Betrothed

di LindaBaggins
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una proposta inaspettata ***
Capitolo 2: *** Pessimo inizio ***
Capitolo 3: *** Segreti ***
Capitolo 4: *** L'orgoglio dei Nani ***
Capitolo 5: *** Spiragli di luce ***
Capitolo 6: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 7: *** Il coltello dalla parte del manico ***
Capitolo 8: *** Buchi nell'acqua ***



Capitolo 1
*** Una proposta inaspettata ***


Betrothed


1. UNA PROPOSTA INASPETTATA

«No. No. NO! Non se ne parla. Tutto, tutto ma non questo
Thorin, figlio di Thràin, principe dei Nani e futuro erede del reame di Erebor, si allontanò bruscamente dal grande tavolo di pietra della Sala del Consiglio e iniziò a misurare la sala a grandi passi nervosi, lo sguardo simile a quello di una bestia rinchiusa in una gabbia. Era ancora vestito con i suoi abiti da lavoro, le maniche della camicia arrotolate fin sopra gli avambracci muscolosi: suo padre l’aveva convocato così d’urgenza che, arrivando dalla fucina, non aveva avuto tempo di andare ad indossare qualcosa di più appropriato.
Per fortuna, non si trattava di una riunione plenaria del consiglio reale, ma di un incontro privato tra lui e suo padre. Almeno su questo, Thràin era stato corretto, bisognava concederglielo. Parlare di questioni tanto private davanti a tutti non era poi così insolito, ma Thràin sembrava conoscere abbastanza suo figlio da intuire che fare subito di un argomento del genere una questione di stato non avrebbe contribuito affatto a renderlo più conciliante. Questo, tuttavia, non aveva impedito a Thorin di dare in escandescenze quando suo padre gli aveva rivelato il motivo per cui l’aveva fatto accorrere tanto di fretta dalla forgia. Stavano affrontando quella conversazione già da parecchio tempo, e le loro capacità di intesa sull’argomento si erano finora rivelate piuttosto scarse.«Thorin, figlio mio, per l’ennesima volta, ti imploro di essere ragionevole.»
Thràin, figlio di Thror il Re sotto la Montagna, lo fissava con aria grave da sotto le cespugliose sopracciglia castano rossicce, mentre, sul tavolo, un possente pugno chiuso ricoperto da una peluria dello stesso colore, si contraeva ritmicamente facendo sbiancare le nocche. Un vizio che Thorin, sebbene di temperamento collerico come tutti i maschi della sua famiglia, non aveva ereditato. Al contrario di suo padre, lui tendeva a lasciar sfogare la rabbia, piuttosto che a inibirla.
«Ragionevole? Ragionevole, dici? Stiamo parlando di sacrificare la mia libertà, e tu mi chiedi di essere ragionevole
«Non rendere tutto più drammatico del necessario, Thorin» disse suo padre alzando gli occhi al cielo. «Ti sto chiedendo di prendere moglie, non di mettere tutte e dieci le dita sotto una delle presse della fucina.»
«Forse preferirei la seconda alternativa» ribattè Thorin, lanciandogli un’occhiata velenosa. Suo padre sospirò profondamente e si massaggiò l’attaccatura del naso fra gli occhi, cercando di mantenere la calma. Questo non servì affatto a rabbonire Thorin, che continuò ad andare avanti e indietro di fronte al tavolo lanciandogli furiose occhiate di sfida. Avrebbe dato chissà cosa per essere di nuovo giù alla forgia! Quando lavorava il metallo, battendo il martello sull’incudine finchè il suo mondo non si restringeva a quel piccolo pezzo di materiale incandescente e nelle sue orecchie risuonava solo il canto dell’acciaio, era in pace con se stesso. Si sentiva completo.
«Thorin» scandì lentamente Thràin guardandolo con espressione seria, le labbra sottili piegate all’ingiù. Thorin interruppe la sua nervosa marcia su e giù per la stanza e, sebbene con riluttanza, si voltò a fissarlo a sua volta, le braccia possenti incrociate sul petto. Quando suo padre assumeva quel cipiglio e cominciava a parlare lentamente, non era mai un buon segno. Significava che dovevi tacere, interrompere qualsiasi cosa tu stessi facendo in quel momento e ascoltarlo come se al mondo esisteste solamente tu e lui. Significava che quello che stava per dirti era di importanza vitale, e che non dovevi perderti nemmeno una parola. E non c’era nano, nel grande e prospero regno di Erebor, che non avesse imparato a riconoscere quell’espressione e a comportarsi di conseguenza.  Thràin aveva evidentemente ereditato quella maestosa autorevolezza da re Thròr, e tutti erano concordi nel sostenere che anche Thorin, benché ancora così giovane, potesse vantare lo stesso carisma e la stessa capacità di zittire le persone con il solo sguardo.
«Tu sei il mio primogenito» riprese Thràin dopo qualche secondo di silenzio, quando fu sicuro di avere tutta l’attenzione di suo figlio. «Sei colui che avrà la responsabilità di guidare la nostra gente dopo che io e tuo nonno ce ne andremo nelle grandi aule di pietra per ricongiungerci con i nostri antenati. »
«Ne sono ben consapevole» replicò Thorin rigidamente. «E l’ultima cosa che desidero, è deludervi. Ma, se mi è concesso difendermi, posso dire che mi sembra di essermi comportato in modo né più né meno che esemplare, fino ad ora. Mi sono distinto nel combattimento e nel comando, ho partecipato come consigliere a tutte le consulte reali, e sto sviluppando ottime capacità nel mestiere per eccellenza della nostra stirpe, la lavorazione di pietre e metalli. Non ho forse soddisfatto le vostre aspettative?»
Thràin scossa la testa, l’espressione del viso sensibilmente addolcita. «Non intendevo dire questo. Figlio mio, tu sei andato ben oltre le aspettative mie e di tuo nonno, e non passa giorno senza che tu ci riempia di orgoglio.»
Le sopracciglia di Thorin si distesero leggermente, e l’ombra di un sorriso si affacciò tra le sue labbra.
«Ma è proprio perché abbiamo una così alta opinione di te e riponiamo in te tutte le nostre speranze, che ti chiedo di ascoltare quello che ho da dirti» continuò Thràin. «Thorin, io so quanto tu ami fare quello che fai. Combattere, prendere decisioni, lavorare nella forgia… sei nato per tutto questo, e non potrebbe essere altrimenti: sei un figlio di Durin, orgoglioso e fiero come tutti i tuoi antenati. Ma un re, un futuro re, a volte deve saper sacrificare parte della sua libertà per il bene comune.»
Thorin, senza ancora riuscire a vedere il legame tra quelle parole (seppur affascinanti e cariche di significato) e l’argomento principale della loro discussione, inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. «E tutto ciò che connessione dovrebbe avere con il dovere per forza prendere moglie? Se si tratta di assicurare la discendenza della nostra famiglia, credo che su quel versante siamo ben coperti: Frerin e Dìs sono entrambi sposati, e sicuramente tra non molto avrai una schiera di nipotini pronti a saltarti sulle ginocchia e tirarti la barba.»
«Se è per quello, stando ai rumori che si sentono di notte, pare che tua sorella non stia perdendo tempo con quel Dhor…Khor…com’è che si chiama suo marito?»
Thorin stirò le labbra in un sorriso ironico, scuotendo la testa. «Si chiama Bohr, e sei stato tu a insistere perché lo sposasse.»
«Sì, beh…Dhor, Bhor…fa lo stesso» disse Thràin, agitando una mano vicino alla testa come per scacciare una mosca. «In ogni modo, non è la discendenza il punto della questione. Il punto è che Erebor diventa ogni giorno più isolata, Thorin. La Montagna Solitaria è separata dal resto della Terra di Mezzo da una vasta pianura e da una foresta interminabile, e gli unici su cui possiamo fare affidamento come alleati e con cui possiamo intrattenere scambi commerciali sono un pugno di Uomini di Dale a sud, e, a est, i nostri parenti dei Colli Ferrosi. Con i quali, come ben sai, esistono vecchi screzi e contrasti che il tempo non ha ancora cancellato del tutto.»
Thorin, che aveva ascoltato l’intero discorso con le braccia conserte e gli occhi chiari ridotti a due fessure circospette, fece passare un paio di secondi prima di rispondere. Credeva di sapere dove voleva arrivare suo padre, e la conclusione non gli piaceva per niente.
«Fammi capire» disse lentamente. «Quindi, quello a cui stai pensando sarebbe…un matrimonio di convenienza?»
«In buona sostanza, sì. Abbiamo bisogno di amici che possano aiutarci nel momento del bisogno, e di persone che comprino le armi, gli utensili e i gioielli che produciamo. Conosci la…considerazione che tuo nonno ha per l’oro. Lo contrarierebbe molto sapere che, man mano che il tempo passa, le nostre entrate si assottigliano sempre di più, e…»
«Quella di Thròr per le ricchezze non è soltanto considerazione, e lo sai bene» lo interruppe freddamente Thorin, a cui non era sfuggita la breve esitazione nella voce di suo padre prima di pronunciare quella parola. «Ormai passa più tempo nella camera del tesoro che in superficie, a occuparsi delle questioni del regno. La gente sta iniziando a mormorare cose riguardo alla sua testa che mi fanno rabbrividire al solo pensiero, e francamente anche io…»
«In ogni modo, questo è soltanto uno dei motivi che hanno spinto a pensare a questa soluzione» tagliò corto Thràin senza lasciarlo finire, ansioso di deviare la discussione verso lidi più rassicuranti. Thorin sapeva che, per suo padre, la faccenda della saluta mentale di suo nonno era un argomento tabù, e poteva comprendere il suo dolore nel parlarne. Ma non avrebbero potuto evitare la questione per sempre: l’insana ossessione del re per il tesoro della stirpe di Durin era diventata talmente palese che, ormai, nessuno dei nani di Erebor ne era più all’oscuro. Inoltre, era risaputo che la loro razza fosse particolarmente soggetta alla seduzione delle ricchezze e dell’oro: nel migliore dei casi, essa aveva portato alcuni membri della stirpe nanica a schierarsi con le forze oscure unicamente per assicurarsi la loro parte di bottino; nel peggiore dei casi, aveva deformato le loro menti fino a portarli alla pazzia. E nessuno poteva sapere se anche lui e suo padre, in quanto nelle loro vene scorreva lo stesso sangue del re, fossero ugualmente predisposti a lasciarsi irretire a tal punto da perdere la ragione…
«Un’alleanza porterebbe benefici considerevoli per quanto riguarda rifornimenti di cibo e di materiali che in queste zone sono difficili da trovare» continuava intanto Thràin. «E inoltre ci garantirebbe aiuto e protezione in caso di incursioni degli Orchi dalle Montagne Grigie. I pochi di noi che vivono ancora da quelle parti dicono che quelle immonde creature diventano ogni giorno più numerose, e che sembrano in grande fermento. Non mi stupirebbe se stessero pianificando una qualche incursione verso sud» concluse con una smorfia di disgusto.
«Quindi, in poche parole» disse Thorin, che ne aveva avuto abbastanza di tutti quei ragionamenti e voleva giungere più in fretta possibile al punto della questione «quello che mi proponi è un matrimonio con una delle figlie delle nostre cugine che vivono nei Colli Ferrosi, così da mettere da parte le divergenze che ci hanno diviso e rafforzare i legami di sangue e la nostra alleanza.» Fulminò il padre con uno sguardo sarcastico: «Mi biasimi per non esserne entusiasta? Le poche volte in cui le ho incontrate, ho rischiato di scambiarle per i loro fratelli, tanto erano lunghi i loro baffi, e la cosa peggiore è che non mi si sono staccate di dosso per tutta la sera!»
«Oh, i baffi di un paio di loro non mi sembravano poi così lunghi!» ridacchiò Thràin.
«Parla per te! Dwalin, a un certo punto, si è visto costretto a fare loro i suoi complimenti per il fatto di riuscire ad avere in faccia molti più peli di lui, e per fortuna aveva la scusa di essere ubriaco! E comunque, io non ho nessuna intenzione di avere una femmina alle calcagna per il resto della mia vita! Le uniche cose che voglio attaccate alle mie brache sono una spada e un martello da lavoro!»
Thràin lo lasciò finire il suo sfogo, fissandolo con i piccoli occhi scuri socchiusi e le punte delle tozze dita unite davanti al naso. Quando finalmente Thorin ebbe concluso, allontanandosi dal tavolo con un gesto rabbioso, il padre abbassò le mani e disse lentamente: «Forse dovresti ascoltare quello che ho da dirti, prima di rispondere da solo alle tue stesse domande.»
Thorin, ancora in preda alla rabbia, si voltò a guardarlo con aria diffidente. Non aveva ascoltato abbastanza, per quel giorno? Suo padre non poteva semplicemente ammettere di avere fallito per l’ennesima volta nel tentativo di convincerlo a fare come voleva lui e lasciarlo tornare ad occupazioni sicuramente più costruttive per tutti loro?
«La richiesta che ho ricevuto» cominciò a spiegare Thràin «non proviene dai Colli Ferrosi né da nessuna delle comunità di Nani sparse in questa zona.»
«La richiesta che hai…vuoi dire che non è stata una tua idea?» chiese Thorin, sempre più confuso.
«In effetti non lo è stata, ma i vantaggi che ne potevano provenire mi sono apparsi subito molto chiari, e non ho esitato a rispondere che l’avrei tenuta in altissima considerazione.»
«Ma allora…chi diavolo è che dovrei sposare, si può sapere?»
Thràin si alzò e, le mani giunte dietro l’ampia schiena, cominciò a passeggiare su e giù per la sala, sebbene non con la stizza con cui il figlio aveva fatto la stessa cosa fino ad un momento prima.
«La ragazza che mi è stata proposta per diventare tua moglie» disse scandendo le parole una a una. «E’ la figlia del governatore di Dale.»
Thorin non reagì subito all’affermazione di suo padre. Rimase per diversi secondi a fissarlo come se improvvisamente ogni barlume di buon senso fosse evaporato dal suo cervello,  le braccia abbandonate lungo i fianchi e la bocca semiaperta.
«Scusa, hai appena detto la figlia del governatore di Dale? Intendi dire che mi stai proponendo di unirmi in matrimonio con un’umana
Doveva aver capito male. Doveva aver sicuramente capito male, perché era una cosa che non aveva alcun senso. A meno di non dover iniziare a pensare che il male di suo nonno fosse davvero ereditario e che anche suo padre stesse iniziando anzitempo a perdere la ragione…
«Elinor non è umana» puntualizzò Thràin. «Perlomeno, non del tutto. La madre di suo padre, infatti, ha sposato un nano, quindi la ragazza ha effettivamente il sangue di Durin nelle vene.»
«Avere un quarto di sangue nano equivale a dire di non avere affatto sangue nano» replicò Thorin seccamente.
«Non ne sarei così sicuro, figliolo. Saresti sorpreso di vedere come il nostro seme sia forte e di come le caratteristiche della nostra stirpe riescano a perdurare anche dopo generazioni e generazioni. In effetti, a quanto pare, la famiglia del Governatore di Dale gode da sempre del dono della lunga vita proprio della nostra razza, e pare che anche la ragazza lo abbia ereditato. Quindi non c’è pericolo che, una volta sposati, possa morire in breve tempo e vanificare tutti i benefici che il vostro matrimonio potrebbe portare.»
Thorin sentiva che, finalmente, erano arrivati al punto della questione.
«E quali sarebbero questi benefici?» chiese in tono scettico, incrociando di nuovo le braccia sul petto.
Suo padre si fermò per fissarlo negli occhi, e non ci fu dubbio che quello che Thràin stava per dire fosse di rilevanza fondamentale.
«Come sai, Esgaroth e i villaggi vicini intrattengono fitti scambi commerciali con gli Elfi Silvani di BoscoVerde*, e Eevar di Dale è in ottimi rapporti di amicizia con re Thranduil. Non a caso, sua figlia ha vissuto per molti anni nel Reame Boscoso, dove ha imparato le loro usanze e la loro lingua. Un matrimonio tra te ed Elinor ci garantirebbe, tramite il Governatore, un’alleanza sicura con gli Elfi.»
Il cervello di Thorin lavorava a pieno regime, cercando con tutto l’impegno possibile di figurarsi lo scenario di amicizia e armonia tra Nani ed Elfi che suo padre gli aveva appena suggerito, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a concepire niente che vi andasse anche solo vagamente vicino.
«Un’alleanza con gli Elfi…» rise scuotendo la testa, come se suo padre gli avesse appena raccontato l’ultima storiella divertente che aveva sentito in giro. «Padre, ti rendi conto di cosa stai dicendo? Nel migliore dei casi ci considerano delle creature rozze e ignoranti, nel peggiore come esseri meschini interessati soltanto alle ricchezze e che farebbero qualsiasi cosa, anche la più spregevole, per assicurarsele!  Quella loro stramaledetta superbia li fa sentire troppo superiori a noi anche solo per rivolgerci la parola! Fare amicizia con Thranduil, dici? Sarebbe più plausibile vedere il sole splendere di notte!»
Thrain fece qualche passo verso di lui, fissandolo severamente. Non c’era più traccia di affetto, adesso nei suoi occhi. Non era più un padre che parlava ad un figlio, ma un principe che parlava al suo erede.
«Se si è creato questo clima di inimicizia tra il popolo degli Elfi e il nostro popolo, la colpa non è da ricercarsi esclusivamente in una delle due parti, Thorin» disse, in un tono brusco che ammetteva poche possibilità di replica. «Gli Elfi sono altezzosi e sdegnosi, questo te lo concedo, ma, da parte loro, i Nani non hanno mai fatto nulla per tendere la mano e mostrare buone intenzioni. E in ogni caso, comunque ci considerino, gli Elfi sanno che la nostra gente non è di natura malvagia alla stregua degli orchi, e sono consapevoli del fatto che, nel momento del bisogno, possiamo essere combattenti fieri affidabili. Dobbiamo solo mostrarci ben disposti nei loro confronti, e non vedo motivo per cui dovrebbero rifiutarci un’alleanza. Il matrimonio tra te e la figlia di Eevar di Dale fornirebbe la mediazione perfetta per raggiungere questo scopo.»
Thorin, le folte sopracciglia scure aggrottate e un pugno premuto con fare meditabondo sulle labbra, trasse un profondo respiro vibrante di tensione e incertezza. Sapeva che suo padre avrebbe potuto avere ragione, e sapeva che, se il progetto si fosse realizzato, i benefici per Erebor avrebbero potuto essere tutt’altro che trascurabili. E tuttavia, non riusciva a convincersi del tutto riguardo ad una possibile amicizia con la gente di Thranduil: nel suo carattere, così scontroso, diffidente e suscettibile, c’era ben poco di quello di Thràin, irruento come il suo, ma molto più aperto, gioviale e fiducioso nelle qualità del prossimo. Thorin, in questo, assomigliava molto di più a suo nonno, il Re sotto la Montagna, e il giovane nano era sicuro che, se Thròr fosse stato lì in quel momento, avrebbe senza dubbio sostenuto il suo punto di vista. Ma Thròr non era lì, e anche se ci fosse stato, Thorin dubitava che l’inquietante ombra che ottenebrava la sua mente sarebbe stata in grado di lasciargli prendere una decisione dettata dalla saggezza e dal buon senso.
Thràin, nel frattempo, gli si era fatto più vicino, e gli aveva poggiato le mani sulle spalle. I suoi occhi, improvvisamente accesi di una luce vagamente implorante, cercarono quelli del figlio.
«Ho bisogno del tuo appoggio e della tua piena collaborazione in questo progetto, figlio mio. So quanto ti costerà una decisione simile, ma ho bisogno che tu mi dica che sposerai Elinor di Dale, per il bene del tuo popolo. Ho bisogno che tu non mi deluda.»
Thorin, incapace di sostenere il suo sguardo, chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. Suo padre sapeva veramente cosa gli sarebbe costato prendere una decisione simile? Per quanto ne sapeva, lui aveva sposato sua madre per amore. Nessuno aveva dovuto costringerlo, perché lui non era come suo figlio, sempre così solitario e irascibile, devoto soltanto alla spada, alla forgia e al regno. Thorin non aveva mai sentito il bisogno di qualcos’altro, e non lo sentiva nemmeno adesso. Ma il suo dovere, quello sapeva di doverlo portare a termine. E sapeva che avrebbe preferito morire, piuttosto che vedere la delusione negli occhi di suo padre e di suo nonno. Perciò, di fronte a questa prospettiva, che cosa avrebbe potuto mai essere un matrimonio poco gradito?
«Va bene, padre» mormorò, senza guardarlo. «Ci rifletterò su.»

Thorin uscì dalla Sala del Consiglio richiudendosi la porta alle spalle e imboccò il grande corridoio di pietra perso nei suoi pensieri, lo sguardo corrucciato fisso a terra e i suoi passi che risuonavano cupi fino all’alto soffitto ad arco.
La giornata non stava procedendo esattamente nel migliore dei modi… Un paio d’ore prima era entrato in quella stanza relativamente tranquillo, e adesso ne usciva sapendo che, con buone probabilità, tra poco tempo sarebbe stato sposato.
Sposato.
Si ripetè la parola nella mente, cercando di conciliare il concetto di matrimonio con l’immagine di se stesso, scontroso, trasandato e con il viso ancora annerito dal fumo della forgia. Scoprì che non funzionava granchè, e si passò stizzosamente una mano tra i lunghi capelli scuri e arruffati. Aveva l’impressione che la sua testa fosse sul punto di esplodere… Al momento, tutto quello che desiderava era che arrivasse presto la sera per andare a bersi un boccale di birra insieme a Dwalin, e dimenticare, almeno per qualche ora, che presto non sarebbe stato più un nano libero…
«Riunione concitata, figliolo?»
Una voce dal familiare timbro acuto e dal tono vagamente allusivo lo raggiunse mentre era quasi a metà del corridoio, facendolo fermare ed evocando un leggero sorriso sulle sue labbra tirate.
«Decisamente più di quanto mi aspettassi, in effetti» fu la sua risposta, pronunciata in tono ironico. «Ma posso dire di averne passate di peggiori.»
Si voltò, sapendo perfettamente chi gli sarebbe comparso davanti. Un nano basso e dalla corporatura massiccia, leggermente tendente alla pinguetudine e con una fluente barba grigia biforcuta, gli veniva incontro da uno dei corridoi secondari. Sulla sua larga faccia bonaria, dominata da un naso di dimensioni quantomeno importanti, i piccoli e vivaci occhi scuri brillavano di una luce maliziosa.
«Non avevo dubbi che tu riuscissi a uscirne indenne» disse Balin, figlio di Fundin, raggiungendolo e regalandogli un sorriso complice.
«Fino a qualche minuto fa, non ero del tuo stesso avviso» ammise Thorin, con un profondo sospiro che ebbe il benefico effetto di affievolire, seppur in minima parte, la tensione che aveva accumulato nelle ultime ore. «Sono sorpreso che tu non fossi presente, di solito mio padre e mio nonno si rifiutano di prendere una qualsiasi decisione importante senza prima aver ascoltato il tuo parere.»
«Thràin ha ritenuto che fosse giusto affrontare questa conversazione in privato, e non sarò io a mettere in discussione le sue scelte» rispose Balin, incamminandosi al suo fianco con le mani giunte dietro la schiena, trotterellando per riuscire a stare dietro alle falcate ben più lunghe di Thorin. «Allora,» esordì in tono casuale dopo qualche secondo di silenzio «a quanto pare ci sposiamo…non è così?»
Thorin gli rivolse un’occhiata che avrebbe dovuto fulminarlo, ma tutto quello che riuscì a ottenere fu di sogghignare e scuotere la testa. Balin e suo fratello Dwalin erano gli unici esseri viventi che avessero il potere di strappargli sempre e comunque un sorriso. «Hai sentito tutto, vero?»
«Beh, ammetterai che a volte è ben difficile non udire i tuoi toni soavi. Ti ho mai detto che, quando ti arrabbi, la tua voce somiglia terribilmente a quella di tuo nonno? In ogni modo, ho sentito quanto basta per rendermi conto di quale potesse essere il vostro argomento di conversazione.»
Thorin lo sbirciò di sottecchi. «E…la tua opinione in proposito?»
Prima di rispondere, Balin inarcò le sopracciglia e sbattè un paio di volte le palpebre, segno che ancora non si era fatto un’idea molto chiara sulla faccenda. «Thràin è saggio a guardare al futuro» si limitò a rispondere. «Non tutti i nani avrebbero avuto il coraggio di mettere da parte l’orgoglio e cercare un’intesa con gli Elfi come sta facendo lui. E Eevar di Dale, a quanto ho potuto vedere, è un uomo quadrato e affidabile. Forse non esattamente una cima, d’accordo, ma finora si è sempre dimostrato un leale amico di tuo padre e di tuo nonno.»
Seguirono alcuni lunghi secondi di silenzio, durante i quali Balin sembrò incerto su come proseguire.
«Mi sembra di capire che preferisci non sbilanciarti troppo» osservò Thorin, tornando a corrucciarsi. Mai, in tutta la sua vita, aveva avvertito come in quel momento la necessità di qualcuno che lo guidasse, che lo aiutasse a capire quale via doveva prendere. Eppure, persino con Balin, a cui non aveva mai nascosto il suo stato d’animo, trovava difficile esternare questi suoi pensieri. Lui era l’erede di Durin, e un giorno avrebbe guidato il popolo di Erebor al posto di suo padre e di suo nonno: non poteva permettersi di lasciarsi sopraffare dalla paura e dall’incertezza!
«Ci sono situazioni che svelano se stesse solo con il tempo» rispose Balin con un sospiro e un leggero sorriso. «E il massimo che possiamo fare è pazientare e attendere. Tu, piuttosto» disse, cambiando argomento «non mi sembri particolarmente entusiasta della decisione che hai preso.»
«In realtà, non sono affatto entusiasta della decisione che ho preso» ammise Thorin in un improvviso impeto di franchezza. Scoppiò in un’amara risata senza gioia: «Se qualcuno, questa mattina, mi avesse detto che prima del tramonto sarei stato promesso in matrimonio, probabilmente gli avrei riso in faccia.»
Balin gli posò una mano sul braccio e dette una leggera stretta solidale con le corte dita tozze. «Hai preso una decisione degna di un vero erede al trono, ragazzo mio. Non mi aspettavo niente di meno, da te. Thràin e il re devono essere molto fieri.»
Thorin inarcò le folte sopracciglia scure in un’espressione sufficientemente eloquente, che non ebbe bisogno di parole. Quella decisione (di cui ancora, per svariati motivi, non era del tutto convinto) era stata l’esito finale ed estremo di un’intera vita passata a cercare in tutti modi di dimostrarsi all’altezza del compito che, lo sapeva, un giorno sarebbe ricaduto sulle sue spalle. Dimostrargli gratitudine e apprezzamento gli sembrava il minimo che Thràin e Thròr potessero fare…
«Non so se possa esserti di qualche conforto» stava dicendo intanto Balin, osservandolo di sottecchi «ma dicono che la ragazza sia molto bella.»
Thorin sogghignò, ormai più che deciso a non voler guardare in nessun modo il lato positivo della cosa. «Nel senso che la sua barba è più corta del normale?»
«Oh, questo non saprei dirtelo. In pochi sanno che aspetto abbia, persino tra i suoi concittadini: è partita per il Reame Boscoso che era ancora una bambina, e sono passati quasi dieci anni, da allora…»
«Le femmine della nostra razza non sono note per la loro avvenenza, mastro Balin, e questa Elinor, a quanto pare, si fregia di appartenere alla nostra razza» osservò Thorin in tono ironico, varcando la soglia del portone che conduceva fuori dal corridoio e si affacciava su una triplica scalinata, la quale portava ai livelli inferiori.
«Beh…lo scopriremo presto, credo» disse Balin. «Sicuramente, tra non molto tempo sarete fatti incontrare.»
«Penso che mio padre mi debba almeno questo» disse Thorin, sarcastico. «Da che parte vai?»
«Di là» rispose Balin, indicando la rampa alla sua sinistra. «Il re mi ha fatto chiamare nella camera del tesoro.»
L’espressione del giovane principe dei Nani si incupì all’istante, e ogni traccia di ironia scomparve dal suo volto. «Da quanto tempo è là sotto?»
«Ore, presumo» mormorò Balin, evitando di guardarlo. «Non sono nemmeno sicuro che sia salito per il pranzo…»
Un’acuminata freccia di dolore trafisse il petto di Thorin. Odiava vedere suo nonno in quello stato. Fisicamente, era ancora forte e possente come era sempre stato da quando Thorin aveva memoria, ma la sua mente, da molti mesi a quella parte, era concentrata fino all’ossessione su quell’unico punto fisso. Era difficile, dopo aver passato un’intera vita a desiderare di crescere il più in fretta possibile per diventare come lui – fiero, coraggioso, autorevole e giusto – vederlo ridursi giorno dopo giorno a un contenitore semivuoto.
«Mio padre non potrà evitare l’argomento per sempre» mormorò fra i denti, in un ringhio di disperata frustrazione. «Prima o poi dovremo affrontare il problema…»
Balin stirò le labbra in un mesto sorriso di comprensione e gli posò entrambe le mani sulle spalle. «Sì, dovrete farlo» concordò in tono affettuoso, più come un padre guarderebbe un figlio che come un suddito guarderebbe il suo futuro re. «Ma non stasera, Thorin. Oggi, credo che tu abbia fatto abbastanza per Erebor.»
Suo malgrado, Thorin non riuscì a trattenere un sorriso. Il suo cipiglio si spianò, i suoi occhi si illuminarono, e sul suo viso adombrato dalla tristezza sembrò tornare a splendere un pallido sole.
«Credo proprio che andrò a cercare tuo fratello» disse, congedandosi da Balin con una leggera pacca sulla spalla. «Situazioni come queste necessitano almeno di un boccale di birra.»

*BoscoVerde è il nome di Bosco Atro prima che esso diventasse (appunto) atro, cioè buio e dominato dall'influsso malvagio e dalle forze oscure del Negromante, avvenimento di cui iniziamo a vedere le avvisaglie ne Lo Hobbit.

 
ANGOLO AUTRICE: Dopo aver visto ben tre (ripeto, TRE) volte “Lo Hobbit” al cinema, il mio cervello non poteva non risentirne in qualche modo. Così, fomentata dal film, ma soprattutto dalla disarmante figosità di Thorin Scudodiquercia/Richard Armitage (e dal suo più che evidente bisogno di affetto), ho partorito il primo capitolo di questa FF. All’inizio non ero molto convinta di volerlo pubblicare, perché temevo di rendere Thorin troppo banale o smielato. Poi, però, mentre stavo per terminarlo, mi sono imbattuta in un’intervista a Richard Armitage in cui diceva che, parlando del personaggio di Thorin con Philippa Boyens (una delle sceneggiatrici de “Lo Hobbit”), hanno ipotizzato che una delle cause della sua burbera scontrosità potesse essere la presenza, nel suo passato, di “una principessa, o qualcuna a cui era promesso in matrimonio” che avrebbe perso con la caduta di Erebor. E dato che tutto ciò si adattava in modo quasi perfetto con ciò che io avevo ideato nella mia storia, mi sono convinta, e ho deciso di pubblicare. Spero di non essere linciata e di aggiornare più presto possibile!

P.S. Ho scoperto solo poco fa che, in realtà, Balin dovrebbe essere più giovane di Thorin di ben 17 anni. Non ci credevo, così sono andata a controllare nell’albero genealogico dei Nani del libro del Signore degli Anelli, ed effettivamente è così. Però, visto che per l’aspetto dei personaggi mi sono rifatta principalmente al film, e visto che mi piace l’idea che Balin rappresenti per Thorin una specie di secondo padre o di punto di riferimento, direi che ormai possiamo tenerci Balin così com’è, ovvero più vecchio di Thorin di svariate decadi. Questo per prevenire eventuali obiezioni dei tolkeniani più puristi;)

Scusate se mi sono dilungata, ma mi sembrava necessario chiarire un po’ di cose *va in un angolino e si punisce stirandosi le mani come Dobby*

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Capitolo 2
*** Pessimo inizio ***


2. PESSIMO INIZIO

“Sta succedendo tutto troppo in fretta.”
Fu questo il primo pensiero di Thorin quando, un paio di giorni dopo il colloquio con suo padre nella Sala del Consiglio, gli fu annunciato che quel pomeriggio avrebbe avuto luogo un incontro con la sua futura sposa e il governatore, in onore dei quali, per quella sera, era previsto un sontuoso banchetto.
Così, alla fine, Balin ci aveva visto giusto, rimuginò allacciandosi gli stivali prima di scendere a mettere qualcosa sotto i denti per colazione: suo padre non aveva perso tempo ad ufficializzare la cosa. Thorin sapeva che la prospettiva di quell’incontro avrebbe dovuto renderlo, se non felice, perlomeno un po’ più positivo riguardo alla situazione: in fondo, aveva l’opportunità di vedere la sua futura moglie, osservarla, conoscerla meglio… e nessuno avrebbe potuto impedire che, magari, potesse persino arrivare ad apprezzarla…
Thorin, sfortunatamente, non pensava a nulla di tutto ciò. L’unica, sgradevole sensazione che riusciva a provare in quel momento era quella di essere irrimediabilmente in trappola. Di non poter più tornare indietro, e di aver perso l’ultima occasione di fermare tutto e scendere da quella inesorabile macchina che era stata messa in moto.
Gli mancava l’aria. Era come se, all’improvviso, le pareti della sua stanza avessero deciso di restringersi intorno a lui, soffocandolo. Doveva assolutamente uscire di lì…
Quella mattinata scorse in modo talmente rapido che, quando la campana di mezzogiorno risuonò nei locali della forgia, facendo vibrare le spesse pareti di pietra, Thorin si arrestò con il martello a mezz’aria e si guardò intorno disorientato, certo che ci fosse un errore e che il segnale fosse stato dato prima del tempo.  Purtroppo gli altri nani, senza mostrare il minimo segno di stupore, si stavano già sfilando gli sporchi e affumicati grembiuli da lavoro e si stavano già dirigendo verso l’uscita, ansiosi di sedersi a tavola per pranzo; perciò tutto quello che gli rimase da fare fu deporre i suoi strumenti e imitarli, anche se a malincuore e con la faccia più scura che avesse mai avuto uscendo dalla fucina.
«Andrai a darti una bella ripulita, spero» disse Dwalin in tono burbero verso la fine del pranzo, staccando nel contempo gli ultimi brandelli di carne dall’osso di una coscia di montone e osservandolo di sottecchi. «Puzzi come la carcassa di uno stramaledetto orco.»
Thorin non fece una piega di fronte alla disarmante franchezza del commento. Se si fosse trattato di chiunque altro, avrebbe subito chiesto conto della imperdonabile mancanza di rispetto, ma Dwalin non era un nano qualunque. Più vecchio di lui di qualche anno, era stato il suo migliore amico fin da quando Thorin riuscisse a spingere indietro la memoria. La prima volta in cui si erano incontrati, quando lui aveva quattro anni e Dwalin sette, avevano deciso, dopo nemmeno cinque minuti, che non si piacevano affatto, e si erano presi a botte. La questione si era conclusa con un dente spezzato da parte di Thorin e un occhio nero da parte di Dwalin, ma da quel momento in poi erano diventati inseparabili.
«Immagino di doverlo fare» rispose Thorin tra il rassegnato e l’ironico, svuotando con un sorso il boccale di birra e facendo per alzarsi.
«Pare che la signorina abbia vissuto gli ultimi dieci anni in compagnia degli Elfi» borbottò Dwalin, scuotendo la testa vagamente disgustato. «Sia mai che le sue aspettative vengano deluse e lei scappi a gambe levate mandando all’aria i preziosi piani di tuo padre!»
«Anche nel Reame Boscoso avrà visto dei fabbri, presumo…»
«Sì, ma il loro sudore profumerà sicuramente di rose» sogghignò Dwalin. «E non è decisamente il tuo caso.»
Thorin scoppiò a ridere per la prima volta dopo giorni, e il tovagliolo che aveva appena usato per ripulirsi fu scaraventato scherzosamente in grembo all’amico.
La conversazione con Dwalin ebbe perlomeno il merito di alleggerire il peso che avvertiva in fondo allo stomaco e di tenerlo relativamente allegro per qualche ora. Il bagno che fece per togliersi di dosso il sudore, la sporcizia e la stanchezza fu addirittura rigenerante, e quando uscì dalla vasca per indossare i suoi vestiti migliori, Thorin scoprì, se non di essere tornato quello di sempre, perlomeno di aver recuperato parte di quei nervi saldi e di quel distacco che lo contraddistinguevano.
“Eccomi qua, padre” pensò sarcastico, osservando con sguardo amaro la sua immagine riflessa nello specchio. “Tuo figlio. Il tuo erede. Ripulito, pettinato e pronto ad entrare in scena.”
Il farsetto blu scuro lungo fino alle ginocchia, stretto in vita da una larga cintura d’argento, i pantaloni neri e gli stivali di pelle lavorata gli conferivano senza dubbio un’aria più regale di quella che avrebbe avuto in un giorno qualsiasi uscendo dalla fucina, questo doveva ammetterlo. Ma era proprio quando si sentiva stanco, sudato e sporco dal lavoro nella forgia, che Thorin si sentiva un vero principe dei Nani, un vero figlio di Durin. Aveva sempre pensato che il vero capo non fosse quello che poteva permettersi lavorare di meno, come accadeva nei regni degli Uomini, ma, al contrario, quello che lavorava di più, per eccellere nell’arte del suo popolo e dare l’esempio a tutti gli altri…
Un regno dovrebbe essere costruito così, con la dedizione, il coraggio e il duro lavoro. Non con l’oro o con ridicoli compromessi come i matrimoni. Questo, tuo padre e tuo nonno sembrano averlo dimenticato...
No, pensò Thorin riscuotendosi. Suo padre sapeva quello che faceva. Desiderava solo il meglio per il suo popolo. Doveva avere fiducia in lui, e fare la propria parte in quella storia, per quanto potesse sembrargli assurda…
Prima di lasciarsi assalire di nuovo da pensieri nefasti, distolse lo sguardo dal proprio riflesso nello specchio e lasciò a grandi passi la stanza. Avrebbe dovuto essere al piano di sotto da un po’... ci mancava soltanto che arrivasse in ritardo il giorno in cui avrebbe dovuto conoscere la sua promessa sposa!
Quando arrivò, quasi di corsa, nella Sala del Trono, tutti i presenti si voltarono a guardarlo. Tra i membri delle famiglie di nani più importanti di Erebor, tutti silenziosamente schierati lungo le interminabili pareti della sala, Thorin scorse Balin, che gli rivolse un ammiccamento e un sorriso incoraggiante, e, accanto a lui, Dwalin, che rimase impassibile, ma che cercò i suoi occhi e sostenne il suo sguardo con muta solidarietà.
«Che fine avevi fatto, in nome di Durin?» gli bisbigliò Thràin, quando Thorin lo raggiunse accanto al trono reale. «Stavamo aspettando soltanto te! Stanno quasi per arrivare!»
Thorin si scusò come poteva e andò a piegare il ginocchio davanti all’imponente trono di pietra, su cui, corrucciato e non meno maestoso, sedeva Thròr, signore di Erebor e Re sotto la Montagna.
«Maestà» disse Thorin, abbassando il capo in segno di rispetto. Thròr si lisciò la folta barba grigia ornata da fregi argentati e oscillò in segno di approvazione la grossa testa sormontata da una corona d’oro massiccio tempestata di diamanti e rubini grossi come noci, opera dei più abili artigiani del regno.
Ma non era la corona a conferire a Thròr l’aura di divina regalità che lo contraddistingueva, Thorin lo sapeva bene. Gran parte del merito, oltre alla naturale alterità e maestosità di suo nonno, andavano alla pietra dalle luminescenze azzurrine incastonata nella parte superiore del trono, proprio sopra la testa del re.
L’Archepietra… Thorin dubitava che suo nonno avrebbe potuto amare il suo regno o uno qualsiasi dei suoi figli o nipoti più di quanto amava quella gemma grossa come un pugno di nano.
Non si era ancora rialzato, quando una delle guardie avanzò fino alla base degli scalini che conducevano fino alla piattaforma reale e fece il suo annuncio.
«Sua eccellenza il governatore Eevar di Dale, sua figlia Elinor, e il loro consigliere, Uren figlio di Ungrim!»
I portali d’ingresso si aprirono, e dal fondo della sala si fecero avanti tre figure, che Thorin mise lentamente a fuoco mano a mano che si avvicinavano.
L’uomo sulla destra aveva una faccia familiare. Ricordò di averlo già visto un paio di volte quando suo padre e suo nonno l’avevano ricevuto a Erebor per questioni diplomatiche, perciò intuì che si trattava del governatore. Più alto della maggior parte dei nani presenti nella sala (anche se Dwalin lo superava comunque di una buona spanna), Eevar di Dale era comunque basso e tarchiato rispetto alla media degli Uomini. Ancora piuttosto giovane, con folti capelli castani leggermente striati di grigio, i sontuosi abiti finemente ricamati non riuscivano a compensare la mancanza di regalità della sua rozza faccia squadrata da contadino.
Sulla sinistra, Thorin si stupì di vedere un nano. Non un uomo con sangue di nano, come nel caso di Eevar, ma un vero e proprio nano, anche lui abbastanza giovane, ma con la barba già piuttosto lunga e folti baffi grigio scuro che gli coprivano le labbra. Sotto delle cespugliose sopracciglia ancora nere come il carbone scintillavano due piccoli e vivaci occhi color onice, inquieti e saettanti da un volto all’altro dei presenti nella sala.
Ma fu la figura al centro ad attirare maggiormente l’attenzione di Thorin.
Fino a quel momento, si era immaginato Elinor di Dale né più né meno come qualunque altra nana di Erebor, vale a dire molto simile a un nano maschio sia di corporatura che di aspetto. Nella sua mente, la parte umana della ragazza aveva avuto, al massimo, il merito di donarle una barba meno lunga e meno folta rispetto alle nane purosangue di sua conoscenza, ma niente di più. Adesso, però, mentre la guardava avanzare verso la piattaforma reale, Thorin si rese conto di essersi completamente sbagliato.
La statura di Elinor era quella della maggior parte delle figlie di Durin, ma le somiglianze con esse si fermavano qui. Nel suo volto sottile e dai lineamenti graziosi, punteggiato sul naso e sugli zigomi da leggerissime efelidi, non vi era alcuna traccia né di barba, né di baffi, né di nessun altro genere di peli. Sotto una folta frangia che andava a coprirle la parte destra della fronte e, in parte, del viso, scintillavano due grandi occhi verdi, e una treccia biondo cenere le scendeva dalla spalla destra fin quasi alla vita. Questa era sorprendentemente stretta, e, sebbene le sue forme fossero abbastanza pronunciate sia sul petto sia sui fianchi, nel complesso somigliava più ad un’umana in miniatura che ad una nana.
A Thorin ci volle qualche secondo per riprendersi dalla sorpresa, ma, per quando i tre furono arrivati al cospetto di re Thròr, era fortunatamente riuscito a recuperare il dominio di sé.
«Vostra Maestà» disse Eevar in tono reverente,inchinandosi e ripetendo il gesto sia davanti a Thràin che davanti a Thorin. «E’ un onore, per me, essere ricevuto al vostro cospetto. Questo è Uren, il mio fedele consigliere.»
Il nano si fece avanti e si inchinò a sua volta, fin quasi a toccare terra con la larga fronte sporgente. «Uren figlio di Ungrim al vostro servizio, mio re» disse con una voce bassa e melliflua che a Thorin risultò subito assai sgradevole.
«E questa è Elinor, mia figlia» continuò il governatore, mentre la ragazza, che fino a quel momento era rimasta un paio di passi dietro di lui, si faceva avanti e piegava leggermente le ginocchia in un riverenza. Thorin notò che non stava facendo il minimo sforzo per sorridere o mettersi in mostra: al contrario, dalla riluttanza con cui si era fatta avanti, sembrava che la Sala del Trono di Erebor fosse l’ultimo posto sulla terra dove desiderasse trovarsi in quel momento. E Thorin, per quanto si sforzasse di mostrarsi bendisposto davanti a suo padre e a suo nonno, non poteva certo dire di biasimarla.
Di sicuro, comunque, lo stesso non poteva dirsi del governatore, che pareva estremamente eccitato di trovarsi al cospetto di re Thròr, dei suoi eredi e di tutta la corte al completo. Stava giusto proclamando con tono accorato quale immenso onore fosse per lui essere stato ricevuto con tanta ufficialità e le grandi cose che i loro due popoli avrebbero potuto costruire insieme – spalleggiato di tanto in tanto dai servili cenni di assenso del suo consigliere – che re Thròr, poco avvezzo, come la maggior parte dei nani, alle lusinghe e alle lungaggini superficiali, lo interruppe borbottando un “Certo, certo, può bastare, può bastare”.
Thràin si schiarì la voce e intervenne prima che suo padre potesse risultare scortese o inappropriato. «Sua Maestà intende dire che apprezza immensamente la vostra sincera amicizia e la vostra lealtà, governatore, e che è impaziente di discutere in privato i dettagli concreti del nostro accordo. Prima, però, spero vorrete accettare questi doni come dimostrazione della nostra benevolenza.»
Quella di offrire doni agli ospiti importanti e ai potenziali alleati che venivano ad Erebor per discutere patti e stipulare accordi, era una tradizione ormai secolare del popolo dei Nani, e Thorin potè constatare che suo padre e suo nonno vi avevano tenuto fede più che degnamente: davanti ai suoi occhi, trasportati da guardie e valletti, passarono sacchi d’oro, scrigni di gemme e un variegato assortimento di pugnali, spade e asce tradizionali naniche, molte delle quali il giovane principe riconobbe senza dubbio come sue creazioni, e che avrebbe di gran lunga preferito veder restare al loro giusto posto all’interno del regno di Erebor. Per ultima venne una bellissima collana di puro argento, finemente cesellata e ornata da stupefacenti gocce di diamanti, che nelle intenzioni dell’artigiano che l’aveva fabbricata avrebbero dovuto andare a ricoprire quasi completamente il petto della fortunata che l’avrebbe indossata. Il dono era chiaramente indirizzato ad Elinor, che tuttavia, quando il gioiello le passò sotto gli occhi, non reagì in alcun modo e si limitò a guardarla con aria indifferente e solo leggermente ammirata. In effetti, notò Thorin osservandola con più attenzione, la ragazza non aveva indosso alcun tipo di gioielli, e il loro fascino non sembrava avere particolari effetti su di lei. Al contrario, l’unico momento in cui aveva visto i suoi occhi accendersi d’interesse era stato quando i valletti avevano offerto a suo padre le armi provenienti dalle fucine di Erebor, e Thorin aveva notato che Elinor aveva dovuto dominarsi per non allungare la mano e afferrarne una. Questo, rimuginò, la rendeva sicuramente più interessante, anche se la prospettiva del matrimonio continuava a risultargli allettante quanto un bagno nell’acqua ghiacciata.
Quando anche Eevar ebbe offerto a re Thròr i suoi doni – stoffe pregiate e vasi della miglior ceramica di Dale che sarebbero apparsi scarsamente attraenti agli occhi di qualsiasi nano degno di questo nome – Thràin propose finalmente al governatore e a Uren di unirsi a lui, a suo padre e ai loro consiglieri nella Sala del Consiglio per definire meglio i particolari del loro accordo e iniziare a parlare dei preparativi per il matrimonio.
«Sono sicuro che Thorin sarà ben felice di intrattenere Elinor mostrandole le bellezze di Erebor, mentre noi siamo impegnati in questa discussione» disse Thràin, inarcando le sopracciglia e rivolgendo un segno eloquente con il capo al figlio. Thorin fece un passo avanti, mentre lo stomaco sembrava precipitargli in modo sgradevole fin dentro gli stivali.
«Ne sarei onorato» rispose a denti stretti, cercando di mascherare come meglio poteva il fastidio che quell’incombenza (seppur necessaria) gli procurava. 
«Mi sembra un’eccellente idea, mio principe!» concordò subito il governatore in tono entusiasta. «D’altronde, non so come la pensiate qui ad Erebor, ma a Dale riteniamo che i consigli di guerra e le riunioni diplomatiche non siano decisamente il luogo adatto per una donna!»
L’ultima parte del commento, che avrebbe voluto essere scherzoso, ebbe il solo effetto di lasciare indifferenti i nani e di provocare un’occhiata di fuoco da parte di Elinor all’indirizzo di suo padre: occhiata che, apparentemente, solo Thorin sembrò notare. La ragazza parve avvertire la sua attenzione verso di lei, perché si voltò verso il giovane nano e sostenne il suo sguardo con un’espressione negli occhi verdi che somigliava molto alla sfida.
Thorin ed Elinor rimasero l’uno davanti all’altro a fissarsi in silenzio, mentre i presenti nella sala sfilavano loro accanto, chi per raggiungere il re e il governatore nella Sala del Consiglio, chi per tornare alle sue occupazioni abituali. Thorin, con la coda dell’occhio, notò Uren soffermarsi per un lungo istante ad osservarli con i suoi piccoli occhi scuri e indagatori; soltanto quando il governatore, accorgendosi che era rimasto indietro, chiamò ad alta voce il suo nome, il nano si riscosse e si unì agli altri che abbandonavano la Sala del Trono.
«Vogliamo andare?» domandò Thorin in tono ruvido, quando la stanza si fu quasi del tutto svuotata. Sapeva che sarebbe stato opportuno esibirsi in qualche gesto galante, come porgerle la mano o il braccio e offrirsi di guidarla fisicamente in quella visita, ma i suoi muscoli sembravano voler disobbedire agli ordini del suo cervello, lasciandogli le mani saldamente incrociate dietro la schiena.
Elinor non parve offesa da quella mancanza di cavalleria. Si limitò a incurvare le labbra in un leggero sorriso e a rispondere, con un guizzo di divertita ironia negli occhi verdi: «Vi seguo, Thorin figlio di Thràin.»
Uscirono da una delle porte laterali della Sala del Trono e imboccarono il corridoio che portava ai piani superiori. Camminarono per un po’l’uno accanto all’altra, il silenzio rotto solo dal rumore dei loro passi che rimbombava sordo fino al soffitto. Elinor fissava dritto davanti a sé, voltando appena la testa di tanto in tanto per guardare con aria vagamente ammirata le ciclopiche colonne che si susseguivano ad intervalli regolari lungo le pareti e gli affreschi raffiguranti la storia della stirpe di Durin. Thorin la osservava di sottecchi, le sopracciglia talmente vicine da scomparire nelle pieghe della fronte.
“E’ graziosa, questo non si può certo negare” rimuginò, ricordando le voci sul suo conto che Balin gli aveva riferito. Magari definirla “molto bella” era un po’ eccessivo: aveva la bocca un po’ troppo grande rispetto al viso, la sua carnagione era forse eccessivamente pallida, e quelle piccole lentiggini spruzzate sul naso e sugli zigomi erano una particolarità umana da cui le donne naniche erano, di norma, immuni, e che quindi risultava strana ai suoi occhi. Tuttavia, la lucentezza dei suoi grandi occhi verdi, il taglio armonioso delle labbra, la dolcezza dei lineamenti e la morbidezza del corpo – quel poco che si riusciva a intravedere sotto l’abito color verde foresta, perfettamente intonato con gli occhi – creavano un insieme tutt’altro che sgradevole, e sicuramente ben superiore a qualunque sua aspettativa.
La cosa, invece di rallegrarlo, confortarlo o fargli apparire un po’ più rosea la prospettiva del suo matrimonio, lo innervosì ancora di più. Se adesso tutti quanti si aspettavano che, di punto in bianco, lui cominciasse a sorridere e a mostrarsi entusiasta soltanto grazie a due occhi dolci e a un bel visino, avrebbero avuto pane per i loro denti! Anche se gli fosse stata offerta in sposa Lúthien Tinúviel in persona, nessuno sarebbe mai riuscito a persuaderlo che avere una donna tra i piedi per tutta la vita fosse qualcosa di auspicabile e allettante!
“E, a quanto pare, nemmeno lei sembra particolarmente impaziente di celebrare queste nozze” osservò Thorin, guardando la sua espressione seria e il guizzo appena percettibile del suo sopracciglio verso l’alto mentre attraversavano una dopo l’altra le sale reali. Il pensiero gli provocava sensazioni contrastanti: da un lato, lo faceva sentire meno fuori posto in tutta quella faccenda e gli faceva provare una sorta di empatia mista a solidarietà per quella ragazza; dall’altro, però, lo scarso entusiasmo di Elinor davanti alle stupefacenti meraviglie di Erebor, che pochi nella Terra di Mezzo potevano vantarsi di avere visto con i propri occhi o toccato con mano, lo irritava non poco. Sicuramente l’aver passato tutto quel tempo a mescolarsi con quelle spocchiose creature dalle orecchie a punta la faceva sentire in diritto di disdegnare tutto ciò che provenisse dal mondo dei Nani, perché troppo rozzo per le sue delicate manine candide!
«Non sembrate molto felice di trovarvi qui» constatò Thorin in tono vagamente allusivo, subito dopo averle mostrato la stanze dove lei e suo padre avrebbero alloggiato quella sera. Elinor si voltò verso di lui, disorientata come se Thorin le avesse appena letto nel pensiero, ma recuperò quasi subito la sua compostezza.  
«A quanto sembra, fra non molto dovrò frequentare questo posto abbastanza spesso» rispose in tono leggero, come se stesse parlando del tempo. «Quindi, immagino che iniziare a prendere confidenza con scale, corridoi e grandi saloni tutti identici l’uno all’altro non possa che essermi utile.»
«Mi auguro che riuscirete ad orientarvi, qui dentro. Erebor può sembrare un vero e proprio labirinto, per chi non è abituato a vivere e a muoversi nel nostro mondo» disse Thorin di rimando. L’ultima parte della frase, sottolineata con un guizzo delle sopracciglia apparentemente casuale, aveva voluto essere una sottile allusione al lungo soggiorno di Elinor fra gli Elfi. Allusione che la ragazza colse perfettamente, perché, dopo alcuni secondi di silenzio, rispose, in tono affabile ma velato da una sottile ironia: «Sapete, ho vissuto per dieci anni nel Reame Boscoso, che, di certo l’avrete sentito dire, è situato proprio nel bel mezzo della foresta più estesa di tutta la Terra di Mezzo. Credo di essere riuscita a sviluppare delle buone capacità di orientamento.»
A conclusione della frase, Elinor gli rivolse un sorriso talmente amabile da far passare quasi inosservata l’espressione di trionfo dei suoi occhi per essere riuscita a rispondergli a tono. Thorin, indispettito e insieme ammirato dalla sua capacità di ribattere prontamente, non potè far altro che incassare.
«Senza dubbio» disse a mezza voce, concedendosi un sorrisetto.  «A proposito,» aggiunse mentre camminavano sul corridoio sopraelevato che costeggiava la Sala delle Armi e si dirigevano verso una delle tante terrazze costruite sul fianco della Montagna Solitaria «permettete una domanda?».
«Naturalmente.»
Dal tono di voce di Elinor, uno strano misto di disponibilità e divertimento, era perfettamente chiaro che la ragazza si aspettasse qualche altra frecciata, e anche che fosse pronta a ribattere a tono a qualunque commento sarcastico da parte di Thorin.
«Per quale ragione, sebbene voi e vostro padre abbiate il sangue di Durin nelle vene, il governatore ha deciso di mandarvi nel Reame Boscoso?» domandò questi, senza girarci intorno.
Elinor non rispose subito. Raggiunse la balaustra della terrazza, vi si appoggiò con entrambi gli avambracci e poi, dopo aver fissato per qualche secondo il paesaggio, con la città di Dale che si stagliava davanti a loro indorata dal sole del tramonto, si voltò verso Thorin.
«Intendete: “Perché mio padre ha deciso di mandarmi tra gli Elfi invece che mandarmi qui, tra quella che, da un certo punto di vista, può essere considerata la nostra gente?”» chiese di rimando.
Thorin fu felice che avesse centrato subito il punto della questione. «Precisamente.»
La franchezza con cui Elinor rispose fu addirittura disarmante. «Perché sono stata io a chiederglielo» disse con semplicità, sostenendo senza difficoltà il suo sguardo. «Messa di fronte alla scelta di passare i seguenti dieci anni della mia vita sepolta dentro una montagna oppure in un luogo aperto, verde e spazioso, ho preso la decisione più congeniale alla mia natura, ovvero quella che somigliasse il meno possibile ad una prigione.»
Persino Thorin, il cui carattere impulsivo lo spingeva sempre ad essere più diretto e sincero possibile, rimase interdetto di fronte alla schiettezza della ragazza. Nella sua testa risuonava una sola frase, quel “sepolta viva dentro una montagna” che Elinor aveva pronunciato con tanta impertinenza e tanto disprezzo. Improvvisamente, tutti gli sforzi che aveva fatto fino a quel momento per mostrarsi cortese e bendisposto nei suoi confronti si disfecero come neve al sole.
«Beh, a quanto pare, però, il destino ha deciso per voi» disse in tono sarcastico, senza nemmeno sforzarsi di sembrare gentile. «A quanto pare, alla fine dovrete davvero passare la vostra vita “sepolta dentro una montagna”.»
Elinor si adeguò subito a quel cambiamento di registro nel tono della loro conversazione. Anzi, quasi sembrava che non stesse aspettando altro che un’occasione per sfogare tutto il suo nervosismo. «Credete che ne sia felice?» domandò in tono freddo, senza abbassare gli occhi da quelli azzurri e furiosi di Thorin. «Credete che questa sia stata una mia scelta?»
«Non temete, non ho dubbi che la prospettiva non vi entusiasmi!». Thorin sputò fuori le parole con rabbia, dominandosi a stento per non alzare troppo il tono della voce. «Il vostro sguardo e il vostro volto hanno parlato in modo sufficientemente chiaro fin da quando avete varcato le porte della Sala del Trono. Certamente deve essere fastidioso, dopo aver passato tutto questo tempo in compagnia di creature perfette come gli Elfi, dover avere a che fare con gente tanto rozza e materialista! Se vi può consolare, comunque, la prospettiva di queste nozze non entusiasma neanche me!»
«Vedo che ci intendiamo alla perfezione, allora!» constatò Elinor, sarcastica. «Me ne compiaccio. Il nostro sarà un matrimonio lungo e felice.»  
«L’unico pensiero che mi consolerà riguardo a questa unione sarà quello di aver fatto il mio dovere nei confronti di mio padre e del mio regno!» ringhiò Thorin, avvicinando minacciosamente il viso a quello di lei. Elinor non battè ciglio e sostenne fieramente il suo sguardo.
«Così come lo sarà il mio» si limitò a rispondere, glaciale.
Rimasero per diversi secondi a fronteggiarsi, fulminandosi a vicenda con lo sguardo, solo vagamente coscienti delle molte teste che, durante il crescendo della loro discussione, si erano voltate a guardarli. Thorin, l’ira che minacciava di sopraffarlo, controllava a fatica il respiro, mentre Elinor stringeva spasmodicamente a pugno le mani per arrestare il tremito che si era impossessato di loro.
Poi, dopo quelle che parvero ore, il giovane principe dei nani arretrò di qualche passo.
 «Credo che sia giunto il momento che voi andiate a preparavi, Elinor» disse con voce cortese, da cui tuttavia trasparì fin troppo chiaramente la sua rabbia repressa. «Il banchetto inizierà tra poche ore. Conoscete la strada per le vostre stanze.»
E, dopo averle rivolto un ultimo sguardo inceneritore, si voltò e si allontanò a grandi passi lungo il corridoio, lasciandola sola sulla terrazza.
 
ANGOLO AUTRICE: Come richiesto, eccomi ritornata da voi! Questo capitolo in realtà non avrebbe dovuto finire qui, ma ero troppo impaziente di aggiornare e di sapere che ne pensavate della protagonista, così ho dato un bel taglio alla faccenda e ho pubblicato il capitolo:) Quindi, chiedo perdono se è un po' più corto del previsto, mi farò perdonare! Come vedete, le cose tra i nostri due protagonisti non sono iniziate proprio nel migliore dei modi, ma è inutile che vi dica che di momenti ammmmmmorosi ne avrete a volontà, anche se magari non subito.
Buona lettura e al prossimo capitolo!

Linda

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Capitolo 3
*** Segreti ***


3. SEGRETI

Elinor dovette fare appello a tutta la sua compostezza per non sbattersi di malagrazia la porta alle spalle quando, finalmente, riuscì a rifugiarsi nella sua stanza. In compenso, trascorse la mezz’ora seguente passeggiando nervosamente su e giù per la camera, cercando di calmarsi e dominando a stento l’impulso di spalancare di nuovo la porta e fuggire.
Come accidenti aveva fatto a cacciarsi in quella situazione? Un momento prima cavalcava felice tra gli alberi di BoscoVerde, allenandosi a tirare con l’arco insieme ai figli di Thranduil, e l’attimo dopo rischiava di venire alle mani con un perfetto sconosciuto che suo padre aveva avuto la brillante idea di designare come suo futuro marito! Forse, se avesse tenuto gli occhi chiusi per un po’ e poi li avesse riaperti, avrebbe scoperto che si era trattato soltanto di un brutto sogno…
Ma, quando tornò a guardarsi intorno, scoprì che la stanza era sempre lì, con il suo letto a baldacchino di legno intagliato, il fuoco che scoppiettava sommessamente nel camino, la pareti di pietra scura e quel piccolo comò con lo specchio rotondo sul quale qualcuno aveva diligentemente allineato una spazzola e un pettine d’argento annerito dal tempo.
Senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo, si avvicinò alla finestra che dava sul corridoio all’esterno, l’unica presente nella stanza. Poi, come cambiando idea all’improvviso, tornò indietro; si fermò accanto al letto, passò nervosamente le dita sui fregi intagliati di una colonna del baldacchino; raggiunse la specchiera, afferrò uno dopo l’altro il pettine e la spazzola e se li rigirò tra le mani. Niente di quello che vedeva o toccava trovava spazio nella sua mente. Nella testa sentiva risuonare soltanto la parole di Thorin, velenose e piene di rabbia, e dovunque si voltasse il suo sguardo adirato era davanti ai suoi occhi, pronto a fulminarla di nuovo e a dimostrarle tutto il suo disprezzo.
Sbattè la spazzola sul comò più forte di quanto avrebbe voluto, e per diversi secondi rimase a fissare la sua immagine riflessa nello specchio, il viso contratto dalla rabbia e il petto che si alzava e si abbassava in un nervoso respiro. Arrogante, presuntuoso, supponente e pieno di sé! Ecco che cos’è era Thorin figlio di Thràin, ecco chi era la persona con cui sarebbe stata costretta a stare a stretto contatto per i giorni, forse addirittura i mesi a venire! Le aveva, neanche troppo velatamente, dato della stupida ragazzina viziata, e tutto soltanto perché aveva osato rinnegare quelle due stramaledette gocce di sangue nano che aveva nelle vene andando a vivere con gli Elfi invece che in quella sua preziosa caverna dove per vedere la luce del sole bisognava percorrere chilometri e chilometri di corridoi! La sua stanza non aveva nemmeno una vera finestra, nel nome di Eru! Come stupirsi, poi, se tutti quei nani erano sempre così seri e pronti a infiammarsi per qualsiasi sciocchezza?
«Non sai niente di me, Thorin figlio di Thràin» mormorò tra sé e sé, tremando di rabbia. «Assolutamente niente.»
Non si sarebbe meritato che lei sprecasse il suo tempo per fargli cambiare idea. Non si sarebbe meritato nemmeno un singolo pensiero da parte sua, nemmeno per ricordarsi di quanto profondamente detestasse le sua maniere altere e scortesi! E invece, a quanto pareva, avrebbe dovuto fare tutto il possibile per fargli cambiare opinione. Se fosse dipeso da lei, avrebbe detto addio ad Erebor e a tutti i suoi abitanti seduta stante, ma si dava il caso che nulla dipendesse da lei, in quella faccenda. C’era in gioco qualcosa di importante, di molto più importante di un semplice matrimonio, ed Elinor aveva imparato presto a capire che la sua volontà, in tutto ciò, contava davvero molto poco. Non aveva mentito, quando aveva detto a Thorin che anche lei si sarebbe consolata con il pensiero di aver fatto qualcosa per suo padre e per il suo regno. Solo che il principe dei nani non si immaginava nemmeno quanto il compito di Elinor fosse immensamente più complicato del suo…
Fu distolta dai suoi pensieri da un nervoso bussare alla porta.
«Chi è?» chiese la ragazza in tono brusco. Tutto quello che desiderava era stare da sola per un paio d’ore…era forse chiedere troppo, in quel posto sempre brulicante di nani che spuntavano da ogni parte come funghi in autunno?
«Apri la porta, Elinor.»
La voce del governatore e il suo tono autoritario la misero ancora più di cattivo umore. Curioso, quanto, negli anni che aveva passato nel Reame Boscoso, fosse sempre impaziente di ritornare a Esgaroth per rivedere suo padre, e invece adesso faticasse a rimanere sola con lui nella stessa stanza per più di cinque minuti…
Elinor eseguì l’ordine senza replicare, ma nell’espressione con cui accolse Eevar nella stanza non c’era nulla di affettuoso o accomodante. Lasciò che il padre fosse entrato e poi, senza dire una parola, richiuse la porta e andò a sedersi sul letto.
«Allora» esordì il governatore in tono polemico, piazzandosi davanti a lei con le braccia incrociate sul petto «cos’è questa storia per cui avresti fatto infuriare Thorin davanti a tutti, si può sapere?»
«Io non ho fatto infuriare proprio nessuno» si difese Elinor con una smorfia. «Mi ha parlato in modo poco rispettoso, dovevo forse rimanere in silenzio?»
L’uomo abbandonò le braccia lungo i fianchi e alzò gli occhi al cielo, traendo un profondo sospiro esasperato. «Elinor, quante volte abbiamo affrontato questa conversazione?» domandò, passandosi stancamente una mano sul viso striato dalle prime rughe.
Elinor abbassò lo sguardo, tormentandosi nel frattempo l’orlo della veste. «Molte, padre» rispose riluttante, con voce sorda.
«E che cosa avevamo stabilito?»
La ragazza deglutì. «Che avrei dovuto fare il possibile per conquistare la sua fiducia. Per entrare nelle sue simpatie. Per…»
Il disgusto - non sapeva se più per suo padre o per se stessa - non le consentì di terminare la frase, ma il governatore pensò a farlo per lei.
«Per conquistarlo» completò Eevar, cercando insistentemente lo sguardo della figlia. «C’è bisogno cheti ricordi quanto è importante il tuo ruolo in questa faccenda?»
«No…»
«Non ci starai ripensando, vero? Perché se tu ci abbandoni adesso, Elinor, tutte le nostre speranze di una vita migliore ci sfuggiranno dalle mani.»
Elinor alzò gli occhi. «No, non ci sto ripensando» rispose in tono duro. «Ho detto che ti avrei aiutato, e ti aiuterò. Ma questo non significa che mi piaccia quello che devo fare, né il piano che il tuo prezioso Uren ha ideato! C’è bisogno che ti ricordi che, se qualcosa va storto, ci rimetteremo la vita tutti quanti?» concluse sarcastica, facendo il verso a suo padre.
Come aveva previsto, l’espressione di Eevar si irrigidì all’istante. Se c’era qualcosa che lo irritava, quello era il sentir criticare Uren. Elinor non si ricordava di una sola volta, da quando il nano era diventato il consigliere del governatore, dodici anni prima, in cui suo padre gli avesse rivolto una parola di biasimo, un’occhiata severa, persino un cattivo pensiero. La stessa cosa, purtroppo, non si poteva dire di Elinor. E, infatti, la loro divergenti opinioni sul conto di Uren erano tra le più comuni cause di litigio tra lei e suo padre.
«Uren è il più valido consigliere che io abbia avuto da moltissimi anni» replicò Eevar in tono severo. «Sa bene quello che fa.»
Elinor produsse quello che somigliava ad un curioso incrocio tra uno sbuffo e un sorriso. «Certo, non ho dubbi che lo sappia» rispose con una vena di sottilissimo sarcasmo che, tuttavia, suo padre non potè fare a meno di cogliere. «Ma tu lo sai?»
Per un attimo, Eevar sembrò tentato di infuriarsi per la sua risposta tagliente, ed Elinor si preparò ad un’altra interminabile discussione disseminata da iperbolici elogi sul conto di Uren e aspri rimproveri di crudeltà e ingratitudine indirizzati a lei. Ma, con sua grande sorpresa, l’espressione contrariata del padre fu subito oscurata da uno sguardo comprensivo, quasi affettuoso, e il governatore si mise in ginocchio davanti a lei per poterla guardare meglio negli occhi.
«Bambina mia» disse in tono rassicurante, come se Elinor fosse davvero una bambina piccola e un po’ stupida a cui si stava ripetendo la stessa cosa per l’ennesima volta «sono consapevole di quali siano i rischi ma pensa a quello che c’è in gioco!» La sua voce si ridusse improvvisamente ad un bisbiglio appena udibile: «L’Archepietra, Elinor! Una volta che l’avremo in nostro possesso, potremo essere tutto quello che vogliamo! Potremo fare tutto quello che vogliamo!»
Elinor, che nel sentire nominare il nome della gemma si era istintivamente guardata intorno, come se qualcuno potesse veramente aver udito il sussurro di suo padre, fece per diversi secondi fatica a respirare. L’enormità di quello in cui si era fatta coinvolgere, l’importanza delle conseguenze che tutto ciò poteva avere, nel bene o nel male, la facevano sentire piccola e impotente. C’era come un grosso masso, sul suo petto, che non voleva saperne di andarsene, e che la pesava immensamente, soffocandola. L’ultima volta che si era sentita così era stato dodici anni prima, quando sua madre era morta… Ma questa volta non c’era un padre forte e amorevole, ad aspettare che lei si gettasse tra le sue braccia e nascondesse il viso sul suo petto. Colui che una volta era stato quel padre, adesso se ne stava lì davanti a lei, fissandola con gli occhi febbrili di un bambino implorante e chiedendole di rischiare tutto in un piano che, a seconda del punto di vista da cui lo si guardava, poteva essere considerato folle o geniale.
“E io ho detto di sì. Ho detto di sì…”
Una fugace visione di ciò che avrebbe potuto succedere se il piano fosse stato scoperto le balenò per un attimo davanti agli occhi. Stranamente, ad efficace concretizzazione dell’ira che i nani avrebbero scatenato su di loro, arrivò l’immagine della faccia infuriata di Thorin.
Elinor si portò una mano alla fronte. Stava per sentirsi male davvero, adesso. Un’ondata di panico, subdolamente annidata in fondo alla sua pancia, minacciava di esplodere, rendendola assurdamente preda di impulsi contrastanti, come alzarsi e scappare dalla stanza o mettersi a ridere istericamente. A mantenerla seduta sul letto e con la mente lucida c’era solo una cosa: la promessa fattale dal padre prima che fosse dato il via al piano, la promessa che, più di ogni altra ragione, l’aveva spinta ad accettare di prendervi parte. Elinor si ripeteva da giorni quelle parole nella testa come un mantra. Erano l’unica cosa a cui riusciva ad aggrapparsi nei momenti di panico e sconforto come quello, l’unica cosa che le permetteva di non perdere la ragione e il sangue freddo…
Respirò profondamente, riacquistando poco a poco il dominio di sé e della sue emozioni. Non poteva tirarsi indietro. Non se ci teneva alla sua libertà…
«Non sono ancora del tutto convinta che possa funzionare» disse, esitante. « I Nani chiamano l’Archepietra il Gioiello del Re, e Thròr la considera la dimostrazione che il suo diritto a regnare è di origine divina. Come fate a sapere che, invece di trattare con noi, non ci manderà contro tutto il suo esercito?»
«Perché» rispose il padre lentamente «se anche solo minacciasse di farlo, noi distruggeremo la sua preziosa gemma. E lui non vorrà che questo accada, sei d’accordo?»
Elinor abbassò lo sguardo. Suo padre – o forse, sarebbe stato meglio dire Uren – aveva studiato tutto nei minimi dettagli, a quanto pareva…
«Sì…» dovette ammettere con riluttanza. «Sì, direi che potrebbe avere senso.»
«Allora capisci quanto è importante che scopriamo dove nascondono l’Archepietra quando non viene esposta sul trono del re?» incalzò Eevar in un bisbiglio concitato, gli occhi che si allargavano di eccitazione. Elinor, tuttavia, non condivideva il suo entusiasmo. Per quanto sapeva che fosse necessario andare avanti con il piano, c’erano ancora troppe cose, troppi dettagli che non la convincevano.
«Thorin non cederà così facilmente» obiettò, scuotendo la testa. Non conosceva ancora a fondo il principe dei nani, ma le era bastato trascorrerci un’ora scarsa per capire che tipo fosse. «E’ altero, superbo e orgoglioso. Morirebbe, piuttosto che rivelare dove suo nonno nasconde il loro tesoro più prezioso.»
Con suo sommo stupore, invece di rimanere turbato dalla notizia appena ricevuta, suo padre non battè ciglio. Si limitò a fissarla con le sopracciglia sollevate e uno sguardo eloquente, come se volesse spingerla a trarre da sola le conclusioni.
«Non se tu cambierai atteggiamento e ti mostrerai…bendisposta nei suoi confronti» disse infatti il governatore in tono soave, ripetendole quello che già sapeva e che avrebbe preferito non sentire di nuovo. «Usa il tuo fascino, nessun uomo è del tutto insensibile al fascino di una donna. E questi nani, gretti e materialisti come sono, dovrebbero esserlo più di qualsiasi altra creatura» concluse Eevar, con una smorfia vagamente disgustata. Elinor, a dispetto del nervosismo del momento, sorrise ironicamente senza farsi vedere. Curioso, come suo padre fosse pronto a rinnegare con superbia le sue origini naniche quando nessuno poteva sentirlo, rivendicandole invece quando gli faceva più comodo. Se non avesse saputo che probabilmente suo padre ci avrebbe rimesso il collo, avrebbe desiderato che Thorin fosse lì ad ascoltarlo. Forse, dopo, non sarebbe stato più tanto arrogante da insinuare che fosse lei a disonorare il sangue di Durin!
Ci pensarono le parole di suo padre a farle scomparire il sorriso. Il governatore, ignaro di tutto ciò che era appena passato per la testa di sua figlia, continuava imperterrito ad istruirla su come doveva comportarsi: «Simpatia, lusinghe, promesse…usa quello che vuoi, ma cerca di scoprire dove è nascosta l’Archepietra
Concluse calcando particolarmente la voce sulle ultime parole, e obbligando Elinor ad alzare la testa per fissarlo negli occhi. Il suo sguardo era talmente granitico e determinato, che la ragazza non potè fare altro che sospirare profondamente e mettere da parte tutte le sue esitazioni.
«Farò del mio meglio» bisbigliò, sperando di suonare convincente.
Per alcuni secondi, con grande sollievo di Elinor, cadde un piacevole silenzio. Sarebbe stato bello che durasse ancora per molto, moltissimo tempo, e che magari portasse via con sé tutte le parole che erano state dette fino ad allora, facendo credere che non fossero mai state pronunciate. Ma il silenzio, invece di alleggerire l’atmosfera, iniziò a renderla più pesante di quanto già non fosse. Ed Elinor, dopo quelli che le parvero soltanto pochi istanti, non potè fare a meno di rialzare lo sguardo verso suo padre. Questi la stava guardando con un affetto e una commozione tale da renderlo quasi irriconoscibile, e dopo qualche secondo, in un impeto di genuina gratitudine, le prese le mani fra le sue.
« Oh, piccola mia!» esclamò, guardandola teneramente. «So che ti sto chiedendo molto. Ma ti prometto che, una volta raggiunto il nostro obiettivo, il tuo compito sarà concluso.» Le carezzò dolcemente una guancia. «Non penserai che tuo padre ti lasci davvero sposare un nano e ti abbandoni ad avvizzire per sempre in questa montagna fredda e buia, vero?»
Elinor chiuse gli occhi. Cercò di sforzarsi di credere di essere tornata bambina, e che suo padre fosse venuto accanto al suo letto per rassicurarla dopo che aveva fatto un brutto sogno. In quei momenti lei si abbandonava fiduciosamente a lui, senza riserve, senza farsi domande. Una sensazione di infinito languore dilagò nel suo stomaco, facendo cadere anche le sue ultime resistenze. Scosse debolmente la testa, mettendo la mano su quella di Eevar e desiderando che, da quando era morta sua madre, ci fossero stati molti altri di quei momenti di intima tenerezza fra loro due. Forse, suo padre non sarebbe diventato quello che era…
Eevar, soddisfatto, sorrise e le dette un bacio sulla fronte. «Sono così orgoglioso di te, Elinor!» disse. «E lo sarebbe anche tua madre, se fosse ancora viva. Lei ha sempre desiderato il meglio per noi.» La sua voce si affievolì mano a meno che andava avanti, il sorriso si spense lentamente, nei suoi occhi la gratitudine lasciò il posto alla tristezza e alla malinconia. «Ha sempre creduto in me» mormorò fissando un punto nel vuoto poco oltre la spalla di Elinor e parlando più a se stesso che alla figlia. «Ha sempre saputo che avrei potuto diventare molto, molto di più, se solo avessi voluto…»
Elinor era ormai abituata al dolore che provava vedendo suo padre in quello stato, ridotto ad aggrapparsi esclusivamente al senso di colpa e al rimpianto. Tuttavia, non potè fare a meno che i suoi occhi si inumidissero, mentre, divisa tra la rabbia e la compassione, allungava le mani verso il viso di suo padre.
«La mamma non ha mai desiderato che tu fossi più ricco o più potente» sussurrò tristemente. «Ti amava per quello che eri.»
“E anche se avesse voluto di più, non l’avrebbe voluto in questo modo.”
Eevar si abbandonò per un attimo alla carezza della figlia, perso in una dimensione a cui Elinor era consapevole di non avere accesso. Poi si riscosse, e, come se Elinor non avesse parlato, nei suoi occhi tornò la determinazione di sempre, accompagnata però da una durezza inconsueta. Si rimise in piedi, quasi vergognandosi di aver ceduto alla debolezza, e si diresse a grandi passi verso la porta.
«Ci vediamo più tardi al banchetto» disse in tono brusco, puntandole l’indice contro. «Ricordati quello che ti ho detto, Elinor.»
E, senza aspettare la sua risposta, uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Elinor, come era ormai abituata a fare da molti anni a quella parte, ricacciò stoicamente indietro le lacrime e si alzò dal letto. Abbracciandosi il petto, la testa incassata nelle spalle, cominciò a passeggiare tristemente per la stanza, cercando di riordinare le idee per la parte che doveva recitare di lì a poco al banchetto. Ma il suo pensiero tornava, inevitabilmente, a suo padre, e a quelle contrastanti sensazioni di amore e di odio che provava nei suoi confronti.
Dopo la morte di sua madre, Miriel, Eevar non si era mai ripreso del tutto. L’aveva amata totalmente e profondamente, e dal momento in cui il viso della moglie – così simile a quello di Elinor – era sparito nel sepolcro dove l’avevano tumulata, qualcosa, dentro di lui, si era irrimediabilmente spezzato. Elinor, a volte, sospettava che l’avesse mandata via da Dale proprio perché somigliava troppo a sua madre, e averla vicino tutti i giorni sarebbe stato un dolore troppo grande da sopportare. Ma la cosa peggiore era stata quando quel dolore aveva cominciato a trasformarsi in rimpianto, in biasimo per se stesso. Il pensiero ossessivo di aver deluso Miriel, di non essere riuscito ad essere abbastanza, per lei, di non essere riuscito a darle abbastanza, dilaniava suo padre da anni, in modo talmente evidente che persino Elinor, che tornava a Esgaroth da BoscoVerde solo occasionalmente, non aveva potuto non accorgersene. Ed era impossibile non capire che proprio questa sua ossessione, alimentata da svariati altri fattori, fosse stata una delle cause che aveva spinto suo padre ad approvare la proposta del suo consigliere.
Certi giorni, Elinor provava un odio feroce e incontenibile per Eevar, per quello che era diventato, per quel suo piano folle, per averla coinvolta in quell’impresa infame.  Poi, però, lo ricordava com’era quando sua madre era ancora viva. Ricordava la sua forza, la sua integrità, il suo coraggio, e la parte irrazionale dentro di lei, che di solito riusciva a nascondere così bene, prendeva il sopravvento. Era allora che tutto l’amore filiale che ogni giorno cercava di soffocare riemergeva prepotente, costringendola a guardare suo padre con gli occhi della bambina che a dieci anni era stata separata da lui per andare a vivere con gli Elfi, e che per altri dieci anni era vissuta nella convinzione di averlo deluso in qualcosa. Era allora che sentiva quella voce nella sua testa, quella voce che le sussurrava suadente che, se il piano fosse andato a buon fine e suo padre avesse ottenuto quello che voleva, forse avrebbe trovato pace, e sarebbe tornato ad essere l’uomo che ancora viveva nei suoi ricordi.
Questo pensiero, e la promessa che suo padre le aveva fatto. Queste erano le giustificazioni che si dava per riuscire a prendere sonno la notte…
Un nuovo bussare alla porta la fece sobbalzare, presa alla sprovvista. Sbattè le palpebre, perplessa. Sicuramente, suo padre si era dimenticato di dirle qualcosa ed era tornato indietro…
«Avanti» disse Elinor, aspettandosi di vedere sbucare dalla porta la testa castana e striata di grigio di Eevar e preparandosi a qualche altra raccomandazione su quello che avrebbe dovuto dire e fare di lì a poco, a cena. Quello che comparve sulla soglia, però, non fu il governatore, bensì Uren.
«Spero di non disturbarvi, Elinor» disse il nano con un sorriso mellifluo. «Posso entrare?»
Elinor, che al vederlo apparire aveva avvertito l’impulso di slanciarsi in avanti e chiudergli di malagrazia la porta in faccia, gli rivolse un’occhiata palesemente infastidita. «Se proprio dovete…»
Gli voltò le spalle, mentre Uren entrava nella stanza e chiudeva la porta. Non voleva dargli la soddisfazione di accorgersi del momento di sconforto che l’aveva appena sopraffatta… Forse era una sua impressione, ma le sembrava che Uren fosse sempre in grado di individuare le sue debolezze, le crepe nella dura corazza che si era costruita addosso nel corso degli anni. Elinor non aveva idea di come ci riuscisse, ma il nano aveva un modo tutto suo di penetrare in quelle crepe con commenti apparentemente innocenti, vaghe allusioni e sguardi eloquenti, e allargarle a suo piacimento finchè la debolezza di Elinor non diventata palpabile.
«Sono venuto a vedere come stavate» esordì Uren muovendo qualche passo verso di lei. «Oggi è stata una giornata pesante, per voi, e ho sentito dire che il primo impatto con il principe Thorin non è stato dei migliori…»
Elinor, continuando a dargli le spalle, piegò le labbra in un sorriso amaro. A quanto pare, le notizie, a Erebor, viaggiavano fin troppo veloci…
«Vedo che siete già informato di tutto quello che c’è da sapere, allora» ribattè seccamente. «Potevate risparmiarvi il disturbo di venire.»
Non si preoccupò minimamente di risultare offensiva. Sapeva benissimo qual’era il suo scopo, e aveva imparato per esperienza che la gentilezza non era affatto efficace per toglierselo di torno. I nani erano troppo caparbi per farsi scoraggiare da due o tre paroline cortesi…
A quanto pare, però, anche Uren aveva imparato a conoscere la sua strategia, perché quando parlò fu come se non avesse nemmeno udito il pungente sarcasmo della voce di Elinor.
«Al contrario, per me è un piacere preoccuparmi del vostro stato d’animo» disse in tono amabile.
Se era una gara per scoprire chi avrebbe ceduto prima, lei parlando in modo scortese e lui facendo finta di nulla, Elinor era pronta a fare del suo meglio.
«Non credo che ci sia molto da dire al riguardo, tranne che sono molto stanca» rispose, sperando che Uren cogliesse l’allusione (nemmeno troppo sottile) al fatto che desiderava essere lasciata in pace e rimanere da sola. Ancora una volta, però, il suo tentativo cadde nel vuoto.
«Certo, lo immagino» disse infatti il nano, lasciando deliberatamente trasparire una sfumatura di premurosa apprensione dalla sua voce sgraziata. «Questo gravoso compito che vi è stato affidato… dovete risentire terribilmente della tensione, ne sono sicuro. Concedetemi però di osservare che la fatica non sembra aver avuto alcun effetto sulla vostra bellezza.»
Bene, era arrivato al punto, finalmente. Elinor si stava giusto chiedendo quanto tempo ci avrebbe messo per scoprire le carte. Purtroppo per lui, però, la ragazza aveva preso parte a fin troppe conversazioni simili a quella, nei mesi appena trascorsi, per non sapere come si sarebbe sviluppata quella di adesso e dove sarebbe andata a parare.
«Uren, sareste così gentile da dirmi quello per cui siete venuto nella mia stanza?» chiese un tono aspro, preferendo dare un taglio netto alla cosa. Se dovevano mettere in scena di nuovo quella recita, era meglio che si svolgesse tutto in modo rapido e indolore… «Si sta facendo tardi, e devo prepararmi per il banchetto.»
«Naturalmente, naturalmente» concordò Uren, con la voce servile e persuasiva che Elinor lo udiva sempre usare nei riguardi di suo padre. «A questo proposito, vorrei offrirvi un piccolo omaggio che spero mi farete l’onore di indossare questa sera…»
Elinor lo sentì avvicinarsi a lei e aprire una falda della cappa di pelliccia che indossava per tirarne fuori qualcosa. Un attimo dopo, nel suo campo visivo entrava la tozza mano di Uren, sul cui palmo giaceva una piccola e raffinata spilla d’oro e smeraldi dalla forma di un ramo fiorito.
«Trovo che si intoni perfettamente con i vostri occhi» osservò il nano a mezza voce, parlandole talmente da vicino che Elinor avvertì chiaramente il suo respiro sul collo. Anche senza guardarlo in faccia, potè vedere l’espressione di vivo desiderio che si era accesa nei suoi piccoli e irrequieti occhi color onice. Quel contatto ravvicinato la disgustò a tal punto che non potè trattenersi dall’allontanarsi bruscamente da lui di qualche passo, incrociando nervosamente le braccia sul petto.
«Sapete bene che non posso accettare regali da parte vostra» disse in tono freddo.
«Non potete…o non volete?»
«Nel mio caso le due cose coincidono, mastro Uren.»
Seguirono lunghi secondi di silenzio, che furono rotti soltanto da un teatrale, profondo sospiro da parte del nano.
«Elinor, perché continuate a rifiutare le mie offerte di amicizia?» domandò con il tono stanco e sofferente di uno che ha tentato con tutte le sue forze e si è solo scontrato contro un muro di cieca testardaggine. «Ho un’altissima stima di voi, lo sapete bene.»
Elinor si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere e dal dirgli che, sicuramente, la cosa non era reciproca. «Conoscete fin troppo bene il perchè» si limitò a rispondere, mantenendo il suo tono distaccato.
Trovava un insulto alla propria intelligenza il fatto che Uren pretendesse di farle credere che la spilla fosse frutto di un pensiero totalmente disinteressato, quando riempirla di regali era stato il metodo principale con cui, per diverso tempo, aveva provato a ingraziarsela e aveva introdotto le sue innumerevoli proposte di matrimonio. Elinor odiava generalizzare, ma sperava vivamente che quell’atteggiamento così gretto e materialista, per cui Uren era sempre stato convinto di poterla comprare come fosse un oggetto, non fosse una prerogativa di tutti i nani, come ogni Elfo con il quale era venuta a contatto nei passati dieci anni sembrava credere. In ogni modo, di una cosa era sicura: Uren era l’unico nano di sua conoscenza che avesse un comportamento così servile, affettato e mellifluo. Si potevano dire molte cose, sui nani, ma non che non fosse gente orgogliosa e fiera, che si rifiutava piegarsi davanti a chicchessia. Le tornò in mente il portamento maestoso di Thorin, il suo sguardo fiero e la sua franchezza che solo per un soffio non sconfinava nella scortesia. Qualcosa di totalmente diverso dal sorriso untuoso di Uren, dalla sua voce sempre talmente soave da risultare inquietante, da quella sua indecifrabile ambiguità…
«So che pensate che io voglia di nuovo accattivarmi le vostre attenzioni» continuò Uren, esibendo un ben studiato tono di voce a metà tra l’ironia e l’amarezza. «Ma vi assicuro che non è così. Sono stato rifiutato troppe volte perché possa ancora nutrire qualche speranza di piacervi.»
A Elinor mancò quasi il fiato di fronte all’ipocrisia di tale affermazione e alla vaga sfumatura di trionfo che vi scorse all’interno. La stava sbeffeggiando, riuscendo a camuffare abilmente la perfidia con la rassegnazione. Quanto doveva aver esultato, quando, dopo tutti gli innumerevoli rifiuti ricevuti, la superbia di Elinor era stata bruscamente ridimensionata da quella decisione del governatore! Quanto doveva aver gioito, quando suo padre le aveva chiaramente fatto capire che, se entro poco tempo non avesse trovato un altro pretendente che la accontentasse, non avrebbe avuto altra scelta che farle sposare il suo fedele e leale consigliere, che era sicuramente molto affezionato a lei e sarebbe stato in grado di amarla e rispettarla come nessun altro!
Elinor aveva passato alcuni giorni in preda alla disperazione più nera. Avrebbe sposato chiunque, pur di non diventare la moglie di Uren, ma non c’era nessun altro che si fosse presentato al palazzo del governatore per chiedere la sua mano. E suo padre, irrimediabilmente cieco di fronte allo strisciante servilismo di Uren e al disgusto che lei provava per esso, non sembrava aver intenzione di recedere dalla sua decisione. Poi, come un miracolo, poco tempo dopo era arrivata la proposta di suo padre di aiutarli nel piano che avevano ideato ai danni di re Thròr. E la sua promessa, se avesse svolto il compito che intendevano affidarle, che dopo avrebbe potuto sposare chiunque volesse, senza alcuna imposizione da parte sua.
Elinor preferiva non ripensare alla rapidità con cui aveva messo a tacere la sua coscienza e aveva preso la sua decisione. Ricordava soltanto che nella sua testa, allora come per tutti i giorni che seguirono, martellava un solo pensiero: “Non voglio cadere nella mani di Uren.” Era una prospettiva che, da sola, bastava a farla sentire male e farle desiderare, piuttosto, una morte veloce e sicura. Così, parlando più rapidamente possibile per non essere costretta ad ascoltare quanto meschino e deplorevole fosse quello che stava accettando di fare, aveva detto di sì.
La sua decisione, comunque, non sembrava aver spento l’ardore di Uren nei suoi confronti. Il nano anzi, come dimostrava il fatto che fosse di nuovo lì davanti a lei a lusingarla, era diventato, se possibile, ancora più insistente. Non le chiedeva più di sposarla, ma il desiderio e la cupidigia con cui la guardava erano addirittura aumentati, ed erano resi ancora più insopportabili da quella persistente aria di segreto trionfo che il consigliere non sembrava mai abbandonare.   
«Mia lady» stava dicendo nel frattempo il nano, con compita cortesia. «Sono sicuro che vostro padre vorrebbe che noi appianassimo le nostre divergenze, in modo da poter lavorare uniti e in armonia in questo progetto. Ha sempre visto con favore una possibile…amicizia tra noi due.»
La sottile - e sicuramente ben studiata - esitazione prima della parola “amicizia” fece sì che l’irritazione di Elinor esplodesse.
«Oh, voi sembrate sapere sempre così bene cosa pensa mio padre, non è vero?» sbottò piccata, voltandosi finalmente a guardarlo, il sarcasmo che trasudava da ogni sua singola parola. Il nano non sembrò offeso da questa sua palese frecciata. Si limitò a sollevare le sopracciglia in un’espressione di vaga sorpresa.
«Oso dire che io e il governatore siamo molto in…sintonia» rispose lentamente. «Per questo vostro padre mi fa l’onore di chiedere così spesso i miei consigli.»
«Consigli che non contribuiscono certo a fargli trovare la pace che tanto meriterebbe!» replicò Elinor velenosa, ripensando allo sguardo febbrile e allucinato di suo padre mentre si perdeva nel ricordo di sua madre. La faceva impazzire il fatto che Eevar fosse sempre così pronto a dare retta a Uren, soltanto perché gli diceva quello che lui avrebbe voluto sentirsi dire. La faceva impazzire il fatto che suo padre la trattasse ancora come una bambina di dieci anni. La faceva impazzire il fatto che dimostrasse di più il suo affetto e la sua gratitudine a quel disgustoso individuo, che a lei, sua figlia.
«Mi duole che pensiate questo di me, Elinor» disse il nano, ostentando un’espressione profondamente ferita. «Vi garantisco che ogni mio pensiero, quando ho proposto al governatore il mio progetto, era rivolto a procurargli il maggior numero possibile di benefici.»
«Benefici che, certamente, non riguarderanno soltanto lui» ribattè Elinor, senza riuscire a trattenersi. Un secondo dopo, si rese conto che avrebbe fatto meglio a tacere. A Uren era certamente stata promessa una buona parte delle ricchezze che avrebbero ottenuto ricattando Thròr, su questo non c’erano dubbi. Ma suo padre e il consigliere non erano i soli che avrebbero avuto vantaggi da quel piano. Anche lei aveva accettato di prendervi parte per trarne un beneficio: la sua libertà. E per averla si stava sporcando, né più né meno come stavano facendo loro. Con quale diritto andava a biasimare qualcun altro?
Uren sembrò leggere questi pensieri nei suoi occhi, perché sollevò un sopracciglio e sogghignò leggermente, come divertito dalla sua incoerenza. Elinor abbassò lo sguardo, arrossendo di vergogna e di rabbia. Gli aveva appena dato modo di individuare una delle famose crepe nella sua corazza, una delle sue debolezze, e non aveva dubbi che il nano avrebbe sfruttato questo vantaggio fino in fondo.
«So cosa pensate, Elinor» disse Uren dopo averla fissata per qualche secondo. «Siete contrariata perché vostro padre non chiede il vostro parere sulle questioni più importanti spesso quanto voi vorreste. Credete che i miei consigli lo stiano allontanando da voi…»
Elinor si voltò a guardarlo, forse un po’ più velocemente di quanto avrebbe dovuto, e immediatamente Uren capì di aver colto per la seconda volta nel segno.  
«Ma non preoccupatevi,» aggiunse il nano in un tono che avrebbe dovuto essere scherzoso, ma che risultò solo perfidamente insinuante «non intendo portarvelo via.»
“L’hai già fatto.”
Elinor sostenne il suo sguardo, fermamente decisa a non dargliela vinta, incurante del fatto che i suoi occhi si stessero di nuovo inumidendo. Anche se dentro di sé stava andando in pezzi, non avrebbe dato a Uren la soddisfazione di mostrarsi sconfitta…
Il nano la osservò in silenzio per qualche secondo, godendosi fino in fondo la sua espressione piena di rabbia impotente, poi, come ricordandosi di qualcosa, tornò a posare lo sguardo sulla spilla che ancora aveva sul palmo della mano.
«Dunque non volete proprio accettare il mio regalo?» chiese, in un tono ferito che risultò quasi convincente.
Elinor gli riservò uno sguardo talmente pieno di disgusto e disprezzo che si stupì di come il nano non fosse rimasto incenerito seduta stante. «No.»
«No, certo» sorrise Uren, rimettendosi la spilla in tasca. «Sono stato uno stupido ad avere avuto un pensiero del genere. La mia lady è una persona troppo pulita per ingannare un uomo che non ama accettando regali da parte sua.»
Tacque per qualche secondo, ed Elinor fu certa che si fosse preso qualche istante per verificare che effetto avesse avuto su di lei quella sottile allusione riguardo al reale stato della sua coscienza. Ancora una volta, l’aveva colpita nel profondo. E ancora una volta, la ragazza incassò la stoccata con una dignità e una fermezza per le quali, era sicura, doveva ringraziare soltanto quella piccola parte di sangue nano che le scorreva nelle vene.
«Credo che sia ora che ve ne andiate, mastro Uren» proferì lentamente, senza minimamente cercare di nascondere la sfumatura minacciosa nella sua voce. «Si è fatto decisamente tardi.»
«Sì, avete ragione» rispose il nano in tono tranquillo, come se non avesse nemmeno notato la sua ostilità. «E’ meglio che vada. Devo prepararmi anch’io per il banchetto. E poi, non vorrei che il principe Thorin mi trovasse in compagnia della sua futura sposa. I nani sono molto gelosi delle loro donne…»
E con un ultimo, appena accennato sorriso di trionfo, chinò il capo in un rispettoso cenno di saluto e uscì dalla stanza.
Elinor richiuse bruscamente la porta alle sue spalle e vi rimase appoggiata con la schiena, ascoltando per accertarsi che i suoi passi si stessero davvero allontanando lungo il corridoio, il petto che si alzava e si abbassava in profondi respiri.
Doveva calmarsi. Doveva recuperare il controllo di sé. Tra meno di un’ora avrebbe dovuto scendere nella sala del banchetto e fare del suo meglio per sorridere ed essere irresistibile. Gli servivano tutte le sue forze e tutta la sua concentrazione. Qualunque cosa Uren avesse detto, in qualunque modo fosse quasi riuscito a condurla sull’orlo del crollo nervoso, adesso non aveva più alcuna importanza. Semmai, avrebbero dovuto servire a ricordarle perché era lì.
La tua libertà…La tua libertà…
Cercando di controllare il tremito che le stava afferrando le gambe, si staccò dalla porta e si avvicinò alla specchiera. Si appoggiò con entrambe le mani al ripiano del mobile e fissò per qualche secondo il suo viso riflesso nello specchio, chiedendosi per quanto ancora la sua coscienza le avrebbe permesso di farlo.
 
ANGOLO AUTRICE: Ce l’ho fatta! Questo capitolo è stato veramente un parto, soprattutto la seconda parte, quando Elinor parla con Uren…Dovevo dare un sacco di informazioni per “inquadrare” la situazione, e non riuscivo a inserirle nel modo giusto nei dialoghi… Beh, spero che il risultato sia convincenteJ Chiedo perdono se in questo capitolo non s’è visto Thorin, ma mi serviva un momento solo di Elinor in cui rivelare finalmente perché è stata promessa in sposa a Thorin e che cosa hanno in mente suo padre e il suo strisciante consigliere nano. Mi farò perdonare nei prossimi capitoli, promessoJ
Adesso vi lascio alla lettura, ma non prima di aver ringraziato tutte coloro che hanno recensito finora, e che spero continueranno a seguirmi!

Enjoy yourself!

Linda

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Capitolo 4
*** L'orgoglio dei Nani ***


4. L’ORGOGLIO DEI NANI

La sala dei banchetti, quella sera, era piena di risate, di persone, di fumo e di musica.
Capitava di rado, ad Erebor, che qualche ospite venisse in visita, ma quando accadeva, re Thròr non badava a spese pur di assecondare ogni suo desiderio. Se c’era qualcosa che amava ancora più dell’oro e delle ricchezze, era il loro sfoggio plateale e orgoglioso. Due inclinazioni che, il più delle volte, faticavano ad andare d’accordo.
In onore della visita del governatore e di sua figlia, nell’ampia sala da pranzo del palazzo reale di Erebor erano state predisposte ben cinque lunghe tavole, intorno alle quali, seduti l’uno accanto all’altro su interminabili panche, stavano tutti i nani appartenenti alle famiglie più importanti del reame sotto la montagna. Re Thròr sedeva a capotavola della tavola centrale, su una sedia di legno intagliato dall’alto schienale, guardandosi intorno con aria soddisfatta e compiaciuta. Alla sua destra, al posto d’onore, per l’occasione non sedeva suo figlio Thràin, ma Eevar di Dale, vestito con i suoi abiti migliori in scintillante seta dorata.
«Vostra figlia non è ancora arrivata, governatore…» osservò Thràin, dalla sinistra del re, sorseggiando una coppa di vino. Il governatore rispose con una breve risata di circostanza.
«Oh, la puntualità non è mai stata una dote di mia figlia» disse in tono indulgente. «Dovete scusarla, mio principe.»
«Ho paura di dovermi assumere la responsabilità di questo ritardo, miei signori» si intromise Uren, seduto alla sinistra di Eevar. «Sono andato a farle visita poco fa per sincerarmi che non avesse bisogno di nulla, e temo di averla trattenuta più del dovuto. Ma sono sicuro che arriverà a momenti.»
Thorin, dal suo posto sulla panca alla destra di suo padre, non riuscì a trattenere uno sbuffo sarcastico. Per quanto lo riguardava, Elinor di Dale avrebbe potuto benissimo rimanere nella sua stanza per tutta la sera, e, visto che c’era, anche per il resto di quella sua visita ad Erebor. Sarebbe bastato ignorare suo padre e quel suo strano consigliere, e avrebbe potuto fingere che quella fosse semplicemente una festa tra amici, come tante altre a cui aveva partecipato in passato. Ma, per quanto si sforzasse, le parole che Elinor gli aveva sputato in faccia con tanto disprezzo quel pomeriggio bruciavano ancora troppo, perché potesse riuscire a mettere da parte la rabbia almeno per qualche ora. Fece roteare il vino dentro al proprio calice, fissandolo con aria cupa. Se quella era la persona con cui avrebbe dovuto passare il resto della sua esistenza…una piccola, spocchiosa, viziata amica degli Elfi… Preferì respingere con decisione i pensieri di fuga e di ribellione che gli si affacciarono prepotenti alla mente, e si appellò con tutte le sue forze al senso di onore e di dovere che provava nei confronti di suo padre, di suo nonno e del suo popolo.
«Stai fissando quel vino come se volessi affogartici dentro» osservò proprio in quel momento la voce burbera di Dwalin. Il nano, la testa semicalva coperta di tatuaggi in scrittura nanica e la sua solita cresta di capelli che lo faceva somigliare ad un gallo da combattimento, si lasciò cadere pesantemente nel posto vuoto accanto a lui, che Thorin gli aveva tenuto per essere sicuro di trascorrere la serata con almeno una faccia amica a confortare il suo pessimo umore.
Thorin rispose con un sorriso amaro, continuando a fissare il bicchiere e cercando di ignorare il fastidioso cicaleccìo del governatore, che stava conversando con suo padre e suo nonno. «Non so se valga la pena di affogarsi per una cosa del genere, ma forse se ne bevo abbastanza potrei riuscire a dimenticare tutto…per un po’, almeno.»
«Mi sembra un’ottima soluzione, fratello» concordò Dwalin assestandogli una poderosa pacca sulla spalla. «E sarò ben felice di darti manforte. Vino!» gridò ad una sguattera nana che passava poco distante da lì, e che si affrettò a raggiungerlo per riempirgli la coppa. Mentre la donna si allontanava, Thorin non potè fare a meno di notare che Dwalin voltava impercettibilmente la testa per seguirla con lo sguardo, e l’occhiata di apprezzamento che l’amico lanciò verso il suo fondoschiena pieno e sodo lo fece sogghignare malgrado il suo malumore.
«Rolgha è una brava ragazza, ed è anche piuttosto carina» disse in tono eloquente. «Sarebbe ora che tu le dicessi qualcosa di gentile, a parte gridarle ‘Vino!’ o ‘Birra!’ o ‘Altro montone!’.»
«Non essere ridicolo…» bofonchiò Dwalin, che, Thorin lo sapeva bene, si sarebbe fatto spellare vivo piuttosto che dimostrare apertamente il suo affetto per qualcuno. Persino con suo fratello Balin, che era il suo unico familiare e la persona a cui era più attaccato al mondo, non si sbilanciava mai troppo, ma Thorin aveva imparato a riconoscere quanto fosse felice di vederlo dalla forza con cui lo prendeva a testate ogni volta che si salutavano.
Il principe dei nani fissò per un attimo il fondo della sua coppa ormai vuota, e, inspiegabilmente, l’altezzoso viso di Elinor, gli occhi verdi carichi di disprezzo e di superbia, si materializzò in mezzo alle ultime gocce di vino. La rabbia, tornando prepotentemente a galla, gli fece sbattere stizzosamente il calice sul tavolo.
«No, hai ragione» ringhiò, afferrando la caraffa e versandosi altro vino. «Meglio tenersi il più lontano possibile dalle donne. Non portano altro che guai!»
Dwalin lo fissò di sottecchi per qualche secondo, capendo perfettamente che, in quel momento, il punto della questione non erano affatto lui e Rolgha. D’altronde, era più che abituato ai bruschi cambiamenti d’umore di Thorin.
«Beh, vedila in questo modo, amico» disse in tono spiccio. «Quando sarete sposati, che le piaccia o no, la ragazza dovrà venire a vivere in questo posto, e a quel punto avrà due possibilità: farsene una ragione e iniziare a farselo piacere, oppure continuare ad odiarlo ma tenendo la bocca chiusa. Quindi, comunque vada, le cose possono solo migliorare.»
Dwalin non aveva tutti i torti, rimuginò Thorin. In fin dei conti, quello non era né il primo né l’ultimo matrimonio combinato della Terra di Mezzo, e non gli risultava che nessuno fosse mai morto a causa di una moglie sgradita. Lui era un ano, un figlio di Durin. Sopportava il freddo, il cadlo, la fatica e il dolore meglio di qualunque altra creatura della Terra di Mezzo. Sarebbe sopravvissuto anche a questo. E se Elinor di Dale avesse di nuovo espresso le sue opinioni su Erebor con così poco riguardo per il suo orgoglio, l’avrebbe rispedita dagli Elfi, dove, ne era certo, sarebbe stata ben felice di stare! Dopotutto, nessuno li obbligava a stare insieme, una volta pronunciate le promesse di matrimonio…
 Si stava giusto crogiolando in questo confortante pensiero, quando Elinor comparve sulla porta della sala. Immediatamente, il brusio generale diminuì di volume, e molte teste si voltarono nella sua direzione, mentre la ragazza si guardava intorno, titubante e palesemente imbarazzata. Non doveva essere molto abituata a ricevere tutte quelle attenzioni, riflettè Thorin, osservandola con aria truce dal suo posto nella tavola centrale. In effetti, sembrava che stesse facendo del suo meglio per mettersi il meno possibile in mostra, e questo, visto il modo superbo e impertinente con cui gli si era rivolta quel pomeriggio, lo sconcertava non poco. Notò che, esattamente come quando aveva fatto il suo ingresso nella sala del trono, non indossava gioielli. Quei suoi vividi occhi verdi screziati d’oro sembravano essere la sola cosa che avesse il permesso di scintillare sul suo corpo, e se quel pomeriggio non fosse stata così arrogante, Thorin avrebbe potuto persino spendere qualche secondo ad ammirarli come, effettivamente, si meritavano. Ma nessuno poteva guardare dall’alto in basso lui e il suo regno senza guadagnarsi il suo eterno disprezzo. Nessuno. Ed Elinor di Dale avrebbe potuto essere affascinante quanto la più bella dama elfica o la più splendida regina degli uomini, questo non avrebbe cambiato la sua opinione su di lei!
La guardò quindi muovere qualche incerto passo nella sala, seguita dagli sguardi di tutti i presenti, che, al suo passaggio, chinarono brevemente il capo in un rude segno di saluto - il massimo che la sobria etichetta nanica poteva consentire loro – fissandola con lo sguardo traboccante di disprezzo.
«Thorin!» sibilò suo padre, assestandogli una gomitata nelle costole e facendogli un discreto segno con il capo in direzione della ragazza. Thorin, per un attimo, valutò la possibilità di ignorare l’ordine di Thràin e tornare a dedicarsi al boccale di birra che si era appena riempito, lasciando che Elinor trovasse da sola la strada per il suo posto a tavola.
«Thorin
L’insistenza di suo padre fu tale, e lo sguardo d’avvertimento che gli lanciò fu tanto eloquente, che fu costretto ad alzarsi dal suo posto per andare incontro a Elinor.
«Mia signora» disse a denti stretti quando le fu davanti, piegando la testa in un rigido cenno di saluto. Si sarebbe rifiutato persino di guardarla, se il tono con cui Elinor gli rispose non l’avesse preso alla sprovvista. Si sarebbe aspettato un atteggiamento altezzoso, sprezzante, da parte sua. Si sarebbe aspettato di veder brillare la sfida, in quegli occhi del colore della foresta baciata dal sole. Invece, non ci fu nulla di sgarbato nel modo in cui la ragazza rispose al suo saluto, e quando Thorin alzò gli occhi su di lei, si accorse che le sue labbra erano piegate in un timido sorriso. Questo non servì affatto a placare la rabbia di Thorin, anzi, la rese, se possibile, ancora più bruciante e furiosa.
Messa di fronte alla scelta di passare i seguenti dieci anni della mia vita sepolta dentro una montagna oppure in un luogo aperto, verde e spazioso, ho preso la decisione più congeniale alla mia natura, ovvero quella che somigliasse il meno possibile ad una prigione…
Davvero quella ragazzina pensava che bastasse sbattere le ciglia e fargli gli occhi dolci, per fargli dimenticare l’offesa di appena qualche ora prima? Se davvero era così ingenua da credere una cosa del genere, le avrebbe fatto vedere di quel che era capace l’orgoglio nanico! Avrebbe fatto in modo che in futuro ci pensasse due volte, prima di insultare apertamente il suo regno e parlare con tanto disprezzo di Erebor!
Afferrò bruscamente la mano che Elinor gli tendeva, fulminandola con un’occhiata che fece morire subito il sorriso sulle labbra della ragazza. «Se volete farmi l’onore…» ringhiò, dandole un piccolo ma chiaramente stizzoso strattone per invitarla a seguirlo.
Elinor, costretta a fare buon viso a cattivo gioco, si affrettò a trasformare la sua espressione delusa in un sorriso ancora più ampio. «Con immenso piacere…» rispose tra i denti, seguendolo docilmente verso la sezione della tavola centrale dedicata alla famiglia reale e ai suoi ospiti. Mentre passavano, i nani seduti sulle panche alzarono tutti insieme i loro calici di vino e i loro boccali di birra verso di loro, in un silenzioso cenno di saluto e di augurio. Thorin non li degnò di un solo sguardo. In realtà, nemmeno li vide. La sua mente era troppo ribollente di collera repressa, per riuscire a fargli percepire qualcos’altro che non fosse lo sgradito contatto della sua mano ruvida su quella sottile di Elinor. Dovette esercitare un notevole autocontrollo, per non stringerla in una morsa e stritolargliela fino a farla gridare di dolore. Persino il suo profumo lo infastidiva. Lo sentiva salire su per le narici, annebbiandogli il cervello come quando beveva troppa birra… Robaccia elfica, senza alcun dubbio! A una vera figlia di Durin non sarebbe mai passato per la testa di impregnarsi di un olezzo tanto stucchevole!
«Ah, Elinor!» esclamò gioviale il governatore quando, con grande sollievo di Thorin, finalmente arrivarono all’altezza dei propri posti. «Ci stavamo giusto chiedendo che fine avessi fatto!»
«Sono mortificata, padre» rispose Elinor in tono di scusa. «Ero molto stanca quando sono salita nelle mie stanze, e devo aver dormito troppo. Perdonatemi, maestà» aggiunse rivolgendo un piccolo inchino a Thròr e poi a Thràin. Il re, troppo impegnato a rigirarsi tra le dita con sguardo adorante una delle posate d’oro, a malapena la sentì. Suo figlio, invece, le rivolse un ruvido sorriso e la invitò a sedersi.
«Accomodatevi, Elinor» disse Thràin, indicandole il suo posto sulla panca. «Stanno giusto per servire la prima portata. E voi, laggiù!» gridò con voce tonante rivolto ai nani che, sistemati sul fondo della sala, avevano il compito di intrattenere gli invitati. «Non state lì a contarvi i peli della barba! Voglio musica, nel nome di Durin!»
Immediatamente un’allegra melodia di flauti e di tamburelli invase la grande sala dalle pareti di pietra, mentre il vociare e gli schiamazzi dei nani riprendevano forte come prima, e dalla cucina iniziavano ad uscire vassoi carichi di prelibatezze di ogni genere, che venivano posati in mezzo alle lunghe tavole insieme ad altre caraffe piene di vino e birra.
Thorin si lasciò cadere pesantemente al suo posto, mentre di sottecchi osservava Elinor sollevare con grazia il vestito bianco e azzurro polvere bordato di nero – di chiara foggia elfica – e sistemarsi tra suo padre e Uren, che era prontamente scivolato un po’ più a sinistra per farle posto. Non gli sfuggì lo sguardo carico di cupidigia che il consigliere nano fece scorrere lungo la figura di Elinor, e si disse che, evidentemente, la (discutibile) fortuna di vedersi destinare in sposa quell’irritante ragazza era capitata al nano sbagliato. Afferrò una coscia di montone dal vassoio che gli era stato posato davanti e la addentò come se volesse sbranarla.
La serata si trascinò lentamente. O almeno, questa fu l’impressione di Thorin, che, nonostante la musica, il buon cibo e l’atmosfera tutto sommato allegra, non ricordava di aver mai preso parte ad un banchetto tanto deprimente in vita sua. Si era chiuso in un cupo e ostile mutismo, e aveva lasciato ben volentieri che fosse suo padre ad occuparsi di intrattenere gli ospiti. Alzava lo sguardo dal piatto soltanto per riempirlo di altro cibo, per sogghignare ai sarcastici borbottii di Dwalin, e, di tanto in tanto, per fulminare Elinor con occhiate piene di rancore.
In realtà, notò che la ragazza non sembrava affatto a disagio in quella situazione che, per lei, avrebbe dovuto essere perlomeno insolita. Invece di piluccare il cibo, lamentarsi per l’assenza di vegetali nei vassoi e osservare con tacito e malcelato disprezzo lo schiamazzare e l’ingordigia dei nani, Elinor mangiava con gusto qualsiasi cosa le fosse messo davanti e rideva, sinceramente divertita, alle battute che suo padre e gli altri invitati intorno a loro dispensavano con voce gioviale e arrochita dal bere.
Quando, per quella che doveva essere la quarta o al quinta volta, la risata argentina di Elinor si levò sopra il frastuono della sala da pranzo, Thorin alzò gli occhi su di lei e la osservò con gli occhi ridotti a fessure al di sopra del bordo del bicchiere che si era appena portato alle labbra. La ragazza, i denti bianchi scoperti e le guance accese dal caldo, dal cibo e dal vino – che Thorin aveva visto scomparire rapidamente dal suo calice già una volta – rideva con la mano poggiata sul petto ad un commento di sua sorella Dìs, seduta un paio di posti dopo Dwalin, a proposito del russare notturno di suo marito.
«E credimi, nemmeno prenderlo a calci in quel suo enorme sedere servirebbe a qualcosa!» stava dicendo Dìs, gesticolando, come suo solito, più del necessario, e non curandosi del fatto che il suo vocione dal timbro maschile svettasse di gran lunga su tutti gli altri.
Thorin grugnì. Il fatto che sua sorella fraternizzasse con Elinor gli piaceva assai poco, ma la verità era che Dìs aveva la tendenza a fraternizzare con chiunque stesse fermo abbastanza a lungo da permettergli di farlo. Sotto questo aspetto, era perfettamente chiaro a chi il loro padre avesse trasmesso il suo carattere… E in più, essendo cresciuta in una famiglia composta quasi esclusivamente di maschi (la loro madre era morta di parto dando alla luce Frèrin), Dìs sentiva continuamente il bisogno di una figura femminile con cui dare sfogo alla parte più frivola di sé. Non si stupiva che, appena aveva avuto la possibilità di attaccare discorso con Elinor, ci si fosse buttata a capofitto…
Mentre rimuginava su questi pensieri e malediceva sua sorella per la sua esuberanza decisamente fuori luogo, i suoi occhi incontrarono quelli di Elinor. La ragazza tentò di nuovo di rivolgergli un cauto sorriso, ma Thorin, fermamente deciso a comportarsi come se lei non esistesse, la fulminò con l’ennesima occhiata sprezzante e distolse lo sguardo, fingendosi particolarmente interessato alla conversazione tra suo padre e il governatore a proposito di una futura mediazione di quest’ultimo in un’alleanza tra Nani ed Elfi. Purtroppo, viste le vicende di quel pomeriggio, anche questo argomento non fece altro che alimentare il fuoco della sua rabbia, e Thorin avvertì un impellente bisogno di alzarsi da tavola, uscire da quella sala e andare a battere il martello su un pezzo di ferro incandescente per sfogarsi. Mai come quella sera il sapore del cibo gli era sembrato così amaro, la confusione così fastidiosa e la musica così irritante.
Stava giusto per mettere in atto il suo proposito, adducendo come scusa un improvviso bisogno di andare ad assolvere i suoi bisogni corporei, quando suo padre si alzò in piedi, battendo le mani per richiamare l’attenzione generale.
«Adesso che siamo tutti quanti sazi» annunciò, annunciò, allargando le braccia e volgendo intorno uno sguardo soddisfatto e leggermente annebbiato per il vino e la birra «credo che le danze possano avere inizio! Che le tavole siano subito addossate al muro, e che tutti quanti dimostrino ai nostri ospiti come festeggiamo gli avvenimenti lieti qui ad Erebor!»
Un applauso di approvazione, condito di urla e fischi entusiasti, accolse l’ordine di Thràin, e immediatamente l’intera sala si mobilitò per creare uno spazio abbastanza largo che potesse fungere da pista da ballo.
A Thorin non rimase che abbandonare i suoi propositi di fuga e unirsi agli altri invitati nello spostamento delle tavole e delle panche del banchetto. L’unico che sembrava condividere il suo scarso entusiasmo era Dwalin, che Thorin, da quando lo conosceva, non aveva mai visto prendere parte ad una danza: silenzioso, burbero e poco incline alle frivolezze com’era, preferiva sempre starsene in disparte in compagnia di un boccale di birra. Il che era uno dei motivi per cui Thorin, in questo molto simile a lui, lo considerava il suo migliore amico.
Mentre spingevano la tavola verso un lato della sala, Thorin notò che Thròr scambiava poche parole sottovoce con Thràin e il governatore, tra le quali il giovane nano credette di distinguere qualcosa come “mal di testa” e “cattiva digestione”; poi, dopo aver rivolto ai suoi ospiti un frettoloso e assente sorriso di scusa, il re sparì fuori dalla sala. Thorin aveva dei sospetti su dove potesse essere andato, e il fatto che suo padre si ostinasse ad evitare il suo sguardo gli confermò che l’assenza di Thròr non era dovuta né al mal di testa, né tantomeno alla cattiva digestione.
Di certo, questo non contribuì a migliorare il suo umore. Recuperò il proprio bicchiere e si lasciò cadere accanto a Dwalin su una delle pan che ormai addossate al muro della sala, un nodo di dolore e di pena che andava a stringergli il cuore e ad aggiungersi alla rabbia che, ormai da tutta la sera, non sembrava avere intenzione di abbandonarlo.
Mentre l’orchestra cominciava a suonare la prima canzone e gli invitati si dirigevano verso la pista o si disponevano intorno per assistere, il suo sguardo si posò di nuovo, casualmente, sulla causa della sua collera. Elinor, il braccio allacciato in atteggiamento fraterno con quello di Dìs, ridendo per qualcosa di cui solo loro erano a conoscenza, si avvicinava alla folla di nani che si erano riuniti intorno alla pista da ballo. E per un brevissimo istante, osservandola scrutare con gli occhi verdi accesi di eccitazione le coppie che già danzavano, a Thorin parve che non fosse più la giovane donna superba e orgogliosa che quel pomeriggio gli aveva parlato con tanto disprezzo di Erebor; per un brevissimo istante, fu una ragazza come centinaia di altre, che, ad una festa, rideva in modo sciocco per qualsiasi banalità e non pensava ad altro che a divertirsi, aspettando che una mano galante si tendesse verso di lei per invitarla a ballare. Fu un’impressione che durò il tempo di un battito di ciglia. Il tempo che Elinor, quasi avesse avvertito il suo sguardo su di sé, si voltasse verso di lui per sorridergli ancora una volta; il tempo che l’orgoglio di Thorin, sotto l’innocenza fin troppo disarmante di quello sguardo, sia riaccendesse in un repentino meccanismo di difesa.
Di nuovo, distolse bruscamente lo sguardo, fingendo di dedicarsi con profondo impegno al boccale di birra ancora mezzo pieno che aveva in mano. Fu quasi un perverso piacere notare, con la coda dell’occhio, il sorriso di Elinor spegnersi lentamente, e trasformarsi in un misto di delusione e di disappunto.
“Farai bene ad imparare cosa vuol dire offendere un nano, ragazzina!” pensò Thorin, in uno slancio di feroce orgoglio. Grazie al cielo, l’etichetta nanica – sempre che ne esistesse una – non prevedeva che il futuro sposo avesse il dovere chiedere alla futura sposa la prima danza. Era un compito che Thorin lasciava con estremo piacere a chiunque volesse offrirsi volontario. Quando rialzò lo sguardo, scoprì, come c’era da aspettarsi, che Elinor non aveva fatto fatica a trovare qualcuno che la invitasse a danzare. In quel momento, infatti, si stava dirigendo verso il centro della pista accompagnata cavallerescamente da Dori, un suo lontano cugino più basso di lei di tutta la testa, ma che in quel momento, impettito e orgoglioso di avere avuto il coraggio di chiederle il primo ballo, sembrava più alto di almeno tre spanne.
La canzone precedente giunse al termine, e l’orchestra ne iniziò un’altra, dal ritmo rapido, allegro e coinvolgente che spinse la maggior parte dei presenti ad accompagnare la musica battendo le mani. Dagli spazi vuoti tra una persona e l’altra, Thorin poté vedere Elinor fare del suo meglio per tenere il passo con il suo cavaliere, reggendosi l’orlo della veste e ridendo con le guance accese, la cangiante seta del suo vestito che ondeggiava e frusciava al ritmo della musica. Quando, sul finire della canzone, i suoi piccoli piedi sbagliarono un passo e la mandarono a sbattere contro Dori, facendolo finire rovinosamente gambe all’aria, nessuno sembrò seccato per l’interruzione o per la sua goffaggine. Al contrario, tutti scoppiarono in una fragorosa risata che, dopo qualche secondo di costernazione per il guaio combinato, contagiò anche Elinor.
«Perdonatemi, mastro Dori!» esclamò sinceramente dispiaciuta ma senza riuscire a trattenere l’ilarità, aiutando premurosamente il nano a rimettersi in piedi. «Temo di avere ancora molto da imparare sulle danze naniche!»
Proprio mentre Dori si profondeva in un inchino che lo portò quasi a sfiorare il pavimento con la punta del naso, assicurandole che non c’era nulla di cui scusarsi, Thorin vide farsi avanti suo padre, che, sorridendo bonariamente, chiese se la sua futura nuora gli avrebbe fatto l’onore di concedergli il ballo successivo.
«Beh, non sembra cavarsela poi così male…» osservò Dwalin, aspirando una boccata dalla pipa che aveva appena tirato fuori.
«Già» ringhiò Thorin, osservando Elinor prendere con un sorriso la mano di suo padre e lanciarsi con entusiasmo nella danza. «Un ottimo spirito di adattamento, non c’è che dire…»
Lo disturbava il fatto che nessun altro, a parte lui, stesse trattando Elinor come effettivamente si sarebbe meritata. Aveva sperato che la sua superbia di quel pomeriggio contribuisse a metterla in cattiva luce agli occhi degli abitanti di Erebor, e invece quella piccola serpe si era mostrata per tutta la sera così gentile, così disinvolta e così entusiasta di integrarsi nel mondo dei nani, che nessuno dei presenti, neanche volendo, avrebbe potuto prenderla in antipatia ed emarginarla. Paradossalmente, Thorin aveva l’assurda sensazione di essere lui, quello emarginato: era l’unico, in quella sala (a parte forse Dwalin, che era, come sempre, dalla sua parte), a sapere come lei fosse veramente, a sapere quali meschine bassezze erano in grado di uscire da quella bocca dalle labbra così rosee e piene; era l’unico, in quella sala, che lei non fosse riuscita ad ingannare con le sue moine e i suoi sorrisi. E il fatto che nessun altro riuscisse a rendersene conto, lo faceva andare, se possibile, ancora più in collera di quanto già non fosse.
Fu dopo un altro paio di danze, nelle quali Elinor fu accompagnata da due nani che Thorin conosceva ma di cui non ricordava il nome, che il giovane principe, alzando lo sguardo dall’ennesimo boccale di birra, vide la ragazza venire verso di lui con un cauto sorriso sul viso rosso per la fatica. Gli si fermò davanti, e Thorin sostenne per qualche secondo il suo sguardo limpido e allegro, ricambiando con uno di gelida sfida che Elinor parve non notare.
«Bene, direi che è giunto il momento di chiedervi di ballare, non credete?» esordì la ragazza, in tono ironico ma gentile. Thorin la fulminò con un’occhiata e tornò a dedicarsi al suo boccale di birra. Con la coda dell’occhio, percepì vagamente Dwalin che, accanto a lui, fumava con maggiore impegno di prima, facendo finta di guardare da un’altra parte.
«Io non ballo» rispose seccamente, prima di buttare giù un altro paio di sorsi. «Odio ballare.»
E odio anche voi.
Elinor fece finta di non aver sentito l’ostilità nella sua voce, e si sforzò di continuare ad essere gentile. «Oh, andiamo! Non mi direte che avete intenzione di passare il resto della serata seduto qui! Prometto che non vi pesterò i piedi, o almeno che farò del mio meglio!»
Thorin sbatté il boccale sul tavolo talmente forte che Elinor sobbalzò.
«Ho detto» sibilò avvicinando il viso a quello di lei «che odio ballare. E adesso, se volete scusarmi, ho bisogno di prendere una boccata d’aria!»
Fu una fortuna che nella sala ci fosse troppa confusione. Tutti erano troppo occupati a battere la mani per accompagnare la gente che ballava, per fare caso a loro, e Thorin, schiumante di rabbia, poté alzarsi dalla panca e dirigersi a grandi passi verso la terrazza senza che nessuno lo notasse minimamente. Non avrebbe sopportato sguardi curiosi, stupiti, o, peggio ancora, quello carico di rimprovero che sicuramente gli avrebbe riservato suo padre.
Si fermò soltanto quando raggiunse l’aria aperta, e anche allora gli ci volle qualche secondo prima di riuscire a tornare ad un respiro regolare. Si appoggiò alla balaustra di marmo bianco con entrambe le mani e fissò lo sguardo verso sud, dove le luci della città di Egaroth, tremolanti nell’aria tiepida della sera, avevano l’aspetto di un gruppo di grosse lucciole adagiate sullo specchio tranquillo del Lago Lungo. Il suo petto, sotto la camicia leggera di lino nero, si alzava e si abbassava irrequieto, le narici del suo naso affilato dalla forma regale si allargavano nervose.
Non era obbligato a trattenersi per tutta la sera, in fondo… Tra qualche minuto, quando avesse ritrovato il dominio di sè, avrebbe potuto andare da suo padre e pregare di scusarlo con i loro ospiti, perché era stanco e desiderava ritirarsi nelle sue stanze. Sperando che qualche ora di un buon sonno ristoratore avessero il potere di fargli ritrovare un minimo di serenità, e che riuscissero a fargli dimenticare quella orribile giornata…
«Thorin…»
Un rumore di passi leggeri alle sue spalle gli fece rovesciare la testa all’indietro ed emettere un profondo sospiro esasperato. Come si poteva essere così cocciuti? Non le aveva fatto capire abbastanza chiaramente che non gradiva la sua presenza e che sarebbe stato meglio che lo lasciasse in pace? Non l’aveva trattata in modo abbastanza brusco e distaccato? Che cos’altro voleva che facesse, nel nome di Durin? Prenderla di peso e chiuderla a chiave nelle sue stanze per risparmiarsi una volta per tutte la sua presenza?
Elinor, forse incoraggiata dal suo silenzio, fece qualche altro passo avanti.
«Thorin, io… io credo che siamo partiti con il piede sbagliato.»
L’irritante ovvietà dell’affermazione gli strappò una risata sarcastica alla quale non si disturbò a fare seguito con una risposta. L’espressione “essere partiti con il piede sbagliato”, nel loro caso, gli sembrava un notevole eufemismo…
«Vorrei davvero che mettessimo da parte le nostre… incomprensioni e cercassimo di diventare… ecco…» continuò Elinor in tono nervoso. «Beh, perlomeno mi piacerebbe che cercassimo di conoscerci meglio. Ci troviamo entrambi in una situazione che avremmo volentieri evitato, e sarebbe tutto molto più semplice se smettessimo di farci del male a vicenda.»
Aveva esposto il tutto in modo molto rapido, come se temesse di perdere il coraggio mentre parlava. All’attenzione di Thorin, però, non era sfuggito quell’ “incomprensioni” che persino Elinor aveva esitato prima di pronunciare, e che più di ogni altra cosa lo fece boccheggiare di sdegno.
«Voi le chiamate incomprensioni?» disse con una calma quasi mortale, voltandosi lentamente a guardarla. «Avete deliberatamente offeso la mia casa e la mia gente, e disprezzato con la più odiosa arroganza il luogo dove dovrete passare il resto della vostra vita! Sono lieto di vedere come i vostri amici Elfi vi abbiano ben istruita nel guardare dall’alto in basso tutto ciò che abbia a che fare con la stirpe di Durin!»
Elinor stirò le labbra in un fiacco e amaro sorriso. «Non posso negare che non ci abbiano provato» ammise con leggera ironia. «Ma sono orgogliosa di poter dire che i loro tentativi hanno avuto scarso effetto su di me. In fondo, rimanete sempre la mia gente, Thorin…che io lo voglia oppure no.»
Il disprezzo negli occhi di Thorin non accennò nemmeno per un istante a diminuire. «Le vostre parole di questo pomeriggio lasciavano intendere tutt’altro.»
La ragazza sollevò le sopracciglia, sorpresa. «Non credete che il mio comportamento di stasera vi abbia dimostrato a sufficienza il contrario?» domandò, piegando leggermente la testa di lato e fissandolo con fare interrogativo. «Sono stata bene, in mezzo a tutta quella gente, sono stata bene davvero. Perlomeno, molto meglio di quanto avrei mai creduto possibile…»
«Smettetela!» la interruppe Thorin con violenza, voltandosi del tutto verso di lei e raggiungendola con due lunghe falcate. Elinor, intimorita, arretrò d’istinto di un paio di passi, ma non poté evitare di ritrovarsi, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, il viso di Thorin a pochi centimetri dal suo. «Forse sarete riuscita ad ingannare tutte quelle persone» continuò il principe dei Nani in un sibilo furibondo «ma sappiate che non potete ingannare me! Io ho visto il disprezzo con cui guardavate le sale di Erebor, ho sentito l’arroganza con cui ne parlavate, e se pensate che lascerò che qualche sorriso e qualche danza mi faranno dimenticare quello che avete detto, vi sbagliate! Voi non avete idea, non avete nemmeno vagamente idea di quanto questo regno significhi per me! Ho dedicato la mia vita ad Erebor, gli ho sacrificato la mia libertà, e non permetterò a nessuno di insultarlo impunemente!»
Senza che Thorin se ne rendesse conto, la sua voce era aumentata gradualmente di volume, e quando infine giunse al termine della frase, il nano si accorse di stare quasi gridando. Ancora una volta, dovette ringraziare il rumore e la confusione che regnavano all’interno, perché se la sala fosse stata anche solo leggermente più silenziosa, in quel momento tutti si sarebbero voltati a guardarli. Invece, nessuno sembrava fare caso a loro. La musica continuava, allegra come sempre, e creava uno strano contrasto con la tensione e la rabbia che aleggiavano sulla terrazza.
Elinor aveva abbassato lo sguardo, ammutolita dalla collera delle parole di Thorin, e adesso si fissava le mani, deglutendo a vuoto. L’ombra che era scesa sul suo bel viso faceva sembrare impossibile che fosse la stessa ragazza che un momento prima saltava allegramente in mezzo alla pista da ballo illuminando la stanza con la sua risata.
«A quanto pare, l’amore per la nostra libertà è un altro tratto che ci accomuna…» bisbigliò Elinor dopo lunghi secondi di silenzio. Non sembrava che si stesse rivolgendo direttamente a Thorin, ma più che stesse riflettendo tra sé e sé. Il nano, in ogni caso, mantenne un ostile e inferocito silenzio, continuando a fissarla dall’alto in basso con il più profondo disprezzo.
«Credo che abbiate ragione, comunque. Vi devo delle scuse» ammise la ragazza in tono più deciso, continuando a fissarsi le dita e tormentandosi l’orlo delle lunghe maniche della veste.
Thorin emise un suono sprezzante e si allontanò da lei, tornando a fissare il paesaggio notturno dalla balaustra della terrazza. «Risparmiate pure il fiato.»
«No, vorrei finire, se permettete.» Elinor esitò un momento, poi inspirò a fondo e andò avanti: «Ho sbagliato a parlare in modo così sprezzante, questo pomeriggio. Quella cosa su Erebor, e del fatto che la considerassi una prigione... » si concesse un sorriso amaro e scosse leggermente la testa. «Voglio dire, lo pensavo davvero, ovviamente… ma ero una bambina di dieci anni, allora, e avevo appena perso mia madre. E oggi ero molto nervosa, sicuramente l’avrete notato. Questa situazione non è facile nemmeno per me…»
«Vi prego di risparmiarmi almeno i sentimentalismi» replicò Thorin, glaciale. Invece di ammorbidirlo, tutto quell’affannarsi di Elinor per fargli le sue scuse e dimostrargli che le dispiaceva non stavano avendo altro effetto che renderlo ancora più aggressivo. Sapeva di essere in vantaggio su di lei, e ciò stava repentinamente trasformando il suo orgoglio in pura cattiveria. Voleva ferirla, e non si sentiva affatto in colpa per questo. Lei non aveva idea del passo falso che aveva fatto quel pomeriggio…
Il silenzio che seguì le sue parole gli fece chiaramente capire che il suo obiettivo era stato raggiunto. Poteva avvertire lo sconcerto di Elinor, la sua mortificazione, persino senza voltarsi a guardarla.
«Non…non avevo intenzione di…cercavo solo…» balbettò la ragazza, confusa, ma la rabbia di Thorin arrivò, ancora una volta a troncargli le parole sulle labbra.
«So cosa cercavate di fare, e non ho intenzione di stare ad ascoltarvi ancora!» sbottò il nano, spazientito. Elinor tacque del tutto e sostenne il suo sguardo, dove Thorin, come si aspettava, lesse la rassegnazione, ma non la sconfitta. E fu questo, più di ogni altra cosa, a spingerlo a continuare, affondando la lama tagliente dei suoi furenti occhi azzurri nella verde fermezza di quelli di lei.
«Vi do una prima informazione su di me, visto che avete un così ardente desiderio di “conoscerci meglio”» sibilò, calcando pieno di sarcasmo su ogni singola parola. «La mia stima, una volta perduta, è difficile, molto difficile da recuperare. E voi, ve lo assicuro, non ci riuscirete in breve tempo. Perlomeno, non entro la fine di questa serata! Quindi, se adesso volete farmi la cortesia di lasciarmi… vorrei rimanere da solo per un po’, se non vi dispiace!»


Elinor rimase per lunghi istanti con la braccia abbandonate lungo i fianchi, fissando stancamente la schiena immobile che Thorin, chiudendo in modo così brusco la questione, era tornato a rivolgerle.
Aveva dato fondo a tutte le sue risorse, e non era stato abbastanza. Aveva messo da parte il suo orgoglio arrivando a chiedergli perdono,e  non era stato abbastanza. Thorin figlio di Thràin, erede del Reame sotto la Montagna, si era rivelato un osso molto più duro di quello che si sarebbe aspettata. Che suo padre si sarebbe aspettato. Aveva sentito molte voci sulla proverbiale testardaggine dei nani, ma adesso era costretta ad ammettere che non le rendevano affatto giustizia.
Una cosa era certa: Non sarebbe rimasta lì a supplicarlo. La poca dignità che ancora le rimaneva non gliel’avrebbe permesso.
Sentendo un fastidioso magone afferrarle la gola, raccolse il vestito, si voltò e attraversò più in fretta che poteva la grande sala dei banchetti, dove gli invitati ballavano e festeggiavano ancora . Del tutto ignari, pensò Elinor in un momento di amara ironia, che quelli che avrebbero dovuto essere i protagonisti della serata avrebbero preferito trovarsi a leghe e leghe di distanza l’uno dall’altra.
Non sapeva dove era diretta. Sapeva soltanto che voleva trovare un posto, uno qualsiasi, dove potersi calmare senza che sguardi indiscreti la vedessero.
«Elinor, dove stai andando? Cosa è successo?»
Suo padre, vedendola passare, l’aveva afferrata al volo per un braccio, e adesso la scrutava con aria indagatrice. Elinor, mormorando scuse sconnesse e poco credibili, si divincolò dalla sua stretta e proseguì nella sua fuga, evitando di guardarlo in faccia. Non era dell’umore adatto per subire altri rimproveri come quello di qualche ora prima, e tantomeno se la sentiva di vedere la delusione dipinta negli occhi di suo padre.
Uscì dal grande portone di quercia e si incamminò nel corridoio principale, finché, qualche metro più avanti, scorse una piccola galleria secondaria. Vi si infilò senza esitazione e si abbandonò con la schiena contro il muro, respirando profondamente con gli occhi chiusi. Fu grata del fatto che, in quel punto del corridoio, la musica, la confusione e le risate si fossero affievolite fino a diventare un lieve brusio di sottofondo:  la testa le pulsava terribilmente, le orecchie le rimbombavano come se all’interno qualcuno stesse picchiando con tutte le sue forze su un tamburo.
“Calmati, Elinor. Riprenditi. Respira.”
Ma, per quanto ci provasse, non riusciva a scacciare del tutto lo strisciante senso di fallimento che pareva tenerle il cuore stretto in una morsa. Non aveva forse fatto del suo meglio, quella sera? Non aveva forse indossato il suo vestito più bello, non si era forse sciolta i capelli, perché lui la notasse? Non era forse stata splendidamente disinvolta, disponibile, allegra e gentile con tutti, sperando di impressionare, di riflesso, anche lui?
Nel nervosismo del momento, si ritrovò a ridere istericamente. La cosa più assurda di tutta quella faccenda, era che non aveva fatto nessuna fatica a comportarsi nel modo in cui si era comportata durante il banchetto. Avrebbe dovuto inscenare una recita, come voleva suo padre, e invece si era ritrovata a ridere perché si divertiva, a mangiare perché il cibo le piaceva, e a ballare fino a perdere il fiato perché era euforica. Si era ritrovata a stare bene, per la prima volta da giorni, e ad apprezzare sul serio le persone che le stavano intorno. Si era sentita davvero in mezzo alla sua gente, e non solo per sentito dire. Non aveva sentito il bisogno di fingere, nemmeno per un secondo. Il che, ovviamente, dava un valore diverso alle scuse che aveva appena fatto a Thorin. Le aveva rese…sincere? Non lo sapeva. Sicuramente, in ogni modo, le aveva rese più sentite di quanto sarebbero state se avesse dovuto affrontare quella conversazione appena uscita dalle sue stanze…
Diamine, era incredibile come la sua coscienza cercasse istintivamente di trovare giustificazioni e risultare più pulita di quanto in realtà non fosse! Era una cosa rivoltante…
Rivoltante, sì…
Ma necessaria.
Come aveva appena detto a Thorin, lui non era l’unico a tenere alla sua libertà.
«Fa caldo, là dentro, non è vero?»
Elinor sobbalzò così violentemente che il cuore sembrò volerle schizzare fuori dalla gola. Pensava di essere sola, e invece un nano tarchiato, dalla folta barba grigia divisa in due, la fissava con le mani giunte dietro al schiena e un sorriso bonario. Dovette riflettere per alcuni secondi, prima di capire chi fosse, ma poi, improvvisamente, ricordò: Balin, il fratello maggiore di quello che sembrava essere il migliore amico di Thorin. Sedeva a poca distanza dal re e da Thràin, e questi ultimi sembravano tenerlo in grande considerazione. “E’ stato gentile con me” parve di ricordare ad Elinor, ripensando confusamente al banchetto. “Mi sorrideva. Ha anche fatto un paio di battute per divertirmi…”
Una gentilezza che, a quanto pareva, non costituiva esattamente una dote di famiglia: suo fratello Dwalin, infatti, probabilmente per solidarietà a Thorin, l’aveva fissata con diffidenza per tutta la sera, gli occhi scuri ridotti a due fessure.
«Sì, avevo… bisogno di prendere una boccata d’aria» rispose Elinor con una mano sul petto, cercando di riportare ad una velocità normale il cuor impazzito per lo spavento.
«Vi capisco» disse Balin annuendo leggermente e lanciando un’occhiata dietro le sue spalle verso il corridoio principale, dove la musica e le risate della sala echeggiavano ancora senza dar segno di voler diminuire d’intensità. «Non è facile reggere fino alla fine ad una festa nanica, per chi non ci è abituato. A volte persino io sento il bisogno di uscire un momento per riprendermi, e sono un figlio di Durin dalla testa ai piedi!»
L’affermazione riuscì perlomeno a strappare ad Elinor un debole sorriso. Qualunque cosa Balin ci facesse lì, gli era stranamente grata per averla seguita. Il suo sorriso paterno e la luce di quieta riflessività dei suoi occhi stavano contribuendo a tranquillizzarla.
«Vi ha mandato mio padre, mastro Balin?» chiese alla fine, dopo un profondo sospiro di rassegnazione. «Devo tornare nella sala?»
Balin scosse appena la testa. «Non mi ha mandato nessuno. Ho solo notato che vi precipitavate fuori con aria strana, e ho deciso di venire a sincerarmi che andasse tutto bene.»
Aveva fatto, in poche parole, quello che avrebbe dovuto fare suo padre: preoccuparsi per lei. Elinor appoggiò la testa contro il muro e sorrise di nuovo. «Siete stato molto gentile. Vi ringrazio. In ogni modo, stavo…ecco…pensavo di ritirarmi nelle mie stanze. Ho paura che la mia testa stia un po’ risentendo di tutta l’allegria di stasera.»
Balin ricambiò il suo sorriso. «Già» rispose, osservandola attentamente con la testa leggermente piegata di lato. Era perfettamente chiaro, dal suo sguardo, che sapesse che cosa era successo tra lei e Thorin. Probabilmente doveva averli visti litigare sulla terrazza. Magari aveva persino catturato qualche stralcio della loro conversazione… Elinor sostenne il suo sguardo con aria disarmata, senza preoccuparsi nemmeno di nascondere il suo stato d’animo e i pensieri che, ne era sicura, le si leggevano in faccia come in un libro. Era troppo stanca per fingere di stare bene.
«Non dovete prendervela troppo, sapete» disse Balin dopo qualche secondo di silenzio, in tono rassicurante. «Thorin è fatto così, lo conosco da quando è uscito dal ventre di sua madre.» Scosse la testa semicalva, ridacchiando tra sé e sè. «Per Durin, come strillava! E non ha smesso di strillare per ore, finchè non è stato troppo stanco persino per tenere gli occhi aperti. Ci teneva a far sapere a tutti noi che non era affatto contento di essere stato strappato a quel luogo caldo e tranquillo, e si è assicurato di farcela pagare a dovere. E posso garantirvi che da quel momento in poi non ha mai smesso di portare fino in fondo le battaglie per vendicare le offese a suo danno.»
Elinor abbassò la testa. Capiva perfettamente quello che Balin stava cercando di dirgli.
«E’ burbero, orgoglioso, testardo e perfino scortese» continuò Balin in tono affettuoso, come se stesse decantando i pregi di Thorin, invece che elencandone i difetti. «E’ un carattere difficile, con cui avere a che fare. Questo dovete capirlo subito, bambina, o la vostra vita al suo fianco diventerà molto peggio di quello che è adesso.»
Elinor emise uno sbuffo tra l’ironico e il rassegnato. Grazie al cielo, lei non aveva bisogno di conquistare la fiducia di Thorin per tutta la vita. Le bastava riuscirci quel tanto che bastava per fare quello che doveva fare. Il che non rendeva certo la prospettiva più facile o più allettante, ma almeno poteva esserle di qualche consolazione…
«Mi odia…» disse stancamente, passandosi una mano sul viso provato dagli avvenimenti di quel primo giorno. «Mi ha detto cose terribili, prima, sulla terrazza…»
Balin sospirò e annuì. «I nani sono una razza coriacea» rispose. «Tenaci e tremendamente perseveranti in tutti i loro sentimenti… compresi quelli più sgradevoli, temo.»
«Quindi che cosa dovrei fare, adesso?»
Si scrutarono a vicenda per qualche secondo, Balin osservandola con una punta di preoccupazione e di dispiacere, Elinor cercando ansiosamente nell’espressione del suo viso un indizio, un'indicazione sulla strada da prendere. Poi, con sua grande sorpresa, il nano allargò le sue labbra in un sorriso.
«Niente» rispose semplicemente, poggiandole con delicatezza una mano sul braccio. «Solo aspettare. Presto o tardi, la situazione si risolverà da sola.»
Quel lieve tocco, così gentile e rassicurante, ebbe su Elinor un effetto benefico. La morsa di tensione che le afferrava lo stomaco si sciolse pian piano come per magia, e la ragazza, suo malgrado, si ritrovò a ricambiare il sorriso di Balin.
«E ora» disse il nano in tono più allegro, sollevando la mano dal suo braccio e porgendogliela con fare cavalleresco. «Non ho potuto fare a meno di notare la vostra ammirevole predisposizione per le danze naniche. Posso osare chiedervi il prossimo ballo?»
Elinor scoppiò a ridere. Tutt’a un tratto, l’idea di tornare nella sala e ricominciare a saltare in mezzo alla confusione, non le sembrava affatto infelice. Si era anche accorta di avere la gola secca e riarsa… qualche altro sorso di quella deliziosa e densa birra dorata di Erebor non le sarebbe affatto dispiaciuto.
Si staccò dal muro e afferrò con decisione la mano di Balin.
«Con vero piacere!» rispose sorridendo.


ANGOLO AUTRICE: Rieccomi di nuovo tra voi! Dopo la fatica immane del terzo capitolo, scrivere questo è stato quasi divertente, devo dire. Ho adorato descrivere il banchetto in onore di Elinor e di suo padre! Forse perché prendere parte a un banchetto del genere, dove ci si siede sulle panche, si mangia con le mani, si tracanna birra e poi si balla fino a stramazzare è il mio sogno? Mah…
Bene, come avrete visto la frattura tra Thorin ed Elinor si allarga sempre di più. Il mio cuore ha sanguinato, mentre descrivevo il loro litigio (e soprattutto la rabbia di quel cocciuto di un nano), ma spero di riuscire a ricucire questo brutto strappo molto presto
J
Buona lettura e a presto!

Linda

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Capitolo 5
*** Spiragli di luce ***


5.  SPIRAGLI DI LUCE

Elinor svoltò l’angolo e alzò gli occhi al cielo con un sospiro esasperato.
Era tornata esattamente nel punto in cui era già passata cinque minuti prima. E, a meno che non si sbagliasse di grosso, anche mezz’ora prima.  
Il suo proposito di trovare da sola i famosi Giardini Interni di Erebor – di cui persino gli Elfi, a BoscoVerde, non potevano fare a meno di lodare la bellezza – si stava rivelando un totale fallimento. Quel posto era un tale intrico di gallerie e corridoi, da somigliare più ad un labirinto che ad un palazzo reale. Per lei rimaneva ancora un mistero come i suoi abitanti riuscissero ad orientarsi in quel guazzabuglio di cunicoli, ai suoi occhi tutti identici l’uno all’altro, e l’unica conclusione a cui era giunta a forza di girare in tondo e ritrovarsi per svariate volte consecutive nello stesso posto, era che i Nani discendessero  - oltre che da Durin – da qualche misteriosa specie di talpa.
Il tuo prezioso senso dell’orientamento non ti sta aiutando granché, mi pare.
Elinor, anche se a malincuore, dovette ammettere che era vero. Era come se la capacità di ritrovare sempre la strada di casa, sviluppata tra gli Elfi Silvani in dieci anni di vita in mezzo ai boschi, fosse improvvisamente scomparsa, lasciando il posto solo ad un fastidioso e umiliante senso di confusione.
“E va bene, inutile continuare a negarlo: mi sono persa.”
Era decisamente ora di mettere da parte l’orgoglio e cercare qualcuno a cui chiedere quale fosse la strada giusta da prendere. Imboccò una svolta a caso e si incamminò per il corridoio, guardandosi intorno alla ricerca di qualche segno di presenza umana, ma gli unici Nani che ricambiarono il suo sguardo corrucciato furono quelli che campeggiavano, immobili, sugli arazzi e gli affreschi delle imponenti pareti di pietra.
“Possibile che siano spariti tutti quanti?”
Per quanto le stavano andando bene le cose in quegli ultimi giorni, era persino probabile che da un momento all’altro, con tutte le persone che avrebbe potuto incontrare, incappasse proprio in Thorin… Elinor cercò di immaginarsi il ghigno di soddisfazione che si sarebbe dipinto sul suo viso quando si fosse reso conto che era in difficoltà, e, quasi senza rendersene conto, piegò le labbra in una smorfia.
Quando, la sera prima, era tornata nella sala del banchetto, Thorin si era limitato ad ignorarla e a fissare ostentatamente da un’altra parte mentre lei, ritrovata una parvenza di buonumore, si lasciava guidare da Balin nelle danze. Dopo nemmeno un’ora, il principe aveva bisbigliato brevemente qualcosa nell’orecchio di Dwalin e poi aveva lasciato la sala senza volgere intorno lo sguardo. Da allora Elinor non l’aveva ancora rivisto, e in cuor suo sperava che ciò accadesse il più tardi possibile: non era del tutto sicura di riuscire a sopportare a così breve distanza di tempo altri sguardi carichi di disprezzo e altre invettive nei suoi confronti. Balin aveva ragione: dato che scuse e suppliche sembravano non avere altro effetto che aumentare ancora di più la sua rabbia, la soluzione migliore era probabilmente aspettare che le acque si fossero calmate. In ogni modo, per quanto si augurasse di dover di nuovo avere a che fare con Thorin il più tardi possibile, doveva farsi una ragione del fatto che presto o tardi sarebbe accaduto.  E non poteva essere altrimenti, dato che il suo soggiorno ad Erebor aveva tutta l’aria di doversi prolungare più del previsto.
«Ho concordato con Thràin che sarebbe opportuno che tu rimanessi qui ad Erebor per qualche giorno, in modo da riuscire ad… ambientarti meglio» le aveva riferito suo padre quella mattina, sottolineando la parola ambientarti con una lieve pausa e un’alzata di sopracciglia. Elinor aveva annuito stancamente, comprendendo senza difficoltà quale fosse l’intento di suo padre nel farla rimanere, e accettando la sua volontà senza obiettare. Era inutile pensare a quanto le sarebbe stato di sollievo tornarsene a Esgaroth almeno per qualche giorno, per riorganizzare le idee e prepararsi psicologicamente al prossimo incontro con Thorin: era stata gettata in mezzo a quella situazione come in una vasca di acqua fredda, e adesso non poteva fare altro che tenersi a galla e nuotare, sperando di fare del suo meglio e non annegare nel tentativo.
«Io e Uren torneremo di tanto in tanto per avere notizie» aveva aggiunto il governatore fissandola intensamente. «Non deludermi, Elinor, ti prego.»
E poi, dopo averla sfiorata con un rapido e sbrigativo bacio sulla fronte, era uscito dalla sua stanza. Elinor era rimasta seduta sul bordo del letto, ancora spettinata e in veste da camera, cercando di capire se il pensiero di ricevere periodiche visite dalle uniche persone che fossero a conoscenza del suo compito le procurasse più ansia o sollievo. Ancora annebbiata dal sonno, contemplò per diversi secondi, la sensazione di panico che le si andava allargando all’altezza della pancia, minacciando di coinvolgere in breve tempo ogni singola cellula del suo corpo e farle perdere il controllo di sé. Poi, come affiorando da una densa foschia, i piccoli occhi scuri di Uren, scintillanti di perfidia e desiderio, le balzarono davanti, ed Elinor scattò in piedi come punta da un’ape. Suo padre era un uomo volubile e, quando veniva contrariato su quelli che considerava argomenti e situazioni di vitale importanza, anche piuttosto dispotico. Quello che la ragazza temeva più di ogni altra cosa era che, se si fosse dimostrata troppo incerta, tentennante o timorosa, Eevar avrebbe potuto considerarla debole o inadatta a quel compito, ed esonerarla dal suo piano, facendo così cadere anche la sua promessa di lasciarle sposare chi voleva. Decisamente, non c’era più tempo per lasciarsi sopraffare dallo sconforto.
Era scesa ai piani inferiori spinta dal brontolio dello stomaco, pensando distrattamente a come riempire quella sua prima giornata ad Erebor ed alleviare il senso di oppressione che le stava mordendo le viscere, quando la sua mente, all’improvviso, era tornata ad uno stralcio di conversazione tra due Elfi catturato per caso a BoscoVerde, anni prima.
“Si possono dire molte cose, sui Nani, ma non che non sappiano apprezzare la bellezza: i Giardini Interni di Erebor sono tra le più meravigliose creazioni che la Terra di Mezzo abbia mai visto.”
Elinor era solo una ragazzina quando aveva udito queste parole, ma da allora la curiosità di vedere con i suoi occhi i Giardini Interni del regno dei Nani - quel bizzarro e misterioso popolo che, fin da piccola, le era sempre stato ripetuto essere anche il suo – non l’aveva mai abbandonata. Così, andare alla loro ricerca le era parsa una buona idea per distendere i suoi nervi tesi come la corda di un arco. Aveva con sé il libro sulla storia dei Nani che aveva trovato nella biblioteca della casa di suo padre, a Esgaroth, e la sua intenzione era trascorrere la mattinata a leggere seduta all’ombra di un maestoso albero, o distesa sul prato, o passeggiando lungo un viottolo. Un proposito che, adesso cominciava a rendersene conto, sembrava molto meno realizzabile di quanto avrebbe pensato.
Stava giusto rassegnandosi all’idea di tornare nelle sue stanze – realizzando, un secondo dopo, che non aveva idea di come tornare alle sue stanze – quando, in fondo ad un maestoso corridoio decorato con splendidi arazzi raffiguranti la presa delle Montagne Nebbiose e la fondazione di Khazad-dûm, comparve una tozza figura vestita di rosso cupo, che procedeva con passo dondolante con le mani giunte dietro la schiena. Il volto di Elinor si rischiarò di sollievo, quando si rese conto che si trattava di Balin.
«Oh, Elinor!» esclamò il Nano in tono cordiale, vedendola venirgli incontro. «Che piacere rivedervi così presto! Non mi aspettavo di trovarvi già in piedi.»
«Intendevo visitare i vostri Giardini Interni, in realtà» rispose Elinor quando l’ebbe raggiunto, arrossendo leggermente. «Ma temo proprio di non riuscire a trovare la strada per arrivarci.»
Balin sorrise bonariamente sotto il grosso naso. «Beh, a questo problema possiamo porre rimedio assai facilmente, perché sarò lieto di accompagnarvi di persona.»
«Vi ringrazio» rispose Elinor sospirando di sollievo. «Mi sento una tale stupida, pensavo di riuscire da sola a…»
«Orientarsi, qui ad Erebor, è molto difficile anche per chi ci vive ormai da molti anni» la interruppe gentilmente Balin, mentre le porgeva il braccio e si incamminavano insieme verso la direzione da cui Elinor era appena arrivata. «Persino io, a volte, mi ritrovo in zone del palazzo di cui ignoravo completamente l’esistenza.»
La ragazza scoppiò a ridere. «Spero soltanto di non darvi troppo disturbo. Non vorrei distogliervi da altri impegni…»
«In realtà dovrei soltanto passare dalle fucine per riferire una cosa a mio fratello Dwalin. Ma non preoccupatevi» si affrettò ad aggiungere Balin quando Elinor fece per tirarsi indietro, timorosa di essere di peso «mi farà piacere avere un po’ di compagnia lungo il tragitto.»
Fu, in effetti, una passeggiata molto gradevole. Balin si disse curioso di conoscere le sue impressioni riguardo alla sua (finora) breve permanenza ad Erebor, ed Elinor, evitando accuratamente di parlare di Thorin, rispose in modo del tutto sincero di esserne rimasta piacevolmente sorpresa.
«Non avrei mai creduto di potermi sentire subito così… a mio agio.»
Per un attimo era stata tentata di dire “a casa”, ma una sorta di cinica prudenza le fermò le parole sulle labbra, sostituendole con altre più fredde e composte.
Distacco. Doveva mantenersi distaccata, se voleva conservare il sangue freddo in quella faccenda. I Nani potevano anche essere la sua gente, tecnicamente, ma Erebor non era la sua casa. Per quanto il cibo fosse buono, la gente cordiale e l’atmosfera rilassata, tutte queste cose dovevano avere peso, per lei, nella misura in cui riusciva a sfruttarle per raggiungere il proprio scopo. Non poteva assolutamente permettersi di affezionarsi a nulla di tutto ciò. Esgaroth era la sua casa. Era per garantire la sua prosperità che si trovava lì, per garantire il suo futuro… oltre che il proprio.
«Questo mi rallegra moltissimo» stava dicendo Balin nel frattempo. «Spesso, tra gli altri popoli della Terra di Mezzo c’è la tendenza a considerare noi Nani come creature piuttosto… calcolatrici.»
La leggera esitazione e il suo breve sorriso tirato fecero intuire ad Elinor quanti e quali fossero, in realtà, i commenti che di solito si spendevano a proposito del popolo di Durin. E, del resto, non li conosceva benissimo anche lei, cresciuta per metà della sua vita tra gli Uomini e per l’altra metà tra gli Elfi? Non aveva colto più di una volta, a BoscoVerde, sussurri riguardanti il cinismo, il materialismo, il temperamento collerico e sospettoso dei Nani, subito messi a tacere quando ci si accorgeva che lei stava ascoltando, per non urtare la sua sensibilità e non mancare di rispetto al suo popolo? Non aveva assistito più di una volta, a Esgaroth, agli sfoghi irati di suo padre contro re Thròr, a suo dire così altezzoso nei suoi confronti soltanto in virtù di quella montagna d’oro e di gioielli che aveva avuto la fortuna di ritrovarsi tra le mani?
«Non nego che, quando sono arrivata ad Erebor, mi aspettavo qualcosa di un po’ diverso» disse Elinor con un sorriso altrettanto imbarazzato. «Ma direi che per adesso, a parte qualche piccola eccezione, le mie aspettative sono rimaste deluse… in positivo.»
Era un commento molto cortese, detto da una che, appena arrivata, per prima cosa aveva sperimentato sulla sua pelle la collera del principe dei Nani. Balin parve accorgersene, perché le dette degli affettuosi buffetti sulla mano stretta intorno al suo braccio, sorridendo. «Siete molto gentile, Elinor. Vorrei che Thorin potesse vedere questo lato di voi.»
Elinor distolse lo sguardo. Avrebbe preferito non parlare di nuovo di quell’argomento: la metteva a disagio, e le ricordava quanto ancora fosse lontana dal suo obiettivo.
«Ieri sera ho tentato di mostrarglielo, ma purtroppo non  me ne ha dato modo» mormorò riluttante. «Suppongo di meritarmelo, comunque. Ho detto delle cose davvero poco piacevoli riguardo ad Erebor…»
«Mettiamola così» concesse Balin. «Avreste potuto evitare di calcare troppo la mano, ma il vostro nervosismo era comprensibile, date le circostanze. Non vi angustiate troppo, mia cara» aggiunse in tono confidenziale. «Un passo falso può capitare a tutti, soprattutto nelle situazioni più difficili.»
Non a me. Io non posso permettermi di fare passi falsi.
La ragazza sorrise, nascondendo alla perfezione dietro uno sguardo pieno di gratitudine i burrascosi pensieri che le si agitavano in testa, senza sapere come rispondere alla gentile affermazione del Nano.
Per fortuna l’incombenza le fu risparmiata, perché erano appena arrivati alla grande scalinata di pietra che, come le spiegò Balin, portava direttamente all’entrata delle miniere e delle fucine.
«Potete aspettarmi qui, se non volete scendere anche voi giù alle forge» le disse il Nano. «Non ci metterò molto. La campana del pranzo è vicina, e tutti staranno per uscire.»
«Oh, no!» si affrettò a rispondere Elinor. «Mi piacerebbe molto accompagnarvi! Davvero,» aggiunse davanti all’espressione incerta di Balin «sono curiosa di vedere le celebri fucine di Erebor. Io… ecco… ho una certa passione per… spade… armi… e cose del genere.»
Aveva concluso al frase con voce sempre più flebile, fissando il pavimento e persino arrossendo leggermente. Suo padre, da quando era tornata a Esgaroth dal Reame Boscoso, non aveva fatto altro che rimproverarla per la sua inclinazione a combattere e cavalcare, piuttosto che a ricamare, pettinarsi e cantare con voce da usignolo. Si era messo in testa la bizzarra idea che nessuno l’avrebbe voluta prendere in moglie se non si decideva a dedicarsi ad attività un po’ più femminili. Così, ancora una volta per accontentarlo e non aggiungere ulteriori pensieri a quella mente già troppo annebbiata dal dolore di una perdita, Elinor si era impegnata a soffocare quell’inclinazione che, invece, gli Elfi avevano fatto di tutto per incoraggiare. Era arrivata davvero a credere che, fuori da BoscoVerde, imparare a combattere fosse un’occupazione disonorevole per una donna; e, del resto, non aveva mai avuto intorno a sé esempi che le dimostrassero il contrario. La sua mente andò, con nostalgia mista a senso di colpa, all’elegante arco di foggia elfica rimasto, per ferrea volontà di suo padre, nella sua stanza ad Esgaroth.
Fu, quindi, con estremo timore che rialzò lo sguardo su Balin, come se si aspettasse un rimprovero o uno sguardo di disapprovazione da parte sua. Ma fu con sua somma sorpresa che, invece, si accorse che le stava sorridendo.
«In questo caso, mia lady, credo che vi troviate nel posto giusto» disse il Nano con un piccolo inchino. «Se volete seguirmi…»
E porgendole di nuovo il braccio, che la ragazza accettò con frastornata sorpresa, la condusse giù per la larga scalinata. Elinor, reggendosi l’orlo della veste per non inciampare, sentì la pelle d’oca impossessarsi delle sue spalle nude, quando avvertì che, mano a meno che scendevano, anche la temperatura diminuiva sensibilmente.
«Non preoccupatevi» disse Balin in tono divertito, notando il brivido che le era corso lungo la schiena. «Non avrete freddo ancora per molto: tra un momento, questa scala vi sembrerà un vero paradiso, rispetto a quello che troverete lì dietro.»
Così dicendo, le indicò una delle due porte che si aprivano, una davanti all’altra, rispettivamente a destra e a sinistra dell’ultimo gradino della scalinata. Nella parete di fondo tra le due porte, incastonata in una nicchia di pietra concava, stava un’enorme campana di bronzo con un batacchio grosso quanto il ramo di un piccolo albero.
«Di solito è meglio non trovarsi qui davanti, quando vengono annunciati il pranzo e la fine della giornata di lavoro» spiegò Balin, accennando con una strizzata d’occhio al colosso ancora immobile. «Non si diventerà sordi, ma di sicuro si rimane rimbambiti per un bel po’.»
Elinor si stava giusto chiedendo se c’era qualcos’altro di cui doveva preoccuparsi, oltre a rischiare di morire asfissiata e di perdere l’udito, quando finalmente la scalinata terminò, e il Nano la condusse fino alla porta alla loro sinistra. Un’iscrizione in rune incisa sull’arcata di pietra sovrastante avvertiva (a meno che le scarse nozioni di nanico antico impartitele anni prima a BoscoVerde non la ingannassero) che si trovavano proprio di fronte all’entrata delle fucine di Erebor.
«Sarà meglio che vi copriate naso e bocca, per i primi istanti» la avvertì Balin poggiando al mano su uno degli enormi battenti. «Almeno finché non vi abituate …»
Elinor non fece in tempo a chiedere “Abituarmi a che cosa?”, che il Nano tirò verso di sé il pesante portone di quercia.
La prima cosa che la ragazza avvertì non appena le porte si schiusero, fu una repentina e tremenda vampa di calore che si sprigionò dall’interno e che la investì in pieno come un’ondata, facendola barcollare e costringendola a strizzare gli occhi, improvvisamente trasformatisi in due palle di fuoco. Il contrasto con l’aria gelida del corridoio di pietra all’esterno era impressionante, ed Elinor capì immediatamente a cosa si riferisse Balin riguardo all’abituarsi.
La seconda cosa che la colpì, fu l’assordante rumore di decine e decine di martelli che picchiavano incessantemente su altrettante incudini, rimbombando in un’eco sorda e rendendo impossibile udirsi persino a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
«Che cosa?» gridò infatti Elinor cercando di sovrastare il frastuono, vedendo che Balin muoveva le labbra e le faceva cenno con la testa.
«Venite dietro a me!» riuscì a rispondere il Nano dopo due o tre tentativi, avvicinandosi il più possibile all’orecchio di lei. La ragazza annuì e, dopo, aver richiuso il portone alle loro spalle, lo seguì obbediente per una stretta scala dai gradini irregolari e consumati, scavata proprio lungo la parete di pietra, che scendeva giù fino a raggiungere i Nani che lavoravano nella fucina. Rischiò un paio di volte di inciampare e cadere di sotto, troppo impegnata com’era ad ammirare, con il naso all’insù e la bocca spalancata per la meraviglia, lo stupefacente luogo in cui Balin l’aveva condotta.
Si trovavano nel cuore della Montagna Solitaria, all’interno di un’enorme locale scavato nella roccia che si estendeva a perdita d’occhio sia in larghezza che in altezza.
Al centro della sala troneggiava un gigantesco braciere di almeno quindici piedi di diametro, tra le cui fiamme guizzanti venivano di tanto in tanto immersi i pezzi di metallo per farli arroventare. Tutto intorno al fuoco centrale, i volti anneriti dal fumo e le barbe arricciate per il caldo e l’umidità, lavoravano i Nani. Elinor scorse, sulla destra, il settore dei gioiellieri, che, muniti di pinze, scalpelli e lime, sceglievano le pietre grezze da mucchi di migliaia di altre e davano loro forma, per poi incastonarle negli oggetti più svariati.
Sulla sinistra, invece, c’erano i fabbri. Con grembiuli di cuoio legati intorno al collo e ai fianchi, picchiavano colpi di maestosa potenza con i martelli, riuniti intorno alle incudini a gruppi di due, tre, persino quattro Nani, dando forma a spade, elmi, scudi e armature. Elinor non potè fare a meno di pensare a come suo padre avrebbe storto il naso di fronte a quelle armi, di foggia indiscutibilmente meno raffinata rispetto a quella elegante e armoniosa di fattura elfica. Ad Elinor, invece, non dispiacevano. Forse perché sapeva che la validità e la bellezza delle armi elfiche erano dovute, in buona parte, anche alla magia che veniva usata per lavorarle, mentre per una buona spada nanica bisognava ringraziare solo e soltanto la perizia del fabbro che l’aveva forgiata. O, forse, semplicemente, perché quella piccola goccia di sangue nano che le scorreva nelle vene stava iniziando a farle vedere con occhi diversi i frutti della stirpe di Durin…
Sorrise appena, a questo pensiero, sconcertata dall’ironia della cosa e chiedendosi cosa avrebbe detto Thorin se avesse potuto leggerle nel pensiero adesso. Ma il sorriso le morì sulle labbra, quando, a pochi metri di distanza, scorse proprio il principe dei Nani, che picchiava furiosamente il martello su una spada dall’impugnatura spessa quanto il suo braccio. Come accidenti aveva fatto a non pensare che, con buone probabilità, alle fucine avrebbe trovato anche lui? Eppure conosceva benissimo la sua fama di abile fabbro, oltre che di promettente guerriero … Era stata così sollevata, di non averlo ancora incontrato, quella mattina! Adesso, invece, come beffata da uno scherzo maligno della sorte, se lo ritrovava davanti, e a giudicare dal modo in cui stava picchiando su quella spada, doveva essere ancora molto arrabbiato per quello che era successo il giorno prima …
Vide i muscoli dei suoi poderosi bicipiti nudi contrarsi ritmicamente ad ogni colpo, e quelli del torace, ben visibili sotto al camicia leggera e il grembiule di cuoio, danzare al ritmo della musica del metallo contro il metallo. Distolse lo sguardo, come se fosse stata sorpresa a fare qualcosa di proibito. Una sorda e fastidiosa sensazione di imbarazzo divampava lentamente nel suo petto, andando ad imporporarle la faccia e le orecchie e rendendole a un tratto difficile respirare regolarmente. Doveva essere il caldo, si ripeté nervosamente, mentre insieme a Balin scendeva con cautela gli ultimi gradini. Forse, se si fosse voltata e avesse risalito le scale adesso, non si sarebbe mai accorto della sua presenza…
Finì di formulare questo pensiero troppo tardi: proprio in quel momento, Thorin aveva alzato casualmente lo sguardo dal suo lavoro, passandosi l’avambraccio sulla fronte madida di sudore, e li aveva visti. Fu come se sul suo viso, finora solo leggermente corrucciato per la concentrazione, passasse un’oscura nube temporalesca: i suoi occhi chiari, messi ancora più in risalto dalla fuliggine che gli anneriva la faccia, si strinsero in un’espressione di sfida, fulminando prima lei e poi Balin.
Fu proprio mentre Elinor cercava di sostenere il suo sguardo e mantenere quanto più possibile la sua compostezza, che la campana del pranzo suonò, rimbombando nella sala e sovrastando qualsiasi altro rumore. Immediatamente, tutti i Nani deposero i loro strumenti e, dopo essersi sfilati i grembiuli da lavoro, cominciarono a dirigersi verso l’uscita chiacchierando a mezza voce tra di loro. Alcuni, passando accanto ad Elinor e riconoscendola, chinarono brevemente la testa in un saluto.
La ragazza attese pazientemente al fianco di Balin che Dwalin comparisse nel mare di teste e di barbe scure, mentre, di sottecchi, sbirciava Thorin avvicinarsi sempre di più. Non c’era modo di evitare l’incontro: la scala da cui erano appena scesi era l’unica via che conducesse fuori dalla forgia, e il Nano doveva passare per forza di lì.
«Salute, Thorin!» esclamò allegramente Balin quando il principe si fermò di fronte a loro, senza badare agli sguardi omicidi che questi rivolgeva ad Elinor e a quelli di cupa rassegnazione che la ragazza rivolgeva al pavimento. «Sono venuto a cercare Dwalin, sai per caso dove sia?»
«L’ho intravisto laggiù in fondo, poco fa» rispose Thorin in tono freddo, senza staccare gli occhi da Elinor. «Lei che cosa ci fa qui?»
Elinor si sentì scossa da un moto di fastidio. Quel modo di Thorin di trattarla come se non fosse in grado di rispondere da sola sapeva di deliberata offesa …
«Oh, Elinor si è gentilmente offerta di accompagnarmi!» rispose Balin prima che la ragazza potesse prendere fiato per una risposta tagliente. «E io, da parte mia, le ho promesso di condurla ai nostri Giardini Interni. Pare che desideri molto vederli!»
Thorin piegò un angolo della bocca in un sogghigno. «Sì, posso immaginare il suo interesse» mormorò in tono sarcastico. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse tornando alla sua usuale freddezza: «Ho saputo che vostro padre è tornato ad Esgaroth questa mattina. A quanto pare, vi tratterrete da noi più del previsto…»
Elinor, facendosi forza, alzò finalmente lo sguardo da terra. «Così sembra» si limitò a rispondere, in tono secco.
«Immagino il vostro entusiasmo» replicò Thorin con uno sbuffo ironico. «Adesso, se volete scusarmi, desidero andare a mettere qualcosa sotto i denti, prima che la campana suoni di nuovo.»
E, rivolgendo solo un breve cenno di saluto a Balin, li oltrepassò sfiorando Elinor con una spallata carica di sfida. La ragazza rimase a guardarlo salire le scale due a due, sconcertata dalla sua palese scortesia. L’indignazione le ribolliva dentro a tal punto, che non si stupì di sentire la proprie mani iniziare a tremare.
Era rabbia per essere stata trattata in quel modo nonostante i suoi tentativi di scusarsi, certo. Ma era anche impotente frustrazione: ogni secondo che Thorin passava arrabbiato, lo allontanava sempre più da lei; e più Thorin si allontanava da lei, più le possibilità di raggiungere il suo scopo sfumavano all’orizzonte.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
Le sembrava che ogni minuto fosse di vitale importanza. Se avesse dato retta al suo istinto, sarebbe corsa su per le scale, avrebbe raggiunto Throin e l’avrebbe pregato, l’avrebbe supplicato di ricucire quello strappo tra loro due. Si sarebbe gettata in ginocchio, se fosse stato necessario. Il suo orgoglio non si sarebbe più ripreso, ma almeno non sarebbe finita con lo sposare Uren…
Per fortuna, Elinor aveva da tempo imparato a tenere a bada l’istinto. Dominare l’impulsività ed esercitare la sublime arte della pazienza era stata la prima cosa che le avevano insegnato gli Elfi.
Così, vinse la ragione. Respirando profondamente per riacquistare il dominio di sé, Elinor si ripetè nella testa quello che Balin le aveva detto la sera prima: doveva solo avere pazienza, e aspettare… Con il tempo (e un po’ di fortuna), probabilmente Thorin si sarebbe ammorbidito…
«Sì, Thràin ha richiesto la nostra presenza a cena, questa sera…» sentì parlottare Balin, qualche metro più in là. Ancora frastornata, Elinor si voltò nella sua direzione, e si accorse che Dwalin li aveva finalmente raggiunti. Quando si accorse che lo stava osservando, il Nano le scoccò uno sguardo diffidente, per poi rimettersi ad ascoltare Balin, annuendo ed emettendo di tanto in tanto brevi grugniti di assenso.
“Meraviglioso!” penso Elinor, con un sospiro rassegnato. “A quanto pare, Thorin ha intenzione di aizzarmi contro anche il suo migliore amico!”
Era una fortuna che almeno Balin fosse dalla sua parte…
Quando Dwalin, una volta conclusa la conversazione con il fratello, le passò accanto per dirigersi verso l’uscita, Elinor si premurò di mantenere lo sguardo ben fisso a terra, e finse di ignorare lo sbuffo di disapprovazione, simile a quello di un cinghiale in procinto di attaccare, emesso dal Nano. Fu un sollievo quando la tozza e ruvida mano di Balin le si posò sul braccio.
«Elinor, possiamo andare, se volete.»
La ragazza piegò le labbra in quello che doveva essere un sorriso allegro, e si affrettò ad esprimere il suo assenso nel tono più vivace possibile. Lo sguardo mortificato che Balin le lanciò le fece capire di non essere nemmeno lontanamente riuscita a convincerlo, ma il Nano ebbe il tatto di non dirle nulla, e le porse di nuovo il braccio per risalire la scala.
Fu una silenziosa ascesa in superficie, durante la quale nessuno dei due disse una parola. Il Nano si limitava a lanciarle brevi occhiate dispiaciute, mentre Elinor non riusciva a smettere di rimuginare disperatamente sulla momentanea irrimediabilità della sua situazione. Avvertiva un impulso irrefrenabile a fare qualcosa per ricucire la frattura fra lei e Thorin, ma allo stesso tempo non aveva la minima idea di come comportarsi, se non portare pazienza come Balin le aveva consigliato. Non seppe come riuscì a rimanere apparentemente imperturbabile mentre, dentro di sé, sentiva un urgente bisogno di mettersi a urlare per alleviare la tremenda pressione che sentiva da ogni parte; fatto sta che, dopo quelli che le parvero solo pochi minuti (ma che, come scoprì in seguito, era stato in realtà un buon quarto d’ora), si ritrovò davanti ad un altissimo portone di legno scuro, senza avere la minima idea di come ci era arrivata. Ebbe appena il tempo di intravedere il sorriso fugace che Balin le rivolse, prima che il Nano afferrasse i due enormi battenti di ottone e li tirasse verso di sé.
«I Giardini Interni di Erebor, mia lady» annunciò Balin con voce scherzosamente cerimoniosa, spalancando le porte. «Spero che siano come li avevate immaginati.»
Per Elinor fu impossibile rispondere subito: la bellezza di quello che le era comparso davanti aveva momentaneamente annullato la sua capacità di pensare a qualsiasi altra cosa, per non parlare di pronunciare frasi di senso compiuto.
Nel palazzo reale di erebor non esistevano finestre: a parte qualche terrazza che si affacciava sul fianco della Montagna Solitaria, i Nani vivevano esclusivamente sottoterra, nella penombra, e l’unica fonte di luce erano le torce e i bracieri dissemintati in ogni sala e in ogni corridoio. Fu perciò una sorpresa, per Elinor, sentirsi colpire dalla luce del sole quando il portone venne spalancato. Quando finalmente riuscì ad abituare gli occhi, capì perché venivano chiamati Giardini Interni, e anche perché la loro bellezza fosse celebre in tutta la Terra di Mezzo.
Incuneati tra due picchi della Montagna e costruiti su una sporgenza rocciosa simile ad una chiglia di nave delimitata soltanto da una bassa balaustra di pietra, i Giardini guardavano a nord-ovest, verso le Montagne Grigie e la parte nord di BoscoVerde, offrendo un panorama che mozzò ad Elinor il respiro. Tutto intorno a lei, sinuosi viottoli lastricati con pietre rese lisce e tondeggianti dal tempo si intrecciavano come piccoli ruscelli tra ampie aiuole di erba verde, all’interno delle quali si innalzavano, confondendo tra loro i rami e le chiome, alberi secolari dal tronco talmente grosso che Elinor e Balin insieme non sarebbero riusciti ad abbracciarlo. E all’interno delle aiuole più grandi, c’erano altre aiuole più piccole di fiori dalle forme e dai colori più disparati, su cui ronzavano api vivaci e grossi bombi pigri.
Pace.
Fu questa la parola che sopravvenne alla mente di Elinor mentre si guardava intorno estasiata.
Pace e tranquillità.
Senza rendersene conto, si ritrovò a sorridere. Nemmeno i pensieri più spiacevoli, nemmeno l’umore peggiore potevano impedirle di godere di quella bellezza. Si sentiva come una bambina a cui, dopo giorni e giorni passati in castigo in camera sua, veniva finalmente permesso di uscire all’aperto. Si voltò verso Balin, gli occhi lucidi.
«Sono … meravigliosi. Dico davvero.»
Il Nano sorrise e le porse nuovamente il braccio. Insieme, si incamminarono per i viottoli acciottolati, passando accanto a Nane sedute sulle panchine e intente al ricamo, e a Nani giardinieri impegnati a curare le aiuole fiorite con zappa e rastrello.
«Mi dispiace per quello che è successo giù alla forgia» le disse Balin con un sospiro. «Speravo che la sua rabbia si fosse placata e riuscisse a sopportare la vostra presenta senza mettervi a disagio.»
«Non preoccupatevi» rispose Elinor, con un mesto sorriso e un’alzata di spalle. «E’ stata colpa mia. Avrei dovuto aspettarmi di trovarlo lì. Sarebbe stato molto meglio se avessi aspettato fuori.»
«Forse. Però, almeno, avete avuto l’occasione di visitare anche le nostre fucine» osservò Balin con un sorriso che Elinor non potè fare a meno di ricambiare.
«Questo è vero» concesse. «E sono felice di aver avuto questa fortuna. Qui è tutto così … sorprendente.»
Un luccichìo divertito balenò per un attimo negli occhi del Nano. «Sono felice che stiate cambiando opinione su Erebor, rispetto a ieri. Spero che, se non smetterà di essere una prigione, diventerà almeno uan prigione gradevole.»
Elinor arrossì violentemente, ripensando alla spiacevole conversazione con Thorin del pomeriggio precedente. Non si stupì che Balin ne fosse a conoscenza: Thorin doveva sicuramente avergliene parlato; per quanto ne sapeva, erano in rapporti molto stretti.
«Mi dispiace per quello che ho detto ieri» mormorò. E le dispiaceva sul serio. Per quanto fosse in parte vero che i Nani vivessero prevalentemente sottoterra e preferissero i bui cunicoli di una miniera alla luce del giorno, non si poteva certo dire che Erebor somigliasse davvero ad una prigione. Quei meravigliosi Giardini Interni erano lì a dimostrarlo, senza contare che, sporgendosi dalla balaustra di pietra e guardando in basso, era possibile scorgere, ai piedi della Montagna, un vasto campo di addestramento per guerrieri Nani.
«Tutto ciò che posso dire a mia discolpa, come ho già provato a far presente a Thorin, è che ieri pomeriggio ero molto nervosa» continuò. «Ho detto cose che in quel momento pensavo davvero, ma che avrei dovuto prima verificare con i miei occhi. Così sono riuscita a creare solo un sacco di trambusto, e … e mi dispiacerebbe se questo vanificasse gli sforzi diplomatici compiuti da Thràin e da mio padre.»
“E mi dispiacerebbe anche vanificare gli sforzi che ho fatto io per non essere costretta a diventare la moglie di Uren …”
«Oh, io non mi preoccuperei di questo» stava dicendo intanto Balin. «Per quanto possa essere arrabbiato, Thorin sa benissimo quali sono le sue responsabilità verso il suo regno. Sarà anche collerico, ma è un Nano di parola. Un vero erede di Durin.» Alzò lo sguardo su di lei e le sorrise con fare rassicurante. «Ha solo bisogno di calmarsi un po’, e di abituarsi a questa nuova situazione. Di abituarsi a voi.»
Elinor sospirò e alzò gli occhi al cielo, scettica. Riuscire ad immaginarsi Thorin che si abituava a lei, era più o meno come riuscire ad immaginarsi un Orco che prendeva un’arpa e iniziava a cantare …
«Non siate così pessimista» la redarguì gentilmente Balin. «Per adesso non ho visto nulla, in voi, che non fosse piacevole, cortese e degno della più sincera stima. Forse potrei sbagliarmi, ma sono pronto a scommettere la mia barba che anche Throin, presto o tardi, imparerà ad apprezzarvi.»
Elinor stiracchiò le labbra in un sorriso e balbettò dei confusi ringraziamenti, cercando di nascondere come poteva la morsa di vergogna che le stava artigliando lo stomaco, imporporandole le guance. Sentire Balin rivolgerle quelle parole piene di fiducia, gentilezza e ammirazione, e sapere che di lì a poco avrebbe dovuto tradirlo insieme al resto del suo popolo, le faceva provare a tal punto nausea di se stessa, che per un attimo le parve di vedere i Giardini Interni vorticarle intorno in sfocate e confuse chiazze verdi, azzurre, rosse e gialle.
«Elinor! Vi sentite bene, mia cara?» chiese Balin spaventato, sentendola barcollare e aggrapparsi al suo braccio con più forza. «Siete diventata pallida come un lenzuolo …»
«Sì» esalò Elinor, madida di sudore, cercando di riacquistare il controllo di sé. «Sì, sto bene. Devo aver mangiato troppo poco a colazione, e questo caldo …»
In effetti, sebbene la primavera fosse cominciata solo da qualche settimana, un sole accecante sfolgorava su Erebor, e l’altitudine a cui si trovavano faceva sì che i suoi raggi picchiassero sulle loro teste con maggior violenza. Questo contribuì a rendere la sua scusa un po’ più credibile, ma non ad attenuare il senso di colpa che la stava rimescolando nel profondo. Era consapevole di dover stringere amicizia con persone che sapeva di dover deludere e tradire, era consapevole di quanto questo fosse crudele per se stessa e per gli altri. Ma quello stesso egoismo che l’aveva spinta a prendere parte al piano di suo padre, adesso le faceva accettare la gentilezza e l’amicizia di Balin avidamente, come fossero boccate di aria fresca in mezzo a tutta la pressione che avvertiva da ogni parte.
«Per i Valar, ma allora avete bisogno di fermarvi un po’!» esclamò Balin, scrutandola preoccupato e conducendola verso una delle panchine di pietra disposte lungo il vialetto, all’ombra di una grossa quercia. «Venite, venite a sedervi qua!»
Elinor si lasciò cadere sulla panchina, gli occhi chiusi, cercando di riportare il respiro ad un ritmo regolare. Quasi non sentiva i rumori intorno a lei, a causa del frastuono dei pensieri che le affollavano la mente.
«Voi … voi siete così buono con me» mormorò Elinor, passandosi una mano sulla fronte. «Mi dispiace … »
Balin la guardò, sorpreso. «Vi dispiace?» rise. «Per che cosa?»
Fu come se qualcuno avesse messo a tacere il rumore dentro la sua testa. Gli uccelli erano tornati improvvisamente a cantare, le fronde degli alberi a stormire al vento leggero, i rastrelli dei giardinieri a raspare pigramente sulla terra smossa. Elinor, recuperati la freddezza e l’autocontrollo, realizzò di aver parlato senza rendersene conto, seguendo il corso dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, e che quel “mi dispiace” era riferito a molte cose, tutte decisamente troppo complicate per poterle spiegare senza che ci fossero spiacevoli conseguenze. Decise, perciò, di scegliere quella più semplice e meno compromettente, per poter rispondere a Balin raccontando almeno una parte di verità. Non si meritava una bugia, in fondo …
«Mi dispiace … mi dispiace se adesso il vostro rapporto con Thorin sarà compromesso a causa mia» rispose fissandosi le mani, intrecciate sul libro che si era poggiata in grembo. «Non vorrei che si fosse arrabbiato anche con voi perché mi aiutate e mi dimostrate amicizia.»
Il Nano rimase qualche istante in silenzio, poi sorrise e le prese la mano. «Non dovete preoccuparvi di questo, Elinor. Come vi dicevo ieri sera, conosco Thorin da quando è nato. Ho visto sia lui che i suoi fratelli venire fuori dal grembo della loro madre, e mi sono occupato della loro educazione finchè sono stati abbastanza grandi da abbandonare i libri. Sotto certi aspetti, li conosco meglio del loro vero padre. Non è mia intenzione vantarmi, ma penso di poter dire che la forza e la natura del nostro rapporto siano tali da rendere impossibile annullarlo del tutto. Persino per un attacco di rabbia come quello di cui Thorin è vittima in questo momento.»
Le mani di Balin, strette intorno alla sua, erano dure e callose, ma delicate. Elinor avrebbe voluto rimanere tutta la vita così, con quella stretta di ruvido affetto a scaldarle il cuore, ma sapeva che era impossibile. Il cuore doveva essere accantonato, chiuso a chiave in un luogo sicuro per lasciare il posto alla ragione e al buon senso.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
Quello che la sua pelle sentì ripensando a queste parole fu il delicato tocco di suo padre sulla sua guancia; l’effetto, invece, fu quello che avrebbe provato se qualcuno l’avesse presa per le spalle e scossa con violenza, strappandola bruscamente al sonno. D’un tratto, il suo cervello aveva ripreso a lavorare a pieno regime. Una nebbiosa cortina fatta di rimorsi, tristezza, paura, bisogno di affetto, era stata sollevata, ed Elinor fu colpita da un pensiero che, fino a quel momento, non l’aveva nemmeno sfiorata.
Il piano prevedeva che lei facesse di tutto per sedurre Thorin, conquistare la sua fiducia e scoprire da lui dove fosse nascosta l’Archepietra. Ma visto che, per il momento, Thorin non sembrava essere intenzionato a concedergli la sua attenzione (per non parlare della sua fiducia e della sua confidenza), nulla le vietava di raggiungere il suo obiettivo passando per altre vie…
«Quindi… quindi se ho ben capito… voi siete molto vicino alla famiglia di Thorin, vero?» chiese, cercando di porla come una domanda casuale e del tutto disinteressata.
Balin sorrise, abbassando lo sguardo. Era chiaro che quel pensiero lo riempiva di orgoglio: i suoi occhi lucidi traboccavano di affetto e di devozione inesprimibili a parole.
«Io e mio fratello abbiamo questo privilegio, mia lady» rispose con umiltà. «Thràin mi fa l’onore di considerarmi un consigliere leale e affidabile, e anche il re condivide questa opinione. Certo, negli ultimi tempi è assai arduo sapere cosa Thròr pensi veramente, ma…»
La sua espressione si era ad un tratto adombrata, stemperando il suo sorriso finché sulle sue labbra non ne rimase che un’eco sbiadita. Per un attimo, sembrò che il Nano avesse intenzione di lasciar cadere il discorso, ma Elinor, intuendo le potenzialità che quella conversazione poteva nascondere continuando su quella strada, si affrettò a ritornare sull’argomento.
«Sì, ho sentito delle voci a proposito dello… strano comportamento del re negli ultimi mesi» disse, cercando di mostrarsi meno invadente possibile per non mettere Balin sulla difensiva. «Una circostanza davvero molto spiacevole, anche se spero non così grave come viene dipinta al di fuori di Erebor.»
Balin scosse la testa, le labbra ridotte a una linea sottile e addolorata. «Vorrei poterlo credere anch’io, mia cara, ma temo proprio che Thròr non sia più lo stesso Nano di un tempo… » Trasse un lungo sospiro, per poi proseguire con voce più grave: «Ormai è diventato sempre più difficile incontrarlo al di fuori della Camera del Tesoro. Risale in superficie soltanto per i pasti e per le occasioni ufficiali, e subito dopo torna a rifugiarsi tra le sue montagne d’oro. Non sono nemmeno sicuro che dorma, di notte … Naturalmente Thràin è più che in grado di occuparsi delle questioni del regno in sua vece, ma in ogni modo …»
Ma Elinor non lo ascoltava più. Immobile, rigida per la tensione, lasciò che il suo cervello assorbisse le informazioni che Balin le aveva inconsapevolmente fornito.
Così, le voci erano vere. Ad Erebor esisteva davvero una camera del tesoro dove Thròr, accecato dall’avidità e dall’amore per l’oro, passava la sue giornate rimirando e contando le sue ricchezze. Era lì che si recava ogni volta che, di sera, si alzava dal tavolo della cena, ed era proprio lì che, probabilmente…
Il cuore prese a batterle talmente forte che si stupì di come Balin non riuscisse a sentirne il sordo rimbombo. Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non spalancare gli occhi e la bocca, reagendo d’istinto al fulmine che le aveva appena attraversato la mente.
Fingere di continuare a parlare del più e del meno, come se niente fosse, fu molto più difficile del previsto: l’eccitazione mista a paura, provocata dal progetto che stava prendendo forma nella sua testa, era tale che riusciva a malapena a respirare in modo normale. Le parole di Balin le arrivavano confuse, ovattate, come provenienti dal fondo di un lago.
Non deludermi, Elinor, ti prego.
“Non lo farò, padre. Ti garantisco che questa volta non lo farò.”
Fu un sollievo quando Balin, interrompendo un lungo istante di silenzio e battendosi una mano sulla larga fronte semicalva, si alzò all’improvviso dalla panchina, esclamando che aveva dimenticato di dover fare delle commissioni importanti per conto di Thràin.
«Perdonatemi, Elinor, ma sono costretto ad abbandonare la vostra piacevole compagnia!» disse, mortificato. «Spero che non vi offendiate, ma ci sono dei carichi di metallo provenienti dai Colli Ferrosi che attendono la mia supervisione, prima di entrare ad Erebor!»
«Al contrario, stavo giusto per chiedervi se sareste stato così gentile da riaccompagnarmi nelle mie stanze» rispose Elinor precipitosamente, alzandosi a sua volta. «Vorrei stendermi un po’ e cambiarmi d’abito, prima di scendere a pranzo.»
«Naturalmente, naturalmente!»
La ragazza accettò il braccio che il Nano le porgeva e lo seguì fuori dai Giardini Interni, immergendosi di buon grado nella penombra delle viscere della Montagna Solitaria. Aveva come la sensazione che, se fossero rimasti ancora per molto alla luce del sole, Balin avrebbe potuto leggerle negli occhi quello che la sua mente stava progettando. Non avrebbe mai immaginato di poterlo pensare, ma, per la prima volta da quando era arrivata, quel buio la faceva sentire al sicuro.
Ripercorsero insieme la strada fino alle stanze di Elinor, e dopo che Balin si fu congedato con un sorriso e un profondo inchino (“Sempre al vostro servizio, mia lady!”), scomparendo poi in fondo al corridoio illuminato solo da torce e bracieri tremolanti, la ragazza si rifugiò all’interno e appoggiò la schiena alla porta, cercando di riordinare le idee.
Se tutto fosse andato come sperava, prima del sorgere del nuovo giorno avrebbe fatto notevoli passi avanti nella ricerca del nascondiglio dell’Archepietra. Certo, era rischioso… se qualcuno l’avesse scoperta sarebbe andata incontro a guai molto seri… ma doveva almeno tentare. Non poteva rimanere a crogiolarsi per sempre nei suoi dubbi e nelle sue paure: ogni momento che passava senza fare nulla, era un passo in più che la avvicinava al matrimonio con Uren.
Si staccò dalla porta e andò a buttarsi sul letto, fissando il tetto del baldacchino con un leggero sorriso stampato in faccia e una vaga sensazione di euforia che le si faceva largo nel petto. Per la prima volta da quando aveva accettato di assumersi quella responsabilità, sapeva esattamente cosa fare.
Finalmente, finalmente aveva un piano.
 
«Spero vorrete scusarmi, ma credo sia ora che io mi ritiri.»
A queste parole di re Thròr, Elinor alzò la testa dal suo piatto talmente in fretta che si stupì di non essersi slogata il collo. Si guardò cautamente intorno con la coda dell’occhio, sperando che la sua reazione fosse passata inosservata.
A quanto pare, però, nessuno faceva caso a lei. Tutti i presenti, infatti, interrotte bruscamente le chiacchiere di un attimo prima, avevano abbassato lo sguardo sui loro piatti, fissandoli in silenzio e scambiandosi solo qualche sguardo pieno di disagio. Il silenzio era talmente denso che avrebbe potuto essere tagliato con il coltello, e le facce talmente cupe da far sembrare che qualcuno avesse appena introdotto un cadavere nella stanza per iniziare una veglia funebre.
Ma, per quanto l’atmosfera si fosse fatta pesante, Elinor non potè fare a meno di esultare dentro di sé. Quell’improvviso imbarazzo poteva significare solo una cosa: e cioè che i presupposti su cui aveva basato la riuscita del suo piano, e per i quali doveva ringraziare la conversazione avuta con Balin quella mattina, erano giusti.
Aveva trascorso l’intera giornata chiusa nella sua stanza, camminando nervosamente su e giù e ripassando mentalmente i dettagli di quello che avrebbe dovuto fare. Questo aveva prodotto due conseguenze positive. La prima, era che non era stata costretta ad incrociare Thorin per il palazzo nemmeno per sbaglio, rischiando di mandare all’aria la fermezza e il sangue freddo che si stava alacremente impegnando per accumulare. La seconda, era che aveva tratto la ragionevole conclusione di attendere la cena per mettere in atto il suo proposito: in questo modo avrebbe avuto la possibilità non solo di prepararsi psicologicamente, ma anche di osservare il comportamento del re una volta terminato il pranzo, e avere la conferma che quello che Balin le aveva detto quella mattina a proposito del suo ossessivo ritirarsi nella Camera del Tesoro era vero. E infatti quel pomeriggio, non appena ingoiato l’ultimo boccone di dolce al miele, Thròr si era alzato da tavola e, dopo essersi scusato brevemente, era sparito fuori dalla sala; non prima, però, di aver prelevato dalle braccia di una delle guardi che stava immobile dietro la sua sedia uno scrigno sul cui contenuto Elinor non aveva avuto il minimo dubbio. Era stato in quel momento che la ragazza si era convinta che il suo piano avrebbe potuto avere successo, e che, prima di perdere il coraggio e cedere a sensi di colpa e ripensamenti, avrebbe dovuto agire quella sera stessa.
Adesso che il momento era arrivato, però, non si sentiva più tanto sicura di potercela fare. Le sue gambe avevano assunto la consistenza della gelatina di more che gli era stata messa nel piatto come dolce, e che a causa del nervosismo aveva a malapena toccato. Quando, però, il re spinse indietro la sedia e si alzò, finendo di pulirsi la bocca con il tovagliolo, le sue gambe si mossero di loro iniziativa, ed Elinor si ritrovò in piedi senza quasi rendersene conto.
«Vostra Maestà!» esordì, la voce più acuta del dovuto a causa della tensione. Cinque paia di occhi si voltarono istantaneamente nella sua direzione, esibendo espressioni che andavano dalla curiosità allo stupore più plateale. Thorin, da parte sua, dopo averle rivolto il consueto sguardo di fulminante disprezzo, riabbassò lo sguardo sul piatto e tornò a dedicarsi al suo dolce, ostentando indifferenza totale nei suoi confronti.
«Anche… anche io sento il bisogno di ritirarmi» continuò Elinor con un sorriso, cercando di ignorare gli occhi di Balin, Dwalin e Thràin fissi su di lei. «Permettete che vi accompagni per un tratto di strada, prima di salire nelle mie stanze.»
Thròr la fissò in silenzio per qualche istante, come confuso da quella proposta. Furono i secondi più lunghi della vita di Elinor: per un folle attimo credette che le sue parole fossero risultate troppo assurde per non destare sospetti, e si maledì per avere architettato un piano tanto stupido arrivando persino a credere che potesse funzionare. Poi, dopo quelle che le parvero ore, il cipiglio di Thròr si distese, e il sovrano le rivolse un ruvido ma cortese cenno di assenso. Con il cuore che sembrava volerle scoppiare nel petto e le gambe tremanti, Elinor salutò i presenti, scusandosi per non riuscire a trattenersi oltre, e si affiancò al re. Accettò con un sorriso il braccio che Thròr le porgeva, e lo seguì fuori dalla sala.
Sobbalzò, quando il portone si richiuse con un tonfo dietro di loro. Era talmente tesa, che se qualcuno le fosse arrivato alle spalle e l’avesse anche solo sfiorata, sarebbe probabilmente schizzata per aria dallo spavento. E tutto quel silenzio che regnava nei corridoi non aiutava affatto a renderla più tranquilla. Sperò con tutto il cuore che Thròr dicesse qualcosa, qualunque cosa per distoglierla da quell’ansia che l’attanagliava, ma si rese conto ben presto che il re dei Nani non era neanche lontanamente loquace quanto Balin. Pareva che la sua presenza lo mettesse a disagio, perché, benché non sembrasse infastidito, fissava dritto davanti a sé, chiuso in un rigido mutismo in cui Elinor non faticò a riconoscere il modo di fare di Thorin quando, il giorno prima, l’aveva accompagnata in quel breve giro per i corridoi di Erebor.
“Si somigliano molto più di quanto pensassi” rifletté, intuendo quanto sarebbe stato difficile conquistare la fiducia del giovane principe.
Si accorse a malapena del percorso che seguirono nei minuti seguenti. Fatto sta che, tutt’a un tratto, il brusco arrestarsi del re la distolse dai suoi febbrili ragionamenti, ed Elinor si rese conto che erano arrivati in un piccolo spiazzo illuminato da torce dal quale si dipartivano vari corridoi.
«Credo che qui dovremo separarci, mia lady» disse Thròr in tono burbero. «Confido che conosciate la strada per arrivare alle vostre stanze…»
«Ma certo!» si affrettò a rispondere Elinor con il più smagliante dei sorrisi. «Vi ringrazio per avermi concesso l’onore della vostra compagnia. Spero che ci incontreremo domani a corte…»
Thròr borbottò qualcosa che somigliava molto a un “Vedremo”, e, dopo averle concesso un inchino in perfetto stile nanico, imboccò il corridoio di destra e si allontanò lungo il cunicolo, lo scrigno con l’Archepietra ben stretto sotto il braccio.
Elinor si voltò e si incamminò nella direzione che avrebbe dovuto prendere per tornare nelle sue stanze, assicurandosi che i suoi passi risuonassero lungo il corridoio e lanciandosi di tanto in tanto occhiate dietro le spalle. Quando Thròr fu svoltato a destra, scomparendo dietro ad un angolo, la ragazza fece bruscamente dietro front, e in punta di piedi, si affrettò a seguirlo a debita distanza.
Era una fortuna che, a quell’ora della sera, Erebor fosse poco frequentata e semideserta; così come era una fortuna che il palazzo reale fosse una tale ragnatela di cunicoli, budelli e corridoi, perché offriva una miriade di angoli nascosti e zone poco illuminate assolutamente perfetti per il suo scopo.
Ben presto si ritrovò quasi a correre per riuscire a stare dietro alle possenti falcate di Thròr. E poiché, oltre a questo, doveva allo stesso tempo cercare di ricordarsi il percorso per poterlo rifare in senso inverso e camminare più silenziosamente possibile, Elinor non ci mise molto a rendersi conto che l’impresa si stava rivelando più complicata di quanto avesse immaginato. Più di una volta si girò di scatto, convinta di aver sentito dei passi dietro di sé, per poi scoprire che era soltanto il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Più di una volta dovette precipitosamente nascondersi in bui corridoi laterali perché Thròr si era fermato per guardarsi intorno con aria sospettosa.
In compenso, Elinor scoprì con piacere che gli anni passati a BoscoVerde avevano dato notevoli frutti per quanto riguardava il sapersi muovere con discrezione. Quando andavi a caccia nella foresta, del resto, era fondamentale sapersi spostare senza produrre il minimo rumore, o la preda sarebbe scappata via al più piccolo scricchiolio di una foglia secca.
Quasi svenne per la paura quando, ad un certo punto, un gruppo di soldati Nani – sicuramente diretti verso i loro alloggi dopo l’addestramento serale – le tagliò la strada, costringendola a rifugiarsi immediatamente dietro l’angolo buio di un corridoio. Muovendo le labbra in una silenziosa preghiera, tremando da capo a piedi, attese a occhi chiusi che qualcuno, accortosi della sua presenza, la stanasse dal suo nascondiglio, mandando a monte il suo piano e costringendola a imbarazzanti spiegazioni di fronte al re, a Thorin e a Thràin.
Ma, con suo grande sollievo, quel momento non venne. Poco a poco, il burbero chiacchiericcio dei soldati si perse lungo il corridoio opposto, ed Elinor, dopo aver atteso qualche secondo per essere scura che si fossero allontanati a sufficienza, uscì allo scoperto per continuare l’inseguimento di Thròr. Per un attimo temette di aver atteso troppo e di averlo perso, ma guardandosi intorno lo avvistò fortunatamente in fondo ad lungo cunicolo intervallato, lungo le pareti, da grandi statue di Nani arcigni e dallo sguardo battagliero.
“Nel nome di Durin, quanto è lontano questo posto?” si chiese Elinor scoraggiata, mentre compiva un complicato percorso a zig-zag per avanzare nascondendosi allo stesso tempo dietro i colossi di pietra.
Non aveva ancora finito di formulare questo pensiero che, alzando lo sguardo per controllare la posizione di Thròr, scorse poco oltre l’ultima statua il profilo di una grossa porta di legno sorvegliata, da entrambi i lati, da due guardie con le alabarde incrociate.
«Vostra Maestà» salutarono i soldati all’unisono, quando il re si avvicinò loro. Thròr li ricambiò con un rigido cenno del capo e fece loro un impaziente gesto con la mano per fargli capire di lasciarlo passare. I due Nani, obbedienti, sollevarono le armi e spalancarono ognuno un battente dell’imponente portone. Elinor, nascosta dietro la statua di un Nano con la barba lunga fino a terra e un elmo a calotta che lasciava appena scoperti gli occhi, ebbe appena il tempo di scorgere una larga scalinata che scendeva verso il basso e un riverbero di luce dorata. Poi Thròr avanzò, e le due guardi richiusero il portone alle sue spalle.
“Accidenti!” imprecò fra sé e sé la ragazza, picchiando un rabbioso pugno sulla mastodontica coscia del Nano di pietra. Se quella era la sola entrata che portava alla Camera del Tesoro, allora non c’era speranza di riuscire a introdursi all’interno! A meno di non farsi avanti e fare gli occhi dolci alle guardie sperando di convincerle ad aprire la porta, ma qualcosa le diceva che era una soluzione impraticabile.
Stava proprio per rassegnarsi a tornare indietro, sperando, in un futuro prossimo, di riuscire ad escogitare un piano più efficace, quando, alzando casualmente lo sguardo verso l’alto, si accorse di riuscire a vedere il riflesso del’oro illuminato dalle torce tremolare sull’altissimo soffitto della Camera del Tesoro.
Sbatté le palpebre un paio di volte, certa che i suoi occhi le stessero giocando un brutto scherzo. Come era possibile che riuscisse a vedere il soffitto all’interno della stanza, quando ad impedirgliene la vista avrebbe dovuto esserci unaparete? Quasi nello stesso istante, il suo sguardo cadde su due rampe di scale identiche che, dai due lati del corridoio, salivano verso l’alto. La sua bocca si dischiuse leggermente, mentre il suo cervello iniziava a comprendere e a rimettere insieme i pezzi.
Silenziosa come un’ombra, scivolò fuori dal suo nascondiglio e imboccò la rampa di sinistra. Dovette salire almeno un centinaio di gradini, prima di arrivare in cima, e quando finalmente ebbe raggiunto la vetta della scala per poco non rischiò di avere un mancamento rendendosi conto che le sue supposizioni erano giuste.
Era affacciata direttamente sulla camera del tesoro, le cui pareti esterne, per quanto alte, non raggiungevano affatto il soffitto, ma formavano una specie di largo camminamento sopraelevato delimitato da una balaustra merlata, dalla quale, guardando in basso, si abbracciava con un’occhiata la vastissima sala in cui i Nani avevano raccolto tutte le loro ricchezze nel corso dei secoli. Era come osservare uno sconfinato paesaggio collinare, con l’unica differenza che i rilievi erano costituiti da stupefacenti montagne d’oro, ed erano punteggiati, invece che da alberi, da gemme preziose, armi pregiate, coppe e calici finemente lavorati e gioielli scintillanti.
Ad Elinor mancava il fiato. Mai, mai in vita sua aveva visto una cosa del genere. Aveva sentito fin da piccola, certo, le storie riguardanti le immense ricchezze conservate nelle profondità delle caverne dei Nani, ma mai si sarebbe aspettata di trovarsi davanti una distesa d’oro così immensa.
Ci volle qualche secondo, prima che si ricordasse perché era lì. Cercò febbrilmente con lo sguardo la figura di Thròr in mezzo a tutto quel luccicare, e finalmente lo avvistò vicino a un mucchio di enormi scrigni traboccanti di gemme, che si dirigeva verso una piccola porta di pietra nascosta dietro alcune montagne di monete d’oro. Elinor, il cuore in gola, avanzò lungo il camminamento merlato, cercando di avvicinarsi il più possibile a quella porta.
Non aveva battenti né serratura, notò quando finalmente riuscì a raggiungere un punto da cui averne una visuale migliore. Nulla lasciava capire che si trattasse davvero di una porta, se non fosse stato per la sua forma, che non dava àdito a dubbi riguardo alla sua natura. Elinor, sporgendosi il più possibile dai merli, osservò attentamente il re raggiungere il varco di pietra e soffermarsi per qualche secondo davanti ad esso. Sembrava che stesse semplicemente  immobile a fissarlo, ma la ragazza, tendendo spasmodicamente l’orecchio, riuscì a percepire un vago bisbiglìo di cui, purtroppo, non fu in grado di comprendere il significato. Subito dopo, facendola sobbalzare dalla sorpresa, la porta di aprì spontaneamente con un raschiante rumore di pietra che sfregava contro il pavimento. Thròr scomparve all’interno di quello che sembrava un basso cunicolo buio, per riemergerne qualche secondo dopo senza lo scrigno e con aria soddisfatta, richiudendo di nuovo la porta con un altro basso, misterioso mormorìo.
Elinor, esterrefatta, si lasciò cadere per terra, la schiena contro la balaustra e gli occhi spalancati. Deglutì più volte, ma scoprì di non avere più saliva.
Ho appena scoperto dove viene nascosta l’Archepietra.
Le gambe le tremavano a tal punto che fu un mistero come riuscì a rimettersi in piedi e, camminando piegata in due perché Thròr non la vedesse, tornare verso la scalinata che conduceva al corridoio delle statue. Si impose di stare calma, perlomeno fino a che non fosse arrivata nella sua stanza, o non sarebbe mai riuscita a passare inosservata davanti alle guardie come aveva fatto poco prima. Non poteva rovinare tutto quello che era riuscita a ottenere per colpa della sua maledetta emotività! Non adesso che le cose sembravano iniziare a girare per il verso giusto…
Trattenendo il respiro fino a sentire la testa girare per la mancanza d’aria, percorse la strada in senso inverso, strisciando silenziosamente dietro le statue per rimanere nella zona non illuminata dalle torce. Riprese fiato soltanto quando, dopo quelle che le parvero ore, riuscì finalmente a raggiungere la fine del corridoio e ad uscire dal campo visivo delle due guardie.
“Calmati, Elinor … calmati, adesso …”
Si prese qualche secondo per recuperare il controllo di sé, respirando profondamente con la schiena appoggiata al muro e gli occhi chiusi. Un’ondata di eccitazione le esplose nel petto, facendola scoppiare in una risata improvvisa che si affrettò subito a soffocare dietro una mano. Non era il momento di lasciarsi andare all’euforia, non prima di essere arrivata alla conclusione del suo piano. E il suo piano non poteva dirsi concluso, finchè non si fosse chiusa dietro le spalle la porta della sua stanza.
La penombra dei corridoi di Erebor non le era mai sembrata così meravigliosa come durante quel percorso di ritorno. Come se persino lui fosse partecipe della sua gioia e volesse contribuirvi a modo suo, il suo cervello le fece ricordare esattamente quali svolte, quali corridoi e quali rampe di scale doveva prendere, finchè gli ambienti cominciarono ad apparirle sempre più familiari, ed Elinor capì di stare avvicinandosi alla zona del palazzo reale che conosceva meglio.
«Elinor!»
Una voce brusca e altera alle sue spalle la fece sobbalzare, polverizzando in un istante l’allegria che la scoperta del nascondiglio dell’Archepietra le aveva procurato.
“Ti prego, no … no … non adesso!”
Sapeva che trovarla a zonzo in quella parte del palazzo non voleva dire nulla. Non era come se l’avessero trovata a gironzolare nei pressi della Camera del Tesoro, o colta in flagrante mentre pedinava Thròr. Avrebbe potuto essere lì per qualsiasi motivo. Quello che la preoccupava era il senso di colpa che, lo sapeva bene, le si sarebbe letto sul volto come su un libro. Cercando di mantenere un atteggiamento il più possibile naturale, si voltò in direzione della voce, e per poco le gambe non cedettero sotto il suo peso: Thorin veniva verso di lei dal fondo del corridoio che aveva appena imboccato, la mani giunte dietro la schiena e lo sguardo sospettoso che saettava nella sua direzione.
«Pensavo che foste ritornata nelle vostre stanze» osservò in tono freddo, quando finalmente la raggiunse. «Che cosa ci fate qui?»
Elinor deglutì. Di nuovo, la sua bocca era arida e asciutta.
«Mi stavo ritirando, infatti» rispose, sforzandosi di sostenere lo sguardo dei suoi gelidi occhi azzurri. «Ma temo di aver smarrito di nuovo la strada. Dovete perdonarmi.»
Cercare di controllare il respiro mentre Thorin la scrutava dall’alto in basso come se volesse frugare nei suoi pensieri fu così difficile, che Elinor temette di cedere al nervosismo e tradirsi da un momento all’altro. Accolse quasi con gioia lo sbuffo sprezzante che il Nano emise scuotendo la testa: significava che le aveva creduto, che stava deridendo la sua goffa sventatezza e la stava aggiungendo alla lista dei motivi per cui continuare a disprezzarla in eterno. Ed Elinor, in quel momento, preferiva di gran lunga che pensasse questo di lei, piuttosto che avesse anche il più piccolo sospetto su che cosa aveva appena fatto.
«Non stento a crederlo» disse, sarcastico. «Mi sono giunte diverse voci sulle vostre … difficoltà di orientamento.»
Balin, penso subito Elinor, senza ombra di esitazione. Il consigliere doveva certamente aver parlato con Thorin di come l’aveva trovata a vagare con aria sperduta per i corridoi, quella mattina, e non poteva che essergli immensamente grata per essersi lasciato andare a queste confidenze: davano una ragione in più a Thorin per credere alla sua bugia.
«Magari vorreste essere così gentile da accompagnarmi» propose Elinor con gelida cortesia. «Questi corridoi diventano notevolmente freddi, a quest’ora della sera.»
Assaporò per un meraviglioso momento l’avvicendarsi delle espressioni sul volto di Thorin, che dalla rabbia pura passavano all’indignazione, per concludere con uno sguardo di tagliente sfida.
«Benissimo» ringhiò alla fine. «Seguitemi, allora.»
Per un attimo Elinor pensò di aver capito male, ma quando Thorin, fatto qualche passo ed accorgendosi che lei non lo seguiva, si voltò a guardarla con aria interrogativa, si affrettò a raggiungerlo.
Ovviamente, nessuno dei due disse una parola per tutto il resto del tragitto. Thorin, che non aveva abbandonato la sua postura con le mani giunte dietro la schiena, fissava ostinatamente davanti a sé, la mascella contratta e le sopracciglia talmente ravvicinate da sembrare una sola. Elinor, da parte sua, camminava a testa bassa, lanciando al principe solo qualche cauta e fugace occhiata di tanto in tanto. Era entusiasmante come camminare in compagnia di re Thròr. Con la piccola variante che il nipote, a differenza del nonno, era tecnicamente il suo fidanzato
Senza che l’avesse minimamente chiamata, l’immagine di Thorin che picchiava il martello sull’incudine, con la camicia aperta che lasciava in bella vista i guizzanti muscoli dell’ampio petto, le rimbalzò nella mente. Elinor la scacciò con violenza, non potendo evitare, purtroppo, di arrossire fino alla punta dei capelli. Adesso sì, che stava diventando tutto troppo imbarazzante … Senza contare che, se Thorin avesse potuto leggere davvero nei suoi pensieri e scoprire il vero motivo per cui si trovava ancora in giro per Erebor … Elinor preferì non pensare a cosa avrebbe potuto dire o fare. Era probabile che il disprezzo con cui l’aveva trattata finora le sarebbe sembrato un trattamento gentile, in confronto.
Come Eru volle, finalmente giunsero nei pressi delle sue stanze, ed Elinor iniziò già dal fondo del corridoio a pregustare la fine dell’agonia.
«Credo che siate arrivata» osservò Thorin rigidamente, fermandosi accanto alla sua porta. «E credo che il mio compito sia giunto al termine.»
«Vi ringrazio» rispose Elinor, poggiando una mano sulla maniglia. «E perdonatemi se vi ho recato tutto questo disturbo …» Compiendo un notevole sforzo su se stessa, cercò di ammorbidire la sua espressione. «Tenterò di ambientarmi il più possibile, qui ad Erebor. Farò del mio meglio.»
Se questa promessa, fatta con l’evidente intento di gettare la basi di una riappacificazione, smosse anche solo un po’ la fermezza di Thorin, Elinor non lo seppe mai. Il principe dei Nani si limitò a fissarla per qualche secondo con espressione indecifrabile; poi, dopo un brevissimo istante in cui la ragazza credette di scorgere nei suoi occhi un accenno di cedimento, il suo sguardo ritrovò la sua consueta durezza.
«Buonanotte» disse bruscamente Thorin, prima di voltarle le spalle e allontanarsi a grandi passi. Elinor, che aveva sentito l’impulso di richiamarlo indietro – per dirgli cosa, non lo sapeva nemmeno lei – riabbassò il braccio e lo lasciò ciondolare per qualche secondo lungo il fianco con aria rassegnata.
Pazienza. Devi solo portare pazienza.
Con un profondo sospiro entrò nella sua stanza, ma non fece in tempo a richiudersi dietro la porta, che l’euforia per aver scoperto il nascondiglio dell’Archepietra la invase di nuovo. Si gettò a pancia in su sul letto, sorridendo al soffitto. Certo, tecnicamente ancora non aveva portato a termine nulla: senza la parola magica che apriva quella porta, la sua scoperta del nascondiglio era completamente inutile. Ma l’essere riuscita a scoprire dov’era fisicamente l’Archepietra mentre non era esposta sul trono di Thròr, saperla lì, concreta e meravigliosamente luccicante, contribuiva già molto a farla sentire soddisfatta di sé.
Per la prima volta da moltissimo tempo, non vedeva l’ora di rivedere il viso di suo padre… l’affetto, la gratitudine nei suoi occhi… non c’era rimorso o senso di colpa che avrebbe potuto rovinare questo.
Fu anche la prima volta dopo mesi in cui si addormentò con il sorriso sulle labbra. La paura di cosa avrebbe portato il nuovo giorno era improvvisamente sparita: al suo posto c’era solo una fremente impazienza di sapere quali altre sfide le avrebbe riservato, di dimostrare che sarebbe stata in grado di affrontarle e uscirne vincitrice. Come quella sera…
Scivolò serenamente nel sonno con la mano infilata sotto il cuscino, fiduciosa come un neonato, rendendosi conto solo un attimo prima di chiudere gli occhi di quanto fosse terribilmente stanca.
 
«Accidenti!» imprecò Elinor a mezza voce, lanciando uno sguardo contrariato alle frecce conficcate nel bersaglio.
Delle tre che aveva scoccato, soltanto una era arrivata nelle vicinanze del centro. Le altre si erano entrambe piantate ad un paio di centimetri di distanza dal piccolo cerchio rosso. Il che, in generale, non era affatto un cattivo risultato, ma nel suo caso abbassava notevolmente il livello a cui era abituata.
“Sono fuori allenamento” pensò sconsolata, estraendo un’altra freccia dalla faretra che portava a tracolla. Quella era la prima volta che riprendeva in mano un arco, da quando era tornata da BoscoVerde. Suo padre le permetteva raramente di allenarsi, ad Esgaroth. In effetti, era già molto che le avesse permesso di tenere l’arco che Thranduil e i suoi figli le avevano dato come dono di addio poco prima che partisse. Di portarlo con lei a Erebor, in ogni modo, Eevar non aveva nemmeno voluto sentirne parlare.
Elinor incoccò la quarta freccia e tese l’arco per prendere la mira, facendo del suo meglio per ignorare i soldati che, passando a poca distanza da lei, si fermavano a guardarla e si scambiavano occhiate scettiche e borbottii. Sapeva che l’arco non era molto ben visto, tra i Nani: lo consideravano un’arma da vigliacchi e da rammolliti, perché, al contrario dell’ascia e della spada, evitava la battaglia corpo a corpo, stile di combattimento di gran lunga preferito dai Nani. Inoltre era un’arma tipicamente elfica, il che non contribuiva di certo ad aumentare la sua attrattiva presso il popolo di Durin. Era stata una sorpresa, in effetti, trovare quel piccolo arco rozzamente intagliato nell’armeria del campo di addestramento di Erebor, mescolato a spade, asce, coltelli e sciabole. 
Elinor, in realtà, vi si era recata con la sola intenzione di curiosare un po’ e distrarsi dal nervosismo che era tornato ad attanagliarla. Erano passati due giorni da quando aveva pedinato Thròr fino alla Camera del Tesoro, e ancora non aveva trovato il modo di scoprire quale fosse la parola o la frase che permetteva di aprire la porta del nascondiglio dell’Archepietra. L’unica persona con cui aveva abbastanza confidenza da potersi azzardare a fare domande in proposito era Balin, ma Elinor nutriva seri dubbi che il consigliere, per quanto vicino alla famiglia reale, conoscesse la parola magica per accedere al più grande tesoro di Erebor: Thròr le era parso troppo ossessionato dalla gemma, per confidare un segreto del genere a qualcuno che non gli fosse legato in modo intimo e viscerale. Diverso era il discorso per suo figlio e suo nipote: Thràin e Thorin, in quanto eredi al trono, dovevano sicuramente conoscere la parola magica. Ma con Thràin aveva scambiato, finora, sì e no cinque parole in tutto, e per quanto riguardava Thorin …
Elinor scoccò la freccia, e quella si conficcò talmente lontano dal centro, che la ragazza fu sul punto di scagliare arco e faretra per terra per sfogare la sua rabbia.
Dopo averla riaccompagnata fino alle sue stanze la sera del pedinamento, Thorin l’aveva accuratamente evitata per gli interi due giorni successivi. Elinor aveva atteso con rassegnazione, come Balin le aveva suggerito, ma la rabbia del principe non aveva dato segno di scemare, tanto che la ragazza stava cominciando a sospettare che questa tecnica della pazienza fosse efficace quanto sputare su un fuoco per spegnerlo. Probabilmente era con se stessa che avrebbe dovuto prendersela, pensò incoccando l’ennesima freccia. Era stata lei a mandare a monte il piano più sicuro che avevano, fin dal primo giorno. L’unica cosa che la consolava era la consapevolezza che, almeno, non sarebbe arrivata del tutto a mani vuote al prossimo incontro con suo padre e con Uren …
Un sibilo, un breve tonfo sordo, ed Elinor trovò la quinta freccia conficcata nel centro esatto del bersaglio. Si concesse un debole sorriso, osservandola vibrare allegramente e poi rimanere immobile.
«Bel tiro, Elinor!» gridò una voce femminile alle sue spalle.
La ragazza si voltò e vide Dìs venire verso di lei con un largo sorriso stampato sulla faccia rotonda, conducendo per le redini un pony color miele. Stava per ricambiare il sorriso, quando notò che ad accompagnare la Nana era proprio Thorin, anche lui con un pony al seguito. Persino da quella distanza Elinor riuscì a distinguere l’espressione cupa che il principe aveva assunto nello scorgerla.
Decisa a non dargli soddisfazione, esibì il più smagliante dei suoi sorrisi e agitò una mano in direzione di Dìs a mo’ di saluto. «Ti ringrazio!» gridò nella sua direzione.
«Non sapevo che sapessi tirare con l’arco!» disse la Nana con profonda ammirazione, quando – a dispetto del’evidente contrarietà di Thorin – l’ebbero raggiunta. «Sei davvero molto brava!»
«Oh, io … me la cavo» rispose Elinor con modestia, arrossendo leggermente. Poi, volgendosi verso Thorin, lo salutò chinando rigidamente la testa. «Principe…» disse in tono secco. Thorin ricambiò con un mezzo inchino altrettanto freddo, senza emettere un suono.
«Stavamo andando a fare una passeggiata» riprese Dìs con entusiasmo. «Perché non ti unisci a noi? Possiamo procurarci un pony anche per te!»
Elinor, presa alla sprovvista, fece scorrere uno sguardo incerto da lei a Thorin, che stava fissando la sorella come se volesse strangolarla da un momento all’altro.
«Io … veramente … non so se è il caso …» fu tutto quello che riuscì a rispondere, balbettando.
«Saremmo molto felici se tu volessi permetterci di mostrarti le terre a nord della Montagna! Non è vero, Thorin?» insisté Dìs, assestando al fratello una potente gomitata di avvertimento.
Elinor potè quasi sentire il rumore dei denti che stridevano, mentre Thorin contraeva la mascella e lanciava ad entrambe un’occhiata assassina.
«Naturalmente» ringhiò dopo diversi secondi, sputando fuori la parola come fosse un boccone di cibo amaro. «Ne saremmo entusiasti…»
Dìs lo fulminò con un’occhiata non meno omicida della sua, e poi tornò a sorridere ad Elinor come se niente fosse. «Meraviglioso, allora!» esclamò al settimo cielo, battendo le mani. «Vado subito a prenderti Fiona!»
Fiona, come Elinor scoprì qualche minuto più tardi, era una mansueta femmina di pony dal mantello color cioccolata e con grandi e dolci occhi scuri, la cui massima gioia nella vita sembrava essere quella di brucare pigramente l’erba del prato. Elinor, dopo aver recuperato le sue frecce ed essersi sistemata l’arco a tracolla, salì in sella con espressione incerta. Quella passeggiata fuori programma insieme a Thorin era decisamente l’ultima cosa che le serviva per recuperare il buonumore, ma non intendeva dargli la soddisfazione di accorgersi che la sua presenza la metteva a disagio. Avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco. Del resto, era diventato il suo hobby preferito, negli ultimi tempi…
Si incamminarono verso nord accompagnati dall’allegro chiacchiericcio di Dìs, di cui Elinor, per quanto si sforzasse, riusciva ad ascoltare veramente solo una parola su tre. Per il resto del tempo, la sua attenzione era totalmente concentrata sull’evitare il più possibile lo sguardo di Thorin e fingere indifferenza di fronte al suo glaciale e ostinato mutismo. A tratti, mentre faceva del suo meglio per prendere parte ai discorsi di Dìs, avvertiva chiaramente i freddi occhi del principe dei Nani puntati sulla schiena, e doveva compiere uno sforzo notevole perché la sua voce non tremasse.
Nonostante questo, comunque, era impossibile non rimanere senza fiato di fronte al paesaggio che stavano attraversando. Abituata fin da piccola all’ambiente ben diverso della foresta, Elinor era letteralmente affascinata dalla selvaggia maestosità di quelle terre. Dopo che ebbero superato le pendici più basse della Montagna Solitaria, facendo su e giù da scoscesi pendii chiazzati di vegetazione e prestando attenzione perché i pony non inciampassero sulle grosse pietre che sporgevano dall’erba, il terreno aveva cominciato a perdere pendenza. Si trovavano, adesso, nel mezzo di uno sconfinato paesaggio ondulato, coperto perlopiù di erba verde e bassa vegetazione di erica e arbusti. Qua e là, come piccole navi nel mezzo dell’oceano, crescevano piccoli raggruppamenti di alberi e cespugli, e dappertutto erano disseminate grosse formazioni isolate di roccia che emergevano dal terreno. All’orizzonte si stagliavano, acuminate e minacciose, le sagome delle Montagne Grigie, mentre voltandosi verso est era possibile scorgere le chiome degli alberi di BoscoVerde che oscillavano pigramente al vento leggero.
«Così, Elinor… è dagli Elfi che hai imparato a tirare con l’arco?» chiese ad un certo punto Dìs, interessata. Lo sguardo di Thorin sulla nuca di Elinor si fece più penetrante che mai. Sua sorella non avrebbe potuto scegliere un argomento peggiore, per cercare di fare un po’ di conversazione, ma se non altro Elinor apprezzava i tentativi che almeno lei stava facendo per metterla a suo agio.
«In effetti, sì» rispose Elinor cautamente. «Thranduil era convinto di vedere un certo talento, in me, e mi ha incoraggiato a fare pratica…» Il suo sorriso si adombrò per un attimo. «Poi, una volta, tornata a casa, non ho potuto continuare, ma questa è un’altra faccenda… Comunque, prima che partissi, il re mi ha fatto dono di uno splendido arco intagliato.»
La risata sprezzante di Thorin la disorientò notevolmente, costringendola a voltarsi nella sua direzione.
«Un regalo perfetto per una fanciulla!» esclamò il Nano in tono sarcastico. «D’altronde, è nota l’inclinazione degli Elfi dei Boschi per le armi… poco virili.»
Elinor si irrigidì all’istante. Sentì una vampata di rabbia incendiarle la faccia, ma si impose di mantenere la calma. L’ultima cosa che le serviva adesso era lasciarsi coinvolgere da Thorin in un altro litigio, vanificando così tutti i suoi sforzi per riparare al suo primo, grosso errore.
«Veramente, nel Reame Boscoso ho visto diverse volte Elfi impugnare spade e sciabole» ribattè Elinor, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per mantenere un tono tranquillo. «E devo dire che lo facevano con grande maestria.»
Thorin le rivolse uno sbuffo a metà tra lo sprezzante e il compassionevole, come se Elinor non sapesse minimamente quello di cui stava parlando, ma Dìs, chiaramente desiderosa di evitare una lite, si affrettò ad anticiparlo prima che aggiungesse qualcosa.
« E, se la memoria non mi inganna,» disse la Nana precipitosamente. «ho sentito dire che le spade elfiche sono oltretutto oggetti di squisita fattura! Non è vero, Elinor?»
«Oh, non ho dubbi al riguardo!» rispose acidamente Thorin, prima che la ragazza potesse prendere fiato per rispondere. «E’ risaputo come gli Elfi abbiano sottratto alla nostra razza i segreti della forgiatura delle armi, salvo poi corromperli e svilirli con i loro maledetti incantesimi
A questa accusa così piena di astio e di livore persino Dìs non trovò la forza di ribattere, limitandosi a fulminare il fratello con l’ennesima occhiata di fuoco. Elinor, da parte sua, riusciva a malapena a respirare regolarmente, tanta era la rabbia che quell’insinuazione aveva suscitato in lei. Leggende infamanti, calunnie… Davvero l’odio nei Nani nei confronti degli Elfi era così profondo da indurre Thorin a credere a certe cose orribili?
«Non è quello che ho sentito io» replicò, tagliente, trovando finalmente il coraggio di fissare Thorin negli occhi con aria di sfida. Il Nano rispose con un sogghigno di derisione.
«No, certo che no» rispose in tono soave. «Posso immaginare quello che vi avranno raccontato. Ma, comunque stiano veramente le cose, è innegabile che noi Nani prestiamo più attenzione alla sostanza, piuttosto che alla forma: per noi una bella spada non vale nulla, se non c’è un valido braccio a maneggiarla.»
Elinor piegò un angolo della bocca in un sorriso amareggiato. «Sembra che stiate dimenticando gli sforzi di mio padre e del vostro per portare amicizia tra i Nani e gli Elfi…» osservò freddamente.
Lo sguardo che Thorin le restituì fu un misto di rabbia e di indignazione. Le sue narici si dilatarono, le sue labbra si strinsero, e per un attimo Elinor temette che la sua ira stesse per esplodere. Invece, per lunghi istanti, i soli rumori udibili attorno a loro furono quello degli zoccoli dei pony contro le pietre sporgenti dal terreno e il lieve fruscio del vento.
«Il fatto che debba stringere un’alleanza con gli Elfi non significa che debba anche farmeli piacere» rispose infine Thorin in un sibilo, scandendo le parole una per una come se volesse assicurarsi che Elinor se le imprimesse bene nella mente.
La ragazza deglutì e abbassò lo sguardo, sconsolata. Non aveva più nemmeno la forza per ribattere: sapeva bene che nulla di quello che avrebbe potuto dire, per quanto pieno di buone intenzioni, avrebbe convinto Thorin ad abbandonare quella sua rabbia e quei suoi pregiudizi, e quella sua ostinazione a contraddirla in tutte le maniere possibili. Gli avrebbe concesso volentieri l’ultima parola, se questo l’avesse fatto sentire soddisfatto…
Stava ancora rimuginando, piena di amarezza, su quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima che il principe dei Nani le concedesse un po’ di tregua dal suo instancabile disprezzo, quando un nitrito terrorizzato la fece sobbalzare.
Il pony di Thorin, che camminava placido alla destra di Fiona, si era improvvisamente imbizzarrito, e adesso agitava per aria gli zoccoli anteriori, i profondi occhi neri sbarrati dalla paura. Quando tornò a poggiare le zampe a terra, queste cedettero sotto il suo peso e l’animale rovinò al suolo, rovesciandosi su un fianco e trascinandosi dietro anche Thorin. Mentre cadeva, un grido di sorpresa fuoriuscì dalla bocca del Nano, che solo grazie ad una stupefacente prontezza di riflessi riuscì ad evitare di rimanere intrappolato sotto il peso del corpo del pony. Anche Dìs urlò, presa alla sprovvista. Elinor, invece, ammutolita per lo shock, non riusciva a staccare lo sguardo dal fianco dell’animale, in cui erano conficcate due corte frecce scure dalla forma rozza e irregolare. Prima che avessero il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo, da dietro l’enorme ammasso di rocce alla loro destra, distante non più di dieci metri, saltò fuori un gruppo di Orchi urlanti, armati dilance, picche e spade dall’aspetto rozzo ma letale.
L’immediata reazione di Elinor prima che la sua mente riuscisse a formulare un pensiero coerente, fu istantaneo e potente ribrezzo. Aveva partecipato più volte, a BoscoVerde, a spedizioni contro Orchi delle Montagne Grigie che si erano spinti troppo a sud e si erano incautamente avvicinati troppo ai confini del Reame Boscoso. Ma mai, mai si sarebbe abituata al disgusto che il loro odore di marcio, i loro piccoli occhietti nervosi, il loro spezzato linguaggio gutturale e i loro movimenti scattosi e convulsi le procuravano.
Approfittando del fatto che li avevano colti di sorpresa, gli Orchi furono rapidi a coprire la distanza che li separava, e subito si avventarono loro addosso. Due o tre delle immonde creature ghermirono Elinor e la trascinarono a forza giù dal suo pony, senza che la ragazza avesse il tempo di imbracciare l’arco per respingerli. Cadendo a terra, si accorse che un altro piccolo gruppo di loro stava facendo la stessa cosa con Dìs. Il fiato pestilenziale di uno degli Orchi che l’aveva afferrata la colpì in pieno viso, rendendola per qualche secondo incapace di reagire. Poi, obbedendo più all’istinto di sopravvivenza che alla ragione, le sue braccia si mossero da sole, assestando un violento pugno in avanti e una disperata gomitata all’indietro. Entrambi i colpi andarono a segno, ottenendo lo scopo, se non di mettere fuori combattimento gli Orchi, perlomeno di darle il tempo di rialzarsi e impugnare l’arco. Thorin, a pochi metri di distanza da lei, combatteva già con altri due Orchi, menando poderosi fendenti con la sua spada a lama larga.
«Dìs!» gridò il Nano con quanto fiato aveva in gola, dopo averne abbattuto uno con un colpo alla testa. «Torna subito a Erebor, vai a chiamare aiuto
La sorella, che, pur essendo disarmata e tutt’altro che in abbigliamento adatto al combattimento, si era fino a quel momento difesa discretamente a suon di calci, pugni e testate, balzò di nuovo in sella al suo pony e galoppò via nella direzione da cui erano venuti, dando furiosamente di talloni nei fianchi dell’animale. 
Elinor perse completamente la cognizione del tempo. Non seppe per quanto continuò a tirare frecce e ad assestare colpi con l’estremità dell’arco: potevano essere passati minuti, come ore. Seppe solo che, dopo un po’, cominciò a sentire il fiato mancarle e la testa girare, mentre, tutto intorno a sé, udiva soltanto i rivoltanti stridii degli Orchi quando venivano infilzati e il cozzare delle loro armi contro la lama di Thorin. Non aveva mai preso parte a una battaglia corpo a corpo: le rare volte in cui si era trovata faccia a faccia con quelle immonde creature, a BoscoVerde, era sempre stato dall’alto di un cavallo, mai a piedi e colta alla sprovvista.
Che cosa sta succedendo, nel nome di Eru?
Con un tiro rapido e preciso, a dispetto delle gambe tremanti e il cuore che sembrava volerle sfondare il petto, abbattè un Orco armato di scimitarra che correva verso di lei digrignando gli aguzzi denti giallastri. Ma mentre estraeva la freccia dal suo corpo immobile per poterla usare di nuovo, la sua attenzione fu attratta dallo scontro che stava avendo luogo a pochi metri da lei.
Thorin stava incrociando la spada con quello che sembrava il leader del gruppo, un Orco tozzo dalla pelle verde-nerastra che lo superava in altezza di una buona spanna, e armato di una lunga ascia dalla lama seghettata. L’essere incalzava Thorin con fendenti sempre più energici, facendolo indietreggiare e parando, apparentemente senza difficoltà, i colpi con cui il Nano tentava di difendersi. Thorin cercava di non darlo a vedere, ma era evidente che stava cominciando ad accusare la stanchezza: poteva essere un combattente eccezionale, ma quindici Orchi da affrontare quasi da solo erano una prova notevole perfino per lui. In men che non si dica si ritrovò con la schiena contro una roccia; un nuovo, potente affondo dell’Orco gli fece volare via di mano la spada, che cadde a terra poco lontano con clangore metallico. Elinor, paralizzata nel punto in cui si trovava, ebbe appena il tempo di scorgere il fugace  scambio di sguardi tra i famelici occhi dell’Orco, ansiosi di avventarsi sulla carne di Nano che gli era stata inaspettatamente servita su un piatto d’argento, e quelli glaciali di Thorin, traboccanti di sfida e dignitosa regalità.
Poi le sue braccia si mossero da sole, e accadde tutto in una manciata di secondi.  
Quasi con un solo movimento, incoccò la freccia appena estratta dal cadavere ai suoi piedi, tese l’arco e la mandò a conficcarsi dritta nella testa dell’Orco, che, sollevata l’ascia, si preparava ad affondarla nel cranio di Thorin. La creatura lanciò un acuto stridìo di dolore, barcollò per qualche secondo e poi rovinò pesantemente a terra, dove, dopo qualche breve spasimo di agonia, rimase immobile, piegato in una grottesca posizione di morte.
Elinor rimase a fissarlo per qualche istante come instupidita, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la bocca semiaperta dalla quale fuoriusciva un affannoso respiro. Il suo sguardo incontrò quello di Thorin, ancora semidisteso a terra con la schiena contro la roccia, e si stupì di non leggervi all’interno il disprezzo e la freddezza che era solito riservarle. Il Nano la fissava come se la vedesse per la prima volta, come se si fosse completamente dimenticato della sua presenza, le labbra dischiuse e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di confusa sorpresa. Si fissarono in silenzio, senza riuscire a emettere un suono.
Poi un agghiacciante muggito alla sinistra di Elinor interruppe quell’attimo di tacito stupore, e la ragazza, voltandosi, fece appena in tempo a scorgere un ultimo Orco avventarsi su di lei prima che l’essere calasse l’alabarda sulla sua testa. Con un grido di una ferocia selvaggia dovuto alla tensione e alla paura accumulate in quei lunghissimi minuti, Elinor lo trafisse alla gola con l’ultima freccia rimastale e lo guardò rotolare a terra gorgogliando per il sangue che gli usciva a fiotti dalla bocca.
Fu solo quando l’Orco ebbe smesso di dimenarsi e fu rimasto immobile, che la ragazza, insieme all’improvviso silenzio, sentì calarle addosso una spossatezza indicibile. Indietreggiò barcollando finchè non raggiunse una roccia, e si abbandonò a terra con la schiena poggiata contro di essa, ansimando esausta. Voltando appena la testa, vide Thorin fissarla ancora con gli occhi azzurri spalancati, boccheggiando come se cercasse le parole per dire qualcosa e non riuscisse a trovarle. Il suo sguardo era quello di uno che avesse assistito all’improvviso crollo tutte le sue certezze e stesse tentando di venire a patti con questa inesorabile evidenza.
«Voi mi avete… salvato la vita» esalò con voce roca, quasi non credendo alle sue stesse parole.
Elinor non rispose. Non ci riuscì. Si limitò a fissarlo con aria altrettanto smarrita, il petto che si alzava e si abbassava in modo irregolare e l’arco ancora stretto spasmodicamente nella mano sinistra.



ANGOLO AUTRICE: Le fatiche di Ercole sono state una passeggiata in confronto a questo capitolo, ma per fortuna rieccomi qui! Come avete visto, succedono diverse cose interessanti, sia ai fini dell’evoluzione del rapporto tra Elinor e Thorin, sia ai fini della riuscita del piano per rubare l’Archepietra…ma come al solito mi piacerebbe avere il vostro parere in proposito! Purtroppo Thorin si è rivelato di nuovo essere simpatico come un dito in un occhio, ma, come avrete capito, dal prossimo capitolo le cose miglioreranno sensibilmente;)
A questo punto non mi resta che augurarvi buona lettura!
Saluti
Linda



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Capitolo 6
*** Un nuovo inizio ***


6. UN NUOVO INIZIO

La porta della Sala del Consiglio si aprì di schianto, e Thràin, accompagnato da due guardie, fece il suo ingresso come un uragano.
Coprì in due lunghi, possenti passi la distanza che lo separava dall’enorme tavolo di quercia intagliata e afferrò le due frecce che vi erano posate sopra, osservandone con sospetto lo strano colore e la forma rozza e minacciosa. Poi, dopo qualche secondo, sollevò sui presenti uno sguardo carico di furente incredulità.
«Nel nome di Durin, che sta succedendo qui?» tuonò passando in rassegna i volti davanti a lui, finché i suoi occhi scuri non incontrarono quelli del figlio.
Thorin ricambiò il suo sguardo con l’aria di chi si ritrovi ad essere, suo malgrado, ambasciatore di notizie poco allegre. Si sentiva esausto. Una volta concluso il combattimento con gli Orchi, senza nemmeno darsi il tempo di recuperare le forze, era tornato immediatamente ad Erebor al galoppo, scortato dalle guardie armate che nel frattempo, avvertite da Dìs, erano sopraggiunte in loro soccorso. Una volta arrivato, aveva subito dato ordine di convocare nella Sala, con la massima urgenza, suo padre, suo nonno e l’intero consiglio. Balin e Dwalin erano accorsi subito, scrutando con aria incredula i suoi vestiti stracciati, la sua spada insanguinata e il suo volto sporco. L’occhiata eloquente che si erano scambiati una volta messi al corrente dell’accaduto aveva confermato a Thorin, ancora assai disorientato, che la situazione era troppo strana per non destare preoccupazione.
«Un’imboscata di Orchi, a nord della Montagna» rispose infine con un sospiro carico di significato, fissando suo padre con aria cupa. Fu incapace di aggiungere altro, per il momento. Il suo cervello faticava ancora a dare coerenza agli ultimi avvenimenti: era successo tutto così velocemente che i suoi ricordi si limitavano ancora a confuse macchie sfocate, a scoppi di urla grottesche e rantoli bestiali, e a immagini fulminee della sua spada che affondava in corpi dalla spessa pelle livida, per poi uscirne intrisa di sangue nerastro.
E, naturalmente, allo sguardo attonito di Elinor, abbandonata contro quella roccia con l’arco stretto in mano. Ai suoi occhi verdi e dorati fissi nei suoi, pieni di mute domande a cui nessuno dei due sapeva dare risposta.
Thràin lo fissava con occhi spalancati che sembravano volergli rimbalzare fuori dalle orbite. Il suo tozzo corpo muscoloso tremava di una rabbia e di un’indignazione incontrollabili, e il pugno stringeva così spasmodicamente intorno alle due frecce che minacciava di spezzarle da un momento all’altro.
«Orchi?» gridò con voce strozzata, mentre chiazze rosse cominciavano a comparirgli sul viso e sul collo. «Dentro i nostri confini?»
« Sono esterrefatto quanto voi, padre.»
Thràin fece saettare lo sguardo da un volto all’altro, come aspettandosi che qualcuno lo contraddicesse, o desse una versione diversa e più plausibile degli avvenimenti. Sembrava che non riuscisse a trovare un senso alle parole che aveva appena sentito. Thorin non lo biasimava affatto. Se fosse stato al suo posto, probabilmente avrebbe pensato che suo figlio era diventato completamente pazzo.
«Quanti?» fu la sola cosa che riuscì a chiedere l’erede al trono del regno di Erebor, muovendo appena le labbra.
Thorin sospirò e si passò una mano sul viso, mentre una terribile spossatezza gli gravava sulle spalle, facendolo sentire più vecchio di almeno dieci anni. «Quindici, forse anche di più» rispose stancamente. «Ci hanno colto di sorpresa. E’ stata una fortuna riuscire ad uscirne vivi.»
E’ stata una fortuna che Elinor avesse con sé quell’arco…
Thorin sapeva di essere un combattente valoroso e instancabile, come la maggior parte dei Nani, ma il suo orgoglio non arrivava certo a fargli credere che, colto alla sprovvista e in netta inferiorità numerica, avrebbe potuto aver ragione, completamente solo, di quasi venti Orchi. Gli costava ammetterlo, dopo aver giurato di disprezzarla per il resto dei suoi giorni, ma le frecce di Elinor e la sua abilità con l’arco erano stati provvidenziali.
Non sarei qui a raccontare com’è andata, se non fosse stato per lei.
Il pensiero lo colpì con tanta violenza che, se gli avessero assestato uno schiaffo in pieno viso, il suo sgomento sarebbe probabilmente stato minore.  Che lo volesse o no, tecnicamente doveva la vita ad Elinor di Dale. Questa consapevolezza gli procurava uno strano miscuglio di sentimenti, che andavano dal senso di colpa per la durezza con cui l’aveva trattata, alla confusione nel vedere completamente cambiate le carte in tavola nel loro rapporto.
«Ma che cosa ci faceva un branco di Orchi così vicino ai nostri confini?» chiese Balin, le braccia incrociate sul petto e l’alta fronte calva solcata da profonde rughe. «E’ rarissimo che si spingano così a sud delle Montagne Grigie…»
Un cupo silenzio denso di interrogativi seguì la domanda. La maggior parte dei presenti si limitò a scuotere la testa e a scambiare occhiate dubbiose con i propri vicini, mentre Thorin, ancora turbato dall’accaduto, fissava in silenzio il pavimento, la mascella contratta e tutti i muscoli del corpo tesi come se da un momento all’altro dovesse affrontare altri Orchi.
«E in pieno giorno, per di più» aggiunse brevemente Dwalin come a completamento della domanda del fratello, i grossi bicipiti incrociati sull’ampio petto e gli occhi ridotti a due fessure. Thorin incrociò per un attimo il suo sguardo, e, senza che ci fosse bisogno di dire nulla, vi lesse la stessa inquietudine che imperversava nella sua testa. Dwalin aveva ragione, rifletté il giovane principe, certo che anche tutti gli altri, nella stanza, stessero pensando la stessa cosa. Gli Orchi erano creature delle tenebre, vivevano in sudice caverne e fetide gallerie, aggirandosi come topi nel buio e cibandosi delle poche forme di vita che condividevano il loro ambiente, non di rado indulgendo al cannibalismo. La luce del sole, insieme alla razza elfica, era la cosa che più detestavano al mondo: li rendeva deboli e disorientati, ma, paradossalmente (o forse proprio per questo) ancora più aggressivi. Solo in casi di estrema necessità si arrischiavano a mettere il naso fuori dai loro cunicoli all’interno delle Montagne Grigie…
Un verso sprezzante del re ruppe il pesante silenzio che si era creato, mentre Thràin scaraventava di nuovo le due frecce sul tavolo con un gesto stizzito.
«Mi caschino tutti e due gli occhi, se so cosa ci facevano quelle fetide bestiacce a zonzo per le nostre terre!» borbottò cominciando a misurare a grandi passi il lato più lungo del tavolo. «Quello che so è che hanno attentato alla vita dei miei figli e di una mia ospite, e questo non posso tollerarlo, per Durin! … Dove diavolo è il re, si può sapere?!»
L’ultima parte della frase fu sbraitata contro una povera guardia appena entrata nella stanza, che Thràin doveva evidentemente aver mandato a chiamare Thròr e che era, suo malgrado, tornata a mani vuote.
«Su… Sua Maestà mi manda indietro a dirvi che è molto impegnato, mio principe… e… che non potrà presenziare alla riunione…» balbettò il nano, come temendo che Thràin potesse prendersela con lui.
E in effetti, per un momento, parve che le sue paure fossero fondate: il viso del principe ereditario si coprì di chiazze rosse, le sue grandi mani callose si strinsero a pugno, e i presenti trattennero all’unisono il respiro, vedendolo già scagliarsi pieno di collera contro lo sfortunato ambasciatore.
Thorin non biasimava la sua rabbia e la sua frustrazione: il messaggio di suo nonno aveva lasciato attonito anche lui. E, senza bisogno di voltarsi, poteva immaginare le espressioni basite dei nani intorno a lui, poteva vedere gli sguardi di muto stupore che si stavano scambiando. Se Thròr non emergeva dalla Camera del Tesoro nemmeno alla notizia che un gruppo di Orchi aveva attaccato due dei suoi nipoti all’interno dei confini di Erebor, significava che né Thorin, né suo padre, né alcuno dei presenti aveva nemmeno lontanamente capito quanto fosse grave la situazione in cui versava la sua mente …
Per fortuna, all’ultimo momento, Thràin parve recuperare il controllo di sé. Benedetto dai Valar con la capacità di dominare i propri focosi impulsi (caratteristica che a Thorin era stata elargita con grande parsimonia), sembrò capire che, per il momento, il problema più urgente da affrontare era un altro, e che la malattia di suo padre avrebbe dovuto aspettare ancora per un po’.
«Bene» disse in tono sbrigativo, volgendo le spalle alla guardia (che pensò bene di svignarsela alla chetichella dalla stanza) e poggiando i pugni sul tavolo con aria, se possibile, ancora più cupa. «Questa faccenda è gravissima, e deve essere affrontata con la massima urgenza. Thorin, che cosa sei riuscito a capire sul conto di quelle immonde creature?»
Thorin giunse le braccia dietro la schiena e spinse il mento in fuori, cercando di ostentare fermezza e una calma che in quel momento era assai lontano dall’avere. Se c’era uan cosa che suo padre gli aveva insegnato, era che non doveva mai mostrarsi debole, di fronte al suo popolo.
«Ben poco, padre» rispose, senza riuscire a nascondere una sfumatura di amarezza nella voce. «Ci sono balzati addosso all’improvviso, abbiamo avuto a malapena il tempo di renderci conto di ciò che stava succedendo…»
La treccia bionda di Elinor che si agitava selvaggiamente nella foga del combattimento…
La sua spada che usciva, lorda di viscido sangue nero, dal ventre di un orco ragliante…
Gli occhi famelici dell’orco a capo del gruppo, che scrutavano bramosi le sue membra scomposte sull’erba…
Le sue fauci aguzze che schioccavano nella sua direzione…
Thorin chiuse gli occhi per un momento e li riaprì. I consiglieri li guardavano in silenzio, i volti scuri e le mani che lisciavano la punta delle barbe con fare meditabondo. Maledì il fatto di non avere nient’altro di utile da dire.
«Tuttavia, trovo sorprendente che quindici orchi siano stati sconfitti pur essendo in netta maggioranza, e benché fossero riusciti a coglierci di sorpresa» aggiunse, esitante. «Sembravano… deboli. Deboli e molto, molto affamati. Come se non mangiassero da diverso tempo.»
Come se stessero scappando da qualcosa…
Il pensiero gli sovvenne senza che l’avesse minimamente chiamato, in modo tanto repentino e inaspettato, che senza rendersene conto socchiuse le labbra e sbatté le palpebre con aria sconcertata. Sapeva perfettamente quanto bizzarra e incredibile potesse suonare alle orecchie di chiunque, eppure questa era l’impressione che aveva avuto.
Lanciò una breve occhiata alla sua destra. Balin e Dwalin lo fissavano con un’aria strana che Thorin non riuscì a decifrare: non era sicuro se stessero seriamente valutando al sua affermazione o se invece stessero dubitando della sua capacità di giudizio.
Suo padre, in compenso, sembrava aver udito a malapena quello che Thorin aveva appena detto. Aveva ripreso a marciare avanti e indietro con le mani giunte dietro la schiena, sprizzando collera e preoccupazione da tutti i pori.
«Se gli Orchi si sono fatti talmente audaci da spingersi così vicino ad Erebor, e per di più in pieno giorno, non c’è dubbio che stiano tramando qualcosa» abbaiò Thràin. «E non è da escludere che prima o poi ne arrivino altri.»
Un’esplosione di sconcerto seguì queste parole. Un brusìo concitato si levò dal gruppo di consiglieri, che iniziarono a borbottare, a parlottare tra di loro e a scuotere la testa, rabbuiati.
«Voi… voi credete che gli Orchi stiano preparando un attacco a Erebor e che quelli fossero… esploratori?» chiese titubante Balin, come accertandosi di aver capito bene. Dwalin non parlava. Se ne stava immobile con le poderose braccia conserte e gli occhi socchiusi, scrutando in silenzio le reazioni concitate degli astanti.
«Ci scommetto al mia barba, che è così» rispose Thràin con risolutezza. «Non c’è altra spiegazione. Quei luridi abomini della natura non hanno mai nascosto al loro brama di impadronirsi della Montagna Solitaria e di tutte le ricchezze che ci sono dentro, ma sono sempre stati troppo pochi e troppo male organizzati per avere anche la minima possibilità di sopraffarci.»
«Se hanno mandato fuori degli esploratori, però, forse si stanno organizzando» intervenne uno dei consiglieri più anziani. «Forse sono diventati abbastanza numerosi da tentare un attacco. Gli Orchi si riproducono molto velocemente, questo è risaputo…»
Thorin, benché non riuscisse a scacciare la sensazione che in tutta quella storia ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, dovette ammettere che quell’ipotesi era più che realistica. E gli scenari che apriva non erano per nulla rassicuranti…
«Beh, ci troveranno pronti a riceverli, questo è certo!» esclamò in tono battagliero Bohr, il marito di Dìs, un nano dalla folta barba nera come il carbone. «Mi occuperò personalmente di intensificare l’addestramento dei soldati, mio principe! Farò in modo che quei cani rabbiosi trovino pane per i loro denti!»
«Ma perché aspettare che vengano a cercarci?» intervenne in quel momento Frèrin, il fratello minore di Thorin, facendo saettare sui presenti i focosi occhi azzurri. Era giovane, talmente giovane che la sua barba si limitava ad uan rada peluria appena accennata sul mento. In ogni caso, era troppo giovane per essere già consigliere, ma Thràin e Thròr avevano convenuto che, in quanto maschio della famiglia reale, avesse comunque il dovere di prendere parte alle sedute del consiglio per fare esperienza. «Andiamo noi a stanarli, invece! Riuniamo le nostre forze e marciamo sulle Montagne Grigie! Quando li avremo annientati una volta per tutte, non potranno più escogitare nessun piano!»
Thorin roteò gli occhi e represse a malapena un sorriso esasperato. Suo fratello era senza dubbio coraggioso, e non mancava di una certa dose di capacità strategiche, ma a volte (fin troppo spesso) si lasciava sopraffare dall’irruenza e parlava senza riflettere. Il concetto di “prudenza”, in particolare, sembrava essergli del tutto sconosciuto.
Ci pensò suo padre a frenare sul nascere i baldanzosi impeti del minore dei suoi pargoli: interruppe improvvisamente il suo nervoso andare avanti e indietro e gli piantò in faccia uno sguardo a dir poco fulminante.
«Non rischierò le vite di tutti noi per quella che, per adesso, non è altro che una semplice supposizione. Molto probabile, certo, ma sempre una supposizione» replicò in tono di raggelante severità, mentre Frèrin si faceva piccolo piccolo e tentava di mimetizzarsi con la parete alle sue spalle. «Tuttavia,» continuò Thràin, riprendendo a camminare «delle precauzioni vanno prese, e in fretta.»
Thorin vide Balin, alla sua sinistra, fare un passo avanti con aria risoluta. Benché fosse piuttosto basso per la media nanica, e benché la maggior parte dei presenti lo superasse in altezza di una buona spanna, in quel momento parve al giovane principe che il Primo Consigliere svettasse su tutti loro, tali erano la forza e la determinazione che trasmetteva il suo sguardo.
«Se mi è concesso esprimere un parere, mio principe,» disse Balin «direi che la prima cosa da fare è disporre delle sentinelle sul versante nord della Montagna e intensificare per qualche tempo il servizio di guardia, in modo da evitare altri eventuali attacchi a sorpresa.»
Thràin gli rivolse un burbero e confidenziale cenno di assenso, facendo capire che approvava la sua proposta senza riserve od obiezioni di sorta. «Bohr, Frèrin!» si limitò a dire con tono autoritario, rivolto al genero e al figlio minore. «Voglio che vi occupiate personalmente di organizzare i turni di guardia sul lato nord, e assicuratevi che chiunque sia sorpreso a dormire o a distrarsi durante il suo turno venga severamente punito! Andate!»
I due Nani si congedarono con un rapido e profondo inchino e poi uscirono dalla stanza a passo svelto.
«C’è anche un’altra cosa che deve essere fatta al più presto, senza perdere tempo» continuò Thràin mentre la porta si chiudeva alle spalle dei due. Fece una breve pausa, come seguendo il filo di un altro pensiero, e poi riprese: «Dobbiamo affrettare i preparativi per il matrimonio, nonché le trattative di alleanza con gli Elfi tramite la mediazione di Dale. Se davvero gli Orchi si stanno preparando ad attaccarci, allora ci sarà necessario il sostegno del maggior numero possibile di alleati.»
Il suo sguardo, che fino a quel momento aveva passato in rassegna uno a uno i volti dei presenti, si fermò sul viso di Thorin. «Il governatore è già stato mandato a chiamare?» chiese Thràin.
Thorin annuì. «Sì, padre. Ho mandato un messaggero appena tornato ad Erebor.»
Da parte del principe ereditario ci fu solo un breve cenno di approvazione con il capo. «Voglio che, subito dopo aver visto sua figlia, venga condotto da me in questa stanza. Abbiamo diverse cose di cui parlare» stabilì, senza smettere di fissare Thorin negli occhi.
Il giovane nano, le narici dilatate e la mascella contratta per il nervosismo, sostenne con fermezza lo sguardo del padre. Non ci fu bisogno che aggiungesse nulla: gli era perfettamente chiaro quello che Thràin voleva comunicargli. Gli stava silenziosamente chiedendo di non abbandonarlo, di continuare a sostenerlo in quel progetto di alleanza e di non deluderlo. Gli stava facendo capire che, ora più che mai, contava su di lui. E Thorin non si sentì mai orgoglioso come in quel momento di poter fare la sua parte, una parte importantissima, in quella vicenda. Quando suo padre gli aveva proposto quel matrimonio aveva accettato a malincuore, ingoiando a denti stretti come fosse un boccone amaro che, tuttavia, doveva mangiare per forza. Aveva passato i giorni successivi ad avvelenarsi il cuore e l’anima pensando egoisticamente soltanto alla sua libertà perduta, alla sua avversione per il matrimonio che era stato costretto, suo malgrado, a mettere da parte. Ma allora non aveva ancora subito un attacco degli Orchi, non aveva ancora sperimentato sulla pelle cose significasse veramente vedere la propria incolumità e quella del proprio popolo messe a repentaglio da un nemico ad un tratto così terribilmente vicino e concreto. Adesso invece, come se dalla sua mente fosse stato rimosso un velo, poteva vedere tutto con molta chiarezza.
Solo adesso si rendeva conto di quanto erano stati sciocchi i dubbi e il malcontento con cui, qualche giorno prima, aveva accolto al proposta di suo padre. Che importanza poteva avere la rinuncia alla sua libertà, in confronto al rischio (che ora, dopo averlo toccato con mano gli sembrava così concreto) di vedere Erebor invasa dagli Orchi? Ad un tratto, nemmeno la prospettiva della convivenza con Elinor lo spaventava più: nemmeno l’orgoglio dei Nani era così tenace da riuscire a continuare ad odiare una persona che ti aveva appena salvato al vita.
«Molto bene» concluse suo padre con aria cupa, dopo aver impartito altri ordini ai consiglieri rimasti. «Potete andare, per il momento. Voglio ritrovarvi tutti qui tra un’ora, quando riceverò il governatore.»
Ci furono alcuni secondi di sommesso scalpiccìo, mentre i presenti, parlottando tra di loro con aria preoccupata, si dirigevano insieme verso la porta appena spalancata dalle guardie. Thorin si ritrovò ultimo insieme a Balin e Dwalin, ma mentre stava per uscire dalla stanza la voce di Thràin lo richiamò indietro.
«Thorin, aspetta un momento.»
Il giovane nano salutò con un cenno del capo i due amici, che lo superarono battendogli entrambi una solidale pacca sul braccio, e tornò sui suoi passi. Suo padre era appoggiato con i pugni chiusi al grande tavolo di pietra, la testa dai folti capelli crespi incassata nelle ampie spalle. Quando si voltò a guardarlo, però, la sua espressione non era più quella del futuro re preoccupato per le sorti del suo popolo, ma quella di un padre turbato dal fatto che suo figlio avesse appena rischiato di perdere la vita. Gli posò una mano sulla spalla, il volto tirato che pareva invecchiato di dieci anni.
«Tutto bene, figliolo?»
Thorin deglutì e annuì brevemente, abbassando lo sguardo, la tensione che, poco a poco, iniziava ad allentarsi. Non aveva mai visto la morte così da vicino come quel giorno, e il pensiero che in quel momento avrebbe potuto non essere lì lo turbava profondamente. Thràin mantenne un burbero e virile silenzio, ma Thorin capì, da come aumentò la stretta sulla sua spalla, che suo padre aveva intuito i suoi pensieri con molta facilità. Non gli avrebbe mai detto quanto era felice di rivederlo, Thorin lo sapeva. E tuttavia, non face poi molta fatica a leggerglielo negli stanchi occhi scuri contornati da piccole rughe.
«E come sta la ragazza?» domandò ancora Thràin. «Deve essere spaventata a morte…»
Thorin sorrise debolmente. Elinor piaceva a suo padre, si capiva dalla paterna sollecitudine con cui aveva chiesto di lei. E, probabilmente, gli sarebbe piaciuta ancora di più, se l’avesse vista fare quello che aveva appena fatto con arco e frecce contro quegli Orchi…
«L’ho affidata a Rolgha perché le facesse fare un bagno e la rimettesse in sesto» rispose con voce roca per la stanchezza. «Ma credo che abbia preso la cosa meglio del previsto. E’ molto più forte di quanto pensassi...» Tacque per un momento e abbassò lo sguardo. «Non sarei qui, se non fosse stato per lei» aggiunse a mezza voce.
Thràin annuì, le labbra strette. «Quando avrà riposato, desidero andare a ringraziarla personalmente.»
Thorin piegò un angolo della bocca in un sorriso a metà fra l’ironia e l’amarezza. «Forse tocca a me ringraziarla per primo» disse debolmente. Il lungo sospiro di suo padre gli fece capire, senza bisogno di guardarlo, che la sua decisione di mettere da parte l’orgoglio e l’ostilità nei confronti di Elinor sollevava enormemente Thràin. Come a tutto il resto di Erebor, anche a lui dovevano essere arrivate voci riguardo ai loro recenti diverbi, e Thorin era sicuro che non li avesse considerati dei grandi passi avanti per la buona riuscita di quel matrimonio e dell’alleanza con gli Elfi.
Suo padre lo fissò a lungo senza parlare. Poi un impercettibile sorriso fece capolino fra i folti baffi castani. «Vai a farti un bagno anche tu, adesso» gli intimò Thràin, l’ordine sensibilmente addolcito da una sfumatura di affetto. «Voglio che tu sia presente, quando riceverò il governatore.»
 
 
Elinor non sapeva da quanto tempo stesse fissando, completamente immobile, le leggere increspature sul pelo dell’acqua in cui era immersa. Sapeva soltanto che, da quando aveva messo piede ad Erebor, qualche giorno prima, non aveva mai provato dentro di sé una quiete tanto profonda.
Non sentiva nulla. Era come, se, all’improvviso, la sua mente si fosse svuotata. Eppure aveva appena affrontato un branco di quindici Orchi quasi completamente da sola! Avrebbe dovuto sentirsi spaventata, elettrizzata, o anche soltanto un po’ in agitazione … Aveva rischiato di morire, per Eru!
Invece, dentro di lei c’era solo un’enorme, spiazzante calma. Forse era tutto merito di quell’acqua calda in cui Rolgha l’aveva infilata senza tanti complimenti, e che adesso, pur essendo diventata nient’altro che tiepida, continuava ad accarezzarla in un abbraccio avvolgente… 
C’era solo una cosa a cui non riusciva a smettere di pensare, ed era il viso di Thorin. Quello sguardo nei suoi occhi quando l’Orco che stava per ucciderlo era caduto a terra, abbattuto dalla sua freccia. Il modo in cui le sue iridi azzurre si erano allargate mentre la fissava ammutolito, incapace di pronunciare una sola parola.
Nemmeno lei era riuscita a parlare. Sapeva che ci sarebbero state moltissime cose da dire, ma le parole le erano rimaste impigliate in gola. Non aveva aperto bocca nemmeno quando erano arrivati i soccorsi da Erebor, prontamente chiamati da Dìs. Ricordava vagamente di come Thorin l’avesse aiutata a rialzarsi e l’avesse sostenuta mentre saliva con le gambe tremanti sul cavallo di lui, miracolosamente rimasto in vita. Poi il nano si era issato a sua volta sul pony, davanti a lei, e aveva dato di sprone sul fianco dell’animale. Erano ripartiti lentamente verso Erebor, scortati da una decina di guardie assolutamente incredule di averli ritrovati entrambi vivi. Se chiudeva gli occhi, Elinor poteva ancora sentire il dondolìo rassicurante dei passi del pony. Poteva ancora sentire le sue braccia strette intorno alla vita di Thorin, e quell’odore caldo, di terra e sudore, che emanava dal corpo del principe. Anche quello, in un certo modo, le era sembrato rassicurante
Nemmeno quando Rolgha, di gran lunga più spaventata di lei, l’aveva presa in consegna per condurla in un posto dove potesse farsi un bagno e riprendere le forze, lei e Thorin si erano detti nulla. Il nano si era limitato a rivolgerle un lungo, indecifrabile sguardo, che non l’aveva abbandonata finché non era scomparsa al di là della porta.
Elinor era consapevole che quello che era successo quel giorno aveva cambiato in qualche modo la natura del suo rapporto con Thorin, ma non era ancora in grado di dire quanto e in che senso. Non finchè non avesse avuto di nuovo occasione di ritrovarsi da sola con lui, il che, data l’urgenza della situazione gli obblighi che Thorin aveva in quanto erede al trono e partecipe delle decisioni del consiglio, avrebbe potuto avvenire anche tra diverso tempo…
«Elinor? Mia signora?»
Un discreto bussare alla porta e l’incerta voce di Rolgha, timorosa di disturbarla, la distolsero dai suoi pensieri.
«Ci sono vostro padre il governatore e il vostro consigliere che desiderano vedervi. Li ho fatti aspettare nella Sala Est…»
«Grazie, Rolgha. Di’ pure loro che scenderò tra poco.»
I passi della serva si allontanarono svelti lungo il corridoio. Elinor rimase immobile ancora per qualche secondo, cercando di rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto alzarsi e abbandonare quel piacevole tepore. Ma non aveva scelta, purtroppo: prima o poi avrebbe dovuto farlo.
Con un profondo sospiro si levò in piedi, spargendo tutt’intorno una pioggia di piccoli schizzi, e allungò una mano verso un grande asciugamano di lino poggiato sulla sedia accanto alla vasca. Si frizionò energicamente braccia, gambe e il resto del corpo finché non fu sufficientemente asciutta, e, dopo aver cercato invano di districare con le dita i lunghi capelli biondi, iniziò ad indossare i vestiti puliti che Rolgha aveva poggiato, accuratamente ripiegati, sulla stessa sedia di legno.
Per quanto ne sapeva, la prima delle periodiche visite che Uren e suo padre le avevano preannunciato avrebbe dovuto tenersi soltanto un paio di giorni dopo. L’imboscata degli Orchi, però, doveva aver modificato i loro piani, facendoli accorrere ad Erebor prima del tempo: Elinor aveva sentito personalmente Thorin, quando erano tornati alla Montagna, ordinare che venisse mandato un messo a Esgaroth per avvertire il governatore dell’accaduto.
Il semplice vestito di lino marrone le scivolò con un fruscio lungo i fianchi. Nel camino di pietra, il fuoco scoppiettava e danzava allegramente, ed Elinor rimase per lunghi istanti a godersi quel piacevole calore sulle membra esauste, le fiamme che si riflettevano nei suoi occhi.
Non riusciva a capire bene perché, ma il pensiero della reazione entusiasta che suo padre, probabilmente, avrebbe avuto alla notizia della scoperta del nascondiglio dell’Archepietra, la metteva a disagio. La infastidiva, quasi. Il che era una cosa ridicola e insensata, perché lei stessa avrebbe dovuto condividere la felicità di Eevar: in fondo, avvicinarsi all’Archepietra significava avvicinarsi sempre di più alla sua libertà… allontanarsi sempre di più dall’obbligo di dover sposare Uren… Dove accidenti era finita l’euforia che, solamente pochi giorni prima, aveva provato dopo aver seguito re Thròr nella Camera del tesoro?
Scosse debolmente la testa. Probabilmente quel distacco e quell’indifferenza erano dovuti solo alla stanchezza. Quando si fosse ripresa del tutto, sarebbe riuscita a guardare la situazione dalla giusta prospettiva, e a ritrovare quell’entusiasmo che lo scontro con gli Orchi sembrava aver messo in secondo piano.
Attese soltanto il tempo necessario perché i capelli si asciugassero un po’ al calore del fuoco, e poi, dopo aver calzato un paio di scarpe basse comode, si decise finalmente a scendere ai piani inferiori.
Rimase piacevolmente sorpresa rendendosi conto che, qualsiasi nano o nana incontrasse sul suo tragitto, questi si affrettava subito a chiederle in tono preoccupato se stesse bene, concludendo, prima di continuare per la loro strada, con un profondo inchino e l’assicurazione di essere “al suo servizio” per qualunque cosa. I Nani saranno stati anche la più burbera della razze della Terra di Mezzo, rifletté Elinor, procedendo a passo svelto verso la Sala Est, ma di sicuro non mancava loro la capacità di farti sentire apprezzata e ben accetta. Era quasi doloroso, si rese conto con un amaro sorriso, il pensiero di doverli tradire tutti, alla fine…
Fu inevitabilmente costretta a mettere da parte questi pensieri quando finalmente si ritrovò davanti alla porta della Sala. Le guardie che stazionavano davanti ad essa la aprirono per lei, ed Elinor scorse all’interno al figura di suo padre, seduto su una sedia dall’alto schienale di legno istoriato, e quella tozza di Uren, in piedi dietro di lui. Al suo ingresso si voltarono entrambi.
«Elinor!» esclamò il governatore, alzandosi di scatto e andandole incontro con aria preoccupata. «Stai bene? Sei ferita?»
La ragazza sorrise debolmente, mentre il padre la raggiungeva in due grandi falcate e le prendeva il viso tra le mani, scrutandola pieno di apprensione. Per un fulmineo istante le balenò nella mente una scena avvenuta più di dieci anni prima: lei, bambina selvaggia e irrequieta, che si scorticava un ginocchio correndo a perdifiato per i corridoi del palazzo di Esgaroth, suo padre e sua madre che la circondavano di ansiose attenzioni, incuranti del fatto che lei fosse assolutamente tranquilla e non stesse versando neanche una lacrima.
«Sto bene, padre» assicurò, sforzandosi di allargare il sorriso a maggiore garanzia della sua incolumità e tranquillità. «Sono solo molto molto stanca. Tutto qui.»
Eevar chiuse per un attimo gli occhi ed emise un breve sospiro di sollievo, come se, pur avendo visto che Elinor non presentava nessuna ferita evidente, aspettasse di sentirselo confermare da lei.  «Che i Valar siano ringraziati! Quando il messaggero è arrivato ad Esgaroth dicendo che avevate subìto un attacco degli Orchi ho temuto il peggio!»
“Anche io ho temuto il peggio” pensò Elinor, mentre le immagini del combattimento le passavano davanti agli occhi per l’ennesima volta. Valutò per un momento l’ipotesi di rivelare a suo padre che era stata lei a salvare le vite di entrambi, e che l’aveva fatto proprio con quell’arma che Eevar l’aveva obbligata a lasciare chiusa nella sua stanza ad Esgaroth, sostenendo che non fosse adatta ad una ragazza di nobili origini. Sarebbe stata curiosa di vedere la sua espressione. Un momento dopo, però, si rimproverò per questo suo impeto vendicativo: suo padre era chiaramente preoccupato per lei, e sarebbe stato ingrato, da parte sua, ripagarlo con uno sterile e meschino tentativo di provocazione.
«Ma... come è potuto accadere?» stava chiedendo il governatore, sconcertato. «Gli Orchi non si spingono mai così a sud delle Montagne Grigie!»
Elinor sospirò. «E’ quello che ci chiediamo tutti» rispose stancamente. «So che Thràin ha tenuto una riunione nella Sala del Consiglio, pochi minuti fa. Immagino che siano giunti a delle conclusioni al riguardo, anche se non ne sono a conoscenza. Non mi è stato permesso partecipare…»
Le ultime parole furono pronunciate con una punta di amarezza, ma Eevar parve non farci caso. Continuava a fissare il volto di Elinor come se lo vedesse per la prima volta, e a carezzargli le guance con i pollici.
«Oh, bambina mia!» esclamò, affranto. «Mi dispiace così tanto di averti messo in questa situazione! Solo adesso mi accorgo di quanto… di quanto sia difficile quello che ti sto chiedendo!» Si interruppe per un attimo, scrutando ansiosamente il suo viso. «Ma tu… tu capisci quanto è importante, vero? Capisci che il nostro futuro dipende interamente da te?»
Elinor distolse lo sguardo dal suo, per evitare che il padre leggesse la delusione e la rabbia nei suoi occhi. Per un breve, meraviglioso attimo aveva creduto che suo padre, spaventato dal rischio di perderla che aveva corso, stesse per dirle che avrebbe rinunciato al loro piano, o che, perlomeno, avrebbe trovato un altro modo di portarlo a termine che non la coinvolgesse direttamente. Invece, a quanto pareva, nulla riusciva a distogliere la sua mente da quella pietra grande come un pugno che in quel momento brillava nel suo nascondiglio nelle viscere della Montagna. Alzò lo sguardo oltre la spalla di suo padre: Uren era rimasto defilato, a qualche metro di distanza, apparentemente per dare loro un po’ di intimità, ma Elinor sapeva che la sue orecchie non perdevano una parola di quello che lei e Eevar si stavano dicendo. I suoi occhi porcini la fissavano senza abbandonarla un attimo, passandola da parte a parte. La ragazza sostenne il suo sguardo per lunghi istanti con aria di sfida, poi li distolse con freddezza.
«Sì, padre» si limitò a dire in un bisbiglio appena udibile. «Capisco…»
Il volto di Eevar subì un tale cambiamento che, se Elinor non l’avesse conosciuto da quando era nata, avrebbe creduto di trovarsi davanti ad un’altra persona. Il governatore si illuminò di un sorriso pieno di gratitudine e di orgoglio, e la strinse alcuni secondi in un forte abbraccio commosso.
«Ma certo che lo capisci» mormorò, la voce che gli tremava per il sollievo. «Sei una brava ragazza, Elinor… una brava ragazza… Ora,» disse abbassando ancora di più la voce e staccandola da sé per guardarla negli occhi «dimmi: ci sono… novità?»
Elinor esitò per un momento. All’improvviso, senza che li avesse minimamente chiamati, le erano passati davanti agli occhi il viso sorridente di Balin, l’espressione stupita di Thorin, i Nani di Erebor che si preoccupavano della sua incolumità e si piegavano fino a terra in sorridenti inchini. Dovette fare un tremendo sforzo per concentrarsi sul viso di Uren, che ancora la fissava con cupidigia, e scacciarli dalla mente.
«A dire la verità, sì, ci sono novità» rispose con espressione dura. Lanciò prudentemente un’occhiata dietro le spalle, per assicurarsi che la porta fosse ben chiusa, e poi riferì tutto quello che aveva scoperto riguardo al nascondiglio dell’Archepietra. Mentre raccontava, vide gli occhi di suo padre allargarsi sempre di più, e quando giunse alla parte finale in cui vedeva Thròr entrare nel nascondiglio incantato, Eevar soffocò a stento un gemito di entusiasmo.
«Ma… ma è stupefacente!» esalò, tentando di controllare l’euforia e di parlare più piano possibile. «Uren, hai sentito? Hai sentito?»
«Ho sentito, mio signore» rispose Uren con la sua voce untuosa, staccandosi dalla sedia e avvicinandosi finalmente a loro. «Vostra figlia ha raggiunto un ottimo risultato, e non vorrei essere io a farvi notare questo, ma... se non riusciamo ad ottenere la parola magica che apre la porta, sarà stata tutta fatica inutile.» Il suo sguardo saettò verso Elinor. «Ammirevole, senza dubbio… ma inutile.»
Elinor sentì montare dentro di sé una rabbia cieca, e dovette fare un eroico sforzo per dominarsi. L’eccitazione per il combattimento non era ancora passata del tutto, e sentiva che se quel disgustoso individuo avesse anche solo pronunciato una parola in più non avrebbe risposto delle sue azioni. Aveva appena affrontato quasi completamente da sola un branco di Orchi: non sarebbe stato un nano laido e meschino a spaventarla!
«Non credo che sarà difficile riuscire a scoprire la parola che ci serve» rispose gelida, fulminando il consigliere con lo sguardo. «Sono stata io a salvare la vita al principe Thorin, e sono piuttosto sicura di riuscire a guadagnarmi in breve tempo la sua fiducia.»
Uren sogghignò impercettibilmente. Sembrava divertirsi alla sua rabbia, ed Elinor non riuscì a trattenersi.
«Al contrario di quello che sembrate pensare, sono in grado di assumermi questa responsabilità,» sbottò, rivolta al nano «e anche di più impegnative, se si renderà necessario!»
Eevar, rendendosi conto finalmente dello scontro visivo e verbale che stava avendo luogo tra sua figlia e il suo consigliere, aveva fatto rimbalzare per tutto il tempo lo sguardo dall’una all’altro, esterrefatto, finché le dure parole di Elinor non gli fecero capire che era ora di intervenire.
«Oh, via, via, Elinor!» esclamò con una risata bonaria. «Non dire così! Uren non intendeva certo dire che non sei in grado di assolvere questo compito! Non è vero, amico mio?»
«Certo che no, Eccellenza!» assicurò Uren, come se il solo pensiero lo indignasse. «Vostra figlia sa bene quanta… ammirazione io provi nei suoi confronti.»
Questo fu quello che disse. Quello che Elinor sentì, però, fu: “Vostra figlia sa bene di non avere scelta: o la perdita della sua libertà o la dannazione eterna della sua coscienza.”
Il disgusto prese il sopravvento su di lei, tanto che dovette distogliere lo sguardo da quello palesemente canzonatorio del nano per non perdere del tutto il controllo.
«Elinor è sicuramente molto stanca, Uren. Devi perdonarla» stava dicendo intanto suo padre in tono conciliante. Poi, rivolgendosi di nuovo a lei con un sorriso rassicurante, aggiunse: «Non preoccuparti, mia cara. Ho piena fiducia in te, e so che riuscirai ad assolvere il tuo compito in un batter d’occhio. Vedrai, sarai fuori da questa situazione prima di quanto tu immagini!»
«Non ne dubito, padre» mormorò Elinor, lasciandosi baciare sulla fronte. Staccando le labbra dalla sua pelle, Eevar la rimirò per un momento con sguardo commosso.
«Sono fiero di te, figlia mia.»
Elinor si sforzò di sorridere. Essersi guadagnata l’orgoglio di suo padre la rendeva molto felice, ma era una felicità intrisa di una leggera punta di amarezza. C’erano molte cose, nella sua vita, per le quali avrebbe desiderato che suo padre fosse orgoglioso di lei, e che la abbracciasse come stava facendo in quel momento. Moltissime. E l’aver scoperto il modo per ingannare un popolo che non le aveva dimostrato altro che amicizia, non era decisamente tra queste…
Il rumore delle porte della sala che si spalancavano li fece voltare, separandosi l’una dall’altro. Fu con un bizzarro guizzo del cuore che Elinor vide, fermo sulla soglia con espressione accigliata e le mani giunte davanti a sé, il principe Thorin.
«Eccellenza. Consigliere» salutò il nano, con un profondo inchino in direzione di suo padre e uno un po’ più rigido rivolto a Uren.
«Principe Thorin!» esclamò Eevar in tono cerimonioso, sciogliendosi dall’abbraccio di Elinor e ricambiando con un inchino che lo portò quasi a sfiorare il pavimento con il naso. «Ho saputo dell’increscioso incidente a nord della Montagna, ero così in ansia! Spero non siate ferito!»
«Vi ringrazio per la vostra sollecitudine, ma no: sto bene» rispose Thorin in tono cortese, cercando chiaramente di nascondere il suo fastidio per l’atteggiamento fin troppo ossequioso del governatore. Esitò un momento, il suo sguardo si soffermò su quello di Elinor. «E credo sia tutto merito di vostra figlia» mormorò muovendo appena le labbra.
Elinor, presa alla sprovvista, gli rivolse un piccolo sorriso imbarazzato. Non si aspettava di rivederlo così presto, dopo gli avvenimenti di quella mattina. E, sopra ogni altra cosa, non si aspettava che fosse lui per primo, e per giunta davanti ad altri, a fare riferimento a quello che era accaduto con gli Orchi.
Thorin indugiò ancora qualche secondo, i suoi occhi azzurri fissi in quelli della ragazza. Poi parve ricordarsi perché era lì. «Perdonatemi, Eccellenza» riprese, ritrovando il suo solito tono fermo e burbero, così simile a quello di suo padre e di suo nonno. «Sono venuto a dirvi che mio padre richiede la vostra presenza nella Sala del Consiglio. Al più presto.»
«Oh, certo… certo. Saremo da lui immediatamente» rispose subito il governatore. Dalla sua espressione confusa, era chiaro che non capiva bene che cosa stesse succedendo.
«Mio padre vuole discutere con voi riguardo ad un’eventuale accelerazione dei preparativi per il matrimonio e delle trattative con Thranduil» spiegò Thorin a suo beneficio. «Gli avvenimenti di questa mattina hanno reso evidente la necessità di misure di protezione preventive per Erebor.»
Un tuffo al cuore le mozzò per un attimo il respiro il respiro di Elinor. «No…» esalò senza riuscire a trattenersi, ringraziando subito dopo i Valar che nessuno l’avesse sentita. Non aveva valutato quell’eventualità. Significava che avrebbe dovuto raddoppiare, triplicare i suoi sforzi, mentre suo padre, dall’altra parte, avrebbe dovuto cercare di rallentare le trattative con BoscoVerde… Sentì un enorme peso opprimerle il petto, mentre guardava suo padre dirigersi verso la porta seguito a pochi passi di distanza da Uren.
«Concordo pienamente con la decisione di vostro padre, Thorin» stava dicendo Eevar. Elinor era più che sicura che in quel momento stesse pensando esattamente le stesse cose che pensava lei, e non poté non sentirsi ammirata per l’abilità con cui riusciva a nascondere la sua preoccupazione. «E voglio chiarire fin da subito che vi fornirò la mia piena collaborazione!»
«Non ne dubito» rispose Thorin, una punta di impazienza nella voce. «Vi sarei grato se riferiste a mio padre che vi raggiungerò a breve. Vorrei scambiare due parole con Elinor, prima di unirmi a voi.»
«Naturalmente, naturalmente! Elinor, cara, passerò a salutarti dopo che la riunione sarà conclusa. Vieni, Uren!»
Elinor non riuscì a fare altro che annuire con aria rassegnata, guardandoli allontanarsi fuori dalla sala. Fece appena in tempo a scorgere il sogghigno beffardo e lo sguardo malizioso che Uren le lanciò, prima di avvertire la presenza di Thorin vicino a sé.
Alzò lo sguardo su di lui. Il principe si era avvicinato di qualche passo e adesso la fissava di sottecchi con aria indecifrabile, le mani giunte dietro la schiena. Era in condizioni molto migliori di quando avevano fatto ritorno ad Erebor. Gli abiti stracciati e sporchi di sangue erano stati sostituiti con altri puliti, e dai lunghi capelli corvini, intrecciati sul davanti alla maniera nanica, era stata lavata via la polvere. Elinor non poté fare a meno di seguire con lo sguardo il percorso di una delle due sottili trecce, che dalla clavicola arrivava a sfiorare la pelle del petto, parzialmente scoperta dalla camicia leggera. Era abbastanza vicino perché la ragazza potesse sentire che l’odore di terra e sudore era stato sostituito da un leggero profumo di sapone.
Thorin si schiarì la voce, facendola sobbalzare impercettibilmente.
«Come vi sentite?» chiese il nano senza guardarla. Suonava molto come un goffo tentativo di iniziare la conversazione, ma ad Elinor parve di scorgervi all’interno una nota di genuina preoccupazione.
«Un po’ stordita, credo» rispose abbozzando un sorriso. «Ma, rispetto a come ho sempre immaginato i postumi di una battaglia contro quindici orchi … direi piuttosto bene.»
Scrutò ansiosamente il suo volto, sperando di sorprendervi l’ombra di un sorriso, ma Thorin non abbandonò nemmeno per un attimo la sua espressione seria. Ottimo. A quanto pareva, oltre che di gentilezza e di loquacità, la stirpe di Durin era gravemente carente anche di senso dell’umorismo …
«Me ne compiaccio» disse Thorin, leggermente sollevato (o, almeno, così Elinor interpretò l’impercettibile spianarsi della sua fronte). «Avete avuto modo di riposare un po’?»
«Non molto, ma spero di riuscirci prima di scendere per la cena.» Esitò un istante, poi azzardò: «E … voi come state?»
Thorin parve riflettere qualche secondo, prima di dare una risposta.
«Esausto» disse infine. «Ma immensamente felice di essere vivo.»
L’ultima parte della frase fu pronunciata alzando lo sguardo su di lei, con un’espressione talmente eloquente che per Elinor fu impossibile comprenderne il significato. Passarono altri secondi di pesante silenzio, lunghi istanti durante i quali quel muto legame che si era creato quando i loro occhi si erano incontrati, subito dopo lo scontro con gli orchi, trovò una nuova concretezza. Era come se tra di loro fosse teso un filo, un lungo filo fatto di parole non dette.
«Mi … dispiace non potervi dedicare più tempo, ma mio padre insiste perché sia presente alla riunione» disse il nano in tono di scusa. Elinor rimase piacevolmente sorpresa: non sembravano parole di circostanza sputate fuori di malavoglia, come la maggior parte delle volte che le si rivolgeva. Sembrava che fosse veramente dispiaciuto di non potersi trattenere di più. Questo al sconcertò a tal punto che, sul momento, fu incapace di trovare qualcosa di sensato da rispondere. Attese quindi, pazientemente, che Thorin continuasse il suo discorso; e infatti, dopo pochi secondi di esitazione, il principe riprese:
«Volevo solo dirvi che quello che avete fatto oggi è stato … sono rimasto molto colpito, e … desideravo che sapeste …»
Elinor non poté trattenere un sorriso. Non avrebbe mai immaginato che fosse così difficile, per un nano, esprimere a parole la propria gratitudine. Forse era il caso di venirgli incontro e alleviare un po’ la sua tortura …
«A nome del popolo di Erebor, ma soprattutto mio …»
«Non c’è di che, Thorin» lo interruppe gentilmente, prima che potesse aggiungere altro. Il nano la fissò per un momento, sconcertato; poi, poco a poco, la sua espressione cominciò ad addolcirsi, e anche lui cedette ad un debole sorriso.
«Dovete perdonarmi» disse. «L’orgoglio dei Nani è maledettamente duro a morire. A volte, anche più del necessario.»
Avrebbe dovuto sorridere più spesso, venne da pensare ad Elinor, osservandolo. Quando lo faceva, sembrava che da quei suoi occhi azzurri venissero spazzate via le nubi, ed era una sensazione estremamente piacevole.
«Credo di avere più volte passato il limite della sgarbatezza, negli ultimi giorni» continuò Thorin. «Forse è già troppo tardi per scusarmi, ma dopo quello che è successo oggi mi rendo finalmente conto che la mia rabbia è stata eccessiva. Non meritavate un simile trattamento da parte mia.»
Elinor scosse la testa. «Siete voi che dovete perdonare me» disse in tono pacato. «Non siete stato certo l’unico ad avere avuto un comportamento sgradevole, nei giorni scorsi.»
Thorin fece un passo verso di lei, fissandola negli occhi con determinazione. Elinor, imbarazzata per quell’improvviso accorciarsi della distanza tra di loro, sentì le guance imporporarsi. Era abbastanza vicino perché potesse sentire il suo respiro nervoso, e intravedere il sottile taglio rossastro che, dall’attaccatura del naso, gli scendeva fino allo zigomo sinistro.
«Qualunque cosa abbiate detto o fatto, non posso ignorare quello che è successo oggi» replicò il nano con fermezza. «Voi mi avete salvato la vita, Elinor, e ve ne sono infinitamente grato. Per questo vorrei che ogni dissapore tra di noi venisse messo da parte…» Si interruppe per un attimo, come se gli fosse appena sopravvenuta alla mente un’idea che finora non aveva considerato. «Sempre che anche voi lo vogliate, naturalmente» concluse, incerto.
Elinor si trattenne dallo scoppiare in una risata divertita: come se nei giorni appena trascorsi non avesse passato gran parte del suo tempo a cercare di convincerlo ad acconsentire ad una tregua!
«Speravo tanto che me lo chiedeste» si limitò a rispondere, sorridendo rassicurante. 
Non avrebbe mai pensato di poter vedere il sorriso di Thorin allargarsi ancora di più, e invece fu proprio quello che accadde. Il nano trasse un lungo respiro, come se la risposta di Elinor gli avesse tolto un gran peso.
«Vi ringrazio, Elinor.»
«Non dovete. Sono felice di fare la mia parte affinché questo … matrimonio vada a buon fine.»
Fu come se, mentre pronunciava queste parole, una mano le ghermisse lo stomaco e lo torcesse, stringendolo in una morsa. La ignorò con tutta la determinazione di cui era capace, come ormai aveva imparato a fare da diverso tempo.
Thorin, ora più rilassato ma ancora chiaramente a disagio, si lanciò un’occhiata nervosa e piena di disappunto dietro le spalle. «Perdonatemi, ma adesso devo proprio raggiungere mio padre e il vostro nella sala del Consiglio» disse in tono di scusa. «Spero ci vorrete fare l’onore di cenare con noi, stasera: verrano in visita i nostri parenti dai Colli Ferrosi, per … conoscervi, temo.»
Elinor scoppiò a ridere, sconcertata. «Temete
«Sì. Voglio dire … temo per voi» spiegò Thorin, con un sorriso imbarazzato. «Ecco, diciamo che … non sono esattamente il genere di compagnia che vorreste avere a tavola … né in qualunque altro momento della giornata, se è per questo.»
«Oh, andiamo, non saranno così tremendi!»
Thorin emise una bassa risata sarcastica. Elinor non si ricordava di averlo mai visto accennare nemmeno una vera risata in sua presenza, quindi immaginò che fosse un notevole passo avanti.
«Ho paura che vi ricrederete molto prima di quanto pensiate» le assicurò il nano. «Adesso scusatemi, ma devo proprio andare. Estenderò l’invito a cena a vostro padre, appena ne avrò l’occasione. Al vostro servizio.»
E così dicendo, accennò un rigido inchino, che Elinor fece appena in tempo a ricambiare con una leggera riverenza, prima di voltarle le spalle e allontanarsi a grandi passi.
«Al vostro …» mormorò la ragazza guardandolo scomparire oltre la porta. Rimase per diversi secondi immobile, fissando il punto in fondo al corridoio dove la figura di Thorin si rimpiccioliva sempre di più, mentre il carattere surreale dell’intera situazione le si dispiegava davanti agli occhi, chiaramente come non le era mai successo prima d’ora.
Stai fingendo un matrimonio per evitarne un altro.
Se non avesse provato una terribile vergogna per se stessa, probabilmente avrebbe riso fino alle lacrime.
Sospirò, riscuotendosi e rammentando ciò che Thorin le aveva appena detto. Era invitata a cena con quelli che si prospettavano essere i Nani meno piacevoli di tutta la Terra di Mezzo, e se voleva che il suo piano si mantenesse nella congiuntura più che favorevole in cui si trovava al momento, avrebbe dovuto fare del suo meglio perché la trovassero di loro gradimento.
C’era soltanto un problema: non aveva la più pallida idea da dove cominciare.
 
 
«Ahi!»
«Silenzio! Ho quasi finito.»
«Ma fa male!»
«Oh, per l’amor del cielo! Sbudelli un branco di orchi e poi fai tutte queste storie per due treccine!»
Il tono di Dìs era talmente sbrigativo e autorevole – talmente simile a quello di suo fratello – che Elinor non poté fare altro che stringere le labbra e sopportare in silenzio la fastidiosa sensazione che qualcuno le stesse sradicando dalla testa il cuoio capelluto.
D’altronde, aveva ben poco di cui lamentarsi: era stata lei stessa, nella prospettiva di dover incontrare una legione di scorbutici parenti dei Colli Ferrosi, a chiedere a Dìs di darle un aspetto il più possibile “nanesco”. La nana non se l’era fatto ripetere due volte: dopo anni passati insieme a due fratelli maschi, in mezzo a spade, cavalli e asce, non le sembrava vero di avere finalmente qualcuno da vestire e pettinare che non fosse una bambola di pezza. Aveva preso a cuore la richiesta della ragazza, e adesso, dopo essersi a sua volta preparata per la cena, si stava occupando con grande zelo della sua chioma bionda. Peccato che, sebbene le intenzioni di Dìs fossero mosse da autentica premura e solidarietà femminile, il suo tocco, di femminile, avesse ben poco…
«Così tuo padre e il vostro consigliere non verranno a cena?» le domandò curiosa, la punta della lingua che spuntava dalle labbra per la concentrazione.
«No» rispose Elinor, senza riuscire a nascondere una smorfia di dolore quando Dìs le tirò con poca grazia una ciocca di capelli. «Hanno non so quali faccende urgenti da sbrigare in città…»
«Sì, ne stavano discutendo mentre uscivano dalla Sala del Consiglio . Passavo di lì, e ho sentito quel vostro consigliere insistere con tuo padre che, in seguito all’attacco degli Orchi, l’incontro con le autorità cittadine di Esgaroth non poteva assolutamente essere rimandato.»
Dìs le aveva riportato quello che aveva sentito in tutta naturalezza, come se fosse la cosa più normale del mondo, ma Elinor non riuscì a non stringere gli occhi con aria sospettosa. Di solito Uren era untuoso e mellifluo con chi era molto più potente di lui, e non perdeva occasione per compiacere con prontezza i suoi desideri. Aveva fatto in modo che persino suo padre, un tempo un uomo austero e dignitoso, fosse influenzato da questo suo modo di fare. Quindi perché, questa volta, tutta quella fretta di rientrare a Esgaroth? Il consiglio della città avrebbe potuto benissimo aspettare fino alla mattina dopo. Senza contare che, se ben ricordava, anche Uren era originario dei Colli Ferrosi. Avrebbe dovuto essere felice di incontrare di nuovo la sua gente … Si ripromise di chiarire la questione non appena avesse rivisto suo padre.
«Comunque è un po’ strano, non è vero?» le stava chiedendo Dìs nel frattempo.
«Chi?»
«Uren! Il vostro consigliere!»
Elinor si concesse la soddisfazione di un piccolo ghigno compiaciuto. «Più che strano, lo definirei inquietante
«Non saprei come spiegarlo» continuò la nana, facendo lavorare velocemente le dita tra i capelli di Elinor «ma ha sempre l’aria di qualcuno che stia tramando qualcosa …»
La ragazza si sentì gelare e trattenne istintivamente il fiato. Per alcuni lunghissimi, interminabili istanti, le sembrò che il suo cuore avesse cessato di battere. Dìs taceva, come se stesse riflettendo su quello che aveva appena detto, ed Elinor la immaginò con sommo orrore mettere insieme, in qualche modo, i pezzi del puzzle e intuire quale fosse il loro piano. Cosa avrebbe dovuto fare, lei, a quel punto? Non aveva mai pensato ad un’eventualità del genere …
«Oh, perdonami, Elinor!» esclamò Dìs d’un tratto, ridendo di gusto con la sua voce bassa e un po’ maschile. «Sono veramente maligna a parlare così di quel poveretto! Come se tuo padre non avesse decantato migliaia di volta in presenza di tutti la sua saggezza, la sua fedeltà e il suo acume nel dare consigli!»
Elinor lasciò andare lentamente il fiato, il petto che le si allargava per il sollievo e le mani che tremavano appena sui braccioli della sedia.
«Sì, lui … è un po’ bizzarro, forse, ma … molto prezioso … per la nostra famiglia …» riuscì a balbettare, cercando di nascondere meglio che poteva il suo turbamento.
«E se posso permettermi di parlare in confidenza, visto che ormai siamo quasi cognate,» aggiunse Dìs in tono malizioso «si vede lontano un miglio che è innamorato di te.»
Elinor deglutì e abbassò lo sguardo. Dìs non aveva idea di aver centrato esattamente il punto della questione, quello de cui avevano avuto origine tutti i suoi problemi …
«Già, è … piuttosto evidente, non è vero?» disse sforzandosi di ridere, con voce più acuta di quanto avrebbe voluto. Dietro di sé, sentì la nana sbuffare divertita.
«Beh, mettiamola così, cara: se ti fissasse solo un po’ più intensamente di quello che fa di solito, con tutta probabilità ti ritroveresti nuda in mezzo alla stanza.»
Elinor sentì le guance e le orecchie prendere fuoco. Si era dimenticata che i Nani non avevano la stessa reticenza degli Uomini, nel parlare di argomenti di quel genere. Senza contare che l’immagine di se stessa nuda associata a quella di Uren (anche solo completamente vestito) la disgustava a tal punto che non riusciva nemmeno a trovare le parole adatte per rispondere.
«Se fossi in lui, comunque, comincerei a rivolgere a qualcun’altra sguardi di quel genere» continuò Dìs in tono pratico, senza attendere la sua replica. Sembrava non si fosse nemmeno accorta del suo imbarazzo. «I Nani sono una razza molto possessiva, e mio fratello … beh, hai già avuto modo di scoprire che tipo è. Non tollera che si metta gli occhi su ciò che è di sua proprietà.»
Un altro strattone a una ciocca di capelli, un altro grugnito di dolore. Forse un po’ più esagerato di quanto avrebbe voluto, ma Elinor sospettò che il fastidio non fosse dovuto solo al tocco poco delicato di Dìs: le parole della nana l’avevano oltremodo indispettita.
«Proprietà …» ripeté in tono leggermente ironico. «Non è una gran bella parola per descrivere i rapporti tra uomini e donne.»
«Può darsi. In ogni caso, a loro piace pensare di avere la totale esclusiva su di noi. Fa sviluppare loro la strana idea che, in tal modo, la loro virilità aumenti in modo ragguardevole. Capisci cosa intendo?»
Elinor, nonostante l’evidente, abissale diversità di vedute, non riuscì a trattenere un sorriso. «Sì, capisco.»
Fuori da Erebor, le cose non andavano poi molto diversamente. Forse, i Nani erano solo più collerici e meno abili degli Uomini a contenere la loro possessività. Cercò per un momento di immaginarsi Thorin geloso di lei, i suoi occhi azzurri che si stringevano fino a ridursi a due fessure e i grossi pugni che si contraevano, questa volta non per rabbia nei suoi confronti, ma perché qualcuno la guardava e la toccava senza il suo consenso. Una sensazione inaspettatamente piacevole, la sensazione della vanità mai lusingata da nessuna gelosia maschile, la colse alla sprovvista rimescolandole lo stomaco. Fu, però, subito messa in secondo piano dell’ennesimo piccolo, fastidioso strattone al cuoio capelluto, nonché dalle parole divertite di Dìs: «In ogni modo, davanti agli altri si comportano tanto da duri, ma se hai polso e sei abbastanza astuta, una volta che li hai in pugno sei in grado di rivoltarli come più ti piace.» Scoppiò in una sonora risata che le fece sobbalzare su e giù il seno prosperoso: «Sono così teneri, quando credono di avere tutta la situazione sotto controllo, mentre invece sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico! … Ho finito, cara. Puoi alzarti.»
Elinor, le ginocchia leggermente indolenzite per essere rimasta seduta troppo a lungo, si levò in piedi e prese lo specchio tondo che la nana le porgeva. Per un attimo faticò a riconoscersi nell’immagine riflessa, tanto era diversa da quella della Elinor di sempre. 
Dìs aveva fatto un lavoro stupefacente: i suoi ondulati capelli biondi, sebbene lasciati per la maggior parte al naturale, erano intrecciati sulla sommità del capo in tante piccole, fitte treccine; in mezzo ad esse ne spiccava una più grossa delle altre, che le cingeva la parte superiore della testa come una corona, e altre due trecce più spesse le scendevano da dietro alle orecchie giù fino a sfiorarle i seni. Questi, come il resto delle curve del suo corpo, erano messi bene in risalto dall’abito di foggia nanica, blu scuro con fregi dorati, che Dìs le aveva prestato, molto più attillato, fluente e vistoso di quelli in stile elfico che la ragazza era abituata a portare. Dalle orecchie le pendevano due grossi dischi dorati, ognuno dei quali pesava abbastanza da farle temere che i lobi le si staccassero da un momento all’altro. Un vago imbarazzo per quell’abbigliamento così estraneo al suo modo di vestire, mescolato ad un’appagante sensazione di compiacimento, le imporporò le guance.
«Beh …» balbettò, sorridendo. «Fa uno strano effetto, ma … decisamente piacevole, devo ammetterlo.»
Dìs la fissò con un largo sorriso stampato sul faccione cordiale, compiaciuta e quasi commossa dal risultato del suo lavoro.
«Cara, credo proprio che stasera tu abbia decisamente il coltello dalla parte del manico» disse dopo alcuni istanti di soddisfatto silenzio. «E se quel burbero cocciuto di mio fratello non cadrà immediatamente ai tuoi piedi sciogliendosi come una zolletta di zucchero, non sarà più degno di posare gli occhi su un altro essere di sesso femminile per il resto della sua vita.»
Elinor scoppiò in una risatina nervosa, l’imbarazzo che cresceva ogni secondo di più.
«Credo che sia meglio scendere, Dìs» osservò. «Si sta facendo un po’ tardi.»
La nana si disse d’accordo con lei, e dopo essersi agganciata intorno al collo una preziosa collana di gemme provenienti dalle miniere di Erebor, donatale dal marito per il loro matrimonio, la seguì fuori dalla stanza e giù per la scalinata che conduceva ai piani inferiori.
«Non fare caso se le nostre cugine non ti dimostreranno troppa simpatia» la avvertì Dìs con discrezione, mentre percorrevano il complicato tragitto di corridoi che Elinor aveva imparato a conoscere quasi alla perfezione. «Prima che nostro padre pensasse seriamente all’accordo con tuo padre e con gli Elfi, erano loro ad ambire alla mano di Thorin, e non hanno preso molto bene questo improvviso … cambio di rotta.»
«Oh ... Capisco.»
Elinor represse a fatica un sorriso amareggiato: forse queste famose cugine sarebbero state felici di sapere che, in realtà, Thorin non era promesso proprio a nessuna, e che molto presto (almeno, lei sperava che fosse molto presto) avrebbero potuto ricominciare la loro opera di persuasione nei confronti dell’erede al trono …
Quando giunsero davanti alle porte della Sala dei Banchetti, le guardie le spalancarono per loro, e subito furono investite da un forte odore di arrosto, birra e vino, mescolato ad un gioviale chiacchiericcio e a sporadiche esplosioni di risate.
Ad Elinor bastò un’occhiata per rendersi conto che i nani nella sala erano molto meno numerosi di quelli presenti al banchetto di benvenuto organizzato in suo onore. Alla tavola più vicina a quella della famiglia reale scorse Balin, che le rivolse un affettuoso sorriso e una strizzata d’occhio, e Dwalin, che la fissò per qualche secondo con aria indecifrabile prima di venire distratto dal passaggio di Rolgha.
«Come mai stasera la sala è così vuota?» bisbigliò all’orecchio di Dìs, grata che la musica sovrastasse le sue parole.
«Perché mio zio Nàin e il mio prozio Gròr, suo padre, sono due vecchi bisonti scorbutici che detestano avere intorno a sé più gente del necessario» rispose Dìs, rivolgendo affabili sorrisi a destra e a manca in risposta ai saluti che le venivano rivolti avanzando lungo la sala. «E se finora ti è parso che mio padre e mio nonno fossero burberi e poco loquaci, farai bene a ricrederti presto.»
Elinor, trattenendo a stento la risatina che le stava affiorando alle labbra, sbirciò verso la tavola reale e individuò subito due nani tarchiati, uno dai capelli grigio ferro con in testa una corona d’oro massiccio e l’altro dalla chioma scura, che dovevano essere proprio i soggetti a cui si riferiva Dìs. In effetti, dovette ammettere, la loro espressione non era delle più incoraggianti… Subito dopo scorse anche re Thròr, già seduto al centro della tavola, che osservava con bramosa attenzione una posata d’argento rigirandosela fra le dita, e sembrava accorgersi a malapena di dove si trovasse. 
«Ah, eccole qui, finalmente!» esclamò Thràin con voce gioviale e tonante rivolto nella loro direzione, facendo voltare anche chi ancora non si era accorto della loro presenza. Elinor vide Thorin, in piedi accanto al padre, alzare distrattamente lo sguardo dal boccale di birra che aveva appena portato alle labbra e bloccarsi con il braccio a mezz’aria. Le sue sopracciglia scure ebbero un guizzo, e per un attimo i suoi occhi parvero raddoppiare, mentre la osservava attonito venire avanti lungo i tavoli. La ragazza ebbe la sgradevole consapevolezza che le sue guance stavano assumendo un vivace color rosa acceso, e sostenne il suo sguardo finché l’imbarazzo glielo permise.
«Zio… cugini … cugine» annunciò Thràin in tono orgoglioso, mentre Elinor e Dìs giungevano presso la tavola «voglio presentarvi Elinor, mia futura nuora e figlia del governatore Eevar di Dale. Elinor, questo è Gròr, fratello di Sua Maestà e re dei Colli Ferrosi.»
Elinor sfoderò il sorriso più dolce che riuscì a trovare e si piegò in una leggera riverenza, come Dìs le aveva insegnato quel pomeriggio. «Vostra Maestà…»
Con suo grande disappunto, Gròr si limitò a ricambiare il saluto con un rigido cenno del capo. «Beh, per essere per metà donna, è decisamente meglio di quello che mi aspettassi» disse il nano sporgendosi verso l’orecchio di Thràin, senza curarsi di parlare piano e facendo come se Elinor non fosse presente. La ragazza sentì immediatamente un moto di rabbia salirle alla testa, e ma si ricordò quello che Dìs le aveva detto riguardo all’invidia che sicuramente avrebbe suscitato nei loro parenti e si sforzò di restare impassibile e mantenere il sorriso inalterato. Thràin, che aveva fulminato lo zio con un’occhiata di avvertimento, andò avanti con le presentazioni: «E questi sono i miei cugini: Nàin e sua moglie Helga, i loro figli Dàin e Dròr, e le loro figlie Audhilde Birgit.»
Elinor si inchinò con grazia al nano dai capelli scuri, che la salutò né più né meno come aveva fatto suo padre, e alla nana che gli stava al fianco, molto in carne e dai lineamenti nobili e fieri (coperti però quasi interamente da una barba folta quasi quanto quella del marito), la quale la fissò con la stessa aria di superiorità con cui avrebbe guardato una servetta venuta a riempirle il bicchiere. Le sue labbra sottili furono increspate solo da un sorriso che somigliava più alla smorfia di chi ha appena inghiottito un limone, e che Elinor ricambiò con deferenza prima di rivolgere la sua attenzione ai figli maschi della coppia, due nani poco più giovani di Thorin.
«Dàin…»
«… e Dròr. Al vostro servizio, mia lady.»
Si inchinarono facendo quasi toccare terra alle loro barbe (una rossiccia e una castano scuro) e le rivolsero un sorriso abbastanza cordiale. Non altrettanto accomodante fu invece l’accoglienza delle loro sorelle, che a occhio e croce dovevano avere l’età di Elinor, e che le si avvicinarono con l’espressione di chi avrebbe di gran lunga preferito trovarsi in tutt’altro posto.
«Elinor» disse la più alta delle due, concedendole un sorriso che non coinvolse gli occhi. «Finalmente ci incontriamo.»
«Eravamo oltremodo… curiose di fare la vostra conoscenza» aggiunse l’altra, senza riuscire a trattenersi dallo squadrarla da capo a piedi.
«Vi assicuro che la curiosità era reciproca» rispose Elinor chinando il capo in un rispettoso cenno di saluto e ignorando il suo sguardo di sufficienza. «Thorin e Dìs mi hanno molto parlato di voi.»
«Oh, davvero? Molto bene, voglio sperare!»
«Come sempre, cugina.»
Le tre ragazze si voltarono. Thorin, posato il boccale di birra, le aveva raggiunte, e adesso, con le mani giunte dietro la schiena, fissava Elinor con un leggero sorriso e un sopracciglio impercettibilmente sollevato in un’inequivocabile espressione d’intesa. La ragazza, che ricordava fin troppo bene i suoi avvertimenti di quel pomeriggio riguardo al carattere poco piacevole dei suoi parenti, fece del suo meglio per non scoppiare a ridere.
«Thorin…»
Lo salutò con una piccola riverenza, ricambiando il sorriso. Rimasero a guardarsi in silenzio per qualche secondo, ed Elinor non poté fare a meno di notare quanto gli donassero la camicia blu e il gilet di cuoio scuro che indossava quella sera.
«Elinor…» disse Thorin inchinandosi brevemente. Alla ragazza non sfuggì la rapida occhiata che rivolse alla sua figura. Non ne fu infastidita come era successo un momento prima con Birgit: era estremamente chiaro che il nano aveva apprezzato quello che aveva visto, ed era altrettanto chiaro che era lui il primo ad esserne imbarazzato.
«Siete … diversa, stasera.»
Diversa. DIVERSA. Nel nome di Eru, qualcuno deve assolutamente insegnargli come si fa un complimento ad una ragazza!
Elinor sorrise, lusingata. «Vi ho detto che avrei fatto del mio meglio per imparare le usanze dei Nani.»
Gli occhi di Thorin parvero illuminarsi.
«Comunque, è tutto merito di vostra sorella. Mi ha aiutata lei a prepararmi.»
Dìs, che a circa un metro di distanza da lì tentava di origliare la loro conversazione, vedendo l’attenzione del fratello spostarsi su di lei, esibì il sorrisetto imbarazzato di chi è stato colto sul fatto e si dileguò all’istante in cerca di un bicchiere di vino. Thorin, dopo aver lanciato un’occhiata inceneritrice in direzione della sua schiena, tornò a rivolgersi ad Elinor.
«Siete molto … molto …» deglutì e sbatté le palpebre, in cerca di parole che non arrivavano «Dìs ha fatto un buon lavoro, ecco.»
«Vi ringrazio» rispose Elinor, capendo che, per il momento, avrebbe dovuto accontentarsi di questo.
«Vogliamo sederci?»
«Con piacere.»
Si sedettero l’uno davanti all’altra, mentre anche il resto della famiglia prendeva posto e gli invitati iniziavano ad essere serviti con le prime portate.
La prima parte della cena fu piuttosto tranquilla, sicuramente molto migliore di quanto Elinor si sarebbe aspettata da come Thorin e Dìs le avevano descritto la famiglia di Gròr. I nani dei Colli Ferrosi, a parte rivolgerle a malapena la parola (cosa che ad Elinor andava benissimo) ed interloquire con aria di arroganza e superiorità, non si dimostrarono particolarmente sgradevoli, e si limitarono a conversare di argomenti innocui con Thràin e Thròr. Quest’ultimo, da parte sua, quando riusciva a prestare loro abbastanza attenzione da rispondere, lo faceva con grugniti infastiditi e monosillabi svogliati. Era abbastanza chiaro che tra lui e suo fratello non ci fosse grande affetto: questa totale mancanza di empatia si concretizzava nell’aria pesante che si respirava a tavola, e che soltanto Dìs, ogni tanto, tentava di alleggerire con qualche battuta.
Fu inevitabile, comunque, che prima o poi la conversazione cadesse sull’argomento più importante di quella giornata appena trascorsa…
«Ho sentito che questa mattina avete avuto uno spiacevole inconveniente con degli orchi, Tràin» osservò Gròr, staccando un pezzo di carne dalla coscia di montone che aveva fra i denti. «Ai Colli Ferrosi sono giunte delle notizie, ma scarse e tutte molto confuse…»
«Oh, una brutta faccenda, zio» rispose Thràin in tono amaro, scuotendo la testa. «Davvero una gran brutta faccenda. Per fortuna Thorin ed Elinor sono stati pronti a reagire, altrimenti a quest’ora staremmo festeggiando il loro funerale, invece che il loro fidanzamento.»
Thorin prese la parola per raccontare brevemente l’accaduto, e quando giunse alla parte in cui Elinor gli salvava la vita alzò lo sguardo dal suo piatto per incontrare quello della ragazza.
«Non sarei qui, adesso, se non fosse stato per lei» concluse a mezza voce, come se nella sala ci fossero solo loro due, fissandola così intensamente da farle abbassare gli occhi per l’imbarazzo.
In torno a loro calò un silenzio attonito. Elinor rialzò lo sguardo, e si accorse che i parenti la stavano tutti fissando con un’espressione a metà tra lo stupito, lo scandalizzato e il divertito. Non che si aspettasse applausi e dimostrazioni di ammirazione, tantomeno da parte loro, ma di sicuro non era preparata ad una reazione del genere. Helga sembrò essere la prima a riscuotersi.
«Una donna che si dedica alle armi…» constatò in tono sorpreso e velato di tagliente ironia, mentre tagliava la carne con fare noncurante. «Non ne avevo mai incontrata una. A Dale hanno davvero un modo bizzarro di educare le ragazzine.»
Elinor avvertì un vago sentore di irritazione alla bocca dello stomaco, ma Dìs, incrociando il suo sguardo, le fece segno di non farci caso e lasciar perdere.
«Veramente» replicò nel tono più gentile e affabile che riuscì a trovare «non è a Esgaroth che ho imparato a usare l’arco, ma a BoscoVerde.»
La nana piegò le labbra in un sorriso affettato. «Capisco» disse alzando lo sguardo dal piatto e fissandola con fare canzonatorio. «Vostro padre sarà molto felice di questa vostra … predisposizione, immagino.»
Elinor rimase impassibile, anzi, se possibile allargò ancora di più il sorriso. «Dopo stamattina lo è decisamente diventato» si limitò a rispondere, sostenendo il suo sguardo.
Capì subito di aver segnato un importante punto a suo favore, perché il sorriso di Helga s’incrinò visibilmente, e la nana tornò a dedicarsi al suo piatto.
«Quindi, Thorin» intervenne Dàin in tono divertito «in conclusione ti sei fatto salvare la pelle da una ragazza
Thorin si voltò lentamente verso di lui, con l’aria di chi sta disperatamente cercando di mantenere la calma. «Pare che sia così» rispose con la voce vibrante di irritazione repressa.
Dàin scoppiò in una sguaiata risata, la bocca ancora mezza piena di cibo. «Allora ti ha già in pugno, cugino! Scordati di sgarrare anche solo di un capello, nel vostro matrimonio: sarà sempre pronta a rinfacciarti di quando ti ha salvato la vita da un branco di orchi! Ti terrà decisamente per le…»
«Grazie, Dàin» lo interruppe Thràin gelidamente. «Abbiamo capito il concetto.»
Elinor abbozzò un sorriso imbarazzato, ma si accorse che quasi nessun altro, a parte lei, stava facendo lo stesso. Audhild e Birgit, che si erano fatte sfuggire alcuni risolini dietro la mano, furono subito ridotte al silenzio da un’occhiata fulminante della loro madre. Dìs aveva roteato gli occhi verso l’alto, nauseata, e Thràin e Thròr fissavano Dàin con aria tutt’altro che divertita. Il disappunto più evidente, però, era quello di Thorin: il nano aveva contratto la mascella ed era diventato grigio, poi bianco come un lenzuolo, poi rosso acceso. Sembrò che stesse per rispondere al cugino per le rime, e invece, con grande sorpresa di Elinor, non disse nulla, limitandosi a sfogare la rabbia strizzando il tovagliolo nella mano sinistra finché le nocche quasi non gli schizzarono via dalle mani. Ma non fu il suo strano sforzo di autocontrollo che preoccupò Elinor, quanto l’effetto che quella battuta infelice avrebbe potuto produrre nella sua mente. Dàin era chiaramente un idiota la cui opinione valeva quanto lo sputo di un goblin, ma Elinor temeva che quella considerazione avrebbe potuto risvegliare, seppur inconsciamente, l’avversione per il matrimonio di cui Thorin non aveva mai fatto mistero, e quindi anche l’ostilità nei suoi confronti. Era vero che quello che era successo con gli Orchi quella mattina aveva migliorato notevolmente il loro rapporto, ma ancora era ben lontana dall’aver conquistato pienamente la sua fiducia. E l’ultima cosa che le serviva per la buona riuscita del suo piano, era che i progressi che aveva faticosamente ottenuto fossero annullati dalla battuta infelice di uno stupido.
Per fortuna (e non avrebbe mai creduto di poterlo pensare), proprio in quel momento Birgit prese la parola per cambiare argomento, evitando così a tutti di soffermarsi troppo con la mente su quello che era appena successo.
«Elinor» le si rivolse la giovane nana in tono affettato «immagino che, oltre a tirare con l’arco, tu sappia anche ricamare molto bene. Mi piacerebbe vedere qualcuno dei tuoi lavori, una volta o l’altra. E noi, magari, possiamo mostrarti i nostri…»
Se Birgit si aspettava una risposta immediata, e soprattutto entusiasta, rimase enormemente delusa. Elinor, che si stava portando alle labbra una coppa di vino, interruppe il gesto a metà, completamente colta alla sprovvista. Volse lo sguardo intorno a sé, rendendosi conto con orrore che gli sguardi di tutti erano puntati su di lei, in attesa della sua risposta.
«Veramente» iniziò imbarazzata «non ho mai imparato a ricamare molto bene…»
Aveva la precisa sensazione che non fosse esattamente la risposta giusta da dare, e infatti i suoi sospetti furono confermati. Gli occhi di Birgit e quelli della sorella diventarono grandi come piattini, e la fissarono come se avesse appena dichiarato di essere un Ent travestito da donna.
«P…prego?» chiese Audhild, come sperando di aver capito male.
«Hanno provato ad insegnarmi, ovviamente» riprese Elinor in fretta. «Ma non sono mai stata molto portata. Beh, diciamo che … non mi piaceva granché, ecco. Quando arrivava la mia maestra di ricamo, trovavo sempre il modo di sparire e nascondermi da qualche parte. Le sculacciate che mi sono toccate per questo!»
Concluse la spiegazione con una risatina nervosa e forzata, sperando di buttarla sul comico, ma come c’era da aspettarsi non ottenne l’effetto sperato: i volti dei Nani dei Colli Ferrosi avevano espressioni che spaziavano dall’attonito alla disapprovazione più assoluta.
«Ma … quindi …» domandò confusa Audhild, che evidentemente non riusciva a concepire l’assenza dell’attività del ricamo nella vita di una persona di sesso femminile «chi ha cucito il tuo corredo di nozze?»
«Non … non ho un corredo di nozze» rispose Elinor disorientata. E come poteva averlo, se quel fidanzamento era tutta una farsa? «Voglio dire, ho quello di mia madre. E’ ancora in perfette condizioni, e a lei, beh … non serve più, purtroppo. Immagino che possa andare bene lo stesso … no?»
Le ci volle un attimo per capire che aveva detto la seconda cosa sbagliata nel giro di due minuti scarsi. Si guardò intorno in cerca di approvazione, ma tutti rimasero impassibili. Solo Dìs cercava di soffocare disperatamente una risata nel boccale di birra che aveva davanti, mentre Thorin accennava un piccolo sogghigno divertito sotto i baffi.
Passarono diversi minuti prima che qualcuno prendesse di nuovo al parola, ma alla fine fu il vecchio Gròr a spezzare il pesante silenzio che si era formato.
«Thràin devo ammettere che la scelta della futura sposa per tuo figlio è oltremodo … interessante» osservò il re dei Colli Ferrosi in tono leggero, tagliando la sua carne. Doveva probabilmente suonare come un’affermazione innocente e del tutto priva di sottintesi, ma Elinor capì senza troppa difficoltà che si trattava di una critica nei suoi confronti. Anche Thràin dovette capirlo benissimo, perché rispose con un grugnito indecifrabile (subito soffocato da una sorsata di vino) che avrebbe dovuto scoraggiare un proseguimento della conversazione. Gròr, però, sembrava deciso ad andare fino in fondo, perché, ignorando il suo palese tentativo di lasciar cadere il discorso, continuò: «Mi sorprende soprattutto la scelta di mescolare il sangue nanico con il sangue umano. Sai come la penso al riguardo, ma … sono sicuro che avrete avuto le vostre buone ragioni.»
Il moto di rabbia nello stomaco di Elinor si fece più acuto, e la ragazza strinse spasmodicamente la seta della veste all’altezza del ginocchio, pregando a denti stretti di non perdere la pazienza. Non riusciva a credere che stessero continuando a parlare in quel modo mentre lei era lì, presente e in grado di sentire tutto quello che dicevano! Evidentemente avevano una così bassa considerazione di lei, da ritenere la sua presenza trascurabile, e il rispetto nei suoi confronti una pura perdita di tempo …
«Il nostro seme è forte, zio, lo sai bene» stava cercando di difendersi intanto Thràin. «Elinor e suo padre differiscono dal nostro popolo solo per pochi tratti somatici, e godono del beneficio della lunga vita esattamente come noi. E, in ogni caso, è risaputo che il sangue puro si indebolisca con il passare delle generazioni. I loro discendenti saranno molto più forti di quanto lo siamo noi adesso.»
Gròr smise di tagliare la carne e levò sul nipote uno sguardo glaciale. «Mi sfugge come del sangue annacquato possa diventare più forte» disse, la voce carica di freddo sarcasmo. «Comunque, la scelta è vostra, e non ho intenzione di immischiarmi ulteriormente. E’ l’altro aspetto della questione, piuttosto, a preoccuparmi.»
«A cosa ti riferisci?» domandò Thràin in tono polemico.
«A questo folle tentativo di alleanza con gli Elfi, ecco a cosa mi riferisco. Se vuoi la mia opinione, è soltanto un’enorme perdita di tempo.»
Elinor chiuse gli occhi per qualche secondo, sentendo la soglia di sopportazione crollare poco a poco, e si chiese quanto ci avrebbe messo a intervenire in toni poco gentili. Sapeva di non doverlo fare: avrebbe dato loro la soddisfazione di vederla perdere la calma, e in ogni caso perché avrebbe dovuto prenderla tanto sul personale? La sua presenza lì era solo funzionale alla riuscita del piano, non avrebbe mai sposato veramente Thorin, non sarebbero mai diventati i suoi parenti … Eppure sentiva che, se la conversazione fosse proseguita su quei toni, non avrebbe risposto delle sue parole.
«Perdita di tempo?» intervenne in quel momento Thorin, freddo. «Abbiamo bisogno di alleati, non possiamo permetterci di rimanere isolati per sempre. L’attacco degli Orchi di questa mattina lo dimostra chiaramente, direi.»
Nàin, qualche posto più in là, scoppiò in una sprezzante risata. «Bisogno? Ogni guerriero nano vale cinque volte un guerriero elfo! Perlomeno … ogni guerriero nano dei Colli Ferrosi. Noi non lasciamo che siano le nostre donne a salvarci la pelle, sai» concluse con un sorrisetto canzonatorio. Thorin, che era diventato rosso per l’ira e stava per scagliarglisi contro (probabilmente non solo a parole), fu bloccato in tempo dal padre, che gli mise una mano sul braccio e gi fece cenno di restare seduto. Fu un’altra voce, però, a levarsi in suo appoggio con un ringhio.
«Attento a come parli … ragazzo.»
Tutti si voltarono all’istante. Re Thròr, che fino a quel momento era sembrato presente solo fisicamente alla loro tavola, stava fissando il giovane nano con gli occhi scuri stretti minacciosamente sotto le cespugliose sopracciglia grigie. Naàin sembrò perdere improvvisamente l’uso della parola, ma ci pensò suo padre, forte della corona che aveva in testa e della sua condizione di fratello di Thròr, a continuare in vece sua.
«Dovreste rifiutarvi persino di condividere la stessa aria con gli Elfi» affermò nello stesso tono sprezzante del figlio. «Figuriamoci farci alleanze! Se proprio lo volete sapere, questo, per me, significa mancanza di spina dorsale!»
Fu in quel preciso momento che la rabbia di Elinor ruppe gli argini e dilagò. Le sue labbra e la sua lingue si mossero da sole, prima che chiunque altro potesse dire qualcosa, e la ragazza si ritrovò a sputare fuori tutto quello che le ribolliva nella testa senza più freni inibitori.
«Mancanza di spina dorsale?» scattò con voce vibrante di rabbia. «Con tutto il rispetto, Maestà, ma mi sembra che questo sia tutt’altro che mancanza di spina dorsale! Re Thròr, il principe Thràin e il principe Thorin hanno deciso di compiere il notevole sforzo di superare le divisioni tra razze e cercare un’intesa con gli Elfi, rifiutandosi di rimanere arroccati su prese di posizione e sterili pregiudizi! Per come la vedo io, non sono certo loro a mancare di spina dorsale!»
Il silenzio che seguì il suo sfogo fu talmente denso, lungo e pesante, che Elinor non ricordava di avere mai assistito a niente del genere prima d’ora. Si lasciò cadere all’indietro sullo schienale della sedia, lasciando andare il fiato e fissando con aria di sfida re Gròr, il quale, da parte sua, la guardava con un’espressione livida a metà tra l’indignato e il disgustato. Elinor era consapevole degli sguardi di tutti gli altri su di lei: di quelli sbalorditi di Dàin, Dròr e Nàin, di quelli scandalizzati di Helga, Birgit e Audhild, di quelli attoniti della famiglia reale di Erebor e di tutto il resto dei nani presenti nella sala. Persino l’orchestra aveva smesso di suonare, sconcertata dal suono della sua voce che, via via, si era fatto sempre più alto. D’improvviso, come tornando in sé da un raptus, avvertì l’impellente bisogno di alzarsi e scappare via dalla sala, ma capiva che, se l’avesse fatto, Gròr e tutto ‘esercito dei suoi arroganti figli e nipoti avrebbero vinto. E lei non poteva permetterlo.
Poi, finalmente, nel silenzio si levò la voce burbera e un po’ divertita di Thròr.
«Allora!» tuonò. «Credo che sia arrivato il momento di servire il dolce!»
Alle sue parole, la sala sembrò riprendere vita: i nani agli altri tavoli ricominciarono a parlare tra sé (anche se a voce molto bassa e lanciando di tanto in tanto occhiate alla tavola reale), l’orchestra riprese a suonare e i servitori ad andare su e giù con piatti e vassoi. Elinor cercò di dedicarsi alla gelatina di more che le era stata appena messa davanti, ma la mano che reggeva il cucchiaino non voleva saperne di smettere di tremare. Dovette respirare profondamente per un paio di secondi, prima di riprendere il controllo di sé.
“Che cosa diamine mi è preso?”
Solo ora si rendeva conto di quanto si fosse spinta oltre. Non era pentita di quello che aveva detto, quei boriosi arroganti non si meritavano niente di meno, e non era certo la loro opinione a preoccuparla. Temeva solo di aver compromesso in qualche modo i rapporti tra le due famiglie, benché fosse chiaro che, anche prima delle sue parole, essi non godessero propriamente di buona salute …
Alzò lo sguardo dal piatto. Thorin, davanti a lei, non aveva neppure toccato la sua gelatina, e la fissava in silenzio con aria indecifrabile, le sopracciglia scure leggermente corrugate e le labbra appena dischiuse. Se si fosse di nuovo infuriato con lei, questa volta non avrebbe avuto speranze di riconquistare la sua fiducia: sarebbe stato molto più semplice darsi per vinta e rassegnarsi a sposare Uren …
«Che abbiano inizio le danze!» esclamò Thràin in quel momento, battendo le mani, e l’intenso scambio di sguardi che si era instaurato tra Elinor e Thorin fu bruscamente interrotto.
Come in occasione del banchetto di benvenuto, le tavole e le panche che si trovavano in mezzo alla sala (questa volta decisamente meno numerose) furono addossate al muro, e l’orchestra iniziò a suonare motivi decisamente più ballabili, mentre i presenti si accalcavano intorno alla pista per osservare le coppie che danzavano.
«Ben fatto, cara!» le bisbigliò Dìs con una strizzata d’occhio, passandole accanto per trascinare suo marito nella pista. «Non avrei saputo dire di meglio!»
«Grazie» rispose Elinor con un debole sorriso, guardandola sparire tra la gente. Provò ad allungare il collo in cerca di Thorin, ma le operazioni di sgombro della sala e l’accalcarsi della gente li avevano fatti perdere di vista. Proprio in quel momento, mentre cercava di alzarsi sulle punte dei piedi per sbirciare dietro le schiene di un gruppo di nani, sentì una mano gentile posarsi sul suo braccio. Si voltò: Balin era accanto a lei, un sorriso bonario sulle labbra e uno sguardo affettuoso negli occhi.
«Il mio ruolo, la mia età e il mio buonsenso mi imporrebbero di rimproverarvi, ma sarei un ipocrita se lo facessi» le disse il nano. «E dire che, dopo stamattina, ero preoccupato per la vostra salute e il vostro morale … Vedo che vi siete ripresa più che bene!»
Elinor rise stancamente e scosse la testa. «Ho fatto una sciocchezza, invece. Non avrei dovuto perdere il controllo in quel modo.»
Balin si strinse nelle spalle. «Se la conversazione fosse andata avanti ancora per molto, probabilmente sarebbe stato Thorin a perdere la pazienza, e non sono sicuro che sarebbe finita molto meglio di così.»
Un incerto sorriso si fece strada sul volto di Elinor. «Come sempre, siete troppo gentile con me, Balin.»
Il nano agitò una mano, ridendo. «Non dite sciocchezze! Piuttosto, ho sentito della vostra riconciliazione con Thorin di questo pomeriggio. Sono immensamente felice per voi.»
«Vi ringrazio.»
Si accorse di riuscire a malapena a respirare. Il caldo, la confusione e il nervosismo andavano a formare una miscela decisamente poco gradevole. Sentiva che, se non fosse uscita fuori almeno per qualche minuto, avrebbe seriamente rischiato di svenire.
Scambiò ancora qualche parola con Balin, e poi, dopo aver gentilmente declinato la sua proposta di ballare dicendo di avere bisogno di una boccata d’aria, cercò di farsi largo in mezzo alla gente per guadagnare l’uscita.
«Impudente, irrispettosa, e per di più senza un filo di barba!»
«E non sa nemmeno come si usano ago e filo! Vorrei proprio sapere come pretende di poter essere una buona moglie se non sa nemmeno comportarsi come una donna che si rispetti!»
Le parole, condite da risatine sprezzanti , arrivarono alle orecchie di Elinor mescolate alla musica, alle risate e ai battimani, ma chiare e inequivocabili. Si voltò, e alla sua sinistra scorse Audhild e Birgit parlottare tra sé. Quando si accorsero che le stava guardando e che le aveva sentite, le rivolsero un falso sorriso affettato, che Elinor ricambiò con uno sguardo gelido, prima di sorpassarle senza tanti complimenti e uscire dalla grossa porta di quercia.
Cominciò a sentirsi un po’ meglio già quando, a metà del corridoio, la musica e la confusione iniziarono a scemare, ma sapeva perfettamente che, finché non avesse raggiunto la pace dei Giardini Interni, non sarebbe riuscita a calmarsi e riprendersi del tutto. Perlomeno, adesso riusciva a respirare in modo normale. Si godette la piacevole sensazione dell’aria che andava a gonfiarle i polmoni, mentre, per l’ennesima volta, la sua parte debole le chiedeva se tutto quello che stava subendo – la tensione continua, il rischio di morire o di venire scoperta, il vedersi insultata apertamente, il senso di colpa lancinante – fossero davvero il giusto prezzo per la sua libertà.
Non essere ridicola. La tua libertà vale questo e anche di più.
Fu felice di vedere che ormai, aveva quasi raggiunto il corridoio laterale che conduceva alla porta dei Giardini Interni. Già pregustava la quiete, l’aria dolce di primavera e il bellissimo panorama che avrebbe trovato fuori. Era sicura che l’avrebbero aiutata a scacciare tutti i suoi spiacevoli pensieri e tutto il cattivo umore accumulato durante la cena …
«Elinor! Aspettate!»
Si immobilizzò nel punto in cui si trovava, lo stomaco che, d’istinto, compiva una buffa capriola all’indietro.
Si voltò.
Thorin veniva verso di lei a grandi passi dal fondo del corridoio, il fuoco delle torce che disegnava strani giochi di luci e ombre sul suo volto.
 
ANGOLO AUTRICE: Ebbene sì, sono ancora viva! Non mi hanno mangiato gli Orchi! Chiedo perdono per la lunga attesa, ma purtroppo in questo periodo l’università e lo studio hanno occupato gran parte del mio tempo libero! So che il capitolo non è molto movimentato, ma mi serviva una parte di “assestamento” perché Elinor e Thorin avessero modo di riconsiderare il loro rapporto dopo quello che è successo con gli orchi. Spero che non vi annoiate e che riusciate ad arrivare vive e vegete alla fine!
Grazie a chi recensirà di nuovo, a chi recensirà per la prima volta, e anche a chi si limiterà soltanto a leggere!
Buona lettura e a presto!
Linda

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Capitolo 7
*** Il coltello dalla parte del manico ***


7. IL COLTELLO DALLA PARTE DEL MANICO


Elinor deglutì, il cuore che, per qualche curioso motivo, sembrava aver deciso di raddoppiare i battiti.
Tuttavia non si scompose di un millimetro, e attese con calma che Thorin la raggiungesse. Non aveva idea del perché il fatto che fosse venuto a cercarla la turbasse tanto. Forse era lo strano modo in cui l’aveva guardata per tutta la sera, a renderla nervosa. O, forse, il fatto di non sapere assolutamente cosa aspettarsi da lui dopo quella cena al limite del surreale e quella conclusione a dir poco imbarazzante …
«Ve ne andate così presto?» le chiese il nano quando l’ebbe raggiunta e le fu tanto vicino che Elinor poté vedere il fuoco delle torce danzare nei suoi occhi azzurri.
La ragazza sorrise, a disagio. «Non intendevo ancora ritirarmi. Pensavo solo che mi avrebbe fatto bene una boccata d’aria. Sono un po’… scombussolata.»
«Capisco.»
Thorin la fissò in silenzio per qualche secondo con gli occhi socchiusi e la testa leggermente inclinata di lato. Poi, proprio mentre Elinor iniziava a chiedersi per quale motivo l’avesse fermata se intendeva limitarsi a fissarla senza aprir bocca, domandò d’impulso: «Vi dispiacerebbe molto se vi tenessi compagnia?»
Elinor ci mise qualche secondo ad assimilare quello che aveva appena sentito. Lo fissò a sua volta per qualche istante, sbigottita e incapace di rispondere alcunché.
«Se … preferite stare da sola, posso tornare di là» fece marcia indietro Thorin in tono secco, fraintendendo la sua espressione.
«Oh, no!» rispose precipitosamente Elinor, rendendosi conto di essere risultata scortese. «No, voi … non mi disturbate affatto! Sarebbe un piacere passeggiare con voi nei Giardini … davvero!»
Il cipiglio di Thorin si distese leggermente, e l’ombra di un sorriso increspò le sue labbra. «Bene, allora.»
Per un attimo sembrò incerto se porgere o no il braccio ad Elinor, perché accennò un impacciato movimento del gomito nella sua direzione. Ma il fugace momento di galanteria passò così come era venuto, e il nano si limitò a schiarirsi la voce, imbarazzato, e a cederle il passo.
«Dopo di voi» disse, accennando alla porta con un vago gesto della mano.
I Giardini Interni erano ancora più profumati dell’ultima volta che c’era stata. Quella sera l’aria aveva quasi un sapore estivo, e non un filo di brezza piegava le cime degli alberi e gli steli dei fiori. In lontananza, le luci di Esgaroth tremolavano, raddoppiate nell’acqua del lago, simili a tante enormi lucciole rimaste impigliate nella pianura. Mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, Elinor si chiese distrattamente che cosa stesse facendo suo padre, se fosse già addormentato o se Uren gli stesse ancora sussurrando all’orecchio con voce untuosa.
Si incamminarono lungo il viottolo in silenzio, Thorin con le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo fisso a terra, Elinor giocherellando nervosamente con i pendagli della cintura che le cingeva i fianchi. Era assolutamente certa che Thorin stesse per dirle qualcosa: l’aria, tra di loro, sembrava vibrare di attesa.
«É bellissimo, qui» osservò, prendendo l’iniziativa e cercando di rompere un po’ il ghiaccio. «Quando Balin mi ha portato a visitare i Giardini per la prima volta, qualche giorno fa, sono rimasta sbalordita. Non me li immaginavo così belli.»
«Sono lieto che vi piacciano» rispose Thorin. Dalla sua voce distratta ed eccessivamente formale, Elinor capì che, in realtà, la sua mente era rivolta da tutt’altra parte. Così decise di tacere, per dargli modo di trovare il coraggio di dire quello che doveva. Dovette aspettare ancora diversi secondi, tuttavia, prima che Thorin si decidesse finalmente a parlare.
«Pare che dovrò ringraziarvi per la seconda volta nella stessa giornata, Elinor» disse finalmente, dopo aver chiuso gli occhi e tratto un breve, profondo respiro. «Quello che avete detto poco fa, a cena … ecco, è stato molto … leale, da parte vostra.»
Per un lungo istante Elinor non rispose e continuò a camminare in silenzio al suo fianco, lo sguardo basso e le sopracciglia leggermente aggrottate. Lealtà… una parola davvero troppo eccessiva – troppo generosa - per definire il motivo della sua sconcertante esplosione di rabbia. Tutto quello che aveva sentito dentro di sé un attimo prima di sbottare contro Dàin era stata solo un’indescrivibile irritazione per l’arroganza dei suoi modi.
«Non dovete ringraziarmi» disse Elinor scuotendo la testa. «Non si è trattato di una cosa programmata. Ho parlato senza pensare, sono stata impulsiva.»
Thorin si arrestò di botto e alzò lo sguardo su di lei. «Questo toglie forse valore alle vostre parole?» chiese in tono brusco.
«Certo … certo che no» rispose Elinor disorientata.
«Il fatto che abbiate parlato d’istinto dimostra che pensavate veramente quello che stavate dicendo» riprese Thorin in tono più morbido ricominciando a camminare. «E io, mio padre e mio nonno ve ne siamo enormemente grati.»
Il coltello del senso di colpa, quel silenzioso, subdolo coltello dalla lama affilata, le affondò a tradimento nello stomaco, mozzandole il respiro per qualche secondo.
«Considerato che temevo di aver causato un incidente diplomatico, immagino di essermela cavata piuttosto a buon mercato» ironizzò, abbozzando un debole sorriso. «Vostro zio sembrava indeciso se scaraventarmi in faccia il calice di vino o dichiarare guerra ad Erebor.»
«Credo che avrebbe fatto entrambe le cose, se l’ammirazione per la vostra audacia non avesse superato, anche se di poco, l’indignazione per la vostra impertinenza» ribatté Thorin senza scomporsi. Elinor non era del tutto certa che stesse solo facendo dell’ironia. «Sono rimasti molto colpiti, nonostante tutto … e non sono stati i soli … »
La ragazza arrossì, sentendo il suo sguardo di nuovo fisso su di lei. Capì che si trattava di un altro goffo, confuso tentativo di farle un complimento, e non poté impedirsi di esserne lusingata.
«Adesso capisco i vostri avvertimenti di questo pomeriggio» buttò lì con una risata nervosa, cercando di scacciare l’imbarazzo. «Sul momento ho pensato che steste esagerando al loro riguardo, ma avevo torto: sono molto peggio di quello che mi avevate lasciato intendere.»
Un’ombra passò sul viso di Thorin, mentre le sue folte sopracciglia scure si avvicinavano a tal punto da diventare una sola.
«Mi rincresce molto per il modo in cui vi hanno trattato» mormorò, cupo. «I progetti di mio padre hanno dei punti deboli e possono suscitare perplessità, non lo nego, ma … questo non li autorizza a mancarvi di rispetto. Né a mancare di rispetto a tutti noi.»
Elinor vide le rughe sul suo viso farsi più profonde, i pugni stringersi spasmodicamente dietro la schienae i suoi passi farsi più rapidi, tanto che dovette aumentare un po’ l’andatura per riuscire a tenergli dietro. Tacque per qualche secondo, aspettando che l’ondata della sua rabbia si placasse. Sapeva che, in quel momento, qualunque cosa avesse detto sarebbe stata quella sbagliata. E l’ultima cosa che voleva era irritarlo di nuovo … C’era un pensiero, però, che le martellava nella testa, una domanda in bilico sulla punta della lingua che, lo sapeva bene, era troppo impellente per non sfuggirle fuori da un momento all’altro …
«Io non riesco a capire» mormorò d’impulso, prima di riuscire a fermarsi. «Perché voi, vostro padre e vostro nonno non avete reagito? Perché non vi siete difesi in modo più … deciso?»
Thorin alzò lo sguardo su di lei e sputò fuori una risata amara che somigliava più al ringhio di un cane. «Siamo sembrati privi di spina dorsale anche a voi, non è così?»
«No!» si affrettò ad esclamare Elinor. «No, niente, affatto! Sono solo … sorpresa, ecco tutto. Ho notato che più di una volta avreste voluto rispondere per le rime, ma che vi siete sforzati di rimanere in silenzio, o, perlomeno, di usare un tono più pacato … sebbene aveste tutto il diritto di offendervi.»
Il principe abbozzò un mezzo sorriso amaro, ma questa volta, quando parlò, il suo tono era molto meno ostile. «Ho visto abbastanza di voi da capire che il vostro carattere non vi permette di rimanere in silenzio davanti a un oltraggio o a un’ingiustizia. Non so se questo costituisca una dote o un difetto, ma credo di condividere con voi questa caratteristica. Tuttavia,» aggiunse, interrompendo sul nascere l’obiezione di Elinor «quando si è il principe ereditario di un regno isolato, in cerca di alleati, e in rapporti precari con quelli che già ci sono, non ci si può permettere troppo di essere se stessi. A volte bisogna scendere a compromessi, e … accettare molte cose.» Posò su di lei uno sguardo fin troppo eloquente da sotto le folte sopracciglia scure. «Sono sicuro che potete capire.»
Elinor, a disagio, abbassò lo sguardo sulle mani che ancora giocherellavano distrattamente con la cintura e deglutì. «Certo» rispose con un filo di voce. «Certo, capisco …»
Non poteva nemmeno immaginare quanto lei capisse. Non ne aveva idea, non fino in fondo. Ed era un bene – per lei, per suo padre e per tutta Esgaroth – che non l’avesse.
Si affrettò a riprendere la conversazione. Il terrore che la colpevolezza potesse riflettersi sul suo viso, tradendola in modo palese, era troppo forte per permetterle di indugiare un minuto di più su ragionamenti di quel genere.
«Le vostre cugine …» esordì, dando voce al primo pensiero che le venne in mente. «Dìs mi ha detto che sono rimaste molto deluse dalla decisione che avete preso in merito a … al vostro matrimonio.»
Thorin la fissò in silenzio per qualche istante, come stupito da quell’improvviso cambio di strada nella conversazione; ma la cosa non sembrò, tutto sommato, spiacergli troppo, e le rispose in tono quasi divertito, scuotendo la folta chioma scura.
«Dìs dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi, una volta ogni tanto» sbuffò, ironico. «Ma ha ragione, anche se il loro interesse per me non mi rende certo orgoglioso. E mi dispiace che abbiate dovuto scontare la loro invidia e la loro gelosia, stasera: temo che vi abbiano messo davvero a dura prova.»
«Devo essere sincera» ammise Elinor d’impulso. «Non avrei mai creduto che la ragazze nane potessero essere così … così …»
Annaspò per qualche secondo in cerca di una parola che non risultasse troppo offensiva: in fondo, per quanto insopportabili, erano pur sempre nane, ed Elinor aveva visto ormai abbastanza dell’orgoglio ferito di Thorin per voler ripetere l’esperienza. Inaspettatamente, fu proprio il principe a venirle in aiuto.
«… frivole?» suggerì infatti con un sogghigno.
Elinor lo fissò per qualche secondo, incerta se confermare o no la sua supposizione.
«Beh, ecco … non è esattamente la parola che avrei usato, ma …»
«Oh, ma certo che lo era» la interruppe Thorin con pungente ironia. Davanti allo sguardo imbarazzato che Elinor rivolse verso terra, però, la sua espressione si ammorbidì sensibilmente. «Non preoccupatevi» continuo, sforzandosi di infondere più gentilezza possibile nel suo ruvido tono di voce. «Non dovete più temere di esprimervi liberamente davanti a me. Le circostanze sono decisamente cambiate, dall’ultima volta che abbiamo avuto modo di … confrontare i nostri punti di vista. E poi,» aggiunse, mentre nella sua voce faceva di nuovo capolino un misto di ironia e acidità «se ci sono nani che non meritano di essere difesi da qualsiasi tipo di affronto, quelli sono proprio i miei parenti.»
Elinor non riuscì a trattenere un sorriso. «Quello che volevo dire, in realtà» riprese, ora un po’ più rilassata «è che, anche se non ho mai vissuto in mezzo a loro e ho avuto modo di conoscerne qualcuna solo superficialmente … ho sempre pensato alle Nane come donne energiche e dal forte senso pratico. A Esgaroth le ho viste aiutare i loro mariti a tirare su i pali di legno per allestire i banchi del mercato, tagliare quarti di carne come fossero burro, portare dalla fontana secchi d’acqua pesantissimi, e in tutto questo badare a quattro o cinque bambini per volta. Qui ad Erebor ho visto vostra sorella affrontare un gruppo di orchi a mani nude e con addosso un abito di raso. Non so se il ricamo possa essere incluso nella categoria delle attività frivole, ma di certo non credevo che una nana potesse dargli tanta importanza. Di certo, non avrei mai pensato che potesse essere considerato un requisito indispensabile per essere giudicata una buona futura moglie …»
Il sommesso e indistinto chiacchiericcio, simile alle fusa di un gatto, di una coppia di nani che passeggiavano nel vialetto parallelo li raggiunse, distraendoli per un attimo dal loro argomento di conversazione. A quanto pareva, le ombre proiettate dalle enormi e fitte chiome degli alberi dovevano nasconderli bene – o forse i due erano semplicemente troppo impegnati a tubare e a sussurrarsi all’orecchio – perché non dettero segno di aver visto né riconosciuto Thorin ed Elinor, e passarono oltre mano nella mano.
«Vedete, le cose stanno così» rispose Thorin, mentre le voci si affievolivano alle loro spalle. «Noi Nani siamo giunti in questo mondo in tempi bui e difficili, molto prima che vi arrivassero gli Uomini, e abbiamo dovuto costruire i nostri regni palmo a palmo, con fatica e sacrifici, lasciando molto spesso da parte il superfluo. Una mentalità che ancora ci caratterizza, come avete potuto constatare di persona.»
Elinor annuì. Conosceva la storia di come Aulë, il Valar fabbro e signore della terra, aveva creato i Nani, fatti comparire nella Terra di Mezzo al tempo della guerra contro Melkor il devastatore.
«Per questo le nostre donne hanno un carattere più duro di quelle degli Uomini e sono maggiormente predisposte per attività “maschili”» continuò Thorin. «Ed è per questo che, in effetti, ad attività come il ricamo e il cucito non viene data molta importanza, se non per finalità strettamente pratiche. Ma le enormi ricchezze accumulate da mio zio con il commercio del ferro, purtroppo, hanno fatto dimenticare alle mie cugine quali sono le cose veramente importanti, e hanno trasformato il superfluo in necessario.» Un sogghigno increspò le sue labbra sottili e fece brillare i suoi occhi azzurri di una luce divertita, mentre continuava: «Poi ci sono le eccezioni completamente opposte, come Dìs: il suo caratterino, unito al fatto di essere cresciuta in una famiglia di soli uomini, ha fatto sì che la sua esperienza in attività “maschili” sia andata ben oltre quella di una nana comune. Per questo, se fossi in voi, eviterei di prenderla come esempio: non tutte le nane riuscirebbero a darle di santa ragione ad un orco strizzate dentro ad un corsetto.»
Elinor, sebbene il pensiero di ciò che era accaduto quella mattina la facesse ancora rabbrividire, non poté fare a meno di sorridere pensando a Dìs che menava calci e gomitate in mezzo alle sue gonne svolazzanti. Lei, probabilmente, non sarebbe riuscita a fare lo stesso: non aveva mai avuto fratelli maschi con cui fare pratica nella lotta, e anche se a BoscoVerde i suoi abituali compagni di giochi erano stati i tre figli di re Thranduil, lo scontro corpo a corpo non faceva decisamente parte dello stile di combattimento degli Elfi.
«Beh,» sospirò Elinor calciando distrattamente lontano un sasso che si era ritrovata davanti alla punta dei piedi «non so se vostra sorella sappia ricamare, ma direi che stamattina se l’è cavata piuttosto bene … Dubito che con ago e filo avrebbe ottenuto lo stesso risultato!»
Fu una sorpresa sentire Thorin scoppiare in una breve, sommessa risata. Non l’aveva mai sentito ridere davvero, prima d’ora, e anche se si era trattato di un ruvido verso di gola durato poco più di un secondo ed emesso a labbra strette, Elinor sentì il sollievo farsi largo nel suo petto, scacciando il disagio e consentendole di respirare più liberamente. La piacevole sensazione aumentò ancora di più quando, lanciandogli una breve occhiata di sottecchi, scoprì che i suoi occhi erano animati da una luce sinceramente divertita.
«Credo che si possa dire la stessa cosa di voi» obiettò il nano. «Potete facilmente immaginare quanto mi costi ammetterlo, ma … raramente ho visto qualcuno che non sia un elfo maneggiare un arco con tanta sicurezza.»
Elinor sentì le guance andare inaspettatamente a fuoco. «Vi ringrazio» rispose chinando il capo, senza riuscire a dissimulare un certo compiacimento. Difficilmente riusciva a nascondere l’orgoglio quando qualcuno si complimentava con lei riguardo la sua predisposizione per il tiro con l’arco: era una debolezza che nemmeno gli Elfi, con il loro apparente distacco da tutti i vizi umani, erano riusciti a toglierle. La sua vanità, inoltre, era doppiamente lusingata dall’essersi appena resa conto che si trattava del secondo, esplicito complimento ricevuto da Thorin nel corso della serata. Non sapeva bene perché, ma aveva la sensazione che fosse la prima volta che il principe osava sbilanciarsi tanto. Forse perché il modo burbero con cui esprimeva il suo apprezzamento rivelava una scarsa – se non addirittura inesistente – pratica nel parlare con donne che non fossero sua sorella …
Si rese conto solo dopo un po’ del silenzio imbarazzato che era sceso tra di loro. Il rumore dei loro passi sui ciottoli del vialetto sembrava talmente forte che Elinor non si sarebbe stupita se l’avessero udito fin da Esgaroth. Il sorriso di Thorin si era poco a poco smorzato, e il nano sembrava adesso seguire il corso di un pensiero tutto suo. Elinor, di nuovo a disagio, cercò di pensare a un nuovo argomento di conversazione per tornare alla vivace e genuina spontaneità di qualche attimo prima, ma Thorin, inaspettatamente, la precedette.
«Poco fa, al banchetto, dicendo alle mie cugine di non saper cucire, avete menzionato vostra madre» disse d’un tratto il nano, leggermente accigliato. «Mi rendo conto solo adesso di non aver mai fatto le mie condoglianze né a voi né a vostro padre. Mi rincresce molto.»
Fu il turno del sorriso di Elinor di affievolirsi, mentre la ragazza sentiva qualcosa, dentro di sé, incrinarsi leggermente. «E’ successo molti anni fa» rispose gentile, evitando il suo sguardo e fingendosi molto interessata alle luci di Esgaroth in lontananza. «E’ più che naturale che con il tempo ve ne foste dimenticato.»
«Ricordo che mio padre e mio nonno parlavano sempre di lei con grande stima e ammirazione. La sua scomparsa li addolorò molto. Fu la febbre, se non vado errato …»
Si interruppe: Elinor stava fissando insistentemente davanti a sé, con le labbra strette; una profonda ruga le solcava la fronte incorniciata dalle treccine, e il suo volto pareva invecchiato di diversi anni.
«Perdonatemi» borbottò il nano, imbarazzato. «Forse voi non desiderate parlarne …»
«No, al contrario». La fronte di Elinor era improvvisamente tornata liscia, e quando finalmente si voltò a guardarlo sorrideva; ma era rimasta un’ombra di malinconia, nei suoi occhi, come se qualcuno avesse tirato le tende di una finestra per schermare la luce del sole. «Sono contenta che l’abbiate chiesto. E’ giusto che iniziamo a conoscerci meglio». Si interruppe per qualche secondo, dando giusto il tempo a Thorin di abbozzare un sorriso di sollievo per non averla turbata troppo. Poi continuò, la voce apparentemente inespressiva: «Comunque, sì. Fu la febbre a portarla via. Nessun medico ha mai capito di cosa si trattasse. Continuavano a darle medicine e a cercare di asportarle il sangue cattivo, ma lei sembrava consumarsi come una candela. E’ durata una settimana, e poi è finita esattamente com’era cominciata: all’improvviso. Il ricordo più nitido che ho è mio padre che viene a svegliarmi in piena notte, e, senza dire nulla, mi abbraccia scosso dai singhiozzi. Dopo il funerale sono partita per il Reame Boscoso e non ho più fatto visita alla sua tomba da allora.»
Si rese conto solo quando giunse alla fine che la sua voce si era ridotta ad un sussurro appena udibile. Accanto a lei, Thorin ascoltava in silenzio, le mani giunte dietro la schiena, senza emettere il minimo rumore. Persino i suoi passi di nano, di solito così decisi e pesanti, sembravano pestare la ghiaia con più cautela, come se stesse cercando di far dimenticare la sua presenza e non disturbare il discorso di Elinor. Lei gli fu grata per la sua discrezione: non avrebbe sopportato la pietà o la compassione nei suoi occhi. Non per qualche forma di orgoglio o perché fosse restia a mostrarsi in un momento di debolezza, ma perché era certa che il suo sguardo avrebbe vanificato ogni sforzo di mantenere la fermezza di facciata che si era imposta. Parlare di sua madre la metteva sempre a dura prova. Aveva mentito, quando aveva detto che l’unica cosa che ricordava era suo padre che veniva a svegliarla piangendo. Non era vero. C’era un’altra cosa che ricordava fin troppo bene, ed era il proprio sguardo – stranamente ancora asciutto - spalancato nella semioscurità sopra la spalla di suo padre sobbalzante di dolore, e il suo cervello che riusciva solo a ripeterle, come in un macabro ritornello: “Non hai avuto nemmeno il tempo di dirle addio.”
Ma questo non l’avrebbe mai detto a Thorin, né a nessun altro. Erano pensieri che, semplicemente, preferiva tenere per sé. Sentiva di essersi già sbilanciata troppo con quello che aveva appena raccontato …
Il silenzio che seguì fu talmente denso e pesante da far sembrare che persino la musica e le risate della Sala dei Banchetti si fossero d’un tratto spente. Improvvisamente, i Giardini di Erebor non le sembravano più quel luogo di pace e tranquillità dove era stata ansiosa di rifugiarsi prima dell’arrivo di Thorin. Il profumo dei fiori la nauseava, e il fruscio degli alberi le rimbombava nella testa in modo stranamente fastidioso. Eppure avrebbe dovuto essere contenta: lo sguardo di solidale comprensione che scorse negli occhi di Thorin quando il nano si voltò a guardarla era quanto di più promettente avesse mai osato sperare.
«Capisco il vostro dolore» disse il nano. «So cosa significa perdere una madre. La mia, purtroppo, non è sopravvissuta al parto di Frérin. Nel giro di poche ore mi sono ritrovato con un fratello in più e una madre di meno, e non ero ancora abbastanza grande da riuscire ad accettare subito la cosa nel migliore dei modi. Temo di aver fatto passare a Frèrin un’infanzia piuttosto spiacevole, dato che, ai miei occhi, era il colpevole della morte di mia madre.»
Immagini confuse di una nana urlante e madida di sudore molto rassomigliante a Dìs e di un neonato dagli occhi azzurri simili a quelli di Thorin attraversarono fulminee la mente di Elinor. Chissà se anche Thorin era stato svegliato da suo padre nel mezzo della notte e aveva indovinato subito, dal suo sguardo sconvolto, quello che era successo …
«Così, a quanto padre, siamo rimasti entrambi da soli con i nostri padri» mormorò la ragazza in tono amaro, prima di riuscire a fermarsi «cercando con tutte le nostre forze di compiacerli …»
Il silenzio che ottenne in risposta da Thorin fu sufficientemente eloquente. La consapevolezza di essere entrambi prigionieri dell’amore per i rispettivi padri e, allo stesso tempo, quella molto più gratificante di stare affrontando il sacrificio che quell’amore comportava con fermezza, dignità e rassegnazione, fecero sì che per la prima volta da giorni Elinor sentisse aleggiare tra loro qualcosa che somigliava molto alla complicità. E sebbene le parole che pronunciò subito dopo fossero in gran parte frutto di un calcolo volto ad allacciare ancora più saldamente i nodi di quella complicità, la stretta di dolcezza struggente che il suo cuore provò mentre parlava fu genuina, e dolorosamente reale.
«Io capisco quello che deve esservi costato prestarvi ai progetti delle nostre famiglie, Thorin» disse, alzando lo sguardo e fissandolo con determinazione negli occhi. «So di essere poco più di uno sgradevole inconveniente, per voi, perché so che quello che più desideravate dalla vita era la vostra libertà …»
Thorin non poté fare a meno di piegare le labbra in un sorriso ironico. «Se tutti gli “sgradevoli inconvenienti” mi salvassero da un branco di orchi inferociti, credo che d’ora in poi non farò che sperare che la sfortuna mi piombi addosso!»
«No, ascoltate!» continuò Elinor, testarda. «Capisco il sacrificio che state affrontando … quindi, per quello che vale, vorrei cercare di rendervelo, se non piacevole, perlomeno sopportabile.»
Fu difficile, per la sua coscienza già messa a dura prova, affrontare il debole sorriso colmo di gratitudine che vide affiorare tra la barba scura del nano. Ma in qualche modo doveva finire quello che aveva iniziato. Si era spinta troppo in là per tirarsi indietro proprio adesso. Stava persino cominciando a credere alle sue stesse bugie … il che, in un certo senso, era un bene: l’avrebbe di sicuro resa più convincente, e lei avrebbe avuto bisogno di tutta la credibilità possibile per ottenere quello che voleva e (cosa di gran lunga più importante) per uscirne viva.
«Vorrei davvero che diventassimo amici» concluse a bassa voce, abbassando lo sguardo. «E soprattutto, vorrei essere per voi una buona moglie. Prometto di fare del mio meglio … anche se non so ricamare.»
Thorin, che per tutta la prima parte della frase era rimasto ad osservarla in silenzio con aria indecifrabile, piegò un angolo della bocca in un sorriso. «Al contrario,» replicò «direi che il non saper ricamare potrebbe decisamente deporre a vostro favore.»
Elinor, colta alla sprovvista dall’accenno di vago divertimento che scorse nella sua voce, non poté fare a meno di sorridere a sua volta, mentre l’abbattimento provocatole dal ricordo della madre si dissolveva lentamente come uno sottile strato di ghiaccio sotto il sole.
Rimasero a passeggiare nei Giardini interni ancora per un po’, mentre i più svariati argomenti di conversazione si succedevano l’uno all’altro nella più totale naturalezza e solo di tanto in tanto venivano interrotti da sprazzi di lungo silenzio. Ad Elinor pareva che quel silenzio vibrasse. Di imbarazzo per quella confidenza piombata tra loro in modo così inaspettato, certo; ma anche, e soprattutto, di attesa. Nel suo caso sapeva benissimo quale fosse l’oggetto di quell’attesa: aspettava con ansia un accenno, anche il più minuscolo e insignificante, a Thròr, all’Archepietra o alla Camera del Tesoro, a cui potersi appigliare per cercare di scoprire quello che desiderava. Thorin, invece …
Non avrebbe saputo dire cosa, di preciso, lo spingesse a rivolgerle di sottecchi quei lunghi sguardi a metà tra l’ammirazione e la perplessità. Forse non si capacitava del fatto di stare iniziando ad apprezzare la sua compagnia, e si aspettava che, da un momento all’altro, qualcosa nel suo comportamento sopraggiungesse a contraddire quell’impressione positiva che stava cominciando ad avere di lei. Era un’ipotesi plausibile, dato che lei stessa, nei rari momenti in cui non si concentrava con tutte le sue forze su che strategia usare per ottenere le informazioni che le occorrevano, si stupiva della sensazione di benessere e tranquillità che stava iniziando a provare in sua presenza.
Fu solo quando le campane di Esgaroth, in lontananza, batterono le undici, che Elinor si rese conto di avere gli occhi appannati per il sonno.
«Siete stanca …» osservò Thorin, sorprendendola a nascondere uno sbadiglio dietro la mano. «Posso accompagnarvi nelle vostre stanze, se lo desiderate.»
«E’ molto gentile da parte vostra» rispose Elinor con un sorriso. «Se non vi dispiace, però, vorrei prima tornare nella Sala dei Banchetti per dare la buonanotte a vostro padre, a vostro nonno e agli ospiti.»
Fu quasi triste lasciare il silenzio, la pace e la rilassante penombra dei Giardini Interni per la soffocante semioscurità dei corridoi e poi per il baccano della sala, ma Elinor era davvero giunta al limite delle sue possibilità fisiche e mentali, e sentiva l’urgente bisogno di una salutare dormita, nonché di riordinare le idee sulla sua situazione. Thràin la salutò stringendole calorosamente le mani fra le sue, ma quando la ragazza chiese di Thròr il principe le rispose che, purtroppo, il re si era già ritirato. Non ci fu bisogno di spiegare dove: Elinor poté intuirlo senza difficoltà dal disagio dipinto sulla faccia di Thràin.
Si congedò dal clan dei Colli Ferrosi con un breve e freddo inchino, e dopo aver risposto con un sorriso a quello bonario di Balin e alla complice strizzatina d’occhi di Dìs, prese insieme a Thorin la via che conduceva ai piani superiori.
Fianco a fianco, in silenzio, percorsero il corridoio da cui erano appena venuti, ma invece di fermarsi davanti alla porta dei Giardini Interni, questa volta proseguirono dritto. Le torce guizzanti e le statue accigliate degli antichi Nani di Erebor scorrevano accanto a loro ad intervalli regolari, quasi tenendo il ritmo dei loro passi cadenzati che rimbombavano lungo le mura di pietra. Elinor lanciò un’occhiata di sottecchi a Thorin: camminava a passo svelto – tanto svelto che la ragazza faticava a tenergli dietro – le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo fisso a terra. A giudicare dalle sue labbra strette e dalla sua aria leggermente accigliata, sembrava immerso in pensieri poco piacevoli. E la ragazza, che aveva notato la sua reazione di fronte all’assenza di Thròr, non fece troppa fatica ad indovinare quali.
Si morse un labbro, incerta sul da farsi. Per tutta la sera aveva atteso pazientemente da lui un qualsiasi tipo di accenno a quell’argomento; invece, sembrava che Thorin non avesse fatto altro che evitarlo con tutto l’impegno possibile. Elinor poteva capirlo: era chiaro che parlarne era per lui molto difficile, e inoltre la complicità tra loro due non era ancora arrivata a un punto tale da potersi aspettare confidenze di quel calibro. Si rese quindi conto che, se voleva davvero sapere qualcosa in proposito, non poteva permettersi di attendere che fosse lui a prendere l’iniziativa: la prima mossa spettava solo e soltanto a lei.
Camminavano già da diversi minuti quando, finalmente, la ragazza si schiarì la voce e ruppe il silenzio del corridoio.
«A quanto pare non sono l’unica ad essersi ritirata presto» osservò con noncuranza, cercando di tastare il terreno. «Vostro nonno doveva essere molto stanco …»
Thorin, che al suono della sua voce si era riscosso e aveva rallentato il passo, quasi si fosse ricordato solo in quell’istante di non essere solo, sembrò incupirsi ancora di più.
«Sì, infatti …» si limitò a rispondere, senza guardarla.
«E’ davvero buffo» continuò Elinor in tono leggero, fingendo non accorgersi della scarsa loquacità del principe. «Anche due sere fa, finita la cena, ci siamo ritirati proprio nello stesso momento. L’ho accompagnato per un breve tratto di strada e poi ci siamo separati … A proposito, non credevo che le stanze reali si trovassero ai piani inferiori! Ero convinta che per arrivarci bisognasse salire …»
«Per quella strada non si va alle stanze reali» rispose Thorin seccamente. «Quel percorso porta alla Camera del Tesoro. Mio nonno passa sempre di lì, prima di andare a dormire, per … sistemare gli ultimi affari della giornata e … controllare che non manchi nulla.»
Elinor tacque per qualche secondo, mordendosi l’interno della guancia. A quanto pareva, strappargli qualche informazione sarebbe stato molto, molto più difficile del previsto …
«Beh, io non so nulla di queste cose,» disse cautamente «ma se il tesoro di Erebor è grande anche solo la metà di quello che dicono, comprendo che abbia bisogno di una sorveglianza stretta e costante. Quella gemma che chiamate “il gioiello del re”, per esempio … l’Archepietra … potrebbe fare gola a molti. Mi sono sempre chiesta …»
«Siamo arrivati, mia signora» la interruppe Thorin improvvisamente, con molta più fretta del necessario.
Elinor alzò lo sguardo, disorientata, e si rese conto che in effetti si trovavano di fronte alla porta della sua stanza.
«Oh …»
Era così presa da quello che stava tentando di fare, che non si era nemmeno accorta di dove fossero arrivati.
Il tono di Thorin, comunque, era stato inequivocabile: era chiaro che l’argomento gli era particolarmente sgradito, e che desiderava concludere la conversazione al più presto. Elinor non lo biasimò: molto probabilmente, lui e suo padre non riuscivano ad ammettere nemmeno con se stessi quanto fosse seria la malattia del re. Era comprensibile che non fosse ancora pronto a parlarne con lei. Anzi, adesso si chiedeva se fosse stato davvero saggio fare una mossa così diretta e azzardata …
Scrutò ansiosamente il volto di Thorin in cerca di un segno di sospetto o di rabbia che dimostrasse che aveva capito le sue intenzioni, ma tutto quello che vi trovò fu un profondo disagio: non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi, e si fissava gli stivali di cuoio con aria nervosa.
«Perdonatemi, Thorin»esclamò Elinor con un sorriso, fingendo di aver frainteso il suo desiderio di cambiare discorso. «Io me ne sto qui a chiacchierare, mentre voi volete sicuramente tornare nella Sala dei Banchetti a divertirvi! Non vi tratterrò oltre, siete stato fin troppo cortese ad accompagnarmi fin qui.»
Con suo grande sollievo, non c’era traccia di ostilità nello sguardo che Thorin alzò verso di lei. Le sue sopracciglia e la sua fronte, anzi, iniziavano già a spianarsi, e quando parlò la sua voce aveva già ritrovato quel misto di rudezza e di cortesia che Elinor non poteva fare a meno di ascoltare senza che qualcosa iniziasse a contorcersi piacevolmente dentro al suo stomaco.
«E’ stato un piacere accompagnarvi. Era il minimo che potessi fare» rispose il nano con un mezzo sorriso. «Mi dispiace che non abbiate voluto trattenervi ancora un po’ alla festa. A quanto ne so, le danze più divertenti vengono suonate tutte a sera inoltrata … quando la birra inizia a fare effetto, sapete …»
Elinor scoppiò a ridere. «Cielo, non avrete intenzione di invitarmi a danzare!»
«Non preoccupatevi, non era nelle mie intenzioni» sogghignò Thorin, divertito. «Vi ho già detto, se non sbaglio, che sono bendisposto verso la danza come voi lo siete per il ricamo …»
«Sì, lo avete fatto» sorrise Elinor. «E, come voi per il ricamo, credo che riuscirò a farmene facilmente una ragione.»
Non un rumore aleggiava nel corridoio deserto e semibuio mentre Elinor e Thorin si fissavano in silenzio, due leggeri sorrisi che ancora balenavano sui loro volti. C’era nell’aria fra di loro, Elinor lo avvertì molto chiaramente, una sensazione per metà piacevole e per metà vagamente imbarazzante, la sensazione che avrebbero potuto provare due persone che si erano appena rese conto di stare, contro tutte le loro aspettative, molto bene l’una in compagnia dell’altra, tanto da non voler essere in nessun altro posto in quel preciso momento. Elinor si sorprese a sentirsi esattamente così, e rimase quasi delusa (benché sapesse benissimo che quel momento stava per arrivare) quando Thorin interruppe quel silenzio pieno di complicità per congedarsi da lei.
«Vi auguro la buonanotte, dunque, mia signora» mormorò piegando la testa in un breve, informale inchino. «Spero riuscirete a riposare. É stata una giornata molto lunga.»
Elinor non seppe se la colpa fu dello sguardo intenso che il nano lanciò per l’ennesima volta alla sua figura quando rialzò lo sguardo su di lei, o se invece a turbarla fu l’improvvisa vicinanza che si era venuta a creare tra lei e Thorin. Fatto sta che non riuscì a fare altro che sorridere e rispondere con un debole: «Sì … sì, lo è stata davvero. Buonanotte anche a voi, principe.»
Fu strana la sensazione di leggero vuoto che la ragazza provò mentre, entrando nella sua stanza, osservava Thorin voltarsi – non prima di averle rivolto un ultimo, lungo sguardo – e allontanarsi lungo il corridoio con il suo passo deciso. Non avrebbe mai pensato di poterlo dire, ma stava veramente cominciando ad apprezzare la sua compagnia. Il che poteva avere lati positivi, poiché non avrebbe sopportato di vivere in perenne stato di litigio per tutta la sua permanenza ad Erebor (per quanto breve potesse essere), ma anche lati negativi: aveva ormai sperimentato varie volte – con Balin, e poi con Dìs – che, per il compito che doveva svolgere, affezionarsi era decisamente la scelta meno indicata, sia per i suoi sentimenti che per la sua coscienza …
Cercò di distogliere la sua mente, messa già a dura prova dalle fatiche della giornata, da quei pensieri alquanto sconcertanti, e di recuperare il suo senso pratico facendo mente locale su quanto aveva scoperto dal dialogo con Thorin.
“Ben poco, purtroppo” dovette ammettere mentre, stancamente, iniziava a slacciarsi il corsetto del vestito muovendo maldestramente le dita tra i lacci che glielo chiudevano sulla schiena. Ogni suo tentativo di entrare nell’argomento “Thròr” o “Archepietra” era caduto nel vuoto: Thorin sembrava chiudersi a riccio ogni volta che quei temi venivano anche vagamente sfiorati. Sarebbe stato arduo ottenere da lui qualsiasi informazione utile sulla parola magica del nascondiglio della gemma del re … senza contare che, anche in condizioni normali, la sua naturale riservatezza era un ostacolo non da poco. E, visti gli ultimi avvenimenti della giornata e il conseguente impegno di suo padre ad accelerare la mediazione nelle trattative con gli Elfi, non le rimaneva poi molto tempo per escogitare un piano efficace …
Respirò più liberamente quando finalmente riuscì ad aprire il vestito sul torace, e, nello stesso istante, anche i suoi pensieri parvero farsi meno pessimisti.
In fin dei conti aveva fatto del suo meglio, rifletté, gettando il vestito sulla sedia di legno e rovistando distrattamente nel baule alla ricerca della camicia da notte. Era saggio procedere a piccoli passi, senza forzare gli eventi. Cercando di sapere a tutti i costi, avrebbe soltanto irritato Thorin, vanificando tutti gli straordinari progressi che aveva fatto quel giorno e tornando al punto di partenza. Senza contare che, vista la sua reazione, non se la sarebbe sentita di insistere ulteriormente, turbandolo ancora di più … Per adesso doveva avere pazienza, e accontentarsi di aver guadagnato la sua fiducia preparando un eccellente terreno da sfruttare in futuro.
Ripensandoci adesso, proprio non avrebbe saputo dire come ci fosse riuscita. Ripercorse mentalmente gli incredibili eventi di quella giornata mentre, seduta davanti alla specchiera, alleggeriva i lobi delle orecchie dai pesanti dischi d’oro che Dìs le aveva fatto indossare. Non era certo stato frutto di un suo calcolo, se quegli orchi li avevano improvvisamente attaccati a nord di Erebor; e la sua reazione alle disgustose parole dei parenti di Thorin era stata tutt’altro che studiata. Buffo come le uniche due azioni avevano contribuito a capovolgere nettamente la sua situazione, fossero tra le poche del tutto involontarie e non programmate. A quanto pare, la fortuna e l’istinto avevano trionfato là dove il calcolo razionale aveva fallito …
Ammutolita dal carattere paradossale dell’intera faccenda, rifiutò di continuare a rifletterci un secondo di più. Era troppo stanca per sforzarsi ancora di capire, quando probabilmente da capire non c’era proprio niente.
Si gettò a pancia in su sul letto senza nemmeno prendersi il disturbo di cercare di disfarsi le treccine. Era sicura che senza l’aiuto di Dìs non sarebbe mai riuscita a venirne a capo. E poi, non sarebbe stata una cattiva idea tenerle ancora per un po’ … Thorin era sembrato gradirle, in fondo … lo sguardo che le aveva lanciato quando era entrata nella Sala dei Banchetti … e quello di poco prima, quando le aveva dato la buonanotte …
Un lieve brivido di piacere le corse su per la schiena. Nessuno, che lei ricordasse, l’aveva mai guardata con tale intensità da costringerla ad abbassare gli occhi imbarazzata. La sua bellezza non era mai stata degna di nota tra gli splendidi Elfi di BoscoVerde, abituati tra l’altro a contenere anche le emozioni più evidenti, e da adulta aveva passato troppo poco tempo tra gli Uomini per godere pienamente dell’ammirazione maschile. C’era stato, è vero, qualche pretendente più ardito che si era fatto avanti durante le poche feste che suo padre aveva dato dopo il suo ritorno; ma nessuno di essi era mai riuscito a provocarle una così piacevole sensazione di vanità lusingata.
Ridacchiò piano fra sé, le palpebre che già cominciavano a farsi più pesanti. Era consapevole di quanto fosse fuori luogo, in una situazione del genere, indugiare su pensieri tanto frivoli e infantili. Ma quei pensieri la facevano sentire più leggera … più normale. Le facevano dimenticare, almeno per qualche breve istante, la ragione per cui si trovava lì. La facevano sentire una ragazza come tante, che arrossisce e ride senza motivo perché qualcuno, ad una festa, l’ha guardata e l’ha fatta sentire desiderabile. La facevano sentire la ragazza che, probabilmente, sarebbe stata se suo padre non avesse deciso di coinvolgerla in quell’impresa ai limiti del suicidio.
E c’era voluto un nano, per riuscire a farla sentire finalmente così! Se gliel’avessero raccontato soltanto qualche mese prima, Elinor si sarebbe fatta delle grasse risate. Non era mai stata incline a fantasie eccessivamente romantiche e sdolcinate, non era nel suo carattere; ma era stata anche lei un’adolescente, e non aveva potuto sottrarsi a quei violenti subbugli emotivi che, prima o poi, prendono il sopravvento su tutte le ragazzine di quell’età. Era stato inevitabile, presto o tardi, ritrovarsi a desiderare di essere corteggiata e ammirata, e a immaginare scene fatte di sguardi fugaci e parole sussurrate all’orecchio… ed Elinor era più che sicura che nessuna di quelle fantasie avesse mai avuto come oggetto un nano. E non un nano qualsiasi: un discendente di Durin, probabilmente il più scorbutico, orgoglioso e lunatico essere che Aulë avesse messo su quella terra! Elinor stentava ancora a credere che nella stessa persona potessero coesistere due lati talmente diversi: quello gentile con cui aveva parlato tutta la sera e che si era persino cimentato in maldestri tentativi di farle dei complimenti, e quello collerico e pronto a prendere fuoco alla più piccola offesa che l’aveva accolta al suo arrivo ad Erebor. Il modo repentino con cui cambiava umore, a volte, rasentava la soglia dell’impossibile …
Ma probabilmente era del tutto normale, rifletté la ragazza abbandonandosi ad un possente sbadiglio e girandosi su un fianco, le mani giunte sotto il cuscino. Non doveva dimenticare la proverbiale caratteristica dei Nani, ovvero la loro naturale predisposizione a passare con estrema facilità da uno stato d’animo all’altro, e a mettere in ognuno di essi l’identica dose di passionale intensità. Probabilmente era soltanto questione di abitudine … del resto, per lei non era stato poi così difficile scoprire il lato gentile Thorin … e avevano fatto conversazione soltanto per poche ore …
Fece appena in tempo a rendersi conto di quanta fatica le costasse mantenere il filo dei propri pensieri, che la stanchezza ebbe la meglio su di lei, e tutto ciò che riuscì a vedere prima di sprofondare nell’oblio fu la parete di pietra della stanza ridotta ad un indistinta macchia sfocata.
 
 
Camminava a passo spedito lungo un corridoio di Erebor.
Era un corridoio uguale a tanti altri: spoglio, freddo e illuminato a malapena dalle torce che guizzavano sul muro a intervalli regolari.
Lei, però, sapeva esattamente dove si trovava.
Il cuore le batteva forte nel petto, ma non aveva paura. Quella che provava era piuttosto un’eccitazione a stento repressa, un’impazienza che la spingeva a continuare a mettere un piede davanti all’altro nonostante il corridoio sembrasse voler continuare ad allungarsi, sempre uguale a se stesso, per l’eternità.
Sapeva che presto avrebbe raggiunto la sua meta.
Lo sapeva.
Doveva solo avere pazienza.
E infatti, dopo che ebbe sorpassato altre innumerevoli torce, qualcosa cominciò a intravedersi in fondo al corridoio.
La sagoma di una porta.
Allungò in avanti una mano, come tentando di afferrare quel miraggio che si stagliava in lontananza con aria così invitante, e subito la porta iniziò a farsi più vicina, come se scivolasse verso di lei.
Senza quasi rendersene conto, la sua mano arrivò a sfiorare la maniglia.
La spinse con tutte le sue forze, aspettandosi una resistenza notevole da parte del robusto legno di quercia e del solito acciaio lavorato, ma inspiegabilmente la porta non oppose alcuna resistenza.
Entrò.
Intorno a lei, la Camera del Tesoro di Erebor risplendeva in tutta la sua abbacinante magnificenza. Era circondata da ogni tipo di meraviglie – rubini, smeraldi, zaffiri, diamanti, calici istoriati, armi che sembravano attendere solo lei per essere impugnate – eppure la sua attenzione non era attratta da niente di tutto ciò.
I piedi la condussero quasi di propria volontà al cospetto di un’altra porta, più piccola e meno maestosa di quella che aveva appena varcato.
Una piccola porta di pietra incisa con rune naniche, senza alcuna maniglia.
Si fermò.
L’eccitazione, improvvisamente, si era trasformata in attesa. Il suo cuore, improvvisamente, non martellava più perché era impaziente di arrivare alla fine del percorso, ma perché stava aspettando qualcosa …
Stava aspettando qualcuno …
Lentamente, la porta di pietra iniziò a girare sui cardini, aprendosi verso l’esterno, e appena poté abituare gli occhi all’oscurità totale che regnava dentro il cunicolo, scorse la sagoma massiccia di un uomo in piedi sulla soglia.
I suoi capelli scuri e la sua barba scendevano sul petto incolti, trattenuti qua e là da sottili treccine, e i suoi occhi azzurri luccicavano più degli zaffiri che punteggiavano, simili a tanti nontiscordardime, la distesa di monete d’oro.
Un angolo delle labbra di Thorin si piegò in un lieve sorriso, mentre il nano tendeva la sua grande mano ruvida verso la ragazza.
«Dovete essere stanca» disse, lo sguardo agganciato a quello di Elinor. «Posso aiutarvi, se lo desiderate.»
Elinor non rispose. Semplicemente, tese a sua volta la mano per afferrare quella del principe. Ma mentre la punta delle loro dita stavano per sfiorarsi, una voce alla sua destra la fermò.
«Elinor.»
Si voltò.
Suo padre era in piedi a pochi passi da lei, e la fissava con aria triste.
«Vuoi lasciarmi, Elinor?»
Elinor, confusa, aprì la bocca per replicare. Voleva dire a suo padre che non aveva nessuna intenzione di abbandonarlo; che era solo molto stanca, e che se avesse preso la mano di Thorin – ne era sicura, anche se non avrebbe saputo dire perché – la fatica sarebbe scomparsa in un attimo.
«Non deludermi, Elinor, ti prego.»
Voleva rispondergli, lo voleva più di ogni altra cosa. Ma la sua gola non emetteva alcun suono.
Se la afferrò con entrambe le mani, ma per quanto disperatamente si sforzasse, non riusciva a parlare.
Non poteva aspettare ancora: suo padre sarebbe diventato ancora più triste, e Thorin avrebbe pensato che non voleva andare con lui …
Si voltò di nuovo verso il nano per implorarlo con gli occhi di non andare, di aspettarla ancora.
Solo che questa volta, con la mano tesa e un ghigno beffardo stampato in faccia, al posto di Thorin c’era Uren.
Il consigliere iniziò a ridere, di una terrificante risata raschiante e gutturale che echeggiò tra le immense volte di pietra della Camera del Tesoro, scrutandola con i suoi piccoli e scintillanti occhietti porcini.
Fu allora che Elinor ritrovò la voce e iniziò a urlare con quanto fiato aveva in gola.

 
 
Due mani robuste la scuotevano violentemente per le spalle. Qualcuno chiamava il suo nome in tono concitato, ma il suono arrivava alle orecchie di Elinor lontano, ovattato, quasi distorto, come se fosse immersa sott’acqua.
«Mia signora! Mia signora!»
Intravedeva vagamente una sagoma sfocata china su di lei, ma per diversi secondi non seppe assolutamente dire di chi si trattasse. Le sue palpebre sembravano diventati due pesanti pezzi di piombo, e il suo cervello pareva essere stato sostituito da un inutile involucro vuoto. Ignorava completamente dove si trovasse. Tutto quello che sembrava avere una parvenza di realtà era l’agghiacciante risata di Uren che ancora risuonava insistentemente nella sua testa.
«Mia signora! Svegliatevi, vi prego!»
La voce che la chiamava, di diverse ottave più acuta del normale, si fece improvvisamente strada nella fitta nebbia che ancora avvolgeva in gran parte i sensi di Elinor.
«R … Rolgha?» balbettò la ragazza con voce roca, mettendo gradualmente a fuoco il volto, incorniciato da una corta barba bionda, della sua giovane cameriera personale. Ancora per qualche istante il suo cervello annaspò disperatamente cercando di capire perché la nana si trovasse lì e perché la stesse scrollando con aria così spaventata, ma poi, poco a poco, la cortina di nebbia si diradò.
«Va tutto bene, mia signora? Devo chiamare qualcuno?» le chiese Rolgha, la voce ora meno concitata per il sollievo di vederla sveglia e non più così assente.
«No …» Elinor tentò di mettersi in posizione eretta, le braccia che tremavano violentemente mentre le usava per puntellarsi sul materasso. Si passò una mano sulla fronte: era madida di sudore. «Sto bene … è stato … solo un sogno …»
Le sue condizioni non dovevano essere delle migliori, perché Rolgha continuava a fissarla come se si aspettasse di vederla svenire da un momento all’altro. Alzò gli occhi verso la specchiera poggiata contro la parete di fronte al letto: un volto pallido e solcato da profonde occhiaie le restituì lo sguardo. Nessuna meraviglia che la cameriera fosse così preoccupata per lei …
«Sto bene, Rolgha, davvero» insistette in tono rassicurante, sforzandosi di sorridere. «Posso chiederti di portarmi un bicchiere d’acqua, per favore? Ho la gola riarsa …»
In effetti, quando tentò di deglutire, scoprì che ogni traccia di saliva era come evaporata. Era anche sicura che, se avesse provato ad alzarsi, il giramento di testa non le avrebbe permesso di fare più di due passi prima di cadere a terra.
La nana si affrettò a raggiungere la specchiera per versarle un po’ d’acqua dalla caraffa di vetro che vi era poggiata sopra.
«Grazie» le sorrise di nuovo Elinor, prendendo il bicchiere che la cameriera le porgeva. Bevve avidamente, a grandi sorsate, rovesciandosi persino qualche goccia sul mento e sulla camicia da notte.
L’acqua fresca contribuì a farla riprendere un po’ e a calmare i suoi nervi scossi. Ora, se non altro, la stanza non le vorticava più intorno come se qualcuno l’avesse bendata e poi fatta girare su se stessa … Se non fosse stato per il sudore che le appiccicava addosso la camicia da notte e le incollava i capelli alla fronte, sarebbe quasi potuta sembrare una mattina come le altre. Tutto ciò che era rimasto a ricordarle il sogno da cui era reduce, erano il luccichìo dell’oro che tornava ad abbagliarla ogni volta che chiudeva gli occhi e il suono raccapricciante della risata di Uren, che ancora sembrava aleggiare nel silenzio della stanza come una macabra eco che soltanto lei poteva udire.
«Per curiosità,» chiese con finta noncuranza «che cosa stavo facendo esattamente?»
Rolgha riprese il bicchiere vuoto che Elinor le porgeva e le mise davanti il vassoio che aveva portato nella stanza. Sembrava ancora leggermente scossa. «Ero venuta a bussare per portarvi la colazione,» spiegò titubante «e ho sentito degli strani rumori provenire dall’interno della vostra camera da letto, come qualcuno che si lamentasse. Ho creduto che vi steste sentendo male, così sono entrata … e voi … voi eravate qui sul letto, ad occhi chiusi, che vi contorcevate e vi stringevate la gola con le mani … e gemevate così tanto, e sembravate così spaventata, che ho avuto paura anch’io, e … vi ho scosso per svegliarvi.»
Elinor, che aveva appena iniziato a sbocconcellare una fetta di pane nero con sopra del burro – il suo stomaco era ancora troppo attorcigliato per permetterle di affrontare la colazione con appetito – si sentì improvvisamente una stupida. Ripensandoci adesso, nella rassicurante tranquillità della sua stanza da letto, con del cibo davanti e una persona a tenerle compagnia, il sogno non le sembrava più così spaventoso da giustificare una reazione come quella che Rolgha le aveva appena descritto. Aveva fatto altre volte sogni, persino più inquietanti di questo, che l’avevano svegliata nel mezzo della notte in un bagno di sudore e con il cuore a mille; ma nessuno di essi le aveva mai fatto provare una tale soffocante sensazione di panico.
«Devo aver esagerato con il pasticcio di rognone, ieri sera» abbozzò in tono leggero, sapendo perfettamente che, in realtà, il banchetto non c’entrava nulla. «Mi dispiace di averti spaventato per niente, Rolgha.»
«Non preoccupatevi, mia signora» rispose la giovane nana accennando un sorriso, mentre prendeva il vestito della sera precedente dallo schienale della sedia per riporlo nel baule di Elinor. «L’importante è che voi stiate bene. Non possiamo controllare i sogni che facciamo.»
Elinor, alle prese con un altro boccone di pane e burro, smise per un attimo di masticare e fissò nel vuoto uno sguardo disorientato e confuso. Immagini improvvise – e assolutamente non richieste – avevano scelto proprio quel momento per attraversarle la mente: Thorin in piedi sulla soglia del cunicolo, la mano tesa verso di lei e quell’espressione calda, rassicurante negli occhi chiari … la sua voglia di prendere quella mano e di seguirlo senza fare domande, dovunque volesse portarla …
Ingoiò il cibo con sorprendente difficoltà. «No … » disse a mezza voce, in risposta all’affermazione di Rolgha. «Non possiamo, è vero …»
Si riscosse dopo qualche secondo, scrollando leggermente la testa per scacciare lo strano turbamento che le aveva appena afferrato la bocca dello stomaco, e cercò di dedicarsi di nuovo alla sua colazione.
«Mia signora …» esordì timidamente Rolgha, distraendola dai suoi pensieri. «Se vi siete ripresa e non vi occorre nient’altro, ho il dovere di dirvi che Sua Maestà re Thròr e il principe Thràin vi attendono nella Sala del Consiglio.»
Il cuore di Elinor mancò un battito, e per un momento temette che il boccone che stava masticando le andasse di traverso. Riacquistò il controllo di sé quel tanto che bastava per domandare, con voce falsamente tranquilla: «Oh, capisco. E … per caso ti hanno detto che cosa desiderano?»
Devono essersi accorti di qualcosa. Devono per forza essersi accorti di qualcosa. Perché, altrimenti, mi avrebbero fatto chiamare? Ma come … come possono averlo scoperto? Ieri sera ho parlato soltanto con Thorin, e non mi sono lasciata sfuggire nulla di sospetto … Non può avergli detto nulla che …
«Credo che desiderino ringraziarvi di persona per il coraggio che avete dimostrato ieri con gli orchi, mia signora» rispose Rolgha.
Il sollievo che esplose nel petto di Elinor fu tale che la ragazza dovette prendersi qualche secondo prima di riuscire di nuovo a parlare senza che la voce le tremasse.
«Molto bene» disse quando ebbe riconquistato il controllo dei suoi nervi. «Scenderò subito. Rolgha, saresti così gentile da aiutarmi con i capelli, quando sarò vestita? Alcune treccine si sono disfatte durante la notte, e temo proprio di non essere ancora in grado di sistemarle da sola …»
«Certo, mia signora» ripose la nana riprendendo il vassoio della colazione ormai semivuoto e poggiandolo di nuovo sulla specchiera, mentre Elinor scostava di lato le coperte e raggiungeva a piedi nudi il baule di legno ai piedi del letto.
Scelse un vestito verde scuro di foggia elfica bordato con sottili fregi dorati, le lunghe maniche a losanga che scendevano quasi fin sotto il ginocchio. Un piccolo sorriso malinconico le affiorò sulle labbra mentre lo estraeva dal baule, carezzandone delicatamente la morbida seta. Sapeva che non era stato un caso se le sue dita si erano fermate proprio su quel vestito. Era il suo preferito: suo padre gliel’aveva regalato per il suo diciottesimo compleanno, e l’aveva indossato troppe volte perché, ripensandoci adesso, non lo associasse a momenti della sua vita che l’avevano fatta sentire felice. La folle risata di Uren e lo sguardo rassicurante di Thorin non erano gli unici ricordi del sogno che ancora le balenavano nella mente come pitture sbiadite: anche lo sguardo di suo padre, triste e malinconico come un tramonto in autunno, era ancora ben presente davanti ai suoi occhi, chiudendole la gola con un groppo di dolceamara nostalgia. Aveva bisogno di qualcosa che le ricordasse casa, qualcosa di familiare. Qualcosa come quel vestito …
Rolgha le aveva portato dell’acqua per lavarsi, così Elinor poté togliersi di dosso, strofinandosi energicamente con una spugna, il viscido sudore freddo frutto di quella nottata. Scivolò nel vestito che aveva scelto, lasciando che Rolgha la aiutasse a stringere gli innumerevoli lacci sul petto e sulla schiena; poi si sedette davanti alla specchiera, fissando pigramente le dita della nana che, con movimenti rapidi e sicuri, le rimetteva in sesto la complicata acconciatura in parte disfatta.
«Mia signora,» iniziò timidamente Rolgha dopo qualche minuto di lavoro silenzioso «perdonatemi se lo chiedo, ma pensate di avere ancora bisogno di me, per il resto della giornata?»
Elinor fu presa alla sprovvista da quella strana domanda. «No, immagino di no» rispose fissandola nello specchio con aria sorpresa.«Perché me lo chiedi?»
«Ecco, vedete» spiegò la nana senza fermare la febbrile attività delle dita «mio padre è il proprietario della taverna più grande di Erebor ... E’ quella più vicina alle miniere e alle fucine, perciò la maggior parte dei nani che vi lavorano preferisce trascorrere lì l’ora di pranzo, piuttosto che tornare alle proprie case. Purtroppo ieri sera l’aiutante di mio padre si è preso una brutta febbre che non gli permetterà di muoversi dal letto per qualche giorno, e mio padre non è in grado, da solo, di occuparsi di tutto. Perciò vorrei andare ad aiutarlo, se me lo permettete … anche soltanto per oggi.»
«Rolgha, non preoccuparti» la rassicurò Elinor. «Potrai aiutare tuo padre per tutto il tempo che riterrai più opportuno. Io cercherò di arrangiarmi da sola, e se ne sentirò la necessità chiederòse è possibile procurarmi un’altra cameriera personale.»
Un sorriso sollevato illuminò la paffuta, graziosa faccia della giovane nana. «Vi ringrazio, mia signora. Ci rendete tutto molto più facile. Mio padre ve ne sarà immensamente grato.»
«Non sapevo che tuo padre fosse il proprietario della taverna vicino alle fucine» disse Elinor. Quella conversazione la stava riportando nel mondo reale, distraendola dall’insistente sensazione di malinconia che sembrava esserlesi attaccata addosso come un odore fastidioso. «Non dev’essere un compito facile occuparsi di un’attività del genere, persino con un aiutante con cui dividere le mansioni. Ho visitato le fucine, qualche giorno fa, ed è davvero sbalorditivo il numero di nani che vi lavorano.»
«Difatti non lo è , mia signora» confermò Rolgha. «Fino a qualche anno fa era mio fratello maggiore ad aiutarlo, ma purtroppo l’ultima epidemia di febbri se l’è portato via.»
Elinor deglutì e distolse lo sguardo dallo specchio, a disagio. «Mi dispiace molto.»
«Vi ringrazio. Ma è stato molto meglio così, suppongo: le sue sofferenze erano diventate davvero troppo grandi» rispose la nana gentilmente, senza scomporsi, lasciando che fosse soltanto una lieve inflessione malinconica nella voce a far intuire la sua tristezza nel parlarne. Elinor la ammirò: lei non sarebbe riuscita a dimostrare la stessa fermezza, parlando della morte della madre, ed era passato molto più tempo rispetto a quella del fratello di Rolgha…
«Comunque,» continuò la cameriera, senza interrompere il suo rapido lavoro di dita «mio padre ha cercato subito una persona che sostituisse mio fratello, ma non è stato facile trovare qualcuno.»
«Come mai?» chiese Elinor, fissandola nello specchio incuriosita.
Rolgha parve per un attimo incerta se rispondere o no, poi un sorriso a metà fra l’imbarazzato e il divertito spuntò sulle sue rosee labbra carnose. «Ecco …» iniziò a spiegare, titubante «qui ad Erebor mio padre ha la fama di essere … come dire … un po’ restio a condividere equamente i guadagni con i suoi collaboratori. Per questo è stato costretto a chiedere a me di aiutarlo alla taverna: non è ancora riuscito a trovare nessuno che accetti il lavoro.»
Elinor non riuscì a trattenere il sopracciglio destro dal guizzare verso l’alto: se il padre di Rolgha veniva considerato avaro persino dal suo popolo, già noto per essere una razza piuttosto gelosa delle proprie ricchezze, ciò era davvero tutto dire …
Alzando lo sguardo sulla nana, si accorse del vivo rossore che le aveva imporporato le guance, e capì di aver toccato un tasto forse troppo personale e delicato. «Perdonami, avrei dovuto evitare di immischiarmi così a fondo nei vostri affari» si scusò.
«Oh, non preoccupatevi » rispose Rolgha, sorridendo. Sembrava proprio che niente riuscisse a farle perdere quella gentilezza e quell’allegria che le rendevano così gradevole agli altri. «Non è certo un segreto. Tutti ne sono a conoscenza, qui ad Erebor, e mio padre non se ne cura troppo. A lui importa poco quello che dice la gente: dice sempre che, tanto, tutti quelli che parlano male di lui poi finiscono per venire a bere nella sua taverna … Ecco qua, mia signora. La pettinatura è di vostro gradimento?»
Elinor ruotò leggermente la testa a destra e a sinistra, ammirando soddisfatta come Rolgha era riuscita a recuperare in poco tempo quel che era rimasto della pettinatura di Dìs: le treccine che le incorniciavano la testa erano state sapientemente rimesse in sesto, mentre le più rovinate – quelle che si mescolavano ai capelli sciolti ricadendole sulle spalle – erano state completamente disfatte allo scopo di riunire la sua folta capigliatura bionda in due spesse trecce che adesso le sfioravano la schiena poco più giù delle spalle.
«Ottimo lavoro » sorrise Elinor grata, alzandosi dalla sedia e sistemandosi il vestito. «Spero di diventare anch’io brava come te, un giorno.»
«I bambini nani imparano a fare trecce ancora prima di imparare a camminare, mia signora» si schernì Rolgha con modestia, arrossendo leggermente. «Siete sicura che non vi occorra altro, prima di scendere? »
«Sono sicura, grazie Rolgha. Puoi andare da tuo padre, se lo desideri. Penserò io ad avvertire il re.»
La nana la ringraziò con un sorriso radioso e un leggero inchino. Poi Elinor lasciò la stanza e si incamminò per raggiungere il piano inferiore, il passo ora molto più sicuro rispetto ai giorni precedenti. I corridoi, con suo grande sollievo, cominciavano a non sembrarle più tutti uguali come quando era arrivata, e adesso osava persino avventurarsi da sola in ale del palazzo per orientarsi nelle quali, fino a qualche giorno prima, avrebbe avuto bisogno di un accompagnatore.
Quasi senza rendersene conto, si ritrovò a canticchiare a fior di labbra una delle canzoni che l’orchestra aveva eseguito la sera prima al banchetto, un motivo allegro e ballabile che, evidentemente, doveva esserle rimasto impresso più degli altri. Per qualche strana ragione, la malinconia che il sogno le aveva lasciato addosso si era molto smorzata, lasciandosi dietro soltanto lievi strascichi uggiosi.
Era stato tutto merito della breve conversazione con Rolgha, Elinor lo sapeva. I modi di fare dolci, gentili e rassicuranti della nana erano stati come una folata di aria tiepida per il gelo che aveva afferrato il suo stomaco dopo quel brusco e sgradevole risveglio. Adesso capiva perché le era stata assegnata proprio lei, come cameriera personale: sembrava possedere un dono naturale per mettere a proprio agio le persone. Inoltre la consapevolezza di aver fatto un grosso favore a lei e a suo padre – e, a quanto pareva, a tutti i Nani lavoratori di Erebor – contribuiva moltissimo a migliorare il suo umore, dando momentaneamente respiro alla sua coscienza soffocata tra il senso di colpa e la volontà di portare a termine il suo compito. Era meglio godersi quella piacevole sensazione per i brevi minuti che le restavano, prima che gli sguardi e le parole di commossa riconoscenza di Thròr e Thràin arrivassero a ricordarle che, in realtà, non era altro che una bugiarda e una traditrice …
Fu con una sottile punta di rassegnazione, solo vagamente percettibile fra il buonumore appena ritrovato, che Elinor imboccò finalmente il corridoio in fondo al quale si trovava la Sala del Consiglio. La porta era rimasta leggermente socchiusa, e dallo spiraglio trapelavano gli stralci di una conversazione che si stava svolgendo proprio in quel momento tra il re e suo figlio, ma che l’eccessiva distanza faceva rimanere, per ora, inintellegibili.
Più si avvicinava alla porta, tuttavia, più aveva l’impressione che i toni si facessero stranamente concitati. Non riusciva ancora a distinguere bene le parole, ma era chiaro che tra il re e suo figlio stava avendo luogo qualcosa che somigliava moltissimo ad un’accesa discussione, e che entrambi stavano facendo di tutto per smorzare il più possibile le proprie voci.
«Ne abbiamo già parlato, Thràin, e sai bene come la penso!»
L’improvvisa esclamazione, proferita in tono burbero e sbrigativo dalla profonda voce del re, costrinse Elinor a fermarsi per un attimo, incerta. Considerò per un momento la possibilità di ripassare dopo qualche minuto, giusto per sollevare Thròr e Thràin dall’imbarazzo di essere sorpresi nel corso di un litigio personale. Ma prima che avesse il tempo di formulare per intero questo pensiero, la curiosità ebbe la meglio sugli scrupoli di coscienza, ed Elinor, dopo essersi assicurata con un rapido sguardo circospetto che nel corridoio non ci fosse nessuno oltre a lei, si avvicinò alla porta in punta di piedi.
«La nostra ultima conversazione al riguardo risale ormai a diversi anni fa!» stava dicendo intanto Thràin con voce tagliente, mentre la ragazza si accostava silenziosamente ad uno dei battenti della porta e sbirciava con cautela nello spiraglio rimasto aperto.
«E posso sapere cos’è cambiato nel frattempo?» chiese di rimando Thròr, di cui Elinor poteva scorgere l’ampia schiena curva sul grande tavolo di legno intagliato, dove il nano si era appoggiato con la testa incassata nelle spalle.
«Molte cose!» rispose prontamente il figlio. «Thorin è ormai un nano adulto …»
«Di’ piuttosto un ragazzo.»
«… e in grado di assumersi pienamente le proprie responsabilità di futuro erede al trono! Perché non può iniziare a fare la sua parte?»
Thorin. Stavano parlando di Thorin. Lo stomaco di Elinor ebbe un buffo sobbalzo, e la sua curiosità per quella conversazione a cui, in teoria, non avrebbe dovuto assistere, crebbe ancora di più.
«Sta già facendo la sua parte, se non vado errato» replicò Thròr con un lieve accenno di ironia nel vocione grave, dopo un breve istante di silenzio.
«Certo, e non avrebbe potuto affrontare la prova  a cui l’abbiamo sottoposto con maggior dignità e fermezza» ammise Thràin. «Ma sebbene come principe ereditario di Erebor io continui a sostenere fino in fondo l’importanza strategica del suo fidanzamento con Elinor, come padre non posso non riconoscere di avergli chiesto molto … moltissimo.»
Elinor si rese conto solo dopo diversi secondi di non stare più respirando. L’improvviso virare della conversazione su argomenti che la riguardavano le stava facendo tendere le orecchie fino allo spasimo per non perdersi nemmeno il più piccolo sospiro emesso dai due nani.
«Beh, da come si è comportato ieri sera con la ragazza, mi è parso che “la prova a cui l’abbiamo sottoposto” gli risulti tutt’altro che pesante» borbottò Thròr in risposta. Una piccola vampata di calore imporporò la guance di Elinor, e le rese particolarmente difficile, per qualche secondo, concentrarsi sulla risposta di Thràin.
«Che abbia cambiato opinione su di lei è fin troppo chiaro,» disse infatti il principe, senza nascondere il suo compiacimento «e non avrei potuto chiedere di meglio. Ma credo che considerarlo felice di essere stato promesso in matrimonio sia ancora una parola grossa … indipendentemente dal suo attuale giudizio su Elinor.»
«Vieni al punto, Thràin. Sai che detesto i giri di parole» lo interruppe Thròr in tono aspro.
«Bene, allora. Tuo nipote è forte e determinato, e sta già mostrando chiaramente le doti del capo che sa farsi rispettare. E’ consapevole che un giorno Erebor sarà sotto la sua responsabilità, e ha lavorato duramente fin da quando era bambino per dimostrarsi all’altezza di questo compito, senza mai deluderci. Thorin è una risorsa preziosa, per noi, padre … e credo che abbia bisogno, ora più che mai, di sentirsi coinvolto davvero, non soltanto come una pedina da muovere nella scacchiera delle alleanze.»
Una lunga pausa silenzio accolse l’appassionato discorso di Thràin, probabile segno che le parole di elogio per Thorin non avevano scalfito minimamente l’inflessibilità di Thròr.
Quando parlò, infatti, la voce del re di Erebor era intrisa di distaccata freddezza. «E per farlo sentire coinvolto vorresti davvero affidargli un segreto così importante?»
«E’ pronto per assumersi una tale responsabilità. Dobbiamo dargli fiducia!» insistette Thràin, intenzionato, a quanto pareva, a non mollare l’osso finché non fosse riuscito a conquistare il padre alla sua causa, qualunque essa fosse.
«E’ ancora un ragazzo, Thràin! Non ho intenzione di mettere nelle sue mani l’accesso a …»
Una risata incredula di Thràin interruppe ciò che il re stava per dire, ma ciò non impedì ad un lampo di consapevolezza di attraversare la mente di Elinor. La ragazza, stordita, iniziò a sentire il corridoio vorticarle intorno, e dovette aggrapparsi disperatamente al muro di pietra perché le gambe non cedessero rovinosamente sotto il suo peso. Thorin dunque non sapeva ancora … Thorin non era ancora a conoscenza della …
«Io ero persino più giovane di lui, quando me l’hai affidato!» esclamò nel frattempo il principe dei nani. «Adesso voglio che sia lui a ricevere da me il testimone!»
«Tu vuoi? Vuoi? Devo forse ricordarti chi è che comanda nel mio regno?»
Un nuovo, pesante silenzio carico di tensione calò nella stanza, mentre nell’aria vibravano ancora le parole autoritarie pronunciate dal re. Elinor, che non respirava ormai da diversi secondi, credette che persino il suo cuore avesse dimenticato di battere. Le sembrò che passassero ore prima che Thròr riprendesse a parlare, e quando lo fece il sarcasmo nella sua voce era palpabile.
«Confido che non ci sia bisogno che io ti spieghi che più persone vengono a conoscenza di un’informazione, più è alto il pericolo che essa venga divulgata» osservò infatti il re.
«Stai forse insinuando che Thorin potrebbe lasciarsi sfuggire qualcosa al riguardo?» domandò Thràin, tra l’incredulo e l’offeso. «Non accetto che venga messa in discussione la sua lealtà!»
«La lealtà è qualcosa che con questa faccenda c’entra poco, Thràin» replicò Thròr, e questa volta ad Elinor parve di avvertire nella sua voce dispotica un accenno di ansia a stento repressa. «Basta un solo momento di distrazione, un solo istante in cui viene abbassata la guardia, per finire con il parlare troppo.» Poi, borbottando in tono ossessivo e febbrile, come se stesse parlando più a se stesso che al figlio, continuò: «E io non permetterò che ciò a cui tengo di più sia messo a repentaglio per una distrazione … non lo permetterò … mai …»
«Tutto questo non ha senso! Cosa …» fece per intervenire Thràin, ma un sibilo adirato del re lo fece ammutolire all’istante.
«Basta così! Non ti permetto di parlarmi in questo modo! Si tratta del mio tesoro, e condividerò le informazioni che lo riguardano con chi riterrò più opportuno!»
Le parole tagliarono l’aria come una lama affilata, ed Elinor credette, per un lungo istante, che il veleno nella voce di Thròr avesse ridotto definitivamente il figlio al silenzio. Ma, a quanto pare, aveva sottovalutato la caparbietà dei discendenti di Durin: qualche secondo dopo, infatti, Thràin parlò di nuovo, e la freddezza nella sua voce dimostrò che la violenta e ingiustificata esplosione di rabbia del padre non era riuscito a intimorirlo.
«Forse intendevi dire … del nostro tesoro» lo corresse il principe seccamente, senza scomporsi. «Del tesoro di Erebor
Fu la volta di Thròr di rimanere in silenzio. Il suo respiro pesante – carico di quelle che sembravano rabbia e vergogna represse - giungeva ad Elinor a brevi intervalli regolari attraverso lo spiraglio della porta.
«Non ti riconosco più, padre mio» asserì Thràin in un sussurro addolorato e appena udibile. «Da quando sei diventato così sospettoso persino con la tua stessa famiglia? Tutti noi daremmo la nostra vita per Erebor, tutti noi daremmo la nostra vita per te … compreso Thorin. Ti ama moltissimo, e soffrirebbe vedendoti in questo stato …»
«Non c’è niente che non vada in me …» lo interruppe Thròr sulla difensiva. Il suo tono brusco, tuttavia, sembrava adesso molto più tranquillo e meno aggressivo. «Assolutamente niente. Sono solo … stanco per il prolungarsi delle trattative con Thranduil … tutto qui.»
Il lungo, stanco sospiro emesso da Thràin strinse la gola di Elinor in un’involontaria – e indesiderata - morsa di compassione. Non ebbe tempo, tuttavia, di soffermarsi sui sentimenti contrastanti che quella penosa scena stava destando in lei, perché il principe di Erebor parlò di nuovo, ridestando repentinamente la sua attenzione.
«Allora permetti a tuo nipote di aiutarti a portare il fardello delle tue responsabilità» disse Thràin in tono deciso, ma al tempo stesso traboccante di burbero affetto. «La sicurezza di quanto abbiamo di più prezioso trarrà sicuramente beneficio dalla protezione di una mente acuta e da un cuore leale come quello di Thorin.»
Passarono diversi minuti, prima che Thròr si decidesse a parlare. Elinor poteva sentire le dita del re tamburellare nervosamente sul tavolo, quasi seguendo il frenetico ritmo del suo cuore. Le sue labbra si mossero quasi di loro iniziativa, formando una silenziosa e disperata preghiera: le sembrava che il suo destino fosse racchiuso in quegli interminabili istanti, che tutti i suoi piani futuri sarebbero stati determinati dalla risposta che Thròr avrebbe dato. In breve, ogni più piccolo rumore intorno a lei scomparve: il battito del suo cuore, rimbombante e insistente, era la sola cosa che ancora riusciva a udire.
Un grave e vibrante sospiro del re giunse, infine, a spezzare la tensione che si era accumulata dentro e fuori dalla stanza. Elinor aprì gli occhi e deglutì, sulle spine.
«Molto bene» decretò Thròr con una punta di rassegnazione nella voce profonda, mettendo chiaramente fine alla conversazione. «Prenderò in considerazione la cosa.»
Elinor si abbandonò con la schiena contro il muro e lasciò silenziosamente andare il fiato. Sapeva che tra qualche minuto, forse anche prima, Thràin e Thròr si sarebbero ricordati di averla convocata e avrebbero cominciato a chiedersi dove fosse, ma in quel momento non era in grado di pensare a nient’altro che non fosse l’immenso sollievo per la notizia che aveva appena appreso. Thròr non aveva dato ancora una risposta definitiva, ma dal tono che aveva usato era perfettamente chiaro che la sua capitolazione era molto probabile. Elinor ringraziò silenziosamente i Valar per la capacità di Thràin di essere stato così persuasivo: non poteva permettersi di rinunciare a Thorin come strumento per scoprire quale fosse la parola magica che permetteva l’accesso all’Archepietra.
Non adesso che, con lui, sembrava avere il coltello dalla parte del manico.


ANGOLO AUTRICE: Ok … ehm … il mio ritardo è stato davvero imbarazzante, quindi non posso fare altro che gettarmi ai vostri piedi, cospargermi la testa di cenere e chiedervi umilmente perdono. Posso solo giustificarmi dicendo che è stato un periodo universitario molto intenso, e l’estate non è stata da meno, dato che avevo una montagna di esami da preparare... Inoltre l’ispirazione era un po’ calata, anche perché mi sono dedicata alla messa a punto di altri progetti di cui forse, tra un po’, verrete a conoscenza.
Ma venendo a noi … Come avrete visto, questo capitolo è stato leggermente più corto degli altri e meno denso di avvenimenti, ma soltanto per esigenze di coerenza interna e di struttura dei capitoli. Spero, però, che la scena iniziale, quella in cui Thorin ed Elinor parlano nei Giardini interni, sia stata di vostro gradimento ;) Io traboccavo sdolcinatezza infinita, mentre scrivevo, anche se per adesso di sdolcinato è successo ben poco …
Bene, concludo dicendovi che spero di riprendere un ritmo di aggiornamento accettabile e che, se vi fa piacere tenervi aggiornate con le mie storie e i miei progressi nello scriverle, non dovete fare altro che passare dalla pagina Facebook dedicata al mio account EFP, ovvero

 
Mrs Black EFP
 
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno recensito e recensiranno, e anche a chi ha solo speso un po’ del suo tempo per leggere questa storia! E GRAZIE IMMENSAMENTE per la vostra pazienza per la mia incostanza nell’aggiornare :)
A presto (spero),

Linda

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Capitolo 8
*** Buchi nell'acqua ***


8. BUCHI NELL’ACQUA

La biblioteca di Erebor era assai più grande di quanto Elinor avesse mai immaginato.
Si trovava ai livelli più bassi del palazzo reale, sepolta sotto innumerevoli strati di terra e di pietra, raggiungibile soltanto attraverso una lunga e stretta scalinata tutta curve e consumata dal tempo, per scendere la quale – secondo gli approssimativi calcoli di Elinor – occorrevano almeno dieci minuti.
Una volta portata a termine la discesa nelle viscere della terra, il visitatore che avesse avuto la pazienza di cimentarsi in quel lungo percorso si ritrovava in un’ampia sala dal basso soffitto a volta sostenuto da un’enorme colonna centrale, talmente massiccia che quattro uomini disposti in cerchio a braccia aperte non sarebbero riusciti a cingerla del tutto. Qui, in un profondo silenzio rotto soltanto dal fruscìo della pergamena e dallo scricchiolio delle penne che correvano veloci da un lato all’altro dei fogli, sedevano su banchi di legno inclinati almeno una ventina di nani intenti a ricopiare diligentemente i volumi più preziosi.
Da questa prima sala era possibile passare in altre stanze – tutte uguali, e comunicanti l’una con l’altra attraverso ampie arcate – nelle quali, in profonde nicchie scavate nei massicci muri di pietra, erano allineati centinaia e centinaia di libri antichi, polverosi e consumati dal tempo, rilegati in spesso cuoio dagli angoli consunti. Al centro di ogni stanza, lunghi tavoli di solido legno di quercia provvedevano ad offrire un appoggio a chiunque desiderasse consultare i pesanti volumi, molti dei quali sollevabili a stento da una sola persona.
Ed era a uno di questi tavoli che Elinor, in compagnia di un grosso libro intitolato Annali del regno di Erebor, aveva scelto di sedersi.
“Fa troppo freddo” pensò, mentre un brivido le attraversava la schiena e le mani andavano a sfregare energicamente le braccia per scaldarle. Doveva trovarsi centinaia e centinaia di metri sottoterra, rifletté dandosi della stupida; l’abito di lino leggero che aveva scelto quella mattina dal baule non si era rivelato granché adatto ad affrontare le temperature dei sotterranei del palazzo, e i bracieri che crepitavano placidamente in ognuna delle stanze della biblioteca erano appena sufficienti a far sì che, quando respirava, il suo fiato non si condensasse in una nuvoletta.
Avrei dovuto portarmi un mantello.
Avrebbe dovuto, senza dubbio. Ma ormai era troppo tardi per pensarci.
Quando, quella mattina, aveva preso la decisione di recarsi per la prima volta nella biblioteca di Erebor, non ci aveva riflettuto molto sopra: aveva semplicemente chiesto indicazioni sul percorso da seguire, aveva sceso più in fretta possibile l’interminabile scalinata che portava ai sotterranei, e aveva iniziato a cercare febbrilmente tra gli scaffali scavati nella pietra. Che cosa cercasse, non lo sapeva bene nemmeno lei. Sapeva soltanto che aveva agito spinta dalla disperazione.
Da quando era venuta a conoscenza del fatto che Thorin non sapeva la parola magica per accedere all’Archepietra – e che ne sarebbe stato all’oscuro ancora per un tempo indefinito – la sua vita ad Erebor si era trasformata in un orrendo limbo tra il desiderio bruciante di agire e la paralizzante consapevolezza di non poterlo fare finché non avesse scoperto qualcosa in più sulle intenzioni di Thròr. Tentare altre vie per raggiungere il proprio scopo sarebbe stato – nel migliore dei casi – fallimentare, se non addirittura rischioso: se Thròr non si fidava a rivelare il segreto nemmeno a suo nipote, sarebbe stato impensabile credere che Dìs o Balin (la cui fiducia di certo non mancava ad Elinor, e che la ragazza avrebbe potuto facilmente sfruttare) ne sapessero qualcosa; e provare con lo stesso re o con Thràin, adesso che la conversazione avuta nella Sala del Consiglio aveva risvegliato la loro attenzione in proposito, sarebbe equivalsa ad una confessione esplicita delle proprie intenzioni …
No. Alla fine dei conti, Thorin rimaneva la carta migliore a sua disposizione, la via di gran lunga più sicura sia per la buona riuscita del piano sia per tentare di rimanere viva.
Purtroppo, in quei due lunghi giorni che erano trascorsi da quando aveva ascoltato la conversazione tra Thràin e Thròr, non aveva avuto nessuna occasione di trovarsi da sola con lui come era successo la sera del banchetto, perciò le era stato impossibile indagare in merito a quale decisione il re avesse preso nei confronti del nipote.
«Sono mortificato di non poter trascorrere più tempo con voi» le aveva detto Thorin in tono sinceramente dispiaciuto quando, il giorno prima, si erano incontrati per caso in un corridoio del palazzo, lei diretta verso la sala da pranzo e lui verso le fucine. «Come vedete, il lavoro e le responsabilità di governo mi lasciano a malapena il tempo di sedermi per consumare un pasto come si deve … spero che capirete.»
Elinor, facendo del suo meglio per nascondere l’agitazione che le serrava la gola, aveva risposto con il più comprensivo dei sorrisi che non doveva assolutamente preoccuparsi per lei e che, in futuro, di certo non sarebbe mancato il tempo da passare insieme. Ma quando Thorin, dopo averla salutata con un cenno del capo una calda espressione di gratitudine negli occhi chiari, si era allontanato lungo il corridoio, il panico aveva rischiato di sopraffarla. Aveva avuto bisogno di ogni più piccolo brandello del suo autocontrollo per impedirsi di cadere preda di un crollo nervoso, mentre cercava con tutte le sue forze di scacciare dalla mente l’orribile scena che le si stava materializzando davanti: suo padre o Uren – o, peggio ancora, entrambi – che arrivavano per la solita visita a chiederle se ci fossero novità, e lei che, gli occhi rivolti a terra, rispondeva con un filo di voce che no, non ce n’erano; che tutto era ancora fermo ad un punto morto, e che non aveva la minima idea di quando quello stallo si sarebbe risolto; la speranza degli occhi di suo padre che si spegneva nella delusione, il sadico trionfo nello sguardo di Uren … Elinor era certa che non sarebbe riuscita a sopportare niente di tutto ciò.
Si era aggirata per il palazzo come una bestia in gabbia per tutto il resto della giornata, pensando disperatamente a cosa poteva fare per tirarsi fuori da quell’esasperante situazione e dandosi ogni volta la stessa, desolante risposta: niente. La verità, anche se la parte di lei più caparbia e ostinata si rifiutava di ammetterlo, era che, finché non fosse riuscita a rimanere da sola con Thorin e a parlargli, sarebbe stata del tutto impotente. Era un pensiero, questo, che la faceva impazzire. Così il giorno dopo, più per placare la sua frustrazione che nelle speranza di trovare veramente qualcosa di utile, non aveva trovato niente di meglio da fare che andare in biblioteca e rimanere per l’intera mattinata a sfogliare febbrilmente un volume polveroso dopo l’altro.
Strizzò gli occhi alla tremula luce della candela ormai quasi del tutto consumata che ondeggiava placidamente accanto alla sua mano destra, mentre il suo sguardo distratto ritornava - per quella che doveva essere la decima volta in cinque minuti - sulla stessa riga, fitta di rune vergate con calligrafia stretta e precisa. La sua accettabile conoscenza del nanico antico, che in principio aveva attirato il suo sguardo sulla parola “prezioso”, le permise di rendersi conto che il passaggio, in realtà, era per lei di scarso interesse: sapere che le patate erano da millenni un alimento prezioso nella dieta dei nani non l’avrebbe certo aiutata ad arrivare più vicina all’Archepietra, a meno di non voler scagliare chili di tuberi in testa a uno dei membri della famiglia reale nella speranza che si decidesse a rivelarle la parola magica.
Voltò pagina con un gesto di stizza, resistendo come meglio poteva alla tentazione di scaraventare Annali del Regno di Erebor contro la parete. La sensazione di stare ingaggiando una disperata – e soprattutto vana – lotta contro il tempo non ne voleva sapere di abbandonarla, ed Elinor era perfettamente consapevole che il motivo della sua ansia non era dovuto soltanto all’imminente visita di Uren e di suo padre …
«Prima che tu te ne vada, Elinor, vorrei darti un importante annuncio» le aveva detto due giorni prima Thràin nella Sala del Consiglio. La ragazza era sul punto di congedarsi dopo aver risposto con un modesto sorriso e poche parole imbarazzate ai commossi ringraziamenti del principe e a quelli ruvidi e assenti del re, ma le inaspettate parole di Thràin l’avevano trattenuta prima ancora che potesse voltarsi verso la porta. «Questa mattina, dopo esserci consultati,» aveva continuato il nano con la voce piena di evidente compiacimento «io e Sua Maestà abbiamo convenuto che, visto il buon andamento delle trattative con gli Elfi, i tempi sono maturi per ufficializzare la tua unione con Thorin: per questo abbiamo stabilito la data per la festa di fidanzamento.»
Elinor gli aveva rivolto uno sguardo a dir poco disorientato. «La … la festa di fidanzamento?»
«Precisamente. Tuo padre te ne avrà parlato, presumo … I matrimoni nanici sono sempre preceduti da una serata di cibo, canti e danze in cui la futura unione dei promessi sposi viene festeggiata dalle rispettive famiglie.»
Ad Elinor era parso che qualcuno le avesse appena sferrato un violento pugno all’altezza dello stomaco. Solo con estrema difficoltà era riuscita a trovare la voce per rispondere, in un confuso balbettio: «No … no, a dire la verità non ero a conoscenza di … di questa usanza.»
«Naturalmente, tuo padre avrà la possibilità di invitare chiunque riterrà più opportuno» aveva continuato Thràin, senza dare segno di accorgersi del violento turbamento che si era impossessato di lei. «E da parte nostra, se re Thranduil vorrà concederci l’onore, saremmo felici di ospitare alcuni rappresentanti della famiglia reale di BoscoVerde. Ci teniamo molto a dimostrare le nostre buone intenzioni nei loro confronti … non è così, Vostra Maestà?»
Un burbero “ovviamente” da parte di Thròr – che fino a quel momento era rimasto in perfetto silenzio con le braccia possenti incrociate sul petto, apparentemente perso in pensieri di tutt’altra natura – era stato tutto ciò che il principe aveva ottenuto in risposta.
Elinor, da parte sua, era rimasta per diversi secondi completamente incapace di sollevare la minima obiezione, mentre il suo sguardo rimbalzava impotente tra i due nani. Alla fine era riuscita a recuperare sufficiente presenza di spirito da chiedere a Thràin quale fosse la data che avevano stabilito per la festa, ma la risposta del principe non aveva fatto altro che aumentare ulteriormente il nodo che le serrava la gola.
«Fra cinque giorni» le aveva comunicato infatti il nano in tono allegro. «Proprio in coincidenza con il primo giorno d’estate. E a proposito di questo, vorrei aggiungere che, se è tuo desiderio farti confezionare un nuovo abito per l’occasione, non dovrai far altro che recarti dalle nostre sarte qui ad Erebor, che saranno felici di soddisfare qualunque tuo desiderio!»
Elinor ricordava soltanto di aver annuito, mormorando dei confusi ringraziamenti, e di aver colto di buon grado il pretesto di recarsi subito alla sartoria del palazzo per congedarsi al più presto dalla Sala del Consiglio. Era assolutamente certa di non riuscire a rimanere in quella stanza un momento di più: le mancava l’aria, e le parole che uscivano dalle labbra di Thràin le giungevano sempre più come un rumore vago, indistinto e privo di significato.
In sartoria c’era andata davvero, alla fine, e il lungo percorso nei freschi corridoi del palazzo era stato un buon modo per riprendersi e scaricare la tensione accumulata in quei lunghi minuti. Anche scegliere la stoffa per il vestito e rimanere immobile a braccia aperte per farsi prendere le misure dalle sarte era stato in qualche modo piacevole, e l’aveva distratta, almeno per un po’, dalla sgradevole sensazione di soffocamento che la notizia della festa di fidanzamento le aveva provocato.
 “Nell’anno 2054 della Terza Era della Terra di Mezzo non si riportano eventi significativi …”
Elinor si sfregò stancamente gli occhi con le dita gelate, mentre le rune  – dal significato di nuovo totalmente inutile ai fini della sua ricerca – iniziavano a danzarle davanti agli occhi confondendosi in macchie indistinte.
Quanto aveva dormito, quella notte? Tre ore? Forse quattro, a voler essere generosi. In ogni caso, non abbastanza da poter affrontare un’intera mattinata sui libri con la dovuta concentrazione. Sentiva il sangue pulsarle fastidiosamente contro le tempie, e un’orrenda sensazione di compressione all’interno del cranio le faceva temere che, da un momento all’altro, il cervello le sarebbe esploso per la troppa attività delle ultime quarantott’ore.
Inspirò ed espirò lentamente, cercando di calmarsi e di scacciare dalla mente gli stralci dell’ultima conversazione avuta con Thràin. Il fatto che tra pochi giorni ci sarebbe stata una festa di fidanzamento non significava niente. Non cambiava assolutamente niente. L’aveva sentito dalle labbra del principe, e lei stessa, poco prima, se ne era accertata andando a documentarsi su svariati libri: l’evento in questione aveva il semplice scopo di festeggiare l’imminente unione dei due promessi sposi insieme alle famiglie e alle persone a loro più vicine – al contrario del matrimonio vero e proprio, ai cui festeggiamenti era invitata a partecipare l’intera popolazione – e non prevedeva rituali o cerimonie di alcun genere. Una volta conclusa la serata, si sarebbe ritrovata nella stessa identica situazione in cui si trovava adesso, senza aver ancora contratto nei confronti di Thorin alcun tipo di obbligo o promessa. Sarebbe stata ancora libera. Libera di continuare a perseguire i suoi scopi, libera di mandare a monte quella falsa promessa di matrimonio quando fosse stato il momento e l’Archepietra si fosse trovata tra le sue mani.
E allora perché, nel nome di tutti i Valar, si sentiva con le spalle al muro come se quella data segnasse un punto di non ritorno? Come se dovesse fare di tutto per concludere il suo compito prima che quel giorno arrivasse?  A cosa era dovuta quell’ansia che la stava portando pericolosamente vicina ad un crollo emotivo? Elinor si abbandonò contro lo schienale e fissò la parete piena di libri di fronte a lei con sguardo vuoto ma pieno di nuova determinazione, imponendosi un ritmo respiratorio lento e regolare. Non poteva permettersi di perdere la lucidità proprio adesso. Le cose si stavano senza dubbio complicando, ma era proprio per questo che le occorreva ogni più piccola briciola della sua razionalità. Perdere il controllo di sé e farsi trascinare dalle emozioni non avrebbe certo migliorato la sua situazione.
Se non puoi sistemare le cose, Elinor, cerca almeno di non farle peggiorare.
Tanto per cominciare, decise, rimanere sepolta in quel sotterraneo buio, freddo e umido, cercando nemmeno lei sapeva che cosa e alimentando in tal modo la sua frustrazione e la sua paranoia, non le sarebbe stato di nessun aiuto. Doveva uscire di lì, respirare aria fresca, distrarsi e lasciar perdere quelle sterili elucubrazioni almeno per un po’. Avrebbe potuto ritornarci sopra più tardi, a mente fredda. Per adesso, tutto quello che le serviva era qualche ora di allenamento con arco e frecce, per sgombrare la mente e ritrovare un po’ di tranquillità.
Leggermente rinfrancata da questa gradevole prospettiva, Elinor fece per chiudere con decisione il grosso libro, ma proprio mentre afferrava con decisione il bordo della spessa copertina polverosa lo sguardo le cadde su un gruppo di rune in fondo alla pagina. Il suo cuore ebbe un balzo quando, tra le righe vergate con calligrafia stretta e regolare, riuscì a distinguere chiaramente le parole “gioiello del re”.
Con eccitazione carica di aspettativa si accinse a tradurre il contenuto della frase, completamente dimentica del suo proposito di andare ad allenarsi al tiro con l’arco.
L’anno 1999 della Terza Era della Terra di Mezzo vide il ritrovamento di quella che nella lingua corrente è conosciuta come Archepietra, e che il popolo di Durin chiama gioiello del re o cuore della montagnariuscì a tradurre dopo lunghi minuti, dando fondo a tutte le sue abilità. “Essa venne alla luce nelle oscure profondità delle miniere di Erebor e fu inviata dai Valar a re Thràin I e ai suoi discendenti, affinché la natura divina del loro diritto a regnare e la loro autorità suprema sui Sette Eserciti dei regni dei Nani non potessero essere messe in discussione da alcuno.
Il paragrafo dall’asciutto tono cronachistico riguardante l’Archepietra terminava lì, e il testo continuava al capoverso successivo trattando di un avvenimento completamente diverso.
La delusione fece trarre ad Elinor un profondo sospiro di abbattimento, ma la ragazza comprendeva benissimo che le sue speranze erano forse state gonfiate eccessivamente dalla disperazione. In fondo, che cosa si era aspettata? Di trovare la parola magica in bella mostra in una di quelle pagine, magari accompagnata da indicazioni dettagliate su come raggiungere la Camera del Tesoro e una cordiale esortazione, per chiunque lo desiderasse, ad appropriarsi in tutta tranquillità della gemma? Aveva saputo fin dall’inizio che le sue ricerche si sarebbero probabilmente risolte con un buco nell’acqua …
Stava di nuovo per chiudere il libro, ormai rassegnata all’amarezza della sconfitta, quando l’eco di alcune voci la raggiunse, catturando la sua attenzione. Inizialmente non riuscì a capire né a chi appartenessero né di cosa stessero parlando: i loro proprietari sembravano aver appena fatto il loro ingresso nella sala iniziale della biblioteca, e la distanza, nonché l’eco che rimbombava contro il soffitto a volta, rendevano del tutto incomprensibili le loro parole. Poi, mano a mano che i nuovi arrivati attraversavano le sale, avvicinandosi sempre di più, i loro discorsi iniziarono ad acquistare forma e significato.
«Non voglio illudermi» stava dicendo la voce più grave a profonda delle due. «E non voglio che mi nascondiate nulla. Sospetto da tempo quanto la situazione sia seria.»
Lo stomaco di Elinor fu colto da un improvviso – ma tutt’altro che spiacevole - spasimo di sorpresa, quando la ragazza realizzò che il proprietario della voce altri non era che Thorin.
La persona che lo accompagnava, nel frattempo, aveva fatto seguire la parole del giovane principe da un lungo sospiro carico di significato. «Temo che siate tra i pochi, allora, ad esservene accorto» rispose, la voce intrisa di una profonda amarezza. «Vostro padre, a quanto pare, non è dello stesso avviso.»
Un grugnito da parte di Thorin fece capire ad Elinor che il nano non si aspettava niente di meno. «Mio padre si rifiuta di vedere la realtà, il che è molto diverso» rispose infatti in tono cupo. «Le condizioni di mio nonno sono talmente evidenti, ormai, che nemmeno il più ingenuo dei bambini potrebbe ingannarsi al riguardo.»
L’altra voce – una voce che ad Elinor suonava sempre più familiare, anche se in quel momento non le avrebbe saputo attribuire un proprietario – tacque per diversi secondi, come soppesando attentamente le parole da usare. «Non posso negare di condividere la vostra preoccupazione» disse infine. «Negare l’esistenza di una malattia non è mai un buon modo per far sì che essa sparisca. Mi stupisco ancora di essere riuscito a convincere Sua Maestà a sottoporsi a delle visite più o meno regolari: è un vero osso duro, non c’è che dire.»
Thorin sbuffò. «Mio nonno continua a credere che voi lo stiate tenendo sotto controllo per via di una forma acuta di irritabilità nervosa … il che, in un certo senso, è la verità» rispose in tono di amara ironia. «E, ditemi … come vi è sembrato questa mattina? Io non sono ancora riuscito a vederlo.»
Le voci, d’un tratto, avevano smesso di avvicinarsi. Elinor capì che la serietà della conversazione doveva averli spinti a fermarsi in una delle sale, come se entrambi fossero consapevoli che ciò che sarebbe seguito avrebbe richiesto un’attenzione e una fermezza particolari. Elinor avvertì una vaga sensazione di senso di colpa fare capolino nella sua coscienza: era la seconda volta in pochi giorni che si ritrovava ad ascoltare conversazioni private, ma per qualche ragione il fatto che questa volta la cosa riguardasse Thorin la faceva sentire maggiormente a disagio …
«Ebbene,» riprese la seconda voce, dopo secondi di silenzio che parvero interminabili «non vi nasconderò di aver trovato vostro nonno assai peggiorato rispetto all’ultima volta. In effetti, al contrario di quanto mi aspettassi, la malattia sembra essere progredita in modo eccezionalmente rapido, e i sintomi fisici sembrano essersi fatti sempre più evidenti. C’è stata una perdita di peso consistente, gli occhi cerchiati e arrossati indicano una forte mancanza di sonno, e i momenti di perdita di lucidità in cui inizia a parlare da solo si fanno sempre più frequenti. Non escludo che, nei momenti in cui riesce ad addormentarsi, possano verificarsi episodi di sonnambulismo, o che possa iniziare a parlare nel sonno … » esitò per un attimo. «Vostra Altezza, dato che mi avete chiesto di parlare con franchezza, vi dirò ciò che penso: credo che le condizioni di re Thròr abbiano poche speranze di miglioramento, e che, anzi, dobbiate aspettarvi un sempre più rapido declino della sua mente.»
Da parte di Thorin, per molti secondi, non ci fu altro che un pesante e drammatico silenzio. Era evidente che si aspettava qualcosa del genere, e che quelle parole non l’avevano colto del tutto impreparato. Ma sentirselo dire in modo così diretto, così brutale, doveva essere stato comunque un duro colpo, per lui. Elinor, senza vederlo, poteva quasi immaginare le sue narici dilatate e le sue labbra strette nello sforzo di controllare le sue violente emozioni, con la forza e la caparbietà che solo un Durin poteva dimostrare.
«Capisco» si limitò a rispondere il nano con voce sorda ma ferma. «Capisco … »
«Mi dispiace molto. Ma, almeno voi, dovevate saperlo.»
Elinor non avrebbe mai pensato che qualcuno potesse esprimere tanto dolore semplicemente restando in silenzio, ma fu costretta a ricredersi: la sofferenza di Thorin poteva sentirla nell’aria, come se i suoi tentativi di reprimerla non potessero evitare che essa straripasse all’esterno, rendendo l’aria della biblioteca ancora più gelida.
Iniziò a provare uno strano malessere all’altezza della bocca dello stomaco. Mentre, quando aveva origliato la conversazione tra Thràin e Thròr, il senso di colpa era stato presto sopraffatto dalla curiosità, adesso l’unica cosa che provava era un impellente desiderio di andarsene via; ma, come per un sadico scherzo del destino, questa volta non aveva la possibilità di allontanarsi indisturbata: se voleva andarsene, doveva per forza passare dal punto in cui si trovava Thorin con il suo compagno, e quindi rivelare la sua presenza, nonché il fatto abbastanza evidente che aveva sentito tutto.
Thorin, nel frattempo, sembrava aver recuperato la padronanza di sé. Facendo di tutto per mantenere la sua voce più ferma e distaccata possibile, come se l’ipotesi che stava per avanzare non lo turbasse minimamente, chiese: «E … sapete se c’è la possibilità che questa malattia possa rivelarsi in qualche modo … ereditaria
L’aria vibrò per un attimo sotto il terribile peso di quelle parole, ma Thorin non fece in tempo a ricevere alcuna risposta: Elinor, infatti, consapevole di non poter resistere un minuto di più, aveva chiuso con un tonfo sordo il libro degli Annali del regno di Erebor, provocando (di proposito) un’eco che doveva aver raggiunto ogni angolo della biblioteca. Si era appena alzata dalla sedia e aveva appena riposto – con notevole sforzo – il volume nella nicchia doveva l’aveva preso, quando Thorin fece il suo ingresso nella stanza seguito da un uomo abbastanza alto, dai capelli striati di grigio e folti baffi scuri, che gli davano un’aria severa ma allo stesso tempo rassicurante.
«Elinor!» esclamò Thorin sorpreso, mentre la sua espressione corrucciata si distendeva leggermente. «Non mi aspettavo di trovarvi quaggiù … »
«Nemmeno io, se è per questo» rispose prontamente la ragazza con una piccola riverenza e il sorriso più innocente che riuscì a trovare. «Mi era stato detto che la biblioteca di Erebor non è mai molto frequentata.»
I loro sguardi si incontrarono fugacemente, rivelando tutto l’imbarazzo provocato da quell’incontro inaspettato. Thorin era consapevole che la sua conversazione, con tutta probabilità, era stata udita, ed Elinor era palesemente mortificata di non essere riuscita ad evitarlo.
«Permettete che vi presenti Herion di Dale?» chiese il nano dopo un attimo, sollevato di avere l’opportunità di non lasciar languire la conversazione. «In città ha la fama di essere un medico molto esperto, e recentemente ha accettato di mettere le sue capacità al servizio della nostra famiglia.»
L’accompagnatore di Thorin si fece avanti con un sorriso di rispettosa cortesia, ed Elinor, con un sobbalzo di piacevole sorpresa, comprese perché la sua voce gli era parsa così familiare.
«Conosco molto bene Herion di Dale» rispose accennando un inchino, mentre il suo viso si apriva in un genuino sorriso. «La mia famiglia beneficia ormai da molti anni della sua esperienza in campo medico. Stando a quello che mi hanno raccontato i miei genitori, credo che mi abbia vista nascere … »
«Ho avuto questo onore» confermò l’uomo. La sua voce era profonda e leggermente roca, ma il suo tono mite era simile ad una rassicurante carezza; gli occhi brillavano di una luce affettuosa ed orgogliosa insieme. «Parola mia, Elinor, se non avessi saputo del fidanzamento da vostro padre, e se Thorin, entrando, non vi avesse chiamata per nome, avrei stentato a riconoscervi! L’ultima volta che vi ho vista eravate una bambina di dieci anni con le trecce pronta a partire per il Reame Boscoso, e adesso vi ritrovo come una giovane donna in procinto di sposarsi.»
Elinor tentò di dissimulare con una risata il leggero rossore che le aveva invaso le guance. Era fin troppo consapevole dello sguardo in tralice con cui Thorin la scrutava. «Beh, ma le trecce le ho ancora!» esclamò vivacemente, maledicendosi l’attimo dopo per la stupidità dell’affermazione. «Non sono poi cambiata tanto!»
«No» rispose il medico in tono gentile ma velato di malinconia, lo sguardo improvvisamente inumidito. «No, non lo siete. Avete sempre gli occhi e il sorriso di vostra madre. E queste sono cose che non si dimenticano facilmente.»
Qualcosa iniziò a pizzicare fastidiosamente gli angoli degli occhi di Elinor, e la ragazza fu costretta a sbatterli diverse volte, fingendo di esaminare con cura la punta delle proprie scarpe, prima di riuscire ad alzare di nuovo lo sguardo sull’uomo.
«Non ho mai avuto il coraggio di dirlo né a voi né a vostro padre,»aggiunse questi, facendo un visibile sforzo per mantenere ferma la voce «ma sono davvero addolorato di non essere riuscito a fare niente per lei.»
Elinor aveva notato che Thorin aveva fatto qualche passo indietro e che si manteneva in disparte, in silenzio, fissando gravemente un punto imprecisato del pavimento con le folte sopracciglia aggrottate e le mani giunte dietro la schiena. Gli fu grata per la sua discrezione . Doveva essersi ricordato della loro conversazione nei Giardini di qualche sera prima, e di quanto fosse difficile per lei affrontare l’argomento …
«Non tormentatevi, vi prego» rispose a Herion, cercando di mascherare con la gentilezza la commozione che le stringeva il cuore. «Sapete meglio di me quanto la malattia di mia madre fosse incurabile. Avete fatto quanto avete potuto, e sono sicura che anche mio padre ne è consapevole. So che ripone molta fiducia in voi.»
L’opaco sorriso che increspò le labbra del medico fece capire a Elinor che le sue parole erano riuscite, se non a convincerlo del tutto, perlomeno a consolarlo un po’...
«Perdonatemi» si riscosse l’uomo dopo qualche secondo, riacquistando al padronanza delle proprie emozioni. «Temo di avere incupito la vostra giornata, riportandovi alla mente questi tristi ricordi. Comunque, provvederò presto a liberarvi della mia presenza: ho dei pazienti, a Dale, in attesa che vada ad occuparmi di loro.»
«La vostra presenza non mi disturba affatto» lo rassicurò Elinor con un sorriso. «Anzi, avervi rivisto dopo tanto tempo è stato davvero un grande piacere. Ma, se dovete andare, non voglio trattenervi oltre.»
Herion chinò il capo in segno di ringraziamento. «Se non avete bisogno di altro, principe …» disse, rivolto a Thorin. Elinor notò che nei suoi atteggiamenti verso il nano non c’era traccia di affettazione o di servilismo dovuti all’inferiorità del suo rango, e nemmeno di altezzosa superiorità dovuta alla differenza di statura, ma soltanto un profondo rispetto mescolato ad orgogliosa dignità. Thorin, che sembrava apprezzare quanto lei i modi del medico, fece un segno di diniego con il capo. «Andate pure, Herion. Ci vediamo tra qualche giorno per la solita visita.»
«Spero di avere l’onore di rivedervi presto, Elinor» disse l’uomo prima di andarsene. «Ma se ciò non dovesse accadere, vogliate accettare i miei più sinceri auguri per il vostro matrimonio.»
Elinor cercò di sorridere, l’imbarazzo che le imporporava le guance. «Vi ringrazio molto …» fu tutto quello che riuscì a rispondere con la gola secca, evitando con tutto l’impegno possibile di guardare Thorin. Dopodiché, il medico si congedò da entrambi con un rapido inchino e sparì oltre l’arcata che collegava la stanza a quella precedente.
Sia Elinor che Thorin rimasero per un lungo momento a fissare in silenzio il punto in cui l’ultimo lembo della sua veste era sparito svolazzando, seguendo ognuno il corso dei propri pensieri. Elinor poteva immaginare senza difficoltà quali fossero quelli di Thorin; dal canto suo, l’inaspettato piacere di aver rivisto Herion – parte, anche se in modo secondario, di un’infanzia di cui troppo spesso si accorgeva di sentire la mancanza – si mescolava ad un vago disagio per il modo stranamente affrettato in cui l’uomo si era congedato. Come se, nonostante l’affetto nei suoi confronti, rimanere in sua presenza la mettesse in difficoltà …
Adesso stai esagerando, Elinor!
A quanto pareva, lo stato d’animo alterato in cui si trovava da giorni stava iniziando a farle vedere cose che non esistevano …
«Non avevo idea che Herion fosse anche il medico della vostra famiglia» disse, dando voce al primo pensiero che le passò per la testa e tentando di distrarsi dalle sue assurde congetture.
Thorin, che aveva ancora lo sguardo fisso verso il punto in cui Herion era sparito, si riscosse leggermente e le rivolse un vago sorriso distratto. «Solo da alcuni anni, in effetti» rispose. «Prima avevamo un guaritore nano, ma sfortunatamente è venuto a mancare. Abbiamo sentito che le conoscenze di Herion in fatto di medicina erano assai avanzate, e così …»
Elinor sorrise. «Posso confermare che siete in buone mani. E’ una delle persone più capaci, oneste e gentili che mi sia capitato di incontrare.»
«Sì, sembra prendere molto sul serio il suo lavoro e molto a cuore i suoi pazienti. Quando ho menzionato la morte di vostra madre, mi è parso molto turbato …»
«Già …» mormorò Elinor con le sopracciglia leggermente aggrottate, inspiegabilmente assalita, per la seconda volta, dalla strana sensazione che non tutto le fosse completamente chiaro. Prima che avesse il tempo di formulare compiutamente questo pensiero, tuttavia, Thorin intervenne a cambiare argomento.
«Dunque, Elinor» domandò in tono vagamente ironico «che cosa vi porta quaggiù? E’ un luogo un po’ tetro, dove passare la mattinata …»
«Dite?» rispose la ragazza, a metà tra il divertito e il sorpreso. «Dovete avere davvero una scarsa considerazione delle biblioteche!»
«Non sono certo il posto dove preferisco trascorrere il mio tempo. Libri polverosi e rotoli di pergamena ammuffiti non fanno per me … ma vi prego di non dirlo a Balin, o avrà la sensazione che tutto il suo tempo passato a cercare di convincermi a studiare sarà andato sprecato.» Elinor non poté fare a meno di ridacchiare, prima che Thorin aggiungesse: «Sembra che a voi, invece, questo tipo di cose interessi molto …»
Elinor esibì un sorrisetto impertinente che fece brillare i suoi occhi verdi. «Vi avevo promesso che ce l’avrei messa tutta per integrarmi nel vostro mondo, ed è esattamente quello che stavo facendo: mi stavo documentando sulla storia di Erebor e sulle usanze naniche.»
Lo sguardo di piacevole sorpresa con cui Thorin la fissò la fece vergognare, per un breve istante, della bugia che aveva appena raccontato … anche se, in questo caso, si trattava più che altro di una mezza bugia.
«Capisco» rispose il nano fissandola con strana intensità. «E … avete trovato qualcosa di interessante?»
Elinor si prese solo un breve momento per riflettere. «In parte» rispose. «Ma credo di dover approfondire le mie ricerche.» Per questa volta poteva anche permettersi di raccontare la verità. Avrebbe dato un po’ di sollievo – seppure solo illusorio – alla sua coscienza.
Thorin la squadrò con interesse ancora per qualche istante, come se volesse porle ulteriori domande in proposito; alla fine, però, l’ambigua risposta di Elinor sembrò bastargli.
«Vogliamo risalire in superficie? Credo che sia quasi ora di pranzo, e a quanto vedo la temperatura di queste sale non vi si confà granché …» propose, accennando all’evidente pelle d’oca comparsa sulle braccia seminude di Elinor. «Sempre che qui abbiate concluso, ovviamente.»
Elinor non avrebbe potuto essere più felice di avere l’opportunità di abbandonare il freddo della biblioteca, e si affrettò a dare a Thorin il suo piena consenso alla proposta. Tuttavia, fu con una certa riluttanza che si avviò dietro di lui per raggiungere l’uscita. L’apparente leggerezza e l’ironia con cui le si era rivolto, non erano riuscite a far scomparire dagli occhi di Thorin quell’espressione pensosa e vagamente sofferente che adesso, guardandolo di sottecchi mentre camminavano fianco a fianco, Elinor poteva scorgere senza difficoltà. L’aria della biblioteca, d’un tratto, sembrò farsi due volte più pungente.
«Credo di dovervelo dire» iniziò la ragazza d’impulso, senza riuscire a trattenersi oltre. «Io … temo di aver ascoltato buona parte della vostra conversazione con il dottore.»
Prima di continuare si concesse di sbirciare fugacemente il viso di Thorin, ma lo sguardo del nano era ancora puntato dritto davanti a lui, e sembrava non aver alterato minimamente la propria espressione. Elinor si costrinse a portare a termine il discorso: «Mi rendo conto che si trattava di notizie private, ma mi trovavo già lì quando siete arrivati, e non ho potuto evitarlo. Mi dispiace molto.»
Thorin si voltò finalmente verso di lei con uno strano, benevolo sorriso sghembo, ed Elinor avvertì una sensazione di piacevole sollievo allargarle il petto. «L’avevo già intuito» si limitò a rispondere Thorin in modo tutt’altro che ostile. «Ma non preoccupatevi, non sono in collera con voi per questo. Avevate tutto il diritto di essere lì. In un certo senso, è colpa mia: ero convinto che la biblioteca fosse un luogo adatto per parlare con tranquillità, visto che di solito è sempre deserta. Comunque, non ha importanza» concluse. «Ho ragione di credere che presto non sarete la sola a sapere esattamente in che condizioni versa la salute di mio nonno …»
Elinor non ebbe bisogno di chiedergli a cosa si riferiva: le allusioni di Herion riguardo al fatto che la malattia stesse progredendo velocemente e diventando sempre più evidente non lasciavano aperti molti margini di interpretazione …
«Mi dispiace, davvero …» fu tutto quello che riuscì a balbettare, senza riuscire ad evitare, un secondo dopo, di sentirsi una perfetta idiota. Era la seconda volta in pochi minuti che ripeteva “mi dispiace”. Sembrava che, tutt’a un tratto, fosse diventata incapace di dire altro. Non sapeva mai quale fosse la frase giusta da usare, in situazioni del genere. Le avevano insegnato un sacco di educate frasi di circostanza, quando era piccola, ma qualcosa le diceva che Thorin non era il tipo che avrebbe potuto apprezzare fino in fondo una cosa del genere.
Anche dopo che avrai rubato l’Archepietra dirai “mi dispiace”? Sarà questo che dirai a loro, a tutti loro, dopo che li avrai ingannati e che avrai approfittato della loro fiducia?
Il pensiero la colpì in modo violento e inaspettato, costringendola a chiudere gli occhi per sopportare il colpo. Era una persona orribile. Ogni giorno che passava se ne convinceva sempre più profondamente. La facilità quasi meccanica con cui riuscì a relegare questa consapevolezza in un remoto angolo della mente la disgustò ancora di più, ma, come ormai accadeva da giorni, fu soltanto la sgradevole sensazione di un attimo.
«Non esiste una cura?»
Pose la domanda con voce flebile, timorosa, sapendo già fin troppo bene quale sarebbe stata la risposta. Come si era aspettata, Thorin scrollò bruscamente il capo in segno di diniego. «Nessuna cura» rispose seccamente. «Solo qualche metodo per rallentare il suo progredire, forse. Certo, se dipendesse da mio padre continueremmo in eterno a calmarlo con bicchieri di vino speziato e a blandirlo cercando di farlo ragionare!»
Sputò fuori dai denti stretti per la rabbia un’imprecazione in Khuzdul, che fece interrompere per un attimo lo scricchiolio delle penne della sala principale, dove stavano passando proprio in quel momento. Come rendendosi conto di essersi lasciato troppo trasportare dalle emozioni, Thorin scosse leggermente la testa, la rabbia che, nei suoi occhi, aveva lasciato il posto ad un’espressione di enorme stanchezza. Elinor intuì senza difficoltà ciò che si nascondeva dietro quel repentino scoppio di rabbia: oltre il dolore per suo nonno, oltre la rabbia per suo padre, oltre tutto quell’insieme di violente emozioni, era nascosta una paralizzante paura per se stesso.
C’è la possibilità che questa malattia possa rivelarsi in qualche modo … ereditaria?
La domanda posta ad Herion non era riuscita a trovare risposta, ed Elinor era sicura che Thorin stesse continuando a rigirarsela nella mente in modo ossessivo.
«Perdonatemi» sospirò il nano massaggiandosi le palpebre con le punte delle dita, mentre finalmente raggiungevano le scale che portavano ai livelli superiori. «Quando affronto questo argomento do sempre il peggio di me. D’altra parte, questo è quello che si ottiene dopo aver passato buona parte della mattinata a discutere con il proprio padre delle questioni più disparate …»
Elinor si voltò di scatto verso di lui. «Avete … parlato con vostro padre stamattina?»
Lo sguardo sconcertato che Thorin le rivolse le fece capire che, forse, la sua sorpresa era stata un po’ troppo palese per passare inosservata.
«In effetti, sì …» rispose il nano, perplesso. «Mi ha convocato stamattina presto, appena sceso dalle mie stanze. Sembrate sorpresa …»
Il cuore di Elinor ebbe un sobbalzo, ma la ragazza ebbe abbastanza presenza di spirito da rimediare all’errore commesso e tornare ad un tono di voce più naturale. «Certo che no!» improvvisò. «Pensavo solo che durante la mattinata vi dedicaste al lavoro nelle fucine …»
«Infatti è così. Di solito lascio le questioni riguardanti il regno al resto della giornata, quando la forgia ha scaricato i miei nervi e sono in grado di affrontare le discussioni in modo più tranquillo. Purtroppo certi argomenti non possono aspettare, per essere affrontati …»
Il modo strano, quasi sospeso, con cui Thorin aveva pronunciato l’ultima frase e l’ombra fugace che gli aveva attraversato il viso equivalsero, per Elinor, quasi ad una conferma di ciò che pochi secondi prima aveva solo sospettato. Il suo cuore mancò un battito, e un’improvvisa ondata di calore – molto strana, visto che si trovavano ancora diversi metri sottoterra – la investì lasciandola mezza stordita. Per qualche secondo fu incapace di vedere e sentire alcunché, le gambe che continuavano a salire i gradini di pietra più per un riflesso meccanico che per sua reale volontà, mentre il suo cervello lavorava ad un ritmo febbrile.
C’erano molte questioni importanti per cui Thràin avrebbe potuto convocare urgentemente Thorin, ma non ultimo lo strano attacco degli orchi che si era verificato qualche giorno prima a loro spese … Ma se veramente si fosse trattato di quello, perché farne un mistero? Thorin aveva cercato di dissimularlo, ma ad Elinor non era sfuggito: era come se si fosse accorto di aver parlato troppo e si fosse affrettato a tacere … e tutto ciò soltanto pochi giorni dopo che lei aveva ascoltato la famosa conversazione riguardo alla parola magica … Le coincidenze erano troppo grandi per poter essere ignorate, ma Elinor non poteva esserne ancora del tutto certa. Doveva assolutamente cercare di saperne di più, e il momento era troppo propizio per non approfittarne.
«Certo,» disse in tono comprensivo, come rispondendo all’enigmatica affermazione di Thorin «immagino che uno spiacevole evento come quello di pochi giorni fa desti molta preoccupazione in vostro padre. Non posso davvero dargli torto …»
Thorin ci mise qualche secondo per capire a cosa si riferisse, segno evidente che non era quello il pensiero che teneva occupata in quel momento la sua mente.
«Oh … vi riferite all’incidente con gli orchi …» rispose infine con aria torva. «In realtà di quello abbiamo parlato solo di sfuggita, anche se avrei preferito di gran lunga il contrario. Mio padre sembra convinto che quelli che ci hanno attaccato fossero esploratori mandati in avanscoperta, e che quelle ripugnanti creature stiano progettando un attacco ai nostri danni … ma io sento che c’è qualcosa che non quadra in tutta questa storia …»
Per quanto si sforzasse di ascoltare, adesso Elinor faceva davvero fatica a seguire quello che Thorin stava dicendo. La sua mente continuava a divagare per seguire un percorso tutto suo, così sentì a malapena il nano aggiungere qualcosa riguardo alla stranezza che degli orchi si fossero spinti così a sud delle Montagne Grigie. 
Dunque non erano stati gli orchi l’argomento di conversazione dei due eredi al trono, quella mattina. Dunque non era quella la questione urgente che aveva spinto Thràin a sollecitare un colloquio privato con suo figlio … Poteva forse azzardarsi a sperare? Poteva forse osare credere che, per una volta, la sorte si fosse finalmente vòlta a suo favore, spezzando la straziante attesa di quei giorni di incertezza?
Tutto faceva credere che le sue preghiere si stessero avverando, ma era necessario agire con cautela. Aveva imparato dal loro ultimo colloquio che, con Thorin, il detto “battere il ferro finché è caldo” era efficace fino ad un certo punto. Cadere vittima dell’impazienza e tirare troppo la corda non avrebbero aiutato il carattere chiuso e burbero del principe dei Nani ad aprirsi maggiormente con lei; forse sarebbe stato più probabile il contrario. Tuttavia, era la prima volta che Thorin si lasciava andare con lei a confidenze riguardo la situazione di suo nonno e le liti con suo padre … forse poteva considerarlo un buon segno … il segno che qualcosa, dentro di lui, stava iniziando a smuoversi. Si ripromise, appena si fosse ritrovata da sola nella tranquillità della sua stanza, di mettere a punto un piano per strappare a Thorin qualche informazione in più riguardo al colloquio con suo padre e alla parola magica. Era sicura che, influenzata dalla positività e dall’ottimismo del momento, non le sarebbe stato difficile farsi venire qualche buona idea …
«In ogni modo, credo che sia meglio cambiare argomento» intervenne la voce stanca e amara di Thorin, riportandola al presente. «Vedo che vi sto annoiando con le mie congetture, e per quanto mi riguarda la mattinata mi ha procurato fin troppe preoccupazioni per aver voglia di alimentare ancora il nervosismo. C’è per caso qualcosa – qualsiasi cosa – di cui vi piacerebbe parlare per distrarci dalla pesantezza di questi discorsi?»
Elinor si rese conto che, senza che se ne fosse minimamente accorta, avevano finalmente raggiunto i piani superiori, e adesso stavano percorrendo un corridoio che, se la memoria non la ingannava, portava nei pressi dell’ingresso alle fucine.
«Oh, non mi stavate affatto annoiando!» rispose precipitosamente. «Perdonate la mia aria assente, il leggere troppo deve avermi un po’ intontito … Comunque, temo di non avere nulla di interessante da dire. Negli ultimi giorni non ho fatto nulla di nuovo, a parte andare dalle sarte a farmi prendere le misure per il vestito …»
Thorin la fissò con aria sinceramente perplessa. «Il … vestito, avete detto?»
«Sì … il vestito per la festa di fidanzamento.»
«Oh … » Gli occhi del nano si accesero di un’improvvisa luce di consapevolezza, anche se, quando parlò di nuovo, la voce non riuscì a nascondere il suo palese imbarazzo. «Mio padre ve l’ha detto, infine …»
«Già … » si limitò a rispondere Elinor in tono allusivo, lasciandosi sfuggire un sospiro. I loro sguardi si incontrarono per un brevissimo istante, ma fu più che sufficiente perché ognuno riconoscesse il proprio disagio negli occhi dell’altro.
Per qualche secondo nessuno dei due sembrò capace di fare altro che fissare con insistenza la massiccia pietra del pavimento su cui si muovevano i loro piedi, ma alla fine fu Thorin a rompere il silenzio, dopo aver lanciato ad Elinor una breve occhiata in tralice.
«Non siate troppo in ansia» disse in fretta, con una voce che avrebbe dovuto sembrare rassicurante ma che suonava molto come un tentativo di convincere prima di tutto se stesso. «Le feste di fidanzamento naniche sono più che altro un modo per annunciare ufficialmente la futura unione dei due promessi sposi … e, senza dubbio, un’ottima scusa per mangiare, bere e fare baldoria una volta di più» aggiunse, strappandole un sorriso. «Non accadrà nulla di ufficiale o di … irreversibile, se è questo che vi preoccupa. Non ancora, perlomeno.»
, penso Elinor, è proprio questo che mi preoccupa. Thorin aveva centrato esattamente il punto della questione, anche se non poteva nemmeno immaginare il vero motivo della sua ansia. Nonostante questo, non poté che apprezzare il suo tentativo di rassicurarla, anche se doveva ammettere che aveva avuto scarso effetto: il pensiero della festa continuava a torcerle le viscere in una fastidiosa morsa di nervosismo, senza darle tregua. Uno sbuffo divertito, del tutto inaspettato e improvviso, le sfuggì dalle labbra.
«Curioso che, dopo aver rischiato la vita a causa di una decina di orchi assetati di sangue, basti una semplice festa di fidanzamento per spaventarci … non trovate?» osservò, ironica.
La fronte di Thorin si distese, e sulle sue labbra fece capolino un tenue sorriso. Non disse nulla, ma la fissò per diversi secondi con uno di quegli sguardi che ultimamente Elinor gli aveva visto rivolgerle spesso, e in cui interesse, ammirazione, sorpresa e divertimento si confondevano gli uni negli altri in un modo che riusciva a turbarla. La labbra del nano si schiusero, esitanti.
«Sapete,» disse lentamente, continuando a osservarla «voi avete lo strano dono di riuscire a far apparire tutto sotto una luce migliore.»
Un altro dei suoi bizzarri modi di elargire complimenti, suppose Elinor, in preda all’imbarazzo. Poco romantici (perlomeno nel senso comune del termine), ma decisamente efficaci. Soprattutto se accompagnati da sguardi come quello. Forse, a ben pensarci, avrebbe persino potuto farci l’abitudine …
Fortunatamente l’impegno di trovare una risposta adeguata le fu risparmiato dalla vista di una figura familiare che proprio in quel momento spuntò fuori da un corridoio laterale, attirando al loro attenzione. Procedeva con passo spedito, reggendo in entrambe le mani un secchio pieno di carote, lattuga, cavolo, rape e altre verdure, il corpo fasciato da un grembiule da lavoro e i muscoli delle braccia tese nello sforzo; di tanto in tanto, uno sbuffo dovuto alla fatica faceva svolazzare intorno alla sua faccia piena e armoniosa alcune ciocche di ricci biondi sfuggiti alla crocchia dietro la testa.
«Quella non è Rolgha, la vostra cameriera?» domandò Thorin, osservandola. «Negli ultimi giorni l’ho vista spesso servire ai tavoli nella taverna di suo padre …»
«E’ lei» confermò Elinor, affrettando il passo per andarle incontro. «L’aiutante di suo padre si è preso una brutta febbre, così, con il permesso di vostro padre, l’ho dispensata dal servizio per qualche giorno perché potesse aiutarlo.»
La nana, troppo impegnata a trascinarsi dietro i due carichi di verdura per fare attenzione a ciò che le accadeva intorno, non si accorse della loro presenza finché le loro traiettorie non furono sul punto di scontrarsi. Alla vista di Thorin e di Elinor si arrestò all’istante, posò a terra i secchi e si inchinò profondamente.
«Miei signori …» salutò rispettosamente, senza alzare gli occhi dal pavimento. «Perdonatemi, non vi avevo visto arrivare …»
«Rolgha!» esclamò di rimando Elinor con un sorriso cordiale. «E’ bello rivederti! Come vanno le cose alla taverna?»
«Molto bene, mia signora» balbettò la nana, sbirciando con timore reverenziale in direzione di Thorin. «Mio padre è molto sollevato di poter contare su due braccia in più in questo momento di difficoltà. Vi siamo molto riconoscenti» concluse, e accompagnò le parole con un inchino ancora più profondo in direzione del principe.
«La vostra famiglia rende un importante servizio al regno di Erebor» rispose Thorin, gentilmente quanto glielo consentivano i suoi modi burberi e autoritari. «Non sia mai detto che la famiglia reale ha rifiutato un favore a chi per generazioni ha nutrito centinaia di nostri fabbri e minatori.»
Un timido sorriso di gratitudine e di orgoglio osò affacciarsi sulle labbra di Rolgha, che, rassicurata dai modi cortesi del principe, sembrò abbandonare buona parte del timore reverenziale nei suoi confronti.  «E, se posso chiedervelo, mia signora» continuò, adesso rivolta ad Elinor «avete poi trovato una cameriera che possa sostituirmi? Spero di non avervi messo troppo in difficoltà …»
Elinor sorrise. «E’ tutto a posto, Rolgha, non preoccuparti. Mi è stata presentata una ragazza poco più giovane di te che potrà tranquillamente fare le tue veci per tutto il tempo che sarai costretta a stare lontana dal palazzo reale.»
«Ne sono felice» rispose Rolgha, palesemente sollevata. «Spero comunque di poter tornare al più presto alle mie mansioni: stare al vostro servizio è il compito più gradevole che io abbia mai …»
S’interruppe inspiegabilmente alla fine della frase, come se d’un tratto si fosse dimenticata come si faceva a parlare la lingua comune, mentre un improvviso rossore si diffondeva dal grazioso nasino a patata su tutto il viso paffuto della giovane nana. Elinor, spiazzata e confusa da quel bizzarro e improvviso cambiamento, la osservò con aria interrogativa per un paio di secondi, finché, seguendo l’occhiata che Rolgha aveva lanciato furtivamente verso un punto alla sua sinistra, non individuò il motivo di tanto turbamento.
Dwalin, in abiti da lavoro e a torso nudo, veniva verso di loro a passo spedito. Il tronco, la faccia e i bicipiti muscolosi erano coperti da una patina di sudore e di fumo, e il suo volto, quasi completamente coperto dal cespuglio di barba e di baffi scuri, pareva corrucciato come sempre.
Elinor colse fugacemente lo sguardo di Thorin, le cui labbra erano piegate in un sorrisetto appena percettibile, e tutto le fu improvvisamente chiaro. Dovette affrettarsi a guardare altrove, per far sì che il suo divertimento non mettesse Rolgha ancora più a disagio di quanto già non fosse.
«Thorin!» li raggiunse la voce brusca di Dwalin. «Ti stavo cercando. Dove diavolo ti sei cacciato per tutta la mattina? Non ti ho visto alla forgia …»
«Ho avuto alcune questioni urgenti da sbrigare con mio padre, Dwalin» rispose Thorin, mentre l’amico lo raggiungeva. «Sarei sceso alle fucine subito dopo pranzo.»
Lo sbrigativo grugnito di assenso di Dwalin fu seguito da un breve inchino all’indirizzo di Elinor, accompagnato da un’occhiata carica di diffidenza, e da uno sguardo disorientato in direzione di Rolgha, come se non avesse la minima idea di quale fosse il modo giusto per salutarla.
«Bene» si limitò a rispondere il nano, di nuovo rivolto a Thorin. «Andiamo a farci un boccone insieme prima della campana del pomeriggio, allora?»
Thorin, chiaramente sul punto di rispondere in modo affermativo, si voltò verso Elinor con aria incerta. La ragazza, tuttavia, lo precedette, risparmiandogli l’imbarazzo di sentirsi in obbligo nei suoi confronti.
«Oh, non preoccupatevi per me» disse sorridendo. «Raggiungerò la sala da pranzo da sola senza nessun problema. Anzi, credo che vostra sorella mi stia già aspettando.»
Un’espressione di inequivocabile sollievo riempì gli occhi azzurri di Thorin, ed Elinor, contro ogni sua aspettativa, si vide rivolgere un altro dei suoi rari sorrisi.
«Vi vedrò stasera a cena?» si limitò a chiedere, cogliendo Elinor ancora più alla sprovvista. Qualcosa di piacevole e di caldo parve allagarle lo stomaco, e, quando deglutì, scoprì di essere stranamente a corto di saliva.
«E’ molto probabile» fu tutto quello che riuscì a rispondere, cercando di dominare le sue bizzarre sensazioni.
«La campana suonerà tra poco, Thorin» intervenne Dwalin in tono lievemente spazientito, del tutto indifferente all’intenso scambio di sguardi che aveva avuto luogo sotto i suoi occhi. Elinor, anzi, sospettò che il nano avesse interrotto intenzionalmente quell’istante di muta intesa che si era creato tra lei e Thorin.
Si lasciò sfuggire un lieve sospiro di rassegnazione. Era ben consapevole di non piacere a Dwalin, e il modo ostentatamente disinteressato – quasi un po’ sprezzante – con cui il nano eseguì l’inchino di congedo nella sua direzione le confermarono i suoi sospetti. Se con le sue dimostrazioni di coraggio e di lealtà era riuscita a conquistarsi la fiducia e la stima di Thorin, pareva non aver raggiunto lo stesso obiettivo con il suo migliore amico …
«Rolgha» disse d’impulso Elinor alla nana, che dopo averle rivolto un rispettoso inchino si accingeva a recuperare il suo carico per seguire Dwalin e Thorin alla volta della taverna «sei sicura di non aver bisogno di aiuto con quei secchi di verdure? Sembrano davvero troppo pesanti …»
Sul finire della frase fece in modo di intercettare lo sguardo di Thorin, il quale ci mise meno di un secondo per capire quello che Elinor stava cercando di fare. Tuttavia, dato che Dwalin sembrava fermamente intenzionato a non aprire bocca, il principe fu costretto ad assestargli una discreta ma assolutamente non fraintendibile gomitata nelle costole.
Dwalin, preso completamente alla sprovvista, si rivolse a Thorin con aria spaesata e interrogativa, ma quando finalmente capì che cosa stava succedendo la sua espressione si tramutò in puro fuoco inceneritore. Neanche Elinor fu risparmiata dalle saette d’irritazione che balenarono dagli occhi del nano, ma riuscì a nascondere abbastanza bene il suo compiacimento (al contrario di Thorin, che alle spalle dell’amico sogghignava senza ritegno). Quanto a Rolgha, pareva come pietrificata nel punto in cui si trovava, e persino quando Dwalin, paonazzo in volto, le si avvicinò per alleggerirla dal suo carico riuscì a pronunciare a malapena un flebile “grazie”.
«Questa me la paghi» sibilò Dwalin all’amico quando gli passò accanto con un secchio in ciascuna mano, ed Elinor dovette coprirsi la bocca per nascondere il sorrisetto che le era appena comparso sul volto.
Thorin non aveva ancora smesso di sogghignare, e mentre i tre si avviavano alla volta della taverna il suo sguardo divertito incontrò di nuovo quello della ragazza. Passarono diversi secondi prima che il principe si decidesse ad abbassare lo sguardo e a seguire i suoi due compagni, spezzando di netto quel filo che sembrava essere stato teso fra di loro.
Elinor, divisa tra uno strano disappunto nel vederlo andarsene e un piacevole senso di appagamento interno, rimase ancora per qualche secondo ad osservare il gruppetto che si allontanava lungo il corridoio, cercando di dare un nome a quello che era appena successo tra lei e Thorin. Ci volle del tempo prima che la sua mente confusa riuscisse a giungere ad una conclusione, e la parola che le rimbalzò nella mente la colse decisamente alla sprovvista.
Complicità…
Era un sentimento con cui, da molti anni a quella parte, non aveva più una grande familiarità, un oggetto semisconosciuto che maneggiava in modo molto impacciato. Era un sentimento che, in quel momento della sua vita, era sicura di non poter più provare con nessuno. Di sicuro, non con Thorin figlio di Thràin, erede al trono del reame di Erebor e futuro Re sotto la Montagna.
Elinor piegò le labbra in un sorriso malinconico, mentre si avviava lentamente verso la sala da pranzo dove Dìs l’attendeva.
Forse non si meritava di provare di nuovo la bellezza di una sensazione del genere. Ma, per adesso, era disposta a passarci sopra e a godersi appieno quel momento, dimenticando di chiamarsi Elinor di Dale e di avere un compito da portare a termine.
 

Un leggero alito di vento, simile ad una mano gentile e giocosa, fece voltare pigramente la pagina del libro che Elinor teneva sulle ginocchia, portando nel contempo alle sue narici un dolce odore di fiori e alle sue orecchie l’ovattato rumore di risate lontane. La ragazza, distratta dalla sua lettura, chiuse per un attimo gli occhi e inspirò profondamente, crogiolandosi nella gradevole sensazione di tranquillità di quella serata di fine primavera.
Era diventata ormai un’abitudine, quella di venire a leggere nei Giardini Interni in attesa che arrivasse l’ora di ritirarsi nella proprie stanze per la notte. Quel silenzio, quella pace e quella solitudine riuscivano sempre a regalarle una sorta di piacevole vuoto interiore, una serena pace dei sensi che le permetteva di affrontare il sonno senza che sogni strani o sgradevoli arrivassero a turbarla. Così anche quella sera, malgrado la proposta di Dìs di passeggiare un po’ insieme e quella di Balin di sfidarlo a una partita a scacchi, Elinor aveva preferito ritirarsi in quello che ormai era diventato il suo luogo preferito di tutta Erebor.
Non che la loro compagnia, a cena, le fosse risultata sgradita o noiosa, beninteso. Al contrario, con suo sommo sconforto stava iniziando a rendersi conto di apprezzare sempre di più i momenti passati insieme ai membri della famiglia reale, e di essere pericolosamente vicina a ciò che fin dall’inizio aveva temuto più di ogni altra cosa: affezionarsi a loro.
Balin era stato il protagonista indiscusso di quella serata, intrattenendo i presenti con divertenti storielle su nani e nane di sua conoscenza e con episodi altrettanto piacevoli sul periodo in cui era stato precettore di Thorin, Dìs e Frèrin; periodo che, a quanto pare, il nano aveva trascorso in gran parte cercando di stanare i suoi giovani allievi – decisamente refrattari alla disciplina – che, insieme a Dwalin, erano soliti saltare le lezioni per andare a nascondersi da qualche parte o scappare a Dale per rimpinzarsi di dolciumi.
Anche a d Elinor era stato chiesto di cimentarsi in qualche aneddoto sua vita a Dale, o sul suo soggiorno dagli Elfi a BoscoVerde, ma la ragazza, pur cercando di soddisfare con più cortesia possibile le richieste dei commensali, aveva preferito rimanere in disparte e lasciare che fossero gli altri a raccontare. Era stato piacevole starsene abbandonata contro lo schienale della sedia sorseggiando vino e ridendo di gusto alle battute di Dìs e di Balin, o ascoltando con affascinata attenzione le imprese della stirpe di Durin. Era riuscita, almeno per un paio d’ore, a dimenticare il mondo al di fuori di quella sala, e vista la sua ansia di quei giorni – culminata con l’interessante scoperta di quella mattina - si era trattato di un risultato davvero notevole. Non era riuscita ad evitare, tuttavia, che di tanto in tanto il suo sguardo si rivolgesse verso una sedia vuota a poca distanza da lei, e che ogni volta il sorriso, spuntatole sulle labbra per qualcosa che gli altri stavano raccontando, si smorzasse un poco …
«Thorin ha detto di dirti che non è necessario aspettarlo per cena, padre» aveva sentito Dìs dire a Thràin poco prima di sedersi a tavola. «Ha intenzione di rimanere alle fucine fino a tardi, per recuperare il lavoro che non è riuscito a fare questa mattina.»
Elinor, che aveva già preso posto e si stava sistemando il tovagliolo sulle gambe, aveva sentito una piccola fitta molto somigliante alla delusione attraversarle lo stomaco, per poi scomparire, fulminea come era arrivata. Il resto della serata era stato gradevolissimo, su questo non c’era alcun dubbio, ma offuscato da un’indefinita sensazione di incompletezza, come se mancasse qualcosa di fondamentale …
«Notte davvero splendida, mia signora, non credete?»
Una voce sgradevolmente nota la riscosse all’improvviso, facendola sobbalzare e voltare di scatto. Uren, le mani giunte dietro la schiena e un sorriso mellifluo stampato sulla faccia sgraziata, era in piedi a pochi metri da lei, seminascosto dall’ombra di un albero che si protendeva sul vialetto di ghiaia.
Elinor si irrigidì istintivamente, colta alla sprovvista da quella visita inaspettata e alquanto sgradita.
«Oh» disse freddamente. «Siete voi.»
«Mi hanno detto che probabilmente vi avrei trovato qui» disse Uren di rimando, guardandosi intorno con affettata ammirazione. «Ottima scelta, mi complimento con voi. Un luogo davvero gradevole per trascorrere la serata.»
«Ci vengo quando sento il bisogno di stare da sola.»
Il sarcasmo nella voce di Elinor fu troppo marcato per passare inosservato, ma Uren, come al solito, non sembrò farsi scoraggiare dalla sua palese ostilità. Senza alterare di un millimetro la sua espressione di viscida cordialità, si avvicinò di qualche passo, giungendo vicino alla panchina su cui Elinor era seduta.
«Non sembrate molto felice di vedermi» osservò. «Eppure non ci vediamo da un po’. Speravo che avreste sentito la mia mancanza.»
Elinor non si prese nemmeno la pena di rispondere, e si limitò a fulminarlo con un’occhiata di puro gelo. «Cosa ci fate qui?» domandò invece. «Dov’è mio padre?»
«Non allarmatevi, vi prego. Vostro padre aveva intenzione di venire a trovavi durante la giornata, ma alcune questioni in città l’hanno tenuto troppo occupato.» L’inquietante sorriso sul viso di Uren si fece, se possibile, ancora più largo. «Così ha deciso di mandare me. Non sopportava di rimanere privo di notizie da parte vostra. E, se è per questo, nemmeno io.»
« Che pensiero gentile …»
Uren, come divertito dal feroce sarcasmo che Elinor non aveva fatto nulla per nascondere, piegò di lato la testa e la osservò in silenzio per qualche secondo. «Sono dolente che il vostro astio nei miei confronti non accenni a diminuire» affermò infine con voce carezzevole. «Eppure ero convinto che, dopo tutti questi giorni passati alla corte di Thràin, adesso aveste un’opinione migliore dei nani …»
«Non tutti i nani sono uguali agli altri» fu la laconica risposta di Elinor. Cominciava ad essere stufa di quel patetico tentativo di Uren di intavolare una conversazione con lei, ignorando palesemente il fastidio e la freddezza con cui Elinor, ogni volta, accoglieva le sue parole. Sapeva benissimo qual’era il motivo per cui il consigliere si trovava lì, e avrebbe voluto che giungesse il più presto possibile al nocciolo della questione, senza imporle ulteriormente il tormento della sua presenza.  
«Suppongo di avervi colto in un brutto momento, ma posso comprendervi» replicò Uren con un’aria di indulgenza palesemente artificiosa. «Avete una tale responsabilità sulle spalle … non deve essere facile gestire la tensione.»
Un freddo silenzio accolse le sue maniere così false e calcolate.
«Comunque, non temete» continuò Uren. «Sapete per quale ragione sono qui, e quindi sapete anche che la nostra conversazione sarà molto breve.»
Elinor sollevò lo sguardo che aveva abbassato sulle mani intrecciate in grembo e lo fissò sul nano. «Se permettete, vorrei prima chiedere io qualcosa a voi» affermò, sporgendo in avanti il mento con determinazione. L’inchino con cui Uren accolse la richiesta fu talmente profondo da portarlo quasi a sfiorare la ghiaia del vialetto con il naso.
«Domandate, mia signora» rispose, untuoso. «Sapete che sono al vostro completo servizio.»
«Perché il giorno dell’agguato degli orchi avete convinto mio padre a rifiutare l’invito a cena di Thràin e di Thròr?»
La domanda era partita a bruciapelo, ed Elinor si sarebbe aspettata di vedere il consigliere vacillare, colto alla sprovvista e colpito nel segno. Ma, con suo grande disappunto, rimase delusa. Non riuscì a cogliere nessun segno, nell’espressione di Uren, che le sue parole lo avessero scosso o sorpreso in qualche modo. Il suo sorriso mellifluo e la luce famelica nei suoi occhi rimasero inalterati, e la sua voce non vacillò nemmeno una volta quando, finalmente, si decise a dare spiegazioni. «Credetemi, avremmo accettato con gioia l’invito. Purtroppo l’incidente con gli orchi in cui siete rimasta malauguratamente coinvolta ha richiesto una riunione urgente con le autorità cittadine di Dale. Era necessario stabilire delle misure di sicurezza per evitare che incidenti del genere possano ripetersi … magari coinvolgendo più direttamente la nostra gente.»
«Avevate a disposizione diverse ore, la riunione si sarebbe certamente conclusa prima che arrivasse l’ora di cena» rispose prontamente Elinor. «Non c’era alcun motivo di rifiutare l’invito.»
Uren esplose in una raschiante risata di condiscendenza. «Mia signora, voi siete giovane, e probabilmente avete poca dimestichezza con gli affari di stato per comprendere la complessità di queste …»
«E’ un caso che quella sera fossero presenti a cena anche i vostri compatrioti, i nani dei Colli Ferrosi?» lo interruppe Elinor, intenzionata a non mollare la sua linea d’attacco per nessun motivo. «C’è qualcosa che io o mio padre dovremmo sapere, Uren?»
Fu allora che Elinor lo vide. Uno strano lampo di rabbia misto a terrore attraversò gli occhi porcini del consigliere, illuminandoli in modo talmente inquietante che la ragazza sentì qualcosa di gelato opprimerle lo stomaco. Ma fu questione di un millesimo di secondo, e come se niente fosse accaduto sul viso di Uren era tornata la solita espressione di strisciante untuosità. Fu difficile stabilire se ciò che aveva visto era stato reale o soltanto un frutto della sua immaginazione …
«Non so davvero a cosa vi riferiate » rispose Uren candidamente, tanto che le certezze di Elinor vacillarono ancora di più. «Il mio unico intento nel sollecitare un rifiuto dell’invito era solo quello di garantire la sicurezza di Dale. Vostro padre vi avrà raccontato la mia storia, suppongo …»
La ragazza deglutì, gli occhi bassi. «Sì …» sputò fuori, con riluttanza.
«Allora saprete che non ho nulla da nascondere.»
Elinor, suo malgrado, non poté fare altro che rimanere in silenzio. Un silenzio carico di amara sconfitta, in cui si rese conto di aver appena permesso a Uren di segnare un importante punto a suo favore, ponendosi in una posizione di vantaggio. Conosceva il passato di Uren, suo padre l’aveva informata al riguardo. E, nonostante la sua volontà di trovare qualcosa che lo mettesse in cattiva luce agli occhi di suo padre, doveva ammettere che non c’era nulla a cui potesse realmente appigliarsi. Nulla che potesse rendere il semplice rifiuto di un invito a cena una prova della sua scarsa credibilità.
«Se avete altre domande da pormi, sarò lieto di soddisfare la vostra curiosità» disse Uren, palesemente compiaciuto. «In caso contrario, temo proprio di dover giungere al nocciolo del nostro incontro: vostro padre è in attesa di notizie.»
Elinor volse istintivamente lo sguardo intorno a sé, scrutando con una punta di ansia la penombra intorno a loro, ma Uren parve leggerle nel pensiero.
«Non temete» disse. «Siamo soli, me ne sono assicurato di persona. Nessuno può sentirci.»
La ragazza sospirò, rassegnata. Rimandare ancora non avrebbe avuto alcun senso. Era molto meglio liberarsi subito da quel peso, nella speranza che, ottenuto ciò che voleva, Uren decidesse di andarsene più in fretta possibile. Era consapevole che ciò che stava per dire non sarebbe stato accolto nel migliore dei modi, ma non aveva altra scelta …
«Se volete sapere come vanno le cose con la ricerca della parola magica, temo che dovrò deludervi» lo informò seccamente. «Ho buone ragioni per credere che Thorin ne sia a conoscenza, ma non sono ancora riuscita a trovare un modo per estorcergliela.»
Le costò, pronunciare quelle parole che sapevano di sconfitta. Sapeva che Uren avrebbe tratto un enorme godimento nel vederla fallire: più tempo passava senza che lei avesse portato a termine il suo compito, più aumentavano le probabilità di vederla diventare sua moglie. Tuttavia, quando parlò, la faccia e la voce del nano fecero mostra di una preoccupazione e di un dispiacere così profondo che, se Elinor non avesse saputo benissimo chi aveva di fronte, sarebbero riusciti ad ingannarla.
«Capisco …» mormorò il nano fissando il suolo con aria pensierosa. Ci fu una pausa ad effetto, seguita da un profondo e teatrale sospiro. «Forse le preoccupazioni di vostro padre erano fondate, dopotutto: questo compito sta diventando troppo gravoso, per voi.»
Elinor sapeva che Uren la stava soltanto mettendo alla prova, e che non avrebbe dovuto per nessun motivo lasciarsi provocare, ma il disgusto e la rabbia che quell’individuo le provocava erano talmente profondi che le risultava difficile controllarsi e mostrarsi superiore. Quella volta non fece eccezione: sopraffatta dalla collera, balzò in piedi e lo fronteggiò con tutta la determinazione di cui era capace.
«Sto facendo del mio meglio!» esclamò facendo attenzione a non alzare troppo la voce, i pugni serrati e il volto rosso di rabbia. «Pensate che sia un gioco? Pensate che sia semplice, per me, cercare di elaborare una strategia che mi permetta di raggiungere il nostro obiettivo salvaguardando le nostre vite e, nello stesso tempo, affrontando tutta la tensione che ne deriva?»
«Oh, non fraintendetemi, ve ne prego! Io mi preoccupavo unicamente per il vostro benessere!»
«… senza contare che tra pochi giorni avrà luogo la festa di fidanzamento, e sarà praticamente impossibile riuscire ad ottenere la parola magica prima di allora!»
Uren piegò la testa di lato e la fissò con un’ambigua espressione a metà tra curiosità e perfidia, come se conoscesse già perfettamente la risposta alla domanda che stava per porre. «Perché vi preoccupate così tanto per la festa di fidanzamento?» domandò con calcolata lentezza. «Non cambierà nulla, per voi. Thorin non sarà ancora vostro marito. Avrete ancora tempo, prima di ritrovarvi … in trappola.»
In trappola …
Elinor boccheggiò alla ricerca di una risposta che non arrivava, la rabbia quasi completamente sostituita dal panico e dal senso di colpa. Forse, per quanto riguardava la situazione con Thorin, non si trovava ancora in trappola, ma in quel preciso momento aveva la sgradevole sensazione di esserci eccome.
Uren rimase a fissarla ancora per qualche secondo, poi uno strano sorriso si fece strada sulle sue labbra sottili. «No, non c’è bisogno che mi rispondiate …» sussurrò, quasi parlando tra sé. «Ve lo leggo negli occhi … adesso capisco …»
«Capite che cosa?» chiese Elinor, sulla difensiva.
Il sorriso di Uren si allargò ancora di più, come se l’ansia malamente celata nella voce della ragazza avesse confermato i suoi sospetti. «Voi avete paura di ferirlo. Vi state affezionando a lui, e temete che ufficializzare il vostro fidanzamento rinsaldi ancora di più il vostro legame.»
Con suo sommo orrore, Elinor sentì la faccia prenderle letteralmente fuoco. «Cosa?» esclamò con voce soffocata, sperando che il suo tono sconcertato suonasse abbastanza convincente. «Voi … voi vaneggiate …»
Successe tutto troppo velocemente perché potesse evitarlo. Uren mosse alcuni rapidi passi in avanti e si avvicinò ancora di più a lei, tanto da ritrovarsi con il viso a pochi centimetri dal suo.
«Non prendetevi gioco di me!» sibilò in tono soavemente inquietante. «Credete che, l’ultima volta che sono stato qui, non mi sia accorto di come lo guardavate? E di come lui guardava voi? Oh, vi capisco entrambi benissimo, sapete!» aggiunse con una risata che fece drizzare i capelli sulla nuca ad Elinor. «Thorin è un giovane principe dei nani bello e prestante, e voi …»
Una lunga occhiata lasciva le accarezzò il corpo fasciato da un semplice vestito di lino color vinaccia, ed Elinor fu percorsa da un violento brivido.
Se ti fissasse solo un po’ più intensamente di quello che fa di solito, con tutta probabilità ti ritroveresti nuda in mezzo alla stanza …
«Come vi permettete di parlarmi così?» lo apostrofò, disgustata.
«Forse è per questo che non siete ancora riuscita a raggiungere il vostro obiettivo, Elinor?» continuò il nano, come se nemmeno l’avesse sentita. «Perché non vi state impegnando come dovreste? Perché in realtà non lo volete
«Che cosa state insinuando?» chiese la ragazza con aria di sfida. «Che potrei decidere di tradire la nostra causa e abbandonare il piano?»
Il sorriso di Uren – o meglio, la smorfia che avrebbe dovuto somigliare a un sorriso – raggiunse livelli di perfidia inimmaginabili. «Io non ho detto nulla di tutto questo. Siete stata voi a dirlo.»
«Beh, vi sbagliate! Fra me e Thorin non c’è assolutamente nulla, e mai ci sarà!»
Il consigliere la afferrò bruscamente per un braccio e lo strinse in una morsa ferrea, che rese vani tutti i tentativi di Elinor di divincolarsi. «Allora vi suggerisco di raddoppiare i vostri sforzi e di dimostrare la vostra lealtà ottenendo risultati il prima possibile» le sibilò nell’orecchio, la voce melliflua ora velata di minaccia. «Altrimenti non mi sarà difficile andare da vostro padre e rivelargli la vostra riluttanza a seguire il piano. E voi sapete bene quali fossero i patti nel caso di un vostro fallimento, non è vero, Elinor?»
Elinor deglutì, il cuore a mille e la fronte imperlata di sudore freddo. Sentiva il germe strisciante della paura gelarle lo stomaco e bloccarle la gola come se una seconda mano la ghermisse e stringesse forte. Era terribilmente consapevole che nei Giardini Interni, in quel momento, c’erano solo lei e Uren, e che se avesse chiamato aiuto probabilmente nessuno l’avrebbe sentita attraverso le spesse pareti della montagna. D’altra parte, non osava emettere alcun suono per attirare l’attenzione: il suo orgoglio non le avrebbe mai permesso di dare una tale prova di debolezza di fronte a quell’essere spregevole, e inoltre fornire spiegazioni a qualcuno sul perché lei e il consigliere di suo padre avevano avuto un alterco tanto violento sarebbe stato oltremodo complicato …
«Elinor? Siete voi?»
Una voce nota – meravigliosamente nota – arrivò alle orecchie di Elinor da uno dei vialetti vicini. I battiti del suo cuore aumentarono ulteriormente, ma questa volta per il sollievo; nello stesso momento, sentendo dei passi avvicinarsi a loro, Uren aveva lasciato la presa del suo braccio e si era ritirato come scottato. Tutto accadde così in fretta, e l’espressione del nano tornò così velocemente quella servile e untuosa di sempre, che, se Elinor non avesse sentito ancora il dolore della sua stretta sul braccio, la scena di cui era appena stata protagonista le sarebbe sembrata soltanto un sogno molto strano. Persino lo stormire leggero delle fronde degli alberi, che pareva scomparso, tornò magicamente a farsi sentire.
I passi, nel frattempo, li avevano raggiunti.
«Thorin! …» esclamò Elinor, quasi soffocata dal sollievo, quando la figura ben conosciuta del principe emerse dalla penombra. Cercò di dare alla sua voce un tono più naturale possibile e pregò con tutta se stessa i Valar che il suo aspetto non tradisse in alcun modo l’agitazione che la faceva tremare. Thorin le rivolse un ampio sorriso, che si smorzò solo quando ebbe modo di guardarla in faccia con più attenzione; lo sguardo del nano si posò poi sulla persona che si trovava insieme a lei, e non appena si rese conto di chi fosse, i suoi occhi si strinsero istintivamente in un’espressione di diffidenza.
«Mio principe …» salutò Uren con voce melliflua, inchinandosi quasi fino a terra.
«Mastro Uren …» rispose Thorin rigidamente, chinando appena il capo nella sua direzione. La sua attenzione, subito dopo, tornò a rivolgersi ad Elinor. «E’ … tutto a posto?» domandò esitante. «Stavo attraversando i Giardini, e ho sentito delle voci concitate …»
Elinor dovette trattenersi per non gettargli le braccia al collo in un moto di gratitudine.
«Va tutto bene, Thorin» rispose, sforzandosi di sorridere. «Uren è venuto per conto di mio padre ad assicurarsi che io stessi bene e che non mi mancasse nulla.»
«E’ così, mio signore» intervenne sollecitamente il consigliere. «Il governatore, purtroppo, ha avuto degli importanti affari da sbrigare a Dale che l’hanno tenuto impegnato per tutta la giornata. L’animata conversazione che avete udito poco fa riguardava proprio questo argomento.»
«Infatti» lo appoggiò Elinor. «Il mio timore è che mio padre sia troppo avanti con gli anni per mantenere ritmi di lavoro così serrati, e Uren, con la sua solita … premura, stava cercando di convincermi a non preoccuparmi troppo.»
Thorin li osservò entrambi per qualche secondo, in silenzio. Elinor notò che indossava una camicia di lino a maniche larghe leggermente aperta sul petto, e che sul suo viso non c’era traccia di fumo e di sudore. Probabilmente, concluso il suo lavoro alle fucine, doveva essere passato dalle sue stanze per lavarsi e cambiarsi d’abito.
«Spero di non aver interrotto nulla di importante, allora …» disse infine Thorin. Era chiaro, dall’espressione indagatrice nei suoi occhi, che qualcosa in quella situazione continuava a non tornargli del tutto.
«Niente affatto» si affrettò a rispondere Elinor. «Mastro Uren stava giusto andando via. Non è vero?»
Il nano, vedendosi costretto dalla presenza di Thorin ad abbandonare il campo, non poté fare altro che rimettersi alla decisione di Elinor, piegandosi in un profondo inchino. «Precisamente» confermò, servile. «Si è fatto tardi, ed è ora che io torni dal mio signore a riferirgli che sua figlia sta bene e che gli manda i suoi più cari saluti. Sarà molto felice di saperlo. Vostra altezza … mia signora …»
Mentre il consigliere si piegava nell’ennesimo inchino di saluto, Elinor riuscì a scorgere negli occhi di Uren un lampo di puro astio nei suoi confronti, così fulmineo da dubitare persino che ci fosse stato davvero. Poi il nano, dopo aver mosso qualche passo all’indietro in segno di rispetto, si voltò e sparì nella penombra, portandosi via il suo sorriso untuoso e il suo sguardo lascivo. Elinor riuscì a respirare liberamente soltanto quando sentì il portone dei Giardini Interni chiudersi con un tonfo sordo alle sue spalle. Si passò il libro da una mano all’altra, accorgendosi di stare ancora tremando leggermente.
«Vostro padre deve darvi davvero delle grandi preoccupazioni, se ne siete così turbata.»
Elinor alzò lo sguardo: Thorin la stava fissando con un’espressione indecifrabile, scrutandola in volto come se volesse indovinare il reale motivo del suo turbamento.
«Oh … non fateci caso, vi prego!» rispose Elinor, cercando di sorridere. «Le figlie sono sempre più apprensive del dovuto nei confronti dei loro genitori … soprattutto se non hanno fratelli con cui condividere le loro ansie, come nel mio caso.»
«Posso immaginarlo.»
Thorin la scrutò di nuovo da capo a piedi con aria perplessa. «Siete sicura di stare bene?» insisté cautamente. «Avete il volto bianco come la cera …»
Elinor emise quella che sperava somigliasse ad una risata incredula e divertita, ma tutto quello che riuscì a sentire nella propria voce fu un enorme nervosismo. «Cielo, davvero? Devo essermi lasciata prendere un po’ troppo dall’emotività. Per fortuna Uren ha fatto del suo meglio per calmarmi e riportarmi alla ragione …»
Parlare di Uren come se fosse un benefattore disinteressato venuto al mondo solo per alleviare le pene degli altri la irritava immensamente, ma sapeva di non avere altra scelta. Doveva mentire.
Thorin sembrò per un attimo incerto se parlare oppure no. «Sapete,» disse infine, meditabondo «per un attimo ho avuto la curiosa sensazione che la vostra rabbia fosse diretta proprio verso di lui. Ha per caso … fatto o detto qualcosa che vi ha dato fastidio?»
«Certo … certo che no!» sussultò Elinor, presa alla sprovvista. «Perché lo chiedete?»
Le sopracciglia scure di Thorin si inarcarono verso l’alto e le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso, come sorprendendosi dell’ovvietà della domanda. «E’ abbastanza evidente il suo interesse per voi» rispose semplicemente il nano, senza girarci troppo intorno. «Bisognerebbe essere ciechi per non vederlo.»
Elinor boccheggiò per qualche secondo, incapace di rispondere alcunché. L’aria dei Giardini Interni era piacevolmente fresca, ma in quel momento lei si sentiva come se la sua faccia fosse immersa in una bacinella di acqua bollente. Sapeva che Thorin non doveva essere l’unico ad essersi accorto di come Uren la guardava (i commenti di Dìs in proposito, qualche sera prima, erano stati abbastanza eloquenti), e sapeva anche che il fatto, preso da solo, non era certo un indizio o una prova di quello che si stava tramando ai danni di Erebor. Eppure, ogni più piccola allusione ai rapporti tra lei e Uren la metteva in agitazione, facendole temere che il suo interlocutore potesse leggerle negli occhi la verità …
Thorin, fortunatamente, sembrò scambiare la sua reazione per semplice imbarazzo.
«Perdonatemi»borbottò, abbassando lo sguardo. «Non è molto appropriato, da parte mia, parlarvi di certe cose.»
«Niente affatto!» replicò Elinor, riscuotendosi. «Vi stavate preoccupando per me, presumo, il che vi rende onore. In ogni modo … qualsiasi interesse Uren nutra nei miei confronti, sa benissimo che non gli è permesso andare oltre i limiti che la sua posizione gli consente.»
«Capisco …»
Ci fu un breve istante di silenzio, che Elinor, passato il momento di angoscia che l’aveva sopraffatta, si affrettò a rompere prima possibile.
«Perdonatemi, ma voi stavate andando da qualche parte, prima che ci incontrassimo!» esclamò, preoccupata. «Mi dispiace, non vorrei avervi trattenuto …»
«A dire la verità, ero diretto alla taverna» rispose Thorin cautamente. «Dovrei incontrarmi con Dwalin … sapete, per … annegare le fatiche della giornata in un paio di boccali di birra.» Sorrise, vedendo che Elinor stava facendo lo stesso; poi riprese, esitante: «Non vi chiederò di accompagnarmi, immagino che non apprezziate particolarmente posti del genere … e poi, vedo che avete un libro con voi.»
Elinor si prese qualche secondo per riflettere. Una taverna non era decisamente il posto adatto per quella che gli abitanti di Erebor consideravano la loro futura principessa, né per una ragazza che aveva passato metà della sua vita in un posto raffinato e privo di eccessi come il Reame Boscoso. Ma lei, per quanto avessero tentato di trasformarla, non era mai stata un tipo raffinato. Forse era colpa della parte di sangue nanica che scorreva nelle sue vene, fatto sta che gli atteggiamenti altezzosi ed eccessivamente compìti degli Elfi erano stata la cosa a cui aveva fatto più fatica ad adattarsi. La gioviale e festaiola convivialità dei nani, invece, che aveva avuto modo di sperimentare nei giorni passati lì ad Erebor, sembrava andarle molto più a genio. Inoltre, l’idea la tentava per un motivo molto più concreto e immediato: sentiva di avere i nervi a fior di pelle per gli avvenimenti di quegli ultimi giorni – in particolare quello che si era appena concluso – e quello di cui avrebbe avuto più bisogno per calmarsi non era certo rimanere da sola con un libro a rimuginare. Sentiva la necessità di distrarsi un po’, e la prospettiva di immergersi in un luogo dove il chiacchiericcio della gente avrebbe, con un po’ di fortuna, coperto il rumore dei suoi pensieri, non le dispiaceva affatto.
«Al contrario,» disse inaspettatamente. «Sarei molto felice di venire con voi. Ormai ho visitato quasi tutti gli angoli di Erebor, e questa è una buona occasione per vedere dov’è che i nani trascorrono le loro serate.» Poi, come colta da un pensiero improvviso: «Sempre che ciò non crei disturbo né a voi né a mastro Dwalin, s’intende!»
Fu affascinante – quasi divertente – vedere emozioni contrastanti avvicendarsi una dopo l’altra sul volto di Thorin: il nano passò in rapida successione da un’evidente sorpresa per il fatto che lei avesse accettato, all’incredulità per il fatto che una ragazza desiderasse spontaneamente recarsi in una taverna, all’ammirazione per la sua volontà di conoscere ogni singolo aspetto del suo regno. Per qualche secondo sembrò incapace di proferire verbo, ma alla fine riuscì a rispondere, con un sorriso frastornato e divertito insieme: «No … no, immagino che non ci sia nessun problema.»
«Allora sono pronta a seguirvi.»
Per un po’, mentre attraversavano i Giardini diretti verso il secondo portone che dava su di essi, ci fu soltanto il sommesso fruscio del vento tra gli alberi, ad accompagnare i loro passi. Ad Elinor non dispiacque: era troppo pensierosa per aver voglia di fare conversazione. Si limitò a fissare con sguardo meditabondo la punta delle proprie scarpe che calpestavano la ghiaia, consapevole della presenza silenziosa di Thorin al suo fianco e del braccio muscoloso del nano che di tanto in tanto, inavvertitamente, sfiorava il suo. Fu proprio il principe, dopo qualche minuto, a rompere il silenzio.
«Posso chiedervi» esordì, titubante. «Da quanto tempo si trova al servizio di vostro padre? Mi riferisco a Uren, ovviamente.»
La domanda non entusiasmò Elinor, questo era poco ma sicuro. Detestava persino il pensiero di Uren, figurarsi vederlo proposto come argomento di conversazione. Tuttavia, sarebbe stato troppo scortese non rispondere, e l’ultima cosa che voleva era essere sgarbata nei confronti di Thorin. In fondo, era stato lui a salvarla dallo spiacevole scambio di opinioni che stava avendo luogo tra lei e il consigliere prima del suo arrivo …
«Da sempre, per quello che mi ricordo» si costrinse quindi a rispondere, nascondendo la sua riluttanza. «Credo fossi molto piccola, quando mio padre lo nominò suo consigliere.»
«Non è originario del nostro regno, giusto? Non credo di averlo mai visto, qui ad Erebor, e nemmeno mio padre e mio nonno ricordano la sua faccia …» rifletté Thorin, le sopracciglia aggrottate, mentre apriva un battente del pesante portone e le cedeva il passo per rientrare all’interno.
«So che è nato nei Colli Ferrosi, e che ha trascorso lì gran parte della sua infanzia e della sua giovinezza. Non so molto riguardo alla sua vita precedente, ma pare che commerciasse in stoffe . Un giorno è arrivato a palazzo per vendere la sua merce, e, con grande sorpresa di tutti, ha aiutato mio padre a risolvere un problema economico per il quale tutti i consigli ricevuti fino a quel momento si erano rivelati inutili.» Elinor abbozzò un piccolo sorriso di circostanza. «Così mio padre ha deciso di prenderlo al suo servizio, ed è rimasto con noi per tutti questi anni.»
Anche senza vederlo, avvertì sulla pelle lo sguardo di Thorin che la fissava con attenzione. «Mi pare di capire che voi non approvate la scelta di vostro padre …» azzardò il nano.
Elinor sospirò. «Uren ha dei modi di fare piuttosto … strani» rispose, soppesando una a una le parole. «A volte faccio persino fatica a ricordarmi che è un nano, tanto mi sembra diverso da voi, da vostro padre, o da tutti gli altri membri della vostra gente che ho avuto modo di conoscere finora … Ma ha sempre servito mio padre con devozione e lealtà, quindi immagino di non potermi permettere di esprimere giudizi semplicemente sulla base della simpatia o dell’antipatia che provo nei suoi confronti.»
Pronunciò queste ultime parole a denti stretti, le unghie della mano conficcate profondamente nel palmo. Il nervosismo, la rabbia, la tremenda voglia insoddisfatta di coprire di insulti quel viscido individuo la facevano tremare. Ringraziò i Valar che il corridoio che stavano percorrendo fosse poco illuminato, perché se così non fosse stato Thorin si sarebbe potuto facilmente accorgere del suo eccessivo turbamento.
Per fortuna, prima che la verità rompesse gli argini come un fiume in piena, il discorso fu interrotto dall’arrivo all’ingresso della taverna.
Thorin le fece segno che poteva precederlo, ed Elinor imboccò una stretta rampa di gradini di pietra resi levigati dal tempo e dalle migliaia di piedi che nel corso dei millenni li avevano calpestati. La scala scendeva tortuosa per diversi metri, e dopo alcune curve terminava all’entrata di un vasto locale pieno di tavoli di legno, sedie e panche. Già prima di superare l’ultima curva e gettare un’occhiata all’interno, Elinor era stata raggiunta da un vivace brusio di persone che parlavano, cantavano, ridevano sguaiatamente. Quando raggiunse finalmente la soglia della taverna, si accorse che l’udito non l’aveva ingannata: la stanza era letteralmente gremita di nani; dovevano essere almeno una settantina, forse di più, riuniti a gruppetti di quattro o cinque intorno ai tavoli o seduti vicino al bancone, in mezzo alla stanza. L’aria era satura di fumo, e l’odore di erba pipa andava a mescolarsi con quello della birra e del vino. Il padre di Rolgha, un nano massiccio con barba e capelli nerissimi solo leggermente striati di grigio, riempiva a getto continuo calici e boccali dietro al bancone, per poi affidarli alla figlia, che, con un vassoio di legno, li portava ai rispettivi tavoli.
Elinor mosse qualche passo incerto oltre la soglia, ma se ne pentì quasi subito: come fece il suo ingresso nel locale, infatti, più di settanta teste si voltarono contemporaneamente nella sua direzione; il chiacchiericcio si smorzò notevolmente, sfiorando quasi il silenzio completo, mentre tutti i presenti, immobili, la fissavano con gli occhi spalancati. Fu uno dei momenti più imbarazzanti che Elinor avesse mai dovuto affrontare nel corso della sua vita: impacciata, con la faccia in fiamme e il cuore che le martellava nel petto, si cimentò in una piccola riverenza, ma, sul momento, il gesto non sembrò sortire effetti. Soltanto quando Thorin, un secondo dopo, comparve al suo fianco e fece scorrere il suo sguardo severo sui presenti, i nani si decisero a piegare le loro teste in segno di rispettoso saluto. Subito dopo, con grande sollievo di Elinor, il brusìo riprese come se nulla fosse accaduto, e nessuno dei presenti sembrò più fare caso a loro, anche se qualcuno, di tanto in tanto, sbirciava nella sua direzione con aria curiosa o perplessa.
Elinor alzò lo sguardo su Thorin, che le lanciò una breve occhiata eloquente e poi le fece segno di seguirlo verso un tavolo sul fondo della sala. Qui era seduto Dwalin, con un boccale di birra quasi vuoto tra le mani, che li guardava avvicinarsi con aria a dir poco sconcertata.
Quando lo raggiunsero, Thorin lo salutò con un burbero cenno del capo e una cameratesca pacca su una spalla, ma l’altro nemmeno rispose: sembrava incapace di fare altro che spostare lo sguardo dall’amico ad Elinor, cercando evidentemente di trovare una spiegazione plausibile alla presenza della ragazza.
«Mastro Dwalin …» lo salutò Elinor con un’altra piccola riverenza. Il nano, fissandola con gli occhi stretti di diffidenza – un’espressione che Elinor aveva ormai imparato ad aspettarsi da lui tutte le volte che si incontravano – ricambiò con un solo secco movimento della testa; poi rivolse a Thorin uno sguardo interrogativo, a cui il principe rispose con un’occhiata che lo pregava di non fargli domande.
«Ti stavo aspettando da più di mezz’ora» borbottò Dwalin, mentre Thorin si sedeva accanto a lui ed Elinor prendeva posto davanti a loro. «Che ti è successo, si può sapere?»
«Nulla di grave. C’è stato solo un … imprevisto» rispose Thorin, lanciando un’occhiata ad Elinor. La ragazza sorrise e abbassò gli occhi, fingendo di fissarsi le mani. Con la coda dell’occhio scorse Dwalin spostare di nuovo lo sguardo dall’uno all’altra con aria inquisitoria. Di certo quella nuova complicità che si era venuta creando tra di loro doveva risultargli quantomeno strana, considerato che fino a qualche giorno prima le cose che Thorin gli raccontava su di lei non dovevano essere troppo lusinghiere. Forse, se avesse detto a Dwalin di essere stupita quanto lui da quella nuova situazione, avrebbe cominciato a trovarla un po’ più simpatica …
«E’ parecchio strano vedervi qui …» osservò Dwalin rivolto ad Elinor, squadrandola con gli occhi stretti.
«Avevo solo voglia di vedere il lato notturno di Erebor» scherzò la ragazza, sperando di ingraziarselo con l’ironia. L’espressione del nano, tuttavia, non mutò di una virgola.
«Non avrei mai pensato che una ragazza … come voi potesse apprezzare luoghi di questo genere.»
Che cosa significava come voi?, si chiese Elinor, incerta se prenderlo come una semplice constatazione o come un velato insulto. Significava “una ragazza del vostro rango e con la vostra educazione”? Oppure significava “una ragazza così altezzosa e schizzinosa nei confronti della nostra gente”? Perché Elinor era sicura che fosse così che Dwalin la considerasse, nonostante quello che era successo negli ultimi giorni.
«Potrei riservarvi delle sorprese» si limitò a rispondere con un sorriso canzonatorio, decisa a non farsi intimidire.
Dwalin sembrò non avere nulla da rispondere a quell’affermazione, anche perché proprio in quel momento Rolgha si avvicinò al loro tavolo con un vassoio, e la sua attenzione fu interamente concentrata nel nascondere come meglio poteva il suo nervosismo.
«Ecco qua» disse la nana, poggiando davanti a Dwalin e a Thorin due grossi boccali di birra scura. «Mia signora …» aggiunse poi, salutando Elinor con un leggero inchino. Elinor le sorrise, osservando come la ragazza apparisse diversa dal solito, con un grembiule legato intorno alla vita e il viso arrossato per il caldo; sospettava, tuttavia, che buona parte di quel rossore avesse più a che fare con la vicinanza di Dwalin che con la fatica di andare avanti e indietro fra i tavoli …
Rolgha mise sul vassoio il boccale vuoto di Dwalin e fece per allontanarsi, ma Elinor, all’ultimo momento, la fermò mettendole delicatamente una mano sul braccio.
«Rolgha, saresti così gentile da portarne uno anche a me?» domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Probabilmente, se avesse chiesto di farsi portare la testa mozzata di un bambino su un vassoio d’argento, l’incredulità negli occhi dei tre che le stavano intorno sarebbe stata minore. La cameriera, senza riuscire a proferire parola, si voltò istintivamente verso Thorin, che dopo qualche secondo di perplessità si sporse verso Elinor. «Fate sul serio?» chiese, scrutandola.
«Certo che sì» rispose Elinor, perfettamente tranquilla. «Un po’ di birra di sicuro non mi ucciderà, siete d’accordo?»
«No, immagino di no …» mormorò Thorin, tornando ad appoggiare la schiena sul muro dietro di lui, senza riuscire a smettere di fissarla come se fosse un oggetto molto strano.
Elinor nascose a fatica una risatina davanti allo stupore che aveva suscitato, a cui decise di non fare molto caso. Per una volta nella sua vita, voleva fare esattamente quello che si sentiva di fare, senza stare troppo a riflettere se fosse strano o sconveniente. Quello che desiderava era fare di tutto per dimenticare le ansie degli ultimi giorni, soprattutto quella orribile serata, e se un boccale di birra era l’unica cosa che potesse aiutarla nel suo intento dandole un po’ di allegria …
Neanche un minuto dopo, si vide posare davanti da Rolgha una pinta di birra identica a quella che aveva appena portato a Dwalin e a Thorin. Ignorando le occhiate perplesse dei due nani, che nel frattempo avevano iniziato a chiacchierare tra loro di argomenti riguardanti il lavoro alle fucine, Elinor se lo portò subito alla bocca e bevve un sorso. La birra aveva un gradevole sapore dolciastro e amarognolo insieme, ed era la più buona che avesse mai provato nelle sue – finora limitate – esperienze con tali bevande. Ne prese un altro sorso, questa volta un po’ più lungo. Poi un altro, ed un altro ancora.
Elinor non se lo sarebbe mai aspettata, ma il tempo scorse in modo piacevolmente rapido. All’inizio non poté dire di divertirsi nel vero senso della parola, perché, timorosa di dire qualcosa di stupido o fuori luogo, attirandosi ulteriore antipatia da parte di Dwalin, intervenne raramente nei discorsi tra lui e Thorin. Fu piacevole, però, rimanere in silenzio a sorseggiare birra ascoltandoli chiacchierare, senza pensare a nient’altro che non fosse la piacevole sensazione del liquido fresco e dorato che le scorreva giù per la gola. Già a metà del boccale, tuttavia, Elinor si accorse di essere diventata molto più allegra del normale: rideva molto più spesso, trovava il coraggio di dire la sua su svariati argomenti, e – cosa di gran lunga più importante – tutta l’ansia che aveva accumulato dentro di sé negli ultimi giorni sembrava solo un lontano ricordo sbiadito. Nemmeno il pensiero dello sgradevole viso di Uren a pochi centimetri dal suo, distorto in un ghigno di pura cattiveria, riusciva a turbarla.
Un paio di volte si ritrovò a pensare che, forse, era meglio andarci piano: quella birra, oltre ad essere la più buona, era anche la più forte che avesse mai provato, e berne qualche sorso ai banchetti o a cena per togliersi lo sfizio (e cercando sempre di controllarsi per non risultare sconveniente) era molto diverso che ingurgitarne un boccale intero. Furono riflessioni, tuttavia, che la sfiorarono soltanto di sfuggita, scomparendo subito dopo dalla sua mente senza lasciare traccia: quella sensazione di benessere era troppo piacevole, i discorsi dei due nani erano troppo interessanti, e Thorin la guardava in modo troppo penetrante per indugiare a lungo su pensieri di quel genere.
Già …Thorin …
Di tanto in tanto,  alzando per caso lo sguardo dopo aver detto qualcosa di spiritoso o di significativo, Elinor si era accorta che il nano la stava fissando in silenzio, sorridendo con aria assorta e con una luce negli occhi che non gli aveva mai visto prima. Ogni volta riusciva a sostenere l’intensità di quello sguardo solo per qualche secondo, prima di avvampare e di abbassare di nuovo gli occhi, fingendo di dedicarsi alla sua birra con aria disinvolta. E tuttavia, anche senza vederlo, poteva sentire il suo sguardo bruciare sulla pelle …
Anche lui, quasi alla fine del primo boccale di birra, era diventato molto più allegro di quanto fosse di solito: era più loquace, sorrideva più spesso, e in generale sembrava molto più sciolto rispetto al suo abituale atteggiamento chiuso e burbero. Elinor non l’aveva mai visto così a suo agio, in sua presenza …
Un pensiero, nitido e chiaro come un lampo durante la notte, squarciò l’ovattata sensazione di benessere in cui Elinor si stava crogiolando, e un’idea cominciò pian piano a farsi largo nella sua mente.
Le preoccupazioni di cui ultimamente era stata preda erano diventate più sbiadite e le stavano finalmente dando un po’ di tregua, quello era vero. Ciò non significava, però, che avesse dimenticato del tutto il compito che doveva portare a termine: doveva ancora scoprire se Thorin era o no a conoscenza della parola magica per arrivare all’Archepietra, e nessun momento sarebbe mai stato più propizio di quello per indagare in proposito. Forse, se l’avesse fatto bere ancora un altro po’ … giusto quanto bastava per renderlo in vena di confidenze …
C’era solo un piccolo problema, rifletté Elinor, meditabonda: Dwalin era ancora troppo diffidente nei suoi confronti, e avrebbe potuto avere dei sospetti se l’avesse sentita fare troppe domande a Thorin. Doveva assolutamente trovare un modo per liberarsi di lui, ma quale?
La soluzione le si presentò davanti agli occhi dopo pochi secondi, guardando Rolgha passare a poca distanza da loro e schivare con abilità la mano di un giovane nano che si era protesa per darle una pacca sul fondoschiena. Un leggero sorriso increspò le labbra di Elinor: se la birra aveva il potere di farle venire idee così geniali, avrebbe dovuto berla molto più spesso …
Proprio in quel momento Dwalin alzò una mano per attirare l’attenzione della cameriera e farle un cenno, e dopo pochi secondi un altro boccale pieno sostituì quello che aveva appena finito di prosciugare. Elinor seguì con lo sguardo Rolgha mentre lasciava il loro tavolo con il vassoio vuoto, e fece in modo che il suo sospiro compiaciuto fosse ben udibile da entrambi i nani davanti a lei.
«Rolgha è davvero una ragazza meravigliosa» esordì, interrompendo il momento di silenzio che si era creato. «Mette un tale impegno in tutto quello che fa! Suo padre deve davvero essere orgoglioso di avere una figlia come lei!»
Sbirciò furtivamente Dwalin per appurare che effetto avessero avuto le sue parole su di lui, e si accorse che il nano stava rischiando di strozzarsi con la birra nell’intento di nascondere il suo volto paonazzo. Così aggiunse: «E’ davvero sorprendente che nessuno l’abbia ancora sposata! Eppure, quando eravamo da sole, mi parlava sempre di un tale che le piace molto … pare che anche lui sia interessato a lei, ma per qualche ragione non si è ancora dichiarato … »
La birra spruzzò ovunque in una miriade di goccioline, quando Dwalin sputacchiò improvvisamente fuori il sorso che aveva appena bevuto. «Che … che cos … chi sarebbe questo … tale?» domandò in mezzo ai colpi di tosse, mentre Thorin gli dava dei colpi sulla schiena.
Elinor si finse sorpresa dalla domanda: «Non lo so, in realtà. Lei non me l’ha detto, e io non l’ho chiesto … mi sembrava una domanda troppo indiscreta. In ogni modo,» aggiunse con noncuranza «chiunque egli sia, trovo che si stia comportando da vero codardo. Voglio dire, si può definire veramente uomo, uno che non ha nemmeno il coraggio di dichiararsi alla donna che ama?»
«Forse ha paura che lei non lo voglia» ringhiò Dwalin.
«O forse, sta solo trovando delle scuse» ribatté prontamente Elinor con un sorriso, vuotando subito dopo il suo boccale con un ultimo sorso.
Si rese subito conto di essere riuscita a raggiungere il suo intento: Dwalin, punto sul vivo, guardava alternativamente lei con aria assassina e Rolgha con aria incerta, come se stesse intraprendendo una dura lotta con se stesso. Elinor non disse una parola: sapeva che non doveva fare altro che aspettare …
Come previsto, infatti, Dwalin ingoiò un’enorme sorsata di birra e, dopo aver borbottato un “torno subito”, si alzò e si diresse a passo deciso verso Rolgha. Elinor, esultando internamente di gioia, lo vide prenderla per un braccio e dirle qualcosa all’orecchio, facendola arrossire; dopodiché, i due scomparirono insieme fuori dalla sala. Soddisfatta e un tantino su di giri, tornò a voltarsi verso Thorin, e si accorse che il nano la stava fissando con aria ammirata.
«Devo farvi i miei complimenti» constatò il nano. «Siete riuscita a fare in cinque minuti quello che io non sono riuscito a fare in mesi di tentativi.»
«Ho solo toccato le corde giuste» si schernì Elinor.
«Non vi nasconderò di essere sollevato … era ora che tutto questo accadesse.»
«Direi che l’evento merita un brindisi, non siete d’accordo?»
Thorin fissò dubbioso il boccale vuoto di Elinor e poi alzò lo sguardo su di lei con aria scettica: «Ne siete sicura?»
«Certo che sì» rispose la ragazza con un sorriso, facendo un cenno al padre di Rolgha.
«Bene, allora» riprese quando, pochi secondi dopo, due boccali pieni arrivarono a sostituire gli altri. «Brindiamo a Dwalin e a Rolgha … e al matrimonio che si terrà tra non molto!»
«Conoscendo i tempi di Dwalin, dubito che arriveranno così in fretta a fare il grande passo» sogghignò Thorin facendo tintinnare il vetro del suo boccale contro quello di Elinor.
«Veramente io stavo parlando del nostro matrimonio.»
Non seppe perché l’aveva detto. Le era venuto fuori così, senza che l’avesse programmato. La birra stava probabilmente iniziando a fare il suo effetto: in una situazione normale, mai si sarebbe sognata di mettere nella stessa frase le parole “noi” e matrimonio” in presenza di Thorin.
«E’ la prima volta che ne parlate con tanta leggerezza» le fece notare il nano, fissandola sorpreso.
Elinor si esibì in un sorrisetto. «Diciamo che sto cominciando a familiarizzare con l’idea.»
«I nostri padri ne saranno lieti …»
«E voi?»
Stava improvvisando, e non poteva farci niente. In qualche modo, era come se le parole avessero vita propria, sgusciando fuori da sole senza prima passare dal cervello. Thorin la fissò con uno strano sorriso sormontato da uno sguardo indagatore.
«Stasera sembrate un’altra persona» disse, eludendo la domanda.
«Nel senso che sto chiacchierando troppo?» ridacchiò Elinor.
«Nel senso che, probabilmente, sto vedendo un lato di voi che ancora non conoscevo.»
«Beh, spero che questo nuovo lato di me non vi spinga a rompere il fidanzamento!»
Thorin sorrise alla proprie mani che stringevano il boccale. «Non ho detto che lo trovo sgradevole.»
Uno strano silenzio calò su di loro, un silenzio che Elinor sentì l’immediata esigenza di spezzare. Prima di replicare, però, si concesse un altro lungo sorso di birra.
«Sapete, questa mattina … quando vi siete confidato con me riguardo a vostro nonno, io … l’ho molto apprezzato» disse infine. «Volevo che lo sapeste.»
«E io ho apprezzato la vostra disponibilità nell’ascoltarmi … » Si interruppe e poi riprese, parlando più a se stesso che ad Elinor. «Voi avete questa strana capacità di … rendere più semplici le confidenze.»
«Mi fa piacere sentirvelo dire» disse Elinor con sollecitudine, sporgendosi verso di lui. «Vorrei davvero che vi sentiste libero di confidarvi con me in qualsiasi momento lo desideriate. »
Il sorriso che affiorò sulle labbra di Thorin esprimeva chiaramente tutta la sua gratitudine, ma aveva un retrogusto amaro. «Mi fate una richiesta che potrei trovare difficile accontentare. Come avrete capito, aprirmi agli altri non è una cosa in cui sono molto bravo … per questo mi stupisco di esserci riuscito con voi.»
«Tutti sentiamo il bisogno di qualcuno con cui sfogarci, prima o poi. E voi dovete avvertire questa necessità molto più degli altri, viste le enormi responsabilità che vi ritrovate sulle spalle …»
Thorin la guardò in modo strano, come se fosse riuscita a leggergli nel pensiero, e per un attimo – per un meraviglioso, folle attimo – Elinor fu convinta che il nano stesse per cedere e confidargli ogni cosa riguardo al colloquio con suo padre. Tuttavia, ancora una volta, dovette andare incontro a una delusione.
«Non dico che non abbiate ragione» fu, infatti, tutto quello che rispose Thorin. «Ma l’ultima cosa che vorrei è scaricare i pesi di cui devo necessariamente farmi carico anche sulle spalle di qualcun altro.» Tacque, fissando il vuoto con aria meditabonda, come se stesse pensando a qualcosa in particolare. «Sono responsabilità che riguardano me e me soltanto» mormorò.
«E anche colei che diventerà vostra moglie, presumo» insistette Elinor.
Thorin la fissò con aria incerta. «Credo che presto lo imparerete di persona, ma … ci sono cose, nel governo di un regno, che non possono essere condivise con nessuno … nemmeno con le persone che ci sono più vicine.»
Maledizione. Maledizione! La cosa si stava rivelando più difficile del previsto, e come se non bastasse lei – al contrario di Thorin, ancora perfettamente sano - stava iniziando a rendersi conto di avere sempre meno il controllo dei propri pensieri e delle proprie parole. Sempre più spesso, mentre lo guardava, si ritrovava costretta a sbattere ripetutamente gli occhi con espressione vacua, perché il suo viso le appariva come sfocato. Ma era una sensazione tutt’altro che sgradevole, anzi … si sentiva leggera, audace e spontanea come non le succedeva da tempo …
«Quindi …» ricapitolò con aria maliziosa, senza nemmeno riflettere su quanto stava per uscire dalle sue labbra «state dicendo che mi considerate una persona vicina a voi?»
Non poteva crederci. Lo stava davvero facendo? Stava davvero civettando con Thorin figlio di Thràin? E per quale ragione non si sentiva nemmeno un po’ in colpa? Forse perché anche il solito pungo allo stomaco dovuto ai rimorsi di coscienza si stava trasformando in una confusa, opaca e inconsistente sensazione di sottofondo …
Elinor non seppe se il modo in cui Thorin le sorrise fosse più stupito o divertito, ma fu più che sicura che non le dispiacque per niente. «Sicuramente vi considero una persona che stimo … » rispose il nano, cautamente «e con cui ho scoperto di avere diverse cose in comune.»
«State continuando ad eludere le mie domande!» ridacchiò Elinor. «Questo è poco gentile, sapete?»
Thorin sospirò. «Elinor, ho paura che in questo momento sia la birra a parlare. Forse sarebbe meglio che ce ne andassimo tutti e due a dormire» disse, in tono di gentile rimprovero.
«Oh, non vorrete interrompere proprio adesso una serata così divertente! Ci tengo tanto a conoscervi meglio, Thorin, davvero …»
Thorin mosse le labbra per dire qualcos’altro, qualcosa che Elinor non riuscì a sentire chiaramente … qualcosa che aveva a che fare con la capacità di reggere l’alcol. Strano come le sue parole gli arrivassero lontane e ovattate, quasi fossero tutti e due immersi nell’ acqua … forse quella birra era davvero troppo forte …
 
Thorin si passò stancamente una mano sul viso e trasse un profondo sospiro.
Aveva la sensazione di essere caduto dentro ad un sogno molto strano, con l’unica differenza che, in questo caso, non gli era possibile svegliarsi e ritornare alla realtà.
Davanti a lui, Elinor parlava e ridacchiava da una mezz’ora buona senza riuscire a fermarsi e, cosa di gran lunga più significativa, senza preoccuparsi minimamente che ciò che stava per dire fosse inappropriato o imbarazzante.
Da qualche giorno – da quando lei gli aveva salvato la vita e aveva difeso tutti loro dalle infamanti affermazioni dei suoi cugini dei Colli Ferrosi - aveva iniziato a trovare la sua compagnia sorprendentemente gradevole. Elinor era diversa dalle nane di sua conoscenza (ovvero le uniche persone di sesso femminile con cui Thorin avesse mai avuto occasione confrontarsi): oltre ad avere un aspetto insolitamente affascinante (a dispetto dell’assenza di barba), irradiava uno strano misto di ironia, spontaneità, mistero e allegria che Thorin trovava estremamente interessante. Aveva detto la verità, poco prima: non avrebbe mai pensato di riuscire a lasciarsi andare con qualcuno, raccontando cose che solitamente tendeva a tenere per sé, come aveva fatto con lei. Si era accorto, tutt’a un tratto, che questo progetto di matrimonio in cui suo padre l’aveva coinvolto cominciava a non essere più una costante fonte di cruccio e di nervosismo; era ancora ben lontano dal poter affermare di esserne felice, ma perlomeno il suo stomaco non si rivoltava più ogni volta che ci pensava. Tuttavia, quando aveva accettato la proposta di Elinor di accompagnarlo alla taverna, mai si sarebbe immaginato che la serata avrebbe preso una piega di quel genere …
Thorin lanciò uno sguardo sconsolato al boccale mezzo vuoto di fronte alla ragazza: era bastato quello, aggiunto all’altro che aveva già bevuto per intero, a trasformare la Elinor tranquilla, gentile e riflessiva che aveva imparato ad apprezzare in un concentrato sconcertante di malizia, ironia, audacia e quasi completa assenza di freni inibitori.
«Non ditemi che non avete il coraggio di sfidarmi a braccio di ferro!» stava ridacchiando in quel momento, con un gomito piantato sul tavolo e la mano bene aperta davanti a lui.
«Elinor …»
«Oh, andiamo, avete paura di questa fragile e delicata donzella senza nemmeno un filo di barba? Eppure con dei bicipiti come i vostri mi mandereste al tappeto in un baleno, ne sono più che sicura! Vi ho visto picchiare il martello su una di quelle incudini, giù alle forge, sapete?»
Non che, fino a quel momento, Elinor avesse fatto niente di particolarmente scandaloso: era ancora ben lontana dall’essere del tutto sbronza (e di questo Thorin era infinitamente grato). Più che altro, l’effetto della birra su di lei si era limitato ad un’euforica allegria e all’impossibilità di far passare i pensieri al setaccio della ragione prima che si trasformassero in parole e si lanciassero fuori dalle labbra. In ogni modo, la cosa stava cominciando a rivelarsi piuttosto imbarazzante, soprattutto per l’inaspettata confidenza che quella situazione aveva aiutato a creare tra lui ed Elinor.
«Elinor, credetemi … non credo sia il caso» disse, afferrandole gentilmente il braccio e costringendola ad abbassarlo di nuovo sul tavolo. Prima che potesse staccare la mano dal suo polso, però, Elinor vi mise sopra la sua, fissandolo con aria di scherzoso rimprovero.
«Dovreste sorridere di più, sapete? I vostri occhi sono più belli, quando lo fate!»
Thorin ritirò in fretta la mano, frastornato, senza sapere cosa rispondere. Pregò intensamente i Valar che la sua faccia non avesse assunto strane colorazioni indicatrici di imbarazzo, e ringraziò che nella taverna regnasse la penombra.
Vederla così sciolta, così disinvolta, così sfacciatamente audace, lo affascinava e allo stesso tempo lo spaventava. Più lei gli sorrideva con gli occhi scintillanti per l’allegria e per l’alcol, con il viso arrossato e  incorniciato da piccole ciocche bionde sfuggite alla treccia, più lui si irrigidiva.
Maledizione. Dove diavolo era Dwalin, quando serviva?
Thorin guardò disperatamente verso la porta, ma non sembrava esserci alcuna traccia dell’amico e della sua innamorata. Si erano eclissati dalla sala più di mezz’ora prima, e ancora non sembravano avere la minima intenzione di ricomparire. Avrebbe dovuto cavarsela da solo, a quanto pareva …
«Come faceva quella … quella canzone che ho ballato al banchetto … durante la mia prima sera qui?» stava chiedendo Elinor in quel momento. Canticchiò per qualche secondo tra di sé un motivetto stonato e incomprensibile, poi, all’improvviso, parve ricordarsi: «Oh, sì, ci sono! Vieni, mia dolce fanciulla, poggia il tuo capo con me su quest’erba …»
«Credo proprio che sia ora di andarsene a dormire, adesso» decretò Thorin con fare deciso, alzandosi e facendo il giro del tavolo. «Coraggio, venite con me.»
«Ma non ho ancora finito la mia birra!» protestò Elinor, scrollandosi via dalla spalla la mano che Thorin vi aveva posato sopra. «E voi dovete ancora ascoltare la mia canzone … state a sentire … Di foglie e di rose sarà il tuo vestito, di sole e di vento saprà il tuo sorriso …»
«Elinor, voi e la birra non sembrate andare troppo d’accordo, forse ve ne sarete accorta. Datemi ascolto, e lasciate che vi accompagni nelle vostre stanze.»
Elinor lo guardò per qualche secondo con la faccia delusa di una bambina a cui sono stati appena tolti i giocattoli; un istante dopo, tuttavia, il disappunto si era già trasformato in un sorriso divertito.
«I casi sono due» disse la ragazza ridacchiando. «O sono molto stonata, o non vi piace la mia compagnia.»
«Io apprezzo moltissimo la vostra compagnia; vi preferisco quando siete sobria, tutto qui. Adesso, però, vorreste venire con me? Ve ne sarei per sempre grato.»
Elinor lo osservò guardinga, come valutando la sua richiesta, finché, con suo enorme sollievo, Thorin la vide alzarsi dalla panca con un sorrisetto malizioso sulle labbra. «Beh, se la mettete in questo modo … » disse la ragazza, accingendosi a seguirlo. Non fece in tempo a muovere due passi, tuttavia, che le gambe parvero cedere sotto il suo peso, ed Elinor incespicò nell’orlo della gonna, aggrappandosi al bordo del tavolo all’ultimo momento.
«Per Mahal …» borbottò Thorin esasperato, accorrendo subito a sorreggerla. «Coraggio, appoggiatevi a me. Ce la fate a camminare?»
«Certo che sì!» esclamò Elinor divertita, come se lui stesse facendo domande senza senso. «Sto benissimo, non dovete preoccuparvi per me!»
«Me ne sono accorto» replicò Thorin sarcastico, mentre, con Elinor appoggiata alla sua spalla, iniziava a dirigersi verso l’uscita. Sperò con tutto il cuore che la ragazza riuscisse a reggersi abbastanza in piedi da non dare troppo nell’occhio: per adesso i nani presenti sembravano non aver fatto troppo caso allo strano aumento di allegria nel comportamento di Elinor, ma Thorin non ci teneva a far sapere ai suoi sudditi in che condizioni versava in quel momento la futura Regina sotto la Montagna.
Quando fu vicino al bancone, chiamò con un cenno il padre di Rolgha, che gli si accostò immediatamente.
«Ce ne andiamo» mormorò con discrezione, facendogli tintinnare in una mano alcune monete d’argento per saldare il conto. «Se doveste rivedere mastro Dwalin ditegli che mi dispiace, e che gli spiegherò tutto domani.»
Il nano annuì e salutò il suo principe con un profondo inchino. «Al vostro servizio, Altezza.»
La risalita della scala che portava fuori dalla taverna fu lenta, ma per fortuna non particolarmente traumatica. Thorin era solo vagamente consapevole dell’euforico chiacchiericcio in cui Elinor tentava di coinvolgerlo, perché tutta la sua concentrazione era vòlta a impedire che la ragazza lasciasse la presa sulla sua spalla e rovinasse miseramente giù dalle scale. Fu enormemente sollevato quando, finalmente, riuscirono ad arrivare in cima, e non riuscì a impedire che un lungo sospiro di sollievo fuoriuscisse dalle sue labbra.
«No, non di là!» disse ad Elinor, impedendole di incamminarsi verso la parte sinistra del corridoio e sospingendola nella direzione da cui erano venuti per raggiungere la taverna. «Le vostre stanze sono da quella parte, l’avete dimenticato?»
Elinor ridacchiò, lasciandosi guidare docilmente nella direzione giusta. «Davvero? Cielo, avevo detto che avrei fatto del mio meglio per imparare a orientarmi in questo posto, ma non sembra che ci stia riuscendo granché!»
«Potete dirlo forte … » sibilò Thorin a denti stretti, facendo del suo meglio per sostenerla.
Non poteva crederci. Non stava accadendo veramente. Non stava accadendo a lui. Lui, in quel momento, era giù alla taverna, seduto al suo solito tavolo d’angolo, scherzando con Dwalin davanti ad un boccale di birra e riposandosi dalle fatiche di quella giornata. Come tutte le maledettissime sere. Il peso di Elinor sulla spalla e il suono delle sue risatine da brilla, tuttavia, erano troppo reali per permettergli anche solo di sperare che prima o poi si rivelassero solo un frutto della sua immaginazione. 
Con la coda dell’occhio, vide Elinor assumere un’espressione sinceramente dispiaciuta.
«Mmmh … ho esagerato con la birra, non è vero? Per questo adesso siete arrabbiato con me …»
Valar, quegli improvvisi cambiamenti d’umore sfociavano quasi nell’inquietante!
«Non sono arrabbiato con voi» borbottò in tono più brusco di quello che avrebbe voluto. Non era del tutto vero, in realtà, ma come poteva spiegarle che riaccompagnare di peso nelle sue stanze la sua promessa sposa perché riusciva a malapena a reggersi sulle gambe non rientrava esattamente in ciò che si era aspettato da un contratto di matrimonio? Senza contare che, in un certo senso, la situazione aveva anche un lato indiscutibilmente comico che Thorin, pur con tutto l’impegno possibile, faticava a mettere in secondo piano …
«Meno male! L’ultima cosa che vorrei è farvi arrabbiare di nuovo» rispose Elinor, traendo un sospiro di sollievo. Subito dopo, come seguendo il filo di un pensiero sopraggiunto improvvisamente, i suoi occhi si illuminarono di una luce divertita, e la ragazza prese di nuovo a ridacchiare: «Sapete, quando ci siamo conosciuti ricordo di aver pensato di non aver mai incontrato una persona così sgradevole in vita mia! Pensavo foste un individuo arrogante, cocciuto, burbero, insensibile, asociale, e …»
«E…?»
«E poi basta … credo» concluse Elinor, non prima di averci pensato su un paio di secondi.
«Ve ne sono infinitamente grato» ringraziò Thorin, sarcastico.
«E chissà cosa dovete aver pensato voi di me! Probabilmente che ero solo una stupida, altezzosa, schizzinosa, insolente …»
«Non ha più importanza, adesso, d’accordo?» la interruppe. «Abbiamo risolto tutte le nostre divergenze.»
Fu enormemente sollevato, quando raggiunsero finalmente l’ampio portone di quercia e uscirono nei Giardini Interni. L’aria fresca della notte fu un vero toccasana, e Thorin sperò con tutto se stesso che contribuisse a risvegliare un po’ Elinor dal suo euforico torpore. Per qualche minuto, complice una momentanea diminuzione dell’intensità del chiacchiericcio, arrivò persino a illudersi che le sue speranze si stessero avverando; dovette ricredersi, tuttavia, quando la ragazza fu sul punto di schiantarsi sulla ghiaia del viale dopo aver messo un piede in fallo, e si vide costretto ad afferrarla prontamente per la vita.
L’inaspettato contatto con il calore del suo corpo e l’improvvisa vicinanza tra i loro visi riuscirono a metterlo seriamente in difficoltà: per un lungo momento sentì la testa girare, come se ad essere un po’ brillo fosse lui, e si ritrovò assurdamente a riflettere sul fatto che non aveva mai notato quanto la linea delle labbra di Elinor fosse armoniosa
«Che cosa state facendo?» sussultò Thorin, preso alla sprovvista. Elinor, come se fosse la cosa più naturale del mondo, aveva avvicinato il naso ai suoi capelli e li stava annusando con un piccolo sorriso di beatitudine stampato in volto.
«Avete un odore così buono …» rispose. «E’ una delle cose che mi piace di più della sera … vedervi arrivare a cena … e sentire il vostro odore dopo esservi fatto il bagno. Vi piace il sapone al tiglio? Io adoro il sapone al tiglio …»
«Non … non ne ho idea …» rispose Thorin, frastornato. Una strana sensazione gli attanagliava la bocca dello stomaco, e sembrava non volerne sapere di scomparire. Ma perché una cosa del genere era dovuta capitare proprio a lui? Perché? Perlomeno sperava che l’alleanza con gli Elfi si rivelasse proficua, in modo da non rendere del tutto inutile la fatica e l’imbarazzo che stava affrontando in quel momento!
In qualche modo che Thorin non fu in grado di spiegarsi, Elinor riuscì a mantenersi in piedi quanto bastava per percorrere il resto del tragitto senza ulteriori incidenti, e per raggiungere pressoché illesa il corridoio in cui si trovavano le sue stanze. Quando si ritrovò finalmente davanti alla porta di legno istoriato, Thorin provò un tale sollievo che per poco non lasciò la presa, facendola cadere a terra proprio a un passo dal raggiungimento della loro méta.
«Venite» disse il nano, aprendo la porta e sospingendola all’interno. «Siamo arrivati, finalmente …»
Una volta dentro, Thorin ebbe qualche secondo per rivolgere una breve occhiata intorno a sé. Fece vagare lo sguardo sul letto accuratamente rifatto, sulla specchiera addossata al muro di fronte su cui erano poggiati pochi oggetti, sul vestito verde indossato da Elinor la sera prima che pendeva con aggraziata noncuranza dallo schienale della sedia, sul baule aperto ai piedi del letto nel quale si potevano intravedere abiti di ogni tipo e colore.
Così erano quelle, le stanze di Elinor … era lì che la ragazza si ritirava tutte le sere per andare a dormire, era davanti a quella specchiera che si sedeva per sciogliere le trecce della sua acconciatura e a spazzolarsi i capelli, era sotto quelle lenzuola che si distendeva e prendeva sonno …
Thorin si chiese se anche a lei, prima di andare a letto, capitasse di passeggiare nervosamente su e giù per la sua stanza, rimuginando su quel fidanzamento non voluto e sulle responsabilità che, inevitabilmente, esso avrebbe comportato. Le sembrava quasi di vederla, con le braccia nude e bianche incrociate sul petto, i capelli biondi che le ricadevano distrattamente sulla schiena e le sopracciglia aggrottate sugli occhi verdi …
Proprio in quel momento Elinor – quella in carne e ossa aggrappata alla sua spalla e reduce da una traumatica esperienza con la birra – sembrò rendersi conto di dove si trovava, e, barcollando, tentò di slanciarsi verso il proprio letto.
«Fate attenzione!» la ammonì Thorin, riprendendola all’ultimo momento prima che la sua testa finisse dritta contro una delle colonne del letto a baldacchino. «Ce la fate ad arrivare al letto?»
«Penso di sì … » mugolò Elinor con voce appena udibile. Sembrava che, improvvisamente, tutta la sua euforica allegria fosse evaporata, sostituita da una grande confusione. «Sapete, non mi sento per niente bene …»
«Credetemi, non ho difficoltà a immaginarlo» rispose Thorin, costringendola con gentile fermezza a sedersi sul letto. Gli era capitato diverse volte di prendere sbronze anche più pesanti di quella (solitamente, in compagnia di Dwalin), e ogni volta arrivava sempre il momento in cui la voglia di ridere, di cantare e di scherzare lasciava il posto a mal di testa lancinanti, giramenti di testa e volti pallidi come la cera.
«Vi ho fatto passare una serata orrenda, vero?» borbottò Elinor, tentando senza molto successo di slacciarsi gli stivaletti che portava ai piedi. Dopo averla osservata per qualche secondo muovere goffamente le dita tra i nastri di cuoio, Thorin, impietosito, si chinò per aiutarla.
«Diciamo che, solitamente, preferisco trascorrere il mio tempo libero in altri modi» rispose il nano con un filo di burbera ironia. «Ma immagino che sia un bene spezzare la monotonia, ogni tanto.»
«Siete così gentile, con me … non sono … non sono sicura di meritarmelo … ditemi la verità, adesso romperete il fidanzamento?» chiese Elinor con una punta d’ansia nella voce impastata.
«Francamente mi avete fatto cadere in tentazione diverse volte, questa sera, ma tutto sommato credo di poter passare sopra alla cosa» scherzò Thorin, trattenendosi dallo scoppiare a ridere e prendendola gentilmente per le spalle. «Adesso distendetevi e cercate di dormire. Domattina, quando vi sveglierete, tutto questo sarà solo un brutto ricordo.»
Elinor si lasciò docilmente adagiare sulle coperte, ma mentre il suo corpo stava iniziando a rilassarsi, la sua mente non sembrava ancora disposta a fare lo stesso. «Oh, Thorin …» insistette, con ansia ancora maggiore. «Io ci sto provando a far andar bene questa … questa cosa … davvero! Mi credete?»
La nota di supplica che emerse dalla sua voce fu talmente evidente che Thorin ne fu quasi intenerito.
«Certo» rispose gentilmente. «Certo, vi credo. Adesso, però, riposate. Lo sanno i Valar, se ne avete bisogno.»
Fece per allontanarsi e lasciarla tranquilla, ma una mano di Elinor scattò con rapidità inaspettata ad afferrargli una manica.
«No!» esclamò, trattenendolo. «No, voi … voi non capite … tutti vogliono qualcosa da me, si aspettano delle cose, e io …»
«Elinor, non sapete più quello che dite …»
« … io … io non ci sto capendo più niente, davvero … e voi non aiutate affatto, se … se continuate ad essere così affascinante e … e ad avere un profumo così buono … e …»
Qualcosa di molto simile ad un fulmine si abbatté con violenza nelle mente di Thorin, lasciandolo inebetito per quelli che gli parvero lunghi minuti, ma che in realtà dovevano essere stati solo pochi secondi.
«Come … come avete detto?» balbettò, quando finalmente riuscì a recuperare l’uso della parola.
«Valar, la mia testa … credo che stia per esplodere …»
Elinor aveva chiuso gli occhi e si stava passando una mano sulla fronte madida di sudore, apparentemente ignara di quello che era appena uscito dalle sue labbra.
«No … no, io intendevo prima … cosa avete detto?» insistette Thorin, andandole più vicino.
«… ‘etto ‘osa?» farfugliò Elinor, la testa abbandonata di lato sul cuscino, chiaramente sul punto di scivolare in un sonno profondo. Thorin, a quel punto, dubitava persino che ricordasse che lui si trovava lì.
«Niente …» mormorò. «Non importa … riposate.»
Come aveva previsto, circa due secondi dopo il respiro di Elinor si fece più pesante e regolare, segno che la ragazza aveva ceduto alla stanchezza e all’effetto della birra per concedersi il meritato riposo.
Thorin rimase per diversi secondi in piedi accanto al letto, in preda al più totale scombussolamento, guardando il suo petto che si alzava e si abbassava placidamente, le mani sottili poggiate sulla pancia e la treccia bionda per metà sfatta abbandonata sul cuscino a circondarle il viso addormentato.
Gli pareva di aver perso la facoltà di formulare pensieri sensati. Tutto quello che riusciva a fare era riascoltare continuamente nella propria testa, come un’eco ovattata, le parole che pochi secondi prima erano uscite dalle labbra di Elinor.
Così affascinante … un profumo così buono …
Dopo che si erano riappacificati in seguito all’agguato degli orchi, Thorin aveva nutrito buona speranze che quel fidanzamento forzato potesse sfociare in una situazione - se non altro - di stima reciproca. Si era anche ritrovato più volte a pensare che Elinor fosse una persona interessante, piacevole e dal carattere deciso, al fianco della quale non sarebbe stato spiacevole trascorrere il resto della vita. Ed ecco che lei, dopo un’intera serata passata a cercare di instaurare una sempre maggiore confidenza, gli faceva capire senza ombra di equivoci di non essergli affatto indifferente. Doveva essere un sentimento sepolto a fondo nella sua coscienza, se per tirarlo fuori ci erano voluti quasi due boccali di birra, certo. Pero, a quanto pare, c’era.
Thorin non fu in grado di capire quali fossero le sue sensazioni. Era troppo confuso. Quella rivelazione, invece di rallegrarlo o di lusingarlo, gli aveva fatto lo stesso effetto di un tuffo inaspettato nell’acqua gelata.
Fu solo quando riuscì a riscuotersi dal torpore in cui era piombato, che, improvvisamente, sentì tutta la stanchezza della giornata – e in particolare della serata – piombargli addosso come un macigno. Capì che Elinor non era l’unica ad avere bisogno di riposo, e che una salutare dormita lo avrebbe aiutato, se non altro, a schiarirsi le idee.
Si diresse a passi lenti verso la porta, che, dopo essere scivolato silenziosamente fuori dalla camera, richiuse cercando di fare meno rumore possibile (anche se dubitava fortemente che, in quel momento, qualcosa avrebbe potuto svegliare Elinor dal sonno profondo in cui era caduta).
Si fermò per qualche istante fuori dalla stanza, fissando il vuoto con aria inebetita. C’erano momenti in cui tutta quella situazione gli sembrava così surreale da non avere dubbi che si trattasse di un frutto della sua immaginazione. Le parole sconnesse di Elinor, tuttavia, continuavano a martellargli nella testa, e in modo sempre più insistente …
Così affascinante … un profumo così buono …
Anche lei aveva un buon profumo. L’aveva sentito fin troppo bene, mentre se ne stava avvinghiata alla sua spalla, cercando di arrivare alla sua stanza senza inciampare nei propri piedi. Gli pareva quasi che i suoi vestiti ne fossero ancora impregnati …
Si passò stancamente una mano sul viso e, dopo aver tratto un profondo, lunghissimo sospiro, si avviò lungo il corridoio fiocamente illuminato.


 
 
 
ANGOLO AUTRICE
Saaaalve! Qualcuno è ancora vivo dopo tutto questo lunghissimo sproloquio? Se c’è ancora qualcuno, inizio con il farvi – come al solito – la mie scuse per il tempo vergognoso che ci ho messo ad aggiornare. Ma ormai avrete capito che sono un caso senza speranza, giusto? XD In secondo luogo, mi scuso anche se a qualcuno il capitolo sarà sembrato eccessivamente lungo. Purtroppo, per esigenze di trama e di “ritmo” della storia non ho potuto tagliare nulla … senza contare che l’episodio della sbronza di Elinor - e la conseguente rivelazione del suo non essere affatto indifferente a Thorin – doveva necessariamente essere messo in chiusura ;) Comunque farò il possibile perché il prossimo capitolo sia più breve, giuro! Come avrete intuito, dal prossimo capitolo in poi le cose tra i nostri due protagonisti dovrebbero iniziare a farsi più interessanti … spero di non deludere le vostre aspettative! Per la canzone che Elinor si mette a canticchiare da brilla, ho preso vagamente ispirazione da Oh, lay my sweet lass down in the grass, una delle canzoni più amate dai menestrelli di Westeros e che si trova in uno dei miei capitoli preferiti di A storm of swords (i fan delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sapranno di cosa parlo … tutti gli altri, se vogliono, possono trovare il testo a questo link: https://www.goodreads.com/quotes/620722-my-featherbed-is-deep-and-soft-and-there-i-ll-lay).
Penso di aver ciarlato abbastanza J Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, e come al solito ringrazio tutti coloro che hanno speso un po’ del loro tempo per leggere! Un ringraziamento particolare va alla cara Eruanne, che nelle ultime settimane mi ha fornito un sostegno psicologico non indifferente per arrivare alla fine di questo capitolo e ha sopportato tutti i miei scleri in proposito con grande pazienza XD
Un grande abbraccio e alla prossima!
Linda
P.S. Come al solito, vi lascio il link della mia pagina FB, per chi volesse rimanere aggiornato con le mie storie: https://www.facebook.com/mrsblack90efp

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