L'angolo nel buio

di Aleena
(/viewuser.php?uid=27691)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I – QUI E ORA ***
Capitolo 2: *** II - Desideri ***
Capitolo 3: *** III - DESTINI ***
Capitolo 4: *** IV – Rituali ***
Capitolo 5: *** V – FANTASMI ***
Capitolo 6: *** VI – Cambiamenti ***
Capitolo 7: *** VII - DESERTI ***
Capitolo 8: *** VIII - Città ***
Capitolo 9: *** IX - GABRIEL ***
Capitolo 10: *** X – Segreti ***
Capitolo 11: *** XI – RIVOLTE ***
Capitolo 12: *** XI - Fine ***



Capitolo 1
*** I – QUI E ORA ***





I – QUI E ORA

 
 
  La voce usciva distorta, filtrata attraverso la cassa distrutta dell’amplificatore e alterata dallo strato di nebbia che, dal fiume, saliva in volute compatte fin al primo piano della Torre, diversi metri sopra lui; lo circondava, insinuandosi nei capelli candidi e fra gli abiti di scaglie di rettile, scivolando sulla sua pelle chiara, carezzandogli gli occhi vermigli e i lineamenti morbidi, elfici: una coltre benigna che lo celava agli occhi del mondo, alterando la sua e le figure circostanti. L’umidità ovattava ogni cosa senza tuttavia riuscire a fermare la voce del Signore: copriva il rumore della Cydho, la Calma Vita, diffondendo i suoi appelli nell’aria in una lingua morta da secoli, un idioma parlato oramai solamente all’interno delle bianche, marmoree Cattedrali del Deserto.
Nulla si muoveva eccetto la figura ammantata e silenziosa: un’ombra nelle tenebre del crepuscolo, sicura fra le sue simili. Sorpassò la mole dell’Arco di Nahraa, svoltò in un vicolo stretto e umido e continuò fin dove neppure la nebbia osava avventurarsi, quindi scese una stretta rampa di scale, attento a non scivolare sui gradini umidi di brina: la Città Bianca era infida, una tomba di roccia candida senza pietà, gremita di anime senza scopo votate al Suo servizio.
Perfino lui, perfino in quel momento.
C’era stata un’epoca in cui il maschio non avrebbe saputo orientarsi; ma era stato tempo addietro, quando la grande città era per lui solamente due ali di palazzi regolari e strade intrecciate che si estendevano per miglia fiancheggiando le sponde troppo basse della Cydho. A quel tempo era privo di scopo, un fuggiasco scampato per miracolo ad un deserto che, credeva, avrebbe fatto meglio ad inghiottirlo. Era un reietto e un ragazzino, nonostante tutto. Ora il maschio avrebbe potuto scivolare attraverso i vicoli come in un vestito indossato molte volte, scomparirvi all’interno e riemergerne indenne: la Città non aveva segreti, non per lui che aveva visto le albe levarsi nel cuore della notte e brillare sopra i falò delle Streghe nelle sabbie; lui, che aveva avuto il privilegio di guidare i prigionieri delle ombre dritto incontro alla sua vendetta.
Per il maschio l’oscurità era sorella, la nebbia protezione e i vicoli casa.
Man mano che la depressione della Cittadella Inferiore si avvicinava, il silenzio si affievoliva e la Sua voce si distorceva, mutando da una nenia ipnotica a una voce metallica e vendicativa, fino a trasformarsi in qualcosa di blasfemo e inumano: il suono di un lamento di demoni udito attraverso un velo d’acqua. Il maschio arricciò le labbra in una smorfia infastidita che somigliava troppo ad un mezzo sorriso e gli occhi fulminarono l’altoparlante. Era un brutto segno, il peggiore: quegli uomini non Lo temevano, non più.
Fuochi di un grigiore spettrale ardevano sotto i suoi piedi, allungando le ombre della balaustra fin quasi agli usci delle ultime case: il maschio si abbassò, le ginocchia quasi a toccare il suolo, ed estrasse una lama ricurva dal fodero di cuoio scuro. Era lì per ascoltare, ma le precauzioni non erano mai abbastanza.
Strisciando, sempre in quella posizione acquattata, si fece più vicino alla balaustra. Sotto di lui, un salto di venti metri lo divideva dal suolo – ma non c’erano altre strade: quello era il luogo in cui il dislivello era più basso, l’unica via per calarsi nella Cittadella Inferiore che non prevedesse un documento formale. Ma prima… Shasta lasciò scivolare un ginocchio a terra e calò il cappuccio sul volto a celare i capelli candidi e il volto contratto; sotto di lui, tre uomini sedevano attorno al fuoco freddo e ne usavano la luce per rischiarare il gioco di carte mentre, più lontano, una donna mostrava la mercanzia ad un quarto maschio, che passò oltre, scomparendo in un vicolo.
Parassiti, fu il pensieri dell’ombra acquattata nella Città Alta, e poi ci sarà da attendere che questi idioti decidano di andare a morire da qualche altra parte.
Non poteva permettersi che qualcuno lo vedesse, perfino gente come loro. Con un sospiro, si dispose all’attesa, spostandosi a fianco di un basso muricciolo, che l’avrebbe protetto dagli occhi indiscreti degli uomini della Cittadella. Non doveva temere che qualcuno, dai palazzi vicini, s’affacciasse e potesse notarlo: nessuna abitazione nel quartiere della gente comune aveva finestre che dessero sulla balaustra e la depressione che li divideva dagli esseri inferiori reclusi là sotto.
Dunque si sedette sul terreno umido e freddo, la schiena poggiata al muschio verde che infestava la pietra vecchia dal muricciolo, e chiuse gli occhi. Non dormiva; pensava. E, come ogni volta che lo faceva, irrimediabilmente la mente ripercorse le vicende che l’avevano portato a Soham.
Sulle ali del profumo di muschio e nebbia, il maschio ricordò Che´el Phish e il suo tradimento.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II - Desideri ***


II - DESIDERI

 
 
  Il respiro di Kania s’era andato placando man mano, sfumando lentamente dall’agitazione alla quiete serena che precede il sonno; quasi distrattamente aveva allungato un braccio e ora il pesante calore di quella sua pelle pallida riluceva sullo scuro sterno di Shasta, simile ad un serpente albino pronto a stringerlo mortalmente. Non sarebbe stato così, lo sapeva: quello era un semplice gesto d’affetto, niente più dell’espressione dell’attaccamento di Kania verso di lui; e, per quanto lo infastidisse la morsa gentile con cui l’uomo1 l’avvolgeva, lo jaluk2 aveva preso l’abitudine di lasciarlo fare. C’erano voluti interi cicli perché Shasta permettesse a Kania di dividere con lui il letto dopo il sesso, tempo durante il quale il ragazzo umano aveva riposato dapprima nella cuccetta di paglia e stracci sulla quale era cresciuto, poi in fondo al giaciglio dello jaluk: qualcosa che Shasta ancora faticava a comprendere, assieme a quella sorta di attaccamento morboso alla sua persona.
C’erano notti in cui Kania lo stringeva forte, altre in cui il suo viso si allungava sul piccolo cuscino riempito di muschio come in cerca della bocca di Shasta, del bacio velenoso dello jaluk: restava immobile, quasi in attesa, e spesso il suo volto chiaro e infantile scendeva ancora, accontentandosi dell’incavo del suo collo; altre volte Shasta apriva gli occhi e Kania si allungava, cercando di strappare un briciolo di qualcosa dal volto dello jaluk, che reagiva scansandolo e cacciandolo a terra con una spinta. Kania non si ribellava, non l’aveva mai fatto: era un cucciolo docile, pronto ad obbedire ad ogni desiderio Shasta esprimesse, e questo era quello che eccitava di più lo jaluk, il pensiero che così doveva sentirsi una femmina quando chiamava nel suo talamo un maschio – la sensazione di controllo, di potere, il servilismo che per tutta la vita uno jaluk non faceva altro che sognare di poter provare e che Kania donava a lui ogni giorno. Qualcosa di proibito, una trasgressione alle regole della società: quel ragazzino umano, troppo ingenuo per essere definito adulto e troppo insignificante per essere notato, era la cosa più preziosa che Shasta avesse mai avuto: un assaggio della vita privilegiata di una femmina, la dimostrazione che lui non era un maschio come tutti gli altri.
Shasta era stato ben consapevole dei rischi e abbastanza attento da evitarli: aveva ricavato, in una delle tante case isolate che c’erano nei quartieri periferici, una piccola stanza nella quale Kania aveva consumato gran parte della sua breve vita - votata all’attesa del rientro del suo padrone - e nella quale s’era rifugiato, silenzioso come un’ombra, quando altri jaluk o schiavi s’erano aggirati nei paraggi. Attento a non consumare più razioni di quante gliene fossero dovute, lo jaluk aveva diviso metà della sua mezza porzione col ragazzino, elargendogliela come un dono che il giovane umano riceveva con gratitudine quasi patetica. Aveva insegnato alla creatura spaventata che Kania era stato ad evitare le grotte oscure fuori da quella casa silenziosa, dicendogli che la sicurezza era lì, nell’abbraccio caritatevole del suo unico padrone – un abbraccio ben più duro di quello che gli stava riservano ora il ragazzo umano, ma sicuramente più efficace: aveva salvato la pelle ad entrambi, finora, e ne andava fiero. Seguendo il filo di quell’idea dal sapore dolce, lo jaluk sorrise al pensiero dell’inganno che, con successo, aveva perpetrato all’insaputa della sua intera genia, aprendo il viso scuro ad una smorfia che era nel contempo di soddisfazione ferina e gioia violenta: un misto di emozioni che erano vicino all’esaltazione, al desiderio. Senza pensarci, Shasta aveva sollevato una mano al volto, lasciando che le sue dita scivolassero dapprima fra i fili argentei che erano i suoi capelli quindi in quelli corvini di Kania, in una carezza che non aveva nulla di dolce ma che, anzi, era carica dell’eco di quel sorriso e di una nota di possesso.
«Mio signore?» la voce di Kania si era alzata, fievole come se provenisse dall’angolo più remoto dei suoi sogni. Senza aprire gli occhi il giovane si fece più vicino, facendo aderire il petto al braccio sinistro di Shasta, che non smise di passargli le dita fra i capelli. Si, è senza dubbio un bell’animaletto, pensò con soddisfazione.
«Dormi.» Ribatté secco lo jaluk, enfatizzando la nota conclusiva insita in quell’unica parola. Lasciami accarezzare questi bei fili troppo simili alla mia pelle, vibrava l’eco della frase non detta, lascia che le mie mani danzino dove vogliono.
Kania non replicò, ma il suo viso si alzò verso l’alto, le labbra che cercavano un contatto al quale non erano mai state abituate, qualcosa che doveva venirgli dal suo sangue umano. Improvvisamente Shasta sentì il calore montare dal collo, risalendo in spirali verso le tempie: una sensazione sgradevole, il segnale dell’ira che minacciava di sopraffarlo. Odiava quando Kania cominciava a pretendere qualcosa – gli ricordava quando il suo servo era ancora bambino e lo guardava con quegli occhi troppo carichi di innocenza, uno sguardo che non era mutato negli anni.
Repentino, Shasta sollevò il busto in un gesto talmente improvviso e inaspettato da spaventare Kania che, ancora intontito dal sonno, si ritrovò con la testa poggiata in grembo allo jaluk.
«Togliti. Vattene di sotto!» sibilò Shasta in una nota bassa, greve e carica di minaccia. Kania non attese oltre e lo jaluk rimase a guardare il suo corpo giovane e nudo scomparire oltre l’orlo ligneo dell’uscio. Solo allora si accorse di quanto fosse fresca la notte del sottosuolo.
 
  La campana del risveglio lo trovò seduto sul materasso troppo duro, intento a stilare un inventario mentale. Non aveva dormito molto durante quel turno di riposo, come in nessuno dei precedenti: la sua razza non necessitava del sonno tanto quanto quella umana – il fatto che gli uomini sprecassero buona parte della loro troppo breve vita dormendo gli sembrava assurdo, contro natura – e Shasta, in particolare, odiava dormire più di quanto gli fosse indispensabile. Dunque scattò in piedi, allungandosi ad afferrare la casacca col marchio della Casata in cui serviva e il piwafwi3, che s’avvolse sulle spalle all’ultimo, mentre l’uscio si chiudeva. Doveva tornare indietro prima che qualcuno notasse la sua assenza o la sua camera vuota, il letto intatto. Essere in anticipo sugli altri lo confortava: nella parte più infantile della mente credeva che questo suo zelo estremo potesse salvarlo da punizioni o inconvenienti come quello che, sedici anni prima, aveva portato Kania nella sua vita. Niente più punizioni, niente più distrazioni si ripeteva, strisciando attraverso il silenzio immobile e afoso della stretta grotta dal soffitto basso che separava il quartiere abbandonato in cui aveva rinchiuso Kania – una zona ancora all’interno del perimetro delle mura cittadine, sebbene abbastanza periferica da essere scarsamente presidiata - dalla grande caverna in cui sorgeva Che´el Phish, la capitale, coi suoi vicoli e le sue leggi. Coprendosi il petto con un gesto istintivo, Shasta attraversò gli stretti e bui percorsi velocemente, come faceva da duecento anni a quella parte, all’incirca da quando era stato in grado di badare a sé stesso abbastanza da poter essere allontanato dalla casa di sua madre. Fuori dalle vie, laddove i palazzi d’ossidiana e marmo diradavano, la luce rossa dei fiumi di fuoco che scorrevano nei loro letti a decine di metri sotto la terra irradiava un bagliore tenue che permetteva agli Schiavi di Via di muoversi agilmente, svolgendo i loro compiti senza dover troppo sforzare la vista. Di quella luce fioca e intermittente Shasta non aveva bisogno, anzi: i suoi occhi erano fin troppo sensibili a quella luminosità, la sua pelle scura stranamente refrattaria al calore opprimente ed eterno che avvolgeva in spirali la città concentrandosi nel suo centro: il grande Tempio della Dea, un luogo in cui non gli era permesso entrare. I suoi compiti si limitavano alla sorveglianza delle basse mura che circondavano la residenza della Matrona Capofamiglia, una delle sei che reggeva il governo di Che´el Phish, tanto potente che perfino i suoi accoliti maschi avevano l’onore di poter esibire il simbolo della sua illustre casata.
I turni di guardia erano stabiliti a seconda del gradi militare e della parentela con la Capofamiglia: un Generale doveva alla guardia in media un decimo rispetto ad un soldato semplice, ossia tre giri di clessidra rossa ogni due turni di astro - il che voleva dire che a Shasta toccava restare ad osservare il disco solare comparire due volte all’interno del grande foro circolare posto molti metri sopra di loro, al centro della cupola rocciosa che era il tetto di Che´el Phish. Gran parte di questi turni erano votati al silenzio: uno jaluk doveva chinare il capo al passaggio di una femmina e prodigarsi in inchini se questa era una Matrona, un’erede o una Sacerdotessa, gradi che il vestiario indicava; nel tempo restante Shasta osservava gli schiavi girare le grandi clessidre sopraelevate che scandivano il tempo in quel mondo privo di giorni e notti, pensando al sapore che avrebbe avuto la pelle di Kania al loro prossimo incontro, all’odore greve dell’orgasmo che rimaneva a volte per ore nella stanza spoglia, aleggiando come un miasma nell’aria immobile e torrida. Spesso, quando questi pensieri lo tormentavano più del calore – o quando il tempo da dedicarvi era molto – Shasta ripercorreva col pensiero le strette vie verso la casa desolata con il desiderio in corpo, salvo poi avventarsi sul ragazzo umano con tutta la foga e la passione represse, cosa che aumentava solo l’impazienza per la fine del turno; e mentre nella sua testa si alternavano ricordi e desideri, fuori il suo volto era atteggiato a gelida compostezza: non dava a vedere nulla che non volesse espressamente far trapelare.
Talvolta capitava che Dresden dividesse il turno di guardia con lui – cosa che gli provocava una distrazione, mutando l’oggetto dei suoi pensieri -, più spesso era affiancato solo dai bracieri decorativi. Dunque non fu per lui una sorpresa il non trovare alcun ilythiiri4 ad attenderlo o ciondolante lungo le strade in lastroni: dopotutto era il terzo turno, quello appena successivo l’inizio dei riti nel Tempio. La folla di femmine, guardie e mercanti non si sarebbe fatta attendere troppo ma, con un poco di fortuna, Shasta l’avrebbe evitata: la sua postazione, quel giorno, era ragionevolmente lontana dalle vie maggiormente frequentate, lungo un tratto di perimetro che confinava con la parete ovest della grotta. Disponendosi all’attesa, Shasta distese il busto e poggiò le mani sulle impugnature dei due kris ancorati dalla cinta ai fianchi, allungò lo sguardo verso il soffitto e si perse nei suoi sogni.
Non vide Dresden che, correndo a perdifiato, superò l’angolo alla sua destra e scomparve nel tunnel dal quale Shasta era sbucato.
 

*

 
  Quello che seguì fu così confuso che Shasta dovette sforzarsi non poco per ricostruirlo, sebbene lo schema generale degli eventi gli fosse noto.
Erano trascorsi meno di due giri della piccola, veloce clessidra dalla sabbia arancione quando un manipolo di soldati era sbucato dal tunnel alla sua destra, trascinandosi dietro due figure avvolte in stracci insanguinati. Dei prigionieri, aveva pensato Shasta, due idioti che hanno tentato la fuga. Non era infrequente che succedesse, anzi: c’era sempre qualche temerario che credeva di poter lasciare il sottosuolo e che finiva, nel migliore dei casi, a vagare nel buio assoluto dell’Underdark, attraverso cunicoli sempre più stretti in direzione della belva che l’avrebbe divorato, del crepaccio che l’avrebbe risucchiato o degli stenti che l’avrebbero spento. Una fine misericordiosa, giudicava Shasta, molto migliore di quella che sarebbe toccata ai due nel Tempio. Sacrificati. Dati in pasto alla dea, in eterno. Shasta alzò quasi impercettibilmente le spalle, riflettendo che non erano fatti che lo interessassero: peggio per loro, se l’erano voluta.
«Parli ancora con te stesso, Venorsh?» disse una voce bassa e cristallina alla destra di Shasta, che ne avrebbe potuto riconoscere il tono canzonatorio e vagamente annoiato ovunque.
«Da quando in qua mi chiami per cognome, Dresden?» domandò lo jaluk a mezza bocca, non abbandonando la posa contegnosa che gl’era richiesta neppure per voltarsi ad osservare l’amico appena giunto, silenziosamente com’era suo modo, al suo fianco. Dresden era più giovane di lui di una decina d’anni e suo parente ala lontana. Erano cresciuti insieme e, quando l’ambizione bruciava un po’ di più, Shasta sognava di sostituirlo a Kania, un giorno. Che vittoria sarebbe stata allora: sottomettere un maschio della sua stessa genia l’avrebbe fatto sentire importante come una Matrona.
«C’è chi dice che sia piacevole cambiare.» osservò Dresden con calma, tornando a respirare ad un ritmo regolare. Aveva gli abiti macchiati di sangue, notò Shasta, e i capelli bianchi che fuggivano dalla treccia morbida in cui doveva averli acconciati quella mattina.
«Già. E chi pensa che parlare da soli non sia sintomo di pazzia.» osservò Shasta con un ironia appena enfatizzata, badando a tenere il tono di voce basso. Se qualche superiore li avesse trovati lì, a chiacchierare come giovani femmine, li avrebbe di certo fatti frustare.
«Quest’affermazione non va molto a tuo vantaggio, amico mio» osservò Dresden con sagacia, atteggiando il volto ad un’espressione mista di divertimento e compiacimento che fece fremere un nervo nel collo dell’altro maschio.
«Solo perché sei troppo stupido per capire. Questo è un turno di guardia.» obietto Shasta, mantenendo un contegno che dentro di se cominciava a sgretolarsi. Dresden era troppo a suo agio, troppo sicuro: e quel sorrisetto non piaceva per nulla allo jaluk: significava vittoria. E Dresden era troppo ambizioso.
«Lo so.»
«Dunque perché te ne resti lì? I Generali…» disse Shasta, lanciando un’occhiata veloce d’intorno, quasi si aspettasse che un superiore uscisse da dietro un angolo per riprendere la sua insubordinazione. Che sia questo quello che vuole? Sfruttare la mia vergogna a suo vantaggio? Pensa davvero di potermi far riprendere? Che io sia così stupido da farmi cogliere impreparato? A quanto pareva, doveva crederlo davvero.
«I Generali sono in consiglio con le matrone di Casa Sansiss. Ne avranno per un bel po’, temo… i prigionieri fuggiti, li hai visti?» domandò l’altro, retorico, e Shasta annui impercettibilmente, lanciando un’occhiata fugace verso il nero, deserto ingresso della grotta «Fanno parte di un gruppo di nove che ha creato scompiglio per disperdersi nei tunnel. Tre di loro sono rimasti indietro o hanno sbagliato grotta, non so, fatto sta che si sono infilati in uno dei vecchi quartieri dormitorio. Io ero di turno e credimi, amico mio, qualcuno mi maledirà questa sera quando troverà la porta della sua non più bella casetta abbattuta. Due dei prigionieri li abbiamo presi vivi, altri due hanno voluto dare battaglia. Quelli che hai visto sono diretti all’interrogatorio.» Concluse Dresden. Il ghigno si era fatto più pronunciato e ora lo guardava direttamente in volto, un gesto considerato di sfida fra gli ilythiiri. Spiazzato, Shasta impiegò un secondo di troppo per rendersi conto di quello che Dresden aveva appena detto. Quattro schiavi, non tre! Quattro, nel quartiere residenziale, oltre il tunnel, nelle case!
Il cuore perse un colpo, la maschera d’indifferenza si infranse per un secondo appena. Nell’attimo che occorse a Shasta per riprendere fiato, Dresden gli era già addosso e l’aveva colpito con forza alla nuca, togliendogli la ragione e riempiendo il suo mondo di nero oblio.

 


1 Maschio appartenente alla razza umana. Ho inserito questa nota, forse inutile, per sottolineare la differenza fra maschio, termine generico che sta ad indicare solamente il sesso del personaggio, e uomo, che si riferisce ad un adulto maschio di razza umana. 
2 In lingua drowish, maschio appartenente alla razza drow. L’equivalente femminile è “jalil”.
3 La maggior parte dei drow indossa un mantello magico schermante chiamato “piwafwi”, solitamente fatto in pelle di rettile.
4 “drow” in lingua drowish. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III - DESTINI ***


III - DESTINI

 
 
  Kania era steso sul pavimento torrido di quella piccola cantina che era stata il suo rifugio personale per quasi tutta la vita. Riposava, immerso in un sogno proibito e dolce quanto la luce del sole e altrettanto vago. Incosciente, non aveva fatto caso al trambusto che, sopra di lui, producevano le ricerche: rumore lontano di legno infranto, grida rauche e scalpiccio di tre paia di piedi troppo pesanti. Non si era accorto di nulla, e forse non avrebbe comunque sentito alcun rumore: le sue orecchie non erano sviluppate come quelle del suo Padrone.
Fu il rumore della porta che rovinava a terra a lanciare un campanello d’allarme nella sua testa: sapeva che Shasta non sarebbe rientrato presto ma non aveva modo di contare il tempo, che poteva essersi allargato all’infinito nell’arco del suo sonno, come spesso accadeva; e, se fosse stato il suo Padrone a rincasare, l’avrebbe cercato quando avesse ritenuto opportuno servirsi di lui. A Kania non dispiaceva essere usato così da Shasta e, in cuor suo, attendeva il ritorno dello jaluk con una trepidazione che aveva ben poco del servilismo e molto del sentimento, sebbene l’umano non avesse ben chiaro il nome o la natura di questa sensazione. Era stato allontanato dai suoi simili troppo presto - strappato prima dalla sua casa in fiamme e poi da un carro stracarico di corpi e lacrime – perché in lui si fosse formato qualcosa di più del linguaggio e vaghi ricordi, molti dei quali erano sprazzi di luce in un borgo che poteva essere reale o immaginato. Aveva cinque anni quando Shasta era divenuto il suo Padrone, scegliendolo fra chissà quanti altri bambini e trascinandoselo dietro in quel posto senza fuoco né luce nel quale era cresciuto. La sua prigione, come ogni tanto lo jaluk la chiamava – ma mai Kania si era sentito costretto o in pericolo, lì. Almeno fino ad ora.
Due mani nere l’avevano afferrato, sollevandolo con facilità e trasportandolo poi quasi di peso. Intontito, Kania aveva tentato una ribellione presto finita in un’esplosione di dolore all’addome e all’inguine, che l’avevano piegato e lasciato inerme. I due jaluk – sconosciuti, pericolosi, sbagliati! – gli avevano chiesto chi fosse, come avesse fatto a entrare in una casa serrata, perché si trovasse lì. Kania aveva bisbigliato qualcosa nella sua lingua e gli jaluk l’avevano colpito di nuovo, intimandogli di riferirsi loro usando l’idioma del sottosuolo. Kania aveva detto di non conoscerlo e qualcuno doveva averlo capito, giacché le domande si erano fatte insistenti; forse a quel punto aveva invocato il nome di Shasta, chiamandolo con la stessa intensità con cui un bambino sperduto chiamerebbe un padre. Qualcosa doveva essere scattato in qualcuno, giacché molte delle voci erano passate dal concitato al dubbioso all’irato. Uno jaluk gli si era avvicinato ringhiando qualcosa, un altro l’aveva afferrato per un braccio e sollevato quel tanto che bastava per rivoltarlo supino e riprendere a picchiarlo. Urlavano domande e Kania, piangendo, aveva raccontato loro ogni cosa – mai gli era stato detto di non farlo, Shasta non doveva aver previsto quest’eventualità – e poi li aveva seguiti, tanto docile quanto la sua natura e la paura lo rendevano. Ora era lì, chiuso in uno spazio scuro e angusto, circondato da voci sibilanti e dure, perlopiù femminili, che filtravano oltre l’assito dell’uscio.
 
La sensazione sgradevole di terreno secco e gelido raggiunse la mente di Shasta prima che lui stesso potesse rendersene davvero conto, trasmettendo una sensazione di pericolo ed errore a cui lo jaluk impiegò molto minuti a dare un senso. Era steso al suolo, un pavimento di roccia liscia e gelida come il bacio della morte a fargli da materasso, i polsi stretti con un laccio che li faceva pulsare dell’assenza di sangue. Non c’era un solo rumore, non una voce da alcuna parte. Il silenzio era assoluto, l’ideale per raccogliere le idee - e Shasta lo fece, cercando la falla nel suo piano, il caso che l’aveva voluto lì.
Qui… dove?
Shasta aveva paura di saperlo.
 
Una donna gridava, sibilando ordini a qualcuno che forse non c’era, forse sapeva solo annuire; non otteneva mai risposta, solo nuovi ordini, un trambusto controllato e il rumore dei passi nell’eco di una sala molto ampia.
E il tempo aveva perso ancora di senso, era ancora sfumato nel buio.
Non è mai successo, pensava, stringendo le pallide mani convulsamente al petto nudo e magro, non ti hanno mai preso. Hai sognato, solo sognato. Sei nel buio della tua tana, nella sicurezza del suo rifugio. Lui arriverà presto e ti sveglierà e poi vorrà scopare, e allora capirai che non è reale, che non è reale, che non è assolutamente reale…
Kania, rinchiuso nelle tenebre, aveva spalancato più volte gli occhi e poi li aveva chiusi, come temendo che l’oscurità potesse dissiparsi e mostrargli la falsità della sua menzogna. Quelle voci? Erano solo un sogno. I lividi? Shasta l’aveva cacciato dal letto troppo violentemente, quella volta… ma sarebbe tornato. A breve sarà con me e non dovrò preoccuparmi. Sarà qui e allora tutto andrà bene, tutto sarà normale.
Kania era riuscito a mantenersi calmo ripetendosi ogni volta lo stesso pensiero, formulato attraverso decine di parole dal medesimo significato: sarebbe tornato, non l’avrebbe lasciato indietro da solo in questo mondo freddo che odorava di spezie e fumo.
Se avesse potuto, Kania avrebbe pregato qualche Divinità, implorandola di far tornare Shasta e di farlo restare al suo fianco – ma non conosceva alcun Dio. Era stato troppo piccolo per apprendere dei propri e Shasta non gli aveva mai accennato nulla della Dea Ragno se non il suo nome. Dunque fece l’unica cosa che sapeva: si affidò ai ricordi.
Rivide il mucchio di stracci e la stretta scala di legno scricchiolante, le pareti di terra e la figura di Shasta che lo intimava di seguirlo. Bastò questo – la familiarità, l’ombra degli odori di quella casa ora davvero deserta, la voce lontana del suo Padrone che lo chiamava – a placare la sua paura, il dolore, l’angoscia.
Tutti i miei ricordi ti tengono vicino. Tutto nel mio pensiero riguarda noi… e nei miei gesti. Nei sussurri silenziosi, nelle silenziose lacrime…

Ogni pensiero di Shasta era finalizzato alla ricerca di una via di fuga.
«Se Kania è loro, l’avranno fatto parlare, confessare… quanto gli avrà detto?» sussurrò lo jaluk, i sensi talmente tesi che la nota bassa della sua voce lo spaventò quanto un tuono improvviso. Respirò, cercando di tenere il panico lontano dalla sua parte razionale. Doveva trovare il modo di negare ogni coinvolgimento, ogni azione potenzialmente pericolosa… ma come fare?
«Potrebbe avermi conosciuto ovunque, aver detto il mio nome per vendetta! Fui io a strapparlo dalla sua casa, a caricarlo su un carro e spedirlo nel sottosuolo a morire… o potrei essere stato. Il mio battaglione ha attaccato la sua città, no? Potrebbe avercela con me per questo. Aver sentito qualcuno fare il mio nome… un generale, Dresden... o avermi scambiato per un altro. In fondo per loro siamo tutti uguali, no? E le Matrone… potrebbero credermi. Devo dire loro che non l’ho mai visto, che non ho colpa, che quel ragazzo era uno dei tre fuggiti, che Dresden ha contato male...» Dresden. «Giuro che lo uccido appena esco da qui. Me lo scopo e poi lo uccido con le mie mani!» balbettò Shasta, la voce sempre più incerta e stridula, carica di panico.
Sapeva cosa lo attendeva, sapeva dove era rinchiuso e questo lo spaventava a morte.
Un maschio non avrebbe mai dovuto trovarsi lì.
 
Se solo ci fosse stato un modo per sapere se Shasta stava bene. Deve stare bene. Deve! Passerà una notte in caserma e poi verrà qui, nella nostra casa solitaria, a prendermi si disse Kania; ed avrebbe potuto perfino crederlo – avere la certezza che Shasta sarebbe arrivato con un sorriso, uscendo dai suoi ricordi, improvvisamente reale – se una voce non avesse ordinato di “prendere i prigionieri”.
 
Se solo ci fosse un modo per sapere se Kania è vivo... se fosse morto potrei difendermi, se l’avessero ucciso potrei dire che non ho colpa e nessuno potrebbe contraddirmi.
Per la prima volta, Shasta considerò seriamente se ne fosse valsa la pena. Se lo chiedeva ancora quando vennero a prenderlo.
 
La Grande Sala del Tempio era un ovale immenso sormontato da un tetto a cupola, sul quale erano scolpite scene della Caduta e Nascita – il momento in cui gli ilythiiri avevano smesso di essere elfi – e dell’ascesa della Dea, che aveva raccolto sotto la sua mano crudele l’intera genia. Bassorilievi raffiguranti la Dea in atto di cedere il domino alle jalil, dare ordini o sorbire sacrifici di sangue erano ritratte sulle pareti lisce e nere, intervallate da colonne di marmi bianchi che sembravano come inglobate dai muri. Non c’era altro se non il vuoto e una statua, l’effige di una femmina bellissima e feroce circondata dai cadaveri di svariate creature di superficie e dell’Underdark; alcuni di questi non erano altro che nemici di roccia ma altri – quattro, per l’esattezza – erano stati due jinn, un mezzosangue e un umano. Il loro sangue bagnava il terreno in macchie concentriche e irregolari fra le quali sgusciavano le piccole creature care a Lolth, la Dea Ragno. I piccoli aracnidi, che si muovevano lentamente sul pavimento liscio, agli occhi di Kania ricordarono le foglie di grandi aceri che doveva aver visto nella sua infanzia, rosse e trascinate dal vento – ma non c’era alcuna brezza lì. Solo penombra e sapore metallico.
Due guardie affiancavano Shasta, una per lato, mentre una sola era stata assegnata a Kania, che avanzava arrancando, incerto, gli occhi spalancati fissi su ciò che restava delle creature gettate alla base della statua. Il ragazzo umano era talmente spaventato che si accorse della presenza del suo Padrone solamente quando questi venne gettato in ginocchio al suo fianco, proprio sotto l’occhio tremendo della statua, che sembrava sormontarli in una pausa riflessiva, quasi fosse in attesa di capire il punto migliore per colpire i due prigionieri.  Abbassando la testa rispettosamente, le tre guardie si allontanarono di un passo e si inchinarono. Shasta deglutì, imitando i suoi simili senza tuttavia lasciare che gli occhi smettessero di saettare per la stanza in cerca di una via di fuga, un segno rivelatore, un’opportunità.
«E dunque, è questo ciò che resta» disse una voce melodiosa e gelida da dietro la mole impenetrabile della statua. Kania rabbrividì: se non avesse sentito quella voce urlare ordini per l’intera – giornata? Mese? Vita? – prigionia, avrebbe creduto che fosse stata la statua stessa a rivolgersi a loro. In parte doveva in ogni caso averlo pensato perché, quando la figura di una piccola jalil scivolò leggera verso di loro, le labbra si distesero in un mezzo sorriso di serenità, un’espressione che Shasta giudicò quasi ridicola. Il peggio non era neppure iniziato e già Kania dava segni di idiozia: sorridere, lasciare lo sguardo alzato, abbassare la guardia a quel modo era la via sicura per farsi ammazzare con dolore. Cosa che avverrà probabilmente comunque, pensò cinicamente Shasta.
«La Dea, nella sua visione, ha un piano per ognuno di noi. Alcuni divengono i suoi servi nella terra, destinati ad accrescere la sua forza. Altri divengono cibo, come loro.» riprese la Sacerdotessa, allungando una mano scura come la notte verso i corpi riversi nel sangue. Indossava una veste rossa che faceva da strano contrasto con lo sfondo nero del Tempio. «Loro sono diventati cibo per lei, nella morte e oltre. Verranno divorati in eterno nella sua ragnatela, com’è giusto che sia. Ma voi» la jalil si avvicinò, abbassandosi fino a toccare un ginocchio a terra, fra Shasta e Kania. Allungando le mani, sollevò i visi dei due maschi fino a portare i loro occhi a livello dei suoi. Occhi rossi, carichi d’ira, valutò Shasta, perdendo un battito di cuore.  «… voi, avete commesso qualcosa che va oltre. Un crimine come raramente se n’è udito. Tu, jaluk, soprattutto. Ripetimi, a chi appartiene la tua vita?» la voce della femmina era suadente, atteggiata a una falsa malia. Shasta tentò di non incrociare il suo sguardo, ma la morsa con cui la jalil serrava la sua mandibola non gli permise di far altro che abbassare gli occhi.
«Alla Dea e alle Sacerdotesse e Matrone. Loro hanno ogni diritto su di me, sulla mia vita e sulla mia morte. Io non posso oppormi, né rifiutarmi, né scegliere.» recitò il maschio lentamente.
«Molto bene. E tu, prigioniero? A chi appartiene la tua vita?» sussurrò la femmina, volgendo il capo canuto verso Kania, che sentì distinto l’odore di muschio del suo profumo.
«Al… al mio Padrone, Signora… Matrona.» balbettò Kania, incerto. Non aveva mai avuto contatti con altri drow, men che meno con una femmina, e non sapeva come comportarsi, cosa dire. Shasta l’aveva lasciato digiuno delle usanze della sua razza, ritenendo sciocco parlargli degli ilythiiri e preferendo, invece, sfogare sul ragazzo umano i suoi desideri. È un bambino, solo un bambino con un corpo da adulto, troppo stupido e ignorante per capire di trovarsi sull’orlo del baratro.
«Padrone? E chi sarebbe?» la jalil aveva esibito una smorfia di disgusto e riprovazione, l’atteggiamento di chi non sia abituato a sentirsi mancare di rispetto, sia pure lievemente.
«Il… » cominciò Kania, a disagio, lanciando un’occhiata carica di paura a Shasta – un grido d’aiuto al quale lo jaluk tentò di sottrarsi senza successo. Il volto della femmina si accese di qualcosa che era a metà fra il trionfo e l’ira. Lo sa, pensò Shasta. Che qualcuno mi salvi, lei sa!
«Lascia stare, schiavo. Tu!» tuonò la femmina, lasciando andare i volti dei due prigionieri quasi con ripugnanza. Ora puntava lo sguardo infuocato su Shasta, ogni traccia dell’accattivante, fasulla cortesia cancellata dal furore. «Hai sottratto alle tue padrone un prigioniero e ne hai fatto il tuo schiavo. Tuo! Un servo non può né deve assoggettare nessuno. Da quanto tempo va avanti?» domandò, ma non attese risposta. Chiuse gli occhi, richiamando a se con una lenta litania il potere di quella magia oscura che scorreva nel sangue di ogni ilythiiri ma che ai maschi era preclusa; e mentre la femmina dipanava verso di lui spire di potere, Shasta tentò per la prima volta di chiamare a raccolta parte di quella forza che risiedeva nel suo corpo, attirandola con la tenacia della disperazione.
Non vi riuscì.
La jalil penetrò nella sua testa con la facilità di una lama incandescente nella carne, scavando fra i ricordi e le sensazioni fino al momento in cui aveva preso Kania; seguì, immersa nella corrente delle memorie, la fuga dello jaluk e del bambino in lacrime. Vide i lunghi anni che Shasta aveva atteso, il momento in cui quello schiavo s’era trasformato in un adulto. Vide la brama che animava le loro notti e si ritrasse carica di sconcerto, il petto scosso da respiri profondi e irregolari. Per qualche istante non disse nulla, attimi per Shasta carichi del rumore del suo sangue che pulsava nelle orecchie a ritmo accelerato. Quando la jalil parlò, fu soltanto per intimare alle guardie di legare il ragazzo umano alla base della statua. Poi se ne andò, lasciando Shasta immobile al centro della sala, sotto l’occhio vigile della sua Dea.
 

*

 
  «Lolth non è sazia. Vuole il sangue dell’umano come pasto.» disse la più bassa delle tre femmine, quella che sedeva sulla portantina retta da sei maschi per lato. Le altre annuirono, facendo tintinnare i cristalli assicurati ai veli che coprivano loro parte della bocca. Il volto di Kania era una maschera priva di colori, cristallizzata in un’espressione d’orrore: lacrime gli scorrevano sulla pelle chiara del volto fino al collo e alla casacca grigia e lacera.
«Che sia sacrificato nel sangue e nel dolore» disse la jalil vestita di rosso, avvicinandosi al ragazzino e prendendolo per i capelli.
«Shasta…» mormorò Kania, lanciando uno sguardo carico d’amore verso il suo Padrone. Poi fu solo dolore, solo lacrime.
Shasta distolse lo sguardo e il pensiero, cercando di non far caso alle grida disperate di Kania o ai rumori liquidi. Non guardare in faccia la tua morte, non lo fare! Si disse. Non c’era tempo di sperare: il fatto che le matrone non avessero detto nulla riguardo a lui poteva solamente essere un gioco, un modo sadico per tenerlo ancorato alla speranza.
Così attese, mentre le grida sfumavano dalla bocca di Kania, abbandonandolo come la sua stessa vita. Le Sacerdotesse erano esperte: allungarono l’agonia quanto poterono, ma finalmente anche questa ebbe fine.
«Tu, maschio.» disse dunque la Suprema Sacerdotessa, allungando una mano sulla quale le prime macchie pallide apparivano a indicare l’età. Dev’essere una donna potente per aver vissuto così tanto, pensò Shasta, incoerente. Persino i ragni si scansano per farla passare. Lolth, mi fa paura. «La Dea non ti vuole. Il tuo corpo e il tuo sangue sono troppo corrotti, troppo pieni di… zozzura e infamia. Hai tradito la tua casata, la tua gente, la tua stessa natura. Hai cercato di elevarti al di sopra di chi ti è naturalmente superiore. Per questo, la tua condanna: bandito in eterno» tuonò la femmina e si sollevò in piedi allargando le braccia, gli occhi rovesciati. Una bassa, melodiosa canzone si allungò nell’aria: il lamento di una creatura maledetta, la disperazione di una vita di dolore.
«Drider… un drider!» disse Shasta, capendo quel che stava per succedergli: volevano trasformarlo in qualcosa di nefasto e osceno, un essere di dolore assetato di sangue che avrebbe vagato per l’eternità in cerca di morte. «Vi prego mia signora! Non un drider! No!» urlò con tutto il fiato, gettandosi a terra con disperazione. Avrebbe mantenuto la coscienza di sé ma parte del suo corpo sarebbe stato di ragno: il destino peggiore per un’ilythiiri, il segno del massimo scontento della Dea. Dolore… ne avrebbe provato molto durante la trasformazione, o almeno così dicevano le storie. E non sarà nulla, nulla, rispetto al poi. Imprigionato per sempre nel sottosuolo, nella vergogna, nell’agonia… imprigionato in un corpo che sarà solo per metà mio.
L’ultimo pensiero di Shasta, prima della trasformazione, andò a sé stesso, alle sue scelte: ne valeva la pena? Si chiese.
Poi il fuoco esplose nelle sue vene.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV – Rituali ***


IV – RITUALI

 
  In piedi dietro una colonna, Dresden mosse impercettibilmente la testa, sollevandola quel poco che gli necessitava per poter osservare la scena mantenendo una parvenza di dimesso rispetto.
Gli era stato concesso di rimanere nella sala come supporto, assieme alle altre due guardie con cui aveva trascinato i due prigionieri verso il loro destino. Dovevano attendere fin quando il rito fosse concluso, poi trascinare via la bestia in cui lo jaluk si sarebbe tramutato.
L’aver venduto Shasta gli aveva fruttato bene, ma la soddisfazione per il nuovo grado non era nulla a confronto di quella che gli dava il poter assistere alla disfatta dell’amico. Shasta era sempre stato un fastidio che doveva sopportare: sua madre era una maga più importante di quanto fosse quella di Dresden, il che l’aveva costretto a farselo amico, nonostante la pelle gli si rivoltasse dal disgusto ogni volta che gli occhi dell’altro gli si posavano addosso, carichi di quel desiderio innaturale che l’aveva infine condotto al Tempio. Shasta aveva avuto molto dalla vita, troppo: aveva scampato la punizione per i suoi desideri, era riuscito a sottrarre uno schiavo dalle prigioni e a farlo proprio e, nonostante questo, se non fosse stato scoperto nel giro di un anno o meno sarebbe salito di grado. Dresden non poteva contare su altro che non fosse il suo bell’aspetto: era un combattente mediocre e lo sapeva, ma forse un giorno una femmina importante – e aveva una precisa idea di quale -  l’avrebbe scelto come amante. Il pensiero era insieme allettante e umiliante: doveva curarsi come una puttana elfica solo per essere appetibile mentre Shasta viveva la vita con la passiva tranquillità di chi sa di potersi prendere con la forza quello che desidera. Dresden non lo sopportava. Per questo aveva insistito, pregando il Capitano sotto il quale operava di sceglierlo come guardia per il rito: voleva assistere, qualunque fosse il prezzo.
Dalla sua posizione Dresden poteva vedere l’intera parte alta della sala: le sacerdotesse avevano disperso il sangue dell’umano col quale Shasta aveva tradito il patto di servitù di ogni jaluk, ed ora il liquido rosso brulicava di piccole figure nere, che se ne nutrivano per conto della loro Madre. Tre Sacerdotesse, dall’alto delle loro portantine, avevano le mani scure avvolte da spire di fumo cangiante, che vibrava dal nero, al giallo, al viola, e poi da capo. Dalle gole delle Incantatrici sorgeva un canto che era nello stesso momento un ordine e una preghiera a Colei che le aveva generate.
«Belbau udossa l´ yorn» dicevano, nel tono lento e incorporeo della trance. «thir´ku nindol og´elend wun natha ghinda. Wun natha drider. Udos lar dos Lolth1»
«Ve ne prego, mie Signore, mie Padrone. Sono stato ingannato, non era mia intenzione… vi supplico, risparmiatemi…» piagnucolava Shasta, strisciando sul pavimento invaso da piccoli ragni inviperiti, il volto stravolto dal panico. Nessuno gli prestava attenzione, neppure gli schiavi che reggevano le portantine – come potevano? Le Sacerdotesse avevano accecato loro gli occhi e tagliato le orecchie perché non potessero sapere nulla, perché non potessero tradire il loro segreti. E poi, se anche avessero potuto sentire la sua supplica, cosa avrebbero fatto? Nessuno jaluk sano di mente avrebbe sfidato l’ira della Dea per salvare un altro maschio dalla giusta punizione.
La litania delle Sacerdotesse somigliava a un onda: si alzava e abbassava seguendo il ritmo dell’Invocazione, i toni che si addolcivano e indurivano secondo un ritmo scandito da qualcosa che Dresden non riusciva a capire, mentre le volute di fumo si allargavano, riempiendosi di qualcosa che somigliava ad un lampo fluido, poi si ritraevano ed infine si dilatarono, muovendosi come mani artigliate verso la patetica creatura che Shasta sembrava ora. Lo avvolsero, sollevandolo da terra, e gli si infilarono negli occhi, nel naso, nella bocca, nella pelle; e dove gli artigli di potere toccavano, la cute si arricciava e bruciava, come se a percorrerla fossero state lingue di quella lava che scorreva sotto i loro piedi. Quando l’avvolsero completamente, Shasta urlò a pieni polmoni, gridando un dolore talmente straziante che Dresden, incauto, piegò le labbra in un sorriso divertito, rischiando l’ira di femmine che non avrebbero comunque potuto vederlo: tenevano gli occhi chiusi, sul volto l’espressione estasiata di chi stai  godendo del più perfetto degli orgasmi, e tuttavia c’era una vena di paura nella loro voce, che spandendosi nell’aria si era fusa con l’eco di parole già dette in una cacofonia stridula e terribile, il suono di un inferno liquido e meraviglioso che stesse per sommergerli. Dresden chiuse gli occhi, scampando al rischio di finire a sua volta accecato: la potenza del rito era terribile, lo jaluk aveva immaginato che dovesse esserlo, ma questo
Finì tutto in una nota roca e vibrante. La luce del potere si spense e la sala ripiombò nell’ombra congegnale agli occhi di un’ilythiiri. E, quando Dresden venne chiamato per trasportare la creatura nel quartiere degli schiavi, non poté fare a meno di sorridere.
Perché la punizione di Shasta era stata peggiore di quanto chiunque di loro avrebbe mai potuto prevedere.

 


1 “donaci il potere. Trasforma questo traditore in un mostro. In un drider. Noi ti preghiamo Lolth. ”

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V – FANTASMI ***


V – FANTASMI

 
 
  Quando l’avevano sbattuto nella stretta cella troppo affollata, il Fantasma delirava.
«L’ho vista. Mi ha parlato.» diceva, scuotendo la testa e muovendo le palpebre, concitato. «Non era abbastanza, non… non mi voleva…» ripeteva poi. Aveva la febbre alta, la pelle calda scossa da spasmi muscolari, i denti che si serravano come tagliole. Solo una volta, quando Elta gli aveva chiesto con un sospiro basso chi avesse visto, lui aveva risposto «la Madre». Allora Elta aveva chinato il capo, come se sapesse, come se fosse la cosa più normale del mondo. Molti dei prigionieri appena presi invocavano le madri alle quali erano stati strappati, soprattutto i più giovani… e il Fantasma non sembrava avere più di diciassette anni. Così Elta aveva continuato a sanarlo, somministrandogli un po’ di quelle erbe che curava per i Padroni Scuri, fino a che la febbre non si era calmata. Quindi avevano aspettato, sperando che fosse abbastanza forte da salvarsi; e poi, dopo dodici giri della Loro clessidra bianca – Elta aveva vissuto abbastanza nel sottosuolo per capire che quell’arnese diabolico che li costringevano a girare serviva a scandire il ritmo dei giorni – il Fantasma si era svegliato e li aveva guardati con quegli occhi rossi e carichi di terrore.
«Chi sei?» gli aveva chiesto Elta, gentilmente. «Capisci la mia lingua?»
Il Fantasma aveva atteso un istante prima di annuire, come se dovesse verificare che si, in effetti poteva capire. E nel farlo si era portato una mano al viso ed era impallidito.
«Senti dolore?» aveva chiesto Elta, e il ragazzo aveva scosso il capo. «Come ti chiami?»
«Io… non lo so. Non… non ce l’ho. Credo. No… nulla.» aveva balbettato il Fantasma, gli occhi che si muovevano fra la mano pallida e il volto della vecchia umana che lo guardava, apprensiva.
«Capisco. Molti bambini nati qui non ce l’hanno, o non lo ricordano. Sei nato qui, figlio mio?»
«No. Io… » e allungò un dito, indicando il soffitto. «Mia… mia madre era una mezzelfa e mio padre… una violenza, dopo un saccheggio. Sono… ibrido, di tre razze. Io…»
«Calmati, e riposa. Andrà tutto bene.» disse Elta, passandogli una mano fra i serici capelli bianchi e poi sul viso chiaro. Non le piaceva quella sfumatura grigia della sua pelle, ma poteva non essere solo la malattia… era un bastardo, dopotutto, e glielo si leggeva in faccia. Distendendosi al suolo, poco prima che il sonno e la spossatezza le spegnessero ogni pensiero, Elta pregò per quel ragazzo e per loro che quel colore malsano fosse solo la sua natura, e non il Morbo.
 
  La vecchia umana era rimasta al suo fianco per tutto il tempo della convalescenza, o almeno così gli dissero i prigionieri. Tra loro, quella femmina era l’unica che non facesse domande: aveva preso per buona la sua menzogna e tanto le bastava, assieme alla certezza che non fosse portatore di alcun contagio. Forse per la cura ossessiva con cui lo seguiva, forse per le domande incessanti che lo confondevano, magari per il contatto con tutti quei corpi ammassati o chissà, solamente perché non era abituato all’ozio forzato, il Fantasma fu quasi contento di essere trascinato fuori dalle prigioni e attraverso gli stretti, scuri corridoi. Sapeva cosa l’attendeva, ma questo non lo spaventava più dei cambiamenti che poteva notare sul suo stesso corpo: stentava a convivere col pallore mortale della sua pelle – né scura, come i suoi simili, né rosea come le razze di superficie, ma di un grigiore soffuso e malsano – e rimpiangeva l’infravisione, di cui i suoi occhi aveva conservato in minima parte il potere. Riusciva a vedere chiaramente solamente in presenza di una luce, per fioca che sia: le tenebre profonde lasciavano spazio solo a un’ombra sfocata di ciò che aveva attorno, nella quale il Fantasma non era in grado di distinguere dettagli, men che meno pericoli in agguato. Era vulnerabile, e questo lo spaventava.
Per contro, le luci troppo forti l’accecavano ancora, ferendo gli occhi sensibili e perfino la pelle, benché la sua resistenza fosse aumentata. Un essere a metà fra due mondi, che non può appartenere a nessuno di loro. Inutile, debole! pensava, stringendosi addosso la coperta ruvida. Il freddo e il dolore erano due sensazioni che s’erano acuite: aveva perso gran parte della resistenza tipica della sua razza e ne soffriva.
Aveva dovuto persino abbandonare il suo nome: il ricordo legato a quell’appellativo strideva con ciò che era. Così aveva lasciato che gli altri lo chiamassero come preferivano; e il mondo, nella sua infinita ironia, gli aveva affibbiato il nomignolo di “Fantasma”, per il colore della sua pelle. Lo trovava beffardo in una maniera decisamente amara.
Cos’altro avrò smarrito? Continuava a domandarsi mentre, assieme agli altri schiavi, attraversava un’arcata di roccia fiancheggiata da grate di ferro corroso. Rimuginava ancora sulla sua condizione quando qualcuno l’afferrò per il colletto della camicia da lavoro, lacera e sudata.
«Dove te ne vai, amico mio? Non c’è bisogno di te, di la. Le Matrone non vogliono vedere un albino nella loro città. Immagini cosa potrebbe pensare il popolino?» gli sussurrò una voce che conosceva, il suo fiato caldo sul collo.
«Che la Dea è scontenta e che li odia. Che siamo tutti maledetti. O mi sbaglio?»
«O che sei la loro vergogna. In ogni caso, amico mio, non ti vogliono. Le porte della città sono chiuse, per te.» uno strattone, la stoffa della maglietta che si lacerava un poco in prossimità delle cuciture malfatte. Il Fantasma si voltò, piantando gli occhi dritti in quelli dello jaluk che l’aveva fermato.
«Amico? Risparmiami la tua ironia, Dresden.» sputò il Fantasma, il volto contratto in una smorfia d’odio che sembrò divertire immensamente l’altro maschio.
«Osi sfidarmi? Dopo tutto quello che sei diventato? Cos’è, con il nero della pelle hai perso anche il senno?» domandò Dresden, ironico. Con uno sguardo ammiccò verso la spada che portava assicurata al fianco, sull’elsa della quale riposava la mancina. Poi sorrise, caricando il volto di tutto il disprezzo e la soddisfazione che poteva. Ha vinto ma non gli basta, valutò il Fantasma, osservando il suo volto e la striscia di metallo sulle sue spalle; allora sollevò le labbra, mostrando i denti bianchissimi.
«Vedo che vendermi ti ha fruttato bene. Buon pro ti faccia, Cacciatore: spero che alla prossima luna nuova una tribù di orchi decida che sei troppo bello per non assaggiarti.»
«Un tempo eri più mordace. Andiamo. Sei stato assegnato allo sgombero dei tunnel per l’underdark. Rilassati, spalare merda di Lucertola1 e roccia franata non durerà molto: le bestie di laggiù sono affamate e ogni tanto sconfinano. Divertente prospettiva, vero?» disse Dresden e puntò la lama di uno stiletto contro la schiena dell’albino, difesa solamente dal pesante tessuto grezzo. Lo jaluk fece pressione, costringendo l’albino a incamminarsi verso un tunnel oscuro e deserto, che percorsero in silenzio. Fu quando la voce di Dresden ruppe il silenzio con un «Gira a sinistra.» che il Fantasma sputò fuori il ricordo che aveva cominciato a riaffiorare all’apparire dello jaluk.
«L’ho vista.» disse con un sussurro l’albino.
«Chi?» domandò Dresden con disinteresse, sottolineando la domanda con una pressione del metallo lungo la spina dorsale.
«La tua Dea. Quella che mi ha tolto tutto.»
«Cosa vorresti dire? Non puoi rinnegarla, è una bestemmia…» s’infervorò Dresden. Stavolta la lama lacerò un tratto di tessuto, l’ennesimo, assieme alla pelle. Sangue denso, nero e corrosivo cominciò a scorrere lentamente dalla ferita.
«Lei ha rinnegato me. Non mi vuole, ma si sbaglia. Tutti vi sbagliate…» l’albino sorrideva. Le parole risvegliavano il ricordo della sua trasformazione, qualcosa accaduto durante l’invocazione e che la febbre aveva cancellato. Finora.
«Che ego!» commentò Dresden, ma stavolta era cauto. «A sinistra e poi avanti, senza rallentare. E dimmi… in cosa credi adesso?»
«Nel fatto che non vi ama. Non più. E ve lo dimostrerà: siete troppo prosperi e le donate troppo poco sangue. E lei ha sempre fame di lotta, di guerra, di dolore… oh, si, sempre fame di sangue. E io lo so, io l’ho vista.»
«Tu non puoi… solo le femmine…» cominciò Dresden, la rabbia che gli incurvava le labbra. Cosa poteva saperne uno jaluk maledetto dalla vergogna più grande?
«Troppo avidi, troppo… prendiamo il potere e le diamo gli schiavi che non servono, i servi che non vogliamo, i nostri avanzi. E Lei… lei sta per nascere. E il nostro mondo non sarà più lo stesso, dopo… no, non più lo stesso se nessuno la uccide, se nessuno la ferma, se nessuno Le da quello che desidera. Perché Lo trova divertente. Ci punirà, umiliandoci.» concluse il Fantasma, trionfante. Sapeva e, per la Dea!, quanto era dolce quella consapevolezza.
«Pazzo! Sta zitto o attirerai la sventura su di me. Guardia! Guardia!» la voce di Dresden si alzò alle ultime parole, raggiungendo un tono stridulo a metà fra il disprezzo e la paura. Che mi succede? Si domandò lo jaluk, sentendo sulla schiena un brivido di cui solo molti anni dopo avrebbe compreso la natura. Un suono di passi lontani e concitati annunciarono l’arrivo di uno jaluk dall’aria annoiata, che squadrò carceriere e prigioniero per lunghi istanti prima allungare la mano verso il polso dell’albino, reprimendo a stento un sussulto di disgusto. «Legagli polsi e caviglie, e sorveglialo. È una serpe e ti si rivolerà contro appena potrà. Guardalo bene: se scappa, sarai tu stesso a rispondere alla mia Matrona.» concluse Dresden, quindi si voltò. Voleva lasciare quel posto il prima possibile, e non solo perché l’odore di merda e funghi tossici era rivoltate: la magia che gli scorreva nel sangue aveva letto qualcosa nelle frasi dell’albino. Una premonizione, un avvertimento.
Appena fu fuori portata d’orecchio, Dresden cominciò a correre. Voleva dimenticare, scrollarsi di dosso quella sensazione di catastrofe e abbandonarla a morire nelle tenebre.
Così fece. Quando le calde ombre di Che´el Phish l’avvolsero, lo jaluk non ricordava già più il gelo e la paura.

 


1 Nel sottosuolo, i Drow si muovono a dorso di lucertole gigantesche. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI – Cambiamenti ***


Piccolo spazio-me: Mi scuso per il ritardo nel postare e, sopratutto, per non aver ancora risposto ai commenti =_=' perdonatemi, è un periodo in cui non sto mai a casa :D Grazie per le recensioni, scusatemi per la brevità dei capitoli e buona lettura (sperando di non aver fatto un disastro nei capitoli finali di questa storia! )


VI – CAMBIAMENTI

 
 
  Cento anni trascorsero e, mentre nella Capitale la sabbia nera scorreva lenta all’interno della gigantesca clessidra che li scandiva, il Fantasma attendeva pazientemente l’occasione che aveva profetizzato.
Del piccolo gruppo che aveva conosciuto quando era stato destinato a quel lavoro privo di dignità, solo Alaric era sopravvissuto. Alcuni erano morti a causa degli stenti, pochi erano stati uccisi dal tempo o dai veleni dell’aria, molti erano stati divorati dai crolli o dalle bestie che si annidavano nell’oscurità. Alaric aveva perso una mano a causa di un drider che era sconfinato e che, prima di andarsene, aveva preteso la vita di una guardia e d’una femmina nanica appena arrivata. Il Fantasma aveva rischiato infine volte di precipitare nelle voragini che si aprivano dopo le danze della terra.
Gli schiavi che venivano destinati al lavoro nei tunnel inferiori erano per la maggior parte nani come Alaric, esseri coriacei abituati ad estrarre vita dalla roccia. Non sapevano nulla di Che´el Phish se non che lì avevano perso la propria libertà, divorata dalle catene pesanti che impedivano a tutti i prigionieri il libero movimento. Eppure, ogni tanto capitava che qualche schiavo umano, troppo vecchio per servire o morire nelle fosse di combattimento, o perfino qualche sorvegliante, giungesse in quella tetra monotonia con notizie dalla Capitale – pettegolezzi, per la maggiore, resoconti di battaglie, l’elenco delle casate sorte o decadute, le condanne e i sacrifici. Il Fantasma aveva prestato attenzione alle storie dapprima con una brama innaturale e, via via, sempre con meno entusiasmo, come il resto dei prigionieri. Semplicemente, cominciava a perdere interesse in una vita che non sentiva più come sua, in una città in cui non era uno schiavo dai polsi coperti di sangue rappreso e terra nera.
Delle volte lo jaluk si domandava se non fosse per via delle storia che raccontava sulle sue origini – la stessa che, un tempo, aveva inventato per la vecchia. Credeva forse davvero di essere un bastardo e non un maledetto?
Sarebbe così facile, si diceva. Poi, appena dieci anni dopo aver abbandonato il suo nome e la sua genia  - dieci lustri durante i quali aveva avuto il tempo di salvare tanti compagni di prigionia quanti ne aveva lasciati morire per mettersi in salvo; tempo durante il quale aveva assaggiato la pelle di Dagnal e l’aveva trovata ripugnante; anni che aveva trascorso rimpiangendo un essere dalla pelle più scura e sognando la vendetta - arrivò la notizia che si era stancato di aspettare. Dapprima sussurrata da guardia a guardia con fastidio, poi raccontata con divertita soddisfazione da una schiava di piacere sfigurata e infine sfumata, un pettegolezzo su cui ridere e indignarsi, una sventura apparentemente senza gravi conseguenze per tutti. Tutti, tranne il Fantasma.
Quando la bambina nacque, lo stesso fatto che fosse stata lasciata vivere fu uno scandalo, le cui propaggini arrivarono nei tunnel inferiori mitigate. A quel tempo, ancora due dei cinque nani che componevano il gruppo di schiavi originario erano vivi e il Fantasma, superato l’iniziale disagio, aveva stabilito con loro un primitivo rapporto di amicizia che gli consentiva di non dover subire anche le loro ire, oltre quelle dei carcerieri.
«Che cazzo me ne frega di una maledetta drow nata scolorita?» aveva commentato Dagnal, la compagna di letto di Alaric in quel tempo e unica femmina del gruppo, se tale non si considerava anche il mezzelfo cui una jalil aveva tagliato le palle. Una nana rossa dall’aspetto consumato quasi quanto doveva esserlo il suo corpo, un tronco tozzo dalle forme abbondanti da cui spuntavano braccia e gambe muscolose come quelle di un maschio, più adatto a scavare a terra che non a dare piacere.
«Per quelli è segno di sventura.» aveva commentato Bhor-hok, il nano tozzo senza un occhio che di lì a due giorni sarebbe stato trovato con la testa aperta da una stalattite. “Un vero colpo di fortuna” avrebbe commentato una guardia prima di ordinar loro di gettare il cadavere in una fossa.
Il Fantasma, che sentiva su di sé l’unico occhio di Alaric, era rimasto in silenzio. Aveva continuato a tacere anche quando, anni dopo, aveva saputo che quella jalil nata scolorita – maledetta, diceva la sua mente, non senza una sfumatura compiaciuta – aveva sfidato le Matrone e la società; e poi, quando le sue trasgressioni erano diventate un pettegolezzo troppo diffuso, aveva accolto la notizia della sua fuga nei tunnel direttamente dalla voce di lei.
Lavorava all’estrazione di minerali d’aragonite – un lavoro che, nonostante gli anni, continuava a considerare inadatto alla sua natura – quando aveva sentito il trambusto e le grida; e poi, anticipata dall’odore di sangue ancora caldo, era arrivata lei, una figura pallida e grigia come il vapore avvolta in una veste da soldato nera che la fasciava dal mento alle gambe, facendo spiccare ancor più i capelli bianchi, la pelle candida; era poco più alta del nano che le stava accanto e terribilmente mediocre, comune, nonostante la sua natura.
Si era arrestata di colpo, fermando con un cenno la piccola folla armata che la seguiva, un gruppo di prigionieri fra i quali il Fantasma riconobbe alcuni dei suoi compagni più recenti.
«Jaluk» l’aveva chiamato lei, e il Fantasma si era sentito portare indietro, al tempo in cui era ancora Shasta. Almeno, fino a che lei non gli aveva puntato la lana alla gola. «Amico o nemico?»
«Se mi togli le catene sarò quello che vorrai.» aveva risposto il Fantasma, e l’ombra del sorriso derisorio di Shasta era affiorata sul suo viso. Lei non aveva risposto nulla, solo un cenno del capo a beneficio del suo seguito. Qualcuno si era avvicinato e aveva infranto le catene che gli impedivano da anni d’allargare le braccia e le gambe, ma il Fantasma non l’aveva degnato d’attenzione. Guardava lei, la gelida compostezza del suo viso, la furia che le ribolliva nel fondo degli occhi e la durezza con la quale la reprimeva. Era bellissima, come una statua, e altrettanto fredda. Marmorea e albina, come lui.
«I carcerieri sono morti. Se sei ancora in grado, scegli: combatti con me o striscia dove preferisci.» aveva detto lei. La sua voce non aveva inflessioni: scivolava come ghiaccio su una roccia, emettendo lo stesso stridente, anonimo suono basso. Una voce senza pietà, senza emozioni, senza scampo.
«Combattere... chi? I miei nemici sono già morti.»
«Che’el Phish. Ho giurato di distruggerla.»
«E poi?»
«Poi la superficie. Ognuno per le sue strade.»
Il Fantasma tacque. Da un tunnel Alaric si fece avanti, seguito da cinque maschi che l’albino non conosceva. Reggevano un assortimento di armi malandate di fattura Ilythiiri, chiaramente sottrarre all’armeria delle guardie. Alaric - i capelli scuri ancora sporchi di terra e sudore al pari della tuta da lavoro - che pareva aver trovato confortevole il ruolo di guida, si fece di un passo avanti e puntò lo sguardo risoluto in volto alla jalil.
«Non mi fido, te lo dico chiaramente. La tua razza… ladri e assassini, tutti lo sanno. Ma non è questo. Non mi resta niente se non la mia vita, e non mi va di sprecarla nel tentativo di farti prendere la tua rivalsa. Questa… merdaia, mi ha convinto che non ci sia nulla di più prezioso della mia vita. Neppure la vendetta. E sono anni che aspetto. Voglio tornare fra la mia gente.» disse Alaric, l’accento delle tribù naniche dell’est accentuato dalla veemenza delle parole, e alle sue spalle i cinque schiavi annuirono come animali ammaestrati.
«Non hai nessuno prigioniero altrove?» domandò la jalil, e Alaric scosse il capo. «Benissimo. Andatevene. Trovate l’uscita o precipitatevi nella bocca di qualche drago, non mi interessa.» commentò la femmina e si girò a guardare il suo seguito «Ho un esercito di schiavi che mi aspetta. Chi vuole combattere venga con me, gli altri con loro.» concluse; dunque si volse verso una delle gallerie che si aprivano nel passaggio, imboccandola con calma.
«Aspetta!» disse Shasta, alzandosi con un movimento fluido – come un tempo, la stessa agilità… - per afferrare un polso alla femmina. «Posso indicarti i tunnel più veloci. Ho lavorato per anni qui intorno. E… prima… ero una guardia esterna. Dubito che tu abbia molta dimestichezza con la parte nobile della città e i turni di guardia, vero?»
«Fui militare» rispose la femmina, come se questo bastasse a spiegare ogni cosa. Shasta abbozzo un mezzo sorriso.
«Già. Le voci corrono anche qui, jalil. Fosti militare e nobile, prima ancora. Ma hai dato il peggio di te sui campi di battaglia. Tu conosci le arene, i tribunali e la superficie, io conoscevo la Capitale. E non ho molta simpatia per quella che fu la mia razza» concluse Shasta. Dietro di lui, Alaric contrasse il volto e tacque. Lo sapevo, si stava dicendo, ma questa faccenda non mi interessa. Non più.
«Vieni, se vuoi. Ma ricordati questo: prova a tradirmi e rimpiangerai di non essere finito nella pancia di qualche creatura del buio prima di conoscermi» disse la jalil, un sussurro appena accennato, senza enfasi, senza tono, senza rancore o minaccia o gioia; allora Shasta, che aveva per tutta la vita considerato simili frasi solo una retorica vuota, sentì nascere nel petto una consapevolezza: ognuna di quelle parole era vera. Quella femmina aveva il cuore di ghiaccio e non avrebbe avuto pietà di nessuno, perché nessuno aveva più valore della sua vendetta. Era una statua, fredda, bellissima e glaciale; e l’albino per un attimo rivide, oltre il volto di lei, quello d’ossidiana dell’idolo sotto il quale, una vita prima, era stato sparso il sangue del suo servo e amante. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII - DESERTI ***


VII - DESERTI

 
 
  Quello che successe poi è storia.
Shasta condusse la femmina attraverso vie sicure, evitandole l’imboscata dell’esercito, e lei conquistò la sua vendetta, bruciando il mondo che l’aveva creata. Al riparo nelle retrovie, l’albino osservò il tempio collassare su sé stesso e le sacerdotesse urlare, cercando d’invocare un potere che non rispondeva più loro. Lolth, la regina volubile e bellissima, aveva abbandonato quel luogo, voltando le spalle alla sorte dei suoi figli troppo avidi. Gli schiavi conquistarono le macerie e disseminarono cadaveri prima di riversarsi fuori, verso la superficie, lontano dal calore e dai ragni che, sfuggiti alle fiamme, bevevano avidi il sangue che la battaglia aveva versato per loro. La Dea godeva i frutti della sua vittoria e Shasta quelli del suo tradimento.
Poi, prima che potesse rendersene conto, il maschio si trovò all’esterno, fra correnti d’aria gelida che l’avvolgevano e il peso del cielo stellato che l’opprimeva con la sua vastità, intento a dire addio all’artefice della distruzione del mondo che conosceva.
«Dove andrai?» chiese l’albino alla femmina. L’aveva condotta fuori mentre la battaglia imperversava e lei aveva atteso, nascosta al limitare dello sbocco d’un tunnel, la notte.
«Camminerò nell’ombra e mi abituerò al giorno. Dove, lo deciderà il destino.» rispose l’albina, senza enfasi né gioia, né paura.
«Sei molto poetica, jalil» sospirò Shasta, facendole un breve inchino strafottente.
«La liberà mi fa sentire ispirata» disse lei, piegando appena le labbra, forse a sottintendere un tono scherzoso che non riusciva a trapelare dall’assenza di inflessioni della sua voce.
«Anche a me. Che ne dici di continuare insieme? Verso sud, verso la luna che ci somiglia così tanto, pallida e silenziosa com’è» si sentiva euforico, inebriato dalle possibilità: era libero, veloce come un tempo e più forte, con un mondo davanti e una vittoria alle spalle.
«Non ho bisogno di un’amante.»
«E io non sono ancora caduto così in basso da volere una femmina di così scarso valore fra la nostra genia. Però sai combattere, e io ho avuto frequentazioni ben peggiori di un’albina.» la sfotté Shasta, quel mezzo sorriso appiccicato alle labbra come un tumore irrisorio: inadatto e fastidioso.
«Mi diverti, lo sai? Ma no, io vado a nord. Ho un’illusione da cercare.» la femmina si alzò, raccogliendo il fodero di una sciabola lunga più del suo braccio.
«E sia.» disse Shasta e si voltò, lasciandola ad avvolgersi un mantello rosso sopra la divisa da guardia che ancora indossava, macchiata del sangue dei suoi stessi commilitoni. Aveva percorso diversi passi quando, improvvisamente, si voltò di nuovo verso di lei e disse «Come ti chiami, femmina?»
Lei rispose e Shasta sorrise. Tipico delle nobili, sbandierare al vento il suo nome completo.
Alle spalle del maschio, l’albina si allontanò in silenzio, senza voltarsi mai: non avrebbe rivelato il suo nome che ad altre tre persone in tutti i lunghi anni che le restavano da vivere, ma di questo Shasta non venne mai a sapere. Le loro vite, come le loro strade, furono diverse.
E, mentre Leona e la Guerra attendevano la femmina, i vicoli di Soham, dall’altra parte del mondo, erano il futuro di Shasta. 
 

*

 
  Il ricordo del deserto era cancellato dalle sue notti.
Shasta aveva vagato senza una meta, sicuro che prima o poi sarebbe arrivato all’orizzonte e, quando la luna fosse calata, l’avrebbe potuta toccare. Camminava protetto dalla luce dell’astro notturno e, quando le nubi per la prima volta gli si addensarono intorno, l’albino non capì cosa fossero. Luci all’orizzonte stampavano fili incandescenti sulla retina, e il rumore sordo del ribollire nei cieli lo rendeva sordo, incapace di capire i pericoli. Dunque rimase fermo e, quando il temporale lo investì, la ragione vacillò e un terrore cieco lo colse, spingendolo a terra, a pregare per la sua vita. L’acqua lo colpiva, ferendogli la pelle con una gelida morsa, e luci e rumori crescevano tutto intorno a lui, alimentate dal vento tagliente. Venne il giorno ma Shasta non se ne rese conto: il nero inghiottiva ogni cosa, la pioggia negli occhi era fastidiosa come lacrime. Poi tutto finì e tornò il cielo, ancora più terso e vasto.
Le proporzioni l’uccidevano: per quanto vasta fosse stata Che’el Phish – e lo era, una delle maggiori città del sottosuolo e, per sicuro, la più popolosa di quella regione – l’albino non era abituato all’orizzonte e agli spazi aperti che gli si presentarono quando, dopo notti di cammino e giorni di fuga dalla luce, gli alberi s’erano diradati e la terra spaccata.
Il Soha non era un vero e proprio deserto, quanto una distesa di rocce e suolo bruciati dal sole che, come un anello, circondavano la zona di sabbie e tempeste; il terreno più arduo per un’Ilythiiri, anche per uno dalla pelle meno delicata come lui stesso era divenuto.
Dalle nebbie che avvolgevano quel periodo riemergeva il ricordo di giornate trascorse all’ombra di un sasso, il mantello stretto attorno al corpo e la pelle che bruciava come se qualcuno vi avesse appiccato un incendio, mentre dagli occhi scendevano lacrime salate che bruciavano la pelle dove si era spaccata.
Shasta non avrebbe saputo dire come era sopravvissuto. Vagava nella notte gelida cercando la via per tornare indietro, tutta l’euforia scemata e abbattuta dagli stenti, mentre nel giorno il sole lo uccideva lentamente giocando col dolore della sua natura, accerchiandolo e donandogli visioni attraverso la nebbia che gli velava gli occhi sensibili. Poi giorno e notte si erano fusi in un biancore omogeneo e, quando s’era accasciato al suolo rovente, completamente cieco e assetato, aveva saputo di essere vicino alla morte. Allora aveva invocato la salvezza.
E le streghe avevano risposto.
Dovevano averlo trascinato via e accudito, forse prendendosi cura di lui alla stessa maniera in cui, un secolo prima, una vecchia l’aveva risanato dalla trasformazione. Dormiva accanto al fuoco di notte e all’ombra di tende spesse di giorno, ma erano i periodi di veglia a essere carichi di sogni e visioni. Ricordava l’odore delle erbe che bruciavano, il sapore degli infusi con cui lo nutrivano e la sensazione dei loro canti sulla pelle, il brivido vibrante che provava vedendole danzare, figure senza età avvolte in veli color della sabbia e del fuoco che roteavano al ritmo di arpe e tamburi.
Alcune notti gli era vietato uscire, altre sedeva all’interno del cerchi mentre mani sapienti lo guidavano, insegnandogli a tracciare i segni nella terra e nell’acqua, a soffiare fumo e vedere il passato nelle fiamme.
Ricordava ogni simbolo, ma non un solo nome, non una singola fisionomia. Non c’erano volti indosso a quelle femmine, né colori: solo suoni, movimenti e risate, solo profumi di spezie e incenso, solo il frusciare delle vesti e il sibilo dei fuochi.
Qualcuna chiedeva in cambio un ricordo, qualcuna un bacio, altre ancora volevano giacere con lui sotto la luna piena, circondate dalle danze. Shasta non ricordava quali richieste avesse accettato e quali rifiutato.
Sapeva per certo di aver tracciato con l’inchiostro il simbolo della morte su una femmina dalla pelle chiara come latte ma non rammentava perché – la puntura di uno scorpione, forse, o il Morbo, che qualche anno dopo avrebbe decimato intere popolazioni?
Una notte s’era destato e aveva trovato una donna china su di lui, che gli toccava la fronte e il petto con gli indici. Shasta le chiese cosa voleva e lei disse che era la sua ricompensa, poi scomparve come vento, lasciandolo solo col dolore; e poi il giorno era sorto quando non avrebbe dovuto, e una lama di luce ed elettricità aveva squarciato il cielo, distendendosi come un velo a coprire le stelle – allora Shasta, per la prima volta nella sua vita, aveva sentito il tocco dolce della luce come dovevano sentirlo gli esseri che non avevano lasciato la superficie. Le donne danzavano, nude eccetto che per una cintura di pietre levigate che tintinnava al ritmo dei fianchi e delle arpe prima, della passione che consumavano l’una con l’altra poi. Qualcuna disse che quella era la notte dei piaceri, altre che l’orgasmo era la loro preghiera.
Poi vennero le sabbie e infine il vento caldo. Le donne si coprirono, celando il capo con veli e il corpo con sete leggere. Una di loro – capelli rossi, lentiggini, fiamme negli occhi – disse a Shasta che era il tempo del riposo. Le femmine gravide si chiusero nelle tende e le altre fecero festa, ringraziandolo per il dono che aveva fatto ad alcune di loro; e l’albino capì che le meraviglie che aveva visto e imparato erano la controparte di un patto che implicava la sopravvivenza della tribù. Allora, sentendosi usato, corse nella sua tenda e, infilato il mantello, sollevò il cappuccio e si diresse a ovest con una nuova sicurezza.
Sapeva cosa vi avrebbe trovato.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII - Città ***


VIII - CITTÀ

 
 
  Il potere delle streghe si affievolì man mano che la voce dell’incantesimo si faceva più debole, ma Shasta sapeva come evocarlo nuovamente: conosceva il segreto della parola e dei segni, ed era in gradi di vedere le sottili trame che si dipanavano attraverso l’aria e la terra. C’erano perfino lì, dove il marmo bianco sembrava aver inghiottito ogni cosa, perfino chi l’abitava: gente dalla carnagione scura e gli occhi bassi, sfiancati dal vento arido che soffiava dal deserto e dalle notti glaciali.
Soham cresceva attorno al braccio minore di un corso d’acqua, che scorreva lungo un basso argine, simile a una ferita sulla pelle liscia di una vergine, dividendo la città in due. La Cydho era l’unica cosa irregolare in quella Città Bianca: i palazzi svettavano a meno di sette metri dalle acque, innalzandosi con geometrica precisione verso il cielo, talmente alti che Shasta si chiese come potessero sostenere il loro stesso peso – se ne sentiva intimorito e, per la prima volta nella sua vita, rimpianse la bassa statura tipica della sua razza, utile nei tunnel ma che, ora, lo faceva sentire come un bambino in un mondo di adulti. Strade e vicoli sormontati da archi offrivano un passaggio attraverso quelle tombe per vivi – vene attraverso la quale la gente fluiva come gocce di sangue in un’arteria – senza tuttavia interrompere la simmetria, anzi, contribuendo ad aumentare l’austerità di Soham, che a Shasta parve da subito una città dura e un miracolo, il paradiso bianco in mezzo alla desolazione gialla.
Non ebbe che una mezza giornata per vederla: attraversò archi e colonnati, passeggiando attraverso i fori della politica e le strette piazze coperte dei mercanti, in cui l’odore del cibo e quello del sudore facevano un contrasto amaro coi profumi e le spezie. Una mescolanza di suoni, linguaggi e colori che lo sconvolse, costringendolo a deviare da quella massa di corpi indifferenti e affrettati verso altri vicoli, altra ombra, altre vite. In una piazza, una donna con la parte inferiore del corpo ricoperta di peli e le gambe arcuate discuteva con un mercante senza un braccio, contrattando il prezzo di un qualche tessuto leggero; altrove, nella notte, uno spirito dell’aria danzava nudo al ritmo di violino con un nastro in mano, che gli si avvolgeva intorno al corpo semivestito come un serpente. Shasta rimase a guardarlo, sentendo l’eco di qualcosa che credeva sopito da tempo, fino a che il soldato non gli afferrò la mano e lo costrinse a voltarsi.
«Vel´uss nota´man rraun?1» sussurrò Shasta nel sibilante, fluido dialetto del sottosuolo, cercando di liberarsi con uno strattone dalla presa del maschio, un incubo dalla pelle chiara quasi quanto le iridi, in strano contrasto con la chioma scura, fasciato in una divisa dal taglio militare tinta d’azzurro. D’istinto, la mano dell’albino scese verso la cintura, dove un tempo usava tenere il coltello. Non lo trovò: le streghe avevano preso anche quello, donandogli in cambio una tunica grigia e un mantello zafferano.
«Se fossi nei tuoi panni, starei calmo.» disse l’incubo vestito da guardia, lanciando a Shasta un’occhiata carica di minaccia. Non aveva armi in mano, ma pareva non ne avesse bisogno: la sua stazza era maggiore di quella di qualunque schiavo l’albino avesse mai visto; lo sormontava di quasi tutto il tronco, imponendo su di lui.
«Cos’hai trovato?» attraverso la folla di gente attorniata al danzatore si fece strada un uomo grasso e calvo, ricoperto di rame e argento tanto da parere un lampadario e alto poco più di un metro e mezzo, ossia quasi come Shasta. Era seguito da tre guardie, avvolte nella stessa divisa color azzurro.
«Qualcosa di strano. Vieni qui.» rispose l’incubo, serrando ancora più la presa sul polso sottile di Shasta, che rimase immobile, studiando la situazione. Aveva appena aperto le labbra in un preambolo d’ira quando l’uomo grasso si fermò davanti a lui, osservandolo con sguardo critico.
«Chi sei?» domandò, nel tono di chi fosse abituato a dare ordini. Emanava uno strano odore, un miscuglio di sangue e cenere che Shasta attribuì alla via sudicia senza pensarci troppo; aveva problemi più gravi, al momento.
«Vith dos. Vel´bol xun dos ssinssrin whol uns´aa?2» rispose l’albino nella lingua natia, mettendoci tutta la rabbia che cominciava a montare. Si era reso conto di essere ad un passo da una nuova schiavitù e di non poter far nulla per evitarlo: poteva capire quasi ogni parola di quello che gli veniva detto, ma non era più abituato ad usare la Lingua Comune dai tempi di Kania. Nel sottosuolo, la maggior parte dei prigionieri erano costretti ad usare la lingua ilythiiri.
«Questa l’ho già sentita, se non sbaglio. Ramoth?» chiamò l’uomo grasso, voltandosi verso il basso palchetto di legno e gli individui che l’attorniavano. Uno di loro si sporse, uscì dalla fila: un maschio di bassa statura con lunghi capelli di un bianco sporco, fuligginoso, che poteva essere solamente causato dalla sporcizia – indossava una lunga tunica viola e dei calzoni del medesimo colore, scelto apposta per nascondere le macchie marroni di quello che odorava come sangue e terriccio. La pelle scura, i movimenti fluidi e le iridi rosso acceso non lasciavano dubbi sulla sua natura di jaluk tuttavia, se a Shasta fosse servita una conferma, sarebbe bastata l’espressione carica di disprezzo che il maschio indossò a suo beneficio.
«Un maledetto.» disse lo jaluk, e sputò in terra, come se volesse lavarsi la bocca da quelle parole. Si era fermato a una cera distanza dal gruppo e squadrava ora l’uomo grasso, ora l’incubo vestito d’azzurro.
«Cosa sarebbe?» domandò il carceriere di Shasta, dando una scrollata al polso come per sottolineare la domanda.
«Qualcosa che difficilmente si trova vivo.» rispose lo jaluk, lo sguardo che passava dall’uno all’altro maschio della sua compagnia. Aveva un forte accento del sottosuolo che lo portava a storpiare le effe e le elle, allungandole in basse note sibilanti.
«Il che vuol dire merce rara. O sbaglio?» gli occhi dell’uomo grasso si erano accesi di interesse; scrutava ora Shasta con nuova energia, come se davanti a lui si fossero aperte un mare di allettanti possibilità.
«Avariata, direi.» fu il commento dello jaluk, ma stavolta con meno convinzione. Deve aver capito, pensò Shasta. Il guaio è che l’unico a non capire sono io, per la Dea!
«Questione di punti di vista, immagino. Cosa possiamo farne?» domandò l’incubo, ma già annuiva.
«Lui cerca sempre nuovi esemplari per il suo vivaio.» lo jaluk sorrise; una smorfia feroce e ostile, che spinse Shasta a cercare di nuovo la fuga. Invano.
Avrebbe potuto raccogliere il potere da poco ricevuto, ma non ne ebbe il tempo. Qualcuno calò un colpo sulla sua nuca e la musica, il danzatore e la folla scomparvero nel buio dell’oblio.


 


 

1 “Chi diavolo sei?”
2 “Fottiti. Che cosa volete da me?

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX - GABRIEL ***


IX - GABRIEL

 
 
  Sedeva su una dormeuse chiara come la sua pelle, avvolto solamente da una veste da camera beige che gli lasciava scoperto l’incavo del collo e le braccia, muscolose e asciutte. Lunghi capelli castani raccolti in una treccia a spina di pesce che gli cadeva su una spalla e occhi vermigli che scrutavano intorno, carichi di una noia mortale fin quando non s’erano posati su Shasta. Così Gabriel li accolse.
«Entrate» aveva intimato loro un ragazzotto vestito di giallo pallido, dall’aria servile, accennando un gesto con la mano a comprendere la stanza, un salottino che affacciava su un giardino invernale baciato dalla luna.
«Prego, prego, mio buon amico. È sempre un… piacere, rivedervi. E… ah, vedo che avete qualcosa per me» aveva detto l’uomo pallido, sollevando la schiena quel tanto che gli necessitava per afferrare un calice di cristallo da un tavolinetto di legno intarsiato. 
«Mio signore è un onore per me…» aveva detto il grassone, inchinandosi quanto il ventre gonfio glielo permetteva. L’incubo lo imitò, senza tuttavia costringere anche Shasta a tributare rispetto; sembrava anzi che volesse metterlo in mostra, lasciandolo a emergere oltre le schiene chinate, lacero e sporco di paglia.
L’uomo pallido bevve un sorso, dedicando meno di uno sguardo ai carcerieri: gli occhi erano fissi su Shasta, che resistette allo sguardo quanto la prudenza giudicò ragionevole, poi chinò la testa.
Con un gesto fluido, l’uomo si alzò e scivolò fino a lui; prese a girargli intorno, lentamente, studiandolo come un tempo le matrone avevano fatto con gli schiavi appena arrivati: gli prese una ciocca di capelli fra le mani, gli sollevò il mento e infine sorrise, una smorfia che era al confine fra l’orrore e la malia. Shasta trattenne il respiro: sentiva il suo odore e ciò che gli ricordava non era decisamente piacevole.
«Cos’è?» domandò l’uomo. Aveva un accento particolare, qualcosa d’ancestrale nella voce e in fondo agli occhi; e modi cortesi, certo. Modi da nobile.
«Un drow, mio signore. Albino. Ecco, guardate: l’altezza ridotta tipica della sua gente, la figura delicata, elfica quasi, i capelli candidi e gli occhi vermigli, l’agilità di fisico… una creatura molto rara. Il mio sottoposto drow mi ha assicurato che ce ne sono veramente pochi… tendono ad ucciderli non appena vengono alla luce, li considerano un segno dello scontento della loro divinità ragno.» il tono del grassone era deferente, ma non solo: c’era una vena di timore forse solo in parte reverenziale.
«Interessante.» commentò l’uomo, avvicinandosi ancora a Shasta – e poi fece la cosa più strana che l’albino avesse visto da quando aveva abbandonato il sottosuolo: chiuse gli occhi e gli annusò la gola, nell’incavo. «Non menti, anche se è appena percepibile.» disse poi, allontanandosi lentamente verso la sua seduta.
«Potrebbe perfino essere unico nel so genere. Il mio sottoposto mi ha assicurato che non ne sopravvivono mol…»
«Basta così, ho capito. Aliio?» l’uomo non si volse a guardare «Pagali.» disse, sbrigativo, fermandosi il minimo indispensabile. Poi, quasi con un ripensamento, volse il capo verso Shasta «Capisci quel che dico, Albino?» domandò, parlando lentamente. Lui annuì debolmente e l’uomo, con un mezzo sorriso compiaciuto, si girò verso il ragazzo «Aliio, provvedi a trovare qualcuno che possa spiegargli le regole della casa. E chiama Sharone: passerò la giornata con lei.» concluse, poi imboccò una porta e vi scomparve attraverso.
Lo vendettero per cinquantasette Saith mentre, trattenuto da una catena che gli strozzava il respiro all’altezza del pomo d’Adamo,  Shasta cercava di ingaggiare una lotta contro i suoi carcerieri. Mentre l’incubo porgeva con affettata deferenza la catena al ragazzino umano – studiandolo come un uomo farebbe con un pranzo lauto che non può gustare - l’albino scorse il sorriso compiaciuto sulla faccia dello schiavista e capì che avevano pagato bene per la sua vita. Non ne fu orgoglioso, tuttavia, almeno non subito: la sua mente si feriva attorno alle congetture, arrovellandosi su cosa l’avrebbe atteso.
Merce rara, l’aveva definito lo schiavista, e Shasta non poté fare a meno di pensarci mente lo conducevano attraverso il marmo e il velluto di stanze affrescate e poi su, fino ad una stanzetta priva di finestre, con un letto, un grande armadio e un tavolino su cui era poggiato un vassoio, che spargeva nella stanza odore di carne.
Mentre mangiava qualcuno gli disse che tutto ciò che doveva fare era compiacere il suo signore e in cambio ne avrebbe avuto il paradiso; disse che erano i prediletti, poi passò a parlare di cibo, di sangue e della strada – frasi sconnesse, parole che Shasta capiva a metà, concetti troppo difficili per le sue capacità linguistiche. Fece domande, ma il suo interlocutore non comprendeva, e ben presto lo lasciò solo nelle stanze da bagno, a riflettere sulle parole dell’uomo grasso.
 
Quello che Gabriel faceva con le sue prede più rare, Shasta lo scoprì quella notte.
Il ragazzetto venne a condurlo attraverso corridoi senza fine e lungo scalini rivestiti di tappeti ocra fino ad una grande stanza con solo un ampio letto al cento, nascosto dal baldacchino. Sulle coperte riposava l’uomo pallido, avvolto da una veste da camera color delle sabbie.
«Siediti» disse solamente e Shasta, che mai fino a quel momento aveva obbedito docilmente al comando di un maschio, di colpo sentì di poter fare tutto quello che l’uomo gli chiedeva.
Così venne avanti, catturato dalla malia della sua voce e dal fascino di quegli occhi a mandorla, il cui colore ricordava le braci morenti, simili ai suoi. «Non temere. Quel che voglio da te è solo vita, solo cibo. Non ti chiederò nulla più di quanto puoi darmi, e in cambio avrai il lusso, in cambio avrai le sete e il marmo, l’oro e il cristallo. In cambio avrai me.» sussurrò, soffiando l’ultima parola in una nuvola di fiato freddo che eccitò Shasta quanto non avrebbe creduto possibile. Gabriel passò una mano sul collo dell’albino, accarezzandoglielo piano: aveva dita gelide, come fosse fatto di pietra, e odorava di sangue e morte, ma Shasta non ci fece caso. Aveva gli occhi chiusi, il respiro che usciva mozzato. «Chiedi e ti sarà dato. È questo che vuoi in cambio?» domandò Gabriel, e le sue labbra scendevano lungo le guance e toccavano gli zigomi, la mascella, la bocca, senza mai fermarsi il tempo necessario da poterlo chiamare bacio, ma solo carezza. Shasta annuì, e Gabriel affondò le mani nei capelli candidi dell’albino, mentre la sua lingua fresca scorreva come una brezza piacevole sulla pelle infuocata dello jaluk. Poi, senza che Shasta fosse in gradi di dire come o perché, le mani di Gabriel avevano slacciato i nodi della tunica corta che gli avevano dato ed erano scese lungo il petto fino al suo sesso, eccitato e duro; e mentre lo toccava, la lingua continuava a disegnare arabeschi gelidi sul suo collo, sulle spalle, sul monte alla gola.
Poi la veste da camera scivolò via, liberando un corpo flessuoso e pallido quasi quanto quello di Shasta, e prima che potesse razionalmente accettarlo era dentro Gabriel, ansimando per sfogare quella passione che era montata come una marea improvvisa e che gli bruciava la pelle, rendendo il contatto con l’uomo pallido non solo desiderabile ma necessario, come un balsamo su un’ustione.
Mentre Shasta ansimava senza controllo, Gabriel prese a mordergli il collo: piano, dapprima, poi con maggior decisione, al ritmo della passione montante, fino a diventare doloroso – eppure era un male che aumentava l’eccitazione dell’albino, spingendolo a una foga maggiore, mentre gemiti di passione lasciavano le sue labbra. E poi, quando il sangue cominciò a scorrere attraverso il corpo riarso di Gabriel, donandogli nuova vita e vigore, l’orgasmo travolse Shasta, lasciandolo con un brivido lungo la schiena e privato delle energie, alla completa mercé del suo signore, che ne bevve la vita e poi, con un bacio, richiuse la ferita e si stese, ridendo, accanto all’albino.
 
«C’è chi vuole oro, chi desidera una vita agiata per i suoi figli o chi semplicemente vuole me. Io non nego nulla a nessuno: sono ricco e amo vedere le passioni di questo mondo. I loro desideri mi fanno sentire vivo, e più a seconda di quanto essi bramano. Per questo prima o poi tutti voi divenite miei amanti: perché solo nei coito i desideri sono spinti al limite e le passioni si esprimono, libere.» disse Gabriel una notte, mentre entrambi sedevano nel grande giardino d’inverno, circondati dal fiori autunnali. «In cambio chiedo solo che mi nutrano. Trovo che sia uno scambio più che vantaggioso per entrambi, no?»
«Ma tu… nobile. Tu… perché no… prendere… quello che vuoi. Perché… uccidere, no… non…» disse Shasta, cercando di districarsi attraverso le parole della lingua comune che gl’era imposto di conoscere. Si era sorpreso nel constatare che, nei lunghi anni trascorsi a morire pian piano nei tunnel, gran parte di quell’idioma era scomparso dalla sua gola.
«Perché non uccido, come tutti gli altri vampiri? Perché allevo le mie prede invece di cacciare?» domandò Gabriel, sollevando un poco la ninfa che teneva in grembo, attirandola a sé «Perché il mio cibo è selezionato. Colleziono solo esemplari rari, il cui sangue ha sapore gradevole o… strano. Come il tuo, mio caro: il sangue di un drow comune è corrosivo e doloroso, ma il tuo… il tuo è piccante e commestibile allo stesso tempo; diluito, eppure corposo. Un esemplare unico, questo tu sei! Come potrei toglierti la vita? Sarebbe un tale spreco. D’altronde il sangue si rigenera più o meno velocemente… e io posso attendere. Posso attendere tutta un’esistenza» concluse Gabriel e lo baciò, allungandosi sopra la spalla cioccolato della femmina che lo cingeva, smaniosa. Shasta lo lasciò fare, sebbene un tempo non avrebbe neanche contemplato l’idea – ma tutto era cambiato da allora: Shasta era in preda della malia del vampiro, il cui fascino l’aveva reso schiavo in una maniera che l’albino accettava con gioia.
Era come nella casetta, come con Kania, sebbene all’apparenza potesse non sembrare così: in fondo, il suo padrone era tale solo di fatto, giacché sotto le coperte era Shasta a prendere il potere, concedendo a Gabriel il lusso di essere il suo novo gioco. Eppure, nonostante la supremazia che Shasta sentiva di avere  sull’altro, lui continuava a viziarlo, donandogli qualunque cosa desiderasse e facendolo vivere nel lusso, permettendogli perfino di praticare la magia che aveva appreso e di studiarne le variabili in voga a Soham in quel momento. A poco valeva dirsi che così era anche per le altre settantacinque anime che componevano il suo serraglio: Shasta sapeva che quella situazione era solo temporanea. Era ben deciso ad ingraziarsi il padrone e divenire il solo beneficiario di ogni concessione.
non trovava difficile irretire Gabriel: era un essere pieno di passioni, sprofondato nel vizio senza possibilità di ritorno e nella noia tanto da trovare conforto al peso del tempo solo negli intrighi, o sotto le lenzuola. Prova ne erano i suoi gusti sessuali. A differenza sua, Gabriel non disdegnava l’abbraccio di una femmina: era insaziabile, bramoso di un contatto che non gli dava altro piacere se non quello di nutrirsi.
A Shasta andava benissimo. In cambio del suo sangue, Gabriel gli concedeva il dono di fare di lui quello che più desiderava – in fondo a Shasta cosa importava di essere nutrimento? Le ferite di uno jaluk si rigenerano in fretta, il sangue tornava a scorrere in breve tempo.
Dunque nelle notti si usavano a vicenda, esplorandosi come due predatori affamati, assaggiandosi, strappando ognuno qualcosa all’altro, convinti di avere la supremazia, mentre di giorno, immersi nell’oscurità congegnale dei corridoi, praticavano l’Arte nella sua forma più proibita, godendo del reciproco sapere, segretamente grati dei misteri che credevano di star strappando con l’astuzia l’uno all’altro.
Shasta stava perdendo la sua natura, ma non poteva farne a meno: nessuno mai gli aveva dato un piacere grande come quello che Gabriel sapeva donargli. Ogni sua carezza, ogni gemito, ogni tocco di quella pelle fredda e morta era inebriante come una droga, ogni suo morso piacevole come l’orgasmo e altrettanto distruttivo. 
Dopo i primi sei mesi, Shasta sognava di invertire i ruoli, facendo di quella reggia la sua casa e del suo padrone un servo. Dopo un anno smaniava di gelosia, vedendo femmine d’ogni razza e specie dividere il letto di Gabriel mentre lui, spossato e pallido, attendeva d’avere in corpo abbastanza plasma da soddisfare l’appetito sempre vivo del vampiro.
A due anni dal suo arrivo lasciò la casa per la prima volta, ma non gli venne neppure in mente di deviare verso la libertà tanto sognata; sbrigò le commissioni come un bravo servo, la pelle che fremeva dalla voglia di tornare in quella casa, alla voce inebriante di Gabriel.
Trascorso che fu il terzo anno, le vene di Shasta erano così piene della droga c’era il morso passionale di Gabriel che l’albino avrebbe fatto tutto pur di divenire l’unico, per lui.
Fu così che, quando il vampiro lo chiamò nelle sue stanze per affidargli un compito, non pensò neppure per un istante di tirarsi indietro. 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X – Segreti ***


X – SEGRETI

 
 
  Da quella notte Shasta aveva ucciso più persone di quante avrebbe potuto ricordare.
Gabriel ne era compiaciuto: aveva intuito ben presto il potenziale di quell’essere così raro e aveva atteso pazientemente che fosse immerso senza ritorno nel suo incantesimo prima di affidargli il compito cui l’aveva destinato. Ora, il lento agitarsi di quella massa sonnolenta che percorreva le strade di Soham era un segno che i suoi desideri si stavano realizzando.
Nove vampiri antichi vivevano a Soham quando, non meno di sette secoli prima, Gabriel vi era giunto. Nove algidi assassini, in continuo conflitto per quelle prede che si nascondevano e tramavano, cercando il modo di togliere loro la vita. Di quelli iniziali, solo cinque ora vivevano: durante la grande rivolta e il sollevamento del popolo osteggiato, Gabriel aveva stretto un’alleanza e proposto una tregua, che comprendeva il divieto di caccia nei confini della città. Non tutti lo rispettavano, ma cosa importava? Il commercio degli schiavi era ripartito e quelli che, a differenza sua, erano così sciocchi da non avere un serraglio fedele, potevano acquistare il cibo al mercato, come ogni altra persona comune.
Gabriel non era mai stato uno sprovveduto: quando, un tempo infinito prima, la sua vita come uomo era finita, aveva ricevuto il dono di ammaliare, un potere che gli era apparso modesto se confrontato con quello dei suoi simili, ma che gli aveva permesso di emergere. Nessuno poteva resistere alla sua voce, ai suoi modi, al suo sguardo: qualunque anima, fosse anche la più dura, cedeva e si gettava incontro alla sua rovina… eccezion fatta per i vampiri più anziani di lui.
Era per loro che aveva bisogno di Shasta. In città Gabriel era rispettato e nel suo serraglio amato, cosa che non valeva per la maggior parte degli altri vampiri, che non avevano mosso una moneta per farsi amico il popolino. Pensavano forse di poter tenere la città solo con la forza del timore? Non era mai stata una buona scelta, Gabriel lo sapeva. Il popolo vuole solo vivere al meglio delle sue possibilità, senza patire la fame né avere abbastanza per impigrire. Il dolore e l’ozio davano modo alle masse di pensare quanto il lavoro e una vita regolare non facevano, il vampiro l’aveva capito subito.
Su questo avrebbe giocato, per diventare il solo padrone di Soham.
 
D’un tratto di vicoli bui di Soham erano divenuti la sua casa.
Shasta scovolava attraverso gli archi e fra le ombre dei grandi viali senza essere visto, silenzioso come lo spettro che un tempo era stato. Spia, l’aveva definito Gabriel, ma l’albino non era sicuro che le spie avessero anche il compito di togliere la vita; lui l’aveva fatto senza rimorso – erano nemici del suo padrone, dopotutto, non meritavano di vivere se l’osteggiavano.
Per quello ora si trovava lì, in attesa, al limitare della città bassa - la depressione che accoglieva il popolino più modesto, i lavoratori e gli schiavi, dividendolo dall’ala dei commercianti, nobili e mercanti. Doveva uccidere un uomo e incontrarne un altro, scivolare fra le umide travature della taverna e scendere nella sala comune in cui, spacciandosi per un reietto, fomentare la rivolta.
Il malessere serpeggiava da giorni fra i vicoli nebbiosi, diffondendosi di bocca in bocca, le parole come un torrente agitato che rumoreggiava sempre più forte in attesa che la rabbia rompesse gli argini. Di lì a qualche ora, quando la notizia della morte della bambina sarebbe arrivata alle orecchie della città alta, la folla avrebbe ceduto.
Cecile, così si chiamava la piccola: figlia del giudice della città, uomo stimato per l’integrità, l’onestà e la mitezza, l’elfo che dai tempi della rivolta era stato fermo sostenitore dell’indipendenza dalla nobiltà e che già aveva perso il primogenito e la moglie, stroncati nel cuore della notte da qualcosa che ne aveva prosciugato il sangue. Gabriel aveva pianto al loro funerale, unico della schiera nobiliare ad essersi presentato, e le sue guardie da giorni pattugliavano la città alla ricerca del colpevole. Ogni tanto, qualcuna di loro veniva ritrovata pallida e con la gola aperta e rinsecchita. Allora il padrone scendeva in strada e accendeva fiaccole, donando la sua comprensione e una generosa ricompensa monetaria, quindi si intratteneva in strada ad ascoltare testimonianze e raccogliere lamentele.
Gabriel usciva molto più spesso da quando Shasta scivolava nelle ombre, talvolta riportando indietro ampolle piene del sangue delle sue vittime come dono per il suo signore, che aveva gustato il plasma del giovane eroe del popolo e della sua cara, placida madre, con soddisfazione pari alla contrizione che aveva manifestato col giudice.
Nessuno sospettava di Gabriel perché sapeva come farsi amare. Lui e il giudice, assieme ad un piccolo contingente della nobiltà, erano stati vicini nella stesura del patto che aveva posto fine alla caccia vampirica all’interno di Soham e , da quei tempi, erano rimasti in rapporti di cordiale amicizia. Come poteva un essere tanto amabile e nobile, bello e cordiale poter solo pensare di ordire l’assassinio della giovane figlia del suo stimato amico?
Shasta scivolò oltre la muraglia e si calò, stingendo forte la corda fino a terra. Un’ora prima dell’alba, il periodo in cui tutti dormivano, perfino coloro che avevano eletto della notte la loro dimora. Due strade a sud, completamente deserte e ammorbate dal tanfo della Cyhan, la piccola figlia - in quella stagione poco meno di un rigagnolo paludoso – poi a ovest, davanti alla distilleria e oltre il tempietto coperto d’edera e a sinistra.
Scalare la bassa murata che circondava il chiostro del santuario fu facile: il legno era poroso e i chiodi penetravano con facilità, lasciando segni che sarebbero passati facilmente inosservati.
Nel vestibolo tutto era silenzio: gli inni alla Terra sarebbero incominciati solo all’alba. Da dietro una porta un russare femminile, sommesso e smorzato dal legno, come i rumori di lenzuola, il gracchiare di una molla, il tonfo di un corpo che si gira. Shasta sapeva dove andare: terza porta in fondo, subito dopo le latrine comuni.
Il giudice – Shasta aveva dimenticato quale fosse il suo nome, ma gli era rimasto in mente quello della bambina – aveva mandato la figlia laggiù, nella più modesta casa della sua dea della Natura, sicuro che nessuno l’avrebbe cercata. Gabriel gli aveva detto di essere cauto: uccidi la piccola e qualche sacerdotessa nelle stanze intorno, non abbastanza perché si pensi ad una casualità ma non troppo poche da destare immediati sospetti. Lascia che la notizia ribolla, che crescano come fiori amari le congetture.
Dunque si infilò nella stanza della piccola e la tenne fra le braccia, osservandone il volto ancora modellato dalle rotondità tipiche dell’infanzia – non poteva avere più di novant’anni1 eppure ne dimostrava molti di meno - i capelli marrone tenue tipico della sua stirpe, l’innocente tranquillità del sonno: da qualche parte dentro di lui, il vecchio odio per quegli esseri perfetti che avevano bandito la loro genia dalla luce riaffiorò.
Raccolse il sangue della piccola e uscì, dirigendosi verso altre stanze, verso altre vittime casuali, prima di lasciare il tempio. Aveva un appuntamento poco prima dell’alba e non l’avrebbe fatta attendere.
 
La demonessa gli si era seduta accanto, seni accentuati lasciati quasi scoperti e occhi di brace che sapevano come accendere il desiderio.  Disse a Shasta che gli avrebbe volentieri mostrato l’amore in forme che non aveva mai sperimentato e lui la respinse senza mezzi termini, lasciandola contrariata e affamata.
«Cosa vuoi, femmina?» le disse; lei chiese tre donne di giovane età l’anno come pagamento e Shasta acconsentì a nome del suo padrone.
«Il lavoro che mi proponi è pericoloso. Se mi scoprissero… ma i sogni di qualcuno che non vive sono una tentazione. Cosa desidera colui che non può più desiderare? Quali passioni infiammano un cuore che non batte più?» domandò la femmina, sognante. Aveva la bocca carnosa e amava morderla, sicura dell’effetto che avrebbe avuto sui maschi… o almeno, sulla maggior parte di loro. La parte stupida, pensava Shasta, quella che per una trombata stanotte finirà a farsi succhiare via la vita e i sogni.
«Fatti trovare domattina davanti casa sua con questa. È una lettera di presentazione firmata dal mio padrone in persona. Non aprirla, non leggerla, non lasciarla in mano d’altri, è chiaro? Quando avrai fatto, bruciala senza guardarla e torna qui. Chiedi di Dresden.»
«È il tuo nome?»
«Cosa credi che sia? Fatti trovare qui e avrai la tua ricompensa, non ti serve di sapere altro. E mettiti qualcosa di più adatto ad una donna della città alta, per la dea!» concluse Shasta, sbottando irritato. Odiava trattare con le femmine, gli ricordavano le matrone del sottosuolo, perfette idiote capaci solamente ad aprire le gambe. Si alzò senza dirle nulla, conscio che di lì a tre giorni quella puttana sarebbe finita con la gola tagliata a galleggiare nella Cyhan, un lavoro che gli avrebbe dato soddisfazione.
Uscì in strada che quasi albeggiava: il lontano chiarore del giorno gli ricordava la casa di Gabriel, bianca come la luce e gialla come il sole, due cose che a entrambi erano precluse. Un senso di disagio e frenesia percorse i muscoli di Shasta, che si mise a correre, la corda che sbatteva sul fianco contro il pugnale corto, entrambi nascosti dal mantello.
Gli rimaneva una sola cosa da fare: avrebbe atteso il pomeriggio nella taverna e, quando infine la notizia avesse preso a girare, sarebbe giunto il suo momento.

 


1 dal punto di vista elfico e drow, un razze dalla vita infinitamente lunga e dallo sviluppo lento, quell’età dovrebbe corrispondere circa ad una bambina di cinque/sei anni umana.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI – RIVOLTE ***


XI – RIVOLTE
 
 
  Nella locanda erano radunati almeno settanta contadini, quasi tutti umani, stipati in quello spazio come bestie.
«… nessuno di noi è più al sicuro! Pensate a quella bambina, a quel pover’elfo del padre! Un uomo che si è battuto per noi…» urlava una donna dall’altra parte della sala, stringendosi al petto un neonato urlante.
« e chi ci dice che non verranno anche in casa nostra, eh? Chi ci dice che il prossimo figlio cui svuoteranno le vene non sarà tuo figlio? O il tuo? Come possiamo vivere così?» urlò un vecchio dalla voce gracchiante, vestito elegantemente; aveva allungato un dito minaccioso verso l’infante urlante che, quasi come se capisse le parole dell’uomo, aveva smesso di piangere e si era rannicchiato contro il seno della madre.
«Ci hanno relegati nei bassifondi e se ne fottono di noi.» sbraitava un ragazzetto di stalla, gli abiti sporchi di paglia.
«Chiusi nei loro bei palazzi, non possono fare a meno di spremerci il lavoro e la vita, senza lasciare nulla!» una ragazzina non più alta di Shasta lo aveva spintonato, cercando di avvicinarsi al bancone. Fra le mani teneva un boccale vuoto grande quanto la sua faccia.
«Come possiamo lasciarglielo fare, eh?»
«Trecento anni solo sono passati, e si che quelli dovrebbero avere la memoria lunga, come…» un uomo ne strattonava un altro, cercando di convincerlo della sua tesi. Fu quello che disse a Shasta che il momento era arrivato.
Lo jaluk si era seduto vicino al grande camino, in una posizione ottimale per potersi arrampicare sulla lunga tavola che correva tutt’intorno alla parete di destra. Così fece, atteggiando la faccia ad una smorfia di dolore accentuata dal rossore agli occhi – per avere il quale aveva spasmodicamente fissato le fiamme nell’ora precedente.
«Mia sorella è morta in quel tempio. Aveva solo sedici anni e era bella come la luna, perfetta. Né la mia malattia né loro non l’avevano toccata…» attaccò, la voce roca e bassa, apparentemente indifferente a chi potesse o meno sentirlo. Sembrava un uomo in preda ad un dolore troppo grande per essere espresso, che l’avesse lasciato privo di energie e senza fiato, alla mercé della vita. «Una bambina tanto buona, tanto dolce… ogni settimana veniva da me e mi raccontava degli inni e delle preghiere che recitava perché guarissi dal male che ha ucciso la nostra famiglia. Diceva che non vedeva l’ora di divenire vestale e poter scendere fra le persone, dargli il conforto che io avevo dato a lei quando era piccola e non c’era nessuno con noi.» riflettendoci, aveva deciso di accentuare la sua storia fino ai limiti dell’assurdo. Come si poteva credere ad una cosa del genere? Ma quelli erano uomini e l’unica cosa che li avrebbe convinti era un nome, un’ideale romantico sotto il quale marciare.  «Vicino al suo letto aveva questa, la stava facendo per me…» alzò una mano, mostrando una pezzuola di stoffa ricamata con un motivo di angeli e cuori. L’aveva trovata davvero sul comodino di una giovane sacerdotessa, la terza ragazzina cui aveva spillato il sangue «e ora è solo un corpo sotto la terra! Non realizzerà mai i suoi sogni, come non lo farà nessuna delle loro vittime! Io dico che non possiamo tollerarlo! Dico che è ora di invadere quelle strade e far vedere loro sulle spalle di chi poggia Soham.» la sua voce adesso era forte, tonante. Nessuno nella stanza parlava più. Quasi tutti gli occhi erano fissi sulla piccola figura dai capelli ingrigiti e la schiena ingobbita nella quale Shasta si era trasformato per loro: un ragazzo dalle orecchie tonde, con occhi azzurri come il mare. Lo stereotipo dell’innocenza.
«Come si chiamava tua sorella?» domandò una donna corpulenta, che stringeva con una mano la stoffa della veste all’altezza del cuore.
«Sheera» disse Shasta senza pensarci. E poi, come per una folgorazione «Amava ricamare. Diceva che era l’unico dono che nostra madre le avesse lasciato, e che cucire era il modo per faci sentire entrambi vicini a lei.»
Era troppo. Shasta scivolò giù dall’asse e si sedette a terra, chinando il capo come per nascondere le lacrime quando, realmente, aveva solo una gran voglia di ridere. Due donne gli si avvicinarono e tentarono di consolarlo, un’altra gli porse una ciotola di stufato freddo senza aggiungere altro. Nella sala rimbombava il nome delle due bambine, sempre più febbrile, sempre più idealizzato.
Pronti, partenza…
 
  Via!
La folla eruppe nella città come una marea in piena, ingrossandosi ad ogni angolo, ad ogni curva: una fiumana di persone di ogni razza o etnia insorsero, spinte dalla fiammella di una bugia che era solo un pretesto. Nelle case nobiliari, i prigionieri trovarono il coraggio di rompere le catene e aprire le porte, lasciando che la folla si nutrisse del loro algidi, antichi padroni. Alcuni vennero trascinati i nstrada e lasciati divorare dal sole, altri ancora bruciati o trafitti da paletti; Celydo fu trovata morta nel suo letto, senza una goccia di sangue nelle vene e con un’espressione serena di pace e soddisfazione, come se la sua fine fosse stata dolce. Solo nel grande palazzo di marmo e ambra le porte rimasero serrate: i servi, l’uno accanto all’altro, scesero nel grande cortile e difesero Gabriel, descrivendolo come un angelo misericordioso.
Lui, il vampiro, non era in casa: aveva ritenuto prudente far visita al suo caro amico Valandil, rimasto da poco l’unico abitante della sua casa. Così, quando tutto fu all’apice, poté affacciarsi dal palazzo del governo e placare il popolo assetato di sangue con un discorso pieno di amarezza e di nuove speranze.
Aveva vinto, Soham era sua, e Shasta era di nuovo la pedina di una rivolta. 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XI - Fine ***


XI - FINE
 
 
  Shasta rincasò due giorni dopo la firma della pace, passando attraverso le ombre del giardino stranamente vuoto, con un’ampolla di sangue nuova appesa al fianco; l’ultima. Gabriel lo attendeva, nascosto all’ombra di una quercia dai rami cadenti, piegati dall’età e dal vento caldo del deserto.
«Sei rincasato, finalmente. Temevo che quella succube avesse creato… complicazioni.»
«Non si è presentata, come avevi previsto, ma è stata stupida: ha lasciato che scoprissi dove alloggiava» disse Shasta, e allungò una mano a tendere l’ampolla. Il sangue al suo interno era di una consistenza strana, come fosse un liquido sul punto di volatilizzarsi. Strane correnti lo attraversavano, mischiandolo. «Che ve ne farete, mio signore?»
«Il sangue di quella femmina contiene l’essenza di Celydo. L’unico potere che valesse avere era il suo. E forse…» Gabriel lasciò la frase a metà, il volto acceso da una brama innaturale. Chiuse gli occhi e portò alle labbra il sangue della succuba, bevendolo in un solo sorso, quasi temesse potesse esservi del veleno.
Non accadde nulla.
«Padrone?» domandò Shasta, avvicinandosi di un passo. Gabriel sorrideva, gli occhi chiusi rivolti al cielo stellato sopra la sua testa.
«A me» disse Gabriel, mantenendo la posizione, e all’improvviso le forze di Shasta vennero meno: i muscoli cedettero, improvvisamente svuotati del loro vigore, mentre dalla sua gola qualcosa scivolava via, verso la figura del vampiro.
«Gabr…» cominciò Shasta, ma un brusco cenno dell’altro lo interruppe.
«Taci. Quando mai ti ho dato licenza di prenderti simili libertà, servo?» il suo tono era brusco, la voce impastata di soddisfazione «Ha funzionato, vedi? La tua vita… la sento scorrere in me, come un tempo. Come quando anche io…» s’interruppe e Shasta comprese.
«Lei… non era viva… Celydo…. Non avrebbe potuto rubare la vita ad uno spettro…»
«Un lavoro che solo quella femmina poteva fare, si. Ed ora l’illusione della vita e mia. Poter godere di ogni desiderio, ogni sapore, ogni colore… ogni luce! Senza dover rinunciare alla mia natura. Capisci?» domandò a nessuno in particolare, ebbro com’era.
«E la mia vita?»
«Conosci la verità amore mio. Devo chiuderti la bocca.» disse Gabriel con tenerezza, avvicinandosi a lui. Aveva le zanne snudate, l’espressione bramosa in volto – e Shasta rivide nel suo viso il sé stesso di un tempo, quello che aveva sperato nella morte di Kania per salvare la propria vita. Un volto senza pietà.
«Peccato, eri davvero un esemplare delizioso, amore mio. Così ingenuo, così stupidamente piano di te, così disperatamente convinto. Come se quelli come noi potessero avere altro che la supremazia. Capisci, non è vero?» aveva parlato lentamente, avvicinandosi pian piano a Shasta che, incapacitato a muoversi, aveva solo potuto osservare in volto la propria morte.
Quando i canini perforarono la pelle non ci fu piacere, né selvaggio desiderio. Solo dolore, infinito, come di mille pezzetti di ferro che rovistassero a fondo nelle sue vene, graffiandole. Shasta chinò la testa, facendola cadere sul braccio di Gabriel che, avvolto dalla brama del pasto, non sene rese neppure conto. Il dolore durò un istante – o forse una vita intera – poi la coscienza si affievolì al ritmo cadente del battito cardiaco.
«Solo il potere conta, mio caro. Né l’amore, né il rispetto, né le azioni: solo il potere, il valore del tuo nome.» disse il vampiro e su alzò, lasciando il corpo riverso a terra, all’ombra della grande quercia, dove sicuramente qualche servo l’avrebbe trovato e poi gettato.
Mentre rientrava in casa, Gabriel l’aveva già dimenticato: toccandosi il braccio dove i denti dell’altro erano affondati, cercando di soffocare il dolore che sapeva avergli inflitto, il vampiro non fece caso ai segni del morso che pian piano si rimarginavano, come non aveva prestato attenzione al rossore innaturale della labbra di Shasta. 
 
 
 

Piccolo Spazio-me: Ed eccoci alla fine :) Volevo ringraziare chi ha seguitola storia fin qui e dirvi che, si, avevo previsto che questo piccolo esperimento avesse una seconda parte, per cui avevo lasciato un finale un po’ aperto… Spero di riuscire a metterlo su carta prima o poi :D le tempistiche non sono il mio forte, come si può vedere dal tempo che è passato tra un capitolo e l’altro.
Grazie ancora :)  

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1539508