelle lunghe e meno delicate, vennero afferrate con decisione e tirate, costringendo il corpo a seguirle senza più incontrare resistenza.
    Perché voleva andarsene, allontanarsi da quel davanzale. Perché, in fondo, sapeva si sarebbe sentita sicura solo se lui l’avesse guidata, come l’aveva trascinata di forza a capire il suo errore.
    Si strinse a lui con forza, circondandogli la vita e afferrando la maglia tra le dita, affondando il volto nel petto solido e lasciandosi andare. Rilassando le spalle e provando a far scorrere via la paura, l’ansia e il timore residui. Sciogliendosi liberamente in lacrime. Lui le circondò le spalle con un braccio e infilò l’altra mano tra i capelli di lei, costringendola contro di sé, come avesse paura delle conseguenze se le avesse permesso anche solo di allontanarsi, sospirando di sollievo.
    «Perché sei tornato indietro? Credevo te ne fossi andato!»
    «Se devo essere sincero non ne sono sicuro» esitò come a interrogarsi seriamente sul perché di quella sua decisione improvvisa «forse perché ho nutrito una minima speranza di averti salvato. Che tra tutte le sciocchezze e gli insulti che ti ho riversato addosso, avessi veramente detto qualcosa che avrebbe potuto farti cambiare idea».
    Tra le lacrime sempre più copiose, non si sa come, non si sa il perché, lei rise. Un breve scoppio tra i singhiozzi, molto più simile ad un colpo di tosse ma accompagnato dal sottile curvarsi delle labbra e lo schiudersi di palpebre, dritte in quelle attente di lui attraverso le lenti sottili.
    «Cosa?» le mormorò insicuro, non osando alzare la voce per spezzare quell’attimo di tranquilla intimità creatasi tra i respiri affannati e le lacrime, ora silenziose, che ancora bagnavano le guance di lei e la maglia leggera di lui, lasciando chiazze azzurro scuro.
    La vide tentare di articolare delle parole, riuscendo solamente ad emetter forti sospiri misti a singhiozzi, poi la vide portare una mano a rimuovere delicatamente quelle strisce liquide dal viso.
    «No-non so nemmeno come ti chiami» singhiozzò ancora, scuotendo le spalle contro le sue braccia, che la circondavano nuovamente protettive, chiudendola in un bozzolo di silenzio e sicurezza, non intaccato dai forti respiri che ancora emetteva nel tentativo di calmarsi.
    Lui si lasciò scappare una mezza risata, stringendola maggiormente a sé, chinando il capo e appoggiando il volto contro la sua testa.
    «Se è per questo, io non sono nemmeno certo che il tuo nome sia veramente Andrea» ribatté lui, sussurrando tra i capelli di lei, il fiato a propria volta spezzato.     Le emozioni scatenate dal loro incontro che si affollavano l’una sull’altra libere finalmente di prevalere sul terrore che lo aveva colto fino a quando lei era rimasta seduta in bilico tra l’interno e l’esterno. Adesso si sentiva le gambe tremare e le braccia pesanti. Adesso che era tutto finito.
    «Mi chiamo Grazia. Grazia Doni» ammise stringendo inconsciamente – ma forse non troppo – la maglia di lui sulla schiena nel tentativo di non permettergli di spingerla via come pensava avrebbe fatto. Con quello tutti i veli erano caduti, ogni menzogna nella discussione, ogni lato di sé che non avrebbe mai pensato di rivelare – a lui o ad altri.
    Lo sentì sorridere tra le ciocche ormai arruffate dalla mano che le teneva la testa.
    «Piacere, Grazia» la scostò da sé, senza lasciare che l’abbraccio si sciogliesse, per tornare a guardarla in volto e asciugarle le poche lacrime superstiti con un dito, sorridendole «il mio nome è Andrea»
    «Andrea?» gli occhi le si spalancarono increduli, gemelli della reazione avuta da lui poco prima – o forse giorni o ore – quando lei aveva scelto quel nome come falso, luccicanti come argento per via delle lacrime «Ma sul serio?»
    «Andrea Nobili» confermò ridendo e lasciando che lei si perdesse nuovamente nel suo sguardo prima che riappoggiasse la fronte sul petto di lui, liberando a propria volta un riso breve e sospirato, a riprova di quanto la vita potesse essere assurda, imprevedibile e piena di coincidenze. Come il loro incontro.
Poi gli diede un leggero pugno allo stomaco, non sufficientemente forte da fargli sentire dolore ma abbastanza improvviso da farlo istintivamente chinare in avanti.
    «Ehi!»
    «Questo è per avermi gridato contro» bofonchiò a mo’ di spiegazione, finendo di asciugarsi le lacrime e aspettando che lui smettesse di borbottare improperi a bassa voce e si raddrizzasse nuovamente, un sorriso meno lieve a illuminargli il volto. Poi si alzò repentina sulle punte, aggrappandosi alla maglia ancora umida, per sfiorargli le labbra con le proprie. Lui spalancò gli occhi.
    «Doveva essere una specie di grazie?» si arrischiò a chiedere cercando di non fraintendere il gesto. Se c’era una cosa che aveva capito di Grazia, era che poteva dimostrarsi estremamente volubile. Una lunatica, un po’ come lui. Sorrise ancora. Un po’ tanto, forse.
    «Inammissibile!» una nuova voce – nuova solo all’ordine del giorno tra loro due – s’intromise facendoli voltare di scatto. La bibliotecaria, quella simpatica che controllava il livello di nicotina assunto giornalmente da Andrea, sembrava marciare nella loro direzione, battendo con stizza i tacchi sul pavimento.
    «Se volete fare i piccioncini trovatevi una stanza!» sibilò inviperita, fulminandoli con lo sguardo e indicando seccamente le scale da cui era salita «E ora fuori di qui!»
    Andrea – come sapeva di poterlo chiamare – ammiccò una volta alla donna prima di portare il suo sguardo in quello di lei, aggrottando le sopracciglia e atteggiando il viso in una smorfia che lei interpretò come fintamente dispiaciuta.
    Espressione in cui lei riconobbe sollievo – perché tutto era finito in quello che sembrava veramente il migliore dei modi – preoccupazione – perché se quella donna fosse arrivava solo poco prima, allora la vicenda si sarebbe potuta anche concludere diversamente – divertimento – perché, in fondo, l’ingresso imprevisto non aveva rovinato un bel niente – e malizia. Perché non erano altro che puntolini variopinti in un’intera valle di grigio opaco, spento nella fioca luce della sera.
    Andrea tornò a chinarsi in avanti, facendo aderire le loro fronti e intrecciando le proprie dita con quelle di lei, inumidendosi le labbra.
    «Adesso ho la bocca che sa di sangue» guardò di lato studiatamente indifferente, cercando fino alla fine di trattenere le risa. Si picchiettò il labbro inferiore con un dito e smise di fingere, socchiudendo le palpebre e sussultando anche con le spalle ad esternare tutto il divertimento che l’aveva colto. Ridendo come non credeva avrebbe mai fatto, all’inizio di quella giornata.
    Scoppiò a ridere anche lei, perché in fondo non c’era nient’altro a circondarli. E i fantasmi di quanto era successo sarebbero potuti essere affrontati più avanti e, perché no, anche insieme.
    Grigio, solo grigio.
    Come tutte le sfumature nei loro occhi quando si era riaccesa la speranza.
 
***
Alle volte basta solo piangere
(respirare, chiudere gli occhi, sperare)
Perché il mondo ci sembri un posto migliore.
 
 
 
End?
 
 
 
 
Questa storia è dedicata a Laura, che nella sua fragilità è stata in grado di continuare a vivere.
Grazie per averlo fatto.
 
 
AliasNLH


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