Luna di Fuoco

di hanabi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove i destini collidono. ***
Capitolo 2: *** Dove si scoprono strane verità ***
Capitolo 3: *** Dove i due destini diventano uno ***
Capitolo 4: *** Dove la sfida porta alla vittoria e la vittoria alla sfida ***
Capitolo 5: *** Dove molte cose cominciano a cambiare ***
Capitolo 6: *** Dove i mondi si toccano... e si respingono. ***
Capitolo 7: *** Dove gli uomini si confrontano, e le profezie si incrociano ***
Capitolo 8: *** Dove il passato e il presente si toccano ***
Capitolo 9: *** Dove gli opposti si incontrano, e si scontrano. ***
Capitolo 10: *** Dove le nuvole oscurano il cielo ***
Capitolo 11: *** Dove un duello decide molte cose ***
Capitolo 12: *** Dove si raccoglie una messe, e si seminano altre. ***
Capitolo 13: *** Dove il passato complica il presente ***
Capitolo 14: *** Dove la morte cerca chi abbracciare ***
Capitolo 15: *** Dove vecchie e nuove ferite bruciano ***
Capitolo 16: *** Dove si alternano lacrime e sorrisi ***
Capitolo 17: *** Dove alcuni hanno ciò che si meritano ***
Capitolo 18: *** Dove matura un frutto aspro ***
Capitolo 19: *** Dove la morte gioca a cambiare la vita ***
Capitolo 20: *** Dove si preparano molte imprese ***
Capitolo 21: *** Dove qualcuno vuol tornare a casa ***



Capitolo 1
*** Dove i destini collidono. ***


Due sono le forze dell'universo, e uno il Vuoto.

Due sono i soli del mondo, e uno lo Spazio.

Due sono gli dèi, e una il Mistero.

Due sono le razze degli uomini, e una La Perduta.

Due sono i continenti del mondo, e due gli Oceani.

Dodici sono i principi di Kelitha, e due i re di Sayanna.

Uno è il mondo

E uno è il suo gemello che sorge nel cielo,

Luna di Fuoco.

 

 

(Filastrocca kelith) 

 

 

 

 

 

Ran raccolse la lancia che l'aveva reso famoso, controllò un'ultima volta le sue armi, accarezzò gli amuleti che portava al collo, poi uscì di casa.

Non sprecò nemmeno una preghiera per i suoi déi irriconoscenti. Tutti i sacrifici che aveva portato al tempio non erano serviti a portargli fortuna; e le personificazioni divine sulla terra, i re di Sayanna, non avevano esitato un istante a sigillare la sua condanna a morte per diserzione.

Che cosa doveva Ran ai divini Kamoh e Lilia? Niente!

Camminando verso la Grande Casa, passò per la piazza che era semivuota a quell'ora afosa. Nemel e Chat lo videro, e immediatamente voltarono le teste per non doverlo guardare in faccia. Ran sputò a terra, con ostentazione, come per dire: Faccio a meno anche di voi! E quindi fece solennemente finta di non vederli.

Ma dentro di sé digrignava i denti. Vigliacchi! L'avevano abbandonato al suo destino, dopo una burrascosa riunione, ritirando la loro parte della cassa comune.

"Abbiamo fatto male a lasciare Teji per metterci in proprio," aveva dichiarato Chat.

"Teji lo Stitico," aveva corretto Ran, "Così lo chiamano tutti. E la sua squadra? Gli Affamati... dovevamo restare tali per tutta la vita?"

"Che cos'è cambiato, Ran? Eravamo affamati di nome con Teji, ora lo siamo di fatto con te."

"Ma quel poco che abbiamo è tutto nostro."

"Anche la responsabilità!... Di questo passo, prima della fine della stagione dovremo dichiarare bancarotta. No, dobbiamo chiudere, ora, finché siamo in tempo."

"Teji ci ha mandato un messaggio," aveva detto Nemel. "Dice che gli è piaciuta la nostra intraprendenza, e che è pronto a riassumerci tutti..."

"A metà della paga, si intende," aveva concluso Chat. "È chiaro che vuole farcela pagare per averlo piantato."

"E voi cos'avete risposto?!" aveva chiesto Ran, sconvolto.

"Abbiamo accettato."

"Ma siete pazzi?!" aveva urlato lui, alzandosi di scatto.

"Non vogliamo finire in schiavitù per il tuo stupido orgoglio!" aveva esclamato Chat. "Noi ritorneremo con Teji. Meglio poveri, ma liberi. Se vuoi continuare questa tua folle guerra contro tutto e tutti, la farai da solo. Lasciamo l'impresa e ritiriamo la nostra parte di cassa... quella che ci è rimasta!"

Ran si era reso conto che facevano sul serio, il suo tono si era improvvisamente addolcito.

"Via, ragazzi, che discorso è questo?... Certo, non siamo stati molto fortunati in questo periodo, ma le cose andranno meglio, vedrete. Ho in mente un buon colpo..."

"Come l'ultimo?" aveva ribattuto Nemel. "Tra informazione, trasferimento, ritorno precipitoso abbiamo speso un sacco di denaro. E in cambio, niente! Tutti ci hanno riso dietro. Solo noi potevamo andare in tre a cercare di rubare le tasse di un principe kelith!"

"Duecento uomini armati di scorta," ricordò Chat, "la fuga più veloce che abbia mai fatto!"

"È stato un caso, amici miei..."

"No! La verità, Ran, è che tu non hai la stoffa per queste cose. Non potevamo saperlo quando ci siamo messi con te, ma non è nemmeno colpa tua, quindi non te ne vogliamo. Però ascolta il nostro consiglio: molla tutto e torna da Teji con noi."

"Mai! Piuttosto vendo la mia Sacra Membrana in una casa di piacere!"

"È proprio questa la fine che farai." Chat si era alzato, e Nemel con lui. "Noi andiamo alla Grande Casa a cancellare la nostra partecipazione. Buona fortuna, Ran."

E se n'erano andati davvero...

Stupido orgoglio un accidente!, pensò ora, marciando con irruenza.

I mercanti stavano al coperto, sotto le loro verande, sorseggiando bevande fresche. Lo guardarono brevemente, come per misurargli i soldi addosso, quindi tornarono alle loro occupazioni: quel rattoppato razziatore sayanni non aveva certo l'aria abbiente. La sua pelle pigmentata d'azzurro era piuttosto scura, segno che era cotto dai raggi solari; i suoi capelli erano privi di un'adeguata acconciatura; sua unica attrattiva era il corpo possente tipico della sua razza montanara, e la mancanza di tatuaggi matrimoniali che lo indicava ancora vergine...

Sì, ma ancora per quanto?, si chiese Ran con angoscia. Tra i sayanni tutti, maschi e femmine, erano dotati alla nascita di una membrana assai tenace, che pur non ostacolando le altre funzioni corporee impediva validamente l’accoppiamento fino alla sua rimozione. La cultura sayanni aveva visto in ciò un disegno divino e aveva fatto dell’illibatezza un valore assoluto. Solo il matrimonio, unico e indissolubile, giustificava la rimozione dolorosa di quell’impedimento, e ciò avveniva nella massima ritualità. 

Per questo i sayanni vivevano in una società totalmente paritaria, in cui le differenze sessuali erano solo funzionali alla prosecuzione della specie. Di qualsiasi casta fosse, un sayanni era tenuto a mostrarsi integro nel rispetto dell’antico ideale, e integro anche dal punto di vista fisico: non era difficile scoprire un disonorato che avesse perso l’illibatezza al di fuori delle regole, visto che in una cultura dall'erotismo abolito non si dava poi molta importanza alla promiscuità e alla nudità: uomini e donne non sposati si comportavano come individui asessuati e condividevano senza problemi gli stessi luoghi in cui vivere, lavarsi e compiere le proprie necessità fisiologiche.

Ran sapeva che le cose rare interessano più delle usuali, e quindi diventando schiavo avrebbe perso la sua benamata membrana, prodotto assai richiesto da femmine ormai disonorate, e dalla notoria perversione kelith. E Chat aveva avuto ragione, alla schiavitù ci stava andando assai vicino. Non c'era misericordia per chi faceva bancarotta nella Comunità. Il prezzo di ciò era un risarcimento salato a cui in genere non si poteva far fronte; e allora, inesorabilmente, sarebbe stato venduto ogni bene del fallito... compreso il fallito stesso.

Per tutti i demoni! Mi deve sempre andar tutto storto? pensò Ran, rabbiosamente. Ed entrò nella Grande Casa, fresca e silenziosa come sempre.

Passò per l'Atrio delle Informazioni, dove uno dei misteriosi Marjaban dalla pelle nera aspettava i clienti, con l'aria più paziente del mondo. Innumerevoli targhette erano appese alle pareti, con qualche parola, qualche simbolo che elencavano il contenuto: il testo era scritto sul retro, ma per leggerlo bisognava pagare, tanto più salato quanto era buona l'informazione. Erano note degli altri pirati vendute ai Marjaban, con garanzia di veridicità. I Pellenera decidevano il prezzo d'acquisto e di vendita, e non c'era spazio per contrattare. Del resto in genere i prezzi erano onesti, proporzionati alla ricchezza di dettagli delle informazioni. Una volta Ran aveva provato a vendere qualche notizia, ma il Marjaban gli aveva dato solo qualche spicciolo...

"Non è mestiere per te, sayanni. Queste notizie valgono molto poco, e tu rischi tantissimo: se qualcuno più matto di te volesse usarle e non le trovasse giuste, avrebbe tutto il diritto di ucciderti."

Nemmeno come informatore quindi Ran valeva molto. E sapeva benissimo il perché: un guerriero di bassa lega com'era lui, tale per diritto di casta, non aveva la cultura, l'eloquenza e la sapienza necessaria... non per nulla la maggior parte degli informatori di professione apparteneva alla casta dei t'yr, i saggi sayanni; oppure erano mercenari kelith, che erano liberi dai vincoli di casta ed apprendevano il mestiere in una scuola.

In molte cose i kelith erano superiori ai sayanni. Intollerabile! Quei deboli pervertiti pellebianca, dalla forza fisica nemmeno lontanamente paragonabile a quella del popolo azzurro, erano però i loro più mortali nemici. Dove le loro flaccide braccia non arrivavano, giungevano le macchine ingegnose che costruivano. Davano molta importanza alla sapienza, anche se poi la riservavano ai loro aristocratici depravati. Per un solido sayanni di montagna come Ran, essi costituivano nient'altro che una razza di topi...

Doveva essere per quello che lui sceglieva sempre obiettivi kelith: li riteneva più facili. E proprio la sottovalutazione delle sue vittime era la causa principale dei suoi fallimenti.

Ciò nonostante, cocciutamente, si apprestava all'ennesima impresa in Kelitha. Contò le sue monete e comprò un'informazione da poco prezzo: semplicemente la posizione di un grosso incrocio di strade, da cui era probabile intercettare il passaggio di qualche carro di merci. Quindi passò alla sala del Vortice. Non c'era nessuno davanti a lui, quindi il Marjaban di turno lo invitò subito ad entrare ed a mettersi all'interno del Cerchio.

"Dove vuoi andare?"

Ran nominò la posizione. Il Marjaban andò a studiare una gran mappa del mondo, seguendo delle linee con il suo indice nodoso e nero. Annuì, controllò le sue numerose clessidre, fece dei calcoli e quindi sentenziò il prezzo.

Ran deglutì.

"Prelevalo dal mio conto," disse, pregando di aver denaro bastante.

Il Marjaban controllò le sue tavolette, trovò quella di Ran, la contemplò con interesse.

"Hai fondi solo per un'altra missione oltre a questa. Dovrò avvertire Mastro Kurmaji, secondo le regole. Sarai convocato al ritorno. Possano gli dei darti un ricco bottino, poiché manca poco alla chiusura della stagione e alla presentazione dei bilanci delle squadre."

"C'è altra gente nei guai?"

"Molte piccole squadre, che sono più facilmente in difficoltà; ma anche qualche grande che ha assunto troppa gente e ora è sotto in liquidità." Lo sguardo ambrato del Marjaban si fissò in quello di Ran. "Ma è più facile per una grande squadra risollevare le proprie sorti. E il rischio è uguale per tutti i caposquadra, che abbiano o no tanti dipendenti. Tu poi non ne hai nemmeno uno..."

"Meglio soli che male accompagnati."

"Ognuno è libero di scegliere la propria strada per l'inferno," replicò tranquillamente il Marjaban. Diede a Ran il sacchetto con la Polvere, l'ingrediente indispensabile per il ritorno, e cominciò ad agitare le braccia, cantando la solita nenia.

E Ran vide tutto diventare nero, ma non si sgomentò. Si chiese se quell'oscurità potesse essere un buon simbolo per il suo futuro. In Sayanna gli avrebbero schiacciato la testa con il Grande Martello in quanto disertore. In Kelitha l'avrebbero destinato alla tortura per diletto di qualche ricco. A casa lo aspettava Mastro Kurmaji con la sua quieta minaccia di schiavitù...

Chat aveva ragione: era uno stupido orgoglioso. Ma Teji non l'avrebbe mai riassunto con vergogna.
Mai! 



 

 

 *

 

 

 

 

 

"È la terza festa del genere che Unari deve organizzare," commentavano salacemente alcuni ospiti nei favolosi giardini della residenza principesca di Shana, con le loro siepi curate all'inverosimile, i selciati a mosaici luccicanti, le garrule fontane che rinfrescavano l'aria già molto calda. La musica di abili suonatori si fondeva con il fruscio delle foglie dei cespugli di spezie.

"Questo è l'ultimo figlio della sua Prima tra le Prime," rispose qualcun'altro, indicando con quel termine la moglie principale. "Dopo di lui, Unari dovrebbe cercare un erede tra i cadetti... i figli delle sue schiave!"

"E questo non sarebbe molto onorevole," ribattè qualche voce.

"Come siete crudeli a spargere questi pettegolezzi!" esclamò un anziano ambasciatore. "Non è colpa di Unari-shir se i suoi eredi diletti sono morti, né la sua Prima tra le Prime ha lesinato gli sforzi per generare altri maschi. Tre eredi sembravano garanzia sufficiente per il nostro anfitrione, ma vedete come va il mondo... ora tutte le speranze di Shana sono riposte in quel principe laggiù."

E indicava l'erede, dalla caratteristica età indefinita dei nobili kelith: una figura dalla bellezza classica che molti guardavano con ammirazione. Il corpo era snello, agile e ben costruito, il volto giovane e maturo ad un tempo. Gli occhi erano penetranti, severi, specchio di intensi insegnamenti. Il suo autocontrollo era formidabile, i suoi pochi movimenti pieni di grazia.

"Si dice che sia un adepto della dea El," mormorò qualcuno. E c’era del timore in quella voce, perché ormai i templi della Misteriosa erano pressoché deserti, e ben pochi osavano apprendere il segreto di quel culto.

"Avrà ucciso lui i suoi fratelli?"

"Unari l'ha messo sotto inchiesta, ma l'ha scagionato..."

"Avrebbe avuto il coraggio di condannarlo?"

"Unari? Lui? È spietato con tutti. Ha fatto impalare un suo cadetto per aver insultato il precedente erede..."

"Sì, che voleva possedere sua madre!"

"Ma tanto non era che una schiava, no? Unari la poteva regalare a chi gli pareva, anche a suo figlio."

"Era suo figlio anche il cadetto."

"Ma un erede è infinitamente superiore! Di cadetti ce ne sono tanti, tutto sommato..."

"Quel ragazzo ci ha messo tantissimo, a morire..."

"Oh, sì. Uno spettacolo affascinante, lo ricordo benissimo."

L'indifferenza all'atrocità da parte dei nobili kelith era uno dei loro normali attributi, assieme all'albinismo accuratamente preservato nei secoli. Pelle quasi trasparente, occhi rossi e capelli bianchi erano segni distintivi della classe dominante di Kelitha, uno dei due vasti continenti del mondo da sempre in guerra contro l'altro, Sayanna. Per quello i sayanni dipingevano di bianco le effigi dei loro demoni.

Ma Deyan-shir, nuovo erede al trono di Shana, sapeva che ovunque nella sua terra sarebbe stato riconosciuto e onorato come nobile, invidiato dalla maggioranza degli altri kelith che erano sì di pelle chiara, ma con chiome ed occhi pigmentati. L'albinismo era un carattere recessivo che si trasmetteva alla progenie solo con matrimoni all'interno della casta. C'era stato un tempo in cui si era temuto che in questo modo la nobiltà kelith si sarebbe degradata col tempo. Ma non era stato così: l'unica debolezza di un albino kelith stava nella sua vulnerabilità alle radiazioni. La vigoria nascosta in Deyan non aveva nulla da invidiare a quella di un contadino abbronzato.

Unari lo guardava con orgoglio e dubbio insieme. Era talmente diverso da tutti gli altri suoi figli! Rassegnato al suo ruolo di terzogenito e quindi lontano dal potere, non aveva condiviso la passione per gli intrighi di tutta la sua famiglia: si era dedicato alle discipline e ai culti antichi rimanendo appartato nella sua ala di palazzo, con poche scelte compagnie. Una catena di tragedie ora lo portava ad essere il futuro principe di Shana, importante principato centrale tra i dodici in cui Kelitha era divisa. E Unari scopriva di non conoscere affatto quel figlio riservato e silenzioso...

Però prometteva bene. Aveva una maestà innegabile, il gusto per la semplicità che distingueva i veri nobili kelith di antico rango, e l'eleganza che impressionava doverosamente gli ospiti del principe. Si era vestito con una finissima tunica ricamata bianco su bianco, dalle maniche fluenti e stretta in vita da una duplice cintura. Al collo portava la lunga collana di opali che faceva parte del costume principesco, ma di questo aveva disdegnato il diadema piumato: i suoi capelli bianchi ondulati erano semplicemente legati in una coda sulla nuca. Portava i tradizionali calzoni legati stretti alle caviglie, e calzava leggeri mocassini da scherma al posto dei sandali ingioiellati dei suoi pari. Se ne stava a gambe incrociate sui cuscini del suo trono, sorridendo lievemente, accettando l'omaggio degli ambasciatori con naturalezza.

"Sarà un buon principe per Shana, mio signore."

Una voce femminile, l'unica possibile, accompagnò le riflessioni di Unari. Era la sua Prima tra le Prime, l'unica donna che poteva uscire dalla reclusione della shanda, sia pure pesantemente vestita e mascherata: di lei solo i capelli candidi e la bocca dipinta di un rosso violento si mostravano, secondo la ferrea tradizione kelith.

"Ovviamente, ora che è erede devo regalargli una shanda degna di lui," disse Unari. "Gli ho comprato dodici albine di pura razza, e un ragazzo sterile. Glieli porterò stanotte." Tossicchiò. "Il suo maestro mi dice che ormai si è impratichito alla perfezione nelle pratiche sessuali, ma che non mostra particolare predilezione per l'una o l'altra. Difficile dunque fargli il regalo giusto..."

"Hai comunque scelto bene, mio signore."

"Alcune ragazze sono vergini... nel caso che Deyan abbia anche questo gusto." Rise. "Una volta gli ho regalato una sayanni, e il suo maestro mi ha detto che si è dato da fare parecchio con lei."

"Di solito mio figlio non si diletta nella tortura, ma forse una nemica ha acceso in lui il giusto desiderio del dolore," replicò la Prima tra le Prime.

"A me personalmente rivolta l'idea di toccare un barbaro sayanni... ci sono i carnefici per questo." Unari fece una smorfia di disgusto. "E per la tortura preferisco avere prigionieri maschi, durano di più e resistono meglio di noi kelith al dolore." Un sospiro. "Ma Shana non è sull'Oceano, e gli schiavi sayanni li dobbiamo comprare a caro prezzo. Ne ho tenuto da parte uno per il festino di stasera, ma è l'ultimo che ci rimane..."
        "Povero marito mio," mormorò la Prima tra le Prime, con comprensione. "Speriamo nel prossimo assalto delle nostre flotte."

 

 

 

 

Deyan parlava con gli ambasciatori. Ascoltava gli anziani nobili di Itka, e Kayumi, e Deera, ed altri lontani principati kelith.

"Com'è la vostra terra?" chiedeva loro. 

Per tutta la vita non aveva visto che la bellezza desertica di Shana, e la striscia verde del fiume che lambiva i gradini del Tempio Segreto. Sapeva perfettamente cosa ci fosse oltre i confini della sua patria, ma non l'aveva mai visto con i propri occhi, sperimentato di persona...

Com'era il vento dell'Oceano sul volto? 

Cosa si provava ad essere sulla vetta di un'alta montagna?

Com'erano le città del Grande Nord?

Qualcosa in lui anelava alla libertà, e gemeva per averla perduta con quell'elezione a erede. Dietro alla sua espressione accuratamente controllata sognava sulle parole e le descrizioni degli ambasciatori: uomini saggi che avevano molto viaggiato, e sulle cui spalle poggiava l'armonia fragile tra i molti principati kelith.

Fare l'ambasciatore... ecco quale sarebbe stato il suo futuro preferito! Ma ora era un erede al trono. Finiti dunque i suoi studi profondi, le ore da trascorrere in lunghe letture, in esercizi fisici e mentali. E forse finite anche le sue cerimonie segretissime al Tempio, a cui il vecchio Krsyl lo aveva iniziato ancora giovanissimo. Un abisso di noia minacciava di aprirsi davanti a lui per inghiottirlo per sempre.

Quella sera assistette senza battere ciglio alla conclusione della festa, mentre attorno a lui i nobili assaggiavano delicatezze e assaporavano, chi più chi meno, le urla disperate del sayanni torturato a morte davanti ai loro occhi. Unari fu complimentato per la lunghezza e la squisitezza dello spettacolo, ma l'impassibilità dell'erede non mancò di suscitare qualche commento. Ma come, nemmeno un brivido di piacere nascosto? O di sano orrore? Il dolore in fin dei conti non era che un'altra delle cento spezie della cucina kelith... il dolore degli altri, beninteso, almeno in pubblico; ognuno poi nella sua shanda faceva quel che voleva per procurarsi piacere.

E Deyan provò di tutto per ottenerlo nella notte che trascorse con il dono paterno. Passò ore a scegliere le schiave più di suo gusto, le possedette, le fece possedere e si fece possedere, in tutti i modi più o meno gentili, dettati da tradizione o esperienza o pura inventiva, guardando, subendo, partecipando...

La mattina dopo si presentò al padre, in udienza privata, con l'insoddisfazione scritta in faccia.

"Padre mio, ti ringrazio del tuo dono."

"Hai scelto la tua Prima tra le Prime?"

"No."

"Come?" chiese Unari, alzando le sopracciglia con stupore. "La tua shanda non è forse di tuo gradimento?"

"Lo è, ma non posso goderla appieno, poiché il mio vero desiderio è un altro... Perdonami se ti sembro ingrato, ma sono qui a pregarti di esaudirmi. Poi, ti giuro, non ti chiederò più nulla."

"Cosa desideri dunque?"

"Viaggiare, padre. Per l'ultima volta, prima di restare a Shana per il resto dei miei giorni, così come richiede la nomina a erede. Desidero vedere il più possibile di Kelitha, prima di diventare principe reggente."

"Strana richiesta," mormorò Unari.

"Ti prego, padre!" esclamò Deyan, unendo le mani davanti a sé in un gesto di implorazione. "Ti assicuro che anche il benessere del principato è nei miei pensieri. Come ambasciatore potrò rendermi conto del potere dei nostri vicini e potrò conoscerli di persona. Devo vivere il mondo sulla mia pelle, perché anche i libri migliori non possono dare questa consapevolezza. Sarà il mio primo e ultimo viaggio fuori da Shana..."

Unari si sporse dal suo trono, fissò il figlio.

"Cosa ti manca qui, Deyan?"

"Non lo so, padre," rispose lui, con viva sincerità. "È quel che spero di capire."

Quella risposta commosse il principe, che sorrise.

"Ah, sì, sono stato giovane anch'io!... Sì, capisco il tuo desiderio. Ed è vero che quest'esperienza potrà esserti utile quando salirai su questo trono. Hai il mio permesso."

Una luce di gioia accese lo sguardo del giovane, e Unari pensò: In fin dei conti agisce come un uomo, ma ha ancora il cuore di un ragazzo.

"Ti farò preparare le credenziali come mio ambasciatore, e ti do cento giorni per il tuo viaggio. Avrai anche una scorta armata, perché gli attacchi di questi misteriosi predoni che scompaiono nel nulla stanno diventando ogni giorno più sfacciati. Prova a vedere se qualcuno sa da dove vengono. Parlane con gli altri governanti, e chissà che non si possa trovare una strategia comune per debellarli. Che questa sia la tua missione ufficiale, Deyan-shir!"

L'erede annuì, ma dentro di lui non c'era nemmeno un pensiero per quei predoni. L'unica cosa che contava per lui era viaggiare e liberare il suo spirito d'avventura...

E presto vi sarebbe riuscito.

 

 

 

 *

 

 

 

 

 

La stanza in cui Kurmaji, capo dei Marjaban, riceveva gli ospiti della Comunità era come l'interno di un forziere: interamente foderata di nobili legni rossi, addobbata con arazzi dai disegni piacevolmente astratti, con cuscini in pelle rara e bruciaprofumi d'oro massiccio. Egli si faceva sempre trovare seduto su un rarissimo tappeto dell'antichità kelith, con un vassoio accanto dove fumavano due minuscole tazzine di liquido aromatico, e una pipa dal lungo cannello tra i denti. Non c'erano segni su di lui che lo indicassero come capo, non richiedeva cerimonie particolari, e non aveva nemmeno guardie armate alla porta.

Ma tutti sapevano che era lui il vero capo della Comunità, il detentore del potere. Un capo dalla correttezza ineccepibile, dalla moderata avidità e dalla squisita cortesia. Nessuno gli avrebbe torto un capello, o avrebbe mai rubato le sue ricchezze: i membri della Comunità ammazzavano chi rischiava di offendere i Marjaban.

Ran lo salutò con sospettosa cortesia. Non si sarebbe mai abituato a quella gente, così diversa dalla sua, e dai suoi tradizionali nemici, i kelith. Erano così strani, i Marjaban! Avevano la pelle nera, con lineamenti schiacciati. C'erano poche donne tra di loro, ugualmente strane, che si adornavano in maniera bizzarra e parlavano una lingua sconosciuta. Nel tempo il loro gruppo non era mai cresciuto in maniera significativa. Controllavano le nascite, o erano una razza in via d'estinzione?

"Accomodati," invitò Kurmaji, indicando un grosso cuscino davanti a lui. Ran si sedette con un sospiro, accettò ritualmente una delle due tazzine di infuso e la sorseggiò. Mentre beveva occhieggiò la tavoletta posata sul basso tavolino: non sapeva leggere molto bene, ma riconosceva l'ideogramma del suo nome.

Kurmaji sembrò aver notato quello sguardo, poiché sospirò pesantemente e disse: "Avrei voluto invitarti qui per un motivo più gioioso, Ran."

"Non sono stato invitato, sono stato convocato."

"Dobbiamo discutere di questo problema da esseri civili e senzienti." Kurmaji sorseggiò il suo infuso. "Non fa piacere a nessuno, credimi, doverti dichiarare fallito ed esporti sul banco degli schiavi."

"Farà piacere a Teji. Esclamerà davanti a tutti: ecco, lo sapevo che finiva così. E la libera iniziativa andrà a farsi friggere."

"Teji ha cominciato da zero, Ran, esattamente come te. È stato più abile o fortunato, ecco tutto. Per mantenere la libera iniziativa, come dici tu, occorre pagare un prezzo: eliminare chi non è in grado di creare un'impresa redditizia."

Ran sospirò.

"Esaminiamo i tuoi conti," continuò Kurmaji, prendendo la tavoletta. "La tua situazione è tra le più critiche che abbia mai visto. La tua ultima caccia..." Scosse la testa, "Ma via, Ran! Che razza di bottino hai portato alla Cassa?!"

"Ho portato quello che ho trovato!" sbottò il sayanni.

"Meloni!" Kurmaji nascose a fatica un sorriso. "La frutta non è bottino ideale per un uomo solo. Le grandi squadre esperte in questo genere di razzie portano via interi raccolti, e tu cosa speri di ottenere da due kontar di meloni?!"

"Ho atteso tutta la giornata il passaggio di qualche ricco mercante!"

"Magari un orefice?" Kurmaji emise un borbottio dal ventre, un inizio di risata. "E quanti orefici pensi che transitino in un trivio di campagna?"

"Erano grandi strade! Così diceva l'informazione, ed era giusta. Ma non è passato nessuno, o quasi..."

"Erano grandi strade perché i kelith costruiscono grossi carri per i raccolti. Se tu avessi speso un po' di più, o fatto tesoro delle tue esperienze, sapresti che la regione che hai scelto, Saatka, è una delle più povere di Kelitha e vive di sola agricoltura."

Le gote di Ran divennero violacee per l'imbarazzo.

Kurmaji voltò la tavoletta verso di lui, mostrando i simboli fitti che la ricoprivano. "Leggi in fondo la cifra che rimane al tuo fondo, dopo il ritiro dei meloni da parte della nostra Cassa."

"Ma che prezzo basso mi avete fatto!"

"Il prezzo d'acquisto corrente."

"E che direste di darmi un anticipo sulle future entrate..."

"Quali entrate?" chiese il Marjaban, amabilmente. "Sei già ben dentro il tuo minimo scoperto, Ran."

"Il mio valore come schiavo vergine," annuì amaramente il sayanni.

"Il capitale che hai versato se n'è andato da un pezzo."

"Mi resta dunque soltanto una possibilità..."

"Anche applicando la minima tariffa possibile, un viaggio di andata e ritorno azzererebbe i tuoi fondi." Kurmaji aspirò un po' di fumo dalla sua pipa. "È per questo che sei stato convocato. Puoi scegliere di andare a stabilirti in qualche luogo di Sayanna e non tornare più: in tal caso scamperesti dal destino di schiavitù che ti aspetta qui. Hai soldi più che sufficienti per la fuga."

Ran mostrò la propria indignazione.

"Anche tu, Mastro Kurmaji, mi giudichi spacciato prima del tempo. Ho ancora una possibilità, e la userò come mi pare e piace. In quanto a tornare in Sayanna..." Ran sospirò. "Era la mia casa, ma sai che ho le mie buone ragioni per esser stato qui fino ad adesso."

"Una ragione assai pesante," annuì Kurmaji, con tiepida ironia. 

Ran scosse la testa. "La memoria lunga della giustizia sayanni è proverbiale. E poi il fatto di essere divisi in caste rende quasi impossibile per un condannato scampare alla punizione. No, non posso fuggire... e non voglio fuggire. Andrò fino in fondo alla mia strada."

Ci fu un lungo silenzio, e poi la voce di Kurmaji salì, stavolta senza alcuna ironia.

"Sei un uomo coraggioso, Ran." Il Marjaban si inchinò lievemente. "Hai tanti difetti, ma non la viltà. Ti rendo onore."

Ran sorrise brevemente a quelle parole, un lampo d'orgoglio brillò nei suoi occhi. Capì che l'incontro era finito, e si alzò dal suo seggio, inspirando profondamente. E fece per andarsene, ma la voce di Kurmaji lo raggiunse sulla soglia.

"Il tuo coraggio non ti faccia dimenticare come stanno le cose. Ricorda che hai una sola possibilità. Giocala bene, o tra poco sarai sul banco degli schiavi."

 

 

 

 *

 

 

 

 

 

La prima, naturale tappa del viaggio di Deyan non poteva essere che Itka, potente principato che confinava con Shana. Era più vasto e ricco di risorse di quest'ultima, e una volta le era stato nemico; ma era ormai storia passata.

Deyan era giunto alla capitale a capo di una carovana immensa: Unari non aveva badato a spese pur di dare al suo viaggio il giusto prestigio. Benché l'erede amasse disperatamente l'aria aperta, aveva dovuto entrare in città su un palanchino, dagli ampi tendaggi che l'avevano protetto dai raggi solari. E anche così, il riverbero della luce gli aveva irritato gli occhi, nonostante li avesse protetti sin dall’alba con una leggera maschera di cristallo verde. Ma aveva dovuto togliersela e farsi ammirare dalla gente di Itka, in pieno giorno e a testa scoperta secondo la consuetudine, affinché tutti vedessero che era un nobile.

Era stata la prima volta che Deyan aveva sentito il suo albinismo come una menomazione. La persone comuni, con le loro teste multicolori e gli occhi dalle iridi scure, l'avevano osservato con invidia: non sapevano quanto lui avesse invidiato loro, liberi di andarsene a piacimento senza dover sempre attendere la penombra della sera...

Assieme a lui erano giunte alcune sue sorelle, che Unari aveva deciso di regalare alla shanda di Estsen, il principe di Itka. Deyan non le aveva mai viste, ma poteva immaginare com'erano: bianche, eteree bellezze adolescenti, addestrate fermamente nella convinzione di non essere nulla di fronte a un uomo. Le loro madri si erano vergognate di partorirle; erano state cresciute nel chiuso della shanda, poi la Prima tra le Prime aveva giudicato spietatamente la loro bellezza, da cui sarebbe dipeso il loro destino: alle fanciulle albine non si poteva perdonare la bruttezza. Per le sfortunate (o fortunate, forse) c'era la morte, rapida e indolore. Ma chi poteva commuoversi al loro destino? Non erano che femmine.

Se non fosse stato per il fatto che i maschi erano bene accetti a prescindere da ogni bellezza, gli albini kelith si sarebbero somigliati tutti come fratelli. Ma Estsen era diversissimo da Deyan. Era basso e tarchiato, con un volto squadrato a cui il taglio arruffato dei capelli, in quel momento di moda, dava un'aria sciatta e volgare. Uomo non più giovane, si vestiva in maniera sfarzosa come un pavone del deserto, e aveva un patrimonio di gioielli addosso che scintillavano a ogni suo movimento. Accolse l'ospite dalla sua immensa balconata drappeggiata a festa, stando seduto su un trono pomposo con candide fanciulle avvolte in veli che lo servivano.

Deyan restò sconvolto a quella clamorosa mancanza di educazione: schiave fuori dalla shanda ed esposte agli sguardi di tutti! Ci volle il suo sublime autocontrollo per non rivelare il suo disgusto.

"Benvenuto nella mia casa, giovane ambasciatore," esordì Estsen aprendo con ostentazione le credenziali che una delle guardie gli aveva recato.

Altra grave leggerezza: Deyan non era poi così giovane da poter essere trattato con condiscendenza, ed essendo un erede al trono avrebbe meritato la citazione del suo intero nome nobiliare.

"Sono Shana-iban-Unari Deyan-shir," proclamò, ovviando a quella mancanza, ma dentro di sé pensò: Dunque tutta l'educazione che mi è stata impartita non è che un codice vano di comportamento, se un principe potente non lo segue nemmeno? "Ti porgo il saluto fraterno e sincero del mio signore e padre, Shana-iban-Vayua Unari-shir, principe di Shana e membro dell'Augusto Consorzio. Ti ringrazio della tua ospitalità e ti chiedo rispettosamente di accettare i doni che ho recato appositamente per te."

Fece un gesto, e i servi cominciarono a posare a terra rotoli di stoffe pregiate, contenitori di spezie rare per cui Shana era famosa, penne variopinte degli uccelli del deserto; quindi le guardie posarono i palanchini delle sorelle di Deyan.

Due grassi eunuchi vestiti in modo sgargiante si avvicinarono ad essi, per controllare che contenessero effettivamente delle donne e non degli assassini. La grossolanità di quell'ispezione era al limite della decenza. Ma naturalmente Deyan non aveva nulla da nascondere, e infatti gli eunuchi diedero degli ordini e i servi di Estsen presero in consegna i palanchini, portandoli verso i cancelli della shanda. L'erede sospirò pensando con un pizzico di pietà alle sue sorelle, che avrebbero trascorso la vita al servizio di quell'individuo crasso. Poi ricordò che nella propria shanda doveva esserci una delle svariate figlie di Estsen... sì, ma chissà chi era...

"Ah, delle nuove schiave. Ti ringrazio, Deyan-shir. Hai visto, Tasia? Provvedi a prepararmi quelle ragazze per domani."

Si era rivolto alla sua Prima tra le Prime, che era uscita dall'ombra del colonnato, in un frusciare intenso del suo immenso mantello luccicante.

Deyan restò folgorato da quell'apparizione.

Si poteva credere che un nobile kelith fosse incapace di ammirare una donna, avendo la shanda a disposizione, e non potendo incontrare altre albine al di fuori di essa, se non le altrui Prime tra le Prime, pesantemente vestite e mascherate. Ma l'informe massa di stoffa che avviluppava Tasia non poteva nascondere la grazia del suo passo, qualcosa di misteriosamente sensuale che colpì la fantasia più segreta di Deyan.

"Mio signore, è giunto dunque il tuo ospite?"

Quella voce... dal tono profondo e tenero. E quelle labbra di corallo, lucide del tradizionale rossetto, assolutamente perfette, che quasi danzavano nel pronunciare le parole...

"Eccolo, Tasia; il nobile ambasciatore di Shana, un ospite molto speciale: è Deyan-shir, l'erede al trono, in viaggio per Kelitha alla ricerca dei misteriosi predoni dal Nulla."

La donna si voltò verso Deyan, fingendo di averlo visto solo in quel momento. Per un lungo istante gli parve che lei lo studiasse, da dietro quell'impenetrabile maschera.

Poi la sua voce uscì di nuovo, calda come il vento del deserto. "La corte di Shana ha fama di essere raffinata ed elegante, nobile Deyan-shir. Faremo il nostro meglio per esserne all'altezza."

"Ti prendi gioco di me, nobile signora. La corte di Itka è di molto superiore alla mia per magnificenza e splendore."

Era riuscito a mantenere la voce impassibile? Ah, se avesse potuto comprare quella donna! Ne avrebbe fatto la regina della sua shanda e non se ne sarebbe mai stancato...

"Sarai stanco dopo questo viaggio, Deyan-shir." La voce di Estsen lo trasse a forza dalle sue fantasticherie. Il principe richiuse le credenziali, sorrise. "Ho destinato uno dei miei quartieri a te e al tuo seguito. Festeggeremo degnamente il tuo arrivo e parleremo della tua missione stasera, quando i nostri soli tramonteranno e ci lasceranno alla frescura della sera."

Ci sarà anche lei? si chiese Deyan, guardando con la coda dell'occhio Tasia che si allontanava. E si stupì che una donna simile potesse appartenere a un uomo così grossolano come Estsen. Lui non la meritava affatto!

Un pensiero oltraggioso, assolutamente folle cominciò a penetrare nella sua mente, il desiderio insano di avere quella donna per sé. Era un proposito scandaloso, perché Tasia era la Prima tra le Prime, una donna intoccabile di cui Estsen era giustamente e spaventosamente geloso. Tutta l'educazione di Deyan, tutte le leggi scritte e non scritte vietavano anche solo formulare un simile pensiero...

Nondimeno, proprio perché il suo essere anelava a qualcosa di impossibile, sentiva una strana passione impadronirsi della sua anima. Tutto gli parve improvvisamente più vivido, più splendido intorno a lui, il suo cuore si dilatò pompando più sangue, l'aria sembrò più ricca e fece divampare il suo fuoco interiore.

Era la vita che finalmente lo chiamava.

Battè le palpebre e si rese conto che solo un istante era trascorso, e che nessuno si era accorto di cosa gli era successo nel frattempo. Ma l'uomo che si inchinò a Estsen e seguì i suoi intendenti non era più quello che era giunto dal deserto.

Chi era, non lo sapeva neppure lui.

 

 

 *

 

 

 

 

 

C'era sempre una parte della notte che vedeva addormentati sia gli albini che i kelith comuni. Le fresche ore prima dell'alba invogliavano al sonno, nel silenzio totale della città.

Tutti dormivano nel palazzo di Estsen. Tutti, tranne Deyan, che aveva partecipato alla festa con compassato piacere, moderato nel cibo e nel vino, senza approfittare delle candide ragazze che l'anfitrione gli aveva gentilmente offerto. La corte del principe aveva giudicato quell'atteggiamento come una dimostrazione di solenne temperanza da parte del futuro principe di Shana, forse un po' eccessiva; ma ad ogni buon conto nessuno aveva avuto da ridire al proposito.

E Deyan era riuscito perfettamente a dare di sé l'immagine voluta: un uomo all'antica, gelidamente superbo della propria educazione gentilizia, capace di guardare all'intemperanza altrui con un cenno appena rilevato delle bianche sopracciglia.

Se Estsen avesse solo immaginato che, dietro a quell'impassibilità, il suo ospite aveva studiato attentamente il suo palazzo, gli ingressi e le finestre, secondo la propria educazione militare...

E ora, se qualcuno avesse visto Deyan non avrebbe creduto ai propri occhi. Avrebbe creduto piuttosto in una visione.

Invece l'erede al trono di Shana era là, aggrappato ai cornicioni intagliati, vestito completamente di nero, con un cappuccio che celava i suoi capelli bianchi, un rampino fasciato di seta in una mano ed una corda nell'altra. Il suo corpo addestrato da duri insegnanti metteva in pratica i lunghi cicli di allenamento in quell'assurda prova di coraggio. Provava una sensazione unica, esilarante, mentre lasciava che il suo corpo si muovesse da solo avanzando a mezz'aria, ad altezza considerevole, verso le finestre più proibite del quartiere di Estsen.
      Dopo la prima, inevitabile incertezza, un'incosciente felicità aveva preso possesso di lui. Non si era mai sentito tanto vivo, in tutta la sua esistenza da recluso nelle mura dorate di Shana. Era quello che aveva cercato, chiedendo al padre di viaggiare? 

Una delle guardie di ronda svoltò nel colonnato, sbadigliò. Deyan restò appeso con una mano al cornicione, perfettamente immobile, senza nemmeno respirare. Solo quando la guardia scomparve nel suo giro di ispezione egli si mosse, balzando con agilità felina su uno dei balconi sottostanti.

Aprì la finestra senza il minimo rumore. Dentro lo accolse un buio quasi totale. Sentì l'odore dell'aria e lo riconobbe: il lieve sentore d'urina che emanavano gli eunuchi, a cui i kelith mozzavano anche il pene: in questo modo soffrivano perennemente di incontinenza. Ma tale era l'ossessiva gelosia dei nobili per le proprie donne che in nessun altro modo avrebbero permesso ad un maschio di vederle... con l'unica eccezione del ragazzo sterile, che comunque era recluso a vita come le schiave e considerato pari loro: uno strumento di piacere.

Deyan sorrise dentro di sé: quell'odore era sgradevole, ma era segno inequivocabile della vicinanza della shanda. Attraversò dunque la stanza in punta di piedi, scavalcando i corpi russanti degli eunuchi. Aprì appena la porta, guardò nel corridoio.

Deboli luci qua e là illuminavano fiocamente un lungo tunnel di arabeschi. Uno degli eunuchi, nel suo sgargiante costume, camminava su e giù nel suo turno di guardia. Deyan seppe così di essere a un passo dal bersaglio, e il suo cuore battè più velocemente. Attese con pazienza che l'eunuco passasse la porta dietro alla quale era appiattato; poi sgusciò fuori, si avvicinò silenziosamente alle sue spalle, gli rovesciò di colpo la testa all'indietro, tappandogli fulmineamente la bocca con una mano mentre l'altra cercava la carotide scoperta. Un'abile pressione, e l'eunuco scivolò a terra privo di sensi.

Deyan gli tolse il grande mantello multicolore e se lo avvolse intorno al capo e alle spalle, nascondendo i propri abiti neri che l'avrebbero tradito. Quindi spinse il corpo esanime nella stanza degli eunuchi e, sempre in perfetto silenzio, richiuse la porta.

Era solo nel corridoio, e non poteva essere altrimenti, perché chiunque non facesse parte della shanda sarebbe stato messo a morte se trovato là dentro. Cominciò a controllare le varie stanze, spiando attraverso le grate degli arabeschi. In una vide diversi corpi femminili svestiti addormentati in mezzo a grandi cuscini, una visione celestiale che tuttavia non suscitò nulla in lui. In un'altra alcune schiave riposavano nei loro letti: non erano state prescelte per quella notte. In un'altra ancora, Deyan vide lo stesso Estsen che russava, beatamente abbracciato al suo ragazzo e a una schiava dalle forme infantili.

Nella stanza successiva vide lei.

Luna di Fuoco, appena sorta, infrangeva la sua luce aranciata contro la grata della finestra, giocando con mille ricami d'ombre sul corpo nudo di Tasia, serenamente addormentata nel suo letto immenso.

Deyan ebbe un tremito interiore, restò a contemplarla benché ciò aumentasse a dismisura il pericolo che correva. Era bellissima, ancor più bella di quanto lui avesse potuto immaginare vedendola vestita. Il suo corpo era perfetto, liscio e ondulato come una distesa di dune; il suo volto abbandonato nel sonno era di squisita dolcezza. I lunghi capelli candidi, non più costretti nell'acconciatura tradizionale, si spargevano sul cuscino in onde setose.

Deyan sapeva che, solo per aver visto quel che aveva visto, avrebbe meritato la più orribile delle morti. Ma volle andar oltre. Entrò nella stanza, si slacciò la larga fusciacca nera che serrava la sua tunica in vita, si avvicinò al letto e con un gesto fulmineo bendò gli occhi della donna.

Lei si svegliò di soprassalto, fece per alzarsi di scatto.

"Che succede?!" esclamò, ma la mano di Deyan, forte e tenera, le premette la bocca per farla tacere, la accarezzò sulle gote di vetro.

Tasia si rilassò, sorrise adorabilmente.

"Ah, sei tu, mio signore... e vuoi giocare ad un nuovo gioco, non è vero?"

Deyan si sentì un ladro, vedendo la cieca fiducia che lei aveva nel suo insulso padrone. E la cosa lo eccitò.

"Perché non parli, mio signore?"

"Ssst," fece lui, posandole un dito sulla labbra. Si strappò di dosso i vestiti, la inchiodò con le braccia al letto per non lasciarsi toccare; quindi affondò dentro di lei, provando il più sublime piacere che avesse mai sperimentato.

E nel turbine dei suoi pensieri si chiese cos'era a renderlo così temerario. La bellezza di Tasia? O la consapevolezza dell'atroce delitto che stava commettendo contro tutte le leggi dei kelith?

"Estsen-shir!" ansimava Tasia, gioiosamente, travolta da quell'ardore, "Oh dei!... Che ti è accaduto?!... Non sei mai stato così con me..."

Deyan si mordeva le labbra per non lasciarsi sfuggire un solo suono. A quel punto non gli interessava più essere scoperto, ma voleva assolutamente che quel piacere non finisse.

"Estsen-shir! Estsen-shir!!!..." gemeva lei, sempre più forte.

E all'improvviso la porta della stanza si spalancò, la luce di una torcia chimica la invase.

"Che succede, Tasia..."

Era il principe Estsen, nudo, ancora assonnato.

Ma i suoi occhi si aprirono di scatto nel vedere la scena orrenda che si parava davanti a lui.

In quel momento Deyan seppe di essere un uomo morto, ma proprio quello spinse i suoi sensi oltre ogni limite: lanciò finalmente un ruggito liberatorio lasciandosi possedere dal suo ultimo, fatale orgasmo, davanti allo sguardo esterrefatto del padrone di casa.

Tasia si irrigidì sentendo quella voce sconosciuta, lanciò uno strillo di puro terrore che si fuse con l'urlo di suprema rabbia di Estsen.

"...Che tu sia maledetto!!!"

Deyan si staccò con riluttanza dal corpo di Tasia, che si dimenava ora come una belva impazzita. Gettò uno sguardo verso la grata della finestra: era saldata al muro. L'unica via di scampo era attraverso la porta. E là c'era Estsen, che urlava come un folle.

Gli eunuchi corsero da lui, affannosamente, tremanti di paura. Estsen li aggredì immediatamente: "Chiamate le guardie armate! Arrestate questo farabutto! Lo voglio vivo, capite? Vivo!..."

"Mio padrone, ma la tua shanda..."

"Non ho più una shanda, maledetti incapaci! È stata violata!"

Estsen lasciò la luce della porta, barcollò nei corridoi.

"Guardie! Entrate pure! Avete il permesso!..." Era con le lacrime agli occhi e la bava alla bocca. "Avete lasciato che uno straniero sputasse sul mio onore, la mia casa, il mio letto!..."

La povera Tasia, innocente, piangeva di vergogna.

"Chi sei, tu che hai osato questo?!..." singhiozzò, disperata. E poi, riconoscendolo: "Oh dei!...Deyan-shir!..."

Lui le sorrise in risposta. Sapeva che ormai non aveva più scampo. Per cui si rivestì con suprema tranquillità, mentre gli eunuchi alla porta lo fissavano sconvolti.

"Mettete a morte tutti questi dormiglioni!" urlava Estsen, inferocito, e le sue urla si sentivano per tutto il palazzo. "Vendete tutte le schiave! Castrate tutte le sentinelle!... Non voglio più entrare in questo luogo contaminato! Prendete quel sacrilego e trascinatelo davanti alla mia ira!..." 

 

 

 

 *

 

 

 

Ran si presentò spavaldamente alla Grande Casa. Aveva contato i propri miseri fondi per tutta la notte. Molti avrebbero passato il tempo pianificando con cura l'ultima missione, ma lui si era reso conto definitivamente di non esserne capace. Non sono un bravo predone, si era costretto ad ammettere davanti ad un capace otre di vino forte. E dopo aver bevuto fino ad addormentarsi, aveva deciso di giocare il tutto per tutto, o meglio di affidarsi al caso e che andasse pure come doveva andare.

Passò attraverso l'Atrio delle Informazioni senza fermarsi, ignorando lo sguardo stupito del Marjaban di turno. Andò alla Sala del vortice, attendendo con impazienza il proprio turno. E quando fu all'interno del Cerchio, alla domanda del Marjaban che gli chiedeva dove voleva andare, egli indicò a casaccio un punto sulla superficie di Kelitha, senza specificare altro. 

Il Marjaban lo guardò con un po' di compassione mentre lo mandava verso l'ignoto che aveva scelto.

 

 

 

 *

 

 

 

 

Nel Recinto Sacro gli enormi avvoltoi ammaestrati stavano sui loro giganteschi trespoli, attendendo il loro turno. Più rapaci di loro, i nobili della corte di Itka osservavano cosa avveniva là dentro, con un'attenzione morbosa, ben coperti dai servi con enormi ombrelli multicolori. Molti mormoravano tra di loro, ancora  sgomentati da ciò che li aveva condotti, così inaspettatamente, in quel teatro di morte.

"Deyan-shir!" aveva tuonato Estsen nell'improvvisata corte di giustizia che aveva seguito quella notte infame. "Voglio sapere perché hai osato commettere un delitto così nefando!... Ti ho accolto nella mia casa come ambasciatore onorato. Eri tenuto a un comportamento decoroso. Eppure con fredda, lucida determinazione hai violato la mia casa, sei entrato nella mia shanda, hai visto la mia Prima tra le Prime, l'hai posseduta!..." La sua voce era salita in un urlo. "Non potrò mai più toccare Tasia senza sentire il tuo odore su di lei! Hai tradito i vincoli sacri dell'amicizia, dell'onore, dell'ospitalità... tu, un principe come me!"

E Deyan, legato con le mani dietro alla schiena, ancora con gli abiti neri della sua impresa addosso, aveva risposto sprezzantemente: "Smettila di urlare, Estsen-shir! È vero, ho commesso un delitto per cui non c'è perdono, e non mi abbasso a chiedertelo. Non inveisco contro il destino, contro gli dei, contro me stesso e contro le nostre leggi. Non piango sul mio fato enumerando ciò che ho perso stanotte. Non grido come un cane ferito e non mi lamento davanti a tutti come un istrione da strada. Siamo ambedue principi, ma sei tu a doverlo ricordare, non io!"

La corte era ammutolita a quell'incredibile impudenza.

Estsen si era calmato di colpo, come se le parole sferzanti di Deyan l'avessero schiaffeggiato in mezzo ad una crisi isterica. Aveva respirato profondamente. E la sua voce era uscita sottile e mortale.

"Va bene, Deyan-shir. Sei bravo ad insegnare a un principe regnante come si deve comportare... ebbene, ti ricambierò il favore, e ti insegnerò a mia volta qualcosa di memorabile."

Tutti avevano compreso cosa intendeva.

"Signore," aveva mormorato il Primo Magistrato, sconvolto, "non possiamo farlo. In una contesa tra principi l'arbitrato è dell'Augusto Consorzio..."

"Taci, vecchio!" aveva urlato Estsen. "Voglio vendicare il mio onore! Chi mi nega questo diritto sacrosanto?!"

Nessuno aveva osato fiatare. Ed Estsen aveva sorriso, con ferocia.

"Anch'io farò l'inconcepibile, Deyan-shir. Ricordando che sei un principe, e che il tuo corpo non può essere toccato dal ferro e dal fuoco."

L'ambasciatore sacrilego era stato accompagnato in un sotterraneo rivestito di tappeti antichi, con corde di seta al posto delle catene, cassette di legno raro con strumenti misteriosi placcati d'oro, e carnefici puliti e ben vestiti come medici. Deyan non aveva mostrato paura, ma un freddo interesse: era la prima volta, a memoria d'uomo, che un uomo della sua stirpe affrontava la tortura invece di assistervi. La lezione che era seguita era stata spaventosa, ed egli aveva scoperto che quelle pratiche crudeli non avevano come bersaglio il corpo: questo era solo uno strumento per raggiungere e distruggere l'anima dentro di esso.

Solo la notte successiva le guardie avevano trascinato fuori quel che restava di lui, portandolo nel Recinto Sacro. L'avevano legato alle colonne dell'altare, a torso nudo, in modo che affrontasse la luce dei soli al loro sorgere appaiati: un supplizio che ogni albino era educato a temere come il più terribile. Una maschera di cuoio gli era stata posta sul viso, affinché non si potesse vedere pubblicamente la sua faccia in agonia. Gli avvoltoi sacri avrebbero aspettato fino alla sera per banchettare sul condannato ancora vivo. Che Unari ardisse protestare per quella morte così atroce, se ne aveva il coraggio!

Deyan aveva atteso l'alba con coraggio e pazienza, senza un lamento, stupito da sé stesso e dalla propria resistenza. Dolore e stanchezza avevano portato il suo spirito a vette di sublime acutezza. Aveva pensato alla sua dea, all'esperienza trascendentale che presto avrebbe fatto.

Quindi erano giunti i grandi nemici degli albini, i due soli. Illusoriamente belli all'inizio. Poi feroci nel loro bagliore appaiato, il grande giallo che scaldava come un forno, il piccolo azzurro la cui luce era un coltello. Deyan aveva sentito per ore quei raggi spietati affondare nella sua pelle trasparente, incendiarla, riempirla di vesciche, lacerarla. Era come essere bruciati vivi molto, molto lentamente...

Che ironia morire a questo modo per una donna, proprio io, un nobile kelith!, pensò alla fine, sull'orlo del delirio. Ma no, non era per Tasia che aveva gettato via la vita: era per il proprio desiderio, per la sua perpetua, sognante insoddisfazione. E conoscere quell'abisso dentro di lui era stato precipitarvi dentro, senza speranza di resurrezione...

Una campana lontana batté un cupo rintocco, soffocato dall'aria torrida e secca.

"È l’ora, nobile signore."

Chi stava parlando, dietro a lui?

"È cosciente? Non ha emesso nemmeno un lamento!"

"Credo che lo sia, nobile signore. Ma è arrivato allo stremo delle forze."

"Non deve morire troppo presto."

Deyan sentì confusamente che gli versavano dell'acqua sulla testa. Mise a fuoco le immagini febbricitanti che vedeva attraverso gli occhi semiaccecati, e si rese conto di fissare il volto ironico di Estsen ad un passo dal suo.

"Bravo, Deyan-shir. Hai resistito meglio di quanto mi aspettassi. Hai dimostrato il diritto divino che noi albini abbiamo a governare Kelitha. Diremo a tuo padre Unari che saresti stato un buon erede per Shana... se solo non avessi amato il sacrilegio più del tuo stesso sangue." Estsen si rivolse ai carnefici. "Lasciatelo qui, e andate fuori dal Recinto. Darò il segnale agli avvoltoi sacri, che mettano fine loro allo spettacolo!"

Deyan fu lasciato solo al centro dello spiazzo. Sapeva che stava per essere divorato vivo, ma non provava alcuna paura: almeno quella era una morte rapida, meglio della lenta agonia sotto quei soli spietati....

Si era fatto un profondo silenzio nel Recinto. Gli avvoltoi scrollarono le penne, innervositi. Insieme a tutti, aspettavano solo il momento in cui Estsen avrebbe preso il suo fischietto dorato per dar loro il segnale di attacco.

Il principe di Itka portò alle labbra quello strumento fatale.

E all'improvviso si udì un torrente di imprecazioni provenire dallo Stallo dei Guardiani. 

"Non ho chiesto nemmeno se sarei arrivato di giorno o no! Dei del profondo, ma dove diavolo sono finito? Con questo buio non vedo nulla..."

Si udì un tramestio dallo Stallo, e poi una figura rattoppata uscì fuori, batté le palpebre alla luce del giorno.

"Sayanni!..." gridò qualcuno, atterrito, e quel grido fu ripetuto da tutti i nobili in un crescendo isterico. Molti si prepararono alla fuga.

"Fermi!" urlò Estsen. "Deve essere uno schiavo fuggitivo!"

Il sayanni riuscì a vedere coloro che lo fronteggiavano. Spalancò gli occhi e la bocca ed esclamò:

"Per Kamoh e Lilia!... Kelith Bianchi!" Si voltò intorno, stupefatto. E soggiunse a voce alta: "Quanti sono?! Ma questo non è un palazzo principesco... che ci fanno qui tutti questi nobili?! E in pieno giorno, per giunta!"

"Guardie, uccidetelo!" urlava Estsen, mentre la sua corte in preda al panico faceva a gara a chi raggiungeva prima i palanchini. E soffiò forte nel suo fischietto.

Il sayanni si vide arrivare contro le splendenti guardie principesche, e reagì impugnando la sua lancia come un'alabarda, gridando: 

"È ancora da nascere il pellebianca che fa paura al grande Ran!"

Aveva invece una paura matta: essere catturato vivo da quei nobili kelith significava qualcosa di ben peggiore della morte! Ma vide che anche i suoi avversari avevano paura di lui: colti alla sprovvista, non avevano recato con loro le consuete diavolerie che si usavano nelle spedizioni contro Sayanna. In uno scontro puramente fisico un sayanni era enormemente avvantaggiato, grazie alla sua superiore forza e resistenza.

Estsen aveva commesso un errore a lanciare gli avvoltoi mentre i suoi soldati cercavano di avvicinarsi all'intruso: diversi uccelli attaccarono infatti costoro, cacciando gli artigli nelle loro schiene e dilaniandoli con i becchi ricurvi. La confusione nel Recinto divenne indescrivibile, mentre al di fuori i nobili fuggivano precipitosamente per mettersi in salvo.

Ran abbatté un paio di avvoltoi e attaccò urlando alcune guardie kelith che, seppur ferite, cercavano ancora di ucciderlo. Il combattimento non ebbe storia e i cadaveri delle guardie giacquero al suolo a far da nutrimento per gli avvoltoi. I grossi uccelli, soddisfatti di quel che già avevano, cessarono ogni attacco e si posarono intorno ai corpi sanguinanti con un tetro frullio di ali.

Tutto era durato soltanto pochi istanti. In quel bizzarro momento di pace, Ran si terse ansimando il sudore dalla fronte e si toccò i graffi che un avvoltoio aveva inciso sulla sua coscia. Si guardò intorno: nessun nemico vivo in vista, erano tutti scappati. Poi osservò i cadaveri delle guardie, chiedendosi come avrebbe potuto cacciare quegli uccellacci per spogliarli delle armi...

Notò solo allora il kelith mascherato legato alle colonne, a poca distanza dal luogo dello scontro. Incuriosito, gli si avvicinò, brandendo con circospezione la sua lancia. Poi vide qualcosa che lo sconvolse: lunghi, bianchi capelli scarmigliati scendevano sulle spalle ustionate del condannato... spalle che non potevano certo appartenere a un vecchio.
      "Dei del profondo!" mormorò, avvicinandosi con maggior decisione. "Adesso torturano anche gli albini, questi pazzi?!"

Si chinò esitando su quella misera figura, le tolse la maschera. Gli occhi intensi, stremati del kelith si aprirono fissandolo a lungo.

"Sei... ancora vivo!" esclamò Ran, stupito. Ed impulsivamente tagliò le corde che lo legavano, sostenendolo con un braccio.

Deyan annuì, senza trovare la forza di parlare. Chi era quel sayanni? Cosa ci faceva un sayanni a Itka? Cos'aveva intenzione di fare?

"Ma tu hai gli occhi rossi. Sei un nobile, dunque!"
       Di nuovo Deyan annuì.

Delle voci si udirono, lontane: altre guardie di Estsen stavano arrivando.

Ran si volse all'intorno, nervosamente. "Non ho molto tempo," disse quasi a sé stesso. "Tra poco circonderanno questo posto, e allora addio... Evidentemente devi essere tu il mio bottino, kelith, visto che non posso portarmi via nient'altro da questo posto schifoso." Alzò le spalle. "Beh, se sei un nobile, avrai pur un qualche valore."

Sollevò Deyan con irrisoria facilità e se lo caricò sulle spalle come un sacco, correndo di nuovo nello Stallo, alla ricerca del posto più nascosto e buio di quel luogo.

Quando le guardie di Estsen giunsero al Recinto, non trovarono più né il sayanni né il condannato a morte. E per quanto cercassero in ogni angolo, non scoprirono nemmeno le loro tracce.

Era come se fossero ambedue scomparsi nel nulla. 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Dove si scoprono strane verità ***



Deyan emerse a fatica da uno sterminato vuoto nero nella sua memoria. Aprì gli occhi per un istante, poi li richiuse, sentendo il proprio corpo ancora addormentato. Da quanto tempo stava dormendo? E dov'era?

Con uno sforzo aprì definitivamente gli occhi. Era in una stanza permeata da uno strano profumo dolciastro, con un soffitto basso in cui si apriva un lucernario. Una luce vivida scendeva da esso, mascherata da alcuni vetri colorati; le pareti erano spoglie e imbiancate a calce. Il pavimento era di assi lucide, e una porta massiccia chiudeva l'unica entrata. Unico arredamento, un basso tavolino con del vasellame, un paio di grossi cuscini, e la stuoia spessa che gli faceva da letto.

Si accorse di essere parzialmente fasciato di bende umide, e molte articolazioni erano bloccate da fasce rigide e impacchi. Gli occhi gli bruciavano come fuoco, e un sapore strano, amaro indugiava nella sua bocca. Si sentiva ancora debolissimo, ma tentò comunque di mettersi a sedere. Il movimento lo fece soffrire molto, facendolo desistere.

Forse lo stavano spiando, in quale modo non poteva saperlo; ma non appena si mosse la porta si aprì, e un alto e maturo sayanni entrò con un fruscio della sua veste lunga.

“Ben svegliato, albino.” 

Deyan restò stupefatto a quel saluto da parte di un tradizionale nemico. Vide la tonsura e i tatuaggi sulla sua fronte.

“Sei un t'yr!” mormorò, con voce ancora debole.

“Oh, meno male!” disse lui con evidente sollievo. “Sei lucido, e ci vedi abbastanza per riconoscere la mia casta. Temevo che saresti rimasto cieco.” Si accoccolò accanto al giaciglio. “Il mio nome è Pushpa. Storia e erboristeria i miei talenti. E tu, albino? Chi sei?”

Deyan tacque.

“Non temere,” disse il sayanni, “sei tra gente che non ha alcun interesse a farti del male.”

“Allora non sono in qualche luogo di Sayanna.”

Il t'yr rise. “È questo timore a sigillarti le labbra?”

Deyan distolse lo sguardo, sdegnosamente.

“Dimmi il tuo nome,” incalzò di nuovo il sayanni, “Dobbiamo sapere con chi abbiamo a che fare.”

“Perché? Sai già che sono un nobile kelith, non è abbastanza?”

“La tua prudenza è encomiabile, ma non vogliamo sapere chi sei per strapparti i segreti militari di Kelitha, o giustiziarti dopo aver contato i sayanni che sono stati uccisi davanti a te…”

“Dovrei crederti?”

“Sono un uomo leale, albino.”

“Leale con un kelith?”

“Leale con tutti.”

Deyan studiò a lungo gli occhi azzurri davanti a lui, il gioco delle rughe su quella pelle color del cielo. Quel sayanni sembrava sincero.

“E sia," si decise. "Mi chiamo Deyan-shir, e sono il terzogenito e erede di Unari, principe di Shana.”

Il t'yr ebbe un sussulto, i suoi occhi si dilatarono con un moto di stupore.

“Sì, sono proprio uno dei famigerati principi di Kelitha,” sorrise Deyan con sfida, interpretando l'espressione colpita di Pushpa. “E ho visto molti della tua gente morire davanti a me. Allora, sayanni, sei ancora intenzionato a essere leale con me?”

Pushpa sospirò. “Sì, se non altro perché hai condiviso il destino dei miei conterranei catturati da voi kelith.” Si sporse verso di lui e sussurrò: “Essere torturati in uno spettacolo pubblico!”

Deyan voltò la testa, inspirò profondamente per dominarsi. 

“Ran ci ha raccontato del modo in cui ti ha trovato,” soggiunse Pushpa. “Non credevamo quasi al suo racconto, benché tra i numerosi difetti del nostro amico non ci sia l'amore per il mendacio. Un nobile al supplizio! È cosa che non è mai accaduta, e se lo dico io... puoi esserne sicuro.” Una pausa. “Avevo pensato che tu fossi un nobile minore, e che si fossero permessi su di te ciò che mai si sarebbe potuto fare a un principe…”

E fissò Deyan con un certo dubbio.

“A cosa non credi, Pushpa?” chiese il kelith con voce tagliente, notando quello sguardo. “Alla mia parola? O a quella del tuo amico?”

“Non offenderti. Credo alla parola di tutti e due.” Pushpa fece un gesto pacato. “Però vorrei sapere cos'è accaduto per convincere i più alti nobili kelith ad infrangere il loro codice, e torturare uno dei loro.”

“Un principe ha fatto una cosa inaudita a un altro principe,” rispose Deyan, distogliendo lo sguardo dal sayanni.

“Perché?"

Fissò il lucernario, esitò a lungo prima di rispondere. “Perché era destino…”

Pushpa attese pazientemente un'ulteriore spiegazione, che però non venne.

Allora si schiarì la voce e cambiò tono. “Ora è giusto che anche tu abbia delle risposte, Deyan-shir. Avrai compreso che il nostro amico Ran, il guerriero che ti ha portato via da Itka, è un predone di quelli che voi kelith chiamate dal Nulla.”

Deyan si voltò verso Pushpa. 

“...Voi, dunque!” mormorò.

“Sì. Sei stupito?” Un sorriso. “Ma chi altro avrebbe osato interrompere l'esecuzione di un principe?”

“Anche tu sei uno di costoro?”

“Sono un fuorilegge. Sono considerato un eretico in Sayanna, per via dei miei studi troppo... intraprendenti.” Scrollò le spalle. “Non so rubare o uccidere, però come vedi anch'io posso fare qualcosa di utile. Per esempio, sono stato io a curarti quando Ran ti ha portato qui. Ti ho medicato le ferite e le ustioni, e ti ho dato pozioni amare contro la febbre che ti ha assalito. Ti senti debole perché sei su questa stuoia da molto tempo…”

“E sono stato incosciente per tutto il tempo?”

“Sì, ma per causa mia. Ti ho drogato per farti dormire a lungo. Il sonno ha guarito la tua anima, ti ha reso immobile permettendo al tuo corpo di guarire più in fretta, e ti ha risparmiato inutili sofferenze.” Si chinò verso di lui. “Come stanno i tuoi occhi? Sono stati bendati fino a ieri.”

“Bruciano, ma ci vedo ancora.” Una pausa. “E probabilmente lo devo a te. Perché tante attenzioni per un nemico?”

“Perché sei un prezioso ostaggio, Deyan-shir, e ora che mi hai rivelato di essere un principe, il tuo valore aumenta a dismisura.” Sorrise. “In un certo senso, hai salvato il povero Ran. Ha avuto un gran colpo di fortuna giungendo nel posto giusto e all'ora giusta... in tempo per salvare te.”

“E ora dove sono?”

Pushpa sorrise. “Non ti aspetterai che risponda a questa domanda! Diciamo che sei... nel cuore del nostro covo. Ran non possedeva né i mezzi né la sapienza necessaria per curarti e ospitarti come si deve, per cui ti ha portato qui e affidato alle mie cure. Però è chiaro che sei legalmente suo prigioniero, e che il riscatto che prenderà per te sarà tutto suo. Dedotte le mie spese, naturalmente!”

Deyan fissò lungamente il sayanni. “A chi chiederete il riscatto?” chiese, con voce tesa. “Al principe a cui avete rubato la preda?”

“Pensavamo di agire così se tu fossi stato un nobile minore. Ma ora che sappiamo chi sei... forse tuo padre ci pagherebbe di più.”

“Mi metterete all'asta tra i due principi?”

“Probabilmente sì.”

“Se non mi restituirete a mio padre, mi condannerete nuovamente alla tortura e alla morte.”

“La cosa non ci riguarda, Deyan-shir,” rispose Pushpa, asciutto. “Dobbiamo pur vivere, e abbiamo bisogno di ricchezza per questo.”

Il t'yr si alzò pesantemente da terra, lisciò le pieghe della veste, fece un cenno di saluto. 

“Ora devo andare. Sopporta quelle bende ancora per un po' e non fare sforzi inutili: il dolore del tuo corpo ti insegnerà ciò che devi e non devi fare. Tra poco ti sarà recata una tazza di medicina, bevila anche se sarà di cattivo sapore: ti aiuterà a riprendere le forze. Poi avrai di che mangiare: un pasto leggero e nutriente. Per le tue necessità basta che chiami: uno schiavo è qua fuori e ti aiuterà a servirti dei nostri poveri mezzi.” Sorrise, intuendo i pensieri di Deyan. “E ricorda: sei un prigioniero. Anche quando ti sentirai meglio, non potrai comunque uscire da questa stanza. Non provare a infrangere il lucernario, al primo tentativo saresti fermato. E per ovvia conseguenza, ti dovremmo cambiare prigione. Ti consiglio di rimanere in questa.” 

 

 




*

 


 

  

“Bevo alla tua buona sorte, Ran, il racconto della quale sta già facendo il giro del nostro mondo aumentando la tua fama.”

Mastro Kurmaji alzò la sua tazzina con fare cerimonioso, lasciando cadere una goccia del caldo contenuto sulla superficie del vassoio. Poi la studiò, borbottando. 

“Che dice il tuo oracolo?” chiese Ran, mettendo in mostra la perfetta dentatura con un sorriso smagliante.

“Mmmmh…” fece Kurmaji, assorto. Poi terse la goccia con la mano. Bevve, posò la tazzina. “Sei un folle giocatore d'azzardo, Ran.”

“Lo so, Mastro Kurmaji.”

“Catturare nientemeno che un principe kelith, un erede al trono!... Un colpo del genere può valere ben più della salvezza. Se saprai ben negoziare, potresti metterti al sicuro per un'altra stagione.”

“Lo spero.” Il sorriso di Ran si offuscò un poco. “Mi avete aperto un nuovo credito grazie a quest'impresa, però non ho ancora visto un soldo. In compenso quel kelith mi costa moltissimo: Pushpa mi ha mandato un conto da far paura, come se già il ritorno imprevisto con un passeggero non avesse stroncato definitivamente le mie finanze…”

“È vero, il tuo scoperto attuale va ben oltre il tuo valore come schiavo. Ma vedi che anche noi stiamo rischiando del nostro. Abbiamo fiducia in quest'impresa. E non lamentarti se il kelith mangia con gusto: potrai sempre chiedere il suo peso in oro!”

Entrambi risero.

“Come va la trattativa?”

Ran smise di ridere. “Ho mandato messaggeri esperti a Shana e Itka, che lasciassero lettere per i principi con le condizioni del riscatto. Anche costoro mi hanno mandato conti esosissimi, adducendo alla grande prudenza che devono avere per non farsi scoprire! E Pushpa, per la redazione delle lettere e la traduzione delle risposte, mi ha imposto un prezzo da ladro…”

Kurmaji sorrise. “Ran, ti prego! Questo è un mondo di ladri... te compreso.”

“A volte mi chiedo se dopo aver incassato il riscatto mi resterà qualcosa in tasca, con tutte queste spese!” Ran finì il suo infuso. “Tornando ai messaggi: la prima richiesta di riscatto è stata respinta da tutti e due i principi.”

Kurmaji  alzò le fini sopracciglia.

“Ho fatto una seconda richiesta, più moderata e minacciando di mutilare l'ostaggio, secondo la prassi. Itka ha risposto con sprezzo di procedere pure alla mutilazione, offrendosi di pagare i pezzi del mio kelith a peso d'oro.”

“Mmmmmh,” fece il Marjaban, pensieroso.

“Shana invece ha preso tempo, con una controfferta di poco più bassa della mia.” Ran posò la tazzina. “Che significa secondo te, Mastro Kurmaji?”

“Itka vuole il kelith vivo e vegeto, per metterlo a morte. Shana esita, ma non può permettere a Itka di spuntarla. Sarà Shana a pagare il riscatto.”

 

 

 

 



“Sono d'accordo,” disse Deyan, quando Ran lo andò a trovare come ormai faceva ogni sera, da quando l'aveva catturato. “È tutta una questione di prestigio: mio padre a quest'ora sa già ciò che è accaduto a Itka, ma non può lasciare che Estsen si vendichi apertamente. Sono pur sempre suo figlio e l’erede del principato di Shana. Per il buon nome della mia nazione, deve proteggermi a ogni costo.”

“Però non sembra così ansioso di riaverti indietro,” disse Ran.

Si stupiva sempre dello strano rapporto che si era creato tra di loro. Erano separati da distanze siderali in quanto a razza e censo, e si era aspettato un atteggiamento ostile e sprezzante da parte del suo prigioniero (a cui si era preparato con una serie di risposte brutali). Non era accaduto niente di tutto questo: il kelith aveva semplicemente preso atto della sua situazione, e sembrava accettarla dall’alto di una placida sicurezza interiore priva di pregiudizio. Non si faceva problemi a dialogare con un nemico di bassa casta, non più di quanti se ne facesse con chiunque. La sua fredda affabilità metteva in soggezione più di qualsiasi scoppio di aristocratica arroganza, e Ran ne era affascinato... anche perché dentro di sé si sentiva lusingato e nobilitato da quella vicinanza. Per quanto odiasse i kelith (e da Kelitha venisse ogni male, com’era il credo della sua razza) vedeva le qualità innegabili del suo prigioniero, e le invidiava. E i suoi sentimenti erano ambivalenti: da un lato, moriva dalla voglia di schiacciare quella strana creatura così diversa da lui; dall’altro, cercava di esserne amica...

“Mio padre starà probabilmente meditando su cosa fare quando ritornerò e come regolarsi all’interno dell'Augusto Consorzio, che da tempo evita le guerre nel mio continente per non ricadere nell’errore delle antiche dinastie.” Deyan sorrise. “Non perder tempo a seguire le nostre leggi nobiliari, Ran. L'essenziale è che prima o poi questa situazione finirà.”

“Non vedo l'ora che questo momento arrivi.” Lo guardò, quasi con scusa. “Non posso tenerti qui per sempre. Esiste una linea sottile che stabilisce la convenienza di un ostaggio. Se Shana accetterà il mio prezzo, sarà valsa la pena di tenerti qui, ma se calerà ulteriormente…”

“Mi ucciderete, è naturale.”

“O ti manderemo a Itka, il che conduce alla stessa soluzione, ma almeno avremo incassato qualcosa.”

“Chi lo deciderà? Il vostro capo?”

Ran aprì la bocca per parlare, poi la richiuse, guardò Deyan con rimprovero.

“Non fare queste domande. Meno sai di noi e meglio è. In quanto al tuo destino, non temere, è unicamente nelle mie mani.”

“Perché non dovrei temere?” Deyan lo fissò curiosamente. “Tu sei un predone, e sayanni per giunta. E io sono un principe kelith, un nemico. Non esiteresti un secondo a massacrarmi.”

“Forse non esiterei con un kelith, ma con un sacco d'oro sì,” rispose Ran, sentendosi a disagio. “Non vorrei danneggiare un ostaggio dal cui riscatto dipende la mia vita.”

“La tua vita? Perché?”

“Perché senza i soldi del tuo riscatto sarò messo in vendita come schiavo.”

“Da chi?”

“Deyan-shir!” esclamò Ran, con voce sferzante. 

Il kelith fece un remoto sorriso. Fissò la propria tazza di vino, aggiungendo quell'ulteriore piccolo dato al quadro che si era formato nella sua mente.

Per tutti quei giorni aveva accumulato pazientemente osservazioni, anche le più banali, secondo l'insegnamento che i maestri di strategia avevano impresso in lui. Il vino della sua tazza era un ottimo prodotto kelith, ma la tazza veniva da Sayanna. Lo schiavo che lo serviva era un kelith abbronzato, sordomuto e incapace di scrivere: era stato inutile interrogarlo. Ran dava più soddisfazione: credeva di tacere, ma in realtà dava molte informazioni, più di quante immaginasse.

Deyan sapeva di essere rinchiuso in un grande edificio a più piani, in una stanza al piano più alto. L'edificio si trovava in una zona dal clima desertico, la cui aria era rarefatta come in alta montagna. Però i cibi che gli erano stati serviti venivano da terre umide ed erano misteriosamente freschi. Ran lavorava evidentemente in un gruppo dalla ferrea organizzazione, e probabilmente era abituato a convivere con dei kelith, o non avrebbe mai tollerato così facilmente la sua vicinanza.

 I vetri colorati del lucernario dovevano avere uno scopo ben preciso. Nascondere che cosa? Il trascorrere del tempo? L'altezza dei soli, da cui Deyan era in grado di calcolare la latitudine del luogo?... Una simile precauzione poteva significare che c'era qualcosa di importante in quel riquadro di cielo.

Per tutto quel tempo non gli avevano mai concesso, neppure una volta, di uscire da quella stanza. Lo sorvegliavano a vista, con gelida cortesia. Solo Ran e Pushpa andavano a visitarlo, quest'ultimo per interrogarlo avidamente sulla storia kelith. Deyan gli raccontava vicende accadute nel profondo passato, cose che credeva note a tutti, ma Pushpa lo ascoltava rapito.

“Non è vero che tutti conoscono queste nozioni, Deyan-shir. La tua erudizione è immensa!”

“Che te ne fai della storia kelith, Pushpa? Tu sei un sayanni.”

“Qualcosa in me mi spinge a voler sapere tutto. È per questo motivo che le Divine Persone mi hanno condannato a essere sepolto vivo.”

“Credi veramente che Kamoh e Lilia siano le personificazioni dei nostri due soli?” 

“Certamente! Forse la mia concezione teologica è più complicata di quanto non sia quella degli ignoranti, ma la divinità dei due re è indiscutibile.”

“Se credi a questo, come hai potuto trasgredire alle loro leggi?”

“Semplicemente come hai fatto tu, Deyan-shir...trasgredendo alle tue.”

Già, la trasgressione... 

Deyan sapeva che suo padre l'avrebbe difeso in pubblico, ma l'avrebbe poi punito in privato. Molto probabilmente gli avrebbe tolto la nomina a erede. Ma non ne avrebbe sofferto troppo: si era già accorto che il principato non era poi il vertice delle sue ambizioni. 

Lo disse a Ran, che gli chiedeva se aveva paura di tornare a Shana.

“Mio padre non è mai stato troppo severo con i suoi eredi,” soggiunse. “Se proprio vorrà esserlo, mi manderà in esilio nell'Eremo Bianco, un antico castello nel mezzo del deserto. Sarebbe una punizione dura, ma certamente più mite di ciò che mi aspetterebbe a Itka.” 

“Quindi te la caverai bene, nonostante tutto... voi kelith siete pronti a friggere nell'olio bollente i predoni come noi, però a un principe si perdona tutto.”

Deyan alzò le sue bianche sopracciglia. “Se essere messi a morte, salvati da un predone sayanni e poi degradati ed esiliati ti sembra un perdono…”

Ran si chinò verso di lui.

“Per quel che so dei kelith, ti sei meritato tutto questo. I messaggeri mandati a Itka mi hanno raccontato quel che hai combinato laggiù…”

Dunque non siamo a Itka e siamo in qualche luogo "lassù", pensò Deyan incasellando quel nuovo dato nella sua capace memoria. 

“Giuro che avrei pagato una borsa d'oro per vedere la faccia del principe quando ti ha scoperto,” continuò Ran, ridacchiando. 

“Ti diletti di questi argomenti, strano per un sayanni vergine.”

Ran smise di ridacchiare, avvampò lievemente. “Questa non è Sayanna e non ci si scandalizza per queste sciocchezze.”

Povero Ran, pensò Deyan, divertito. E provò una punta di vergogna per il modo in cui lo stava giocando. 

Ma tutto sommato lo meritava: il sayanni, come molti del resto, pensava che quell'elegante, compassato kelith dai capelli bianchi fosse una debole creatura fuori dal suo guscio protettivo.

Che continuasse a crederlo. Ormai Deyan era guarito e perfettamente in forma, e aveva studiato un piano per uscire di lì e scoprire dov'era quel covo di predoni. Aveva chiesto al padre il permesso di viaggiare e Unari gliel'aveva dato in cambio di quel compito.

E dentro di sé si accorse che non avrebbe tentato quella fuga per Unari o per Shana. L'avrebbe tentata solo per riprovare il brivido vitale che l'aveva affascinato a Itka. 

 

 




 *

  


 


Era scesa la notte, e come sempre il prezioso ostaggio si era apprestato a dormire: aveva spento la lampada e si era disteso sul giaciglio con le mani intrecciate dietro alla nuca, lo sguardo fisso al lucernario. L'ultimo bagliore di luce colorata svanì, lasciando la stanza nel buio più completo.

Deyan aveva compreso di essere spiato. Lo aveva sentito quasi istintivamente. Invano aveva cercato aperture nelle pareti: chissà quale macchinario di lenti e prismi utilizzavano i suoi carcerieri. E probabilmente udivano anche tutto quel che avveniva in quella stanza.

Il buio e il silenzio erano dunque i suoi alleati.

Chiuse gli occhi, gesto apparentemente inutile nell'oscurità. Ma nella sua memoria, vivida e perfetta, brillava l'immagine del lucernario, con la sua intelaiatura pesantemente lavorata.

C'era voluto tutto il suo addestramento all'osservazione per notare, alcuni giorni prima, alcuni fili pressoché invisibili davanti al lucernario. Quei fili erano collegati a piccole gocce rossastre che parevano far parte della decorazione, ma Deyan conosceva il colore di quella sostanza: era un composto instabile, ben noto ai militari kelith, capace di esplodere sonoramente al minimo tocco. E aveva sorriso: un ingegnoso sistema d'allarme...

Si era dunque procurato alcune spezie particolari per uso personale, lamentandosi con Ran per la loro mancanza, fino all'orlo della petulanza.

"Ecco le tue polveri di cui non riesci a fare a meno! E io che mi stupivo perché finora non avevi fatto tante lagne..."

Quelle spezie contenevano sostanze in grado di neutralizzare le gocce esplosive. E la notte prima Deyan, richiamando alla memoria ogni particolare dell'intelaiatura e agendo nell'oscurità, era riuscito a soffiarle nei punti giusti, mettendo fuori uso il sistema d'allarme.

Nessuno si era accorto di niente. Il giorno dopo aveva di nuovo rivolto rimostranze a Ran, dicendo che desiderava un mantello.

"A che ti serve? Non devi certo uscire a spasso!"

"Ho freddo alla sera. E spesso sto alzato a meditare. Quando prego devo avere la testa coperta e non è degno del mio rango che usi un comune lenzuolo! Voglio qualcosa di scuro e dignitoso."

"Kelith!" aveva sospirato Ran. "Meditazione, preghiere... ma perché non preghi i tuoi dei di farti caldo?" Aveva visto l'espressione severa del suo ostaggio. "Va bene, va bene, ma te lo metterò in conto."

Così, finalmente, quella notte tutto era pronto.

Quando fu completamente buio Deyan sgusciò dal giaciglio, vi pose sopra il tavolino, salì su questo e, senza il minimo rumore, andando a memoria, cominciò a smontare la serratura del lucernario.

Come immaginava, i carcerieri avevano una fiducia eccessiva nel loro allarme: il lucernario non era protetto in alcun modo. Il lavoro non fu troppo difficile, anche se mise a dura prova la sua pazienza e le sue dita sensibili. Alla fine la vetrata si aprì, lasciando entrare il fresco della notte.

Restò un istante a riprendere fiato. Poi si avvolse nel mantello, coprì la sua appariscente testa bianca col cappuccio, e con agilità saltò afferrandosi all'intelaiatura. Un colpo di reni, ed era già uscito dall'apertura del soffitto.

Si trovò su un tetto piatto, assai più grande di quanto si fosse aspettato. La fioca luminescenza del cielo gli permise di allontanarsi dal lucernario alla ricerca di un punto da cui scendere. Camminò con passo felpato verso un muretto, lo scavalcò. Si trovò su una grande terrazza di pietra, contornata da un parapetto basso. Un lieve bagliore aranciato saliva oltre di esso, assieme ad un mormorio di voci, qualche nota di musica kelith.

Attraversò la terrazza, si appoggiò al parapetto. Guardò in giù: almeno dieci stature più in basso c'era una specie di piazza, illuminata da luci chimiche schermate, tra le quali ombre di persone si muovevano qua e là. Dalla piazza si dipartivano strette viuzze, che si perdevano in una congerie di strani tumuli tondeggianti: case interrate, arguì Deyan. La loro forma sfuggiva ad ogni classificazione: c'erano elementi kelith e sayanni mescolati insieme, assieme a qualcos'altro... qualcosa di nuovo e insieme di antico, che non faceva parte di nessuna delle due culture.

Quella vera e propria città non era certo ciò che si era aspettato di vedere. Ora più che mai doveva sapere dov'era. Immaginava di essere in qualche zona interna di Kelitha, anche se non riusciva a capire come potesse essere giunto fino a lì, e come potesse esistere una città sconosciuta e abitata anche da sayanni in una terra peraltro molto ben esplorata come la sua.

Alzò la testa, cercando le costellazioni per determinare almeno la latitudine. Si tolse lentamente il cappuccio dalla testa, inquieto: non aveva mai visto il cielo così scuro. Le stelle più luminose risaltavano come diamanti. Le minori erano offuscate dalla luce di una grande luna bianca e azzurra...

Non era Luna di Fuoco. 

"Dea Pietosa!" mormorò, fissando quella luna sconosciuta.

Un continente allungato si intravvedeva tra le nubi candide. La sua forma rievocò in lui le molte mappe che aveva studiato. Lo riconobbe all'improvviso, e restò senza fiato...

"Ma quella è... Kelitha!" sussurrò, affascinato.

Non aveva mai neppure immaginato che un giorno l'avrebbe vista in quel modo, da quel punto di vista così incredibile. E quel punto di vista non poteva essere che uno, e uno soltanto...

"Io... mi trovo su Luna di Fuoco!"

"Infatti," disse la voce tagliente, trafelata di Ran alle sue spalle. 

Deyan non si voltò verso di lui. Continuò a fissare la bellezza inconcepibile del suo mondo, ancora stupito e ammaliato da quella visione.

"Quale magia mi ha portato qui?" mormorò, scuotendo la testa con incredulità. "Come ho potuto valicare il baratro del Nulla tra il mio mondo... e questo?"

"La risposta ha un prezzo mortale, Deyan-shir." E poi, con rabbia: "Shana pagherà il riscatto, sei sempre stato trattato bene! Perché allora hai tentato di fuggire?!"

"Perché dovevo sapere dov'ero."

"Ed ora lo sai!... Sai dov'è il nostro covo, e io devo ucciderti, perché hai scoperto il nostro segreto."

"Se lo rivelassi, mi prenderebbero per pazzo..."

Ran esitò. "È vero, ma tu non sei un semplice kelith. Sei un principe. Hai del potere sulla tua terra. Sei un membro dell'Augusto Consorzio. Forse a te crederebbero."

"E anche se fosse?" replicò Deyan, con sarcasmo. "Cosa credi che potrebbero fare? Costruire una macchina volante e arrivare fino a qui?"

"Tu sei arrivato fino a qui."

"Ma in che modo?"

"Sei troppo curioso, Deyan-shir. Forse questa è l'unica risposta che ti manca. Sai già troppe cose... anche per colpa mia, come qualcuno mi ha fatto notare. Sei furbo, e io ho paura di te. Non so in che modo potresti nuocere a Luna di Fuoco, ma non posso correre il rischio. Guarda pure questo cielo, e portati questo ricordo nella tomba." 

Deyan si voltò verso Ran, vedendo la sua figura incombente contro il blu del cielo.

"Dunque hai deciso, vuoi la mia vita."

"Devo prenderla. Perdonami."

"Ti avverto, Ran: uccidermi non ti sarà facile."

"Non mi sarà facile comunque," disse il sayanni, con voce roca. "Accidenti, mi piacevi, Deyan-shir, perché sei probabilmente il principe più pazzo di Kelitha, ma forse anche il più umano. E ammazzandoti perderò il tuo riscatto e sarò sul lastrico. Ma non posso avere tutta Luna di Fuoco sulla coscienza..."

"E io non desidero fare del male a chi mi ha salvato la vita, anche se l'ha fatto per denaro." 

"Tu, fare del male a me?..." Il sayanni fece una lugubre risata. "Bravo, Deyan-shir, almeno mi fai il favore di non morire frignando di paura, come di solito fanno i kelith."

"L'hai detto tu che io non sono un kelith qualsiasi." Deyan si mise in guardia. "Ricorda le tue stesse parole, prima di attaccarmi."

"Sono più forte di te!"

"Chi è più forte, il vento o il seme che lo cavalca?"

"Che vuoi dire?!"

Un sorriso triste sfiorò le labbra di Deyan. E Ran si accorse all'improvviso di essere intimorito da quella snella figura davanti a lui...

Per un lungo istante nessuno dei due si mosse, e solo il vento agitò la polvere intorno a loro.

"Questo duello tra di noi non ha senso," borbottò infine il sayanni. "Poniamo il caso che tu vinca. Cos'avrai ottenuto?"

"Un istante di vita in più."

"Sarai ucciso comunque."

"Forse."

Ran sorrise. "Che magnifico predone saresti! Il talento non ti manca, e nemmeno lo spirito."

Deyan rispose a quel sorriso, la tensione si allentò.                                                

"Ascoltami, Deyan-shir. Cerchiamo di venire ad un accordo onesto."

"Se vuoi."

"Non desidero ucciderti. E nemmeno provarci," si affrettò ad aggiungere, alzando una mano. "Pensa a tutti i soldi che perderei, se ci riuscissi... Dimmi, avresti qualche buon motivo per fare del male a noi ladri di Luna di Fuoco?"

Deyan sospirò. "Mio padre mi aveva affidato il compito di scoprire da dove venivate."

"E tu devi obbedire a tuo padre, vero? È una questione d'onore."

Il kelith annuì.

"Però hai un debito d'onore anche con me."

"È vero. Ma questo debito ti sarà pagato con l'oro del riscatto. Non ti devo niente, Ran."

"Non è vero, Deyan-shir. Non ti ho rapito per la strada: ti ho portato via dal luogo di un supplizio. Ti ho salvato la vita. E te l'ho salvata ancora trattando malvolentieri con Itka... forse, se avessi insistito, avrei guadagnato qualcosa in più. Tuo padre non è stato generoso come forse credi. Io penso che in questo caso tu debba più a me che a lui."

Ci fu un lungo silenzio.

"Ti ho trattato con onore. Se rifletti bene, tutto sommato mi bastava tenerti in vita per avere il riscatto. Avrei potuto rendere questi giorni un inferno per te. Non l'ho fatto. Davvero dunque pensi di non dovermi niente, neppure un poco di gratitudine?"

Le mani di Deyan tornarono ai suoi fianchi.

"Hai ragione, Ran. A volte credo che tutto mi sia dovuto in virtù della mia nascita, ma mi sbaglio."

Il sayanni sorrise. "E forse sei l'unico nobile kelith che abbia il coraggio di ammettere questa verità. Non essere mio nemico, ti prego."

"Non ho niente contro di te, anche se sei un sayanni."

"Ma se agirai contro Luna di Fuoco mi farai sentire un traditore e renderai la mia vita un deserto. Non potrò vivere con questa vergogna."

"Allora non agirò contro Luna di Fuoco. Hai la mia parola."

"Nonostante gli ordini di tuo padre?"

"Quello che so resterà chiuso nel mio cuore. Nessuno saprà che io conosco il vostro segreto, quindi nessuno mi costringerà a combattervi."

Ran chinò la testa. "Perdonami, non voglio offenderti. Ma ho paura a fidarmi di te. Tu non sei uno di noi. Sto mettendo a rischio ben più della mia incolumità, lo capisci?..."

"Lo capisco benissimo," mormorò Deyan, "Ma non hai alternative. Devi fidarti di me... oppure tentare di uccidermi."

"Placa la mia coscienza, Deyan-shir. C'è qualcosa di sacro su cui mi puoi giurare di non rivelare a nessuno i nostri segreti, di non fare nulla per mettere a repentaglio la nostra Comunità?"

Deyan sorrise, gli si avvicinò e disse a voce bassa: "Sì, Ran. Io non credo ai tuoi Kamoh e Lilia, ma ho una dea nel cuore." Alzò le mani al cielo. "Nel nome della Misteriosa, rispetterò la tua volontà e non ti tradirò... nemmeno davanti alla morte."

Ran fissò i suoi occhi trasparenti alla luce del mondo verdazzurro.

"È la prima volta in vita mia che mi fido di un kelith," borbottò. E poi si scosse e esclamò: "Beviamo sul nostro accordo! Così si usa su Luna di Fuoco."

"Rispettiamo le usanze, allora," annuì lui, con un sorriso. 

   




 *




 

"È stata la prima volta, in tutta la nostra storia, che un ostaggio è riuscito a sfuggire alla nostra sorveglianza. La tua abilità e il tuo coraggio sono mirabili, nobile Deyan-shir, e ben al di sopra delle capacità della tua razza."

Mastro Kurmaji si rivolgeva all'ostaggio di Shana che lo fissava, diviso evidentemente tra la propria naturale compostezza e il sentimento di stupore che provava. Con lui c'era Ran, e tutti assieme sedevano nella sfarzosa stanza del Marjaban. Tre tazzine fumavano sul solito vassoio.

"Abbiamo visto quel che è successo sulla terrazza. E siamo d'accordo con il nostro amico Ran. Se un sayanni si fida di un esecrato nemico, perché non dovremmo farlo anche noi? Più saprai e più ti sentirai vincolato dal tuo patto sacro." Sospirò. "Sarebbe la prima volta che un estraneo conosce la verità su Luna di Fuoco e resta vivo, ma tu sei un uomo particolare, Deyan-shir. I presagi ci avevano avvertito." Sogghignò. "Naturalmente la reciproca conoscenza potrebbe portare altri frutti. Per esempio un'alleanza segreta. Noi potremmo risparmiare Shana da ogni attacco, e in cambio tu potresti aiutarci, in modi da definire..."

"Non credo che sarò il prossimo principe di Shana, Mastro Kurmaji."

"Anche se non lo sarai, rimarrai comunque in una posizione importante nella corte."

"Lo spero, per voi e anche per Shana. Abbiamo sofferto molto per i vostri attacchi. Avete spesso intralciato i nostri traffici di merci, sottratto carichi di spezie, reso insicure le nostre strade." Un sorriso appena accennato. "Itka meriterebbe queste attenzioni più della mia terra..."

Kurmaji rispose al sorriso.

"Con le dovute cautele," disse. "Ma è presto per trattare, nobile Deyan-shir... la tua curiosità reclama, e avremo altre occasioni per parlare di questa straordinaria collaborazione." Si inchinò ad offrirgli una delle tazzine. "Non abbiamo assaggiatori di veleni sulla nostra terra. Siamo una comunità di ladri, assassini e predoni, ma tra di noi rispettiamo le regole più sacre della convivenza."

"Un patto di fiducia è un patto reciproco," rispose Deyan con formalità. Accettò l'infuso, lo assaggiò. "Non è nulla che io conosca," mormorò, guardandolo. E poi, alzando lo sguardo su Kurmaji: "E nemmeno voi. Non credevo che esistessero uomini dalla pelle nera."

Il Marjaban sorrise, chinò lo sguardo e recitò:

"...due sono le razze di uomini, e una La Perduta...”

Gli occhi di Deyan si spalancarono. "La Leggenda!"

"Che proprio voi kelith tramandate da secoli," annuì Kurmaji. "La conosci?"

"Mi è stata narrata quando ero bambino, come una favola. Diceva che tanto tempo fa esisteva un terzo continente tra Kelitha e Sayanna, abitato da una razza di maghi, che scomparve annientato da un immane cataclisma."

"Il continente si chiamava Marja," disse Kurmaji. "Nacque dalla lava eruttata da un monte sottomarino, e fu distrutto dalla stessa forza che lo eresse, migliaia e migliaia di cicli or sono."

"Allora non è una leggenda," mormorò Deyan, stupito.

"È una storia vera, in ogni particolare. Compreso l'accenno alla razza di maghi."

"Voi Marjaban, dunque."

Kurmaji sospirò.

"Non tutti i Marjaban erano maghi. In realtà, essi erano solo una sparuta minoranza. Milioni di uomini perirono nel cataclisma che distrusse la nostra terra. Ma i maghi avevano scoperto il potere del Vortice... un canale di teletrasporto che unisce i mondi gemelli; e voi kelith sapete bene che Luna di Fuoco possiede un'atmosfera e dell'acqua."

Deyan annuì. "I nostri astronomi l'hanno sempre studiata, convinti del fatto che abbia un ambiente vitale. Ho sentito molte discussioni a proposito delle aree che cambiavano colore, delle luci che apparivano e scomparivano sulla superficie, delle strane formazioni rocciose. In verità il sogno di molti astronomi sarebbe costruire una macchina portentosa per giungere qui, ma questa sembra un'impresa impossibile." Un lieve sorriso. "Se sapessero che questo problema è già stato risolto..."

"Ma non lo sapranno, finché non avranno costruito la loro macchina portentosa." Kurmaji sorseggiò il suo infuso. "I kelith non capiranno mai la magia, è contraria alla loro visione del mondo. I sayanni da questo punto di vista sono avvantaggiati."

"Adorano l'ignoto invece di scoprirlo," disse Deyan, con lieve ironia.

"Noi Marjaban invece adoperiamo l'ignoto, senza curarci di conoscerlo a tutti i costi," ribattè Kurmaji. "Sarebbe una lunga discussione stabilire chi tra noi tre ha torto, non è vero, Deyan-shir?"

Il kelith arrossì lievemente. "Forse tutti e nessuno, Mastro Kurmaji."

"Sei saggio," sorrise il Marjaban.

"Meno materialista di quel che credi."

Kurmaji smise di sorridere, tornando ai suoi ricordi.

"Dunque il bel continente di Marja morì, e i maghi cercarono di salvare dal disastro il maggior numero possibile di persone... sempre troppo poche, comunque. Avrebbero forse potuto tentare di restare sul mondo, dopo, ma sapevano che non c'era posto per loro: Kelitha e Sayanna avevano già sviluppato le loro rispettive razze, i Marjaban dalla pelle nera non sarebbero mai stati accettati. Avrebbero dovuto guerreggiare, sarebbero stati isolati; e erano pochi, troppo pochi per evitare l'estinzione. Luna di Fuoco era la loro unica, possibile destinazione."

Kurmaji si alzò, andò alla finestra, scostò i pesanti tendaggi e guardò il cielo.

"Solo i maghi e pochi altri dunque sopravvissero, e continuarono la Stirpe Nera. Furono tempi durissimi. Erano soli, in questo ambiente selvaggio e aspro. Erano maghi, non pionieri. E la loro magia aveva da sempre ruotato sul Vortice e solo su quello. Le loro deboli braccia non sapevano arare la terra, costruire case, procurare i beni necessari ad una vita decorosa. Sapevano cantare centinaia di inni sacri, ma ignoravano come procurarsi il pane... erano solo un frammento di saggezza perduto nel cosmo."

Si voltò di nuovo verso Deyan.

“Non avevano che un bene. Il Vortice. Lo adoperarono, e rubarono al mondo ciò di cui avevano bisogno. Questo si può considerare un delitto secondo molte morali, e anche qui per esempio rubare è vietato. Ma quando si parla di nazioni si parla di forze della natura: e la natura conosce e adopera il furto. I nostri due soli non si strappano vicendevolmente la loro materia? Le pulci non succhiano il sangue dei cani?... I Marjaban avrebbero fatto lo stesso per sopravvivere!”

Ci fu una pausa di silenzio. Deyan disse: “Ma eravate maghi, non ladri. Allora trovaste coloro che avrebbero rubato per voi, e li portaste quassù a servirvi.”

“Sì, all'inizio fu così. Ma poi capimmo che la mutua soddisfazione è necessaria alla coesione di una comunità, specie se isolata come questa. Stabilimmo di comune accordo delle leggi e delle regole, e ci ritirammo nuovamente nei nostri studi. Da millenni nessun Marjaban calca il suolo del mondo. Ecco perché la nostra razza è diventata una leggenda…”

“Voi non rubate più in prima persona, però vedo che siete considerati i capi.”

Kurmaji sorrise. “Non nel senso che dài tu alla parola, Deyan-shir. Luna di Fuoco è come un gigantesco corpo, con le sue membra; noi Marjaban costituiamo la testa. Non procuriamo ricchezza, ma l'amministriamo. Non sappiamo rubare, ma abbiamo in pugno l'unico mezzo per uscire di qui: il Vortice. Oltre a ciò, registriamo ogni membro della Comunità e teniamo il conto delle sue imprese, del suo bottino e delle eventuali trasgressioni alle regole. Quando queste minacciano l'ordine della Comunità non consentiamo al colpevole di lasciare Luna di Fuoco. Al resto in genere pensa la Comunità stessa. Siamo consultati spesso come arbitri, ma solo perché siamo imparziali, non appartenendo né ai kelith né ai sayanni. Non esercitiamo una tirannia: ci accontentiamo di vivere bene. Siamo semplicemente pagati per il nostro lavoro, proprio come tutti.”

Deyan si volse verso Ran.

“È vero, Deyan-shir,” confermò quest'ultimo. “I Marjaban non hanno mai proibito arbitrariamente a qualcuno di usare il Vortice: hanno sempre seguito la legge. La loro sapienza ci tiene tutti sotto controllo, ma dobbiamo esserlo se non vogliamo che questa magnifica Comunità si dissolva e ognuno tagli la gola all'altro. I servigi dei Marjaban hanno un prezzo salato, ma onesto: potrebbero imporci ben altri balzelli, tenerci tutti in ostaggio qui... e noi che faremmo? Non potremmo minacciarli, di cosa poi? Di ucciderli? Ci condanneremmo all'esilio a vita…”

Deyan si volse nuovamente verso Kurmaji. “È chiaro che non insegnate la vostra magia a chi non fa parte della vostra razza.”

“Certo che no,” sorrise quest'ultimo. “È una conoscenza che teniamo gelosamente per noi.”

“I vostri predoni non hanno mai tentato di catturare uno di voi, torturarlo od invogliarlo comunque a rivelare il vostro segreto?…”

“Credi che basti una formula magica per evocare il Vortice?” disse Kurmaji, divertito. “Il nostro segreto si impara giorno per giorno, nascendo tra di noi, vivendo tra di noi... essendo uno di noi. E il Vortice non è la nostra unica conoscenza. Abbiamo la nostra memoria collettiva, che ci permette di amministrare la Comunità. Abbiamo le nostre tecniche di calcolo e le nostre capacità arcane. Abbiamo questi poteri tramandati dai nostri avi, e in più millenni di esperienza alle spalle, trascorsi facendo solo questo. Nessuno ci può sostituire. E nessuno ci può offendere.” 

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Capitolo 3
*** Dove i due destini diventano uno ***



 



         Venne finalmente il gran giorno del riscatto.

        Ran venne a prendere Deyan alla Grande Casa. Il principe non era più stato sorvegliato da quando aveva stretto il suo patto sacro, ma Kurmaji gli aveva consigliato di non girare troppo per Luna di Fuoco, per sua stessa sicurezza. Ran si era unito al consiglio con calore: non voleva che gli succedesse qualcosa di male, proprio ora che era ad un passo dal trionfo!

"Unari-shir mi ha concesso un salvacondotto, dall'alba al tramonto. Per questo intervallo di tempo nessuno potrà toccarmi: sarò inviolabile. Se non rispetterà questo patto, sa che non avrà più un istante di pace nel principato: Mastro Kurmaji è pronto ad abbassare i prezzi dei viaggi verso Shana di almeno tre quarti, rendendola un obiettivo irresistibile per tutti i predoni."

Kurmaji aveva annuito. In onore dell'ostaggio principesco, sarebbe stato lui in persona ad evocare il Vortice. Era invero una grande occasione, e Ran si era vestito con il meglio che possedesse. Gli altri predoni gli avevano lanciato occhiate d'invidia: che dannata fortuna aveva avuto...

"A un ostaggio normale non avremmo permesso di vedere tutto questo, ma per te non ci sono più segreti." Kurmaji andò verso le clessidre, preparando il viaggio. "Se vorrai metterti in contatto con noi, basterà che ti ritiri in un luogo isolato al riparo di sguardi indiscreti, e che ti cosparga con la Polvere che ti abbiamo dato. Non perdere la Polvere: è una sostanza unica, introvabile sul tuo mondo, e serve a richiamare la nostra attenzione quando guardiamo attraverso il Vortice. Senza di essa, ad esempio, non sapremmo ritrovare Ran quando sarà ora di riportarlo indietro..."

Tacque, concentrandosi nei suoi calcoli.

"Dall'alba al tramonto, visti da Shana," borbottò. "Sei in ritardo, Ran: è già giorno laggiù."

Ran si volse verso Deyan, con un po' di imbarazzo e estrasse dalla propria borsa a tracolla un rotolo di corda. "Perdonami, ma devo legarti. È l'uso, tu sei mio prigioniero..."

Deyan si irrigidì appena. Non gli andava di essere toccato da un sayanni, nemmeno da Ran. Ma capiva che era necessario. Con un sospiro tese i polsi, e Ran glieli legò insieme con cautela, senza stringere i nodi. Si accorse che la corda era di morbida seta: evidentemente il sayanni aveva imparato un po' delle usanze kelith!

Ran prese saldamente l'altro capo della corda, condusse il prigioniero all'interno del Cerchio, si mise accanto a lui, spalla contro spalla. "Ora ascoltami: tu non sei abituato al Vortice. Sarebbe meglio per te chiudere gli occhi..."

Kurmaji stava incominciando a cantare. I suoi gesti erano ampi, misteriosi, e la lingua che adoperava era assolutamente incomprensibile. Deyan fissava la sua danza, incurante dell'avvertimento di Ran, divorato dalla curiosità...

Lentamente tutto si oscurò attorno a lui: era come se la luce fosse stata ingoiata da qualche vuoto avido di energia. Un senso di nausea improvvisa penetrò nelle sue viscere, perse il senso dell'equilibrio e non riuscì più a respirare... gli giunse la voce di Ran, distorta da mille echi, proveniente da quel vuoto nero: e le parole gli parvero scintille rosse, stilettate di luce nel cervello.

“Ti avevo detto di chiudere gli occhi!..."”

Le scintille ormai riempivano l'intero universo. Un cupo ronzio penetrò le sue orecchie, e un gelo mortale invase il suo corpo...

“Deyan-shir! Deyan-shir!... Dannazione, svegliati!”

Aprì gli occhi, stupito. 

Ran era chino su di lui. Una luce abbagliante lo illuminava di fronte, e era un piacere dopo quella spaventosa oscurità. Si accorse di essere disteso sulla sabbia rovente, con un sapore amaro in bocca e un senso di affaticamento in tutte le membra.

“È... finito?” mormorò, con voce strozzata.

“Già,” sorrise Ran. "Siamo arrivati. Siamo ad una lega dal Palazzo di Shana, che vedo laggiù…” Si fece schermo con la mano. “E come al solito non c'è nessuno in vista. I Marjaban riescono sempre a mandarci giù in modo che nessuno ci veda arrivare, e ci riprendono solo a patto che nessuno ci veda partire.”

“Sono svenuto?”

“Credo proprio di sì. Succede spesso ai principianti: non chiudono gli occhi, si fanno tradire dai propri sensi distorti e si dimenticano di respirare. Una volta un predone catturò un mercante molto anziano e questo ci rimise la pelle durante il viaggio. Non è piacevole, vero?”

“Per niente." Deyan si rialzò a fatica. “Non ho provato questa sensazione quando mi hai portato via da Itka.”

“Eri mezzo morto, sei svenuto prima ancora che spargessi la Polvere su di te.”

Deyan si voltò verso il Palazzo, provando un senso di calore nel petto che scacciò il suo malessere. Si accorse che Shana gli era mancata. Era la sua casa, nella quale era nato e cresciuto...

La luce violenta del giorno si rifletteva sulla sabbia, ferendogli gli occhi indifesi. Si mise il cappuccio del mantello sul capo, socchiudendo le palpebre.

“Siamo sul lato sud del Palazzo, nel Campo dove mio padre alleva i suoi corsieri del deserto. Una persona comune che osi attraversare questo campo viene punita duramente.”

“È sterminato!” esclamò Ran.

“Il parco davanti al Palazzo lo è ancora di più.”

“Sei davvero un gran principe allora, Deyan-shir." Sospirò. “Più ricco di quanto immaginassi…”                

“Non essere avido,” disse il kelith con un sorriso, indovinando i suoi pensieri. “Hai già stabilito il riscatto per me, ed è piuttosto alto.” Gli indicò una fila di pietre, con un cenno delle mani legate. “Laggiù  c’è una pista e la sabbia è meno cedevole. Portami in fretta al Palazzo, e guidami tu poiché io dovrò camminare a occhi chiusi.”

Ran annuì e cominciò la marcia, tenendo la corda e strattonando il suo prigioniero verso la meta.

“Essere albini e vivere nella zona più soleggiata di Kelitha è una bella sfortuna, non è vero, Deyan-shir? Mi chiedo ancora perché voi nobili vi ostiniate a mantenere questa bizzarria.”

“Abbiamo il terrore di somigliare a voi sayanni, con la vostra pelle azzurra e i capelli che sembrano alghe di mare,” fu la caustica risposta.

“Hai mai potuto affrontare la luce dei soli come faccio io?” ribattè Ran, piccato.

“La luce dei soli è per coloro che lavorano con le loro mani,” rispose Deyan. “Noi albini non siamo fatti per questo: siamo nati per comandare.”

Ran trattenne l’impulso di sputare per terra. “Siete proprio dei demoni, voialtri. Creature della notte. Bah!” Scosse la testa, si fermò di colpo. “Ci sono dei carri coperti di tele bianche, che stanno avanzando verso di noi. Vedo la polvere che si alza dietro a loro.”

“Sono i miei soldati, e devono averci visto. Prepara il tuo salvacondotto, e alla svelta, o ti spiccheranno la testa dal busto non appena arriveranno.”

Le guardie giunsero, e Ran tenne alto il documento che gli era stato recato dai messaggeri; poi Deyan si calò il cappuccio dal capo, e la reazione dei kelith fu immediata: si buttarono in ginocchio nella sabbia, prosternandosi, e esclamarono in coro: 

“Nobile principe erede!…”

Deyan indicò Ran. “Costui è il predone che mi ha catturato, e che mi ha in suo potere. Mio padre l'ha protetto con un salvacondotto fino al tramonto. Non provate a fargli del male: l'onore di Shana è stato chiamato in garanzia.” Si ricoprì la testa. “Sbrigatevi a condurci a palazzo, il principe ci aspetta, e questa luce mi offende.”

“Subito, nobile erede!”

Li fecero salire su uno dei carri, e l'auriga sferzò i corsieri che partirono al galoppo. Gli altri carri corsero innanzi a loro, facendo strada.

In breve tempo giunsero alle porte del Palazzo. Superarono una cerchia di mura, sorvegliata da guardie scintillanti. Ad un certo punto la scena cambiò di colpo, e alla sabbia si sostituì un incredibile, enorme giardino ricco d'acqua e di essenze profumate: un paradiso in confronto al torrido, sterile inferno fuori da lì.

Ran era attonito, e non faceva che girarsi intorno per ammirare quel luogo magnifico: in fin dei conti lui non era che un disertore sayanni nato in un umile villaggio di montagna, e non aveva mai neppure immaginato che i kelith possedessero palazzi così belli. Ma quel che più l'intimoriva era vedere l'assoluta naturalezza di Deyan mentre attraversava i cortili cesellati, le grandi sale cosparse di statue e arazzi, i corridoi coperti di tappeti rarissimi, mentre tutti coloro che lo incontravano si prostravano a terra e esclamavano:  “Nobile erede!…”

Ed io che ho voluto impressionarlo facendogli servire i cibi e le bevande più care! pensò Ran, guardandolo in tralice. Deyan sorrideva, sentendosi ovviamente a casa sua in quel magnifico palazzo dalla ricchezza opprimente, abituato al sussiego di servi e cortigiani. Tutti poi spostavano lo sguardo stralunato sul sayanni, probabilmente sconvolti dalla corda che teneva in mano e che osava legare le mani di un principe ereditario; e Ran sudava freddo, rendendosi conto che solo il fragile patto del salvacondotto e gli ordini stessi di Deyan gli salvavano la vita, lì nella casa dei peggiori nemici della sua stirpe.

Ormai da tempo era il kelith a camminare innanzi trascinandosi dietro Ran, e non il contrario. C'era da perdersi in quella congerie di sale e corridoi. Alla fine giunsero davanti a grandi porte istoriate con caratteri arcaici, guardate da soldati kelith alti quanto un sayanni e dall'aspetto altrettanto nerboruto.

Deyan si fermò.

"Tira fuori il salvacondotto e mostralo alle guardie," ordinò al suo rapitore, che senza pensare all’assurdità della situazione obbedì prontamente. Alzò gli occhi alle porte, sorrise. "Sai leggere, Ran?"

"Poco, e non certo i caratteri kelith."

"Quell'iscrizione è il motto dei principi di Shana. 'Solo gli déi sopra di noi'."

Che indicibile arroganza! pensò Ran, e si volse intorno meditando su quanto dolore, lacrime e sudore doveva essere costato quel palazzo ai kelith che stavano al di fuori. Poi guardò Deyan, così sicuro di sé; e provò una certa ammirazione per lui pensando che era nato in quell'ambiente sfarzoso, con quel motto nel cuore, e nonostante tutto era stato capace di volgere il suo sguardo al mondo esterno, degnandosi perfino di rivolgere la parola ad uno come lui, lanciandosi in avventure rischiose quando aveva almeno mille servi pronti a servirlo e riverirlo...

Le grandi porte si aprirono.

La sala che si stendeva davanti a loro era enorme, circondata da una doppia fila di logge. Il soffitto era a cupola, traforato da miriadi di finestrelle e decorato di piastrelle azzurre. L'aria era fresca, profumata da enormi incensieri di bronzo, e fresco era il pavimento di marmo variegato. I cortigiani sembravano piccoli in quella vastità, seduti su grandi cuscini trapuntati in uno sfavillio di vesti e gioielli. Una coppia di pavoni del deserto vagava sul lustro pavimento, adornandolo con lo splendore delle piume. Su una piattaforma di legni rari, coperta da un enorme baldacchino dalle colonne tortili, stava il trono di Unari-shir, largo e basso com'era uso tra i kelith. Una fila di guerrieri dalle armature favolose affiancava la piattaforma, e davanti ad essa un gruppo di musici eseguiva sommesse nenie dai complicati accordi.

Deyan entrò, e le musiche tacquero all'improvviso. I cortigiani si voltarono verso di lui, smisero le loro chiacchiere, lo fissarono con occhi tondi e, come ad un segnale preciso, si inchinarono tutti insieme. L'erede rispose con un cenno regale del capo.

Poi Unari apparve, entrando nella sala dal loggiato. Tutti si inchinarono ancor più profondamente. Il principe salì sul suo trono, con aria imbronciata, si sedette a gambe incrociate e fissò la sconcertante coppia che avanzava al centro della sala.

Deyan si fermò. Secondo l'etichetta kelith piegò un ginocchio a terra, toccò il suolo con le mani legate e le portò alla fronte. “Salute e prosperità a te, mio padre e signore.”

Ran restò in piedi, fissando Unari a bocca aperta.

Il principe afferrò il suo scettro, se lo battè lievemente sul palmo aperto.

“Rialzati, Deyan-shir, mio erede e principe di Shana.”

Deyan si alzò, guardò Unari con uno sguardo dritto e fermo.

Gli occhi sottili del principe si spostarono irosamente su Ran. “Il mio salvacondotto mi proibisce di punire la tua incredibile impudenza, nondimeno ti ordino di togliere immediatamente quella corda dai polsi di mio figlio! Come hai osato insultarlo a questo modo, barbaro sayanni?!”

L'odio razziale di Ran rinfocolò il suo orgoglio. Alzò il mento e rispose: 2Ho osato molte cose nella mia vita, principe. E non sono al tuo servizio, per cui me ne infischio dei tuoi ordini. Libererò tuo figlio solo quando avrò tra le mani il suo riscatto. Come vedi, insulti a parte, te l'ho riportato in ottima forma, sano e salvo. Quindi, niente sconti!”

I cortigiani mormorarono, indignati.

“Non offenderlo, Ran,” mormorò Deyan, con voce appena udibile.

“Scusa," rispose Ran con la stessa voce. "Ma stando con te mi ero dimenticato quanto sono arroganti e insopportabili i kelith!”

Unari fece un cenno secco al suo tesoriere, e dei servi avanzarono verso Ran portando dei sacchetti dal confortante tintinnio. Giunti a qualche passo da lui, li slegarono e rovesciarono con cautela sul pavimento il loro sfavillante contenuto.

Il sayanni ebbe un'espressione rapace e esultante vedendo quella pioggia di monete sul pavimento.

“Ecco il tuo riscatto,” disse Unari indicandolo. “Contalo pure, se vuoi: non troverai ammanchi. E ora libera immediatamente il principe erede!…”

Ran si precipitò a sciogliere la corda, con un sorriso avido.

“Sono salvo, per Kamoh e Lilia!... Me ne rendo conto solo adesso... Mille benedizioni a te, Deyan-shir, e al destino che ti ha messo sulla mia strada. Spero che tu possa provare un giorno la mia stessa felicità.”

“Goditela, Ran.” Un sorriso appena accennato. “Te la sei meritata. E sta' lontano da Kelitha, in futuro. Non abusare della tua fortuna, ti è andata bene una volta; la prossima potrebbe costarti cara.”

“Lo stesso vale per te, kelith. Comunque grazie!” 

Si sedette a terra, tutto contento, e cominciò a contare i soldi: operazione che per un guerriero ignorante come lui non era certo tra le più facili.

Deyan si avvicinò al trono del padre, osò un lieve sorriso. “Grazie, padre mio, per avermi liberato dalla prigionia.”

“Non potevo permettere ad un barbaro sayanni di tenere in ostaggio un nobile della mia famiglia,” rispose seccamente Unari.

Il sorriso di Deyan si spense. Era chiaro che il padre era in collera con lui. Si apprestò quindi a sentire il solenne rimprovero che gli avrebbe fatto, sopportando l'umiliazione di doverlo ascoltare davanti a tutti.

“Ho ricevuto un messaggio dal nobile Estsen-shir di Itka,” disse Unari nel silenzio.

Deyan abbassò doverosamente la testa.

“Quando ti è stato dato il permesso di viaggiare, figlio, ti è stato forse detto di offendere mortalmente il nostro maggiore vicino?”

“No, padre.”

“Ti è stato detto di lanciarti in assurde imprese da assassino, e farti catturare ignominiosamente dopo aver commesso un delitto assolutamente inconcepibile per qualsiasi kelith?”

“No, padre.”

“Lo sai cosa farei io, se qualcuno violasse la mia shanda come hai fatto tu, e possedesse con l'inganno proprio la mia Prima tra le Prime?!…”

La voce di Unari era salita in un urlo sferzante, che echeggiò nella sala silenziosa facendo trasalire tutti.

“Faresti ciò che Estsen-shir stava facendo a me, quando sono stato rapito dal sayanni.”

La voce di Deyan era dispiaciuta, ma per niente intimorita.

“No,” rispose Unari, ferocemente. “Farei di peggio.”

Un lungo, tremendo silenzio.

Unari riprese a fatica il controllo, ma la sua voce era velenosa. “Il tuo gesto inqualificabile ha messo in crisi i nostri rapporti con Itka. Persino la mia posizione nell'Augusto Consorzio è minacciata. Mi è stata richiesta la tua consegna all'offeso come riparazione del male commesso, ma naturalmente questo non posso concederlo: te lo meriteresti, ma sarebbe anche un gesto di indegna debolezza da parte di Shana. Ho pagato il riscatto proprio perché la tua punizione deve esserti inflitta qui, e dalle mie mani, poiché solo io devo aver potere su di te.” Una pausa. “Se ti è rimasta ancora un po' della dignità di un principe, Deyan-shir, comprenderai che non ti posso perdonare. Il tuo delitto è stato troppo grave: devi essere punito per ciò che hai fatto. E punito severamente.”

Deyan alzò la testa, rassegnato.

“E sia, padre: rimetto nelle tue mani la mia nomina ad erede.”

Ci fu un mormorio della corte.

“Rinunci al tuo titolo?” domandò Unari, con voce tagliente. “E pensi che questo sia sufficiente ad evitare l'ostilità di Itka e forse di altri membri dell'Augusto Consorzio? Che sia sufficiente ad evitare l'isolamento di Shana?"

“Forse no, padre. Se offrirai questa mia rinuncia con mani tremanti all'Augusto Consorzio. Ma se  ne esalterai il valore, ti dimostrerai giusto e inflessibile, salvando la dignità di Shana. Che tutti sappiano che tu solo e nessun altro è il signore di questa terra e l'arbitro della vita dei suoi familiari! Forse questo causerà inimicizia, ma ti farà rispettare presso gli altri principi.”

“Come osi darmi consigli di politica, proprio tu, dopo quel che hai fatto?!” tuonò Unari, diventando paonazzo. "Ti ordino di tacere immediatamente!…”

Deyan obbedì, ma non i cortigiani. Alcuni tra i più anziani mormorarono tra di loro, dando ragione all'erede. Unari li udì e li azzittì con un cenno imperioso del suo scettro.

“La tua punizione deve essere esemplare, Deyan-shir, e deve poter chiudere per sempre il triste capitolo del tuo delitto. Dopo di che tutti, Itka, l'Augusto Consorzio... e Shana stessa... considereranno chiuso l'incidente. Ascolta dunque la tua sentenza!”

Si alzò, e tutti i presenti si alzarono in un silenzio fremente. Ran smise di contare le sue monete, guardò Deyan con trepidazione.

“Shana-iban-Unari Deyan-shir!” proclamò il principe, con voce solenne. “Hai perso il tuo diritto di erede al trono a favore di Gamosh, il primo dei cadetti. Ti sei dimostrato indegno di essere un principe e un nobile. Pertanto hai udito il tuo nome nobiliare per l'ultima volta. Esso sarà cancellato da tutti i documenti e le iscrizioni.”

A un suo cenno, due massicce guardie in armatura si affiancarono a Deyan e lo afferrarono saldamente per le braccia.

“Cesserai dunque di esistere, ma non avrai una morte misericordiosa. Poiché per secolare usanza non si può violare il corpo di un nobile, sarai innanzitutto marchiato in viso col segno indelebile della schiavitù perpetua, e ti sarà saldato addosso il collare da animale.”

La corte emise un mormorio attonito. Gli occhi di Deyan si spalancarono, mentre un pallore assolutamente mortale gli saliva al viso. 

Che cosa?!

Ma non era ancora finita...

“Quando sarai stato così privato del tuo rango, sarai portato nella piazza delle esecuzioni fuori dal palazzo, dove già ti aspetta l'ambasciatore di Itka. Laggiù...” Unari fece una pausa, e la sua voce tremò. “Laggiù sarai denudato e fustigato pubblicamente, assieme ad altri schiavi e malfattori. Quindi ritornerai qui affinché tutti coloro che ti hanno conosciuto vedano la tua vergogna. E infine, se sarai ancora vivo dopo tutto questo... sarai portato nelle oasi meridionali, dove spingerai le macine di giorno e di notte, fino alla morte.”

Tutti restarono agghiacciati, e persino Ran fissò Deyan con costernazione. 

Ad Unari non era bastato condannare un principe ereditario ad un oltraggio che non era nemmeno concepibile, ma l'aveva anche destinato ad una morte orribile: uno schiavo normale non durava un mese, a faticare sotto il sole del deserto; un albino non sarebbe durato una settimana. 

Deyan non poteva ancora credere a quel che aveva appena sentito, sembrò sul punto di cadere in ginocchio. Non si era aspettato una simile, atroce sentenza: avrebbe preferito mille volte essere divorato vivo dagli avvoltoi di Itka...

Per un lungo istante fissò il vuoto con disperazione, sembrando più morto che vivo. Poi, lentamente, la sua ferrea disciplina interiore ebbe il sopravvento.

Si raddrizzò alquanto, alzò di nuovo lo sguardo a Unari e la sua voce salì, piena di sconfinato disprezzo: “È per soddisfare la tua perversa crudeltà che mi fai questo, padre? O per la più abietta viltà davanti all'ira dei tuoi vicini?... In me disonori tre millenni di nobiltà, e mi condanni a ciò che nemmeno i sayanni farebbero ad un principe kelith!... Se tu fossi soltanto un poco meno vile o crudele, mi destineresti semplicemente alla morte... ma te ne manca il coraggio!”

“Taci!” tuonò il principe, sbarrando gli occhi. “Come osi?!…”

Ma Deyan ormai era scatenato. 

“Shi-El Kaira’shtai!” gridò, nell’antica lingua, e tutti ammutolirono. “In nome della Misteriosa, io ti maledico, Shana-iban-Vayua Unari-shir! Nella vita che mi resta e nella morte che mi aspetta, possa la maledizione della dea raggiungerti, e distruggerti!…”

La voce di Deyan era riecheggiata potentemente nella grande sala. E, come se la sua invocazione avesse trovato ascolto, una corrente di aria passò fischiando tra le finestre della cupola: un suono assordante nel silenzio tremendo che era seguito.

Unari arretrò di un passo, pallido come un morto, mentre la corte lo fissava agghiacciata.

“Portatelo al boia e eseguite i miei ordini,” mormorò, con voce strozzata.

 

 




 


 

Passarono lentamente le ore. Unari si era di nuovo seduto sul suo trono, con la testa china. I musici avevano tentato di suonare qualche nota, ma erano stati subito azzittiti. I cortigiani mormoravano. Nel silenzio si udivano solo le strida dei pavoni, e il tintinnio ozioso delle monete di Ran sul pavimento.

“Allora, sayanni, sei soddisfatto?” aveva chiesto Unari, rabbiosamente. “Hai avuto il tuo riscatto. Vattene, dunque.”

“Non ho ancora finito di contare i miei soldi,” aveva risposto Ran, velenosamente. “Il tuo salvacondotto mi dà il permesso di stare dove voglio sul tuo territorio, intoccabile e inviolabile, fino al tramonto, e io voglio stare qui. Qualcosa in contrario?”

“La tua presenza insozza questa sala e dà fastidio a me e alla mia corte!…”

“Davvero?” Ran aveva alzato le spalle. “Oh, come mi dispiace!... Ma forse il grande Unari-shir vuole mancare alla parola data.”

“Come osi, barbaro?!” avevano tuonato le guardie del principe, avvicinandosi a lui per scacciarlo.

Ma Unari aveva fatto un gesto stanco. “Lasciatelo stare, non importa. Che faccia quel che vuole... fino al tramonto.”

Era chiaro che il suo pensiero, come quello di tutti, era rivolto altrove.

E alla fine le porte gigantesche si spalancarono di nuovo. 

Le guardie scelte trascinarono una figura nuda, sanguinante e inerte in mezzo alla grande sala. Ran, che stava impilando distrattamente le monete del riscatto, spalancò gli occhi e le lasciò cadere a terra...

Se non fosse stato per i capelli bianchi, non avrebbe mai riconosciuto in quell'essere miserabile il principe altezzoso che aveva appena riportato a casa.

I soldati lasciarono cadere a terra il loro prigioniero. Uno di loro lo prese per i capelli, gli alzò la testa in direzione di Unari. “Sentenza eseguita, nobile principe.”

Un'orribile ustione brunastra, impressa sullo zigomo destro, sfigurava il bel volto di Deyan, pallidissimo per il resto. Unari fece un gesto, e un servo andò a gettargli in faccia una tazza d'acqua mista ad aceto, scuotendolo. Ci volle un po' prima che si riprendesse; finalmente aprì gli occhi, ma non ebbe la forza di alzarli all'assemblea che lo fissava agghiacciata.

Unari si rivolse all'ambasciatore di Itka, che aveva fatto il suo sprezzante ingresso dietro al condannato.

“Questo soddisfa il tuo signore?”

L'ambasciatore studiò Deyan, con freddezza. “È stato uno spettacolo memorabile, nobile signore, ma... se posso permettere un umile suggerimento…”

“Parla pure.”

“Ecco, hai fatto di questo malfattore uno schiavo, ma egli è tuttavia di nobile origine, e si vede ancora..." Arricciò il naso. "Credo che occorra privarlo dei suoi attributi principeschi. Bisogna bruciargli i capelli, le sopracciglia e ogni pelo del corpo, in modo che non ricrescano più e non rivelino che è un albino.”

“E gli occhi?” chiese Unari.

“Semplice, nobile signore. Basta strapparglieli.”

“No!…”

Tutti si voltarono verso quella voce, sorpresi.

Era stato Ran a gridare, scattando in piedi.

“Cosa vuoi ancora, predone?” chiese Unari, irritato.

Tutti lo fissavano, tranne Deyan che continuava a tenere lo sguardo fisso al suolo. Ran esitò, rendendosi conto della tensione intorno a lui, poi disse con voce imbarazzata: “Ecco, nobile signore... non ti sembra di averlo già punito abbastanza?”

“E a te cosa importa?”

Mostro spietato e senza cuore, pensò Ran, tutto quel che conta per te è calpestare tuo figlio per far piacere a quest'altro bastardo...

Quel pensiero gli fece venire un'improvvisa ispirazione.

“Beh, se tu facessi quel che suggerisce quel nobile, lo rovineresti del tutto, cioè... lo renderesti completamente inutile... non so se mi spiego.” La sua voce prese forza, man mano che l'idea si sviluppava nella sua mente. “Ne hai fatto uno schiavo, no? Ma perché mandarlo a girare le macine? Un così bel giovane, forte e ben fatto, e per di più... albino?”

“Ahhh," sorrise l’ambasciatore di Itka, compiaciuto. “Stai dicendo che ti piacerebbe usarlo per i tuoi piaceri carnali.”

Ran non riuscì a trattenere un'espressione scandalizzata. 

“Non per me! E poi io sono ancora vergine.” Respirò profondamente. “Ma conosco gente che pagherebbe oro sonante per i servigi di un simile, eccezionale schiavo.”

“Ah, sì?”

“Case di piacere,” annuì lui, con fare ruffianesco, e si rivolse di nuovo a Unari. “È già un peccato che tu abbia rovinato la perfezione di tuo figlio con quel marchio, e spero che i tuoi carnefici abbiano fatto il loro lavoro con la frusta senza danneggiare troppo la merce. Non sprecarlo nel deserto, basterebbe esporlo anche così nei mercati che so io, e renderebbe una fortuna…”

“Dunque lo vuoi comprare?”

“Sì, principe.” Guardò il riscatto, e sospirò. “A un prezzo giusto, si intende…”

“Quanto vale per te un principe kelith?”

Ran spostò con un piede una pila di monete, guardò Unari strizzando un occhio.

Il principe rise, aspramente. “Mi daresti la metà del riscatto?”

L'azzurro delle gote di Ran impallidì alquanto.

“...Facciamo un quarto, eh?”

Unari guardò il nobile di Itka, che studiava il condannato con sadico interesse. “Che ne dici, ambasciatore?”

Costui distolse a fatica lo sguardo dalla nudità del prigioniero, sogghignò.

“Sarebbe l'unico oltraggio che mancherebbe a quelli già sopportati da questo sacrilego. Passare da principe erede a schiavo destinato al piacere di chissà quali infimi individui…” Girò intorno a Deyan, gli mise il suo bastone da passeggio sotto il mento e lo costrinse ad alzare la testa. “Allora, parla: preferiresti usare il tuo corpo per muovere una macina, o per dare sollazzo a canaglie come questa?”

Deyan strinse spasmodicamente gli occhi, e tutti videro che era ad un passo dalle lacrime. Ran si  volse intorno, chiedendosi come si potesse godere di quel dolore spaventoso, anziché provare pietà...

“Di tutte le punizioni, questa sarebbe senz’altro la più sublime," ridacchiò l'ambasciatore. “Avendo oltraggiato la moglie di Estsen-shir, saresti oltraggiato allo stesso modo. Predone!” esclamò, rivolgendosi a Ran. “Sei sicuro che potresti destinarlo a quest'infamante servizio? Non credo che questo schiavo sia molto docile!”

“Nessuno lo è, naturalmente.” Ran lottava per tenere la voce allegra. “Ma i padroni delle case di piacere hanno una grande esperienza nella doma dei loro schiavi. E non li lasciano morire tanto facilmente: devono prima rendere il loro gruzzoletto. Del resto, dopo le prime volte, il loro spirito è talmente stroncato che non resistono più, e diventano davvero docili.”

Una voce dentro di lui gemeva: e questo potrebbe essere davvero il mio prossimo destino...

L'ambasciatore riprese il suo bastone, si volse verso il principe. “Ebbene, Unari-shir, la mia opinione è che sia meglio vendere questo schiavo al sayanni. Il mio padrone ne sarebbe contento.”

Unari annuì, si rivolse a Ran. “Se farai gli affari che ci hai detto, non ti dispiacerà lasciare qui la metà del riscatto. Prendere o lasciare.”

Deyan si scosse dal suo annientamento, raccolse le sue poche energie, si voltò verso il sayanni e gridò con disperazione: “Ran!... Non voglio che tu accetti! Lasciami morire qui, ti prego...” Chiuse gli occhi, sull’orlo delle lacrime. “Vattene, e lasciami morire!”

La sua voce era solo una caricatura del tono sicuro e controllato di un tempo.

Stupido kelith! pensò Ran, cupamente. Non starai credendo che stia facendo sul serio!... Non capisci che non ho altro modo per salvarti la vita?

Ora tutti fissavano il sayanni. Il fatto che Deyan stesso lo implorasse di rinunciare aumentava il piacere di venderglielo. Lui se ne accorse, irrigidì il suo cuore e si decise. 

“Affare fatto, principe Unari,” disse con tono sordo, cercando di non pensare a quel che stava facendo. Sputò sul lindo pavimento in segno di accettazione. “Voglio un sacco per la metà del riscatto che mi rimane, e una catena da attaccare al collare dello schiavo. Dopodiché me ne andrò, e nessuno mi seguirà.”

“Nessuno ne avrà voglia,” ribattè Unari, alzandosi di scatto. Si rivolse ai segretari. “Compilate un regolare atto di vendita. E date al predone ciò che ha chiesto. Ora lasciatemi al mio lutto. Oggi mio figlio è morto!”

E se ne andò, senza voltarsi indietro. 

 


 

 


 *

 

  




Tutta Luna di Fuoco sogghignava alla conclusione del grande affare di Ran, perfettamente in linea con il personaggio. E già nelle taverne i trovatori avevano composto salaci ballate al proposito. 

Ran però non rideva affatto. E nemmeno Mastro Kurmaji, che l'aveva di nuovo convocato alla Grande Casa, profondamente deluso da come era andato l'affare, e soprattutto da come Ran l'aveva gestito.

“Sei stato sfortunato, va bene, ma perché aggiungere alla sfortuna un'altra stupidaggine? D'accordo, ora possiedi uno schiavo: ed è forse l'unico schiavo albino maschio che sia mai esistito tra i kelith. Ma per gli dèi, è in uno stato pietoso!”

“Ora sta meglio, Pushpa lo ha medicato.”

“E come pensi di pagare Pushpa?”

“Con nulla. L'ha fatto gratis.”

Kurmaji fece un sorriso amaro. “Un attacco di generosità contagiosa la tua, non è vero? Perché è per questo che hai comprato il tuo ostaggio. Per salvarlo dalla morte.”

“Non è vero!" si difese Ran. “Ho avuto i miei buoni motivi…”

“Risparmiami le tue bugie.”

Ci fu un lungo silenzio.

“Peccato, era la nostra unica occasione di avere un alleato tra i nobili kelith,” sospirò Kurmaji. “Non avrei mai creduto che suo padre l'avrebbe trattato con tanta severità.”

“Nemmeno lui lo credeva…”

“Già, però ora il tuo kelith non è più un principe. È un miserabile schiavo. L'ho visto quando l’hai portato indietro, e non ho trovato traccia alcuna del suo formidabile spirito. Peccato, perché questo abbassa ulteriormente il suo valore commerciale: pensa a quale quotazione sarebbe giunto, se avesse potuto offrire la sua erudizione aristocratica!” Bevve il suo infuso. “Invece ora non rimane che il suo corpo. Una volta guarito, potrai decorosamente portarlo sul banco degli schiavi. Dovrebbe fruttarti a sufficienza per chiudere in pareggio o lieve attivo la tua stagione: è piuttosto bello per i canoni kelith, e in più è un albino, una rarità assoluta.” Kurmaji sospirò. “Se non te la senti di venderlo in prima persona, puoi sempre portarcelo qui: te lo ritireremmo ad un prezzo di mercato, con il venti per cento in più per la sua peculiarità.”

Ran chinò la testa, pensieroso. Non aveva nemmeno toccato la sua tazzina.

“Devi prendere questa decisione alla svelta," disse Kurmaji. "Hai già sostenuto un sacco di spese per questa sfortunata impresa. Pushpa o no, devi nutrire e vestire il tuo schiavo ogni giorno se vuoi tenerlo in buone condizioni. Ogni giorno di indugio abbasserà quel poco di ricavo che ti resta, e tra poco finirai comunque in passivo. Devi venderlo, Ran. E venderlo subito.”

“Non posso fargli una cosa simile,” mormorò lui, quasi a se stesso.

Kurmaji sospirò.

“Lo vedi? Sei troppo sentimentale per essere un predone. Non avresti dovuto comprarlo. Saresti tornato con l'intero riscatto e un sacco di problemi in meno!”

Ran non rispose.

“Invece ora sei dilaniato da mille scrupoli di coscienza, che non ti aiuteranno a risolvere la questione di quel kelith. Credi davvero di potergli risparmiare l'umiliazione di essere venduto? Quando sarai dichiarato fallito, sarà esposto comunque sul banco degli schiavi, come tuo ultimo bene da mettere all'incanto. Se la cosa ti consola, pensa che gli farai compagnia anche tu... una magnifica situazione, non c'è che dire.” Kurmaji si alzò. “A volte, Ran, la pietà è la più crudele delle maledizioni. Il tuo schiavo forse ha tutti i motivi per odiarti a morte.”

 

  


 






Il sayanni camminò stancamente fino alla sua abitazione, di proprietà dei Marjaban che, ineluttabilmente, segnavano l'affitto in calce al lungo elenco delle sue passività.

Dentro trovò il consueto disordine. E, nel solito angolo, il suo schiavo.

Deyan fissava il vuoto, come sempre, abbracciandosi le ginocchia. Era rimasto nudo come Ran l'aveva portato, nonostante i kelith avessero fama di essere pudichi: non aveva addosso altro che il collare di bronzo saldato. Sui suoi muscoli affusolati le ferite dell'infamante supplizio a cui era stato sottoposto stavano guarendo, e solo un sottile alone di tessuto arrossato circondava il profondo marchio sul suo volto: l'ideogramma kelith della schiavitù.

Era insomma abbastanza in salute, nonostante non mangiasse se non imboccato, non bevesse se non costretto, e si muovesse solo per andare alla latrina: unica concessione che faceva alla propria dignità. Per il resto non si lavava, non pettinava la sua chioma più scarmigliata che mai, e una sconcertante barba bianca aveva cominciato a crescergli sulle mascelle.

Passava i giorni così, seduto, a fissare il vuoto, senza una parola, un tremito degli occhi.

“Ha perso la ragione?” aveva chiesto Ran a Pushpa.

“Non lo so," aveva risposto quest'ultimo, con un sospiro. “Può darsi che questa si sia semplicemente nascosta nel più profondo di lui. Succede, quando si subisce un grande dolore.”

“Non puoi guarirlo?”

“Le ferite dell'anima guariscono col tempo.”

“Per gli déi! Io non ho più tempo!”

“E nemmeno io, Ran.” Pushpa aveva raccolto le sue medicine. “Ho fatto tutto questo per lui, per la cortesia che ha avuto con me, e in cambio delle sue storie. Non certo per la tua cortesia, che non ne hai, né per i tuoi soldi, che non ci sono. Addio.”

Se n'era andato, lasciandolo solo con quel misero kelith nudo e indifferente, che non faceva che fissare il vuoto, come una bambola rotta...

Il predone distolse lo sguardo da lui, andò al tavolo e si sedette pesantemente. Scostò le tazze sporche con una mano e prese direttamente la brocca del vino, bevendo a garganella.

“Kurmaji ha ragione,” disse a voce alta. “Sono uno sciocco. Tutto ciò che tocco si muta in cenere. Sono incapace di tutto. Sono un fallimento. Guarda a cosa mi sono ridotto!…”

Deyan non diede alcun segno di vita.

“Già, tu non mi ascolti. Sarebbe pretendere troppo, vero? Io non sono che un disertore sayanni. Sono nato nei bassifondi di una casta, con un destino già stabilito, e nessuna voglia di percorrerlo. Non mi piaceva la disciplina, il dover sempre obbedire a capi che detestavo. Non godevo nell'ammazzare. Non valevo niente come guerriero, insomma.”

Bevve ancora, abbondantemente. Poi si alzò, andò davanti a Deyan, gli si accovacciò innanzi.

“Cosa vuoi che sia allora la perdita della libertà per un relitto come me? Niente, vero? E pensare che la perderò perché ho voluto salvarti la vita. Mentre tu avresti preferito essere bruciato in testa e accecato e messo a girare le macine sotto la frusta degli aguzzini, mentre i soli avrebbero squarciato la tua fragile pelle bianca riducendoti ad un ammasso di vesciche senza vita. Oh, Kurmaji ha ragione, quell'avido avvoltoio nero! Hai tutti i motivi per odiarmi. Povero, derelitto, sfortunato Deyan-shir!”

Aveva pronunciato quel nome con tale sonorità da far vibrare quasi le pareti della stanza.

“Sì!” tuonò Ran, “Deyan-shir! Shir! Principe e erede, nato in un palazzo dove non un solo mattone, non un pugno di calce era lasciato nudo ad offendere i tuoi occhi regali. Un palazzo che non avrei immaginato nemmeno nel più sfrenato dei miei sogni di gioventù. Il paradiso, non è vero? Un paradiso. Oro. Argento. Fiori splendenti e acqua cristallina, mentre fuori i tuoi sudditi sono costretti a bere putrida acqua di pozzo. Alberi secolari. Arazzi, piastrelle cesellate, tappeti che sono costati gli occhi di chissà quante tessitrici. Ricchezza. Gloria. Solo gli déi sopra di noi! L'ho ricordato bene? Era questo il tuo motto, nobilissimo principe kelith, orgoglioso, altezzoso, superbo Shana-iban-Unari Deyan-shir?!”

Gli occhi rossi di Deyan tremarono lievemente.

“Ahhh... ma ora non sei più shir. Deyan e basta. Finito tutto. Un viaggio nelle segrete del tuo perfetto palazzo, ci eri mai stato prima? Avevi mai sentito i gemiti di chi ci stava dentro? Ah, ma certo, tu sei un principe albino, abituato alla tortura altrui. Un ferro rovente sulla faccia!” Ran toccò il marchio sulla pelle di Deyan, che trasalì. “Un ferro su un principe, e... magia, quel principe non è più tale. È uno schiavo. Allora vive sulla sua pelle quello che tante volte ha rimirato dalle mura, magari sbadigliando. Perché solo tu hai un orgoglio, vero? Solo tu hai sofferto e pianto di vergogna, quando hanno esposto il tuo corpo prezioso come la carcassa di una bestia macellata. E poi ti hanno battuto, mentre tutti ti guardavano avidamente, per vedere come un albino si contorceva nel dolore, per vedere se sanguinava, lui che aveva solo gli déi sopra di sé!”

Il riflesso della luce della lampada si sdoppiò negli occhi rossi del kelith. Ran si accorse che delle lacrime si stavano formando in quegli occhi fissi, indifferenti, immutabili...

“Solo tu hai diritto di soffrire, nobile principe decaduto. Non certo io, il vile predone che ti ha salvato la vita per due volte. Non certo io, il cane sayanni che sta marciando dritto verso il palco degli schiavi per causa tua!... Mi hanno chiesto di venderti, sai? E quale altro padrone ti tratterebbe come ho fatto finora io? Accudendoti, nutrendoti, sopportando il tuo silenzio, la tua indifferenza, la tua irriconoscenza, con tanta comprensione per il tuo dolore? Un altro padrone ti frusterebbe fino a farti vomitare sangue, ti incatenerebbe in una cantina e, se questo non bastasse, ti drogherebbe fino a renderti quello che legalmente sei... un corpo da bordello, e nulla più! Le leggi di Luna di Fuoco mi imporrebbero di trattarti così, di essere crudele e spietato. E tu, invece di essermi grato per aver resistito fino ad adesso e averti trattato con onore, me ne fai vergognare, facendo sì che tutti ridano della mia generosa stupidità!”

Ran si alzò di scatto, afferrò la brocca del vino e la scagliò rabbiosamente contro la parete.

Deyan sussultò appena.

Per un lungo istante il sayanni restò a fissare la macchia vermiglia sul muro, respirando affannosamente. 

Poi disse, a voce alta: “Non posso più continuare così. Adesso basta!…” Si voltò verso Deyan, lo afferrò per un braccio e lo alzò di peso. “Vestiti.”

Non ci fu reazione.

“Vestiti, ho detto!..." urlò Ran, e visto che il kelith non obbediva, gli allacciò quasi a forza uno straccio intorno ai fianchi. 

Poi frugò tra le cianfrusaglie che riempivano la sua cassapanca, ne estrasse un'ascia e la catena che gli avevano dato a Shana. Attaccò quest'ultima al collare di Deyan, se lo trascinò dietro fino alla porta, l'aprì  con un calcio.

C'erano dei passanti per la strada, ma si fermarono tutti a guardarlo. Ran uscì nella luce del tardo pomeriggio, alto e eretto nonostante avesse bevuto molto, dando uno strattone violento alla catena e urlando: “Avanti, cammina!…”

Deyan barcollò a quel brutale strattone, e obbedì come una marionetta.

Si levò una risata e qualcuno gridò: “Attento, Ran, non sciupare il tuo schiavo!…”

“Fatevi i fatti vostri!” tuonò Ran, marciando con irruenza verso la Grande Casa.

Molti gli andarono dietro, curiosi.

“Aspetta! Non portarlo al mercato! Te lo compro io…”

"È davvero un albino? O gli hai candeggiato la testa per imbrogliare gli stolti?”

“Forse hanno imbrogliato te, Ran! È così facile per i kelith!”

Ad un ennesimo strattone Deyan cadde in ginocchio nella polvere. La cosa fece ridere gli astanti, che lo pungolarono divertiti. Lo afferrarono per rialzarlo. qualcuno ne approfittò per tastarlo maliziosamente.

“Che ti prende, kelith? Non sai tenere il passo del grande guerriero?”

“Ran! Facci vedere se questo schiavo è tutto fumo e niente arrosto!”

“Se sa l'arte del letto come quella di camminare, stai fresco…”

“Ma sembra comunque bene in carne. Che ne dici, Ran? L'hai ben esaminato quando l'hai comprato?”

“Mi offro io a farti una perizia…”

Ran si voltò di scatto. Vide che Deyan non reagiva a quell'aggressione, ne era attonito spettatore. Allora reagì al posto suo: strappò dalle mani di un passante un bastone e si diede a menar colpi a destra e a manca, allontanando la ressa. 

"Il primo che gli si avvicina avrà la testa spaccata, chiaro?!” urlò, minacciosamente.

Gli astanti borbottarono, ma obbedirono e gli fecero largo.

Ormai erano giunti nella piazza davanti alla Grande Casa. La voce di quel che stava succedendo si sparse tra la folla del mercato, e molti si diressero verso il banco degli schiavi, vedendo che era la meta del sayanni.

“Finalmente Ran vende il suo gioiello!…”

Tutti lo guardarono, divertiti e incuriositi, mentre saliva il palco trascinandosi dietro quel misero kelith mezzo nudo. Si piantò a gambe larghe in mezzo al banco, si portò le mani ai fianchi e urlò: “Dove sono i Giudici delle Contese?!…”

“I Giudici! I Giudici!” fece eco la gente, ridacchiando.

Un t'yr sayanni venne trascinato quasi di peso, tirato per la lunga palandrana. Era stato evidentemente disturbato durante una buona cena, perché aveva ancora un pezzo d'arrosto in pugno e un gran tovagliolo al collo. Stizzito, si liberò da quelle mani e tuonò, pieno di indignazione:

“La vendita di schiavi è finita, l'orario delle contese passato da un pezzo! Sei ubriaco, Ran? Torna a casa!…”

“Brutto parassita che non sei altro,” ribattè il sayanni. “Sei pagato per fare il giudice o per mangiare come un ratto affamato? Ho bisogno dei tuoi servigi, ora!”

“Ha ragione Ran!” gridò qualcuno tra la folla, "Giudice, fà il tuo lavoro!"

“Oh, beh…” Il t'yr si tolse il tovagliolo, si pulì la bocca e posò la carne, cercando di riprendere un minimo di aspetto dignitoso. “Allora facciamo in fretta. Va bene, Ran! Chiami a testimone la Comunità di Luna di Fuoco. Per che cosa?”

Si fece un fremente silenzio.

Ran diede uno strattone alla catena, e Deyan cadde in ginocchio al centro del palco.

“Come risulta dai documenti depositati alla Grande Casa, sono proprietario di questo miserabile schiavo kelith che si chiamava Deyan-shir. Come vedete dai capelli, era un nobile, e niente meno che un principe ereditario; ma gli piaceva troppo fare il sacrilego, così l'hanno marchiato a fuoco e ridotto al rango di una bestia. L'ho comprato pagando un bel prezzo, ma tutti voi sapete che non ho fatto un grande affare.” Prese un braccio di Deyan e lo sollevò. “Questo kelith ha muscoli flaccidi, e la sua mente è più flaccida ancora. Pensate! Non si è ancora degnato di dirmi grazie per avergli salvato la vita!”

Lo lasciò andare, cavò dalla cintura la sua ascia e spinse a calci il ceppo del fabbro nel mezzo del palco.

“Forse pensa solo alla sua vendetta. O alle belle cose che ha lasciato. Forse è così debole da non poter guardare in faccia il presente, ciò che è... si crede probabilmente ancora un principe nel suo palazzo tutto d'oro.”

Una risata di scherno salì dalla gente. Gli occhi di Deyan si abbassarono sull’assito del palco, il suo respiro si fece più rapido.

Ran si erse maestosamente, e la risata svanì.

“Io non sono altro che un misero predone, ma nella mia miseria so essere forte e affrontare la mia vita. Sono orgoglioso di essere me stesso, e anche se so di essere un ignorante, stupido guerriero impulsivo... non mi importa, io sono quel che sono! E non mi trasformerò certo in un odioso mostro di crudeltà solo a causa di questo maledetto kelith, che mi ha portato solo disgrazia. No, per quanto questo schiavo sia irritante, superbo, arrogante, io non tradirò per lui la mia innata generosità, senza la quale non sarei ciò che sono... e ciò che diventerò.”

Un profondo silenzio calò nella piazza. Nessuno osò ridere di quel sayanni rattoppato, eppure così pieno di dignità. E Deyan ebbe un tremito.

“Dovrei venderti, Deyan-shir.” Ran si chinò su di lui. “Ma non mi va di farlo. E perché dovrei fare ciò che tutti ritengono giusto? Tanto tra poco sarò dichiarato schiavo io stesso, salirò questo palco per essere venduto, subirò il destino che meriteresti tu. Mi permetto dunque l'ultimo lusso da uomo libero di questa mia folle vita. Ti libero dalle tue catene!”

Lo afferrò per i capelli e gli mise brutalmente la testa sul ceppo.

“Per gli déi!" gridò qualcuno. “Non vorrai ammazzarlo!”

“Silenzio!” esclamò il giudice. “Può fare quel che gli pare con il suo schiavo.”

“Giudice! Sei pronto ad assistere?” gridò Ran.

“Sono il tuo testimone.”

L'ascia si alzò lentamente verso il cielo.

Poi calò, e la gente mandò un urlo, che si sposò con il clangore del metallo...

Deyan sussultò. Si aspettava di essere decapitato, ma vide invece l'ascia piantata ad un soffio da lui. La saldatura del collare era stata spezzata di netto.

“Dichiaro libero questo schiavo e rinuncio ad ogni diritto di proprietà su di lui!” gridò Ran, rivolto a tutti. Occhi stupefatti ricambiarono il suo cipiglio, ma nessuno osò fiatare. 

Il sayanni si avvicinò ad un palmo dall'orecchio di Deyan e gli disse: “Hai sentito, nobile principe? Sei di nuovo un uomo libero. Va’ dove vuoi, basta che sia il più lontano possibile da me. Non voglio più vederti. Porta il tuo dolore da un'altra parte, ne ho già abbastanza del mio!…”

Riprese la sua ascia dalla lama ammaccata, se l'appese alla cintura, se l'aggiustò sulla veste sgualcita e se ne andò a testa alta dal palco, verso la sua casa.

Tutti lo guardarono in silenzio, scostandosi dal suo cammino.

“Abbiamo preso atto di questa liberazione," disse il giudice, rivolto a tutti. "Ne manderemo debita registrazione alla Grande Casa. Ebbene, miei cari compagni, lo spettacolo è finito, e qui ormai si è fatto buio. Io me ne vado a casa!”

La gente mormorò, disperdendosi lentamente, mentre un baluginare di luci si accese nelle vie: evidentemente tutti erano dell'opinione del giudice. La piazza si svuotò, a poco a poco, finché le luci del tramonto non svanirono dall'orizzonte. Solo una brezza tiepida, ultima grazia del drastico clima locale, rimase a ricordare il calore del giorno, alzando una cortina di polvere e sibilando nella sua corsa tra le strade.

Deyan era rimasto sul palco per tutto quel tempo, in ginocchio davanti al ceppo, lo sguardo fisso nel vuoto.

Lentamente, esitanti, i suoi occhi si mossero, e così le sue mani. Salirono al collare spezzato, lo allargarono, lo sfilarono, lo lasciarono cadere sul palco.

Con uno sforzo sovrumano si alzò in piedi. Si guardò intorno, e i suoi occhi si fissarono sul mondo azzurro che sorgeva, pieno e tondo, dall’orizzonte di Luna di Fuoco. 

Il silenzio era totale, rotto solo dal sibilo del vento, e ogni cosa era netta e definita ormai, anche il suo destino. In quell'infinita solitudine, un sospiro profondo sollevò finalmente il torace di Deyan, ed egli assaggiò il sale delle sue lacrime segrete, che ridavano la luce ai suoi occhi e al suo spirito. Risentì il senso della sua vita, dopo che non gli era rimasto più nulla da perdere...  

Aprì le braccia, ringraziando l’eternità in un momento di mistica resa; poi le richiuse unendo i palmi davanti al petto, e le sue labbra si mossero appena.

El.

Quindi scese il palco, camminando con passo di nuovo altero e sicuro attraverso le viuzze oscure. Arrivò alla casa di Ran, aprì la porta con cautela.

Il sayanni era seduto sulla sua panca, con la testa sul tavolo, in un caos di brocche e tazze rovesciate, e stava già russando. L'odore del vino da poco prezzo riempiva la stanza, e quasi soffocava la luce incerta della lampada.

Deyan entrò, attraversò la stanza senza far rumore. Prese ciò che gli serviva, quindi se ne andò richiudendo la porta in silenzio. Si fermò presso una vasca che sembrava un abbeveratoio, o una fontana pubblica. Protetto dalle tenebre si lavò, si rase con l'aiuto del coltello di Ran, tagliò senza esitazione i suoi lunghi capelli bianchi e li lasciò volar via nel vento.

Quindi si vestì dignitosamente, si infilò il coltello in cintura, si mise a tracolla la corda di seta, una borsa contenente un sacco vuoto e un rampino. Si avvolse nel mantello scuro di Ran, che gli andava  piuttosto grande, e andò verso la Grande Casa.

Conosceva la strada. Si presentò solitario alla Sala del Vortice.

“Chi sei e dove vuoi andare?” chiese il Marjaban di turno, alzandosi dalla sua poltrona per servire quel tardivo cliente.

“Mi chiamo Deyan, e devo andare su Kelitha.”

Il Marjaban non si scomodò a guardare sotto al cappuccio per vedere la faccia dell'interlocutore. Cercò tra le sue tavolette.

“Non trovo il tuo nome, né come predone, né come dipendente.”

“Sono liberto di Ran il sayanni,” rispose Deyan.

“Ma non sei registrato come suo dipendente.”

“E non lo sono. Ero il suo schiavo.”

“Quindi è a lui che devo addebitare il tuo viaggio?” Guardò la tavoletta di Ran. “Il tuo padrone è quasi in passivo.”

“Lo sa.”

“È una procedura irregolare. Non dovrei mandarti giù senza il permesso scritto del tuo padrone. E poi Ran deve regolarizzare la tua posizione. Devo sentire Mastro Kurmaji al proposito.”

Il Marjaban fece per uscire, ma la mano tesa di Deyan lo fermò.

“Aspetta.”

Il mago esitò, a quella voce così calma e autoritaria.

“Se mi mandi giù subito, sarai pagato il doppio.”

L’innata avidità Marjaban fece brillare gli occhi al mago. “D’accordo, si può fare un’eccezione... se porti in pegno te stesso. Sarò pagato, o tu sarai dichiarato di nuovo schiavo, e ci apparterrai.”

Era una richiesta esosa ed ingiusta, ma Deyan chinò appena la testa. “Il patto è accettato. E adesso fammi andare.”

“Perché questa fretta?"”

“Perché è notte nelle regioni centrali di Kelitha. Non ho un minuto da perdere.”

“Come fai a sapere con così tanta precisione il tempo locale?" Il Marjaban guardò le mani vuote di Deyan. "Non hai comprato un'informazione…”

“Non ho bisogno di informazioni. La mia destinazione è il principato di Shana. Nella capitale. Il punto esatto: trentacinque gradi sud, settantaquattro centesimi; ottanta gradi ovest, quarantun centesimi. Coordinate equatoriali, meridiano Oceanico. Ritorno previsto tra tre ore kelith... due misure e tre quarti secondo il tempo di Luna di Fuoco. Hai bisogno di altro?”

Il Marjaban mostrò il più profondo stupore. Lanciò un'occhiata alla mappa.

“Sembra che tu sappia assai bene dove andare, kelith! Mi stai rubando il lavoro.”

“Mandami giù, allora. In fretta.”

Senza discutere oltre, il Marjaban gli diede la Polvere e lo accompagnò al centro del Cerchio.

 

 




 *

 




  

Ran si risvegliò nel suo giaciglio. Un piacevole odore di pulito si levava dal lenzuolo che lo copriva. Era svestito, lindo e profumato, e non c'era traccia del vino in cui si era quasi affogato prima di addormentarsi.

Deve essere un sogno, si disse, richiudendo gli occhi.

Ma quando li riaprì tutto era come l'aveva visto.

Si alzò di scatto a sedere, si guardò intorno; con un gesto automatico guardò anche sotto il lenzuolo, e tirò un sospiro di sollievo: la Sacra Membrana c'era ancora...

Di nuovo guardò la stanza. Era in ordine, e abbastanza pulita, anche se la grossa macchia di vino sulla parete era rimasta, ricordo della sera prima. Un mal di testa bestiale gli rammentò ogni particolare di quel che era avvenuto.

"Per Kamoh e Lilia!" esclamò, portandosi le mani alle tempie. “Chi mi ha portato qui?!"

"Io," disse una voce ben conosciuta, dietro di lui. 

Ran si voltò, sgranò gli occhi.

"Deyan-shir!..."

"Deyan e basta," corresse lui, con un sorriso triste.

"Dei del profondo," mormorò Ran, seguendolo con lo sguardo mentre il kelith si accomodava su uno sgabello, accanto al tavolo sgombro. "Ma sei proprio tu? Credevo che non avrei mai più risentito la tua voce!"

"Hai fatto di tutto per sbarazzarti di me, Ran. Perdonami se sono rimasto qui."

Lui sorrise ampiamente, rimirandolo.

"Ti sei lavato, vestito e rasato... sembri quasi quello di prima, a parte i capelli. Perché li hai tagliati?"

"Perché non sono più un principe."

Ran scrollò le spalle. "Che importa? Sei comunque tornato alla vita!" Il suo sorriso fu attraversato da una improvvisa smorfia di dolore, si portò nuovamente le mani alle tempie. "Per gli dei, che sbronza colossale mi son preso!..."

Deyan gli offrì una tazza di infuso medicinale. Ran l'accettò con gratitudine, e bevve. Quindi guardò i suoi occhi limpidi, stupito da quella cortesia; e alla fine gli chiese, a voce bassa: "Che ti è successo? Sei rinsavito dalla tua pazzia... ma sento che non sei più quello di prima."

Deyan sospirò, la sua voce suonò calma e malinconica.

"E te ne sorprendi, dopo quel che mi è stato fatto? Mi credevi pazzo, ma non lo ero. Semplicemente mi ero chiuso in me stesso, per non dover affrontare la realtà, la mia tremenda umiliazione. E sarei morto così, se le tue parole irose non mi avessero percosso come altrettanti schiaffi, costringendomi a guardare in faccia la verità..." Chinò lo sguardo. "Mi hai fatto rivivere appieno tutta la mia degradazione. E l'hai fatto con la giusta dose di spietata crudeltà, perché in quel momento io non ero che un odiato principe kelith, e tu un sayanni pieno di voglia di vendetta... nemmeno con un coltello avresti potuto procurarmi così tanto dolore."

Ran era costernato.

"Io non volevo... ferirti così."

"Cosa volevi fare allora?" chiese Deyan con veemenza, rialzando lo sguardo. "Te lo dico io! Volevi punirmi, scuotermi; volevi vedermi almeno piangere disperato. E ci sei quasi riuscito: quando mi hai attaccato la catena al collo e mi hai condotto al mercato, in mezzo a quella marmaglia oscena, la mia disperazione ha raggiunto il suo colmo. Credevo che mi avresti venduto... avevi ragione, me lo sarei meritato. Poi, quando hai tenuto la scure sul mio collo, ho creduto che mi avresti ucciso..."

Tacque per un lungo istante. Poi riprese, a voce bassa: "Invece mi hai liberato. Non me l'aspettavo, e men che meno dopo quel che mi avevi detto, il modo brutale in cui mi avevi trattato. Allora ho capito che le tue intenzioni erano buone, che a modo tuo mi volevi bene. E che io, troppo pieno di me stesso, non me n'ero accorto..." Sospirò. "E allora ho finalmente compreso la tua folle, totale generosità, e quel che ti sarebbe costata. Forse, solo in quel momento ho capito di non essere più Shana-iban-Unari Deyan-shir, ma soltanto... uno schiavo senza patria."

Ran si strusciò gli occhi con un gesto furtivo.

"Tu... tu non sei più uno schiavo. Sei libero. Se trovi qualcosa da fare per raggranellare dei soldi, puoi pagarti il viaggio di ritorno. Ti aiuterei io, ma non ho più credito... non posso nemmeno pagarmi il pane di domani."

Deyan scosse la testa.

"Non sono più uno schiavo su Luna di Fuoco, ma il marchio che ho in faccia mi nega la libertà in ogni principato kelith, dove sarò per sempre considerato solo una merce; e nessun albino può anche solo pensare di trovar rifugio in Sayanna, dove la mia razza è esecrata. Quindi sono il tuo liberto, Ran, e questa è la mia nuova casa." Un sorriso rischiarò i suoi lineamenti. "In quanto a lasciarti nelle condizioni in cui sei, questo sarebbe un insulto al mio onore. Mi hai liberato dalla schiavitù e il minimo che posso fare è ricambiare la tua generosità."

Prese dalla cassapanca una tavoletta e gliela consegnò.

"Che cos'è?" chiese Ran, cercando di decifrare tutte le cifre che c'erano scritte.

"La ricevuta di un versamento che ho fatto sul tuo fondo alla Grande Casa, e l'attuale situazione della Squadra di Ran presso i Marjaban."

Ran computò il saldo battendo più volte le palpebre. "Hanno sbagliato tutto, questo è il mio passivo."

"No, Ran. Questo è il tuo attivo. Tutti i tuoi debiti sono estinti. Mentre dormivi, sono andato a Shana, in quello che è stato il mio palazzo, e ho rubato mezzo kontar di Astri kelith... la valuta nobile per le grandi transazioni. Mastro Kurmaji ha pesato il nostro bottino sotto i miei occhi, impiegando tutto il resto della notte. Intanto ha mandato un paio dei suoi servi qui a sistemare te e la casa." Un'alzata canzonatoria di bianche sopracciglia. "Un predone con il tuo conto non deve giacere a faccia in giù in una pozza di vino!"

Ran non poteva credere alle sue orecchie.

"Mezzo kontar di Astri!... Per Kamoh e Lilia, ma dove diavolo hai imparato a fare il ladro?"

"Da nessuna parte, io sono... ero un principe dell'antica stirpe Mahajanì. Sono stato educato fin da bambino a progettare un’azione di guerra, ad usare il corpo come un'arma, ad ascoltare, osservare, ragionare, avere pazienza, e non avere mai troppa paura."

"A fare il ladro, insomma!"

Entrambi risero, poi  Ran si interruppe di colpo. "Aspetta! Hai detto nostro bottino?

"Sì."

"Ma non è giusto. Io che c'entro?"

"Tu sei il mio ex padrone. Anche se mi hai dichiarato libero, faccio comunque parte della tua casa."

Ran si alzò in piedi ed esclamò con un sorriso radioso: "Tu fai certamente parte della mia casa, sì: ma come amico e collega, non come liberto o servo! Andrò a cambiare subito intestazione alla mia squadra. Non sarà più la squadra di Ran, ma quella di Ran e Deyan-shir!"

"Non sono più shir," mormorò Deyan, chinando lo sguardo.

"Tu sei shir," insistette Ran, con enfasi. "Nessun marchio può distruggere la nobiltà del tuo cuore. Tu sei Deyan-shir, principe dei predoni, e con questo nome sarai conosciuto su tutta Luna di Fuoco!" 

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Capitolo 4
*** Dove la sfida porta alla vittoria e la vittoria alla sfida ***


Nemel e Chat attraversarono rapidamente la piazza, sgomitando in mezzo alla folla nel giorno di mercato. Raggiunsero un pezzo d’uomo vestito a nuovo, tintinnante di gioielli da guerriero e coi capelli adorni di piume rare, che stava discutendo con un mercante kelith.

"Questa corda non va bene. Ne hai una più leggera? Sì, almeno venti stature. La seta dov'è? Ah, bene. Il vestito. Non dimenticarti il vestito."

"Salute a te, Ran," disse Chat, trafelato.

"Ah, siete voi.” Cenno distratto. “Salute. Sono molto impegnato."

"Ma che fai?" chiese Nemel, afferrandolo per un braccio e parlandogli sottovoce. "Acquisti da un mercante kelith?!"

"E allora? È un predone come tutti gli altri. Infatti se non sto attento mi imbroglia spudoratamente."

"Ma che dici, onorato cliente?!" protestò il kelith, inchinandosi. "Non oserei mai imbrogliare un così munifico acquirente..."

"Ecco, appunto, meglio che ci pensi due volte prima di provarci." Ran sbuffò e cavò di tasca un rotolo. "Il mio socio ti manda questa lista, io non ci capisco un accidente. Puoi procurargli questa roba?"

Il mercante srotolò il messaggio con sussiego. "Ah, sì, certo.” Vide l’ideogramma in calce e se lo portò cerimoniosamente alla fronte. “È un onore servire il signore."

“Adesso sì, vero?” Ran sorrise, ironico, e puntò il suo grosso indice sotto il naso del mercante. “Non gli chiudi più la porta in faccia? Non fai più commenti sul suo marchio da schiavo, o su quanto fosse bianco il suo corpo quando l’hai visto mezzo svestito?”

Il mercante impallidì evidentemente. “Onorato cliente...”

“Oh, ti avevo sentito, sai! Ho qui dentro” e si indicò la testa “il ricordo di tutti i lazzi che ci avete detto dietro, quando è nata la nostra squadra: e tu in particolare dicevi che un vero nobile avrebbe dovuto uccidersi, dopo tanta vergogna. Ma stai tranquillo, non ho mai raccontato queste cosette a Deyan-shir, e diciamo che posso dimenticarmi di parlargliene... in cambio del venti per cento di sconto. Ci siamo intesi?”

“Venti per cento?!” gridò il poveretto. 

“O la fornitura di vino per un mese... scegli tu.”

"Ran, avresti un istante per noi?" chiese Chat, interrompendo a malincuore quella scenetta che in segreto lo riempiva di soddisfazione. Ran che maltratta un mercante kelith! 

"Va bene, andiamo a bere qualcosa. Ehi, mercante! Arriverà qui un certo Aydie, un tipo con la faccia storta. Porterà la mia merce a casa, assieme al tuo conto. E bada che sia giusto, o verrò ancora a trovarti." Sorrise, voltandosi. "Bene! Dove andiamo? In una bettola kelith o sayanni?"

"Ran!" esclamarono in coro i due predoni, scandalizzati. "Andresti a bere... con i kelith?!"

"Dèi del profondo, ma siete ancora così stupidi?" Ran si mosse, fendendo la folla. "I tempi stanno cambiando, amici miei! Luna di Fuoco è patria di tutti, è ora di finirla con queste divisioni ataviche... kelith da una parte, sayanni dall'altra! Siamo tutti predoni, tutti con una condanna a morte sulla testa."

Raggiunse comunque una taverna sayanni, vi entrò maestosamente e prese possesso di un tavolo. Nemel e Chat si sedettero di fronte a lui, guardandolo perplessi.

"Non ti riconosciamo più, vecchio mio," dissero, quasi in coro.

"Ahhh..." Ran sorrise con condiscendenza, giocherellando con la propria collana. "Volete dire che non riconoscete più il fallito, l'incapace, il goffo predone che partiva senza nemmeno sapere dove andava e cosa faceva. Non ci sono più barzellette in giro su di me?"

"No," disse Chat, cupamente. "Tutta Luna di Fuoco non fa che parlare della tua squadra. A volte con invidia, a volte con rabbia. Lo sai che la chiamano Squadra Sacrilega?"

"Un nome lusinghiero, direi." Ran ordinò vino per tutti. "Migliore degli Affamati di Teji, non è vero?"

"Non è mai esistita una squadra mista, con sayanni e kelith messi insieme."

"Non è mai esistito un predone albino, se è per questo... tante cose mai esistite si vedranno prossimamente, non temete!" Un sorriso da lupo. "La nostra squadra sta preparando un altro bel colpo, qualcosa di veramente inaudito."

"Cosa? Cosa?" chiesero i due ansiosamente, ma Ran li fermò con un gesto solenne delle mani.

"Non vi dirò nulla." Poi rise, e soggiunse: "Se non che stavolta andremo giù a sistemare un conticino in sospeso del mio socio. Abbiamo guadagnato fin troppi soldi nell'ultimo ciclo, così abbiamo deciso insieme di permetterci questo sfizio."

Nemel e Chat emisero un sospiro quasi voluttuoso. "Una missione a perdere!..."

"Pensate che costerà forse la metà di tutto l'introito di Teji in questa stagione," disse il predone, tutto soddisfatto.

"È vero che hai cambiato casa, Ran?"

"Sì, cari miei. Ora sto nel settore ovest, in quella casa che Kor il Mercante aveva lasciato vuota... "

"Ti costerà una fortuna!"

"Sì, ma non ci abito da solo. Ho solo due stanze, il resto è occupato da alcuni miei uomini che mi fanno da guardie del corpo." Sorseggiò il suo vino. "Poveracci, non hanno dove dormire, almeno così si rendono utili."

"Ne hai proprio bisogno, perché ho sentito che la tua squadra sta pestando i piedi di altri grossi capi... Kyaci ha detto che gli hai rubato il territorio, ma non ci credo. Lui fa razzie in Sayanna, sulla Grande Strada.”

"E io ho spennato un paio di grassi dignitari da quelle parti." Un ghigno sardonico. "Li ho spediti alle Divinità col sedere al vento!"

"Ran!" esclamò Chat, scandalizzato. "Vuoi dire che... ora derubi anche i sayanni?!"

"Sì, certo. Derubo tutti i ricchi, ovunque siano. E Kyaci deve stare zitto, perché non esistono territori in esclusiva per noi di Luna di Fuoco. I Marjaban mandano la gente dove vuole, basta pagare."

Ci fu un certo silenzio tra i tre, poi Nemel chiese: "Il tuo kelith albino, anche lui abita nella tua casa?"

"No. Ci siamo separati presto, lui ha altre abitudini rispetto alle mie. Sta in un'altra casa, quella che sembra una piccola fortezza, a poca distanza dalla mia. Ma, prima che me lo chiedi, lascia che ti dica che sotto il mio tetto abitano anche dei pellebianca!"

"E non ci sono problemi?"

"Quali problemi? Chi vuol essere assunto nella Squadra Sacrilega deve esserne degno. Deve aver già compreso che kelith e sayanni hanno pelle diversa, cultura diversa, costumi diversi... ma possono coesistere in pace, qua dove le dispute di quel mondo oltre il Grande Vuoto non ci toccano. Che cos’altro è, tutta Luna di Fuoco, se non la riprova di tutto questo?”

Un altro silenzio. Nemel e Chat si guardarono, bevvero. Poi Nemel si schiarì la gola.

"Ran, ci prenderesti con te?"

"Come dipendenti, naturalmente!" aggiunse Chat.

"Ah, beh... dovrò consultarmi con il mio socio." Ran sporse le labbra. "Abbiamo già una grossa squadra, sapete."

"Per favore, Ran!"

"In nome della nostra amicizia!"

"Siamo stati i tuoi soci..."

"Questo è meglio che non me lo ricordiate," sogghignò Ran, e attraverso la finestra diede un'occhiata al palco degli schiavi. "Rammentate ancora quando ho rischiato di finire lassù?"

"Non è stato per colpa nostra!"

"Mi avete semplicemente piantato nel momento del bisogno. Ma non temete," soggiunse, placando le proteste dei due, "io sono magnanimo, e perdono le offese. Ne parlerò con Deyan-shir stasera."

"Ma chi comanda tra voi due?" chiese Chat, con un po' di malignità. "Tu o il kelith?"

"Tutti e due. La nostra è una società alla pari." Ran chinò lo sguardo alla tazza. "Però non devo essere ingiusto: la mia fortuna è in gran parte merito di Deyan-shir.”

“Di quel testabianca, debole e infrollito dai vizi?” 

Lo sguardo di Ran si indurì. “Lo conosci, per giudicarlo così?”

Chat tacque, intimorito. 

“Quel che dici sarà vero per altri testabianca, ma non per lui. Non è un debole, te lo garantisco; e non ha vizi, perché in molte cose sa essere più sobrio di me. Ma soprattutto, è mio amico, per cui bada bene a come ne parli.”

Chat esitò, tracannò un sorso di vino e mormorò: “Non può esistere quest’amicizia, è contraria al volere degli dèi.”

Il pugno sul tavolo di Ran fu così forte che le tazze per poco non si rovesciarono.

“Il volere degli dèi, caro mio ex socio, era che io restassi su Sayanna, da bravo guerriero obbediente, per andare poi sulla costa per venti stagioni di servizio, e tornare dal mio capovillaggio per farmi assegnare una moglie, e quello mi avrebbe sicuramente rifilato quel mostro terrificante di sua figlia, una guerriera abile nell’uccidere i nemici sedendosici sopra!” Ran intinse un dito nel proprio vino e se lo spruzzò alle spalle. “Ecco, cosa me ne faccio del volere degli dèi. Potrò anche morire domani, ma benedico il momento in cui gli ho voltato le spalle. E lo benedico anche adesso, per avermi messo al fianco uno come Deyan-shir.”

“Ma cosa può fare lui per te?” intervenne Nemel. “Non è un vero predone!”

“No, ma è qualcosa di più. Quel che può rendere quel che facciamo più che un furto: un’arte.” Posò i gomiti sul tavolo e si sporse verso di loro, come per confidare un segreto. “La sua intelligenza non ha eguali: ha progettato lui il nostro primo colpo insieme, e sapete dove mi ha mandato a rubare? In un archivio.”

Nemel e Chat si guardarono, increduli.

“Certo, io non avrei mai fatto una cosa simile. Rubare delle carte? Per un ignorante come me non avevano valore... ma per Deyan sì. Se l’è studiate con cura, perché erano roba delle tasse o non so che cosa; e grazie a quelle ha organizzato i primi colpi che ci hanno reso famosi. Abbiamo così svaligiato un deposito segreto di spezie rare, ricordate? Ci ha fiutato tutta Luna di Fuoco... poi abbiamo portato gemme che valevano una carovana e che quasi hanno accecato Mastro Kurmaji da tanto che scintillavano... e le piastre d’oro del principe di Itka, così pesanti che persino io barcollavo nel portarle alla Grande Casa!” 

Nemel annuì, sia pur malvolentieri: un predone degno di questo nome doveva rendere omaggio a quelle imprese.

“E quindi siete ancora disposti a credere che Deyan non sia un degno membro di Luna di Fuoco? Non l’avete visto in azione, non avete visto il suo coraggio, il suo sangue freddo, il modo in cui si prepara. Ma soprattutto, non sapete quanto sa essere leale. E questo l’apprezzo sopra ogni altra cosa, perché sono leale anch’io...”

“Tu sì, perché sei un sayanni autentico!” Chat scosse la testa. “Ma i kelith sono diversi da noi. E quello poi è anche peggio: faccia marchiata o meno, è un nobile!”

"Appunto,” rise Ran. “È un principe, che i suoi stolti pari hanno gettato tra le immondizie. E se ne stanno già pentendo.” Finì il suo vino. “Perché non si getta via un uomo nato e cresciuto per comandare. Soprattutto se è il migliore della sua razza!"

 

 

 

 

 *

 

 

 

 

Il principe Gamosh meditò sul vassoio che il servo gli porgeva, scegliendo alla fine un delicatissima pasta decorata con l'ideogramma di Shana. La portò alla bocca e divorò in un istante il lavoro di un'ora di un pasticciere.

"Bisogna trovare una soluzione a questo problema," disse, pulendosi le dita sulla veste del servo. "La povertà avanza nelle nostre terre, minaccia persino il nostro livello di vita."

L'ambasciatore davanti a lui annuì, chiedendosi se per caso quel nostro significava che Gamosh si sentiva già sul trono di Shana.

"L'Augusto Consorzio ha risposto al tuo appello, Gamosh-shir. La tua preoccupazione è condivisa." Un lieve colpo di tosse. "Davvero seccante che la causa di tutto ciò sia... un nobile di Shana."

Gamosh strinse le labbra. "Nessun nobile di Shana si sporcherebbe di questi delitti. Ti prego di correggere la tua affermazione."

"Il capo dei predoni che ci perseguitano non è forse Deyan-shir?"

Gamosh divenne paonazzo, e in un albino l'effetto era notevole.

"Ti riferisci ad un volgare schiavo che si fa chiamare così?"

L'ambasciatore sorrise appena. 

Nonostante tutte le manovre di Unari, Shana era diventata la pecora nera dell'Augusto Consorzio. Si era discusso parecchio sull'avventatezza del principe nel far profanare pubblicamente il corpo di un albino, sia pure sacrilego: era un cattivo esempio, che riduceva il rispetto della gente comune per la classe aristocratica. L'elezione a erede di un cadetto, sia pur inevitabile, non aveva poi aumentato la gloria del principato: Gamosh non era stato educato come un principe, e spesso lo dimostrava penosamente; suppliva a questa sua mancanza con una sconfinata superbia, ma molti la ritenevano francamente eccessiva.

Ed infine, come se tutto ciò non bastasse, l'erede precedente si era fatto vivo, a capo di una banda mista di predoni. E si era dato a perseguitare sistematicamente i nobili kelith, con una speciale predilezione per quelli di Shana e Itka. Tutti consideravano questo flagello responsabilità di Unari, e se ne lamentavano apertamente.

Se avesse trattato suo figlio con più magnanimità o mettendolo nobilmente a morte, ora non avremmo un uomo della Razza Sovrana a capo di predoni!

E se c'era una cosa che irritava spaventosamente Gamosh, era sentire che tutti si riferivano a Deyan con il suffisso shir, riconoscendogli ancora la dignità di principe nonostante non fosse altro che uno schiavo.

Stava per farlo notare all'ambasciatore, ma quest'ultimo spostò lo sguardo sulla figura di Unari che entrava nella sala. "Ahhh... ecco il principe. Mi permetti di porgere i miei rispettosi omaggi al tuo augusto padre, Gamosh-shir?"

E senza attendere risposta lo lasciò, a digrignare i denti dalla frustrazione.

Unari sembrava invecchiato di colpo: le molte preoccupazioni per Shana, la caduta del suo ultimo erede e le sue conseguenze gli avevano avvelenato l’esistenza. Forse, come tutti, aveva sperato che Deyan scomparisse per sempre nei meandri di una casa di piacere; così l'avrebbe dimenticato...

Invece il destino non gli aveva permesso di dimenticare, nè il figlio nè la terribile maledizione che aveva ricevuto da lui; e Deyan era pur sempre un adepto della dea El, il che aumentava il terrore superstizioso suscitato dal suo anatema. Gamosh avrebbe volentieri raso al suolo il Tempio Segreto per far piacere al padre, ma nessun altro kelith avrebbe osato un simile sacrilegio: El era una dea antica, molto più antica anche degli dèi solari, ed era rispettata e temuta anche se il suo culto misterioso era ristretto a pochissimi iniziati.

Gamosh guardò verso il padre, fingendo l’affetto che non provava: Unari per lui era quasi un estraneo. Si era limitato a generarlo con una concubina, lasciandolo poi a tormentarsi d’invidia per tutta la sua vita mentre gli eredi si susseguivano nella lista di successione. Gamosh aveva naturalmente complottato in segreto per eliminarli, ma verso Deyan aveva sempre provato una sorta di timore inconfessabile: forse perché mentre gli altri eredi si erano divertiti a tormentarlo e umiliarlo, quel giovane così diverso da tutti l’aveva completamente ignorato. Era stato quasi un insulto, e Gamosh aveva sofferto acutamente a vedergli attribuita la collana di opali. Ma poi aveva esultato per la sua caduta, che l’avrebbe reso finalmente un principe; ed era corso a godersi ogni colpo di frusta inflitto a quel fratello che gli aveva rifiutato persino la considerazione di un nemico, rimpiangendo di non poter essere al posto dei carnefici.

Pensavo di averti eliminato per sempre dalla mia vita, Deyan... ma anche in questo ti sei rifiutato di accontentarmi. E sei tornato dalla morte stessa, a infestare i miei pensieri.

Gamosh si spostò sulla loggia, guardando fuori dal palazzo. Nel giardino decine di palanchini si muovevano in mezzo a un brusio di conversazioni a bassa voce. Molti nobili e ambasciatori si erano riuniti in quel giorno a Shana, portandosi dietro uno stuolo di servi: presto si sarebbe tenuta un'importante riunione dell'Augusto Consorzio. Il crimine di Deyan aveva comunque già cambiato alcune usanze: ora molti erano diventati ancor più gelosi della loro moglie principale, e se la portavano dietro ovunque andassero, guardandola a vista. Così molte Prime tra le Prime, tutte ben coperte e mascherate, si erano riunite a chiacchierare in mezzo ad un nugolo di eunuchi armati di parasole... uno spettacolo impossibile solo qualche ciclo addietro.

Se solo Deyan non fosse mai nato! pensò Gamosh, con rabbia.

 

 

 

 

"La nobile mia signora, Megaja, onorata sposa del nobile Ledsha margravio del principe Kandar-shir, desidera ritirarsi nel gineceo del nostro onorato anfitrione."

L'eunuco aveva parlato con tono squillante ed ufficiale. 

Le guardie all'ingresso della shanda di Gamosh si erano guardate: quella richiesta era lecita secondo il protocollo, perché in nessun altro luogo una donna sarebbe stata al sicuro da occhi indiscreti come là dentro. D'altra parte, permettere l'ingresso a degli estranei...

"Signora, perdonaci, è proprio necessario?"

La donna chinò la sua testa bianca verso l'eunuco, sussurrò qualcosa.

"La nobile Megaja dice che..."

"Perché non si rivolge a noi?" chiese una delle guardie.

L'eunuco fece una faccia scandalizzata.

"Al nostro paese, soldato, una Prima tra le Prime parla ad un solo uomo: suo marito. La nobile Megaja dice che la vostra impudenza è scandalosa. Dice che riferirà al nobile Ledsha di aver dovuto spiegare per filo e per segno a due persone di basso rango i motivi per cui richiede un rifugio al proprio pudore. Dice infine che si aspettava ben altro dall'ospitalità del nobile Gamosh... shir," aggiunse, tardivamente ed insolentemente.

Di nuovo la donna parlò all'orecchio dell'eunuco, che spalancò gli occhi con un'espressione costernata.

"La nobile Megaja dice che, se non le lascerete il passo, vi mostrerà il proprio viso, così potrete essere sicuri della sua identità." L'eunuco tossicchiò. "Vi avverto però che guardare il volto di una Prima tra le Prime è un delitto capitale... Ledsha chiederebbe senz’altro la vostra testa al principe."

I soldati videro la dama staccare la propria maschera dalla fascia frontale, e abbassarla: videro un baluginare di occhi di rubino sotto candide sopracciglia. Allora si arresero e gridarono, precipitosamente: "Fermati, nobile signora! Non condannarci a morte!"

Aprirono frettolosamente i cancelli e la fecero entrare. Ma l'eunuco fu bloccato ed ignominiosamente controllato nelle sue parti intime prima di avere libero accesso.

"Perdonaci, ma sono gli ordini," dissero le guardie, imbarazzate. 

L'eunuco seguì la sua padrona, imprecando. Le guardie richiusero la porta, ed una di esse mormorò: "Che carattere quella dama! Si vede che viene dalle terre del Sud."

"Così deve essere una Prima tra le Prime."

Un lungo silenzio.

"L'eunuco che abbiamo tastato non si sarà offeso al punto di provocarci dei guai?"

"Non lo conoscevamo. Ci sono tanti di quegli stranieri nel palazzo, non potevamo rischiare che un maschio si introducesse nella shanda."

Un altro lungo silenzio.

"Però non abbiamo tastato la donna."

L'altro lo guardò. "Bravo! Avresti dovuto spogliarla. Così il marito ti avrebbe fatto arrostire a fuoco lento!"

"Hai ragione," mugugnò il soldato. "Non potevamo controllarla."

"Del resto abbiamo visto abbastanza di lei," replicò il compagno. "Era un'albina. Se fosse stata una come noi, forse si sarebbe potuto sospettare qualcosa di losco."

"Già, quale nobile oserebbe penetrare in una shanda?"

Si guardarono, lentamente. Ed all'improvviso il sangue se ne andò dai loro volti.

 

 

 

 

Gamosh, avvertito dalle guardie, abbandonò in maniera imperdonabile il suo seggio durante la riunione dell'Augusto Consorzio. Si diresse ansiosamente verso la sua shanda, suscitando velenosi commenti dagli ambasciatori:

"Non può attendere la fine dei suoi doveri e pensare poi ai piaceri?"

Unari dovette fare sforzi eroici per mantenere la calma. Quella situazione lo esponeva una volta di più all'imbarazzo davanti a tutti i rappresentanti di Kelitha.

"Vi prego, si tratta solo di un istante. È una situazione di emergenza."

"Un'emergenza nel tuo palazzo, nobile principe?" chiese l'ambasciatore di Kayumi, allarmato.

"Niente di serio." Unari si schiarì la voce, maledicendo in cuor suo l'impulsività di Gamosh. "Una nobildonna è entrata nella shanda di mio figlio."

Tutti si guardarono, increduli.

"Questa sarebbe un'emergenza? Una Prima tra le Prime che chiede asilo nel quartiere delle donne? Forse che Gamosh-shir pretende che le nostre mogli restino immobili nel giardino per tutta la durata della nostra riunione?"

"No di certo, signori. Ma il fatto è che... non è stato possibile appurare l'identità della nobildonna in questione."

Tutti si alzarono di scatto, furibondi.

"E Gamosh-shir sta andando a verificare di persona?!" urlò un dignitario famoso per la sua gelosia. Gli altri si unirono a lui nelle proteste. 

"Questo è inqualificabile! Protesto formalmente per questa mancanza di cortesia!"

"Se risulterà che quella nobildonna è la mia Prima tra le Prime, chiederò al mio Principe di disconoscere Shana dall'elenco dei principati di Kelitha!"

Unari era pallido come un morto in quella confusione.

"Nobili signori!... Nobili signori! Certamente mio figlio non farà nulla di irrispettoso, ve lo garantisco..."

"E come?" disse l'ambasciatore di Itka, velenosamente. "Il tuo terzogenito l'ha fatto, ed era nientemeno che il tuo erede: figuriamoci uno dei tuoi cadetti..."

Unari scattò in piedi, rabbiosamente. "Che nessuno osi insultare mio figlio!... In quanto a te, ambasciatore, non dimenticare ciò che è accaduto a quel terzogenito di cui è vietato pronunciare persino il nome! Shana ha pagato il suo debito d'onore e tu non hai diritto di criticarci!"

"Oh sì, nobile principe, hai ragione! L'ha pagato, ma sulla nostra pelle, o non saremmo tutti qui riuniti. E per di più ora il tuo attuale erede rischia di offendere i tuoi alleati..."

"Gamosh-shir non offenderà nessuno, ve lo prometto."

Unari era abbattuto, vedendo a che livello era caduto il suo prestigio. 

Farò impalare chi ha provocato quest'assurda situazione!, pensò, tornando a sedersi. Non ho già abbastanza vergogna da sopportare?

 

 

 

 

 

Gamosh arrivò ai cancelli della shanda. Chiamò i suoi eunuchi, secondo le regole che gli imponevano di non entrare nello stesso luogo dove la donna di un altro riposava.

Ma non ci fu risposta.

Colto da un presentimento orribile, si decise ad entrare. Le sue guardie rimasero ovviamente dietro ai cancelli, invalicabili per loro.

La prima cosa che vide fu il corpo di uno dei suoi eunuchi, riverso, con un dardo avvelenato in corpo. Un brivido di paura lo colse, si voltò per un istante cercando con lo sguardo la presenza confortante dei propri soldati. Ma era solo, inevitabilmente solo.

Sguainò il suo pugnale ingioiellato, raccolse il suo coraggio e scavalcò il cadavere, avanzando nel corridoio semibuio. Altri corpi gli sbarrarono la strada. Alcuni respiravano ancora, evidentemente drogati. La morte era stata impartita secondo un disegno ben preciso.

"Chi è stato a far questo?" gridò, con voce tremante.

Dei singhiozzi attirarono la sua attenzione. Avanzò verso quel suono e si trovò in una delle sale del piacere. Alcune delle sue schiave erano in un angolo, tutte addossate l'una all'altra come animali spaventati.

"Cos'è successo?" chiese loro. E poichè non c'era risposta, urlò ancora: "Vi ho chiesto cos'è successo!... Smettetela di piangere e rispondete, o vi uccido tutte!"

Una delle ragazze, tremando, indicò la stanza successiva. Gamosh vi entrò e vide che la grata alla finestra era stata infranta. Uno dei pezzi di gesso era stato utilizzato per scrivere un messaggio sulla parete. Si avvicinò al muro, come un ubriaco, mentre la brezza desertica penetrava dalla breccia, sollevando la polvere intorno a lui. Per un attimo quegli ideogrammi gli parvero senza senso. Poi, uscendo dal proprio intontimento, si decise a decifrarli.

Mio padre ti ha donato ciò che non gli apparteneva più. Ho ripreso le mie schiave, tranne la figlia di Estsen, che ho sostituito con la tua favorita. Ho ucciso gli eunuchi infedeli che ti hanno servito dopo aver servito me. Grazie alla tua stupidità ci sarà molta confusione nella sala del trono, e io mi prenderò quello che avresti voluto per te. Non ti permetterò mai di bere nella stessa tazza in cui ho bevuto io. Ricorda con mio padre che io non perdono, non dimentico, e mantengo sempre le mie promesse.

"Deyan," ansimò, mentre il sangue gli batteva sordo nelle orecchie. 

Andò alla finestra, guardò in basso. C'erano le tracce di un carro coperto: un carro che ora chissà dove poteva essere... un carro con le sue personalissime schiave, con la sua favorita! 

E sarebbe stato Deyan a bere nella sua tazza preferita...

"Noooo!..." urlò, folle d’ira, picchiando i pugni sul davanzale fino a farli sanguinare. "Non è possibile... non può osare tanto! Guardie! Guardie!..."

Nessuno rispose, naturalmente. Le guardie si guardavano bene dall'entrare nella shanda. 

Continuò ad urlare, chiamando disperatamente aiuto; ma solo le schiave potevano accorrere da lui, e non servivano a niente se non a sfogare la rabbia di un istante...

Si rese finalmente conto di perdere tempo prezioso. Doveva uscire di lì, ma con che coraggio avrebbe potuto guardare in faccia i membri dell'Augusto Consorzio dopo quell'oltraggio consumato nella sua stessa casa?

"Maledetto sacrilego!" ruggì. "Me la pagherai, te lo giuro! Pagherai per tutto, per le mie schiave, per il mio..."

Si interruppe, all'improvviso.

"No," mormorò, agghiacciato.

 

 

 

E la stessa sensazione la provò Unari quando cercò invano il preziosissimo, unico Scettro di Shana, il simbolo del suo potere.

Gli riportarono solo un disco d'oro, un nobile metallo inciso assurdamente con un solo, famigerato ideogramma: quello della schiavitù perpetua.

 

 

 

 

 *

 

 

 

Su Luna di Fuoco si festeggiò per tre giorni il successo dell'incredibile impresa della Squadra Sacrilega. Racconti più o meno veritieri, canti di gioia, sbronze sterminate e risse con altri capi squadra invidiosi costellarono quei tre giorni memorabili, mentre i trovatori non facevano che comporre canzoni sull'argomento. I kelith inneggiavano al predone bianco e pensavano al favoloso scettro che nessuno al di fuori di lui avrebbe mai osato rubare. I sayanni invece trovavano gloria nel loro campione Ran, che aveva partecipato all'impresa travestito da schiavo in catene; il fatto che anche lui fosse riuscito a menare per il naso i maledetti signori dei kelith era fonte di grande soddisfazione.

L'accurata preparazione di quel colpo inaudito aveva reso l'esecuzione facile come bere un bicchier d'acqua. Sembrava incredibile che un gruppo di predoni fosse riuscito ad arrivare su Kelitha, costituire una carovana fasulla, preparare documenti accuratamente falsificati, entrare nell'imprendibile palazzo di Shana e violarlo fin nei suoi recessi più intimi, e quindi fuggire pressochè indisturbati. Il prestigio della Squadra Sacrilega raggiunse le stelle.

"Complimenti, miei valorosi amici," disse Mastro Kurmaji, quando incontrò i due capi alla Grande Casa. "Avete tutti i motivi per essere soddisfatti, non è vero?"

Ran sorrideva ampiamente.

"La soddisfazione è per tutti, Mastro Kurmaji, te compreso. Il vostro conto è stato spaventoso come sempre! Però abbiamo fatto ubriacare tutta Luna di Fuoco: ne è valsa la pena, eh?"

Kurmaji si volse verso il compostissimo Deyan, che si limitò a un pallido sorriso. Allora tornò a rivolgersi al sayanni, chiedendogli il racconto preciso di quel che era successo, benché fosse chiaro che sapesse ogni cosa: Ran non aspettava altro per lanciarsi nella propria epica versione dei fatti, e lasciò andare la sua ormai celebre lingua in una saga interminabile che probabilmente era già stata raccontata più volte in svariate bettole. Diverse tazzine d'infuso scomparvero, ed i muscoli si anchilosarono sui pur comodi cuscini quando il racconto finì.

Seguì un lungo silenzio, riposante dopo la logorrea di Ran. Il Marjaban fissò il vuoto, meditando profondamente. Poi si alzò ed invitò i due a fare lo stesso.

“Venite con me. Voglio mostrarvi una cosa.”

Ran e Deyan si guardarono brevemente, e seguirono il mago.

Percorsero una lunga galleria, che scendeva nei recessi della Grande Casa secondo uno schema complicato: sfere di cristallo si accendevano illuminando il percorso, e si spegnevano subito alle spalle dei tre. Lungo le pareti erano accatastate sculture, pezzi di bassorilievi e vasi dall’aria molto antica: ogni oggetto recava un cartiglio. 

“Questi sono i bottini dei ladri di tombe,” spiegò Kurmaji, indicando distrattamente i manufatti. “Non sono oggetti ordinari e hanno un mercato molto particolare.”

Deyan notò uno strano sarcofago eretto, poco più grande di un corpo umano, dalle forme stondate e di una lucida sostanza nera: la superficie era ricoperta letteralmente di iscrizioni.

“Questo cos’è?” chiese, fermandosi a guardarlo.

Kurmaji si volse brevemente a guardarlo. “Ah, quello. È stato ritrovato in un recesso della Montagna Sacra, su Sayanna.”

“In una tomba?” Ran fissò perplesso il sarcofago. “Ma noi sayanni bruciamo i nostri morti, non li conserviamo.”

“Forse non è nemmeno una sepoltura. È fatto con una sostanza che ha una certa magia, ma noi ne ignoriamo ancora la natura, e sembra impossibile da aprire... ammesso che contenga veramente qualcosa. Il proprietario è stato ben contento di sbarazzarsi di questo strano oggetto lasciandocelo in deposito: teme che tutte quelle iscrizioni in antico sayanni siano maledizioni.”

Ran si trattenne visibilmente dallo sputare, però fece lo stesso il gesto di scongiuro. “Non mi piacciono questi resti di tombe, portano sventura. Andiamocene da qui!”

E si mise a seguire Kurmaji, che già si allontanava. Deyan esitò, ma le luci cominciarono a spegnersi dietro di lui. E con l’ultima di quelle luci, si mosse, ma prima la sua mano sensibile sfiorò quell’oggetto misterioso. 

Poco più avanti si imbatterono in una grande porta; Kurmaji si fermò, disse qualcosa in una lingua sconosciuta, e una voce strana rispose. La porta scivolò silenziosa nelle massiccia parete, e molte luci magiche si accesero tutte insieme.

Ran emise un ansito di emozione. 

“Ecco, questo sì che è un luogo dove mi piace stare!”

Era una vasta sala dalle pareti nere, rilucente però di oggetti preziosi e scintillanti, corone, serti, statue preziose di divinità note e sconosciute, antichi codici su lastre d’argento, disposti con un ordine perfetto. 

“Questa è la nostra Sala del Ricordo,” disse Kurmaji. “Qui custodiamo gli oggetti storici più notevoli di Luna di Fuoco, i bottini straordinari dei più grandi dei nostri predoni...” un’occhiata a Deyan, “tra i quali chissà che un giorno possa trovar posto anche lo scettro di Shana. Esso meriterebbe di stare in questa collezione, per la maggior gloria di questa Comunità.”

Il kelith restò impassibile. “Lo scettro è mio, mastro Kurmaji.”

“Certo, e nessuno lo mette in dubbio, ma ricorda: il tuo tempo è finito, non quello della Comunità... ed è giusto che tu sappia che non permettiamo a certi oggetti di disperdersi dopo la morte dei loro proprietari. Come questi, che sono uno dei nostri tesori più preziosi,” e si accostò a una campana di cristallo, che proteggeva due anelli d’oro foggiati nella forma di un serpente che si mordeva la coda. "Sapete cosa sono?” 

“Sembrano... orecchini,” disse Ran, studiandoli. 

“Sì: e appartenevano a Fahxen, un valoroso sayanni morto quasi ottocento cicli fa... il nostro ultimo Khanshir."

“Che cosa?!” esclamò Ran, con occhi spalancati. “Dèi del profondo, vuol dire che... Fahxen è esistito davvero?!"

“Ma certo,” sorrise Kurmaji, mostrando la sua bianca dentatura. 

"Credevo... che fosse una leggenda!” Ran fissava quei gioielli, ipnotizzato. “Il grande Fahxen, l’Invincibile... il Khanshir!” 

“Chi era costui?” chiese Deyan.

Ran si voltò verso di lui, quasi indignato da quella domanda, ma Kurmaji alzò una mano. 

“Deyan-shir ignora ancora molte cose della nostra storia."

Il mago si rivolse al kelith. “Da sempre, o nobile tra i ladri, i predoni di Luna di Fuoco sono organizzati in squadre indipendenti: è un modo per mantenere la giusta flessibilità per ogni circostanza, creare il massimo di profitto, e anche una decente concorrenza. Inoltre la disciplina, anche se necessaria, non deve mai diventare oppressiva... specie per uomini che sono transfughi dai loro mondi proprio perché indisciplinati. Eppure, molto raramente, è accaduto che le squadre si fondessero insieme superando l’interesse individuale, e generassero qualcosa che assomigliava molto ad un esercito. Allora i capi rispondevano ad uno di loro che diventava il nostro unico interlocutore... Khanshir lo chiamavano, il capo dei capi."

“È una parola dal suono kelith,” osservò Deyan. 

"Ma il titolo si attribuiva a chiunque, a prescindere dalla sua razza.” La voce di Kurmaji si fece remota. “L'avvento del Khanshir è stato sempre collegato ai momenti più cruciali della nostra Comunità: momenti di grande pericolo, ma anche... di grande ricchezza. Forse non c'è predone di Luna di Fuoco che non sogni di diventare il Khanshir, ma un potere del genere non si può conquistare con la forza, è generato solo dal rispetto e dalla fiducia di tutti in una persona." Sospirò. "L'ultimo è stato Fahxen, un capo scaltro, avido e violento, ma molto apprezzato. Rese molto ricca la Comunità, e fu ucciso con onore dai re sayanni. La sua testa fu esposta nella piazza dei Sacrifici della Città Santa, ed uno dei nostri la rubò, portandola qui." Di nuovo guardò gli orecchini. "Come vedete, anche noi Marjaban onoriamo la sua memoria."

Ci fu ancora un lungo silenzio, e Deyan chiese: "Evochi questo ricordo perché pensi che Ran e io potremmo diventare Khanshir di Luna di Fuoco?"

Ran deglutì con tanta forza da farsi venire un accesso di tosse.

Kurmaji sorrise appena. “Semplicemente sto notando che il tuo arrivo qui ha cambiato molte più cose di quanto non fosse lecito aspettarsi. Il destino ti ha reso un predone della nostra Comunità, ma tu non sei un uomo comune."

"Sono l'unico albino di Luna di Fuoco, è vero. E con questo?"

"La mia considerazione va oltre il colore della pelle, Deyan-shir. Rammenta che proprio noi Marjaban abbiamo applicato per primi la filosofia che anima la vostra squadra: mutuo rispetto e collaborazione, anche tra razze diverse. No, tu sei fuori dal comune perché sei un nobile kelith dall’altissima educazione, e nondimeno non permetti ai tuoi pregiudizi di aver la meglio su di te. Non ti sei lasciato accecare da essi, hai voluto guardare in faccia il mondo."

"E mi è costato caro," disse Deyan. 

"Avrebbe potuto costarti anche più caro, se questa tua sincerità non ti avesse conquistato l'amicizia di Ran. Per una volta egli è stato più saggio di tutti. Non ti ha venduto, mentre tutti... io compreso, lo ammetto... gli consigliavano di farlo. Senza la sua generosità, ma anche senza la sua energia straordinaria che l’ha reso un personaggio di spicco della Comunità sin dal suo arrivo, la Squadra Sacrilega non esisterebbe."

"So quel che devo a Ran." Deyan si voltò verso di lui, con un bellissimo sorriso remoto. "E non gli sono amico solo per gratitudine, un sentimento che mi hanno educato a non considerare, per quanto possa provarlo perché senza di lui il mio percorso terreno sarebbe già concluso, e più volte. Mi ha salvato da un ulteriore disonore a rischio del suo, quello di un guerriero sayanni per cui l’onore è tutto; e questo in nome di un vincolo che ripugnava la sua razza, ma non il suo spirito. Anche nella sventura non è mai venuto meno alla propria integrità, e il suo coraggio è fuori discussione. È un animo più nobile di coloro che di nobile hanno solo la nascita, la prova vivente che il valore di un uomo si trova nel suo cuore e non in ciò che gli altri vedono di lui. La sua amicizia mi onora."

Il sayanni distolse lo sguardo, con gli occhi lucidi. “Smettila, Deyan-shir...”

E si morse le labbra, finendo poi per girarsi di spalle. 

Kurmaji scoppiò a ridere, di fronte a quello spettacolo. 

“Ah, Ran, non vergognarti! Un guerriero sayanni dev’essere orgoglioso anche delle sue debolezze, se vengono da un cuore troppo grande. Ancor più quando sanciscono il suo trionfo, avvenuto contro ogni pronostico ragionevole di tutta la Comunità. L’unica e negletta squadra mista di tutta Luna di Fuoco, che tutti davano per fallita nell’arco di una stagione, ha saputo invece resistere alle pressioni ostili e, nell’arco di pochi cicli dei soli, ha proceduto infallibilmente verso la prosperità: in questa stagione vi avviate a essere la settima squadra in assoluto. Molti sono i motivi del vostro successo: avete pochi dipendenti rispetto alle grandi squadre, ma li allenate in continuazione e soprattutto li costringete a condividere la vostra filosofia. Kelith e sayanni sono complementari: i primi sono agili, ingegnosi; i secondi, forti e coraggiosi. Ci vuol poco per pronosticare che la prossima stagione diventerete una delle squadre più importanti."

"E questo attirerà molti predoni verso di noi," mormorò Ran.

"Attirerà anche molti rancori. Non basta essere i numeri uno per essere Khanshir, o ne avremmo uno a stagione. Però... voi due costituite una novità. Potreste unire finalmente le due razze, ed inventare una forza nuova." Kurmaji tornò a fissare gli orecchini. "Nulla mi renderebbe più felice di potervi donare un giorno questi cerchi d'oro, e vedere Luna di Fuoco di nuovo unita. Non ci sarebbe nulla allora... che non potremmo osare." 

  

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Capitolo 5
*** Dove molte cose cominciano a cambiare ***


Khanshir.

Ran si rotolava sul suo spartano giaciglio, già sveglio molto prima che il cielo trascolorasse nell’alba del sole azzurro. Quella parola gli roteava nella mente, ed era incapace di fermarla. 

Io, Khanshir di Luna di Fuoco?

No, non gli sembrava possibile. 

Ora era un predone benestante (aveva dovuto assumere un contabile, un kelith naturalmente, che non faceva che portargli carte piene di cifre), ma ricordava fin troppo bene giorni passati alle prese con problemi di semplice sopravvivenza. E anche prima: era ancora dentro di lui lo stesso ragazzo montanaro di Sayanna, tanto forte nel combattimento quanto ribelle e indisciplinato nel gruppo, che faceva apposta a cantare le strofe sbagliate nei cori che i giovani guerrieri intonavano all’unisono; che rovinava la simmetria delle formazioni militari, eterna gobba ad ogni fila e ogni quadrato... quante bastonate si era preso da tutti coloro che avevano tentato di educarlo! 

Ma né le prediche né le botte l’avevano cambiato: Ran aveva preso i valori della mistica sayanni che si adattavano al suo spirito, e se n’era infischiato di tutti gli altri. Non era stato difficile pronosticargli un’esistenza piena di guai in una teocrazia come Sayanna, dove ogni cosa era prestabilita sin dai tempi più antichi e non erano ammesse trasgressioni: la sua condanna a morte era arrivata come un evento inevitabile. 

E allora era fuggito, rubando per vivere e vivendo giorno per giorno, finché non aveva incontrato altri predoni unendosi a loro, e scoprendo così il precario rifugio di quella luna lontano dal mondo. 

E io dovrei diventarne il condottiero?

Gli veniva da ridere, dopotutto. Eppure... cos’era stato Fahxen prima di diventare il Khanshir? Un grande generale, un saggio  venerando, un mistico Guerriero della Cometa? 

No, non era stato altro che un predone. 

Come me.

E Ran osò finalmente immaginarsi nel ruolo. Alto, forte e splendente in una cotta dorata, un mantello di rare pellicce e stivali marziali ornati d’argento, e una lancia smisurata nel saldo pugno. Un gran condottiero, sì. Per condurre... dove?

Quello è il problema: io non lo saprei. 

Era un formidabile realizzatore di piani, ma quelli venivano dalla mente disciplinata di Deyan, non dalla sua. Il che spesso faceva credere che fosse il kelith il vero capo della Squadra: anche Nemel e Chat l’avevano insinuato. 

Ma Deyan-shir non è un vero predone, e probabilmente non lo sarà mai. È soltanto prestato al mestiere, non è nato per questo...

L’ultima impresa aveva cambiato molte cose, e non tutte piacevoli per un sayanni come Ran.

Deyan infatti non si era portato su Luna di Fuoco soltanto lo scettro del padre, ma anche una collezione di fanciulle albine per i propri esclusivi (e inimmaginabili) piaceri, e due domestici che avevano lasciato il servizio di Gamosh all’istante e senza un attimo di ripensamento: uno era un eunuco, Ibal, stramba creatura senza sesso; l’altro era un uomo anziano, di nome Saal, che era stato il suo maggiordomo personale quando era ancora erede al trono. 

Tutti e due provavano una devozione quasi fanatica per Deyan, lo scopo della loro vita. Niente sembrava importar loro se non il servirlo impeccabilmente, e il luogo dove farlo era del tutto irrilevante: sul proprio mondo o sulla quella incredibile luna straniera, entrambi erano determinati a mettere il giusto ordine nella casa del loro padrone. Si erano dunque messi subito al lavoro per rimediare a tutte le scandalose mancanze con cui Deyan aveva dovuto convivere senza di loro: avevano riorganizzato la sua abitazione da cima a fondo, assunto altri servi, un cuoco che eliminasse dalla sua dieta ogni elemento impuro, e avevano gettato via tutto quel che ritenevano indegno di lui. 

Non potevano eliminare però Ran, benché si leggesse nei loro occhi quanto avrebbero voluto sbarazzarsi di lui: disapprovavano apertamente che il loro signore si immischiasse con un barbaro della peggior specie, e ogni volta che il sayanni andava a incontrare l’amico si doveva sorbire le piccate istruzioni di Saal sul modo giusto con cui ci si doveva rivolgere al “principe”. 

Non devi mai toccarlo. Non devi sederti al suo livello. Non devi guardarlo negli occhi, se non ti dà il permesso. E se lo dà, fissa quelli e non far nulla che possa fargli pensare che guardi invece... quell’imperfezione.

Ran non perdeva tempo a spiegare a quel pomposo spaventapasseri che i sayanni, abituati ai tatuaggi, non si impressionavano di certo per il marchio che Deyan aveva in faccia, e che era guarito perfettamente lasciando un segno netto e pulito che, se non avesse avuto un significato tanto sinistro, non sarebbe stato un cattivo adornamento. Ma Saal lo considerava sfigurante, ed era quasi comico vederlo a coprirsi ritualmente gli occhi ogni volta che si ritrovava a guardare il suo signore dal lato sbagliato...

La stupida etichetta kelith!

Ran scopriva di rimpiangere un po’ i primi tempi della loro squadra, quando tutte quelle cerimonie e quegli scrupoli erano lontanissimi, e Deyan altro non era che un liberto coi capelli corti, fresco membro della Comunità. Si accontentava di poco, a quel tempo; sembrava aver sbarrato le porte al rimpianto e accettava con calma tutte le difficoltà di quella vita. E Ran si era spesso commosso a vedere come l’ex erede di un principato si adattasse alla nuova esistenza, con una dignità che impressionava tutta Luna di Fuoco. 

Avevo pensato che alla fine si fosse davvero rassegnato al suo destino...

Ma quanto fosse vero, lo si vedeva adesso. Nulla era veramente cambiato in lui, era lo stesso compagno di sempre, eppure... ora aveva un maggiordomo, una shanda, e una servitù ridotta ma di altissimo livello. E quando l’aveva accompagnato da Kurmaji non aveva più addosso gli ordinari abiti da predone kelith, ma un austero costume da deserto del suo paese, semplicissimo e tuttavia spaventosamente regale; e Ran aveva notato quasi all’improvviso che i suoi folti capelli erano ricresciuti, e lui non li tagliava più...

Un principe in esilio.

Ora si rendeva conto di quanto fosse radicato in lui il suo suffisso, -shir. I kelith di Luna di Fuoco, ovviamente, l’avevano compreso molto prima. 

Sin dalla sua liberazione, Deyan era stato isolato dalla sua stessa comunità in un modo che Ran, abituato alla vita gregaria dei sayanni, aveva trovato inconcepibile e addirittura crudele. Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno lo aiutava o aveva una cortesia qualsiasi per lui, nessuno lo guardava nemmeno in faccia. Ma non erano solo il disprezzo o il risentimento a motivare quel vuoto costante attorno a lui: gli oltraggi che aveva subìto avevano finito per offendere il senso kelith della sacralità. Deyan era pur sempre un membro di quella che chiamavano Razza Sovrana, e si vedeva; e cicli e cicli di usanze non si dimenticavano tanto in fretta.

Ecco perché l’ambasciatore di Itka voleva cancellare i segni esteriori della sua nobiltà...

La gente taceva, quando lo vedeva passare per la strada, e anche i predoni più induriti esitavano di fronte allo sguardo fermo di quegli occhi rossi, e si tenevano alla larga da lui. Solo alcuni smargiassi avevano provato a molestarlo, e i kelith che erano stati presenti avevano impedito a Ran di intervenire in sua difesa: avevano invece fatto cerchio intorno alla scena, in uno strano silenzio. 

E Deyan aveva capito cosa volevano: che facesse qualcosa per meritarsi di nuovo quel suffisso tra la sua gente, affinché avesse fine la sua vergogna, ma soprattutto la loro.

Non aveva ucciso i suoi sfidanti, ligio al codice della Comunità che vietava gli omicidi tra predoni se non debitamente regolati; ma li aveva vinti tutti, con una facilità che aveva fatto scendere un brivido nella schiena di Ran: era la prima volta che lo vedeva combattere, e c’erano assassini di professione molto meno bravi di lui...

Per Kamoh e Lilia, è questo che intendeva quando diceva che era stato addestrato?! 

Gli sconfitti si erano presentati il giorno dopo alla sua casa, inginocchiandosi nella polvere per implorarlo di prenderli al suo servizio. Erano stati i primi dipendenti della Squadra Sacrilega, pronti a obbedire a ogni ordine senza discutere, foss’anche lavorare e vivere fianco a fianco coi nemici sayanni.  

Già, i sayanni. E il loro pregiudizio, che era anche il mio.

Per loro Deyan era ancora un’abominazione, una bianca creatura demoniaca e viziosa che gli dèi avevano creato solo per far risplendere la virtù del loro popolo. E la sua inconcepibile amicizia con un sayanni, e il suo interesse sincero per la cultura dei tradizionali nemici non sembravano incrinare l’ostilità che lo circondava. Ridiventare poi un principe non l’avrebbe certo reso più accettabile al popolo azzurro, segnato da un odio atavico verso la casta nobile di Kelitha. Come avrebbe potuto superare un simile odio, un Khanshir albino? 

Come?

Ran scalciò via da sé la coperta, stanco di lottare con i suoi pensieri. 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Deyan era sveglio, ma per motivi assai diversi. Fissava il soffitto, cercando di calmare il battito impazzito del suo cuore. 

Di nuovo quell’incubo...

Aveva sognato di essere accecato, paralizzato, bloccato completamente, più di quanto fosse possibile con qualsiasi mezzo di costrizione inventato dal sadismo dei torturatori. Non poteva muovere nemmeno una palpebra, la punta di un dito: ogni muscolo, ogni pezzetto di pelle, ogni cellula finivano per trasformarsi in puro e semplice dolore, che si alternava al torpore. Un peso schiacciante sul torace a impedirgli di respirare, la gola riempita di acqua, un grido muto e l’attesa folle di una morte che però non arrivava mai... mai... mai...

Si era destato di colpo, il corpo madido di sudore, il respiro spezzato. 

Intorno a lui le schiave che aveva scelto per la notte dormivano ancora, le une addossate alle altre, com’erano abituate sin da piccole. Come tutti gli animali, si confortavano così; ma lui dove avrebbe trovato conforto, dopo l’ennesima ripetizione dello stesso identico incubo?

Si voltò su un fianco, ma scoprì di aver paura a riaddormentarsi. Ormai quel sogno si ripeteva sempre più spesso, e cominciava a diventare una vera e propria ossessione. Si rigirò ancora, nervosamente, e poi si arrese: anche per quella notte non avrebbe più dormito.

Maledizione!

Scese dal grande letto, infilò i pantaloni e uscì da quella stanza. 

Fuori Ibal sonnecchiava al suo posto, ma si svegliò subito e si alzò, a disposizione del padrone. La notte era fredda, come sempre su Luna di Fuoco: l’eunuco coprì premurosamente le spalle di Deyan con un mantello, attese di vedere se richiedeva altre schiave, musica o un rinfresco, e quando vide che si dirigeva verso l’uscita della shanda si affrettò ad aprirgli il cancello, e a richiuderlo a chiave dietro di lui. 

La casa era sprofondata nel silenzio. Deyan vagò di stanza in stanza, inquieto come un fantasma, finché non giunse là dove aveva fatto mettere il suo ultimo acquisto. 

Era il sarcofago nero che aveva notato nella Grande Casa. 

I saccheggiatori di tombe non sapevano cosa intendesse farsene di quello strano oggetto, ma a loro non importava, dato che erano stati molto ben pagati. Forse - pensavano - un kelith traeva il suo piacere dall’idea di violare e dissacrare un sayanni morto da secoli, anzi da millenni. In fin dei conti la depravazione dei nobili era assai risaputa...

Effettivamente Deyan provava uno strano piacere a possedere quel feretro: era qualcosa di misterioso e di chiuso, e lui si era scoperto a desiderarlo con una tensione quasi sensuale che non era sfuggita ai venditori. Ma non gli importava nulla del denaro che aveva speso: non era la ricchezza che gli mancava, e per lui non era mai stata altro che un mezzo come un altro. 

Accese una lucerna, si avvicinò a quella reliquia del passato. Una volta di più contemplò il modo setoso in cui rifletteva la luce, chiedendosi di cosa fosse fatta. Saal s’era mostrato scandalizzato all’idea di far entrare in casa un oggetto barbaro, ma si sbagliava: c’era un’eleganza nella forma di quel sarcofago che barbara non era, e a dir la verità non apparteneva nemmeno alla cultura sayanni, anche se le iscrizioni su di esso lo erano oltre ogni dubbio.

Deyan tese le proprie dita sensibili, per sfiorare quella lunga peregrinazione di fini incisioni geometriche che si susseguivano per tutta la superficie, e come sempre si stupì di sentire un brivido a quel contatto. Chiuse gli occhi per un istante.

Voglio morire.

Li riaprì, attonito. Aveva pensato questo? 

No, non era vero. Se avesse voluto morire, non gliene sarebbero mancate le occasioni. E l’avrebbe fatto quando la vita gli era stata un peso, non adesso che si apriva a così tante possibilità: nuovi obiettivi, nuove vendette...

Di nuovo chiuse gli occhi, la mano posata su quella nera superficie. 

E di colpo gli parve di entrarvi, e da lì provare la stessa angoscia, lo stesso terrore, la stessa disperazione dei suoi sogni.

Trasalì, colto alla sprovvista da quell’ondata di emozioni che diventavano istantaneamente le sue. Sentì che la sua mente così invasa non aveva che un modo per interpretarle: aprire a sua volta lo scrigno dei suoi stessi ricordi che le contenevano... 

Tutti quei ricordi che lui aveva accuratamente seppellito dentro di sé per non impazzire.

No!

La sua volontà si ribellò: cercò di riprendere il controllo dei suoi pensieri, di staccarsi da quell’inconcepibile comunanza, quell’identità nel dolore; si ordinò di sbarrare le porte della sua mente, ma era come fermare una valanga... la lucerna gli scivolò di mano, e cadde a terra, spegnendosi. 

E in quell’improvvisa oscurità, Deyan ricordò.

La propria assoluta incredulità, quando suo padre l’aveva condannato. La rabbia, che l’aveva spinto a maledirlo. 

Ma poi era arrivata la paura. Non del dolore in quanto tale: l’aveva già provato con Estsen, ma gli era sembrato quasi un gioco tra nobili, una prova di forza dei suoi nervi, da cui era emerso vittorioso in un mondo sempre uguale. Stavolta però sarebbe stato diverso: non ci sarebbe stato ritorno per lui. Era stato il senso di quella finalità a fargli perdere il coraggio, aveva opposto resistenza quando gli avevano avvicinato quel ferro rovente alla faccia.

Un brivido irrefrenabile, il puzzo della carne bruciata, prima che il dolore arrivasse come un’ondata e gli ricordasse che la carne era la sua... 

Cadde in ginocchio, con un gemito che era l’eco dell’urlo di allora. 

Il resto era stato una sorta di delirio frettoloso e ineluttabile. Si era lasciato trascinare verso la piazza delle esecuzioni, ciecamente, senza riuscire a pensare al di là della pulsazione selvaggia nella sua testa, sapeva solo che ormai era uno schiavo e tutto era finito per lui: gloria, onore, futuro. I carnefici l’avevano spogliato e legato al tripode mentre era più morto che vivo...

E a un segnale di una mano ingioiellata, avevano aspettato. 

Con calma, che si riprendesse abbastanza da tornare in sé, che si rendesse conto di dov’era, che contemplasse inorridito quegli occhi intorno a lui, su di lui, gli strumenti che dovevano strappargli anche l’ultima traccia di dignità che gli rimaneva. Non si erano accontentati del dolore, volevano che provasse anche la vergogna e la disperazione. 

E li aveva provati... oltre ogni limite... finché la sua stessa anima schiantata aveva urlato invocando la fine di quel tormento. 

E quell’urlo era dentro di lui, adesso.

Voglio morire!

Si afferrò la testa, lottò per resistere a quelle emozioni spaventose, per controllarle e ricacciarle nel proprio profondo, dove poteva fingere di dimenticarle. Ma erano più forti di lui, più forti di tutta la sua disciplina interiore, e si sentì all’improvviso miserabilmente indifeso come lo era stato in quei momenti così terribili. La sua preziosa vita altro non era che un frutto marcio, con la buccia che rifiutava di spaccarsi per lasciar uscire l’orrore che conteneva: provò un tale desiderio di trafiggerla e finirla una volta per tutte che il cuore stesso cominciò a fargli male, come se volesse spezzarsi, sempre di più, sempre di più...

“Padrone!...”

Una voce lo strappò violentemente a quell’incantesimo, riportandolo alla realtà. 

Aprì gli occhi, e si accorse di essere raggomitolato sul freddo pavimento di pietra. Accanto a lui c’era il suo vecchio maggiordomo, con una veste da notte, circondato da servi che facevano luce. 

“Saal?...” mormorò appena.

“Sì, padrone, sono io.” Il vecchio era in preda all’angoscia. “Il padrone perdoni la nostra intrusione, ma lo abbiamo sentito gridare...”

Non si era nemmeno reso conto di averlo fatto; ma la gola gli doleva, e il respiro gli usciva pieno di sforzo. 

Ho perso il controllo?!

Il pensiero lo agghiacciava. Sapeva che nessuno ne avrebbe parlato fuori da quella casa, ma si vergognava che i propri servi l’avessero visto in quello stato. 

“Il padrone vuole che faccia chiamare un medico?” gli domandò Saal, a voce bassa.

Scosse la testa. “Sto bene.” 

Si sollevò faticosamente da terra, si accorse del sudore che gli bagnava il viso e gli incollava i capelli alla fronte... si guardò le mani: tremavano ancora. Alzò lentamente gli occhi al feretro, ritto su di lui sul suo piedistallo come la statua di una fredda divinità. 

Sei stato tu? 

Saal seguì il suo sguardo, e non riuscì più a trattenersi. 

“È tutta colpa di questa mostruosità sayanni!” esclamò. “È stregata, e da quando è entrata in questa casa non ha fatto che tormentare le notti del padrone!”

È proprio così. E devo scoprire il perché.

“Prego il padrone di sbarazzarsene...”

“Manda un messaggero a Pushpa.”

Saal esitò. “Padrone?”

“È un t’yr, e abita accanto al Tempio delle Divinità Duali.”

“Un sayanni?!”

“Fagli dire che ho bisogno di lui al più presto, che venga subito qui. E che non se ne pentirà.”

 

 

 

 

 

 

 

Gamosh attendeva.

Si era fatto portare un letto sulla terrazza interna del suo quartiere, da cui poteva vedere il cielo notturno con il suo affascinante polverio di stelle. Vi stava sdraiato a contemplarle, avvolto in una morbidissima cappa di velluto candido per proteggersi dal vento freddo del deserto. 

L’urlo ricominciò, prima lamentoso, poi via via acuto e penetrante. Aveva quella certa nota disperata che Gamosh conosceva per lunga esperienza. Non aveva avuto più voglia di rimanere assieme ai suoi carnefici, a vedere il solito spettacolo: dopotutto si trattava di un un piccolo uomo bruno, magro e già sfibrato da una vita difficile, che non sarebbe durato a lungo. 

Ma era un predone, e prima di morire doveva dire tutto quel che sapeva di Deyan. 

L’avrebbe detto: quel particolare scricchiolare di un osso che si spezzava, simile al rumore di un bastone schiantato, e l’ululato quasi femminile che l’accompagnava erano segnali inequivocabili. Avrebbe raccontato tutto, quel miserabile, per comprarsi anche un solo istante senza dolore. 

E allora... sarebbe venuto il giorno della vendetta. 

Uno schiocco di dita, e un servo accorse a recargli un calice di vino alle spezie. Gamosh lo sorseggiò, senza staccare gli occhi dal cielo. Luna di Fuoco spuntava dall’orizzonte, il suo bagliore aranciato già scacciava le stelle più piccole. 

Deyan lassù? 

Che sciocchezza. Doveva essere rintanato in chissà quale nascondiglio del grande deserto. Forse una gola sconosciuta, un’oasi non segnata sulle mappe. Forse addirittura fuori dal principato, dove aveva segreti alleati che speravano di destabilizzare e rovesciare l’antico ordine di Shana. Tutto il rispetto che ancora lo circondava, nonostante il suo disonore... cosa poteva significare? Chi erano i suoi amici, chi lo proteggeva dalla giusta ira del principe Gamosh?

Non importa. Lo troverò. E stavolta non mi accontenterò di vederlo sotto la frusta. 

Si leccò le labbra, un po’ per assaporare il dolce arzente delle spezie e un po’ all’idea di cosa avrebbe fatto al fratello: non gli avrebbe permesso di morire, non prima di avergli insegnato a dovere che non era nient’altro che uno schiavo, il suo schiavo. E solo dopo essersi preso tutte le soddisfazioni possibili da lui, gli avrebbe fatto amputare un arto alla volta, un giorno dopo l’altro, fino a ridurlo al solo busto, per poi abbandonarlo ad agonizzare in un canale di scolo.

Quanto lo odio, quel dannato.

Cercò di non pensare alle sue schiave, allo scettro perduto, e alle risa di scherno che aveva sentito dagli altri nobili quando avevano saputo di quell’affronto.

Eppure so di dovergli così tanto. Senza di lui non sarei ciò che sono. E ciò che presto sarò...

La maledizione di Deyan era infatti arrivata a destinazione. 

Uno strano rigonfiamento era apparso nella gota del principe: la destra, proprio quella che aveva fatto marchiare al figlio. Quel bubbone alla fine si era aperto, diventando un’ulcera purulenta ribelle a tutte le cure dei medici, che consumava la viva carne di Unari e gli impediva di mangiare e parlare senza dolore. Il principe deperiva avvilito giorno per giorno, disperando di salvarsi dall’anatema divino. 

Gamosh però non credeva nelle maledizioni, ritenendo più probabile che ci fosse dietro lo zampino di qualche altro adepto della Misteriosa: in fin dei conti El era la dea della morte, e il suo tempio forse una segreta scuola di assassini... una scuola che Deyan aveva frequentato con buon profitto, a quanto si sussurrava. Ad ogni buon conto, che fosse opera divina o di umani strumenti, la successione al trono diventava sempre più vicina.

E quando sarò sovrano assoluto di Shana, insegnerò all’Augusto Consorzio a rispettarmi... e a temermi. 

Finì il suo vino, gettò la coppa da qualche parte e il servo si precipitò a raccoglierla. Proprio in quel momento il suo capitano si presentò e si inginocchiò, piegando la testa.

“Nobile erede, il prigioniero è in agonia.”

“Ha parlato?”

“Continua a dire... che il predone bianco è su Luna di Fuoco. Dice che una magia lo ha portato lassù, una magia evocata da maghi neri.”

“Che inetti sono diventati i miei carnefici, che permettono a un debole uomo di irridere le loro torture facendo dello spirito.” Gamosh si alzò, sospirando. “Fammi strada: andiamo a vedere se devo metterli a morte e procurarmene dei nuovi.”

Il capitano obbedì, con occhi tremanti di paura.

La stanza delle torture puzzava come un macello. Sul cavalletto c’era un ammasso di carne e ossa spezzate, e solo la testa intatta comprovava che si era trattato di un essere umano. Gamosh guardò la scena, senza emozioni al di là del disappunto: non era quel che si era aspettato, i carnefici avevano effettivamente fatto del loro peggio, e la loro vittima non sembrava affatto in spirito di irridere alcunché: la faccia era contorta in un rictus mortale. 

“Dov’è Deyan?” chiese al moribondo.

Decifrare la risposta dai gemiti farfugliati e dalle implorazioni era quasi impossibile. Ma alla fine riuscì a raccogliere le sillabe di un nome, e a combinarle insieme.

“Luna di Fuoco?” disse, seccato. “Insisti con questa bugia, maledetto ladro, e ti farò versare in gola piombo fuso.”

Gli occhi dell’uomo si sbarrarono, la sua testa tremò e si reclinò, e dalla bocca aperta scese un fiotto di sangue misto a saliva. 

“Troppo tardi,” mormorò il capitano. “È morto.”

“Versategli lo stesso il piombo fuso in gola,” ordinò Gamosh, con gelida rabbia. “E trovatemi un altro predone.”

 

 

 

 

 

 

 

La casa di Ran era sempre piena di gente. Quasi l’intera Squadra Sacrilega risiedeva lì, disseminata per tutte le stanze in quella che chiunque avrebbe scambiato per confusione: ma era mirabile l’armonia che comunque vi regnava, a scapito dell’intimità che del resto tra i sayanni non era in grande considerazione. 

Non essendoci un solo angolo vuoto in tutta la casa, le riunioni del gruppo si tenevano normalmente nel cortile interno, dove c’era spazio per tutti. Ran faceva acquistare vino, sale, olio e farina, e mentre qualcuno cuoceva focacce sulle pietre arroventate tutti prendevano posto: Ran si accomodava disinvoltamente sul muretto del pozzo, e Deyan si sistemava accanto a lui, più in basso, seduto su un prezioso tappeto del suo paese.

Così i sayanni potevano pensare che il kelith albino onorasse il suo antico padrone, e i kelith che il sayanni gli facesse da guardia d’onore. 

A Ran quelle riunioni erano sempre piaciute, ma stavolta era di cattivo umore. Per colpa di  Teji, un concorrente ormai sconfitto che l'aveva affrontato pubblicamente al banco di una bettola, facendo drizzare le orecchie a tutti i presenti.

"Quanti altri uomini hai intenzione di portarmi via, Ran?" 

"Non è colpa mia se tu li paghi poco, Teji. Ne so qualcosa, della tua avarizia."

"Sono stato io ad insegnarti il mestiere."

"E allora? Mi hai sfruttato come uno schiavo per due stagioni, mentre tu ingrassavi."

"Guarda che c'era ben poco da ingrassare, con la miseria che mi portavi."

“Meglio, così non ti ho regalato niente.”

E Ran si era messo a sorseggiare il suo vino, come se la conversazione fosse finita. 

Ma Teji aveva insistito. "Una volta per tutte, smettila di spargere in giro le tue infamie sul mio conto, e lascia in pace i miei dipendenti."

"A chi ti riferisci, a Nemel e Chat? Erano miei soci prima e dopo di essere tuoi dipendenti; è naturale che vogliano stare con me... specialmente adesso che sono fortunato."

"Non meriti la tua fortuna. Se non fossi inciampato su quel cane d’un nobile, saresti senza membrana nel letto di qualche vecchia kelith."

"Mi piacerebbe sapere cosa avresti fatto tu inciampando su Deyan-shir!"

"Io? Di certo non mi sarei messo a lavorare spalla a spalla con un depravato testabianca, dimenticando di essere un sayanni."

Alcuni avevano annuito a quelle parole. Ran se n’era reso conto e aveva riso aspramente, lottando per riprendere il favore degli ascoltatori. 

“Giusto, Teji. Ed è per questo motivo che tu farai bancarotta tra qualche stagione, ed io no."

Era seguito un mormorio, ben diverso dall’applauso clamoroso che Ran si era aspettato. Tutti si erano finti indaffarati, voltando le spalle alla scena, e Teji se n'era andato, ma prima aveva sputato davanti a Ran. 

“I soldi non pagano l’onore, disertore.”

"Va’ a farti sverginare!" gli aveva risposto lui, tra i denti, dimenticando peraltro che Teji era già sposato. E si era scolato un intero boccale, l'umore rovinato per il resto della giornata.

Aveva raccontato a Deyan dell’incidente, ma l’amico non l’aveva nemmeno considerato: per lui l'opinione di Teji o di chiunque altro non aveva alcuna importanza. Quel che contava era stabilire cosa fare nel proseguio della stagione, e sembrava avere le idee molto chiare.

"Non si deve raccogliere troppo nello stesso territorio,” diceva, e tutti lo ascoltavano avidamente benché non alzasse mai la voce e non gesticolasse. “Il buon cacciatore lascia alle prede il tempo di riprodursi e moltiplicarsi. Le nostre imprese devono spostarsi su Sayanna, almeno fino alla fine della stagione."

I predoni mormorarono tra loro.

"Questo rischia di causare molti attriti con le altre squadre sayanni," obiettò Ran, dubbioso. "La maggior parte di esse non osa saccheggiare i kelith, e noi le priveremmo del loro bottino."

"L'Augusto Consorzio ha deliberato una leva straordinaria di guerrieri a sorveglianza dei territori centrali, i più ricchi.” Ran si chiese come facesse Deyan a saperlo, ma accantonò la domanda per dopo e lo lasciò continuare: “Saccheggiare i principati minori ci attirerebbe le ire delle squadre kelith, che sopravvivono grazie a queste povere entrate. Inoltre, togliere il poco di chi già possiede niente è molto più pericoloso che togliere qualcosa a chi possiede molto."

Ran scosse la testa. “Andremmo a metterci nei guai, Deyan-shir. Fino ad adesso siamo riusciti a non pestare i piedi a nessuno... o meglio, abbiamo buttato fuori parecchia concorrenza kelith. Però i grandi predoni sayanni sono un'altra cosa, e andare a toccare i loro territori..."

Deyan lo guardò brevemente da sotto il cappuccio del suo mantello. “Se la loro ostilità è un limite per le nostre imprese, tanto vale dichiarare chiusa la stagione."

Molti  si erano mostrati costernati a quelle parole.

"Siamo ad un passo dall’entrare tra le Grandi Squadre di Luna di Fuoco!..."

"Gli altri ci passeranno davanti!"

“L’opinione di Ran deriva da un’esperienza più grande della mia,” replicò Deyan, posando le mani sulle ginocchia. “La decisione è sua.”

Ran si sentì sotto accusa, e detestò Deyan che metteva sulle sue spalle quella responsabilità. Afferrò la sua tazza di terraglia per mandar giù vino annacquato, e sospirò. "Neanche a me fa piacere dover fare il prudente... anche se è il prudente ad incassare, non il temerario."

"Prudenza?” aveva esclamato Aidye, uno dei kelith della banda. “Non siamo forse famosi come i peggiori temerari di Luna di Fuoco? Abbiamo aiutato Deyan-shir a sputare in faccia a tutto l'Augusto Consorzio!"

"E infatti con quest’impresa ci siamo bruciati il territorio!”

"Momentaneamente." La voce di Deyan era tagliente come una spada. "Del resto non ricordo di aver sentito opposizioni quando se ne è discusso, anzi... rammento un certo entusiasmo.”

 “Non volevo criticare le tue azioni, Deyan-shir. Il fatto è...”

“... che è finora stato semplice, pensare che la mia patria altro non sia che un forziere comodo da cui attingere all’infinito e senza troppi rischi.”

“La tua patria?” sbottò Ran. “Te ne senti ancora il principe? Ho ancora il contratto con cui ti ho comprato su Shana, schiavo.”

E, come sempre, si accorse un istante troppo tardi di quel che aveva detto. 

Oh, accidenti... ma cosa m’è preso?

Deyan era rimasto perfettamente impassibile, le mani rilassate sulle ginocchia, ma con una sfumatura più rosea sulle guance. Tuttavia fece solo un lieve cenno col capo, un tranquillo assenso.

“Accetto il tuo rimprovero, Ran. E mi scuso per il mio errore.”

“Sono io che ti chiedo perdono,” disse Ran, sinceramente contrito. “Ho parlato senza riflettere.”

“Hai detto la pura verità. È Luna di Fuoco la nostra patria, non il mondo da cui veniamo. E per questo non dobbiamo farci scrupoli verso nessuno, qualunque sia il colore della sua pelle. Siamo arrivati ad un punto cruciale: per diventare davvero una Grande Squadra dobbiamo farci largo nella concorrenza, e non solo nella kelith ma anche in quella sayanni."

I predoni avevano annuito, pensierosamente.

"Non è facile, Deyan-shir," aveva insistito Ran. "Le Grandi Squadre sayanni ci odiano, perché siamo una squadra mista e perché tu sei un albino. Sono tutte fatte di guerrieri, e non di bassa casta ma reduci delle peggiori battaglie. Tra di loro combattono a colpi di profitto e tradimenti, ma contro di noi userebbero tutto quel che le regole di Luna di Fuoco permettono. Potrebbero addirittura farci assassinare, e sai bene che una squadra senza capi finisce in liquidazione..."

"Non credo che arriverebbero a questo," disse Chat, "sarebbe uno spreco. Capi a parte, la nostra squadra è appetibile così com'è.”

“Più probabilmente ci sfiderebbero secondo le regole della Comunità,” intervenne Nemel. “In un duello diretto, oppure con dei combattenti designati, ammesso che si trovi gente che voglia combattere fino alla morte... e, salvo accordi particolari, la squadra del perdente passerebbe sotto la gestione del vincitore, con annessi e connessi. Così è stabilito."

"Una soluzione rischiosa anche per loro," osservò Deyan. "Se perdessero ci impossesseremmo delle loro squadre, e sbaraglieremmo ogni concorrenza."

"D'accordo. Ma chi di noi potrebbe prendersi questo rischio?"

Era seguito un lungo, pesante silenzio. Tutti si erano guardati, in modo eloquente.

Guerrieri, e non di bassa casta ma reduci delle peggiori battaglie...

"Aspettiamo per un po'," suggerì Ran. "Può darsi che accada qualcosa che ci faccia prendere una decisione al proposito. Per il momento, si può riposare... un po' di pace non ci farà male." Fece un gesto verso i servi. “Mangiamo qualcosa, ne riparleremo un’altra volta.”

Tutti si rilassarono e cominciarono a chiacchierare, mentre i vassoi col cibo cominciavano a circolare e qualcuno tirava fuori un liuto. 

Deyan si alzò e raccolse da sé il suo tappeto: fuori dalla sua casa non si portava alcun servo. Però non mangiava in compagnia degli altri predoni, era un privilegio che concedeva soltanto all’amico: per cui si diresse verso il cancello della grande casa. 

Ran lo accompagnò: evidentemente voleva restare qualche istante solo con lui. Deyan lo capì, e si lasciò seguire finché non giunse in un posto che fosse lontano da orecchie indiscrete. Quindi si tolse il cappuccio, e alzò lo sguardo sul sayanni che torreggiava su di lui.

“Provi ancora il desiderio di punirmi perché sono ciò che sono?”

“Ogni tanto, lo ammetto.” Ran sospirò. “Hai parlato dell’Augusto Consorzio, prima. Ancora i tuoi contatti segreti? Non hai ancora smesso di sperare?”

“Sperare cosa, di ritornare?” Un pallido sorriso incurvò le labbra di Deyan. “Hai avuto ragione a umiliarmi. E credo che ti sia piaciuto farlo davanti a tutti: potevi anche tendermi la mano affinché la baciassi, come fanno i liberti ai loro ex padroni.”

“Non ti ho mai fatto una cosa simile,” protestò Ran, sdegnato. “E mai te la farò: per chi mi hai preso?” Tirò un grosso sospiro. “Già, per chi mi prendi, per uno stupido? Per cosa stai usando me, tutta la Squadra Sacrilega?”

“Usando? Vi ho resi tutti ricchi e famosi. Siete voi che state usando me.”

“Sono ignorante, Deyan-shir; non sono uno sciocco.”

Il kelith tacque, per un lungo istante. 

“No, non sei uno sciocco. Sei un sayanni. Con tutto quel che ciò significa.”

“Se pensi che abbia ancora degli scrupoli a saccheggiare la mia gente...”

“Perché, non è così?” Deyan scosse appena la testa. “Mi dispiace, Ran. Finora tutto è stato anche troppo facile. Ognuno di noi ha avuto le primizie di ciò che voleva, ma tutto ciò non basta per quel sogno di cui Kurmaji ci aveva parlato. Le ricchezze di Sayanna ci sono negate, e questo è il primo, vero ostacolo verso il titolo di Khanshir."

"Maledizione! Lo so benissimo!" Ran si picchiò un pugno nel palmo aperto. "Ma io non sono per i sayanni quel che sei tu per i kelith, lo capisci o no? Sono un disertore di bassa lega, con una lancia che al massimo si è insanguinata con un capoplotone da due piume, tre guerrieri novellini e un mucchio di pellebianca senza valore... come potrei accettare una sfida? Perdere significherebbe la morte per me, o l'essere dichiarato schiavo, ed io ci sono stato così vicino una volta, non voglio ripetere l'esperienza..."

"E se sfidassero me?"

Ran lo fissò, incredulo. “Ma che stai dicendo?! Tu sei un kelith! Nessun guerriero sayanni potrebbe sfidare con onore un avversario così debole. Non avrebbe più il coraggio di entrare in una bettola: i commenti che sentirebbe!"

"Io non mi ritengo così debole. E, ragionando in termini sayanni, la mia casta non è certo la più infima di Kelitha..."

"È questo che non capisci! Ragionando in termini sayanni, la tua è la casta più infima di Kelitha, perché peggio dei nobili ci sono soltanto gli spiriti malvagi: almeno un contadino ha la sua ragione divina di esistere, ma voi...” Ran scosse la testa. “Nessun guerriero degno di questo nome terrebbe una spada macchiata del vostro sangue infetto, vi schiaccerebbe come si fa con una creatura schifosa, e poi butterebbe la scarpa perché contaminata!” Sbuffò. “Tu ancora non hai idea di quanto gli albini siano odiati, perché... perché ci sono io che te lo faccio dimenticare. Ma sono odiati, e io pure sono odiato a causa tua, come Teji mi ha ben ricordato. Altroché essere un principe tra la mia gente, ho il prestigio di un cane randagio...”

“Solo tra gli sciocchi.” 

Deyan tese la mano, in un rarissimo gesto d’affetto, e la posò sul braccio nerboruto di Ran.

“Se ti vedesse il tuo Saal a fare una cosa del genere,” mormorò Ran, sentendo il calore di quella mano. 

“Lascia Saal dove si trova. Lui non può capire.” 

“Che un principe e un predone possono essere amici?”

“Un principe o uno schiavo?”

“Un predone o un disertore?”

“Un kelith e un sayanni, allora. Anzi... due uomini di pari dignità, che vivono sotto le stesse due stelle. Perché è questo che siamo, oltre alle nostre differenze.” 

Ran ridacchiò, con occhi lucidi. 

“Raccontalo a Saal, se ci riesci!” 

“Già, e non solo a lui.” Gli occhi rossi ebbero uno scintillio astuto. “Quest’insegnamento dovremmo darlo a tutta Luna di Fuoco... e soprattutto alla tua gente. Che accadrebbe se fossi io a sfidare un capo sayanni?”

Ran battè le palpebre. “Tu?”

“Non potrebbe rifiutarsi, perché sarebbe considerato un codardo. Non avrebbe altra soluzione che battersi per il suo onore, anche se con un esecrato albino. Non è così?"

Il sayanni scosse vigorosamente la testa.

"Lascia perdere, Deyan-shir. Dovresti combattere solo, in singolar tenzone e a mani nude, o al massimo con una spada: e avresti di fronte uno di noi. Su Sayanna le montagne sono magiche, e ogni cosa laggiù pesa di più che nel tuo paese, noi compresi: questo rende la nostra forza fisica incomparabilmente maggiore di quella della tua razza, senza contare che i migliori guerrieri hanno anche la tecnica, non sono solo ammassi di muscoli ciechi... So che sei un abile combattente, che sei coraggioso, ma non sei un pazzo: promettimi che non farai una sciocchezza del genere!”

Deyan fece un remoto sorriso, e fece per andarsene.

Ran guardò la sua figura che si allontanava e gridò alle sue spalle: “Almeno promettimi che la farai solo quando riuscirai a battere me!”

Il kelith si fermò, si voltò e si rimise il cappuccio.

“D’accordo, Ran. Hai la mia parola.”

E se ne andò. 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Dove i mondi si toccano... e si respingono. ***


 

 

 

 

Non guardare giù.

Benché fosse nato tra i monti, Ran doveva sempre ricordarsi di quella vecchia regola. Perché qualcosa dentro di lui lo spingeva a sfidarla, solo per il gusto di sfidare qualcosa. 

Invece teneva lo sguardo poco più in alto, giusto per trovare i minuscoli appigli dove aggrapparsi per salire, ficcandoci le proprie dita ostinate in una sistematica ascesa. Non aveva bisogno di contemplare le fauci sbadiglianti della morte sotto di sé. 

Issandosi sull’ennesima crepa, ci vide una traccia rossa.

Il colore della pelle cambia, ma quello del sangue no...

Deyan doveva essersi ferito alle mani, mentre saliva. 

Ran gettò un’occhiata in alto e vide la sua figura avvolta in panni grigi che lo facevano confondere con la pietra della torre, mentre si arrampicava con movimenti rapidi e precisi: sembrava sfidare la magia a lui ostile di quel luogo, non rimanendo sullo stesso appoggio per più di pochi istanti, con una flessibilità di corpo che avrebbe fatto invidia a una danzatrice. Aveva un vantaggio quasi umiliante, ma l’avrebbe usato per arrivare per primo a calare una corda: Ran gli augurò la miglior fortuna.

Il vento fischiò, soffiandogli la polvere negli occhi. L’aria era fredda e limpida, e tutto era crudo e netto intorno a loro: il classico paesaggio dell’altipiano centrale di Sayanna, pieno di boschi oscuri, al centro del quale troneggiava la Città Sacra. 

Ran si chiese quale demone l’avesse spinto ad accompagnare Deyan in quell’impresa assurda...

“Mi occorre un codice antico,” gli aveva detto. 

“Compralo,” gli aveva detto lui. 

“Non è possibile, è un libro sacro.”

“Allora rubalo.”

“Infatti, è l’unica soluzione.

“E dove si trova?”

Deyan gliel’aveva detto.

“Ma sei impazzito?!” aveva tuonato. “La squadra... il costo... il rischio... e per una cosa da leggere?!”

“Non intendo portarmi dietro la squadra, è una cosa che riguarda soltanto me.”

“Tu sei un kelith, che te ne fai di un codice sayanni?” Una pausa. “Non ti bastava quel dannato sarcofago per cui hai speso una fortuna...”

“Il codice serve a Pushpa per scoprire come si apre quel sarcofago.”

Ran era rimasto a bocca aperta. 

“E tu rischi la vita per questo?!”

Deyan aveva annuito, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Pushpa aveva avuto di che sbalordirsi.

Deyan l’aveva fatto entrare in casa propria (con grande scorno di Saal, che arricciava il naso al suo odore di strane erbe) affinché potesse esaminare il feretro in piena luce.

Il t’yr ci si era letteralmente scagliato contro, con un grido di gioia.

“Incredibile! Sublime! Mai visto prima una cosa del genere! Ne avevo sentito parlare dai ladri di tombe, ma... costava veramente troppo... Dov’è stato trovato? C’erano altri oggetti con esso? Vasi sacri, armi, statue, gioielli...”

“Ho solo questo, Pushpa. Aiutami a saperne di più.” Deyan aveva fatto una pausa. “Naturalmente te lo chiedo come incarico e non come favore.”

“Questi caratteri... per le Divinità, sono antichissimi! Questo ideogramma è mutato, e anche questo... Oh Kamoh Benedetto, ci sono i segni delle Quattro Stelle... e questo è il segno dell’acqua... che hai detto, Deyan-shir?”

“Che ti pagherò.”

“Oh ma dovrei essere io a pagare te per il privilegio di studiare questa meraviglia!” L’aveva osservata da tutti i lati. “Forse è una statua. O forse un sarcofago, e in tal caso del periodo remoto in cui su Sayanna si praticava l’imbalsamazione. Quest’oggetto potrebbe quindi risalire all’Epifania della Reincarnazione...” 

“In termini kelith?”

Un’esitazione per calcolarla. “L’instaurazione del secondo Impero Bianco.”

“Più di mille cicli di soli fa?” aveva mormorato Deyan.

“Come minimo! Si è conservato benissimo...” Pushpa aveva guardato il feretro, aggrottando le sopracciglia. “Anzi, direi che sembra appena scolpito. Che pietra è questa?”

“Non lo so, e non lo sanno nemmeno i Marjaban. Sanno solo che contiene una magia diversa dalla loro. E io... la sento ogni volta che lo tocco.” 

“Una magia?” 

Pushpa aveva posato le dita su quella nera superficie. 

“Non senti quella sensazione come un brivido... come se qualcosa ti afferrasse la pelle?”

Il t’yr aveva provato ad accarezzare il feretro, in vari punti, concentrandosi a occhi chiusi. Ma poi aveva scosso la testa con un sospiro. 

“Non sento assolutamente niente, Deyan-shir.” E si era voltato a squadrarlo, con stupore. “Se chiunque altro mi avesse parlato di questa sensazione, avrei pensato a una suggestione. Ma tu sei un nobile kelith, vieni da una cultura razionale, sei indifferente alle nostre antiche credenze... com’è possibile che proprio tu mi parli di magia?”

“Non ho una risposta, saggio Pushpa. E ti ho chiamato apposta per cercarla.” Deyan si era avvicinato al feretro, ci aveva posato sopra la mano, e come sempre era trasalito. “Credo... che qui dentro ci sia qualcosa che mi sta chiamando. Che vuole che io apra questo involucro. Non so di cosa si tratta, ma non avrò pace finché non vedrò cosa c’è dentro. Invano ho provato a cercare giunzioni, aperture segrete, punti in cui forzare questa strana sostanza che sembra indistruttibile. Non mi resta che sperare che tutte queste iscrizioni sayanni mi aiutino a capire il mistero... e su Luna di Fuoco, ma anche forse in tutto il tuo mondo, la mente migliore per decifrarle è la tua. Sei disposto ad aiutarmi?”

Pushpa sapeva che aveva una sola risposta a quella richiesta, perché era quella a cui anelava anche tutta la sua anima. 

“Sono al tuo servizio.”

 

 

 

 

 

 

 

Il maturo t’yr aveva cominciato un gran andirivieni dal suo Tempio alla casa di Deyan, sempre con cumuli di rotoli tra le braccia e la veste macchiata di inchiostro: la gente di Luna di Fuoco lo vedeva affrettarsi per le strade polverose, borbottando tra sé e sé, gli occhi fissi in avanti come se stesse guardando dentro i propri pensieri e non chi lo salutava. Passava tutti i giorni in ginocchio sul pavimento davanti al feretro, a trascrivere lunghe file di caratteri su fogli di carta, per poi riempire altri fogli di incomprensibili scritte piene di cancellazioni. Non era raro che si fermasse pure di notte, cosa assolutamente disdicevole; e il padrone di casa non solo lo tollerava, ma mandava Ibal ad acquistare i migliori cibi sayanni per lui, cosa che l’eunuco faceva tra grandi sospiri e molto imbarazzo. 

La cosa era andata avanti per diverso tempo, finché un giorno Pushpa si era messo a cercare Deyan per tutta la casa: poco ci era mancato che provasse addirittura a varcare i proibitissimi cancelli della shanda, perché gli avevano detto che il padrone era lì. Ne era seguita una mezza collutazione - era assolutamente proibito disturbare Deyan quando si ritirava in compagnia delle sue schiave  - e alla fine a Pushpa non era rimasto che aspettare torvamente, guardato a vista da tutta la servitù della casa che era pronta a difendere l’intimità del loro signore con ogni mezzo. 

E quando finalmente Deyan era riapparso, si era trovato davanti quel sayanni imbronciato con gli occhi segnati dalle notti insonni. 

“Non posso completare l’opera che mi hai affidato: ti restituisco il compenso.”

E aveva lasciato a terra numerosi contrassegni d’argento, facendo per andarsene. 

Non aveva neanche raggiunto il cancello che Deyan l’aveva fermato.

“Le grandi emozioni nuocciono agli uomini ragionevoli,” gli aveva detto, accompagnandolo di persona verso i cuscini e ordinando rinfreschi per il suo ospite. “Calma il tuo spirito, saggio, e spiegati.”

Pushpa si era vergognato una volta di più di quanto gli piacessero le maniere di quel kelith di rango, anche con un sayanni... si era lasciato placare, ma non aveva nascosto il proprio scoramento.

“Ho fatto del mio meglio, Deyan-shir, e ho tradotto tutto quel che mi è stato possibile. Ma ancora troppe cose mi sfuggono, e non ho i testi adatti qui su Luna di Fuoco. Posso almeno offrirti la miseria che ho scoperto: sì, quello è un sarcofago. Sì, contiene un corpo. Sepolto durante la dodicesima Reincarnazione delle Divinità. E sì, tutto durante il passaggio nei cieli dell’Arca...”

“L’Arca?” Deyan era incredulo. “Vuoi dire... la mitica nave del Grande Vuoto che dissemina le razze umane tra le stelle?” Aveva scosso la testa. “Ma è una favola per bambini...”

“Come la Leggenda, vero?”

Era seguito un istante di silenzio.

“Un mito contiene sempre una traccia di verità, il ricordo ancestrale di qualcosa che non è più e che viene dimenticato. C’è un mistero sulla nostra presenza su questo mondo; noi sayanni ci riteniamo tradizionalmente figli del sole blu, e i kelith del sole giallo: perché questi miti celesti sulla nostra origine? Sembra che le nostre razze siano spuntate praticamente dal nulla migliaia e migliaia di cicli fa... e se entrambe venissero da un progenitore comune? Questo spiegherebbe le molteplici somiglianze tra i nostri idiomi, e perché kelith e sayanni, nonostante le loro differenze fisiche, possono... ancora...”

Aveva tentato di finire la frase, ma poi aveva taciuto, imbarazzato.

Deyan, da buon kelith, aveva capito. “Sì, è possibile, ma non può esserci prole da queste unioni.” 

“Invece sì,” aveva detto Pushpa con disgusto. “Anche se ovviamente nessuna delle due razze tollera questi scherzi della natura: anche qui su Luna di Fuoco, dove molti valori etici sono, ehm... discussi,” e aveva tossicchiato, “di mezzosangue non ce ne sono. Se individui peccaminosi si incrociano, l’eventuale frutto viene sempre misericordiosamente soppresso, affinché non viva un’esistenza sciagurata e metta a  rischio la purezza della razza.”

Deyan aveva fissato il vuoto, pensierosamente.

“Quindi mi stai dicendo che la mitica Arca sarebbe esistita veramente, avrebbe portato qui la nostra specie in un passato così remoto da dimenticarlo, e noi e i sayanni avremmo in realtà un’unica origine...”

Pushpa aveva annuito. “E poi quell’Arca sarebbe ritornata, forse per vedere cosa ne era stato dei suoi figli: su quel feretro si narra del transito di un vascello celeste così grande da oscurare i soli, con a bordo una razza antica e sapiente, i Ter, o Tirri; da cui prende nome la mia casta...” 

“Quali eredi di quella sapienza.”

“E se il passaggio dell’Arca è avvenuto davvero, questo forse spiega il mistero di quel feretro che elude le nostre conoscenze. Potrebbe essere stato fatto proprio dai Tirri, con la loro inimmaginabile magia.”

Deyan aveva guardato verso il sarcofago. 

“Un oggetto magico, fatto per contenere un corpo. Dev’essere stato di un personaggio di riguardo.”

“Oh sì. Era un Guerriero della Cometa.”

 

 

 

 

 

 

 

Ran si issò oltre il parapetto, per piombare senza fiato sul pavimento della torre. Deyan era già al suo posto, appiattato contro la porta. A parte le dita delle mani, non si vedeva un solo pollice della sua pelle: il suo costume lo avvolgeva completamente, coprendogli anche la testa e lasciandogli fuori solo gli occhi vulnerabili, che però aveva protetto con una maschera di cristallo. 

Non emetteva un suono, ma era estremamente affaticato, Ran lo vedeva dalla frequenza del suo respiro. Lo sforzo che aveva compiuto per arrampicarsi in quel modo era notevole, per un kelith non abituato alla magia di quel luogo (maggior gravità, la definiva, come se cambiandole nome la rendesse meno magica). Ma sapeva di poter contare su Ran per aver il tempo di recuperare le forze. Con i gesti silenziosi dell’antico codice dei ladri, gli segnalò la situazione. 

Due guardie dietro la porta. 

Ran annuì, controllò che la propria lancia fosse ben legata alla schiena, ed estrasse dalla cintura della sua veste due pugnali. 

Se ci catturassero qui, la mia morte sarebbe rapida: un colpo di maglio alla testa. Ma quel che farebbero a Deyan, una volta che scoprissero che è un albino... non oso nemmeno immaginarlo!

Eppure il kelith sembrava totalmente indifferente al rischio. Doveva essere per via di quella sua strana religione: molte volte l’aveva visto pregare a testa coperta, davanti a un semplice braciere su cui fumava del legno profumato. 

Io ho cercato di pregare i miei dèi, ma non mi hanno mai ascoltato.

Un balzo a spalancare la porta con una spallata, due facce stupite a guardarlo, due colpi di pugnale quasi contemporanei, e nella gola, per strozzare qualsiasi urlo. Ancora in piedi, i due erano già morti: Ran ne afferrò uno e lo lasciò scivolare silenziosamente a terra. L’altro si afflosciò contro la parete, spruzzando sangue. Le loro gambe si mossero appena, e poi fu tutto silenzio. 

Ran si pulì le mani con le loro tuniche e rinfoderò i pugnali, prendendo fiato. 

Riposate in pace, fratelli. Non prenderò le vostre piume, questo non è stato un duello. Mi dispiace avervi ucciso, ma avete mancato al vostro compito di guardie in un santuario... e se non foste morti per mano mia, ci avrebbero pensato i vostri superiori.

Deyan spostò la maschera sulla fronte, cavò da una delle sue tasche una minuscola ampolla e si mise una goccia del liquido negli occhi. Un istante d’attesa, e poi tornò a guardare Ran con un cenno di intesa: i suoi occhi erano diventati neri. 

La sua droga magica per vedere nel buio, pensò Ran con invidia. 

Lui non aveva mai avuto niente del genere, mentre i kelith avevano tutta una serie di sostanze da usare in combattimento, sia per loro sia contro i nemici. Deyan poi aveva una conoscenza particolarmente inquietante su molti veleni e narcotici: se li preparava da sé, con sostanze che pagava a peso d’oro. 

Ran appoggiò la mano sulla spalla del compagno: dopo l’abbagliante luce esterna, l’interno della torre era buio come la notte. Deyan capì: lo condusse con sicurezza verso una stretta scala a chiocciola, che scesero rapidamente; sbucarono quindi in una galleria scavata direttamente nella roccia della montagna, illuminata a malapena da vecchie lampade a polvere che spandevano una luce verdastra.  

Cominciarono ad avanzare, con Deyan che faceva da guida. Ran sapeva che aveva memorizzato alla perfezione la mappa che aveva comprato a caro prezzo dagli informatori dei Marjaban: molte aperture si intravedevano infatti nella galleria, una sorta di labirinto. Anche il sayanni aveva una copia della mappa con sé, ma si conosceva abbastanza per sapere che da solo avrebbe finito per perdersi.

E non c’è nessun motivo per cui dovrei tornare da solo. Sono qui per aiutare un amico. Se muore lui, muoio anch’io. Questo è il patto che ho fatto con me stesso, quando mi sono offerto di accompagnarlo...

Quel pensiero, anziché turbarlo, lo calmava.

All’improvviso, il suo vecchio istinto di ladro si tese. Si fermò un passo prima della biforcazione della galleria. Stette in ascolto un istante, e le sue mani fecero i segni.

Arriva qualcuno. Da sinistra.

Deyan non perse tempo: lo prese per un braccio e cominciò a correre in direzione contraria. 

 

 

 

 

 

 

 

Guerriero della Cometa.

Deyan aveva sentito il termine da Ran. Gli aveva chiesto a cosa si riferiva, dato che come principe gli avevano insegnato a distinguere i gradi dei vari guerrieri di Sayanna, ma non gli avevano mai parlato di questi fantomatici Xarani.

Sono fortissimi e dotati di poteri magici, o almeno così si dice: io naturalmente non ne ho mai visto uno in vita mia, perché stanno tutti intorno a Kamoh e Lilia, e figurati se uno come me è mai stato ammesso alla Divina Presenza! Immagino che neanche riescano a muoversi con la mole di armi, gioielli e diademi sacri che si porteranno addosso.

E si capiva che il suo sogno segreto sarebbe stato spogliarli di tutte quelle ricchezze e farle sue.

Pushpa era stato più rispettoso. “Un Guerriero della Cometa è il vertice assoluto della nostra casta guerriera, nato e allevato per servire direttamente le Divinità.”

“Una sorta di nobile guardia di palazzo...”

“Molto di più, Deyan-shir! È un essere speciale, sacro. Non c’è niente nella cultura kelith che sia paragonabile, è inutile fare confronti.”

“Da dove deriva tale sacralità? Dalla stirpe?”

“No, dal cielo. È un astro a selezionare il fiore della nostra razza; una particolare cometa, che alla massima luminosità transita nell’asterisma dei Quattro. Noi sayanni la chiamiamo Xarani; e in tutto il continente ogni bambino di casta guerriera che nasce sotto il suo segno viene immediatamente sottratto alla famiglia, e mandato in un tempio inaccessibile della Montagna Sacra, dove viene addestrato sin dalla più tenera età. Cosa accada in quel tempio è un mistero, ma dopo molti cicli solari alcuni giovani ne emergono, i più forti e i più perfetti, per essere consacrati alle Divinità. Gli altri... scompaiono per sempre.”

“Una selezione spietata,” aveva commentato il kelith.

“Ma che viene effettuata sin dalla notte dei tempi, per la salvaguardia del nostro popolo. I Guerrieri della Cometa hanno il compito sacro di servire le Divinità e di proteggerle: non hanno altro scopo nella loro esistenza. La loro obbedienza è totale e incondizionata. E che io sappia, in tutta la nostra storia mai uno di loro ha mancato a questo sacro dovere.” Esitò. “Con un’unica eccezione... che ho scoperto nella tua casa.”

E aveva indicato il feretro. 

 “Le iscrizioni raccontano che questo Guerriero della Cometa si rifiutò incredibilmente di obbedire a un ordine delle Divinità... per salvarle, così è scritto: la cosa non è chiara. Un delitto del genere comunque era totalmente inconcepibile: la punizione doveva dunque essere terribile. Pare che siano stati i Tirri stessi a rinchiudere il colpevole in questo feretro, anche in questo caso si ripete il simbolo per salvarlo... il resto dell’iscrizione però parla chiaramente di suprema condanna, la negazione della dimensione di Ta’itza, il luogo mistico dove le anime si reincarnano.” La voce di Pushpa aveva tremato. “Se ho interpretato correttamente tutto questo, lo Xarani fu chiuso nel feretro da vivo, Deyan-shir. E i Tirri fecero in modo che non potesse morire.”

 

 

 

 

 

 

 

 

Sbucarono in una specie di caverna concava, illuminata da un pozzo solare, un enorme cristallo bianco che convogliava la luce dall’esterno. Tutt’intorno alle pareti, su massicci scaffali, pesanti codici in metalli preziosi erano disposti in file regolari assieme a pile e pile di vecchi rotoli. Al centro della caverna, seduta su una pelle di tigre delle montagne, c’era una figura curva, avvolta in un mantello di piume azzurre e circondata da tre uomini con la tonsura. 

Ran e Deyan si nascosero prontamente dietro a delle colonne naturali, ma per tutta la caverna risuonò una risata acuta, sguaiata. 

“Benvenuti, bambini miei!”

I sacerdoti si voltarono intorno, perplessi. 

Deyan lanciò un’occhiata a Ran, che sudava freddo perché aveva riconosciuto quel manto di piume.  Il sayanni portò due dita agli occhi, poi alla fronte e sulla guancia. 

Veggente.

Le dita di Deyan si mossero, senza nessuna soggezione. 

Catturare ostaggi.

Ran scosse la testa. Bottino e poi fuga.

Deyan girò l’indice intorno, e Ran capì: già, qual’era il codice che cercavano, tra tutti quelli che giacevano sugli scaffali? 

“Chi è là?” chiese uno dei sacerdoti, con voce nervosa. Un altro si avvicinò a una campana d’allarme, prendendo la barra di ferro per suonarla.

Ran lanciò un’altra occhiata a Deyan. Devo prendere tempo...

Si tolse dalla testa la sciarpa con cui si era avvolto, scoprendo il viso. Nascose la lancia sotto il mantello, respirò a fondo e uscì dal suo nascondiglio, dirigendosi con passo tranquillo verso i sacerdoti. Costoro lo videro e si irrigidirono, sospettosi. 

“Chi sei?” gli chiesero, perentoriamente. 

Alzò le mani con il palmo in alto. “Solo un pellegrino in cerca della Luce,” rispose, sperando di aver messo la giusta nota devota nella voce. 

“Che ci fai qui? Questo è un luogo proibito.”

“Mi sono perduto, santi uomini...”

Di nuovo, risuonò quella risata, e il mantello di piume si mosse, rivelando il corpo rinsecchito di una vecchia dall’età prodigiosa.

“Ti sei perduto molti cicli fa, bambino mio.”

Uno dei sacerdoti sbuffò. “Non dar retta alla veggente, non ha mangiato la bacca sacra e non sta guardando nel pozzo. Se è una profezia che cerchi, devi tornare alla sala delle preghiere...”

“Inutili sciocchi,” sibilò la vecchia, tendendo una mano verso Ran. “Non avete ancora capito chi avete di fronte?”

“Un... guerriero,” risposero i sacerdoti, osservando i tatuaggi del nuovo arrivato.

“Guerriero sì, ma di un nuovo mondo!...” La vecchia rivolse a Ran un sorriso sdentato. “Ti riconosco, figlio di Sayanna... torni alla tua casa per violarla... perché questo è il volere del destino, e quello che rechi è così grande che solo gli dèi possono averlo deciso!”

Ran la guardò con occhi spalancati. 

Un destino così grande...?

“Che significa?” mormorarono i sacerdoti, allibiti. “Chi è costui, che la veggente riconosce?”

“Me l’hanno detto gli dèi, che l’avrei incontrato...” La vecchia si aprì il mantello, mostrando un seno azzurro, lungo e avvizzito. “Vieni, bambino mio; tua madre ti ha cacciato, ora vieni a bere il mio latte!”

Ran fece un passo indietro, sempre più sconcertato.

“Ah, basta,” fecero i sacerdoti. “Tutto questo non ha senso, i fumi del pozzo l’hanno fatta uscire di senno.” E cercarono di far ricomporre la vecchia, ma questa li aggredì a manate.

“Non comprendete proprio niente! Non sentite il vento del mutamento che viene da quest’uomo?” Una risatina cattiva. “E non vedete neppure la bianca morte che si porta dietro... “

Ran si sentì sprofondare. Non si starà riferendo a...

“Su, bambino mio! Chiama il tuo sacrilego fratello!...” 

E la mano ossuta indicò la colonna dietro alla quale Deyan era nascosto. 

Maledizione ai poteri di questa vecchia!

Ran si scostò il mantello dalla spalla, portò una mano sul manico della propria lancia. A quel gesto, uno dei sacerdoti trasalì. 

“Presto, dai l’allarme...”

Si udì un sibilo. L’uomo vicino alla campana si irrigidì con occhi sbarrati, portandosi una mano alla gola. In pochi istanti una bava bianca gli coprì le labbra e la faccia si fece livida. 

“Troppo tardi, stupidi,” gracchiò la vecchia.

Deyan aveva deciso di entrare in azione. Ran vide con la coda dell’occhio il suo scatto acrobatico: una serie di balzi, un altro sibilo e un pugnale da lancio si conficcò nel petto del secondo sacerdote. 

In pieno cuore!... Accidenti, sarà anche un kelith, ma è davvero bravo...

A quel punto toccava a lui: una carica di spalla appresa in infinite risse da taverna, e l’ultimo sacerdote volò sul pavimento; quando si fermò Ran era già addosso a lui, con la lancia puntata. Un colpo preciso dall’alto al basso, e l’uomo non si mosse più. 

La vecchia era rimasta immobile. Contemplò la carneficina col respiro grosso. 

“Gli dèi ridono in questo momento... sento la loro risata nelle mie orecchie.” 

“Veggente.” Ran tese la lancia insanguinata verso di lei. “Cerchiamo un codice...”

“So cosa cercate,” lo interruppe lei, infastidita. “Sono veggente, no?... E metti giù quella lancia, stupido! So che non morirò oggi, quindi a che pro minacciarmi?” I suoi occhi cisposi fissarono la figura di Deyan, immobile ed ansimante al centro della caverna. “Non mi opporrò al volere divino, bambino mio... ma prima voglio vedere... l’inimmaginabile.”

“Che intendi?”

“Che voglio vedere in faccia anche lui!” 

E aveva teso il dito verso Deyan. 

Lo sa, pensò Ran, agghiacciato. 

 Seguì un lungo silenzio. Deyan scrutò tutt’intorno a sé con le proprie pupille dilatate. Quindi si decise, e si tolse cappuccio, maschera e velo. 

“Ahhh...” gemette la vecchia, come se avesse ricevuto un colpo fisico.

Un albino nel bel mezzo di un luogo sacro sayanni!

Ran ebbe un brivido di apprensione. Già era un sacrilegio aver tentato di rubare un codice sacro; ma che uno dei colpevoli fosse proprio un membro della razza più odiata su Sayanna... 

Si aspettava un torrente di urla e imprecazioni. Ma la veggente si limitò a ridacchiare, come se quel che vedeva la divertisse immensamente.

“Gli dèi sono davvero beffardi... a scegliere i loro strumenti per muovere il destino. Ho visto realizzarsi... la visione più folle della mia vita... e adesso posso anche morire in pace.” Sospirò e tese un indice nodoso verso una nicchia che a malapena si intravedeva. “Sia dunque fatta la loro volontà. Quel che cercate... è là. Prendetelo e andatevene da questo luogo sacro. E non osate tornare mai più.”

Ran e Deyan si fissarono per un istante, poi corsero alla nicchia.

Avvolto in un drappo e rilegato da massicce piastre d’oro, il codice che erano venuti a rubare era lì, davanti a loro. 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Gamosh ascoltò le note dell’immensa campana di palazzo, con una sorta di sollievo.

Da quanto tempo le aspettavo. 

Gli toccavano gli ultimi doveri di un erede: indossò tutti i propri indumenti formali, lasciò che i servi gli ponessero il diadema principesco e la collana di opali; e si presentò ai nobili di palazzo, che erano già tutti vestiti di blu, il colore del lutto. 

Si formò il corteo verso la stanza del principe. Gamosh vi sarebbe entrato per ricevere l’estrema investitura. Da ogni parte si sentiva levarsi il tradizionale lamento funebre, dovere di ogni suddito del principato, rinforzato dalla consueta pena di morte per chi osasse dimenticarlo. La città intera pareva piangere: chissà se Unari avrebbe apprezzato quel suono, per la propria dipartita. 

E la campana suonava, tocchi lenti e ritmati, che vibravano nell’aria asciutta del deserto. 

Gli abiti dei dignitari frusciavano sui pavimenti lucidi, nella loro silenziosa marcia. E si sentivano in lontananza le strida femminili provenienti dalla shanda di Unari. Quelle spregevoli femmine non avevano il cervello per capire quanto fosse disdicevole tutto quel baccano, in un momento così solenne... ma il loro lamento era ormai un elemento della tradizione, e si doveva sopportarlo.

Per Unari la morte arrivava come una liberazione: nella sua immensa e meravigliosa stanza del riposo, foderata di tappeti e arazzi e ornata da incensieri dorati, i profumi più rari non riuscivano a scacciare l’odore terribile della decomposizione. I medici si erano già ritirati, la loro vana opera finita; i dignitari restarono sulla soglia, secondo le usanze, perché solo l’erede poteva avvicinarsi al letto principesco, disperso come un’isola in quel mare di stoffe preziose, e ricevere l’investitura paterna. 

Gamosh entrò da solo, consapevole di essere osservato da tutti; si sforzò di tenere l’espressione corretta sul volto, ma sentiva i muscoli della faccia guizzare sotto la pelle: esaltazione e ripicca lottavano con tristezza e disgusto. Il risultato era una corrucciata espressione di trionfo, con un sorriso che avrebbe voluto essere compassionevole e invece sembrava quasi di scherno. 

Del resto, guardare in faccia Unari e rimanere impassibili era un’impresa: era ormai ridotto a un mezzo teschio scarnificato. La piaga si era diffusa sulla parte destra del volto, divorandogli la guancia e lasciando scoperte le radici lunghe dei denti; e l’occhio soprastante era marcito e caduto come un frutto troppo maturo. Anche il naso era ridotto a una purulenta caricatura, e il male aveva deciso di scendere verso la gola, come se si fosse stancato di torturare la propria vittima e volesse farla finita. Con una fistola aperta sotto al mento da cui sfuggiva la preziosa aria, Unari boccheggiava ormai da settimane come un pesce in agonia. Gli era stata persino tolta la capacità di urlare il proprio dolore, perché la sua voce era ridotta a un sibilo rauco che faceva inorridire chiunque lo sentisse. 

Shi-El Kaira’shtai.

I cortigiani sussurravano che a volte il vento nella Sala del Trono portasse ancora l’eco di quella antica e terribile maledizione. 

Gamosh si chinò sulla testa deturpata di Unari, sostenuta da preziosi cuscini. E gli parlò: la sua voce salì come un lieve mormorio dal tono consolatorio alle orecchie di tutti, ma le parole le avrebbe intese soltanto il padre.

“Dunque stai per partire per il lungo viaggio, Shana-iban-Vauya Unari-shir. Hai paura?”

L’occhio rimasto di Unari tremò. Sì, aveva paura.

“Non devi, mio padre e signore. Lasci Shana in buone mani. Lo so che mi hai sempre disprezzato, ma a torto: sono pur sempre io il tuo figlio maggiore, primo dello stuolo di cadetti che hai messo al mondo: i tuoi eredi infatti sono arrivati dopo. Dato che non ti sei mai curato di me, ho avuto molto tempo libero per pensare... e osservare. Ho capito tante cose. Per esempio, che il tuo primogenito, Nabil, era un buono a nulla, bravo solo a escogitare capricci per vedere fino a che punto l’avresti viziato. E il tuo secondogenito, Bakar, era migliore di lui, forse perché ti somigliava di meno; ma da te aveva preso quella crudeltà verso il suo sangue che alla fine gli è costata cara... ah sì, perché non è stato uno sfortunato incidente a farlo morire durante la doma dei corsieri del deserto, il suo sollazzo preferito assieme a quello delle nuove schiave... vedi, padre, sono stato io a ucciderlo, facendo sì che fosse calpestato a morte in modo che i medici vedessero le sue viscere squarciate, e non la droga che avevano contentuto.”

Unari si tese, con l’occhio sbarrato. Un sibilo gorgogliante gli uscì dalla fistola.

“Calmati, padre. Ho ucciso solo Bakar. Nabil non me ne ha dato il tempo: il tuo gioiello più raro era già condannato, come si capiva dalle sue membra fragili e quel petto sporgente... benché i tuoi servi lo rivestissero di abiti sontuosi per nascondere la sua debolezza. Non c’è voluto molto tempo perché il cuore gli si spezzasse come una noce, e con esso... tutte le tue speranze su di lui. Ti restava un ultimo erede... quello che avevi procreato distrattamente, perché pensavi di essere a posto con la linea di successione.”

Gamosh prese una pezzuola imbevuta di acqua di fiori, e rinfrescò la fronte pallida e tremante del padre, che lo fissava con un’espressione inorridita.

“Oh, sì, Deyan. L’ultimo erede, appunto. Ma per uno strano caso del destino, proprio in lui è sembrato reincarnarsi il puro sangue degli antichi imperatori... come se la tua Prima tra le Prime l’avesse distillato dal tuo nel proprio utero, purificandolo da tutti quegli incroci tra consanguinei che hanno rovinato la stirpe originaria di Shana. È per questo che l’hai sempre trattato diversamente da tutti gli altri? Tenevi a lui, o piuttosto ne avevi paura?... E per questo non ti sei opposto quando il Sacerdote Nero è venuto a palazzo, reclamandolo come discepolo quando era ancora soltanto un bambino?”

Di nuovo, Gamosh si chinò sul volto del padre.

“Mi sono sempre chiesto il perché di quel consenso, oh sì, era una vecchia tradizione, ma ormai in disuso ovunque in Kelitha. Era forse un tentativo di risparmiare almeno un erede dai complotti, armandolo di risorse segrete? O al contrario, è stata una macchinazione dell’antico culto, ormai in declino, che voleva garantirsi un protettore nell’Augusto Consorzio?... Comunque è stato tutto vano: Deyan non potrà mai regnare su Shana e proteggere alcunché. E avergli consentito di diventare un adepto di El non è servito ad altro che ad attirarti sulla testa la sua peggior maledizione... quella che ti sta uccidendo con tanta squisita crudeltà.” Un sorriso dolce, quasi commosso. “Oh padre, fin dall’infanzia ho assistito a spettacoli atroci, ma mai ho visto un capolavoro come il tuo volto in questo momento!”

L’occhio di Unari lasciò cadere una lacrima, e il suo tremito divenne estremo. 

Gamosh prese delicatamente la sua mano contratta, e rispettosamente se la portò alle labbra.

“Quindi come vedi il destino ha messo ogni cosa al suo giusto posto. Nabil e Bakar nelle loro tombe, e il nobilissimo Deyan ridotto a predone senza onore, schiavo di criminali. E io recupero la mia giusta eredità di vero primogenito, succedendoti su questo trono dorato. Da te ho imparato molte cose, mio padre e signore. E soprattutto ho imparato dai tuoi errori. Muori sereno, sapendo che trascorrerò la mia vita a porvi rimedio... a modo mio.”

E gli tenne la mano, a lungo, guardando con pazienza Unari mentre sibilava e gorgogliava chissà quali recriminazioni, maledizioni, preghiere, spiegazioni... 

Lo guardò finché non vide la luce spegnersi nel suo occhio, e l’immobilità della morte sul suo viso devastato. 

Allora alzò gli occhi ai cortigiani, che capirono e alzarono tutti le mani nel segno del lutto. Come un’onda silenziosa, quel gesto si propagò per tutto il palazzo, fino ai giardini e alle porte, fino alle piazze e alle vie dell’intera città, fino alle stazioni di posta che fecero partire i corrieri in ogni direzione.

La campana finalmente tacque.

E cominciarono le urla delle donne. 

 

 

 

 

 

 

 

Era impossibile che una notizia così non si diffondesse per tutta Kelitha, arrivando alle orecchie dei predoni che vi arrivavano da Luna di Fuoco. E da predone a predone, e da bettola e bettola, non giungesse alle capaci orecchie di Ran.

Il sayanni non aveva nemmeno finito di sentire il resto dei farfugliamenti dell’uomo ubriaco davanti a lui, che era già in piedi sentendo che doveva far qualcosa, che era suo dovere far qualcosa. Impulsivamente comprò un’anfora col miglior vino che offrisse il locale, e uscì per la strada come se avesse alle calcagna tutto l’esercito di Sayanna, correndo verso la casa di Deyan. 

Era notte, e il mondo azzurro e bianco che faceva da luna per quella luna era sospeso nel cielo, spandendo una luce fredda come il vento che fischiava per le strade. Ran non lo sentiva, benché avesse lasciato il mantello nella taverna. Pensava solo che Deyan non dovesse ricevere quella notizia da nessun altro che lui. 

Arrivò ansimante di fronte al portone della sua casa, battè più volte il pugno squadrato sulle tavole, chiamando i servi affinché gli aprissero, e maledicendoli perché esitavano ad obbedirgli: quella minacciosa figura di sayanni non ispirava fiducia. Comunque alla fine Saal lo riconobbe, e gli fece aprire la porta, tentando poi di interporsi per spiegare a quel barbaro zotico che era meglio rimandare quella visita a orario più conveniente per il padrone, e che non era educato mettersi a urlare in quel modo in piena notte...

Per poco non finì dritto nel pozzo di casa. 

Lo salvò Deyan, che era apparso a sua volta per vedere cosa provocava quel trambusto: vide Ran che già aveva sollevato per il bavero il povero maggiordomo, pronto a liberarsi una volta per tutte di lui. 

“Risparmia il mio servo,” gli disse, precipitosamente. “Se ti ha offeso, ti offro riparazione per l’insulto.”

“Digli di non trattarmi da essere inferiore!” urlò Ran, lasciando cadere la sua vittima. 

Deyan entrò nel cortile, indifferente al vento che gli scuoteva i capelli sciolti e le leggere vesti da casa.

“Saal?” disse, con voce severa. 

“Padrone,” mormorò il maggiordomo, mettendosi immediatamente in ginocchio con la testa a terra.

“Non ti avevo già spiegato che Mastro Ran deve essere trattato come ospite di riguardo a casa mia?”

“Padrone, ecco... un ospite però ha anche dei doveri...”

Deyan sospirò. Poi fece un cenno a uno dei servi. 

“Chiama Ibal.” E la sua mano destra fece un segno con le dita. 

Ran intanto si era passato la mano sulla fronte, tergendosi il sudore. “Perdona la mia intrusione, Deyan-shir, ma è una questione urgente. Se possiamo andare in un luogo riservato...”

“Solo un momento, Ran. Vorrei sistemare una volta per tutte questa questione.”

Ibal accorse, affannato. Si inchinò a Deyan e gli tese uno staffile: Saal alzò appena la testa, ebbe un’espressione desolata, e la rimise prontamente a terra.

“Hai offeso il mio ospite, che deve aver sempre libero accesso alla mia casa in qualsiasi momento, col solo divieto di entrare nella shanda, naturalmente. Inoltre egli è stato il mio padrone legale, e va trattato da tale, cioè come persona di rango uguale o superiore al mio...”

“Non esagerare, Deyan-shir...” borbottò Ran.

Il kelith gli fece un cenno, come per dirgli di lasciarlo fare. “Di rango uguale o superiore al mio, ci siamo intesi, Saal? Non voglio mai più dovermi trovare nella situazione di dovermi scusare per te!”

Quella parola ebbe un effetto straordinario su Saal. Il maggiordomo si rizzò con un’espressione piena di vergogna.

“Se il mio padrone avrà pietà degli errori del suo servo e lo terrà ancora con sé, non dovrà più scusarsi con... Mastro Ran.”

“Lo spero bene. Ran, vuoi frustarlo tu? Dieci colpi, giusto per chiudere la questione.”

Ibal portò cerimoniosamente lo staffile al sayanni. 

“Cosa?” mormorò lui, preso alla sprovvista. 

Guardò Saal, ancora in ginocchio, ma con le spalle ben dritte e un’espressione molto dignitosa. Quante volte l’avrebbe preso a calci per tutta Luna di Fuoco... ma in quel momento, l’idea di frustarlo lo ripugnò: sembrava non aspettare altro!

“No, non mi importa. Lascia perdere, Deyan-shir.”

Il kelith fece un sorriso lontano. “Me lo immaginavo, conoscendoti. Bene, accomodati pure nella mia casa. Ibal, pensaci tu.”

E senza attendere oltre entrò, seguito da Ran che era alquanto a disagio... specialmente quando sentì lo staffile cominciare a schioccare sulla schiena di Saal. Si affiancò a Deyan e gli sussurrò, pressante:

“Senti, è proprio necessario...”

“Le faccende di noi kelith si devono sistemare nel modo dei kelith,” rispose lui, recisamente. “Saal ha commesso un errore, e mi ha costretto a interrompere il mio riposo per intervenire: lui stesso trova giusta la sua punizione. È un uomo molto coscienzioso.”

“Ma frustare così quel poveretto...”

“Stavi per buttarlo nel pozzo, quel poveretto.”

“Ero arrabbiato!”

“Allora si è meritato le sua frustate, perché ha fatto arrabbiare un mio amico.” Deyan gli sorrise, con una sorta di remota dolcezza. “Non temere, Ibal non ha la mano pesante, e quella è la frusta che uso nella shanda: l’onore di Saal sarà ristabilito davanti a tutti i servi, ma il dolore sarà leggero.”

Ran restò interdetto, e non disse altro. 

Deyan raggiunse la sua stanza preferita, piccola ma ben arredata con tappeti e morbidi cuscini. Prese da un basso tavolino una coppa pulita, e una brocca dorata decorata con smalti; ma esitò. 

“Vedo che con te hai del vino, è forse per questo momento?”

Ran si rese conto distrattamente di tenere ancora in mano l’anfora che aveva comprato alla taverna. 

Esitò. Come doveva comportarsi?

Alla fine si lasciò cadere in ginocchio su un cuscino. Posò l’anfora a terra e chinò la testa.

“Ti reco notizie da Shana, Deyan-shir. Tuo padre... è morto.”

Seguì un lungo silenzio. 

Ran sentì appena il tocco della brocca sul tavolino. Rialzò lo sguardo: il volto di Deyan era pallidissimo, nonostante l’espressione tranquilla. 

“Sai quando è avvenuto?”

Non mi chiede neanche se ne sono sicuro... come farebbe chiunque al posto suo.

“Dieci giorni fa.”

“Ha sofferto?”

Ran deglutì. “Dicono di sì. Molto.” 

Deyan non cambiò espressione, ma si udì un lievissimo scricchiolio... la coppa che teneva in una mano. I suoi occhi erano rivolti a Ran, ma non lo guardavano. 

“Ti ringrazio per avermi recato di persona questa notizia.”

Ne sei felice? O sei triste? Ti ha sorpreso?... Ti ho visto nel momento della tua massima gloria, e della tua vergogna più tremenda; poi abbiamo rischiato la vita insieme, mangiato insieme, bevuto insieme, e anche riso insieme, per quel poco che sai ridere... lascia stare questo tuo ritegno principesco, almeno davanti a me: sono tuo amico!

Ma Deyan non si muoveva, restava in piedi, con quell’espressione intraducibile sul volto.

Ran sospirò pesantemente e spostò davanti a sé l’anfora sigillata.

“Ti ho portato del vino: non so quali siano le usanze del tuo paese. Dopotutto un vino può aver tanti usi diversi. Un’offerta solenne ai morti... l’oblio per superare un grande dolore... o il nettare per festeggiare la dipartita di un nemico.”

“Festeggiare?” fece eco Deyan, con voce remota.

“Sì!” Ran digrignò i denti. “Secondo me è questo, che dovresti fare. Festeggiare! Perché non c’è niente per cui rattristarsi, se un mostro come Unari ha finito di vivere!” 

La faccia di Deyan si impietrì.

“Sì, era tuo padre,” continuò Ran, rabbiosamente. “Ma era anche il classico principe kelith, crudele,  avido e sadico, che comprava i prigionieri sayanni per farli a pezzi durante i suoi banchetti, e che ha fatto morire in modo orrendo uno dei suoi stessi figli per via di quella stupida etichetta di corte! E anche un codardo, che per paura dell’ira di un vicino pervertito...”

“Non continuare.” Gli occhi di Deyan lo guardarono, quasi implorandolo.

“Perché, cos’altro c’è rimasto da ferire in te?“ Ran si alzò in piedi, con impeto. “Nei miei ricordi c’è un sovrano, ricchissimo, in un palazzo favoloso... che ha avuto il coraggio di mercanteggiare con un predone come me, per il prezzo di uno schiavo, me la ricordo ancora la sua domanda, quanto vale per te un principe kelith?... Chissà cosa se n’è fatto dei miei soldi, quelli che dovevano servirmi per non fare bancarotta e che gli ho lasciato sul pavimento... gli servivano così tanto? Perché era suo figlio che mi stava vendendo, quel maledetto, eri tu!... Cosa vuoi, Deyan-shir, che io pianga per uno così?... E se è vero, come mi hanno detto, che era così sfigurato dalle piaghe che non hanno avuto il coraggio di esporlo nel tempio dei suoi dèi, vuol dire semplicemente che questi gli hanno portato l’anima sulla faccia...”

 “Basta, Ran!...”

Il sayanni ammutolì a quella sorta di ruggito.

Deyan si era voltato di scatto, dandogli le spalle. Il suo respiro era rapido, spezzato. 

“Accetto... il dono del tuo vino,” disse, con voce stentata, lottando per riprendere il controllo. “Con gratitudine. Ma adesso ti chiedo di... lasciarmi solo. Te ne prego...”

Ran esitò. Poi si decise, e fece quello che Saal l’aveva sempre ammonito a non fare. 

Posò le sue forti mani sulle spalle di Deyan, in un gesto antico di conforto. Il kelith trasalì a quel tocco, ma non lo sfuggì, e Ran sentì un’ondata di affetto genuino verso di lui.

“Perdonami, amico mio,” gli disse. “Non sopporto di vederti soffrire per un uomo simile.”

“Chi ti ha detto... che soffro per lui?” Le spalle di Deyan tremarono. “Sono io che ho invocato la vendetta di El, non dimenticarlo. E la dea mi ha ascoltato...”

“E allora che questo pensiero ti consoli.”

“Ma io... avevo anche una madre...” 

Ran scosse la testa, senza capire. 

“Madre?” ripetè, con un filo di voce. “Ma... “

“Una Prima tra le Prime non sopravvive al marito,” mormorò Deyan. “È la nostra usanza... tutte le donne nella shanda di un principe vengono uccise alla sua morte, affinché lo accompagnino nell’aldilà.”

Ran restò agghiacciato. 

“Mia madre è stata dolce con me, e anche se ho dovuto smettere di vederla in viso quando sono uscito dal suo quartiere... la ricordo come molto bella. Spero che sia stata coraggiosa, e che non abbia sofferto troppo...” 

“Come, sofferto?”

Deyan si girò, e Ran vide i suoi occhi tranquilli luccicare di lacrime. “Come Prima tra le Prime, aveva il privilegio di essere la prima a morire. Quando mio padre è stato dichiarato in agonia, lei è stata purgata e messa a digiuno, e poi vestita con il sontuoso costume che le spettava di diritto, e adornata coi gioielli della corona; e così ha atteso il suo momento...”

“Purgata... digiuno... perché?”

“Perché non le si sciogliessero le viscere quando l’avrebbero stesa di fianco al corpo di mio padre, per essere strangolata.”

Ran lo lasciò di scatto, arretrò inorridito.

“Ho ucciso io mia madre,” concluse Deyan, con occhi vacui. “L’ho uccisa quando ho invocato la maledizione di El su mio padre. È questo il peso che oggi tu hai portato nel mio cuore...”

No. No!

Ran sentì un’ondata di emozioni contrastanti salirgli nel petto, fino a soffocarlo.

“Una povera donna innocente... ammazzata così...” Kamoh, Lilia, aiutatemi... ”E voi kelith avete il coraggio di dire che i barbari siamo noi?!”

“Ran...”

“Ma che razza di gente siete, voialtri?!” urlò, fuori di sé. “Che genìa sputata dalle viscere dell’inferno?! Per le mie Divinità, sono orgoglioso di essere sayanni! Mille volte meglio aver la pelle azzurra, che appartenere a una razza di sporchi assassini come la tua!”

E con quelle parole si girò di scatto, uscendo da quella stanza... da quella casa... urtando servi più abietti di vermi... fuori da quel mondo che era sempre stato suo nemico, che odiava con tutte le sue forze, e che a dispetto della sua amicizia con Deyan non avrebbe mai capito, mai, mai...

Siano maledetti i kelith per tutta l’eternità!

 

 

 

 

 

 

Naturalmente, se ne pentì nello spazio di una clessidra. 

Ma non tornò subito da Deyan, perché non ne aveva il coraggio. Ci rimuginò sopra tutta la notte, e metà del giorno successivo; quindi, facendosi forza e preparando le proprie scuse, si ripresentò a casa sua.

Stavolta Saal gli aprì immediatamente e si inchinò a lui.

“Il Mastro Ran è il benvenuto,” disse, con una vocetta formale. 

“Come va la schiena?”

Saal restò contegnoso. “Mastro Ran è gentile a chiederlo, ma non deve preoccuparsi.”

Il sayanni sospirò. “Sono stato uno stupido, ieri.” 

Saal lo fissò come per dirgli sì, sei stato proprio un grosso barbaro stupido, ma tacque e si inchinò. 

“Dov’è il tuo padrone, Saal? Devo parlargli...”

“Deyan-shir non c’è,” disse una voce stanca dalla porta. 

Ran la seguì e restò stupito. “Pushpa, sei tu?...”

Il t’yr si stava asciugando le mani dopo essersele lavate.

“Sì, sono qui per lavorare su quel feretro e tentare di aprirlo, dopo che mi avete portato il codice per interpretarne le ultime iscrizioni. Il tuo socio mi ha incaricato di restare fino a quando non otterrò un risultato e, visto quanto intende pagarmi, rispetterò il mio accordo.”

“E Deyan-shir dov’è?”

“È andato alla Grande Casa, da solo.” Pushpa ebbe un’espressione corrucciata. “Dicono che abbia pagato i Marjaban per farsi mandare su Shana.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Dove gli uomini si confrontano, e le profezie si incrociano ***


 

 

 

La Squadra Sacrilega mangiava all’aperto, dopo aver discusso dei nuovi colpi da mettere a segno. I predoni sedevano in capannelli in vari punti del cortile della vecchia e grande casa appartenuta al mercante Kor, prendendo i cibi semplici dai vassoi d’ottone che uno dei loro aveva rubato portandoli poi come dote a tutto il gruppo. Sul brusio delle chiacchiere, il menestrello giocava tra armonie sayanni e melodie kelith (cosa per cui era stato condannato ad avere una mano mozzata nel suo villaggio sulla costa). Il lungo giorno era stato concluso dal solito repentino tramonto del sole giallo, e l’azzurro si avvicinava all’orizzonte, dando al cielo una luminosità perlacea.

Ran non mangiava, non aveva fame. Però beveva, e molto; e guardava giù dal muretto del pozzo, la figura intabarrata nel solito mantello chiaro, col cappuccio alzato, che sedeva a gambe incrociate sul tappeto di seta, srotolando i rapporti del contabile. 

Ricordava la stessa figura, che era finalmente riapparsa alle porte della Grande Casa, completamente avvolta in abiti da deserto, il passo incerto, quasi sonnambulo di chi avesse una lunga marcia alle spalle. Ad attenderla c’erano Saal e alcuni suoi servi, che si erano buttati in ginocchio nel rituale saluto.

E lui, naturalmente: era stato avvertito dalla staffetta di predoni che da giorni faceva la spola tra la sua casa e i Marjaban, in cerca di notizie. 

Deyan-shir sta tornando!  

Gli era andato incontro, diviso tra la voglia di abbracciarlo pieno di sollievo, e quella di tirargli il collo per tutta l’angoscia e la delusione che gli aveva fatto provare. 

Questo dannato testabianca che io stupidamente mi ostino a chiamare amico, e che mi ha lasciato senza una parola, a tormentarmi di rimorso e paura; e già li vedevo, tutti i miei sogni di gloria, impalati su una picca nella piazza di Shana!

Ma non aveva fatto in tempo a scegliere cosa fare: quel mucchio di stoffa impolverato si era semplicemente afflosciato davanti a lui. Era riuscito ad afferrarlo un attimo prima che cadesse a terra, e aveva sentito il suo respiro stentato; gli aveva strappato il velo dal viso per fargli aria, e aveva visto un volto di gesso, con un inquietante reticolo di venuzze azzurre sulle guance, le labbra secche e spaccate dalla sete. Sembrava in punto di morte...

“Dèi del profondo!” aveva esclamato. 

Aveva preso la sua borraccia e gli aveva versato acqua sulle labbra, ma lui non l’aveva inghiottita: era rimasto inerte, con gli occhi dietro la maschera di cristallo persi, quasi allucinati. Era giunto Saal, che si era chinato sul volto del suo padrone, come per fiutarlo... per poi raddrizzarsi, con l’espressione cupa e piena di pena di chi riconoscesse una situazione già nota.

“Mastro Ran lasci fare a questo servo.”

“Ma...”

“Penseremo noi a Deyan-shir.”

E senza altre spiegazioni aveva gridato ordini come un generale in battaglia: i suoi erano scattati a sollevare il corpo inerte del loro padrone per portarselo via, come se fosse stato la preda ambita di un furto; e Ran era rimasto nella piazza da solo, sconcertato e amareggiato.

Non aveva più rivisto Deyan per tre giorni. Inutile anche visitare la sua casa: la sua servitù l’aveva amorevolmente rinchiuso nella shanda, assieme alle sue donne, dove solo il suo eunuco poteva entrare a somministrargli i rimedi ordinati da Saal. 

Quelli, la sua giovane fibra e tanto riposo l’avevano rimesso rapidamente in forze, e quel giorno era finalmente riapparso alla casa di Ran, con il suo solito tappeto arrotolato su una spalla. Non aveva dato spiegazioni sugli ultimi eventi, e nessuno aveva osato insistere: tra predoni era meglio capire alla svelta quando era il caso di farsi gli affari propri.

Ma Ran era convinto che fossero anche affari suoi.

Guardò il suo socio, unica figura isolata in mezzo a quell’atmosfera conviviale, separato da tutti gli altri da un invisibile muro... e provò una sensazione acida alla bocca dello stomaco.

Sono stanco di aspettare una tua parola di chiarimento, Deyan-shir. 

Smontò dal muretto, e deliberatamente si accosciò sul suo tappeto, di fianco a lui. Era un gesto inconsueto, una sorta di invasione, e Deyan si irrigidì lievemente a quella vicinanza; ma non protestò. Posò con calma le carte che stava leggendo, e rivolse a Ran uno sguardo appena educato.

“Cosa vuoi?”

“Dimmi perché sei andato proprio su Shana.”

Lo sguardo si spostò, come per indicare la volontà di non rispondere.

“Avanti, Deyan-shir! Lo sai anche tu cosa sta facendo tuo fratello a ogni predone, vero o presunto che sia. E sulla tua testa c’è una taglia che vale un feudo intero. Per giorni ho temuto che ti avessero catturato...”

“Era un rischio necessario.”

“Dove sei stato?”

“Non posso dirtelo.”

“Non puoi o non vuoi?”

Gli occhi si spostarono su di lui; alla luce del sole azzurro, sembravano viola.

“Non posso e non voglio.”

Ran si adombrò. “Perché non mi hai chiesto di venire con te? L’avrei fatto volentieri!”

“La cosa non ti riguardava.”

“Pensi che il rischio mi avrebbe spaventato? Non mi sembra di averti mai dimostrato di essere un vigliacco. Ti ho seguito persino su Sayanna per rubare quel libro, anche se pure allora mi avevi detto che la cosa non mi riguardava...”

“Stavolta non potevi seguirmi dove sarei andato. Non passi inosservato, tra la mia gente.”

“Nemmeno tu, te lo ricordo.”

“Se mi lascio guardare. Con le vesti da deserto sono uno Shanì indistinguibile dagli altri.”

“Potevi almeno avvertirmi!”

“Non me ne hai dato il tempo. Te ne sei andato, dopo aver festeggiato la morte di mio padre davanti a me, e avermi detto in faccia che mia madre era vittima della mia stessa razza di assassini.”

Ran si sentì friggere le guance. “Deyan-shir...”

Finalmente ho capito, sei in collera con me. 

“E ad ogni modo, a che pro avvertirti? Avresti tentato di opporti alla mia decisione, così come adesso sei qui a chiedermene conto.”

“Ritengo che sia un mio diritto! In fin dei conti tu appartieni alla mia fratellanza...”

“Un concetto sayanni, dietro il quale nascondere un’invadenza da barbaro.”

Ran restò fulminato. “Che cosa...”

“E comunque io appartengo soltanto a me stesso. Non hai alcun diritto su di me, e non ti devo alcuna spiegazione sulle mie questioni personali.” 

Ran digrignò i denti. Adesso sono io in collera con te. 

“Mi devi almeno del rispetto, Deyan-shir.”

“Mentre tu invece puoi mancarmene a piacimento?” Un’occhiata allusiva al suo tappeto. “Bada a ciò che fai, Ran. C’è un limite a ciò che sono disposto a sopportare da te.”

“Non farmi pentire di averti regalato questo limite.”

Gli occhi viola mandarono un lampo. “È tardi per pentirti. E la prossima volta che mi ricorderai la mia passata condizione servile, sarà anche l’ultima. Che ti piaccia o no, non porto più il tuo collare... sono un libero predone!”

Ran strinse i pugni, fissando quel volto insopportabilmente altero. E si rese conto che mai tra lui e Deyan c’era stata una tensione simile... era come se alla fine le loro differenze razziali si fossero accumulate, raggiungendo il punto di rottura. 

C’è solo un modo per sistemare questa faccenda tra noi.

“Un libero predone, hai detto?”

Si alzò, lentamente; prese la propria lancia, e la piantò a terra davanti a lui.

I membri della banda, che stavano chiacchierando, notarono il gesto e si zittirono progressivamente. 

“Che significa?” chiese Deyan, guardando quella lancia conficcata a terra.

“Che da predone a predone ti sfido, Deyan-shir. Nello stile di Luna di Fuoco. Non un duello, solo un bel regolamento di conti tra compagni.”

Tutti emisero un mormorio sorpreso. 

Deyan alzò lo sguardo, con un’occhiata ironica. “Qualcuno mi disse che nessun degno sayanni di Luna di Fuoco avrebbe mai sfidato un debole kelith.”

“Non pubblicamente, certo; ma qui siamo tra di noi, è una faccenda privata.” Un sorriso da lupo. “Avanti, divertiamo un po’ i nostri compagni. Mostrami quel che sai fare.”

“No. Non voglio battermi contro di te, neanche per gioco.”

Ran cominciò a togliersi collane e bracciali, slacciando poi il corsetto di pelle che indossava.

“Sappi una cosa, Deyan-shir: io sono un predone sayanni: posso essere amico di un altro predone, anche di uno coi capelli bianchi e gli occhi rossi... ma non posso essere amico di un principe kelith.”

Un silenzio di piombo cadde intorno a loro. 

E Deyan finalmente capì: Ran lo vide nei suoi occhi. 

“Dunque le cose tra noi stanno così,” mormorò, rialzandosi lentamente. 

Ran annuì. “Ti sfido a dimostrarmi che il tuo tanto prezioso retaggio non ti ha fatto dimenticare che sei ancora un membro di questa Comunità di tagliaborse. Allora, Deyan-shir, deciditi: sei un predone come me... o un principe?”

Deyan affrontò il suo sguardo, leggendovi la vera domanda...

Vuoi batterti per salvare la nostra amicizia?

Esitò, a lungo. Ma poi la sua mano estrasse da sotto il mantello il suo pugnale dalla lama ricurva, e con un gesto misurato lo mandò a conficcarsi davanti alla lancia di Ran.

“Per te sarò un predone.”

Ran lanciò un urlo di gioia guerresca, e i membri della squadra risposero con entusiasmo a veder accettata quell’incredibile sfida. Si slanciarono a liberare uno spiazzo circolare nel cortile, accendendo anche delle torce perché ormai il sole azzurro toccava l’orizzonte.  

“Quali sono le regole?” chiese Deyan, osservando i preparativi. 

“Ci si batte senz’armi,” rispose Ran. “Tra noi sayanni lo si fa nudi, eccetto un’apposita protezione per la membrana. I kelith naturalmente si vergognano e tengono coperta la parte inferiore del corpo, ma si scoprono dalla vita in su.” Fece un sorriso maligno, togliendosi il corsetto. “E pretendo che ti adegui a questo costume, Deyan-shir!”

Una ruga apparve tra le bianche sopracciglia di Deyan. Era noto che per un nobile kelith fosse oltraggiosa, l’idea di scoprire il proprio corpo in un luogo che non fosse il chiuso della sua shanda... solo gli schiavi non avevano diritto al pudore. 

Avanti, Deyan-shir. Principe o predone? Scegli!

Deyan sospirò, e cominciò a frugare sotto ai vestiti, posando sul tappeto una piccola balestra, una manciata di pugnali da lancio e di dardi avvelenati, un laccio da strangolamento e due scarselle di cuoio piatte. Quindi lasciò cadere il mantello, si slacciò la doppia cintura che gli serrava in vita la tunica nello stile del suo paese, e se la sfilò scompigliandosi i capelli.

Ci fu un mormorio mentre tutti fissavano stupiti quello spettacolo inconsueto, un albino libero a torso nudo. Si erano aspettati il solito corpo flaccido e tendente alla pinguedine di tanti nobili kelith, ma Deyan era snello e nervoso come una frusta, con membra armoniose e muscoli ben rilevati sulle braccia e sul busto. Sembrava una statua di marmo, con quella pelle bianca che catturava il bagliore del sole morente, rivelando le tante cicatrici sottili che ricordavano la sua esperienza nel dolore.  

“Per la bianca dea dell’amore!” dichiarò Aydie a voce alta. “Qualcosa mi dice che le schiave di Gamosh-shir siano ben contente di aver cambiato padrone.”

Quella battuta impertinente scatenò un mare di risate tra i predoni, e Deyan arrossì. In quanto a Ran, non poteva che essere felice di quell’atmosfera: gli si confaceva.

In contrasto col suo avversario, era di un’imponenza monumentale, con i muscoli possenti che sembravano aver voglia di schizzar fuori dalla pelle azzurra. Era anche ovviamente molto più alto di Deyan (che pure non era certo basso tra i kelith), e pure lui ornato di qualche spettacolare cicatrice, ricordi della sua vita passata a lottare per la sopravvivenza; in più aveva i suoi tatuaggi da guerriero sulle guance, a riprova della sua casta. I predoni cominciarono a scambiarsi scommesse a suo favore: l’esito della sfida sembrava segnato.

Si spostò al centro dello spiazzo e fece gesto all’avversario di entrarci a sua volta. 

“Sei pronto? Nemel, da’ tu il via.”

Deyan entrò, con le mani rilassate ai fianchi, l’espressione tranquilla di chi non ha paura.

“Sono pronto.”

“Via!” gridò Nemel.

Ran attaccò, cercando di mollargli un manrovescio. 

Non ti farò troppo male, e cercherò di non umiliarti troppo: non te lo meriti...

Ma andò a vuoto: Deyan si spostò istantaneamente di una frazione di pollice, schivando lo schiaffo. Ran ci riprovò immediatamente, cercando di colpirlo al corpo. E di nuovo, all’ultimo istante, Deyan si girò di lato in modo che il pugno gli sfiorasse appena un fianco. 

Fortuna o abilità?

Di nuovo Ran attaccò, tentando combinazioni di diversi colpi. Ma era tutto inutile: qualunque fosse la sua mossa, Deyan l’anticipava regolarmente d’un soffio, e i suoi movimenti sembravano frutto di magia. Però non contrattaccava: si limitava a schivare ogni pugno e ogni calcio, spostandosi il minimo possibile dalla sua posizione, quasi sfidando il prestante attaccante a riprovarci.

“Adesso basta, Deyan-shir!” ruggì alla fine Ran, senza fiato, ed esasperato da quel gioco. “Un predone non scappa, colpisce!”

Non aveva neanche finito di pronunciare l’ultima sillaba, che un colpo secco alla mascella gliela strozzò in gola. Barcollò all’indietro, stupefatto, rendendosi conto che era stato un pugno... un pugno che Deyan gli aveva assestato senza che lui neanche se ne accorgesse!

Dèi del profondo, è veloce come un serpente!

Il riserbo dei kelith verso Deyan, che già vacillava, crollò del tutto; e da tutti loro partì un grido di trionfo per il loro campione. I sayanni risposero con uno dei loro classici cori di incitamento per Ran, condito però da qualche sberleffo. 

Ran sentì in bocca il sapore del sangue. Lo sputò, si massaggiò la mascella, e fece un tetro inchino verso Deyan, con un sorrisetto compiaciuto. 

“Mica male, kelith.”

Deyan sciolse la mano con cui l’aveva colpito. 

“Mi sto trattenendo, Ran.”

“Me ne sono accorto. Questo tuo pugno è ridicolo. Quand’è che decidi di far sul serio?”

Deyan scattò, entrando sotto la guardia di Ran e fintando un altro pugno. Ran alzò il braccio per pararlo e partì a sua volta all’attacco: il kelith si abbassò fulmineamente e gli stampò un colpo secco nella coscia, scivolando di lato. 

DI nuovo, i kelith applaudirono, e i sayanni mugugnarono.

Ran si girò verso di lui, con una smorfia ironica. Si guardò teatralmente la coscia e se la toccò, come per controllare se si fossero sporcati i calzoni.

“Immagino che tu creda di avermi fatto male,” borbottò. 

E gliene aveva fatto, quel colpetto così ben assestato... gli aveva preso un punto sensibile! Sudò freddo, ma resistette all’impulso di massaggiarsi la coscia e guardò il suo avversario che si disponeva a un nuovo attacco.

Gli elargì un sorrisetto di compatimento. 

“Fammi il piacere, Deyan-shir... pensi davvero di battermi con le tue carezze?” Abbassò le braccia, provocatoriamente.  “Avanti, piccolo kelith. Ho giusto un po’ di prurito a...”

Vide a malapena l’inizio del movimento: un balzo in rotazione. Poi gli arrivò in faccia un altro colpo, stavolta davvero duro. Vide le stelle, e dovette fare una gran fatica per restar saldo sulle gambe.

Cos’è stato?!

Glielo disse uno dei predoni: “Accidenti, che calcio!...”

Calcio?! 

Ma conosceva l’agilità felina di Deyan, specie lì su Luna di Fuoco dove la magia di Sayanna non lo impacciava. Indovinò il movimento che aveva fatto dalla sua posizione finale, rannicchiato con una mano posata a terra. Era una posa difensiva, che indicava una tecnica raffinata e ben esercitata: quello non era un comune combattente d’istinto...

Dannato testabianca!

Deyan lo fissava, respirando a fondo: ora c’era un’aria quasi canzonatoria nei suoi occhi.

“Quand’è che farai sul serio anche tu, Ran? Mi sto annoiando.”

Non direi proprio, bastardo con gli occhi rossi: ti stai divertendo!

Represse un sorriso segreto. Non era quello che sperava che accadesse? Deyan stava uscendo dal suo guscio di ghiaccio, e si stava comportando sempre più da predone... e sempre meno da principe. 

Ma sei sempre un principe, per tua sfortuna.

Ran barcollò appena, e i predoni intorno a lui trasalirono. Socchiuse gli occhi, si portò una mano alla tempia, sentendo il sangue uscire dall’angolo del sopracciglio. Emise un gemito, piegandosi in avanti... e non appena sentì che Deyan gli si avvicinava, scattò in avanti e gli mollò una testata fortissima nello stomaco. 

Si vede proprio, che non sei mai stato in una rissa!

Deyan arretrò barcollando, semisoffocato. Ran ne approfittò subito e gli assestò un calcio alle gambe, falciandolo come grano maturo: i predoni lanciarono un urlo. 

Fine della tua danza, kelith. 

Deyan era caduto nella polvere, sul fianco, e Ran gli piombò addosso prima che potesse rialzarsi e sfuggirgli. Cercò di inchiodarlo al suolo, ma il kelith reagì torcendosi con abilità: per quanto Ran cercasse di rotolargli sopra, si ritrovava sempre assurdamente sotto di lui... e a un certo punto si trovò il suo avambraccio sotto il mento. 

I predoni sembravano impazziti, sgomitavano ai bordi dello spiazzo. 

“Forza, Deyan-shir! Strozzalo!”

“Deciditi a schiacciarlo, Ran!...”

Con un grugnito il sayanni si girò sul fianco, e afferrò con una mano d’acciaio il braccio di Deyan che gli stringeva la gola.

Hai commesso un errore, testabianca: tu sei più agile, ma il più forte sono io!

Sentì Deyan cercare di resistere alla sua trazione, ma ovviamente gli era impossibile... anche se la forza che esercitava era davvero notevole: Ran doveva dar fondo alle sue energie. Il braccio si allontanò lentamente dalla sua gola; Deyan capì che la sua gara era persa e cercò di liberarsi, ma Ran non lo mollò, anzi perfezionò la sua presa.

Sei pericoloso solo se ti lascio andare, ma nel corpo a corpo non hai speranze.

Riuscì ad allacciare con la sua anche una delle gambe di Deyan, in una mossa da esperto lottatore. Si rovesciò tenendo sempre stretto il suo braccio, e il kelith si trovò finalmente sotto di lui, schiacciato dal suo notevole peso, e con il braccio piegato dietro alla schiena. 

I sayanni lanciarono un evviva e pestarono i piedi. 

“Arrenditi,” ansimò Ran. 

Deyan strinse i denti. “No!”

E del tutto in carattere con quella risposta, la sua mano liberà salì come un artiglio, afferrando la testa del sayanni per i capelli intrecciati e dando uno strattone violento. Ran gridò una maledizione: ci teneva, alla sua acconciatura da guerriero... 

Ora basta, dannazione!

Col suo braccio libero mollò una gomitata per nulla elegante sulla testa di Deyan, ma molto efficace. Lo sentì emettere un gemito, afflosciarsi sotto di lui. Si liberò dalla sua presa ai capelli, gli afferrò anche l’altro braccio e glielo torse, puntando le ginocchia nell’incavo della sua schiena. 

“Adesso liberati, se ne sei capace!...”

Deyan voltò la testa di lato, ansimando come una belva prigioniera.

Uno strattone ad alzargli i polsi sulla schiena. “Arrenditi!”

Gli occhi di Deyan si socchiusero, il suo corpo si rilassò del tutto. Ran vide le sue labbra muoversi, un’invocazione nella sua incomprensibile Antica Lingua, e provò un brivido.

Cosa vuol fare?!

In una frazione d’istante sentì il corpo sotto di sé scattare in una torsione impossibile, udì uno scricchiolio e un urlo, seguiti da un tonfo nella testa che riecheggiò nelle sue orecchie mutandosi in ronzio; e ogni luce si spense...

 

 

 

 

 

 

 

 

Ran fissava incredulo la polvere calpestata davanti a sé. 

Non ho vinto!

“Sta’ fermo, sayanni: ti brucerà.”

Aydie gli aveva lavato le ferite, e aveva deciso di cucire quella sul cuoio capelluto: non era un’operazione gradevole. Non si divertiva però neanche Deyan, in ginocchio a pochi passi da lui, con Nemel dietro a lui pronto, e Chat a tenergli il braccio per il polso. Ran tornò a fissare la terra, sapendo cosa si accingevano a fare.

Intorno a loro i predoni litigavano furiosamente per stabilire chi fosse il vincitore. Kelith e sayanni agitavano indici sotto il naso reciproco, e discutevano facendo un baccano indescrivibile: sembrava di essere in piazza nel giorno di mercato.

Alla fine la squadra giunse collettivamente alla sua decisione: Deyan era riuscito a mettere Ran fuori combattimento (in quale modo, il sayanni non riusciva ancora a capirlo). Però per far questo si era deliberatamente slogato un braccio: una mossa coraggiosa, ma che chiaramente gli avrebbe impedito di continuare il duello. Quindi, per le regole di Luna di Fuoco, lo scontro doveva considerarsi chiuso in parità.

A quel punto tutti lanciarono evviva: kelith e sayanni insieme. E improvvisarono su due piedi una sorta di colletta simbolica, raccogliendo al centro dello spiazzo un pugno di monetine di rame, un paio di piccole anfore di vino, un vassoio di noci candite e due spiedi di carne: un modo semplice per esprimere l’apprezzamento ai contendenti. Quindi uscirono, vociando per le strade. 

“Sono tutti ansiosi di raccontare questa storia in tutte le bettole,” spiegò Chat. “Non avrei mai immaginato un sayanni e un kelith bianco capaci di battersi alla pari da veri uomini! Gran bel combattimento, Ran! E che carattere, quel Deyan-shir! C’è di che essere orgogliosi, di aver capi come voi.”

Ran si costrinse a sorridere. 

Ha detto “voi”... per la prima volta. 

Alzò appena la testa: Nemel aveva finito con Deyan, e gli aveva gettato il mantello sulle spalle perché l’aria si era raffreddata rapidamente. Il kelith fissava la luce delle torce, evidentemente provato: ma il suo volto aveva un’espressione quasi serena, assai diversa da quella dell’uomo che era giunto lì.

Quanti miracoli ha compiuto, questa semplice scazzottata...

“Ecco,” disse Aydie, applicando polvere astringente sul taglio. “Ho finito.”

“Ti ricompenserò.”

“Stai scherzando, sayanni. Hai avuto un’idea meravigliosa. Non mi divertivo così da quando ho visto i soldati del mio principe impalare l’agente delle tasse per frode. E ora, se permetti, vado a brindare alla tua salute... tra le gambe di quelle che voi pelleazzurra chiamate disonorate.”

E se ne andò anche lui. 

Ran si rialzò, provando un momento di vertigine. Guardò il mucchio delle offerte, afferrò una delle due anfore e raggiunse Deyan, che era rimasto accosciato nella polvere, indifferente al proprio corpo insudiciato e pieno di lividi. Si sedette accanto a lui, ruppe il sigillo del recipiente e tracannò una metà del contenuto, con lunghe sorsate.

“Meglio,” sospirò, posandolo. “Ne vuoi anche tu?”

Deyan annuì. Ran fece per passarglielo, poi si ricordò di aver accanto un principe. 

“Vado a prenderti l’altra anfora,” mormorò.

“No.”

Con un gesto stanco della mano sana, Deyan prese l’anfora e se la portò alle labbra. E davanti agli occhi stralunati di Ran, cominciò a bere senza fermarsi...

“Deyan-shir!” esclamò lui. 

Sta bevendo dallo stesso recipiente da cui ho bevuto io?!

Quando non rimase più niente da bere, Deyan posò l’anfora a terra. “Mi dispiace, Ran,” disse, in un sussurro. 

Per il vino? O per altro?

Non ebbe cuore di fargli quella domanda; accennò invece al suo braccio, legato al collo.

“Fa male?”

“Niente che non abbia già provato.”

“Hai affrontato questo dolore pur di riuscire a colpirmi.”

“Ho scelto le mie priorità.”

“Volevi proprio vincere, eh?...”

“Come te, Ran.”

“Accidenti, potevo ammazzarti.”

Un pallido sorriso. “Anch’io.”

Si guardarono negli occhi, e Ran si rese conto che parlava sul serio.

“Sono un adepto di El,” mormorò Deyan. “Questo già lo sai, ma non sai cosa significa. La Misteriosa ha molti aspetti segreti, e uno palese... la morte.” 

Allora sei veramente un assassino...

“Sono stato iniziato e addestrato nel suo tempio. Ed è lì che sono tornato, quando ho saputo che mio padre aveva incontrato la fine che avevo invocato su di lui. La mia dea mi guida e mi protegge, ma è anche... esigente quando si stringono patti in suo nome. Dovevo pagare il prezzo per mio padre... e mia madre, e sottopormi a un rito di purificazione che mi è vietato descriverti. Rifiutarmi avrebbe voluto dire perdere la mia anima, voltare le spalle alle cose più sacre in cui ho creduto fino ad adesso. Per questo sono tornato su Shana, pur sapendo che rischiavo la vita...”

“Non dirmi altro.” Ran alzò una mano e scosse la testa. “Non serve. Avevi ragione, non avevo alcun diritto di pretendere spiegazioni da te, e mi sono meritato il tuo rimprovero di essere invadente e anche un barbaro. Quindi non sprecare parole con me, sai che tanto non sarò mai in grado di capire...”

“Non è vero, Ran, tu capisci cose che nemmeno i saggi sanno comprendere.” 

Ci fu un istante di silenzio, rotto solo dal sibilare del vento.

Il kelith alzò lo sguardo al cielo. “Nel mio deserto ho passato una notte in cima a una duna, a guardare quella luna che era stata la mia luna, prima di diventare invece il mio mondo...” Chiuse gli occhi. “Ho avuto il desiderio di arrendermi e gettar via la Polvere, per restare e morire lì.” 

Ran tacque. Conosceva la sensazione. Tutti su Luna di Fuoco la conoscevano. Nessuno era giunto lassù pieno di gioia: dietro le risate, i canti e le sbornie c’erano i fantasmi della tristezza e della nostalgia. 

 “Poi ha vinto la ragione, e sono tornato qui; ma dentro di me era rimasto il dolore...” Deyan gli rivolse quel suo lieve, bellissimo sorriso. “E tu sei riuscito a togliermelo, con questa tua strana magia!”

Si chiama libertà, Deyan-shir.

Ran ridacchiò, con gli occhi lucidi. 

“Hai avuto fegato, ad accettare la mia sfida.”

“Sapevo che se non l’avessi fatto, tu non mi avresti più considerato un amico.”

“Non te l’avrei mai perdonato,” annuì il sayanni, sdraiandosi accanto a lui a guardar le stelle. 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Pushpa si accorse che gli tremavano le mani.

Si costrinse a cercare di recuperare la calma. Respirò a fondo, nell’aria ferma e angusta della stanza. Attorno a lui giacevano carte piene di simboli e traduzioni che gli erano costate giorni e notti di lavoro. 

Posò le dita sul sarcofago, toccando il cartiglio frontale inciso su quella strana pietra-metallo, il testo ormai così tante volte letto e ripetuto da essere diventato per lui quasi una preghiera.

Questo sacro Feretro rinchiude Naysiak degli Huanai, della casta dei guerrieri, grande tra i Figli della Cometa. Tale perfezione errò solo davanti all’autorità divina: fu arrogante verso Grandi Divinità e disobbedì per salvarle, in nome dell’Arca: perciò gli stessi padri dell’Arca reclamarono il suo corpo. Lo chiusero in questo Feretro, salvandolo dalla morte, ma non consentendogli la vita: solo la coscienza. Le Grandi Divinità sentenziarono che fosse sepolto nella Montagna Sacra, in modo che fosse dimenticato per sempre, e per sempre durasse il supplizio di chi, nato per servirle, le aveva deluse: ma i Tirri dell’Arca predissero che un giorno i loro dèi avrebbero decretato l'avvento di un Liberatore, il Seriema, che avrebbe infranto la maledizione, e tratto Naysiak nel mondo degli umani, o nell'eterna sfera di Ta'Itza dove il Tempo tiranno non ha significato. Inciso nella dodicesima Incarnazione delle Divinità, mese di Shuab, nella Città Sacra. Lode a Kamoh e Lilia, eterni in cielo e sulla terra, patroni della virtuosa Sayanna madre di ogni santità. 

Le sue dita si contrassero, con impazienza. 

Essere il Seriema di un antico Xarani... era il sogno di una vita intera di studi che si realizzava! Aveva spiegato a Deyan cosa comportasse quel titolo: un legame uguale a quello che il guerriero aveva avuto con le Divinità in persona. Avrebbe obbedito a tutti gli ordini, tranne quelli contrari all’onore stabiliti dal proprio rigido codice, e avrebbe messo vita e morte a disposizione del suo Liberatore. 

Un Guerriero della Cometa al mio servizio!

Certo, sperando che la reclusione restituisse un essere ancora in grado di ragionare e parlare; il che era tutto da vedere. E poi legalmente il contenuto del feretro era di proprietà di Deyan, non suo. Ma il saggio era disposto a rinunciare al suo intero munifico compenso, per riscattare colui che stava per salvare; e anche se non vi fosse riuscito, il corpo sarebbe stato comunque una preziosa testimonianza, perché sicuramente sarebbe stato sepolto con tutti i propri oggetti sacri...

Ma prima di ogni cosa, doveva aprire quel feretro. E il testo che aveva tradotto dal Codice d’Oro era quasi incomprensibile. 

Dito energia cerchio linea cerchio croce linea cento tempo acqua resina contenitore miele calore...

Un lungo elenco di parole senza senso. Molte dovevano essere perifrasi, ma mancavano strutture verbali per incasellare quella sequenza di simboli, che sembravano una formula magica...

Forse è una formula magica. 

Pushpa si schiarì la gola e iniziò a cantilenare la sequenza di parole: prima con voce normale, poi provando a modularla secondo le svariate litanie sayanni.

Non accadde niente. 

Non disperare, creatura imprigionata lì dentro. Il tuo Seriema è qui!

Ci riprovò, rallentando la recitazione... a metà però si interruppe. 

Che stupido che sono, questa è la Lingua Antica, non quella di adesso... devo cercare di pronunciare queste parole come un t’yr di quell’epoca!

Di nuovo, provò a leggere l’invocazione, traducendo i simboli ed emettendo suoni che non si erano più uditi dalla notte dei tempi. 

 

 

 

 

 

 

 

Deyan trasalì e aprì gli occhi. 

Nel silenzio della notte, la voce stentorea di Pushpa trafilava dalle pietre, una ritmica e bassa litania ipnotica, che si snodava come le perle di una collana. 

Qualcosa di caldo e soffice aderiva al suo corpo; frusciò mentre si sollevava appena su di lui.

“Padrone?”

Era la ragazza che era stata la favorita di Gamosh. 

Deyan contemplò quel volto cesellato che si stagliava contro il soffitto, alla luce discreta della lampada. La ragazza aveva lunghi capelli bianchi a boccoli, e i suoi grandi occhi rosei erano circondati da un alone di polvere d’oro. Il suo morbido corpo era trafitto di gioielli erotici, secondo il gusto di Gamosh che amava adornare così le sue schiave: gli piaceva provvedere personalmente. 

Ora non più, pensò Deyan accarezzando quella pelle di seta che adesso apparteneva a lui. E quante volte quel pensiero era stato come una spezia, con quella fanciulla: gli piaceva sentirsela accanto, deliziosa e tintinnante preda di quella guerra spietata tra principi rivali. 

“Questo canto ha svegliato il padrone?”

“Forse,” rispose lui.

“Il padrone ordini al barbaro di smettere.”

“No.”

“Il padrone vuole accoppiarsi?”

Deyan la guardò negli occhi avidi. Quella schiava non pensava ad altro, quando era con lui... ma che c’era di strano? Non aveva altro a cui pensare.

“Preparami.” 

Chiuse gli occhi, sentì l’onda dei suoi capelli profumati che si spargeva sul suo ventre. E l’inizio del piacere, acuito dal gioiello che lei aveva nella lingua, e che aveva imparato a usare con maestria. Era una sensazione molle e lussuriosa, e ci si abbandonò rilassandosi, cullato da quella calda voce dal tono ieratico, ondeggiante che trapelava nel silenzio. Pian piano i suoi sensi si staccarono dalla realtà, come quando si concedeva un pizzico di khal, quando la sofferenza che aveva dentro diventava troppo faticosa da sopportare... 

Il sole spezzato!

Trasalì di nuovo, scattando a sedere. Il movimento gli provocò una stilettata di dolore dal gomito alla spalla, che gli strappò un gemito: si serrò il braccio con quello sano, stringendo i denti. 

La ragazza si era interrotta e lo fissava, spaventata. 

“Quest’inutile schiava ha fatto male al padrone?!...”

Deyan non la guardava neanche. Fissava il vuoto, senza fiato. 

Il sole spezzato.

Ormai conosceva quella sensazione. Quell’invasione nella sua mente. Il cuore gli batteva così forte da sentirne la pulsazione sin nelle dita... 

Il sole spezzato.

“Padrone...”

“Aiutami a vestirmi,” le ordinò lui. “Svelta!”

La ragazza si precipitò a obbedire, balzando giù dal grande letto in un tremolio di bianche carni, per staccare dalla stanga i pantaloni e la tunica che vi erano stati disposti. Cercò di aiutare il suo padrone a indossarli, facendo passare con delicatezza il braccio slogato nella manica: la stoffa le si impigliò nei gioielli che portava dappertutto, e quasi scoppiò in lacrime dal terrore; Gamosh, per una goffaggine simile, l’avrebbe fatta mutilare...

Ma Deyan non la degnò di uno sguardo. Sopportò la vestizione con impazienza e uscì rapidamente dalla shanda. 

La voce tellurica di Pushpa lo guidava. Attraversò la casa dirigendosi verso la stanza sotterranea dove il t’yr aveva fatto portare il sarcofago. Aprì la porta e vide il saggio in ginocchio accanto al feretro, gli occhi semichiusi, le mani unite in grembo, che recitava la sua invocazione...

“Il sole spezzato!” esclamò.

Pushpa tacque e si girò a guardarlo, stupefatto. 

“Deyan-shir!”

“Il sole spezzato,” ripeté lui, entrando nella stanza. “La voce... quella visione... quella magia!”

“Magia?...” mormorò Pushpa, spalancando gli occhi. 

“L’ho sentita. Dentro di me. Sull’orlo di un sogno. Pushpa, in nome della mia dea, è così! Che cos’è il sole spezzato?”

Il saggio fissò il vuoto. 

“Sole spezzato... sole spezzato... Dito-Energia-Cerchio-Linea... “Trasalì. “Cerchio-Linea! È un simbolo della sequenza!”

Afferrò la lucerna, una manciata delle sue carte, e le scorse velocemente.

“Ecco!” Si precipitò accanto al feretro, sul lato. Fece scorrere le dita, finché non si interruppe. “Qui c’è un cerchio con una linea tracciata sopra... potrebbe essere il sole spezzato.” Ci passò il polpastrello. “E la superficie... è lievemente concava in questo punto!”

“Premila.”

Pushpa lo fece, più volte. “Non succede niente.” Ci avvicinò la lucerna. “Forse, con uno scalpello...”

Non ebbe il tempo di finire la frase: vide Deyan avanzare, le sua mano scattare in avanti, e il suo indice posarsi su quel simbolo. 

“Deyan-shir!” protestò.

Ma ammutolì. Perché un lievissimo, armonico suono si levò nell’aria... 

Clink.

Attorno al dito di Deyan si formò un alone luminoso e cangiante, e il feretro cominciò a vibrare. 

Pushpa arretrò e cadde seduto a terra, ancora reggendo la lucerna. 

“Kamoh, Lilia, pietà!” gridò, sbalordito.

Deyan staccò la mano, esitando. Il suono che emetteva il feretro era basso, un ronzio che pian piano si elevava. Il sole spezzato brillava come una piccola stella verde.

E poi, lentamente, altri simboli sul fianco del feretro cominciarono a illuminarsi... divennero bianchi, gialli, aranciati, rossi, azzurri. E a ogni simbolo che si accendeva, si levava una nota preternaturale, un suono che non apparteneva a nessuno strumento conosciuto, perentorio e dolce al tempo stesso. 

E il feretro continuava a vibrare, con un suono che ora era costante. 

Pushpa pregava i suoi dèi con voce quasi isterica, gli occhi dilatati. Come t’yr sapeva che esisteva la magia, ma vederla realizzata davanti a sé era un’esperienza assolutamente terrorizzante. Fissò il profilo di Deyan, illuminato da quella distesa di luci davanti a lui, per compartire con lui il suo terrore...

Sentì il sangue gelarsi nelle vene, comprendendo tutto.

No. No! 

Lasciò andare la lucerna, si rialzò, barcollando, e uscì da quella stanza. E quando si trovò nel freddo corridoio, si lasciò di nuovo scivolare a terra, mise la testa sulle ginocchia.

E pianse, in preda allo sconforto, alla rabbia e all’incredulità più estrema. 

Ma perché? Che vuol dire tutto questo? Com’è possibile?!

Non seppe nemmeno quanto tempo fosse passato, ma all’improvviso sentì una mano sulla spalla. Rialzò la testa e vide il volto intento di Deyan, chino davanti a lui. 

“Venerabile Pushpa, che ti succede?”

Il t’yr si terse le lacrime. “L’emozione... e la stanchezza.”

Il kelith sorrise appena, e fece per rialzarsi, ma Pushpa lo trattenne afferrandogli la tunica. 

“E la delusione,” aggiunse, con voce tremante.

“Delusione? Perché? Dovresti essere orgoglioso di te. Hai compiuto l’impresa più straordinaria che qualunque saggio potesse sognare... grazie alla tua sapienza, un antico sarcofago di più di mille cicli fa ha ripreso vita!”

“Ho creduto di poterlo aprire, Deyan-shir. E ho creduto di potermi fregiare di quel titolo del cartiglio... Liberatore! Ma non è così, non è così... io non ho fatto niente.” Si tirò una manata sulla fronte rasata. “Stupido io che non ho accettato la verità sin dall’inizio, che l’ho rifiutata in nome dei miei pregiudizi, perché pensavo di essere superiore, migliore, più santo, un sayanni per un altro sayanni, perché da Kelitha viene ogni male e perché la magia esiste solo per coloro che ci credono... mi chiami saggio?! Guardami! Sono un inutile imbecille!”

“Che intendi dire?”

“Non l’hai ancora capito, Deyan-shir? Non sono io, un sayanni, il Seriema destinato a liberare questo mio campione dall’inferno in cui è da più di un millennio. È il suo esatto contrario... Sei tu!”

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Jenna-shir, margravio del principato di Deera, scriveva di suo pugno il suo messaggio. Usava una carta sottile e un calamo d’argento, posizionando con regolarità i segni degli ideogrammi in codice, uno dopo l’altro. Aveva preso ogni precauzione contro le spie, e davanti a lui, in ginocchio, il corriere veloce di fiducia era già pronto: un campione dalla pelle scura, capace di far volare i corsieri del deserto e raggiungere la capitale di Deera in pochi giorni. 

Gli occhi pallidi di Jenna-shir si alzarono brevemente, per controllare di nuovo che nessuno potesse leggere ciò che scriveva. Poi intinse il calamo. 

Mio Principe, secondo gli ordini ricevuti sono arrivato a Shana per partecipare a nome tuo alla cerimonia solenne di commemorazione del defunto principe Unari-shir. La situazione qui è tranquilla: la transizione di potere è avvenuta senza scosse e non si intravedono cambiamenti alla situazione dinastica. Gamosh-shir è stabilmente sul trono, e ha iniziato un deciso rafforzamento del proprio esercito, finanziato con l’aumento delle tasse su tutti i beni essenziali del paese. Ha aumentato anche la pressione sui propri feudatari, che ormai devono passare alla Corona la metà delle loro entrate per il privilegio di entrare a corte. La repressione del crimine è totale e spietata, e i traffici ne stanno giovando, come testimoniano i prezzi di molte delle spezie sul mercato.  

Ma questa tregua potrebbe avere altre ragioni. Durante la cerimonia al tempio degli Dèi solari, Gamosh-shir ha tenuto un discorso molto lungo celebrando le doti di suo padre; ma prima di concludere ha dichiarato: 

“Unari-shir ha commesso molti errori nella sua vita, trascinato da oscure motivazioni e complotti, per cui prima o poi Shana presenterà il conto ai responsabili. E molte sono state le nobili vittime di tali macchinazioni, vittime che io ora intendo onorare, non potendo più riabilitare perché ormai morte nel corpo... o nella dignità.”

E con queste parole, ha fatto un gesto e una figura misteriosa ha fatto la sua apparizione sul sagrato del tempio. Era un albino, avvolto in una veste nera lunga fino ai piedi, e portava sul volto una maschera che lo celava interamente. A quest’uomo è stato concesso di avvicinarsi al tripode sacro per bruciare incenso, e spruzzare d’acqua sacra il cenotafio di Unari-shir. Poi, nel silenzio stupito di tutti, l’uomo si è ritirato ed è scomparso tra i meandri delle vie, indisturbato dalle guardie. 

Molti hanno chiesto a Gamosh-shir chi fosse quel personaggio misterioso, e il Principe ha risposto:

“Un uomo che ha pagato troppo caro per una colpa che non era solo sua. Potessi cambiare le leggi millenarie che regolano la nostra società, gli restituirei il posto che gli spetta di diritto. Ma per lui ora solo il buio dei templi può aprirsi: gli dèi non tremano di fronte alle ingiustizie degli uomini.”

Mio principe, ho sguinzagliato tutte le spie a mia disposizione, perché la voce corrente più comune su quel che è accaduto è che l’uomo mascherato altri non fosse che il terzogenito di Unari-shir, quel principe Deyan che fu degradato alla schiavitù perpetua per vendicare l’onore del principe di Itka. La sua condanna si rivelò presto un disastro sotto ogni punto di vista, e forse Gamosh-shir ha voluto rimediare in questo modo all’errore paterno, riconciliandosi con il fratello ormai irrimediabilmente disonorato; ed evitando almeno che quel giovane sventurato - che anche se schiavo, è come noi di Razza Sovrana, ed è quindi naturalmente diventato capo dei Predoni dal Nulla - si accanisse contro il suo paese per vendetta. 

Molti però dubitano di questa teoria, dato che l’armonia tra fratelli non è mai stata la regola per la corte di Shana; e ricordano che il principe diseredato ha offeso proprio Gamosh-shir rubandogli scettro e shanda, il che rende alquanto improbabile che i due possano respirare la stessa aria. Ma a questo punto le motivazioni di Gamosh-shir sarebbero piuttosto misteriose, per non dire inquietanti: perché mettere in piedi una sciarada come questa? E a chi si riferiva con “motivazioni e complotti”? Si mormora che abbia fatto dichiarazioni non proprio concilianti verso la politica dell’Augusto Consorzio. Non sappiamo se queste prese di posizione siano rivolte ai propri stessi feudatari per dare l’impressione di un monarca forte, o se nascondano aspirazioni più vaste. Shana, comunque sia, resta uno stato fondamentale nella politica di Kelitha. L’intero continente dipende da essa per più di un prodotto. Sono preoccupato, mio Signore, e il mio consiglio è estendere il sentimento a tutto l’Augusto Consorzio. Questo Gamosh-shir, da bravo cadetto diventato principe, rischia di essere troppo ambizioso. 

Jenna-shir ripose il calamo e attese che l’inchiostro asciugasse. Poi ripiegò la lettera e la infilò nel cilindro speciale, sigillandolo col proprio simbolo. Fece un gesto e il corriere si rialzò, avvicinandosi.

“Se ti intercettano, distruggilo. Morirai, ma se Gamosh-shir legge questo messaggio moriremo comunque tutti. Tu ci metterai solo più tempo.”

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Capitolo 8
*** Dove il passato e il presente si toccano ***


 

 

 

Pushpa aveva ormai la chiave per interpretare le istruzioni per l’apertura del feretro, e si era dato da fare come un uomo posseduto da un demone. I servi terrorizzati lo avevano aiutato a mettere il contenitore nella posizione corretta, ma solo perché Deyan l’aveva ordinato con tutta la sua autorità. Poi si erano rifiutati categoricamente di avvicinarsi a quella stanza sotterranea, e ascoltavano l’attività che vi si svolgeva dentro mormorando preghiere e scongiuri. 

I Marjaban naturalmente avevano saputo tutto, nel loro solito modo misterioso. Ma non si intromettevano: facevano soltanto sapere di essere curiosi a proposito di quella magia che loro ignoravano, e si erano offerti discretamente di ricomprare il feretro, una volta svuotato del suo contenuto, per poterlo studiare a proprio agio.

Ran era convinto che tutti quanti fossero impazziti: per quanto la magia fosse magia, e le luci fossero luci, e i rumori fossero rumori, non credeva assolutamente che dentro quel feretro ci fosse alcunché di vivo, e che valesse la pena di tutta quella fatica. Era riuscito a gettare un’occhiata al sarcofago semiaperto e tutto quel che aveva visto era stata una superficie immota di liquido gelatinoso, oscuro e repellente, dall’odore strano, sotto il quale era impossibile che esistesse qualcosa in grado di respirare. Avrebbero sicuramente tirato fuori una mummia, come ne aveva viste nella desolazione attorno all’abitato di Luna di Fuoco: antichi schiavi lasciati lì a essiccare, invece che a decomporsi. C’era solo da sperare che questa mummia fosse ampiamente dotata di ricchezze da saccheggiare: essendo di un celebrato Xarani, c’erano buone probabilità. 

A dir la verità, in quel momento Ran aveva ben altri pensieri per la testa che l'archeologia.

Su Luna di Fuoco ormai non si parlava che della Squadra Sacrilega: le sue imprese erano sussurrate e discusse dappertutto, con toni che passavano dall’ammirazione allo scandalo e anche allo sconcerto. Era come se il primo evento incredibile accaduto tempo prima su Kelitha (un erede al trono che violasse la shanda di un principe regnante) avesse misteriosamente scatenato una lunga catena di altri eventi incredibili: la schiavitù di un nobile kelith, il soccorso di un bandito sayanni, l’amicizia tra loro, la formazione della loro incredibile squadra mista, i colpi più audaci che nessuno avrebbe mai osato, le storie più clamorose della Comunità... qualcuno cominciava a trovare allarmante la ripetizione dell’aggettivo incredibile, e arrivava a rimpiangere i bei tempi andati, quando il massimo delle notizie era un colpo ben riuscito, una faida tra predoni, o un intrigo amoroso.

Ran era alquanto sensibile ai sentimenti della Comunità, che Deyan non si degnava neanche di considerare (cosa naturale, considerata la sua educazione principesca). E se da un lato si godeva quella popolarità a cui aveva sempre anelato, dall’altro percepiva le tensioni crescenti che lo circondavano: cercava in tutti i modi di stemperarle usando le risorse del suo carattere, scoprendo di cavarsela piuttosto bene in fatto di diplomazia. Ma sapeva che l’equilibrio non sarebbe durato per sempre...

E se ne rese conto una sera, accompagnando Deyan verso la Grande casa per ratificare l’assunzione di un altro predone. Per stanchezza o distrazione, si dimenticò di valutare con attenzione il percorso da fare per evitare certi punti di aggregazione della comunità sayanni: passarci con un notorio kelith albino al fianco (sia pure uno avvolto nel solito mantello con cappuccio, per celare la sua testa bianca) era pericoloso. 

E infatti, a un certo punto, si videro sbarrare il passo dai pezzi grossi della squadra di Saraji.

Era costui un vecchio bandito sayanni, carico di gioielli, dai lunghi favoriti grigi e un occhio di meno. I tatuaggi che aveva in faccia lo identificavano come membro della casta contadina, non guerriera, ma Ran non si faceva illusioni sulla sua pericolosità: era a capo di una delle maggiori squadre, e anche delle più famigerate per la spietatezza delle sue missioni. 

“Ran delle Montagne!” esclamò Saraji con allarmante giovialità. “Vieni in questa taverna, e bevi al mio tavolo. Vorrei scambiare qualche parola con un uomo famoso come te.”

“Ne sarei lieto,” rispose Ran, con un brivido nella schiena. “Quando torneremo dalla Grande Casa: i Marjaban ci attendono...”

“Lascia che attendano.”

“Non sono da solo.”

Saraji non girò neanche la testa per guardare verso Deyan, che d’altra parte ricambiava l’indifferenza nella sua consueta maniera principesca. 

“Le faccende di cui intendo parlarti riguardano gli uomini, non gli animali.”

La mente di Ran corse freneticamente a cercare una risposta adatta per evitare la trappola che minacciava di aprirsi davanti a loro...

Un po’ di sana spavalderia: non sono più un banditello alle prime armi!

Circondò affettuosamente il collo del vecchio predone col braccio nerboruto, come se fosse stato un vecchio amico: cosa che fece salire una smorfia sulla faccia dei suoi uomini.

“Celeberrimo,” gli disse in tono gioviale. “Apprezzo il tuo spirito da vero sayanni, ma vedi, quello...” e un cenno verso Deyan, “non è un animale.” Una strettina tra il cordiale e l’ammonitrice, e un sussurro all’orecchio. “È il mio... socio in affari, capisci?”

Saraji lo guardò sospettosamente. E poi fece un sorriso sardonico, annuendo.

“E gli affari sono affari, non è così? Capisco, fratello: se la metti così, può venire anche lui. I kelith qui non sono benvenuti, ma credo che il padrone non avrà niente da ridire se si siederà per un attimo al mio tavolo.”

Lo credo bene, pensò Ran vedendo la faccia terrorizzata del taverniere.

Si sedettero a un rustico tavolone, Ran di fianco a Saraji, Deyan di faccia, e tre truci guerrieri intorno. Erano del genere che incuteva timore anche a un gagliardo montanaro come Ran: uomini senza onore e senza patria, e senza più la rigida etica che poi era tutto ciò che separava un sayanni da una terribile bestia senza freni. 

Saraji fece portare vino e tazze, e Ran mostrò il rituale entusiasmo all’offerta, come un uomo che non aspettasse altro: anche se ogni sorsata gli scendeva nello stomaco come acido. 

“Dimmi, valente e generoso Saraji, di cosa volevi parlarmi?”

Il vecchio bandito prese un’espressione corrucciata. “Di quel colpo che avete fatto in un santuario sayanni.”

“Un innocuo esercizio,” disse Ran scrollando le spalle. “Abbiamo rubato solo un libro.”

“È sacrilegio rubare in un santuario.”

“Eh, sì.” Un altro sorso. “D’altra parte siamo la Squadra Sacrilega, no? Teniamo fede al nostro nome.” Un’occhiata educatamente perplessa. “Non ti facevo così pio, Saraji.”

Con la banda di sanguinari disonorati che ti tiri dietro...

“Siamo fuorilegge, ma ancora con la pelle azzurra. Io ritengo che tu abbia sbagliato: quello che hai rubato è un libro sacro.”

“E adesso è nelle mani di un t’yr. Un’aggiunta prestigiosa al nostro tempio qui su Luna di Fuoco. Placa la tua coscienza, niente è stato dissacrato.”

“Però hai permesso a questo... essere,” e Saraji fece una smorfia verso Deyan, “di penetrare in un nostro luogo santo!”

“Luogo santo?” La voce di Deyan si levò da sotto al cappuccio del suo mantello. “Secondo le vostre credenze, l’intero territorio di Sayanna è luogo santo.”

“Questo vuol dire soltanto che i vermi della tua razza non devono proprio metterci piede!”

“No, questo vuol dire che i tuoi scrupoli religiosi sono semplici pretesti. Tutti i beni di Sayanna sono intesi come proprietà delle vostre Divinità. Quindi chiunque commetta un furto sul vostro continente è un sacrilego per definizione... voi compresi.”

“Non siamo sacrileghi!” Saraji picchiò la mano sul tavolo. “Noi siamo il Popolo Azzurro, non degli stranieri!”

“Voi vendete il vostro Popolo Azzurro agli stranieri. I mercanti kelith sono i vostri clienti, e rivendono la merce nel mio paese dopo averla resa muta, affinché non riveli il segreto della sua cattura.”

Ran era impallidito: che cosa?!

La controaccusa di Deyan era tremenda, qualcosa che nella cultura sayanni superava di gran lunga ogni remora religiosa... un alone di silenzio li circondò all’improvviso. 

“Chi ti ha dato quest’informazione, kelith?” alitò Saraji. 

La risposta di Deyan fu solo un duro sorriso. 

Inaspettatamente, il vecchio predone si mise a ridacchiare. “Beh, il profitto è profitto... e non sarà certo uno come te a lamentarsi dello schiavismo, non è vero?”

“So come si fa a togliere la membrana a un sayanni, se è questo che intendi dire.”

Ran strabuzzò gli occhi, a quell’indecente spavalderia. 

Deyan-shir!

Saraji si mise a fissare il kelith con un sorriso a denti stretti, che non prometteva niente di buono. 

“Noto che non stai bevendo: forse il mio vino non ti piace?”

“Io bevo solo con gli uomini, non con gli animali.”

E a quella ritorsione del primitivo insulto, Ran si mise una mano sulla faccia.

Accidenti, qui si mette male.

Una specie di gigante azzurro si sedette a cavalcioni della panca di Deyan: un mostro col naso rincagnato, ornato da una collana di frammenti di cuoio che, a una seconda occhiata, rivelavano di essere orecchie umane seccate. 

“Dunque tu bevi solo con gli uomini, eh?... Bene: allunga la mano, ciglia bianche, e sentirai di persona che io sono abbastanza uomo per uno come te.”

Ran ci mise qualche istante per realizzare il senso della battuta... e si sentì sprofondare, mentre alcuni della banda si mettevano a sogghignare.

E questi sarebbero sayanni?! 

Deyan non si scompose, gettò un’occhiata indagatrice sul gigante di fianco a lui. 

“Un sayanni pederasta? Che novità.”

“A me va bene tutto, basta che respiri.” Una risata oscena. “O anche no!” 

Anche i morti?! 

Il guerriero posò maliziosamente la grossa mano sul petto di Deyan. “Dicono che quelli della tua razza siano maestri di ogni perversione... mi sarebbe piaciuto averti come schiavo, bel ragazzo: ti avrei insegnato qualcosa anch’io.”

Era veramente troppo per la capacità di sopportazione di un onorato sayanni: Ran picchiò entrambe le mani sul tavolo, facendo per alzarsi.

“Ora basta, razza di animale! Giù le mani...”  

Saraji gli mise una mano sulla spalla, tenendolo giù a forza. “Non ti riguarda, fratello.” 

Osservava la scena con un sorrisetto divertito, avido di vedere come avrebbe reagito quell’altezzoso nobile kelith a una simile provocazione. 

Deyan si guardò intorno, quindi fissò il gigante, freddamente. 

“Immagino che sia inutile dirti di non toccarmi... quindi farò come mi hai proposto.”

La sua mano si mosse sotto al tavolo, e il gigante trasalì, sorpreso. Fece una specie di oooh, quindi la sua bocca si distese in una smorfia incredula. 

“Niente male,” commentò Deyan, guardandolo negli occhi.

Ran era allibito, come tutti quanti del resto. Era l’ultima cosa che si sarebbero aspettati. Persino un criminale incallito e certamente non illibato come Saraji era rimasto scandalizzato.

“Non qui!” esclamò, con gli occhi fuori dalle orbite. “Di tutte le indecenze...”

Un brusco movimento, una sorta di schiocco, e il gigante lanciò un urlo tonante, schizzando via dalla panca. Cadde in ginocchio, con le mani strette all’inguine, ruggendo come una bestia. 

Deyan ripose la mano sotto al mantello, con indifferenza.

“Che gli hai fatto?!” gli chiese Ran, senza fiato.

Un’occhiata fuggevole. “Preferisco non dirtelo: tu sei ancora vergine.” 

Il guerriero a terra si rotolava dal dolore, i compagni che cercavano di soccorrerlo senza sapere come fare. Alla fine lo sollevarono di peso per portarlo di corsa da un cerusico. 

“Testabianca depravato!” sibilò Saraji all’indirizzo di Deyan. 

“E mi avete sfidato proprio sulla depravazione?” Un’alzata di bianche sopracciglia. “Sceglietevi meglio i vostri nemici.”

“Se soltanto non sedessi alla mia tavola...”

“Cosa faresti, sayanni?”

Saraji divenne violaceo in faccia. “Ti ucciderei, da quel cane infetto che sei!”

“E i Marjaban chiuderebbero per sempre il Vortice per te e la tua squadra!” esclamò Ran, precipitosamente. “Stai calmo, Saraji. Conosci il Codice che vige tra noi capopredoni: finché siamo su questo mondo non dobbiamo combatterci tra di noi se non attraverso una formale sfida, informando la Grande Casa come arbitro.”

Saraji era furibondo. “Allora è la volta buona che sfiderò te, Ran delle Montagne!” 

“Non puoi fare neanche questo!” Ran si alzò, mostrando la sua tazza a tutta la taverna. “Mi hai invitato tu al tuo tavolo e ho bevuto con te, tutti sono testimoni di questo! Non ti ho offeso in alcun modo, e mi sono comportato in tutto e per tutto secondo il nostro costume. Non è così?!”

Tutti si guardarono, annuendo. 

Saraji respirava affannosamente... e poi, a fatica, si calmò. “Già, hai ragione. Non posso sfidarti, non ho niente contro di te.”

Ran tirò un segreto sospiro di sollievo...

“Se è questo il tuo problema, sayanni, ti vengo incontro io.”

Deyan estrasse il suo pugnale, e prima che chiunque potesse reagire lo piantò sul tavolo, davanti a Saraji.

E così avvenne l’ennesimo evento incredibile di Luna di Fuoco.

 





 

 

 

“Per tutti gli dèi, nati, vivi, morti e ancora da nascere...” imprecava Ran senza ritegno, in casa di Deyan, coi servi agghiacciati che stavano appiattati ai muri.

Fece il giro della stanza, resistendo a stento alla voglia di prendere a calci tutto quel che incontrava; per poi fermarsi davanti al suo socio, che non sembrava per nulla agitato.

“Ti rendi conto di quel che hai fatto, pazzo che non sei altro?! Tu, un kelith, anzi peggio, un albino, hai sfidato Saraji, uno dei maggiori capi sayanni di Luna di Fuoco!” Gli mise un indice davanti al naso. “Maledizione, eppure ti avevo detto di...”

“...di non sfidare mai un sayanni se prima non ti avessi battuto,” completò Deyan. “E io te l’avevo promesso. Poi hai pensato bene di darmi l’opportunità di sconfiggerti.” 

Ran ammutolì, con la faccia violacea. 

Quella sfida tra me e lui?!

“Ma... ma...”

Gli occhi rossi lo studiavano da sotto in su. “Adesso capisci perché ero disposto a tutto pur di riuscire a batterti... anche a sacrificare un braccio, con una mossa che è stata piuttosto dolorosa: ma ho pensato che ne valesse la pena. È vero, la nostra squadra ci ha proclamato vincitori entrambi, ma sappiamo bene chi di noi due sarebbe sopravvissuto, se avessimo continuato il duello...”

“Rifiuto questa tua interpretazione!” tuonò lui. “Se avessi fatto sul serio, tu non avresti potuto nemmeno tentare quella mossa, perché ti avrei spezzato il collo invece di cercare di immobilizzarti!”

“Probabile,” fece Deyan, imperturbabile. “Però resta il fatto che non mi hai vinto, e alla fine quello di noi due in grado di stare in piedi sono stato io. Quindi ritengo di aver tenuto fede alla mia promessa.”

Ran emise un gemito. Ha ragione... stupido io che ho creduto di incastrarlo così!

“Dovevano strozzarti nella culla appena nato,” mormorò, lasciandosi cadere su un cuscino. 

Deyan gli elargì un’occhiata tutta kelith. “Un predone deve saper cogliere le occasioni, questo me l’hai insegnato tu.”

“Cogline un’altra, allora, e trova il modo di ritirare la sfida!”

“Lo sai anche tu che è impossibile.”

Ran sospirò. 

“Già, è impossibile.” Si passò una mano tra le trecce. “Ormai è tardi. Hai dato un magnifico pretesto a Saraji per sbarazzarsi di noi: figuriamoci se quel figlio di disonorata non è corso a gambe levate alla Grande Casa per ratificare la contesa, presentando uno stuolo di testimoni! Così adesso le tue eventuali pubbliche scuse...” Intercettò lo sguardo sdegnato di Deyan, “...che naturalmente tu non faresti mai neanche sotto tortura, ci mancherebbe... dovrebbero seguire la stessa procedura; e Saraji non è tenuto ad accettarle! E poi perché dovrebbe? Non sarà certo lui a combattere contro di te, è un contadino ed è pure vecchio: manderà uno dei suoi campioni, qualcuna delle bestie amorevoli di cui hai già fatto conoscenza... si aspetta una facile vittoria, e spero che tu non sia così sciocco e vanaglorioso da pensare che duellare con quelli là sia la stessa cosa che scambiare un paio di pugni con me!”

Deyan abbassò lo sguardo. 

“Lo hai pensato?!” urlò Ran. 

“No. Non sono un irresponsabile.”

“E allora?!”

“Ho pensato che ci serve la ricchezza di Sayanna per diventare una Grande Squadra.”

“Oh, ancora quella storia!”

“Sì, quella storia.” Deyan si accomodò di fronte a lui, sistemando la tunica con un gesto elegante. “Quand’è che avrai il coraggio delle tue ambizioni, Ran?”

Il sayanni si irrigidì.

“Non avrai in mente di... scegliere me come tuo campione, a battermi al tuo posto!”

“Forse questo ti farebbe sentire più tranquillo. Sayanni contro sayanni: e tu sei un uomo molto forte, un vero guerriero.”

“A differenza di te, io so con chi andrei a battermi!” Scosse la testa. “No, Deyan-shir: non mettermi sotto questa pressione. Non costringermi a fare questa scelta!”

“Non ti chiedo di farla,” disse Deyan, e schioccò le dita: un servo portò un vassoio con del vino speziato. “Ma valuta la situazione, e comprendi che questo è un passo necessario se vogliamo tentare di raggiungere il titolo di Khanshir. La nostra squadra sta crescendo, ma solo nell’elemento kelith che vede in me il mantenimento delle sue tradizioni. E Saraji ha detto una verità: noi siamo stranieri in Sayanna. Ci occorrono predoni sayanni, esperti di quel territorio. Se vinceremo Saraji dovrà lasciarci tutti i suoi uomini migliori: sarai tu a selezionarli.”

“E se invece perdiamo?” Ran lo guardò, disperato. “Ti sei fatto questa domanda, eh? Lo sai che perdiamo tutto... e uno di noi due anche la vita?”

Ma quando mai a te è interessato qualcosa della tua vita...

“E accadrà il contrario: i nostri dovranno passare agli ordini di Saraji, che naturalmente rifiuterà tutti i kelith cacciandoli dalla sua squadra! Comunque vada, per me sarà un disastro: se combatterò al tuo posto molto probabilmente morirò, perché conosco i miei limiti contro certi avversari; se non lo farò, morirai tu e io resterò solo, senza un soldo, a ripartire con un branco di pellebianca demoralizzati che mi manderanno subito al diavolo, perché non faccio parte della loro razza...”

Scosse la testa, con una smorfia di dolore sul viso.

E finirò quest’avventura così come l’ho cominciata: a capo di niente, e con un piede sul palco degli schiavi. Ma stavolta ci cadrò dall’alto... e farà molto più male!

“Fatti coraggio, amico mio,” gli disse Deyan con gentilezza. “E non disperarti prima del tempo. Sei un giocatore d’azzardo, ti è già successo di giocarti il tutto per tutto nella tua vita.” Prese dal vassoio la coppa di vino, e gliela porse. “E quella volta... hai trovato me.”

Ran la guardò torvamente, con le mascelle contratte.

“Sì, ho trovato te. E non ho ancora capito se è stata una fortuna... o una disgrazia!”

E senza accettare quell’offerta, si alzò bruscamente e ne andò, sbattendosi la porta alle spalle. 

 

 




 

 

*






 

 

Le strade della capitale di Shana fervevano di attività, ma queste si fermarono pian piano sul percorso di una portantina dai teli neri, trasportata da schiavi nerboruti e scortata dai soldati. Tutti ammutolivano, i poveri si inginocchiavano e pregavano, i mercanti cessavano i traffici, e qualcuno stringeva gli amuleti degli dèi solari facendo gesti di scongiuro.

Gamosh poteva sentire quella progressione di silenzio, dalla finestra traforata del suo palazzo. 

Dunque è arrivato... non ha avuto il coraggio di sfidarmi apertamente.

Prese posto sul suo trono, contemplando le teste chine di tutti i presenti. Quindi fece un gesto, e i cortigiani ripresero le loro attività; i musici ricominciarono a suonare, e i servi portarono vassoi di assaggi rari  e brocche di finissimi vini. 

Gamosh attese, con pazienza, sgranocchiando delicatezze e osservando la perizia di un giocoliere itinerante, che intratteneva la corte con i miracoli della propria arte. Gli piaceva l’idea di riposarsi intanto che il vecchio sacerdote era costretto a camminare per raggiungere la sala del trono... del resto doveva pur vendicarsi dell’umiliazione di averlo dovuto chiamare.

Per far questo aveva dovuto seguire la tradizione, andare di notte alla tomba del padre, tracciare con il gesso una mezzaluna orizzontale sul nero granito del monumento, e mormorare il nome dell’antica dea. Avrebbe preferito mandare i soldati a prelevare quel vecchio portandoglielo con una picca puntata nella schiena, ma sarebbe stato un sacrilegio... e i soldati stessi avrebbero avuto paura di obbedire. 

Prima di quanto si aspettasse, il ciambellano venne ad annunciargli che il Gran Sacerdote del Tempio Segreto della Divina El chiedeva udienza. 

Finalmente. Gamosh fece cenno e le porte si aprirono. 

Tutti tacquero e si ritirarono lungo le pareti, mentre una imponente figura nerovestita faceva il suo solenne e silenzioso ingresso. 

Gamosh restò sorpreso: Krsyl, come molti adepti della Misteriosa, era invecchiato straordinariamente bene: il suo corpo era ancora dritto e forte, la mano che teneva il bastone col teschio era salda e nodosa, e l’aspetto sembrava quasi lo stesso di quando era venuto a palazzo tanti cicli prima.

Solo da vicino il principe notò le rughe che adesso attraversavano quel volto scuro, quasi consumato da una vita nel deserto. Il cranio era calvo e lucido come lo era sempre stato, e le sopracciglia erano assenti: sotto il loro arco prominente brillavano occhi chiarissimi, quasi violacei.

Sangue nobile nelle sue vene?

Krsyl si fermò ai prescritti dieci passi dal trono, ma non si inginocchiò. Fin dall’inizio dei tempi i sacerdoti di El avevano quel privilegio: rappresentavano un’autorità maggiore di quella dei principi terreni, che si sarebbero susseguiti mentre la Dea sarebbe esistita per sempre. 

“Salute a te, Shana-iban-Unari Gamosh-shir, principe di Shana,” esordì il sacerdote, con la voce profonda dell’uomo di potere. “La Dea ha sentito la tua chiamata.”

Le tue spie l’hanno sentita, pensò Gamosh. 

“Voglio interrogarti sui misteri dell’oscurità, venerabile Krsyl.” 

Era la formula tradizionale, e il sacerdote rispose allo stesso modo.

“Sarò i tuoi occhi in questo buio, mio principe.”

Gamosh si alzò dal trono. Tutti si inchinarono nuovamente, ma lui non degnò la corte di un’occhiata: fece un gesto di invito al sacerdote, quindi si mosse verso l’uscita. Krsyl lo seguì, in un fruscio delle sue oscure vesti. 

Percorsero i magnifici corridoi del palazzo, in silenzio. Chiunque incontrassero si buttava in ginocchio, nascondendo la faccia tra le braccia: e se il corpulento principe incuteva timore, la nera figura che lo seguiva era addirittura terrorizzante. 

Ma ancor più era la direzione che Gamosh stava prendendo: Krsyl la riconobbe senza fatica. Il principe si stava dirigendo verso la Casa del Dolore. 

Voglio interrogarti sui misteri dell’oscurità...

Un duro sorriso salì alle labbra del vecchio sacerdote. Cos’era, un tentativo per intimidirlo? Ci voleva ben altro, per impressionare un uomo che aveva dedicato la vita intera alla divina El. 

Varcarono i cancelli, penetrando in un edificio mortalmente silenzioso. Le guardie si fermarono all’ingresso, lasciandoli completamente soli: Krsyl se ne stupì. 

Il principe entrò in una sala di tortura ben illuminata, dove era stato approntato un ricco divano per chi volesse assistere allo spettacolo: vi si accomodò con la stessa posizione che assumeva sul trono. Il sacerdote restò in piedi, accanto a un tripode per la fustigazione, e attese.

“Venerabile Krsyl, non rimpiangi mai il passato?”

La voce di Gamosh rimbalzò sulle solide pareti di pietra.

“Quale passato, mio principe? Recente o remoto?”

“Quando questo paese era sede di un potente impero. E quando di divinità ne avevamo di meno, ma molto più autentiche...”

“Tutte le divinità non sono che aspetti dell’Unica,” replicò Krsyl, in tono tranquillo. “Ma non si può pretendere che il volgo arrivi a percepire l’unità del tutto, la luce dal suo contrario, la vita... dalla morte.”

Gamosh inarcò le sopracciglia.

Parliamo della morte, dunque.

“Perché la tua dea ha dato ascolto alla maledizione di un sacrilego?”

Krsyl si aspettava quella domanda, fece un sorriso enigmatico. 

“La dea ha le sue preferenze: forse un sacrilego può esserle più caro di altri uomini. Le azioni della Misteriosa hanno sempre una logica, anche se sfugge a noi semplici tramiti mortali. Il risultato di quella maledizione... è che Shana ora ha un principe forte sul trono.”

“Osi dire che mio padre non lo fosse?”

“Unari-shir è stato un sovrano di grande dignità, splendido e glorioso.”

Ma non forte. 

“E tu, nobile Gamosh-shir, ne sei il degno erede,” completò Krsyl, con un tono di lode che sembrava quasi ironico.

“Io, e non gli eredi che mi hanno preceduto?”

“Così ha voluto la dea.”

Ah, così ha voluto la vostra dea, eh?

Gamosh cambiò posizione, con un sorriso sardonico in volto.

“Perché mio padre ha fatto quel che ha fatto a mio fratello Deyan?”

Krsyl lo fissò, inarcando le sopracciglia. “Perché era colpevole.”

“Poteva metterlo a morte. Poteva esiliarlo. Poteva imprigionarlo. Chi gli ha suggerito invece quella condanna mai emessa prima contro un albino?”

“Il tuo onorevole padre non ha ascoltato alcun suggerimento, ha agito di sua iniziativa. Era suo diritto disporre di Deyan-shir...”

“Deyan. È uno schiavo. Per tutta la vita. Così è riuscito a sopravvivere... ma ovviamente, per lui non c’è più alcuna possibilità di salire al trono secondo le regole del nostro Augusto Consorzio. Il suo disonore è irrimediabile.” Gamosh si sporse in avanti. “Ed è questo che mi dà da pensare, venerabile Krsyl. A chi poteva convenire che Deyan si salvasse... a questo prezzo?”

Krsyl fece un lieve sorriso. “A te, mio principe.”

“No,” ribatté Gamosh scuotendo la testa. “Io avevo già ciò di cui avevo bisogno: lo scandalo di Itka era già stato più che sufficiente ad aprirmi la strada verso il trono. E se avessi avuto l’orecchio di mio padre, gli avrei detto di risolvere il problema di Deyan nel modo più radicale... un laccio di seta. Non avrei lasciato in vita un erede con un diritto maggiore del mio!”

“E quindi, mio principe?”

“Quindi io penso piuttosto a qualcuno... che abbia voluto infliggere un’atroce punizione a mio fratello per averlo deluso, mancando al compito per cui era stato così attentamente allevato.”

Krsyl smise di sorridere.

“E naturalmente non mi sto riferendo a mio padre,” continuò Gamosh. “Il quale del resto ha svolto egregiamente il suo ruolo di vittima sacrificale, a maggior gloria della vostra Dea.”

“Tuo fratello è un iniziato!” ribatté il sacerdote. “Metti in dubbio la legittimità della sua maledizione?”

“Vi aspettavate che la lanciasse, con quella sentenza; e vi ha dato un magnifico pretesto per eliminare un principe sul quale non potevate più fare affidamento.” 

La mano di Krsyl strinse il suo bastone. 

“Non hai prove contro di noi, mio principe.”

“No... per ora.” Un’occhiata allusiva agli strumenti di tortura intorno. “Ma potrei trovarne... o crearne. Sto riabilitando la figura di mio fratello...”

“Solo la figura.” Un sorriso tagliente. “L’uomo mascherato di cui parla tutta Shana non è lui.”

“E come fai a saperlo?” sogghignò Gamosh. “Forse perché accogli ancora quello vero nel vostro tempio, quando non resiste più al richiamo della vostra Misteriosa?”

Krsyl tacque. Non poteva ammettere un tradimento, ma era evidente che Gamosh avesse scoperto qualcosa. E questo avrebbe messo a repentaglio il Tempio Segreto. Per la prima volta il sacerdote si trovò a valutare l’idea di uccidere il principe lì dove si trovava: niente, nemmeno la prospettiva della propria morte, avrebbe potuto impedirglielo... se non la consapevolezza di provocare conseguenze pesantissime sul futuro. 

Gamosh forse indovinò quei pensieri, perché il suo sorriso divenne quasi di sfida. 

“Attento a ciò che fai, venerabile Krsyl. E attento anche a ciò che dici. Per il popolo, quello è il mio povero fratello, vittima degli intrighi dei nemici di Shana; e se dichiarassi che proprio voi adoratori di El l’avete tradito... credo che il vostro discredito sarebbe totale.”

Krsyl ebbe un’espressione di scorno. “Una maldicenza in più sulla nostra religione, che differenza fa? Nessuno è mai riuscito a sradicare del tutto la Divina dal cuore di Kelitha.”

Gamosh si alzò dal divano, avvicinandosi a lui.

“Non vuoi dunque ammettere di essere stato proprio tu, Gran Sacerdote di El, a convincere mio padre a far marchiare Deyan come schiavo?” 

La faccia di Krsyl era una maschera di granito. 

“Suvvia, venerabile. Sin dai tempi dell’Impero voi adoratori di El avete tramato nell’ombra, in nome dei vostri misteriosi ideali. Non potevate gettar via un membro della casa reale su cui avevate investito così tanto: anche da fuorilegge, un nobile di antico lignaggio e senza più legami... tranne che quello col vostro tempio... può sempre essere un’arma devastante per gli equilibri di Kelitha; non è così?”

Krsyl non rispose, ma i suoi occhi si piantarono in quelli del principe. 

“Anche se Deyan fosse arrivato nelle oasi meridionali, non gli avreste mai permesso di morirvi: c‘erano già i vostri accoliti segreti laggiù, pronti a liberarlo e a nasconderlo. Avete rischiato di perderlo perché l’ambasciatore di Itka aveva preteso comunque la vendetta, ma per vostra fortuna c’ero io, in quella piazza, a ordinare ai carnefici di frustarlo con attenzione, in modo da non ucciderlo...”

Sì, perché non volevo che lo spettacolo finisse troppo presto!

Krsyl fece un sorriso obliquo. 

“Vedi dunque il potere della nostra Dea, mio principe? Anche tu sei stato un suo strumento, affiché si compissero i suoi desideri.”

Gamosh fece una smorfia sardonica. 

“E la tua dea dovrebbe essermene molto grata, non trovi?”

“Eri un cadetto e ora sei un potente regnante. Ogni tuo desiderio è un ordine per tutti i tuoi sudditi. I tuoi forzieri sono colmi d’oro. Cosa puoi volere più dei doni che lei ti ha già concesso?”

Gamosh accarezzò una sferza appesa al tripode.

“Cosa voglio lo sai, venerabile Krsyl.”

 

 

 



 

*






 

 

Nella quieta luce dell’alba, Deyan completò la sua preghiera. 

E poi si mise in guardia.

Nel cortile della sua casa, ogni giorno, si sottoponeva all’antica disciplina per mantenere corpo e mente allenati. Il suo corpo elastico e sudato eseguiva tutta la sequenza rituale a cui era stato abituato fin dall’infanzia. E c’era quasi un piacere sensuale nel distacco dal mondo, ottenuto tramite la precisione di un gesto, l’abilità a nascondere uno sforzo. Tutto poteva essere dimenticato, anche quel marchio sulla faccia, e il fatto che la terra sotto ai suoi piedi fosse quella di un mondo che non era il suo. 

E non è mio neanche il domani...

Ran non era più tornato, e non si faceva più trovare da nessuna parte. Deyan non aveva voluto indagare, riteneva quel silenzio una risposta sufficiente. E in un certo senso lo consolava: era meglio così, non era stato giusto proporgli di battersi come campione in una sfida che non aveva cercato. 

Combatterò io per il tuo sogno, Ran. Come tu hai combattuto per il mio. 

Il braccio slogato era quasi andato a posto, ma lo mise alla prova con una serie di esercizi di durezza crescente. E alla fine tentò una serie di balzi acrobatici, ma il gomito gli cedette e cadde a terra in malo modo. Saal, l’unico autorizzato essere presente, trasalì e fece per avanzare; ma si trattenne. Però dalla grata in alto si udirono singulti di spavento, e sussurri.

Deyan si alzò da terra, gettando un’occhiata irosa alla finestra. 

“Avevo detto alle schiave di non spiarmi.”

Saal sospirò. Da qualche tempo il padrone preferiva dormire da solo, e alle sue schiave non era rimasto che guardarlo dalla finestra mentre si esercitava. Solo che lo spettacolo le eccitava e le rendeva nervose, e Ibal aveva il suo bel daffare per mantenere l’ordine nella shanda.

“Vogliono tutte diventare la sua Prima tra le Prime,” si lamentava l’eunuco. “Ma il padrone non ne ha mai scelta una e non sembra intenzionato a farlo. Ormai sono giorni interi che nessuna di loro giace con lui, e questo non è bene: le ragazze diventano indisciplinate, disubbidienti, litigano tra di loro, si accoppiano anche tra di loro, mi tocca tenere sottochiave gli strumenti del piacere...” 

Saal non poteva che compiangere il povero Ibal, e congratularsi per la sua fortuna di non aver a che fare con quelle stupide femmine.

“Questo servo le farà punire, padrone.”

Ma Deyan già sembrava non ascoltarlo più. Il distacco della sua Dea riempiva di nuovo i suoi occhi, in una sorta di trance. 

Saal contemplò assorto la grazia dei suoi esercizi, e ripensò al proprio destino: assegnato come maggiordomo a quel principe fin dalla sua nascita, secondo la tradizione della sua famiglia da sempre legata al servizio della casa reale. Aveva sperato che fosse un compito tranquillo e prestigioso: i suoi colleghi gli raccontavano solo storie di feste e divertimenti sfrenati, l’occupazione principale di gran parte della classe nobile di Kelitha. Ma non era stato così con Deyan: per educazione e indole la sua vita era stata molto diversa, e sicuramente più impegnativa; e Saal si era adattato a vivere in quel mondo enucleato dal mondo, solenne e antico, fatto di equilibri e misura, silenzi e grazia, prove difficili e misteri. Ne era stato nobilitato, in un età che diventava sempre più volgare, e questo l’aveva riempito di segreto orgoglio. Aveva finito per affezionarsi profondamente a quel padrone così difficile: un cuore chiuso come un giardino segreto, ma altrettanto rigoglioso. E quando l’aveva perduto aveva pianto tutte le lacrime che avesse, come se gli avessero ucciso un figlio. 

Gli era toccato il compito crudele di sovrintendere allo smantellamento di tutto il suo quartiere, come se fosse morto senza una tomba. Il suo nome cancellato da ogni iscrizione. Ogni suo bene confiscato o distrutto. Servi e schiave regalati a quel crudele arrivista di Gamosh: e anche Saal stesso era diventato parte di quell’odiosa eredità. 

Ma poi Deyan era tornato dall’oblio in cui l’avevano cacciato; Saal ricordava ancora la sua emozione a rivederselo davanti travestito da Prima tra le Prime, nella beffa clamorosa consumata ai danni del fratello. L’aveva aiutato di tutto cuore a compiere quell’impresa, e poi gli si era buttato ai piedi chiedendogli di ridare uno scopo alla sua vita. E Deyan aveva acconsentito. 

Ora Saal era il più sereno tra gli uomini in cielo e in terra: aveva ancora il suo posto nella vita. E se il suo padrone avesse perduto quel fatidico duello per il quale si preparava, aveva già sistemato i propri affari: una fiala di veleno, e l’avrebbe seguito anche nell’aldilà senza rimpianti. Con eleganza, misura e silenzio, come era stata la sua intera vita, così come stabilito dagli dèi. 

Guarda, Mastro Ran: così ci si comporta con un vero principe, da persone civili.

I movimenti di Deyan si interruppero bruscamente: una grande figura azzurra era uscita nel cortile. Saal vide con scandalo che si trattava di Pushpa, senza veste, e solo con un paio di brache di pelle macchiate addosso. 

Come osa presentarsi al mio padrone in questo modo?!

Ma il venerabile t’yr non era in vena di formalità: si passò una mano sporca di liquido gelatinoso sulla fronte e mormorò con aria stanca:

“Deyan-shir... è fatta. È fuori, e respira.”

 







 

 

 

“Poca luce, e niente rumori forti,” raccomandò Pushpa, avvicinandosi alla stanza sotterranea da cui usciva un fortissimo odore di aceto. “Ho coperto i suoi occhi, ad ogni modo. Abbiamo a che fare con un corpo che è rimasto al buio e immobile per più di mille cicli di soli, è debolissimo. Ci vorrà qualche tempo perché i muscoli riprendano tono, ma tutto sembra funzionare bene.”

“Come ha fatto a respirare?”

“Non ha respirato. Quel liquido magico era nei polmoni, in tutti i suoi organi, finché il feretro non ha fatto in modo che il suo corpo lo espellesse. Ha cominciato a... uscire da ogni orifizio: non è stato un bello spettacolo. Temevo che soffocasse e quindi... l’ho tirato fuori.”

“Da solo?”

“Questo vecchio t’yr è pur sempre un sayanni.” 

In effetti l’età e l’attività intellettuale non toglievano nulla alla prestanza fisica di Pushpa, normalmente celata dalla sua lunga veste. Deyan vide abbandonato a terra quell’indumento, completamente inzuppato da quel liquido gelatinoso: e capì perché Pushpa se l’era tolto.  

Il t’yr accese una lucerna smorzata e aprì la porta, con cautela.

La prima cosa che Deyan vide fu il feretro: era di nuovo chiuso, e ogni luce era spenta. Ci si avvicinò, toccandolo con la mano: ma stavolta non sentì più nulla da esso. 

“Si è richiuso da solo,” mormorò Pushpa. “In qualche modo, ha sentito di aver concluso la sua missione.”

Di fianco ad esso, in mezzo a una pozza di quel liquido misterioso, giaceva una figura scintillante.

Si avvicinarono, e il cerchio di luce della lampada illuminò un guerriero antico, dall’aspetto nobile, con le spalle coperte da quello che era stato evidentemente un mantello di piume, e che ora era intriso e appiccicoso. Il corpo era rivestito da un’incredibile armatura fatta di centinaia di minuscole tessere quadrate, di metallo brillante, ogni pezzo finemente cesellato con simboli misteriosi. Le mani guantate erano incrociate strettamente sul petto, una stretta sul manico di un pugnale e l’altra sull’elsa di una splendida spada corta, a doppio filo. L’armatura scendeva in gambali che si univano a calzari intrecciati dalla punta sollevata. La testa del guerriero era coperta da un elmo simile all’armatura, fatto a tessere quadrate, da cui fuoriuscivano trecce nere di capelli bagnati; un panno era stato posato sulla parte superiore del volto azzurro smunto e senza barba, e solo la bocca dagli angoli feriti era semiaperta.

E respirava. 

“Naysiak degli Huanai,” mormorò Pushpa, con stanco orgoglio.

Deyan si inginocchiò al suo fianco, stupefatto.

Un principe tra la sua razza, come io lo sono tra la mia.

C’era una solenne dignità in quel corpo luccicante, una maestà che Deyan non aveva mai immaginato di percepire in un sayanni. Non era un gigante, ma emanava lo stesso un’aura di potenza. Era qualcosa di remoto, un essere proveniente da un tempo che non esisteva più, una civiltà più giovane. E non per questo più barbarica di quella attuale: quell’armatura era di una bellezza da strappare il fiato. Forse Sayanna aveva smarrito qualcosa, nei più di mille cicli che erano trascorsi dalla nascita di quel suo misterioso guerriero.

“Ora serve il mio addestramento alla medicina,” sussurrò il t’yr. “Ti chiedo un’altra stanza dove occuparmi del mio fardello: questa dove è avvenuta la... seconda nascita è da ripulire. Mi occorre un luogo caldo ed estremamente tranquillo, olii essenziali, erbe toniche, e secondo le istruzioni mi serve del cibo particolare, specialmente del miele.”

“Da' la lista di tutto quel che ti serve a Saal.” 

“Gli dèi solo sanno come ci si deve sentire, dopo una reclusione cosciente di più di un millennio. Un essere ordinario sarebbe impazzito, ma uno Xarani... potrebbe avere risorse precluse a chiunque altro. Il mantello di piume è azzurro e questo indica poteri sciamanici: il contatto con il mondo magico che secondo la nostra cultura è parallelo al nostro. Forse in passato quest’educazione era molto più importante di adesso, perché nella simbologia attuale dei Guerrieri della Cometa c’è solo l’aspetto marziale. Kamoh e Lilia mi aiutino! Spero così tanto che possa parlare... raccontarmi gli eventi di quei tempi antichi!”

“Potrà anche combattere?”

“Se ti riconoscerà come suo Seriema, sì. E sarà formidabile. Dice una cronaca che una volta una flotta delle vostre navi attaccò la nostra Città Rossa, sulla costa occidentale. I kelith provarono a invaderla, ma trovarono ad attenderli tre Guerrieri della Cometa, mandati lì dalle Divinità.” Una pausa. “Nessun kelith sopravvisse per raccontarlo.”

Deyan guardò quella luccicante figura. 

“Fai presto a svegliarlo, allora. Forse il destino mi ha fatto trovare il mio campione.”

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Dove gli opposti si incontrano, e si scontrano. ***







 

Deyan aveva negoziato con i Marjaban per spingere il più avanti possibile la data del duello contro Saraji. Kurmaji, che ne aveva intuito i motivi, aveva acconsentito cedendo alla propria curiosità. Saraji si era infuriato, ma l’ultima parola spettava ai maghi... non gli era rimasto che accettare. 

Ran intanto era stato sulle cime di Sayanna, buttando via un po’ di denaro a nessun scopo: era tornato con una pelle fresca di tigre delle montagne, tre cicatrici nuove di zecca e la faccia cupa. Si era messo a tagliare il proprio vino con molta acqua, a sudare nei bagni di vapore a pagamento, ed esercitarsi tutti i giorni con la propria lancia. Era chiaro che si stava preparando a combattere, e a nome di chi era ovvio per tutta Luna di Fuoco: benché nelle bettole non gli dessero molte speranze contro il gigantesco Shartip, campione di Saraji: il disonorato sayanni che aveva giurato di vendicarsi su chiunque si interponesse tra lui e il kelith che l’aveva danneggiato in luoghi innominabili (rendendolo la favola di tutta la Comunità).

Ma toccava a Deyan decidere chi dovesse essere il suo eventuale campione. E aveva già deciso che non sarebbe mai stato Ran. 

Gliel’aveva detto il primo giorno in cui i due si erano finalmente parlati faccia a faccia. E gli era costato un pugno in faccia, che Ran gli aveva mollato per reazione, la prima e unica volta in cui il sayanni l’aveva picchiato da quando si conoscevano. Era stato un colpo duro da ricevere per un kelith, e specialmente per uno a cui la tortura non aveva mai tolto il senso della sacralità del proprio corpo. Ma Deyan si era reso conto del dolore di Ran dietro a quel gesto, e gli doveva troppo per non perdonarlo. 

Però la tensione si accumulava, e il predone bianco si sentiva sempre più come un uomo che cammina sulla lama di un rasoio. Ran l’aveva costretto per la prima volta a non pensare soltanto al proprio rischio, ma a quello di tutti coloro che dipendevano da lui. E anche per quel motivo aveva dato ordine a Ibal di trattare le schiave in modo che non potessero accidentalmente generargli dei figli: se fosse morto, quale sarebbe stato il destino dei suoi cadetti? 

Pushpa proseguiva alacremente nella sua opera. Nessuno osava entrare nella stanza in cui si occupava del guerriero del feretro, ma i servi raccontavano che era sempre occupato a portar ceste e a portar via catini. La quantità di cibo che spariva in quella stanza era diventata via via considerevole: era un segno inequivocabile che il guerriero si stava rifacendo di un oltre un millennio di digiuno. 

E un giorno il t’yr uscì da quella stanza per correre da Deyan, quasi travolgendo Saal che gli stava portando il pasto serale. 

“Ha parlato!” annunciò, con voce trasognata.

Deyan accolse la notizia con freddezza. 

“E sei in grado di capire le sue parole?”

“Sì!” Pushpa non stava nella pelle. “Usa una variante orientale di quella che adesso da noi è la Lingua Cerimoniale, che ormai si usa solo per le preghiere. Potrò riscrivere i miei dizionari!”

“Cos’ha detto?”

“Mi ha riconosciuto come t’yr, mi ha ringraziato per quel che ho fatto, mi ha chiesto dove si trovasse, e dove si trovassero le Divinità...”

“Crede di essere su Sayanna?”

“Vedendo me ogni giorno, è anche ovvio. Ho provato a spiegare come stanno veramente le cose, ma mi ha guardato come se fossi pazzo. E dal suo punto di vista, ammetto che potrei sembrarlo. Ricordi il tuo stupore quando scopristi che ti avevamo portato su Luna di Fuoco?”

Il kelith annuì, pensosamente. Non era una rivelazione facile da accettare.  

“Sa quanto tempo è passato da quando è stato messo nel feretro?”

“Non ho ancora avuto il coraggio di dirglielo,” mormorò Pushpa, imbarazzato. “Mi ha chiesto... chi è il nuovo imperatore.”

Deyan allibì. Non c’erano più stati imperatori dalle guerre dinastiche, che avevano diviso Kelitha nei suoi Dodici Principati. A quel sayanni mancava un intero pezzo della storia del mondo...

“Sei sicuro che la sua mente sia lucida?”

“Direi che lo è, anche se un po’ confusa.”

“E il suo corpo?”

“Se si escludono i problemi per quell’inconcepibile immobilità, minori però di quel che mi aspettavo, e quelli per l’espulsione di quel liquido magico, che è stata molto noiosa... è straordinariamente sano e forte, al punto che mi è difficile stabilire la sua età reale. Sembra giovane, ma chissà se lo è perché è stato rinchiuso in quella fase della vita, o è stato ringiovanito dalla magia di quel feretro.”

Bene, pensò Deyan. Anche giovane e forte!

“Mi ha chiamato padre,” aggiunse Pushpa, commosso. “Mi ha toccato, ma ha capito subito che non ero io il suo Seriema. Ha quasi pianto, perché prova gratitudine verso di me dopo tutti questi giorni insieme, e sperava che fossi io colui a cui avrebbe giurato fedeltà... ma non ha riconosciuto la mia anima.” 

“Sii grato alle tue Divinità di non essere tu questo suo Liberatore,” ribatté Deyan. 

Pushpa sentì la sua sordida ira. 

“Perché dici questo?”

“Se davvero sono io, come affermi... ne avrei volentieri fatto a meno. È stata una violenza dello spirito: notti intere trascorse a sognare orrori, a provare sentimenti e pensieri che non erano i miei... “ Un’occhiata allusiva alle pareti, dove alcuni preziosi arazzi erano scomparsi. “E ho finito quasi per rovinarmi, per colpa di questa ossessione.”

“Ma non è colpa di Naysiak, Deyan-shir: è stato il destino... o le profezie dei Tirri... o il caso a legare insieme i vostri destini; benché io al caso non creda proprio, con tutti questi prodigi avvenuti sotto ai miei scettici occhi.” Tentò di sorridere. “E guarda il lato positivo delle cose: quando Naysiak ti riconoscerà e pronuncerà il suo giuramento, sarai il signore di uno degli esseri più potenti di Sayanna...”

“Io sono già il signore di quel guerriero, Pushpa. Non dimenticare che mi appartiene: ho comprato quel feretro e ho pagato affinché fosse aperto. Legalmente ciò che contiene è mio, vivo o morto che sia: le leggi di Luna di Fuoco parlano chiaro.”

Pushpa lo guardò, inarcando le sopracciglia. 

“Non puoi considerare uno Xarani come uno schiavo...”

“Qualcuno ha considerato me come uno schiavo. Un principe kelith erede al trono. E nessuno ha trovato qualcosa da ridire.”

“Tranne un sayanni,” mormorò Pushpa.

Lo sguardo del kelith si indurì. “Uno. E la mia gratitudine non si estende oltre.” 

Pushpa rabbrividì a quel tono: certe ferite in Deyan non si cancellavano mai... come il marchio che aveva sul viso. 

Ma proprio per quello doveva comprendere l’ingiustizia di sottoporre un altro essere elevato a quell’umiliazione: se il problema era solo legale, lui aveva la soluzione. 

“Deyan-shir, ascoltami: se negoziassi il mio compenso in cambio di...”

“È già accreditato presso i Marjaban,” tagliò corto lui, alzandosi dal suo cuscino. “E adesso è tempo di vedere se quest’eroe può essermi utile oppure no: voglio proprio vedere cos’ho comprato col mio denaro, il mio tempo, il mio rischio e anche la mia anima. Vieni con me, Pushpa: mi farai da interprete.”

E fece per dirigersi verso la stanza del guerriero.

Pushpa lo rincorse. “Aspetta!... Occorre cautela!”

“Cautela per cosa?” 

“Prima di incontrarvi, sarebbe meglio che io spiegassi per bene...”

“Non ho niente da temere in casa mia!”

Andò a quella porta e la spalancò.

L’aria dentro era permeata da un sottile aroma di miele ed oli essenziali, su cui si sentiva un’ombra di odore muschiato, umano. La luce del sole giallo filtrava dalla finestra traforata, illuminando uno sfavillio dorato: l’armatura del guerriero, simile a un mosaico smontato, che era stata sciolta e disposta su un basso tavolino, tra una moltitudine di lacci. 

E accanto ad essa, seduta su una stuoia con le gambe raccolte sotto di sé, una figura avvolta nel mantello di piume, i neri capelli intrecciati sulla schiena, che fissava pensosamente la finestra. 

La figura trasalì a quell’intrusione, girò la testa per vedere i nuovi arrivati... e vide Deyan.

I suoi occhi scuri si spalancarono in un’espressione inorridita.

“T’shish kelith!”

Lasciò cadere il mantello, afferrò prontamente la propria spada dal tavolino, la sguainò e cercò di rimettersi in piedi. Ricadde sulla stuoia, ma con uno sforzo frenetico riuscì di nuovo ad alzarsi, e a spingersi con le spalle in un angolo della stanza. 

Rimase lì, sulle gambe ancora tremanti, con la spada puntata verso Deyan. E ringhiò una scarica di parole in quella lingua sconosciuta, di cui non era difficile intendere il tono: erano minacce...

Pushpa si slanciò immediatamente in avanti, interponendosi con urgenza e parlando al guerriero con tono ragionevole, come per calmarlo: ma questi rispose con parole affannate, incredule, scuotendo rabbiosamente la testa, ma senza mai staccare gli occhi sdegnati dall’albino come se avesse voluto ucciderlo con lo sguardo, prima ancora che con la spada.

E nemmeno Deyan riusciva a staccare gli occhi da quel corpo azzurro davanti a lui, trovandolo in qualche modo strano...

Quando capì in cosa consisteva la stranezza, quasi non poté credere ai propri occhi. 

“Ma... è una femmina!” esclamò, esterrefatto.

“Sì, certo, è una femmina,” fece Pushpa, distrattamente. “E allora?”

 

 

 






 

 

 

 

Il t’yr dovette dar fondo a tutte le proprie conoscenze della sua Lingua Cerimoniale per calmare quell’incredibile creatura: anche se barcollante e malferma, continuava ad avere quel ridicolo atteggiamento minaccioso, e non aveva abbassato d’un filo la spada. La sua voce era piena di veleno.

“Cosa sta dicendo?”

Pushpa era violaceo in faccia. “Sta... insultandoti in molti modi diversi.”

“Insultandomi? Con quel che ho fatto per lei?”

“Non lo sa ancora, crede di essere finita in una shanda. Ti sta sfidando ad avvicinarti: dice che è stata creata per distruggere i...” Esitò. “... i vermi bianchi come te.”

“Sfidato da una femmina!” mormorò Deyan, tetramente divertito. 

“Attento, Deyan-shir. Ti stai dimenticando che tra noi sayanni non ci sono le vostre distinzioni di genere? È la casta a determinare il nostro destino, non il nostro sesso. Al tuo posto io non volterei mai le spalle a una guerriera armata, e men che meno a una Xarani.”

La creatura ringhiò un’altra bordata di barbare parole.

“Dice che nella sua vita ha preso le piume di più di cinquanta guerrieri sayanni tra i migliori... vuol dire che li ha battuti in duello.”

“E quanti kelith?”

Pushpa tradusse, e la creatura rispose con disprezzo.

“Dice... che dei kelith non tiene il conto.”

Deyan smise il suo sorriso di sufficienza, e guardò quella creatura sconcertante che lo fissava spavaldamente, incurante della propria nudità come ogni buon sayanni vergine.

Una guerriera, questa?

Non era nemmeno grande e statuaria come le moderne donne sayanni, anche se era ben proporzionata, col bacino stretto e una struttura atletica e forte, che si rivelava nonostante lo scarso tono della muscolatura. Il seno era adolescenziale, triangolare con capezzoli violetti, e l’addome era piatto sopra un pube praticamente glabro. Le mani erano forti e dalle dita lunghe, e il corpo era costellato da numerose cicatrici chiare, tra cui spiccava il segno di denti ferini all’attaccatura di un seno. La faccia era tonda, con gli zigomi alti e gli occhi ovali, e dalle tempie alle guance era un intrico di fini tatuaggi: tutta la sua storia di casta e lignaggio era lì, ma mancavano i segni matrimoniali. 

Tutta questa fatica per una femmina che non va bene nemmeno per il letto della shanda!

La creatura parlò, con tono imperioso.

“Vuole sapere cosa ci facciano insieme un t’yr sayanni e un kelith bianco.” Pushpa si irrigidì. “Se non rispondo in maniera soddisfacente, ci ucciderà entrambi... cominciando da te.”

Lo sdegno kelith di Deyan superò il limite. “Come osa questa femmina minacciarmi?” sibilò, e si rivolse direttamente a lei, in tono imperioso: “Stupida barbara, metti giù quella spada...”

La creatura lanciò un urlo di guerra e balzò in avanti.

Deyan non si aspettava assolutamente un attacco da una donna: fu colto alla sprovvista, e senza nemmeno sapere come si trovò a essere scaraventato al suolo, con la sayanni furiosa a cavalcioni su di lui. In un istante si trovò la lama della sua spada premuta sulla gola, e la femmina scoprì i denti bianchissimi in un ringhio carico d’odio. 

“Tàin ne hulum, t’shish ne maa kikka...”

Dovevano essere altri insulti, gli ultimi prima che affondasse la spada. Deyan ne approfittò per estrarre di nascosto uno dei suoi dardi avvelenati...

“Hye, hye, hye!” esclamò Pushpa, precipitosamente. “Engaa m’hay Seriema!”

La donna esitò, con gli occhi sbarrati. 

“Seriema?...” mormorò, incredula. 

I suoi occhi selvaggi fissarono quelli del kelith, scesero sul sul volto. 

“T’shish... kaina ni?!”

E la sua mano si posò con decisione sulla cicatrice del marchio. Gli occhi di Deyan si dilatarono: era una delle cose che non si dovevano mai fare con lui... 

Reagì, incurante di quella spada alla gola, cercando di sottrarsi a quel contatto indiscreto; fece per affondare il dardo avvelenato, ma con un movimento fulmineo e quasi noncurante lei gli afferrò il polso e glielo sbattè sul pavimento; e con la stessa mano gli assestò un sonoro ceffone. 

“Jai de, shki kelith!”

Deyan restò raggelato. Uno schiaffo da una donna?!

Era stato un insulto talmente incredibile per un kelith, da lasciarlo paralizzato dalla sorpresa... lei ne approfittò per rimettergli le dita sul volto, sfiorando adesso quella cicatrice come se la riconoscesse.

“Kamoh u Lilia... kainakai... yerenì!”

E Deyan rabbrividì violentemente. 

Uno sconfinato deserto azzurro, più blu del cielo, con dune che si alzano e si abbassano velocemente, rombando... e bianchi uccelli che gridano nel vento. Sottili aghi freddi sul mio viso, l’aria satura di umidità, il sale sulle mie labbra...

La visione svanì, ma non il suo ricordo. Aveva riconosciuto l’oceano, quella cosa di cui aveva letto sui innumerevoli libri, ma che non aveva mai visto coi propri occhi di uomo del deserto. 

È lei che l’ha visto!

Girò la testa per guardarla negli occhi, riconoscendo quella terribile intimità di pensiero che aveva provato fin da quando aveva toccato per la prima volta quel sarcofago. Lei tremava, come se avesse visto a sua volta qualcosa di spaventoso.

“Seriema,” mormorò, con un filo di voce. “Seriema!... Hye, nahin ne!”

“Ya,” le disse Pushpa, in tono definitivo. “T’shish m’hay Seriema.”

La donna lo lasciò andare, strisciando via da lui. Restò in ginocchio sul pavimento, e cominciò a lamentarsi con voce piena di incredulità e disperazione. 

“Cosa dice?” chiese Deyan.

“Chiede alle divinità... perché le hanno fatto toccare proprio l’anima di uno spregevole kelith albino. Lei è una Figlia della Cometa, non può credere che un patto sacro possa dedicarla al peggiore dei nemici della sua razza. Dice che è un inganno demoniaco...”

La donna rizzò la testa, con il respiro stentato. E la sua spada si puntò di nuovo su Deyan.

“Hye!” tuonò Pushpa. 

E in tono imperioso le parlò, con un lungo discorso.

La donna ascoltò sempre più sconvolta, scosse la testa, disse qualche cosa in tono disperato e voltò la punta della spada contro di sé.

Pushpa si mise a urlare e indicò Deyan pronunciando più volte la parola Seriema... 

Le mani della donna tremarono, esitarono, e alla fine lasciarono cadere la spada. E lei restò così, annientata, ansimante, a fissare il vuoto con occhi da pazza.

“Che le hai detto?” chiese Deyan.

“La verità,” mormorò Pushpa, cupamente. “Che è stata chiusa nel Feretro più di mille cicli solari fa, e sepolta viva nella Montagna Sacra; che quel feretro è stato ritrovato, rubato e portato su Luna di Fuoco; e che gli déi dei Tirri hanno evidentemente stabilito che dovesse essere il suo opposto a liberarla... un kelith maschio di nobile stirpe.” Un sospiro. “Perché abbiano voluto questo incrocio non lo so; ma resta il fatto che, albino o no, tu sei inequivocabilmente il suo Seriema, e quindi la sua vita è tua: anche se lo vuole con tutto il suo cuore, lei non può uccidersi senza il tuo permesso. Se lo facesse, disonorerebbe il suo essere Xarani.”

“Mi accetta, dunque?”

Pushpa raccolse il mantello di piume e lo posò sulle spalle tremanti della donna, in un gesto di conforto.

“Dalle tempo, Deyan-shir. Quando anche lei capirà che non ha più alternative, pronuncerà il giuramento.”

 

 










 

 

Ci mise tre giorni e quattro notti ad arrendersi. 

La seconda notte scappò dalla casa di Deyan: ma non aveva nessun posto in cui andare. Luna di Fuoco era un abitato sperduto in mezzo a una desolazione senza vita, e Sayanna era un continente verde e bruno su una luna irraggiungibile nel cielo. Deyan temette che si perdesse nel nulla, ma Pushpa era tristemente tranquillo.

“Tornerà, Deyan-shir. È una sciamana, il suo istinto la riporterà infallibilmente qui da te. In quanto alle sue capacità di sopravvivenza, è una Xarani... praticamente impossibile da uccidere, se lei non vuole lasciarsi morire. E lo vorrebbe disperatamente, per reincarnarsi in una vita più fortunata; ma non mancherà al suo senso dell’onore.”

“E allora perché è fuggita?”

“Forse per piangere il suo destino. Ha perso tutto: più di mille cicli di soli trascorsi significano che è adesso è sola, senza più famiglia, senza più amici, tutti coloro che conosceva e amava polvere di polvere. Ha perso anche la sua patria, trovandosi esule su questa luna, e se tornasse su Sayanna... non troverebbe più nemmeno la sua città natale e la sua tribù.” Un sospiro. “Gli Huanai erano una delle etnie minori che abitavano il continente di Sayanna. Vivevano sulla costa orientale, vicino all’equatore. Statura modesta, pelle solare, occhi grandi, grande coraggio e amore per l’arte: erano gente felice, e la loro città era stupenda. Ma proprio per questo attirarono l’attenzione dei kelith, che saccheggiarono più volte il loro paese, deportando innumerevoli schiavi, e quel popolo finì per decadere: quel che ne resta ora si è mescolato con il Popolo degli Altipiani... la mia gente. Naysiak quindi è probabilmente l’ultima Huanai originale vivente.” 

Qualche tempo dopo Pushpa si recò al tempio delle Divinità Duali per il consueto servizio devozionale alle loro statue. E laggiù trovò Naysiak, accoccolata ai piedi delle due figure, che piangeva sconsolatamente. Era ancora nuda, esausta, assetata e affamata: lui le diede da mangiare e da bere, e poi le comprò qualcosa da mettersi addosso, anche se non era degno di lei. Naysiak lo ringraziò, e gli fece capire di essere pronta al suo giuramento.

C’era però un problema formale. La cerimonia si era sempre svolta in un tempio sayanni, e Deyan non poteva esservi ammesso. Pushpa cercò eroicamente di scordare che in realtà il kelith aveva commesso proprio questo sacrilegio per cercare il Codice d’Oro, ma non era certo il caso di reiterare il peccato anche su Luna di Fuoco. Si consultò con gli altri t’yr, che sbalordirono alla notizia che un Guerriero della Cometa venisse a far parte di quella famigerata Comunità. E ancor più si sbalordirono al racconto del come, e del fatto che uno Xarani si sarebbe votato a un esecrato straniero. In dubbio sulle facoltà mentali dell’eretico Pushpa, decisero diplomaticamente di svolgere la cerimonia fuori dal recinto sacro, senza toccare le statue delle Divinità, né portare altri simboli religiosi. Se Naysiak era davvero un Guerriero della Cometa, avrebbe santificato il luogo con la sua sola presenza. 

La notizia si sparse per tutta Luna di Fuoco, accolta con scetticismo. Le sayanni guerriere erano merce rara tra i predoni, dato che solitamente le donne erano molto più disciplinate degli uomini, e restavano nei ranghi della rigida società azzurra. E il sussurro che quella guerriera fosse addirittura una Xarani era incredibile, quanto era stato incredibile che un principe kelith diventasse un predone: sembrava davvero che nel mondo non rimanesse più nulla di impossibile.

Deyan rimase riservato durante tutti quei preparativi. Era stato alla Grande Casa, dove aveva negoziato la vendita del feretro vuoto, e formalizzato gli altri aspetti. E adesso aspettava sulla piazza, avvolto nel mantello, infastidito dal fatto che la cerimonia si dovesse svolgere alla presenza smagliante dei due soli, che si avviavano alla loro accecante congiunzione vicino allo zenit. 

Quando tutti furono al loro posto, Naysiak uscì dal tempio e fece il suo ingresso nello spiazzo. E i presenti emisero un mormorio di stupore.

Indossava la sua splendida armatura al completo, una corazza che in quella forma non si vedeva da più di un millennio: riluceva come una pioggia di gioielli sotto la luce spietata dei due soli. Ogni tessera di quel mosaico di iscrizioni misteriose lampeggiava, mentre lei avanzava con passo misurato, le mani sulle proprie armi, il mantello di piume ravvivato e pulito sulle spalle che brillava di un azzurro cangiante, indicando il suo mistico legame col Mondo Magico. 

Deyan la guardò freddamente, percependo la soggezione che quella figura del passato incuteva nei presenti. L’armatura e il mantello di piume rendevano Naysiak una figura neutra, né maschio né femmina, solo il tramite di un potere arcaico e misterioso che i sayanni avevano imparato a rispettare sin dall’alba della loro civiltà. E nel momento che uno di loro vide il segno delle Quattro Stelle sul suo volto, la voce si sparse in un baleno, e al sussurro “Xarani, Xarani” molti si chinarono a toccare con una mano il suolo. Ne risultò una sorta di inchino collettivo e stupefatto, a cui resistettero a fatica solo i pochi scettici tra di loro, oltre naturalmente ai kelith che osservavano tutto con curiosità. 

Naysiak arrivò davanti a Deyan, si fermò e si tolse l’elmo, guardandolo dritto negli occhi.

Deyan si tolse a sua volta il cappuccio del mantello, restando a testa scoperta. 

I t’yr iniziarono uno dei loro inni, una monodia lenta e solenne. Naysiak si inginocchiò, posò l’elmo accanto a sé, si denudò la mano destra, e con un dito cominciò a tracciare un disegno sulla polvere della piazza. Era un’immagine geometrica, quasi cruda e un po’ infantile di un uomo e di una donna, che si tenevano per mano. Poi alzò gli occhi ai due soli e gridò un’invocazione nella sua lingua misteriosa: e la sua voce femminile vibrò per tutto lo spiazzo. 

Pushpa e tutti i t’yr alzarono le braccia verso il cielo, mormorando: “Kamoh, Lilia.”

Naysiak posò solennemente entrambe le mani al centro delle figure che aveva tracciato. Guardò Deyan, ebbe un’espressione di dolore, ma si costrinse a proseguire nel rito. E la sua voce fu ferma e decisa. 

“Sayan-ne Huanai-ne Naysiak kai Xarani’nin nainai Kamoh Lilia yerenì m’hay Seriema Deyanshir-kin an’kanai Kelitha...”

La lingua cerimoniale sayanni suonava cantilenante, musicale. 

“Ti sta riconoscendo davanti alle Divinità come suo Liberatore,” tradusse Pushpa, al fianco di Deyan. “E sta pronunciando il giuramento sacro: D’ora in poi la mia vita e la mia morte ti appartengono, Deyan-shir della casta imperiale di Kelitha. Ti seguirò ovunque andrai. Proteggerò il tuo cammino, il tuo onore, la tua casa, il tuo cuore, i tuoi figli; fronteggerò i tuoi nemici, li ucciderò in tuo nome e obbedirò a ogni tuo ordine secondo il sacro codice dei Figli della Cometa. Ti sarò fedele come lo sono ai miei déi, fino all’ultimo dei miei giorni sotto ai due soli.”

Lei tacque, ritirò le mani dalle due figure tracciate a terra, si raddrizzò e restò in ginocchio, in attesa.

Pushpa gettò uno sguardo a Deyan. “Mettile una mano sul capo. Sarà il tuo gesto di accettazione, che la vincolerà per sempre a te.”

Deyan avanzò e lo fece, posando la mano su quel complicato nodo di trecce legate insieme. Naysiak trasalì visibilmente al suo tocco, ma non si ritrasse.

“Seriema,” mormorò, con gli occhi bassi.

Deyan la lasciò e fece un passo indietro.

“Dunque la cerimonia è finita?” chiese a Pushpa.

“Sì. Si è impegnata davanti agli dèi. Il suo spirito ti appartiene.”

“Non solo lo spirito.” La guardò, con freddezza. “Naysiak, ti ordino di toglierti quel mantello.”

Pushpa restò stupito. Gettò un’occhiata sconcertata a Deyan, poi alla donna che lo guardava, avendo sentito il suo nome e aspettando la traduzione. 

Si decise e la pronunciò. Naysiak non esitò un solo istante: si slacciò il mantello e se lo tolse dalle spalle, disponendolo accanto a sé. 

“Bene. Adesso dille che voglio che si tolga anche tutto il resto.”

“Deyan-shir...”

“Traduci!”

Pushpa lo fece, con uno sforzo. E Naysiak impallidì vistosamente sotto la luce cruda dei due soli. Ma cominciò ugualmente a sciogliere i lacci dell’armatura...

“Perché, Deyan-shir?” mormorò Pushpa, a voce bassa.

“Metto in chiaro ciò che è mio, e metto alla prova la sua obbedienza.”

Lei slacciò il pettorale, disponendolo accanto il mantello. Sotto l’armatura non portava nulla, secondo la tradizione sayanni: e i kelith presenti si misero a mormorare alla vista del suo seno nudo, scarso per i loro gusti ma pur sempre femminile. Lei percepì quell’attenzione troppo fisica su di sé e si irrigidì visibilmente, offesa da quegli sguardi, ma non potendo evitarli. 

Pushpa notò il lievissimo sorriso di Deyan, e non gli piacque.

“Ricorda che possiedi la sua vita e la sua morte,” gli disse in tono ammonitore. “Non il suo onore. È una vergine, e tu devi rispettare la sua illibatezza. Se non lo farai, romperai il patto con lei e le Divinità. E lei sarà moralmente autorizzata a ucciderti, anzi: sarà suo dovere ucciderti.”

“E morirà.”

“Pensi che questo la spaventi?”

“No. So che non ha timore della morte.” Il suo sorriso divenne remoto. “E nemmeno io.”

Naysiak intanto aveva disposto a terra tutta la sua armatura, restando nuda se non per il perizoma che i guerrieri indossavano per proteggere la Membrana. L’interesse erotico dei kelith si era trasformato in fastidio, perché lei non mostrava abbastanza vergogna, e loro non gradivano l’ostentazione sayanni del corpo: su Luna di Fuoco era una delle cause per cui le comunità vivevano separate, e i sayanni che si mischiavano ai kelith adottavano costumi meno disinvolti. 

Deyan fece un cenno, e alcuni suoi servi si affrettarono a raccogliere il mantello, l’armatura e tutto il resto, portandoli via. Naysiak li seguì con lo sguardo, senza capire. 

“Pushpa, dille che quei segni esteriori della sua gloria non le appartengono più. Dovrà imparare a farne a meno.”

La donna ascoltò la traduzione, e i suoi occhi si spalancarono, costernati.

Mormorò qualcosa, con voce tremante.

“Dice che l’armatura sacra e il mantello da sciamana le furono dati dalle Divinità il giorno della sua consacrazione. È tutto quel che le rimane di quel felice periodo della sua vita, il ricordo più caro che le abbia, e chiede rispettosamente di...”

“No.” La voce controllata di Deyan fu come un colpo di spada. “Le restituirò le sue armi quando le serviranno. Il resto non è adatto a ciò che adesso è.” 

Fece un gesto, e un Giudice delle Contese gli portò un collare di metallo. 

I t’yr mormorarono, Pushpa impallidì spaventosamente. 

“No, Deyan-shir, no,” mormorò, con voce implorante. “Questo no, ti prego...”

Il volto del kelith restò perfettamente impassibile. 

“È un Guerriero della Cometa!” 

“Mi appartiene, quindi è una schiava.”

“Allora liberala, per amore di tutto ciò che è giusto e santo! Non ti costa niente, lei è comunque tua, ti ha appena giurato fedeltà, il suo vincolo è molto più forte di qualsiasi legge o catena umana...”

Deyan gettò il collare davanti a lei, con un gesto spietato.

“Le ordino di metterselo. Con le sue mani.”

Seguì un silenzio tremendo, carico di tensione. 

Naysiak guardò quel simbolo di sottomissione nella polvere, incredula. Non poteva non riconoscerlo: non era cambiato da millenni...  

Alzò uno sguardo disperato a Pushpa. 

“Kaina m’he?” chiese, con voce piena d’angoscia. 

Pushpa ebbe un tremito, distolse lo sguardo da lei. 

“Kaina m’he?!...”

Il t’yr si costrinse a rispondere, la sua voce uscì quasi strozzata. 

“Naysiak ne Deyanshir-ni kaina m’hay.”

Il respiro le divenne stentato, e il suo volto si fece quasi cinereo. 

“Hye,” mormorò. “Hye kaina... Xarani’nin... m’he.”

“Anika Deyanshir-kin shi, dema Xarani’nin shi kaina kanai.” Pushpa indicò il collare. “Seriema jakkai.”

I grandi occhi di Naysiak tremarono, si riempirono di lacrime, e un paio di esse riuscirono a traboccare; ma lei trattenne le altre, con uno sforzo sovrumano, e guardò Deyan con disperata dignità. 

“Ya, Seriema.”

Respirò a fondo per calmare il proprio tremito, e raccolse il collare. Se lo mise senza una parola di protesta, e sopportò che il Giudice delle Contese glielo chiudesse con un lucchetto.

Deyan la guardò, con un sorriso soddisfatto.

“Bene. Pushpa, dille che i suoi voti Xarani per un kelith non hanno alcun significato, e non ho alcuna considerazione dei suoi titoli mistici o guerrieri. Lei dovrà servirmi solamente perché è il suo dovere, e quel collare serve a ricordarglielo.”

La sayanni ascoltò, pallida e con la schiena eretta.

“Naysiak t’si kan Seriema nikka yanai.”

“Ti chiede rispettosamente il permesso di uccidersi.”

“Dovrà guadagnarselo.”

Deyan si fece consegnare la chiave del lucchetto dal Giudice delle Contese, e se ne andò verso la sua casa, senza voltarsi indietro. 

Nel silenzio costernato di tutti, Naysiak si alzò sulle gambe malferme e sporche di polvere, e si mise a seguirlo. 









 

 

 

 

 

Nella Città Sacra di Sayanna, i più puri ed elevati dei servi delle Divinità accudivano in silenzio e devozione i corpi di Kamoh e di Lilia. E a loro rispondeva come sempre il silenzio. 

Il silenzio era l’elemento più sacro intorno ai re divini. Non andava disturbato in alcun modo. Essi erano il perno centrale dell’immensa ruota della società di Sayanna, e altrettanto immoto. il movimento era opera di una serie di cerchi concentrici che si erano sviluppati attorno alla loro figura: sciamani, saggi, guerrieri, artigiani, contadini. Tutto in un mirabile ordine, che si perpetuava con confortante regolarità, a dimostrazione della sua giustezza cosmica. 

Kamoh e Lilia non parlavano mai, lo facevano i loro tramiti umani. I loro corpi si limitavano a essere, ad esistere, e a perpetuarsi nel tempo in quella maniera sovrumana che era un articolo di fede per ogni sayanni: una infinita catena di mistici incesti. Mai coetanei, il giovane Kamoh avrebbe generato la nuova Lilia nella vecchia compagna, che sarebbe morta dandola alla luce; cresciuta, la nuova Lilia avrebbe giaciuto con il moribondo Kamoh per generare il giovane, attendendo la sua maturazione per ricominciare il ciclo. Questo prodigio era prova sicura della loro divinità: e tutti i sayanni si prosternavano ammutoliti dinanzi al Mistero.

Ma per il resto l’esistenza dei re divini era paragonabile a quella di due splendide statue, occupate nei loro pensieri inimmaginabili, e a benedire invisibilmente il loro grande popolo mandando loro la luce dei due soli, principio maschile e femminile del cosmo. 

Fu dunque con grande sgomento che i più santi tra i devoti scoprirono che Kamoh si era mosso prima del tempo stabilito. E Lilia, le mani sul ventre sporgente della sua divina e fatale gravidanza, aveva gli occhi sbarrati e la bocca aperta in un grido senza voce. 

Qualcosa aveva turbato l’equilibrio tra il mondo degli uomini e quello degli dèi.

 






*







 

 

 

Saal poteva trovare la sua serenità anche lontano dallo splendido palazzo di Shana, su una luna straniera su cui era arrivato incosciente tramite una terribile magia, in mezzo a predoni e canaglie della peggior specie e una quantità di creature intellettualmente inferiori e grossolane; poteva adattarsi a vivere in una casa che su Shana sarebbe stata indegna di un mercante di bassa lega, con una sola fonte d’acqua e polvere che si insinuava dappertutto, e neanche un giardino degno di questo nome; poteva vedere il suo principesco padrone frammischiarsi con individui sconcertanti e compiere atti indegni di un nobile della sua stirpe, vestirsi da uomo comune e camminare con le sue gambe anziché andare in portantina, e non aver nemmeno un cuoco che sapesse combinare decentemente le famose cento salse della cucina Shanì...

Ma una selvaggia femmina sayanni in casa era veramente troppo!

Naysiak aveva portato lo scompiglio nella perfetta magione di Deyan, con la sua sola esistenza. Ci era arrivata come una schiava, cosa normalissima dato che in una casa nobiliare kelith non esistevano donne libere. Ma non si poteva rinchiuderla nella shanda come le altre, perché non era adatta al letto: vergine e decisa a restarlo, e tra l’altro brutta per i canoni kelith: niente burrosa delicatezza, troppo alta, forme sbagliate. Ibal, a vederla, era rimasto inorridito dal suo aspetto barbarico e aveva escluso nella maniera più categorica che il suo padrone, che pure non era limitato in niente nei suoi capricci erotici, avrebbe mai toccato anche solo con un dito un simile animale. 

E così Naysiak era stata trattata: da bestia senz’anima. Una specie di esotica creatura che il padrone aveva liberato per capriccio, incerto su cosa farne, e che la servitù doveva sopportare perché era suo dovere. Non importava a nessuno che quella creatura fosse stata grande nel suo paese, che fosse nata quando della stirpe di molti di loro non c’era neanche l’ombra, che i re di Sayanna l’avessero avuta come guardia del loro santo corpo. Per i kelith non era altro che un animale.

Però era almeno un animale pulito. Usava la latrina senza bisogno che le insegnassero come, si lavava e pettinava ogni giorno e si purificava prima di mangiare. Pregava, prima di farlo, raccogliendosi a occhi chiusi; e poi pasteggiava con calma, e con un appetito che Saal non aveva mai visto prima in una femmina. Era regolare che Naysiak osasse corrergli dietro per tendergli la ciotola vuota dicendo “Nainè.” 

Quell’animale parlava, infatti. Voleva imparare la lingua di quel luogo, e chiedeva incessantemente a chiunque come si chiamasse questo e quello. Era insistente, imperiosa e assolutamente sfacciata nel rivolgere la parola agli uomini, che la sfuggivano imbarazzati, perché solo Ibal era autorizzato per la sua natura a trattare con le donne di casa. E parlava molto col sayanni con la veste lunga, che veniva a interrogarla: si mettevano nel cortile, sotto i due soli, a bisbigliare per ore in quella lingua incomprensibile, lei avvolta nei due stracci laceri che le erano stati concessi solo per rispettare la decenza kelith.  

Deyan aveva infatti ordinato a Naysiak di restituire tutti i doni ricevuti, e di non accettarne più alcuno, e lei aveva obbedito ridando a Pushpa i vestiti che le aveva regalato, e ai t’yr le morbide pelli che che le avevano offerto, ancora sconvolti da come era stata spogliata e degradata in pubblico. Solo che non le rimaneva più niente, e Saal si era opposto all’idea di far andare in giro una femmina nuda in una casa di persone civili. Deyan aveva ordinato di non far nulla che potesse inorgoglirla, ma anzi di farla vivere il più duramente possibile, e Saal approvava: era nella logica di disciplinare quella creatura selvatica. 

Isolata e umiliata in quella casa di nemici che la disprezzavano, e non le permettevano neanche di trovare riparo nelle loro stanze chiuse, Naysiak cercava la compagnia della terra, del cielo e del vento. Sembrava che potesse parlare anche con loro, e che volesse fare amicizia con la dura scorza di Luna di Fuoco. Nella notte, in cortile, la sentivano canticchiare delle nenie sommesse e antiche, e Deyan era tormentato da sogni di rimpianto che gli straziavano l’anima. Al mattino trovava la sua barbara infreddolita, pronta a fargli sempre la stessa richiesta. 

“Naysiak t’si kan Seriema nikka yanai.”

“No! Non puoi ancora morire.”

E lei sospirava, chinando la testa.

Ovunque andasse Deyan, lei lo seguiva: con squisito mestiere, silenziosa come un gatto, a distanza sufficiente per non disturbare; ma non era mai troppo lontana da lui. Deyan non le aveva ancora restituito le sue armi, ma lei svolgeva comunque il proprio compito di guardia del corpo; Pushpa, che spesso lo accompagnava, gli spiegava che Naysiak sperava di morire per difenderlo: per uno Xarani sarebbe stata una fine onorevole, alternativa al suicidio rituale. 

Stando così le cose, era stato inevitabile che la Squadra Sacrilega facesse conoscenza con quel nuovo, sconcertante membro. Quando Deyan era andato alla casa di Kor lei gli era andata dietro, e tutti i sayanni l’avevano guardata con timoroso rispetto, Nemel e Chat facendo anche il gesto rituale di toccare il suolo. 

Ma Ran l’aveva guardata in cagnesco, senza nessuna soggezione. 

“E questa sarebbe il grande Guerriero della Cometa?”

Le si era avvicinato, squadrandola dall’alto al basso, cosa che gli veniva facile visto che era alto almeno una testa e mezza più di lei. La donna si era limitata a fiutarlo, con espressione assorta. Poi aveva mormorato qualcosa.

Pushpa aveva tradotto: “Dice che c’è l’odore del suo Liberatore su di te, uomo delle montagne, e ti ha marcato come amico. Per cui avrà misericordia e ti perdonerà le tue cattive maniere.”

“Odore?” aveva esclamato lui. “È forse un cane?” Aveva riso. “O più probabilmente un pescecane, dato che con quella faccia verdazzurra non può che essere dell’infimo Popolo della Costa.” Le era girato intorno, come per osservarla da tutti i lati. “Niente di buono, dai deboli mangiaconchiglie che si sono fatti saccheggiare dai kelith!”

“Ran,” era intervenuto Pushpa. “Lei viene dal remoto passato, quando il Popolo della Costa era ancora grande...”

“Oh lo vedo. È antiquata. Guardate quant’è bassa! Sembra un kelith con la pelle del colore sbagliato. Qualsiasi guerriera di adesso la userebbe come sgabello... volete farmi credere che le Divinità si sarebbero tenute accanto questa nanerottola smunta? Mi sa che vi hanno ingannato, amici miei: il segno dei Quattro può tatuarlo anche un ubriaco.” 

“Naysiak Xarani-nin m’hay. Kikka sh’te?”

Pushpa aveva tradotto: “Io sono una Xarani. E tu cosa sei?” Una pausa. “Ha detto cosa, non chi.”

Deyan aveva sorriso appena: la sua barbara era tutt’altro che remissiva. 

Ran aveva fatto una smorfia. “Sono quello che la sgonfierà un po’ dalle sue arie. Deyan-shir, che ne dici se la tua Xarani e io vediamo chi è il miglior guerriero?”

Il kelith aveva guardato Ran, sorpreso dalla sua formidabile ostilità verso la donna: evidentemente c’erano motivi che gli sfuggivano, forse l’atavico spirito di insubordinazione all’autorità del suo amico, forse quella specie di gelosia tutta sayanni che provava per lui. Desiderava la sua occasione di umiliare quella femmina, e perché non concedergliela? 

“Pushpa,” aveva detto, rivolgendosi al t’yr. “Dì a Naysiak di battersi con Ran.”

Lei aveva annuito, senza esitazione. Aveva guardato brevemente Ran, poi si era spogliata. E Ran aveva fatto lo stesso. 

“Le regole del duello valgono anche tra sessi diversi?” aveva chiesto Deyan, allibito da quello spettacolo inconcepibile per dei kelith.

“Naturalmente sì,” aveva replicato Pushpa, stupito dal suo stupore. “Cambierebbero solo se fossero di casta diversa, ma sono ambedue guerrieri. Si batteranno nel corpo a corpo, senza armi. Terranno solo quanto basta per proteggere la membrana da incidenti.” Pushpa aveva scosso la testa. “Temo che Ran abbia esagerato, stavolta. Un t’yr non scommette, ma se potesse...”

“Su chi lo faresti?”

“Un Guerriero della Cometa contro un disertore?” Un vago sorriso. “Ran mette in dubbio che Naysiak sia una Xarani autentica, ma io non credo che quell’armatura, e quel feretro, siano stati dati a una millantatrice. Il nostro amico sta per fare una figuraccia.”

Deyan ne dubitava. Naysiak non aveva l’aria di essere fermissima sulle gambe, e rispetto a Ran era decisamente più piccola e magra, specialmente da svestita. 

Ma guardava il suo enorme avversario con una sufficienza che sembrava quasi comica. 

Ran si era messo in guardia... e aveva scaricato un paio di pugni spaventosi su di lei. Naysiak era caduta a terra, con un grido strozzato.

Deyan si era limitato ad alzare le sopracciglia: non aveva mai visto quanto fosse egualitaria, la casta guerriera dei sayanni. Ran aveva adoperato appieno tutta la sua violenza, senza trattenersi: e c’era quasi un sorrisetto di trionfo mentre si massaggiava la mano. 

“Tutto qui, Xarani?”

La donna si era rizzata sulle braccia, scuotendosi le trecce dalla faccia. Si era rialzata, asciugandosi il sangue che le usciva dal sopracciglio, e sbottando qualcosa. 

“Impreca al suo corpo che ancora non va come dovrebbe andare,” aveva tradotto Pushpa.

Ran aveva atteso che lei si rimettesse in piedi, per mollarle un calcio violentissimo all’addome: Deyan aveva visto il movimento di difesa della donna, ma troppo lento; e Naysiak era finita di nuovo per terra, piegata in due dal dolore. 

Appena aveva ripreso fiato, aveva lanciato una sorta di urlo frustrato che non aveva bisogno di traduzioni. Ma non ce l’aveva con Ran: non lo guardava nemmeno. Barcollando, si era rimessa in piedi, tentando di respirare a fondo.

Ran le aveva mollato un altro pugno, stavolta sul mento. Rigettandola di nuovo al suolo.

“Non in faccia,” aveva mormorato Aydie, sconvolto dal veder picchiar così una donna in pubblico.

Ran l’aveva guardato, senza capire. “Come, non in faccia? Pensavo di romperle quel buffo naso che ha, se si rimetteva in piedi.” Aveva fissato la guerriera che ansimava, a terra. “Ammesso che ci riesca. Xarani! Puah... Questa come guerriera non vale niente!”

Naysiak aveva alzato la testa, l’aveva guardato... ed aveva emesso una sorta di ruggito. Un suono incredibile, che non sembrava nemmeno umano, ma l’urlo di una belva mitologica...

Ran si era irrigidito all’istante, con un’espressione di terrore in faccia. 

Naysiak non aveva perso tempo: aveva fatto leva su un braccio, e con uno scatto delle gambe unite aveva affondato entrambi i piedi nel suo stomaco. Ran era barcollato all’indietro, semisoffocato. Con lo stesso balzo la donna si era rimessa in piedi, gli era saltata a gambe aperte intorno al collo, glielo aveva stretto tra le cosce muscolose e con le mani gli aveva afferrato i padiglioni delle orecchie, tirandoglieli. Ran aveva mandato un urlo di dolore.

La donna aveva guardato Deyan, dicendo qualcosa.

“Dice che avrebbe potuto rompergli entrambi i timpani,” aveva tradotto Pushpa. “Non l’ha fatto, non sapendo se volevi o no che questo stupido guerriero restasse sordo.”

“Maledetta strega!...” aveva ruggito Ran, raddrizzandosi. 

Ma Naysiak gli era rimasta saldamente sulle spalle, incrociando i piedi per incastrarlo nella sua morsa. E con una mano gli aveva afferrato il naso per le narici, tirandolo verso l’alto. La testa di Ran aveva seguito quella trazione all’indietro, e lui aveva perso l’equilibrio. Era caduto di schiena, con Naysiak attaccata... e non si era mosso più. 

Deyan era trasalito. “Ran!”

Naysiak aveva visto la sua reazione allarmata, e aveva parlato con tono impersonale.

“Non temere,” aveva mormorato Pushpa, “non l’ha ucciso. Dice che in tua presenza sarai tu a dirle chi uccidere e chi no.”

E con quelle parole, lei si era disincastrata dal collo del sayanni con un movimento quasi languido. Aveva afferrato il suo avversario per le braccia inerti, l’aveva sollevato a sedere e gli aveva stampato un calcio ben mirato nella schiena. Ran aveva sbarrato gli occhi con un singulto animalesco, riprendendo a respirare. 

Di nuovo, la donna aveva parlato, con quella cadenza cantilenante.

“Dice che le serve ancora qualche tempo perché il suo corpo è ancora debole. Ma ti è grata per averle permesso di mettere alla prova le sue capacità, anche se contro un avversario modesto.”

Deyan, suo malgrado, era rimasto impressionato. “Cos’è stato, quell’urlo che ha fatto prima?”

Naysiak aveva fatto un sorrisetto, asciugandosi il sangue dalla faccia tumefatta.

“Xaran’taja.”

“Cosa Xarani,” aveva tradotto Pushpa. 

Ran era rimasto incredulo, senza fiato. Si era guardato intorno, con la faccia violacea dall’imbarazzo. Aveva scorto la guerriera che era andata a rivestirsi, senza sprecare un’occhiata all’uomo che aveva sconfitto. Le aveva ruggito un epiteto che Deyan non aveva mai sentito, ma che aveva fatto strabuzzare gli occhi a Pushpa: lei l’aveva guardato a malapena, aveva alzato una spalla e aveva mormorato qualcosa.

“Che ha detto quella strega?!”

“Che... quel che conta per un guerriero è vincere, non picchiare.”

“È stata sleale! Mi ha battuto con un trucco!”

“Ti ha battuto in un duello ad armi pari,” gli aveva detto Nemel, severamente. “Pensavi davvero di vincere contro un Guerriero della Cometa?”

Deyan aveva fissato quella femmina sconcertante, cominciando a credere alle sue capacità.

“Pushpa, per favore, chiedi a Naysiak quali armi sa usare.”

Lei aveva cominciato una lunga cantilena di parole, tra cui molte che Pushpa non conosceva: vedendolo perplesso, si era chinata al suolo e col dito aveva cominciato a disegnare nella polvere le armi che descriveva; e anche gli altri sayanni avevano allungato il collo cominciando a discutere, riconoscendone qualcuna. Lei ascoltava, ripeteva il nome antico e faceva il gesto di impugnare l’oggetto, e tutti annuivano. 

Pushpa aveva guardato Deyan. “Non riesco a starle dietro, accontentati di sapere che si intende di tante armi.”

“E sa combattere contro più di un avversario?”

Lei aveva ascoltato la traduzione, si era rizzata con un sorrisetto di compatimento. 

“Può insegnare le sue tecniche?”

Aveva scosso la testa, e aveva parlato con voce recisa.

“Dice che tutti qui sono troppo adulti, e tu... tu non puoi impararle perché sei kelith.”

A Deyan il tono di quella frase non era piaciuto. Aveva pensato che era il caso di impartirle una lezione sulle potenzialità della sua razza...

Aveva fatto un lieve movimento delle spalle verso destra, come se volesse girarsi, e nello stesso tempo il suo braccio sinistro era scattato verso Naysiak.

Lei aveva sbarrato gli occhi e istantaneamente si era spostata, ma non era riuscita a evitare il dardo che lui le aveva lanciato. Le era affondato nella spalla. Lei aveva emesso un gemito, afferrandolo con la mano opposta, e se l’era strappato dalla carne. L’aveva fissato, col respiro affannoso, ed aveva avuto un’espressione di rabbia...

Poi, di colpo, le gambe le erano cedute di sotto. Ed era caduta in ginocchio, stupefatta. 

“Ci sono cose che noi kelith facciamo meglio di voi sayanni,” aveva detto Deyan, con un sorrisetto tagliente. “E adesso vediamo come te la cavi con i nostri narcotici.”

Lei sembrava averlo compreso, senza bisogno della traduzione di Pushpa. L’aveva fissato, con un lampo di odio negli occhi. Poi li aveva socchiusi, facendo per afflosciarsi...

 

 

 





 

 

 

Deyan aveva sentito lontanamente una risata, che diventava sempre più nitida e forte. Sembrava una serie di tuoni in una gola di montagna. Non conosceva che una persona, in grado di ridere così. 

Ran.

Aveva aperto gli occhi e si era ritrovato a terra, a fissare il cielo bianco. Poi, tra lui e il cielo si era interposta quella tonda faccia azzurra. 

“Seriema?”

Aveva sentito il sangue defluirgli dalla faccia. Era stato battuto anche lui?! 

Ran rideva a crepapelle. “Adesso sai anche tu cosa si prova, Deyan-shir! La strega se n’è fatto un baffo, del tuo narcotico. Ha finto di cederci e poi, appena ti sei avvicinato... zac... un colpo secco nel collo, e sei andato giù come un cumulo di stracci.”

Naysiak non rideva affatto: continuava a guardarlo con quell’espressione preoccupata. Aveva alzato la testa e parlato a Pushpa, che si era avvicinato per posargli due dita sulla gola. 

“No, stai bene. Lei aveva paura di averti colpito troppo forte... dato che sei un kelith.” Aveva spiegato la situazione a Naysiak, che aveva respirato di sollievo. 

Deyan si era rialzato a sedere e lei aveva gesticolato, parlandogli.

“Dice che il suo codice le vieterebbe di alzare la mano su di te. Ma pensava che tu la stessi mettendo alla prova. Lei non è immune al veleno, però le hanno insegnato a conoscerne molti in natura, e combatterli con lo spirito. Ti chiede se sei contento.”

Contento di essere stato battuto davanti a tutti... da una femmina?!

Si era guardato intorno. I kelith erano rimasti agghiacciati, i sayanni invece avevano l’aria di trovare l’accaduto assolutamente ovvio. 

Si era reso conto di star arrossendo, si era alzato di scatto calcandosi il cappuccio del mantello sulla testa e se n’era andato furibondo, senza una parola. 

Sempre seguito da Naysiak.

Quella notte le schiave avevano avuto a che fare col lato peggiore del loro padrone. Ibal, che se ne intendeva, gli aveva messo nel letto le più robuste salvaguardando le più fragili, ed aveva preparato impacchi per medicarle una volta che lui avesse finito con loro. 

E nuda e tremante di freddo nel cortile, col collare di metallo che le aveva escoriato la pelle, e affamata perché l’avevano lasciata a digiuno, Naysiak aveva fissato il suo mondo sospeso nel cielo, ascoltando le grida dalla shanda e scuotendo la testa.

“Shki t’shish kelith!”

 

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Capitolo 10
*** Dove le nuvole oscurano il cielo ***


 

 

 

 

 

“Xarani!”

Naysiak, che stava seguendo Deyan mentre usciva dalla casa di Kor dopo una riunione, si voltò a guardare chi la chiamava. 

Era Ran, che marciava a larghi passi verso di lei, i pugni stretti, l’aspetto minaccioso. 

I predoni presenti si guardarono preoccupati, e qualcuno fece capolino dalle finestre. La donna non mostrò alcun timore di quella massa di muscoli che si avvicinava, ma i suoi occhi ebbero un lampo di nervosismo: il suo signore se ne stava andando e non poteva restare attardata dietro di lui. Si voltò a vederne la direzione, poi di nuovo guardò Ran.

“Randanai mayè, Naysiak-ki Seriema genken’i.” 

“Non ti capisco,” sbottò lui.

Naysiak sospirò, gli andò davanti e gli puntò un dito sul petto. “Randanai.” Poi indicò se stessa. “Naysiak.” Indicò l’uscita, poi con le dita fece un uomo che camminava: “T’shish... Deyanshir’kin.” Sempre con le dita, mimò un’altra figura che correva dietro all’uomo che camminava. “Mayé!”

“Vuol dire muoviti, credo,” sogghignò Aydie, seduto lì vicino che affilava le proprie armi. 

Ran lo guardò male, poi tirò un grosso respiro, strinse le mascelle, si guardò intorno... e si tolse una penna d’uccello dai capelli. 

Nel cortile si udì un sospiro generale.

Lui gliela tese, con aria torva. “Mi hai battuto, maledetta,” bofonchiò. “Quel che è giusto è giusto. Un giorno me la riprenderò, ma adesso... questa è tua.”

Naysiak guardò quella penna. Poi alzò i suoi grandi occhi a Ran, con un lieve sorriso. 

Lui avvampò. “Prendila, su! Prima che ci ripensi!”

Di nuovo lei guardò la penna, e scosse la testa.

“Seriema-ni jakkai Naysiak kayenji nikka yanai. Kainì.”

E si voltò, correndo via. 

Ran restò impietrito, con la penna in mano...

“Che stupido,” mormorò Chat. 

Gli altri sayanni, imbarazzati, gli voltarono le spalle per non guardarlo. Tranne Nemel, che gli si avvicinò coraggiosamente e gli posò una mano confortante sulla massiccia spalla. 

“Quella... ha... rifiutato... la mia piuma,” sillabò lui, sconvolto. Non raccogliere il segno della vittoria in un duello equivaleva a dichiarare che l’avversario non era stato degno di considerazione. 

“Coraggio, Ran...”

“Come ha osato?!”

“Osato?” intervenne Chat. “Come hai osato tu offrirgliela, piuttosto! Hai presente con chi dev’essersi battuta nella Città Santa? Li hai visti i suoi tatuaggi?”

“È un Guerriero della Cometa...” Nemel sospirò. “Perdonami, Ran, ma tu in confronto non sei niente.”

“Sono il socio del suo padrone!”

“Sei un disertore. Lei l’avrà saputo.”

Qualcuno ridacchiò. “Il problema di essere famosi su Luna di Fuoco.”

Ran era impallidito così tanto che la sua faccia era diventata di un azzurro slavato. Si conficcò la penna umiliata in una treccia a caso, ansimando di rabbia.

“Strega altezzosa... me la pagherà, lo giuro!”

“Senz’altro,” fece Chat. “Sfidala ancora. Ma prima fa’ testamento. E dato che non sei sposato, sii generoso coi tuoi amici.”

Stavolta la risata fu generale. 

 

 







 

 

 

“Mi spiace, Ran, ma la mia risposta è sempre no.”

Il tono di Deyan era calmo e definitivo, ed era l’ennesimo sale sulle sue ferite: ma lui non si arrese.

“Non puoi tagliarmi fuori così!” protestò. “Specialmente adesso che sai quale arma ha scelto Saraji. L’ha fatto apposta, naturalmente: tutti sanno che i kelith preferiscono dare la morte a distanza, o con un astuto pugnale.”

“Sono un nobile,” replicò Deyan. “Mi hanno insegnato a usare la spada.”

“La spada kelith?” Ran rise, aspramente. “Un sayanni ci si stuzzica i denti. Shartip ne manovra una che è in grado di tagliarti a metà in un sol colpo. E quel che è peggio è che a detta di tutti la sa usare. Tu sei dannatamente agile, lo so, e sei più forte di quanto non si pensi per uno della tua razza... ma non è questo il tuo modo di combattere. Alla spada ti batterei persino io che sono in realtà un lanciere, perché ho una cosa che tu non hai... questo braccio!” E glielo mostrò.

Deyan alzò le sopracciglia, e gettò un’occhiata dalla finestra. 

“Lei non ha un braccio come il tuo, ma sembra nata con la spada in mano.”

In cortile Naysiak si esercitava felicemente da sola, mimando un duello contro un avversario invisibile, con cui parlava come se fosse un vecchio amico. Manovrava la sua spada immaginaria con uno stile fluido, senza una forma ben stabilita; e per ogni attacco che compiva da un lato, ne faceva uno assolutamente identico dall’altro: come se fosse stata perfettamente ambidestra.

Ran allibì. “Non starai pensando davvero... di mandare lei a combattere al mio posto!”

“Al mio,” lo corresse Deyan. “Abbiamo di fronte una squadra formata interamente da sayanni, molto motivata a battere un albino.” La solita occhiata kelith dal sotto in su. “Ma se al mio posto si trovassero di fronte qualcuno che sono stati condizionati a considerare come l’apice della loro casta guerriera?...”

Ran strinse le mascelle, indignato.

“Dunque mi toglieresti la possibilità di giocarmi un futuro da grande capo, per metterlo nelle mani di quella mingherlina della Costa?!” No, dannato testabianca, non farmi questo... “Shartip la disonorerà e l’ammazzerà, o farà il contrario: per lui l’ordine delle due cose è irrilevante!”

“Ma almeno tu vivrai ancora, Ran... non ti vedrò morire per colpa mia.”

“E per questo manderesti al macello lei anziché me?!”

“Lei non è niente per me. Tu conti molto di più.” 

Il sayanni tacque, imbarazzato. Doveva ricordarsi che lui, come sayanni, viveva tra le amicizie; ma un solitario come Deyan ne aveva soltanto una... 

“Se conto così tanto per te, allora perché mi umili a questo modo?”

“Umiliarti?” Lo guardò. “Non mi permetterei...”

“Per un guerriero sayanni battersi è una gioia! E io, te lo ricordo, sono un guerriero: guarda qui! E qui!” E si indicò i tatuaggi. “Disertore, sì, e bandito, fuorilegge, ladro, tutto quel che vuoi... ma non un vigliacco! Mia madre era guerriera, e così la madre di mia madre!”

“Non l’ho mai messo in dubbio,” mormorò Deyan, sconcertato da quel crescendo di furia.

“Ah no?... L’hai appena fatto! E non sei che l’ultimo!”

E se ne andò, nella sua solita maniera irruente. Deyan sentì i suoi passi pesanti risuonare in tutta la casa, poi lo vide dalla finestra, mentre attraversava il cortile per uscire; non prima di aver lanciato un’occhiata assassina all’inconsapevole Naysiak, la quale non se ne avvide neanche, impegnata com’era nel suo esercizio. 

Deyan continuò a osservarla. 

Il modo in cui si muove... è come se avesse la rapidità che ho io, ma in un corpo da sayanni.

C’era uno scrigno, accanto alla finestra. Lo aprì e ne estrasse la cintura della donna, con i foderi della spada e del pugnale: c’erano collezionisti di antichità che avrebbero ucciso, per possederli. E lui non solo li possedeva, ma aveva anche la persona che aveva brandito quelle armi...

La dea mi ha forse mandato il perfetto gladiatore per vincere ogni sfida su Luna di Fuoco?

Saal scivolò nella stanza per rassettarne i cuscini. “Questo servo ha indegnamente sentito che la visita era conclusa... chiede perdono, ma Mastro Ran ha una voce... possente.”

“Era in collera con me, perché sto pensando di mandare Naysiak contro il campione sayanni.” Afferrò l’elsa della spada, e la sguainò parzialmente: il suo peso era sorprendente. “Ma per far questo, dovrei restituirle le sue armi...”

“Questo servo osa obiettare, padrone. Donne e lame non possono andare d’accordo, è risaputo. Le femmine sono goffe, possono tagliarsi, o diventare pericolose: nella nostra saggezza le educhiamo a temere ed evitare gli oggetti taglienti, concedendo loro solo gli appositi strumenti per la bellezza, accuratamente stondati e non affilati.”

“Questo vale per le nostre donne, non per le sayanni.”

“Il padrone si fiderebbe di una femmina armata intorno a sé?”

“Non mi ha mai disobbedito da quando mi ha giurato fedeltà.”

“Ma è una barbara selvaggia. E quel collare non ne ha ancora piegato l’orgoglio. Non l’ho mai vista piangere...”

“Ha pianto, invece.”  

Gli bruciava ancora il senso di vulnerabilità di quel momento... quando nel bel mezzo della notte, nel suo comodo letto e una parte di sé riposta in altro caldo contenitore, si era sentito attraversare da una lama di tristezza senza fine, che non veniva da lui ma che pretendeva di essere la sua. E si era trovato a ricordare i propri momenti più belli su Shana... tutti gli istanti ormai perduti per sempre.

Sapeva che lei aveva pianto, perché aveva pianto anche lui, ringraziando la sua dea che questo avvenisse nel chiuso della shanda, il luogo privatissimo dove ogni eccesso era lecito. Aveva cacciato le schiave, poi era rimasto lì, da solo, i pugni stretti sugli occhi, una tentazione terribile di uscire in cortile, gettare un coltello a quella femmina infernale e darle il sospirato permesso di uccidersi, affinché entrambi smettessero di soffrire...

E proprio per questo aveva resistito. Lei non doveva averla vinta. 

Ripose la spada nel suo fodero, e la rimise nello scrigno.  “Hai ragione, non è ancora il momento.”

Saal si rilassò: il suo padrone era stato ragionevole. Non c’era mai da fidarsi dei barbari; figurarsi di quella brutta femmina con la faccia color acqua deturpata da tatuaggi, e le braccia e le gambe che diventavano ogni giorno più dure, invece di tremolare in quel modo affascinante che tanto piaceva ai kelith; e con quel seno da animale della foresta, che si vedeva di tanto in tanto quando lei si toglieva il cencio che si legava attorno al busto, per lavarsi; o quando si muoveva troppo e le cadeva, dato che non aveva la delicatezza di movimenti di una vera donna. La cosa stava diventando un problema in una casa kelith dove la nudità fuori dalla shanda era un tabù, e Saal decise che era tempo di parlarne.

“Il padrone perdoni questo servo, ma egli ritiene che non stia bene che la barbara continui a vivere in cortile, all’aperto; a meno che il padrone non le voglia costruire un... riparo da occhi indiscreti.” Tossicchiò. “Dovrebbe almeno dormire nella shanda, con le altre femmine.”

“Ibal non sarebbe contento di questa soluzione. È già da solo a gestire dodici schiave, non possiamo dargliene una tredicesima, e pure ineducata. “

“Questo servo ne ha già parlato con lui. La barbara è pulita, tranquilla, e dorme sulla sua stuoia. Non darà problemi, se Ibal le troverà un posto vicino ai cancelli dove non disturbi i piaceri del padrone. Basterà insegnarle a tacere, e lasciarla giocare con i suoi sassi...”

“Sassi?”

“Si è portata nel suo giaciglio dei pezzetti di legno e delle pietruzze, che deve aver raccolto in giro. Li lavora nei suoi momenti di riposo.” Saal mise una mano nella tasca della tunica e ne estrasse una figurina di legno. “Questo l’ho trovato nella tana che si è fatta in cortile.”

Deyan se lo fece dare. Era un daino, con le zampe unite e corna spiraliformi. Era ancora incompiuto e grezzo, eppure aveva già una sorta di magica bellezza. E ricordò che Pushpa aveva parlato dell’amore per l’arte della defunta schiatta degli Huanai... 

Animali?

Strinse quella statuina tra le mani, e sentì qualcosa dentro di sé arrendersi. 

“Va bene, basta dormire all’aperto. Fa’ portare le sue cose nella shanda, come ritieni sia giusto.”

Saal fece un timido sorriso. Anche in quello il suo padrone era sempre stato speciale: a differenza di tanti altri nobili kelith non era mai stato eccessivamente crudele: né coi nemici, che uccideva pulitamente; né con i servi, che frustava di rado; né con le sue schiave, che picchiava con moderazione; né con gli animali, che trattava con umanità.

 





 

 

 

*









 

 

 

 

 

Krsyl sedeva al suo posto, in grembo alla Dea. La statua rappresentava solo quello, sovrastato dai seni di Colei che Dà la Vita, e dall’inizio del volto misterioso, col suo mistico sorriso. Nient’altro andava rappresentato della Divina: per vederla nella sua inconcepibile interezza, occorreva sottoporsi al rito segreto, e mettere in gioco la propria vita.

Come l’uomo che era steso e legato a gambe e braccia aperte a quattro pioli, davanti a lui. 

Ma tu la vita la perderai, traditore. E nel modo più terribile.

La droga profonda aveva finalmente rivelato chi tra gli accoliti aveva barattato la propria vita per un sussurro alle spie di Gamosh. In cerca di mistiche estasi, quell’uomo stava trovando l’inferno: una visione in cui sacerdoti neri erano su di lui con i coltelli, per staccargli la pelle brano a brano fino a lasciargli i muscoli nudi. Urlava, come l’anima dannata che ormai era, ma non sarebbe morto. 

Ci serve un corpo per tenere in pratica gli iniziati. I manichini sono utili, ma non c’è niente di più istruttivo che usare un pugnale sulla vera carne. Forse lo terrò da parte per Deyan: un giorno tornerà... e potrò provare il piacere di rivederlo mentre uccide. 

Krsyl provava un calore interno quando pensava a quel suo speciale discepolo. 

Ho dedicato la mia vita ad addestrarlo. E mi ha dato tante soddisfazioni, fin da fanciullo. Sono stato io a iniziarlo, e non solo nelle arti della morte ma anche in quelle della storia, della scienza, della poesia e del piacere. Ma sono sempre stato gentile, perché lui era come una pietra preziosa, che andava accarezzata, lucidata e serbata gelosamente. Solo di rado qualche scheggiatura, per creare faccette ancora più splendenti, più affilate. Sublime, tagliarsi con quel diamante. 

La sua setta l’aveva atteso così a lungo... con la pazienza che solo gli esseri superiori potevano avere. In ogni generazione gli adepti di El avevano introdotto un eunuco volontario nella shanda di ogni casa regnante, perché ne spiasse i segreti e, in alcuni casi, agisse per muovere gli eventi nella direzione voluta. Veleni, droghe, farmaci e narcotici erano rimedi di vecchia tradizione per il culto della Misteriosa, e un afrodisiaco o una bevanda abortiva potevano decidere molte cose. 

Ci erano voluti ben tre tentativi perché la Prima tra le Prime di Unari tirasse fuori il tesoro che era stato seminato in lei generazioni prima. Era facile agire sulla parte femminile delle case regnanti, che nessuno considerava per ovvii motivi, e manovrare mogli e schiave nei letti dei grandi signori, dato che questi non andavano al di là della bellezza fisica per sceglierle: e le albine sopravvissute alla selezione erano invariabilmente bellissime. 

Unari si era illuso di esser stato lui a scegliere quella rappresentazione vivente di El che era stata la madre di Deyan; ma la vera scelta era stata fatta altrove, mettendogliela astutamente nel letto. Unari l’aveva proclamata Prima tra le Prime dopo la prima volta che era giaciuto con lei, incantato dal suo fascino. E aveva poi fatto il suo dovere di maschio, seminandole il ventre. 

Ne aveva ricavato un figlio difettoso, uno bellissimo ma stupido e vanesio, e infine il punto d’equilibrio. 

Abbiamo resuscitato la stirpe degli Imperatori. 

Perché il sogno di El era tornare a farsi adorare da una Kelitha di nuovo unificata, sempre divisa nei suoi atavici feudi ma governata dal pugno di ferro di un potere centrale; e per far questo occorrevano uomini straordinari, non i molli discendenti di una nobiltà che era stata grande, ma che ormai era dedita solo al soddisfacimento dei propri vizi, debosciata e affogata nel lusso. C’erano albini che non uscivano mai dai loro palazzi, che disimparavano a camminare per più di mezza lega, che si ingozzavano di delicatezze fino a scoppiare, e vivevano di afrodisiaci per godersi l’unica attività che si concedevano, calcando nei loro serragli tante più ragazze quanto meno erano in grado di adoperarle. C’erano albini la cui unica occupazione disperante era cercare qualcosa per sconfiggere la noia, collezionare oggetti, giocare d’azzardo. 

L’unico tratto della vecchia nobiltà imperiale rimasto, quasi un ricordo arcaico del passato, era la crudeltà. Accuratamente coltivata fin dall’infanzia, con l’esposizione a spettacoli atroci, e il sadismo passato come normale tendenza della Razza Sovrana. Gli albini però avevano tramandato questa caratteristica staccandola dal contesto in cui era nata: quella di un mondo più violento, di guerre assai più spietate, dove gli uomini dai capelli bianchi combattevano con le loro mani e cavalcavano come condottieri. Il sangue che costoro avevano versato era giustificato dalla furia marziale; quello versato da grassi uomini in palanchino era soltanto un vizio e uno spreco.

E Deyan era uno di quegli antichi guerrieri, riemerso dal passato dei suoi antenati in un mondo da riconquistare. Bastava vedere il suo corpo al limite della perfezione della razza, che aveva appreso meravigliosamente ogni arte di combattimento; la sua mente disciplinata e sveglia, la sua ambizione che già si sentiva stretta persino con una collana d’opali al collo... aveva buttato tutto per l’amore dell’avventura, sì: ma quell’amore era scritto nel suo sangue, era l’eredità di quei nobili che attraversavano i deserti, e brandivano la spada per andare a riempire le stive delle navi di ricchezze sayanni. 

Non dobbiamo perdere questa stirpe, ora che l’abbiamo ritrovata. A qualunque costo!

Krsyl meditava, e ricordava gli ultimi sussurri, quelli più segreti. Cose che nessuno doveva sapere, nemmeno gli interessati. C’era gente che era morta atrocemente, per aver tentato di scoprirle. 

“Bisogna osservare il piccolo Janir, il cadetto del Principe.”

“Ma è solo il suo diciottesimo... o diciannovesimo figlio.”

“Sua madre però è la figlia di Estsen-shir. Una volta passata dalla shanda di Deyan a quella di Gamosh, doveva essere sottoposta alla solita procedura di pulizia per le schiave usate... ma qualcuno ha fatto in modo che su di lei non avesse effetto.”

“Vuoi dire che quel bambino è figlio di Deyan?!”

“Potrebbe. Gamosh ha montato subito tutte le donne di suo fratello, quindi non sospetta di nulla, ma dai registri della shanda non è difficile scoprire che Deyan aveva giaciuto con quella ragazza, prima di partire per Itka... e quindi lei potrebbe essere entrata nel letto di Gamosh già incinta!”

“Allora abbiamo ancora delle speranze per salvare la stirpe... com’è il bambino?”

“Sembra anche troppo bello per essere figlio di Gamosh, coi suoi lineamenti volgari. Ma è presto per farsi prendere dagli entusiasmi, i bambini sono creature mutevoli. Non abbiamo la sicurezza che abbia il sangue imperiale nelle vene.”

“Sarà meglio avercela al più presto. Gamosh sta minacciando la continuità del culto, ed è un principe potente, un temibile avversario. Si sta avvicinando troppo alla cerchia del Tempio Segreto, e quel che vuole l’ha reso ben chiaro. Potremmo trovarci nella necessità di dovergli consegnare Deyan per guadagnare tempo: e sarebbe bene farlo solo se avessimo suo figlio da riplasmare a immagine del padre...”

Sì, era la possibile alternativa. Dolorosissima, certo: perdere definitivamente il talento di Deyan sarebbe stato un gran peccato per Krsyl. 

Ma non per il Culto, se Janir è suo figlio. E il Culto è eterno, ha tutto il tempo del mondo davanti a sé.

Il sacerdote sospirò. 

“Divina El, illuminaci la via e proteggi il tuo prediletto.”

Proteggi il mio Deyan-shir.

L’uomo legato ai paletti urlava, con la bava alla bocca. E la dea, ineffabile, continuava a sorridere.  

 








 

 

 

 

*

 











 

 

Deyan uscì di casa con urgenza, per raggiungere quella della sua Squadra. Naysiak smise ogni attività per seguirlo, come suo solito. Stavolta però dovette aspettarlo fuori, perché il suo Seriema era andato a parlare in privato con alcuni suoi predoni, e lei non era stata ammessa. 

Dopo svariate clessidre di attesa, Deyan uscì accompagnato da Ran e da un altro kelith con la faccia sfigurata, mentre un uomo era mandato a chiamare Pushpa: a quel nome, Naysiak si rischiarò. Erano giorni che non vedeva il t’yr, l’unico con cui potesse parlare liberamente nella sua lingua. 

Tutti tornarono verso la casa di Deyan, dove Saal aveva già fatto accendere delle torce, perché i due soli erano ormai tramontati. C’erano anche i servi, che avevano disposto dei tappeti nel cortile, tra i radi cespugli di spezia che vi erano stati faticosamente piantati. Le porte furono accuratamente chiuse, e gli ospiti fatti accomodare sui tappeti; Naysiak fece per mettersi nel suo angolo consueto, da cui poteva osservare tutto quel che accadeva senza farsi vedere, ma Deyan la chiamò e le indicò un punto davanti ai tappeti. Lei ci andò, obbediente, e si sedette con aria tranquilla. Posò una mano sull’altra davanti al petto. “Seriema,” disse, guardando Deyan. Poi passò a Pushpa, e gli sorrise. “Sen’t’yr.” Si rivolse a Ran. “Randanai.” E al kelith. “Nairì.”

“Ci ha salutato nella maniera antica,” spiegò Pushpa. “Seriema vuol dire Liberatore. Io sono il padre t’yr. Randanai vuol dire Uomo delle Montagne; e nairì significa ospite.”

“Educata,” mormorò il kelith sfregiato.

Ma solo il t’yr ricambiò il suo saluto. 

Deyan la fissò. “Pushpa, spiegale per favore che sei qui per fare da interprete tra noi e lei... e da Giudice delle Contese, per cui tradurrai con precisione e controllerai che la legge sia rispettata. Dì a Naysiak che le ordino di rispondere sinceramente alle mie domande.”

Naysiak ascoltò e annuì.

Deyan estrasse da una piega del mantello un pugnale e lo posò davanti a sé, sul tappeto. 

“Lo conosci?”

Lei lo guardò. “Kelith-ki kin.”

“È un pugnale kelith,” tradusse Pushpa.

“Lo so. È il pugnale di quest’uomo al mio fianco. Si chiama Aydie. E oggi è la prima volta che varca la soglia di questa casa. Tuttavia il suo pugnale si trovava già qui. Saal l’ha trovato sul tuo giaciglio.”

Lei impallidì. Poi guardò verso Saal, con aria smarrita, e disse qualcosa. 

“Chiede perché quell’uomo ha frugato tra le sue cose.”

“Perché gli avevo ordinato di prenderle per portarle all’interno,” rispose Deyan. “Volevo farti dormire in un luogo protetto.”

Lei sorrise appena, ma con gli occhi angosciati. E i tre predoni si scambiarono un’occhiata, come se avessero avuto la conferma di qualcosa. 

“Pushpa ti ha mai spiegato le leggi di Luna di Fuoco, Naysiak?”

Lei scosse la testa, e Pushpa aggiunse: “È colpa mia, non l’avevo ritenuto necessario...”

“Allora tutto è molto più semplice, si è trattato di un errore. Tu non potevi sapere che la prima regola di questa Comunità è di non rubare mai tra di noi; e non ha importanza il valore di ciò che viene rubato, il furto tra predoni è tassativamente vietato. È una regola severa, ma necessaria per mantenere l’ordine, e infrangerla può portare a conseguenze estreme... il colpevole non può fuggire da Luna di Fuoco, e viene trattato secondo le consuetudini di chi ha subito il furto. Nel tuo caso, le leggi kelith sarebbero drastiche.”

Aydie fece il gesto di una mannaia che cala su un polso. 

Naysiak scosse la testa e disse qualcosa, in tono stupito.

“Dice che lei non ha rubato niente. Uno Xarani non ruba.”

Deyan sospirò, e cavò di tasca un altro oggetto, disponendolo accanto al pugnale di Aydie.

“Questo come l’hai scolpito, senza utensili?”

Lei trasalì, con un’esclamazione. Fece per alzarsi, ma Pushpa la fermò con parole urgenti. Lei rispose con indignazione, e fissò Deyan con occhi di fuoco.

“Dice che la accusi falsamente di essere una ladra, quando tu le hai rubato il j’yur.” Pushpa lo indicò. “Quella figura rappresenta uno spirito-animale, un simbolo sciamanico: non è una semplice statuetta.”

Deyan non era mai stato contento di sentirsi dare del ladro: le sue razzie le aveva sempre motivate come restituzioni di ciò che gli era dovuto. 

“Ricorda a Naysiak che in quanto schiava non possiede nulla, nemmeno il suo corpo. Quindi non ho rubato niente: lei è di mia proprietà, e quindi anche questa statuetta. E adesso mi dica con quale utensile l’ha scolpita.”

Lei infilò le dita in una tasca che si era creata con lo straccio intorno ai fianchi, ne estrasse qualcosa e lo gettò al suolo davanti a lui, in malo modo. Erano delle schegge di basalto e dei cristalli di quarzo. 

Quindi tese la mano verso di lui, imperiosamente. “J’yur.”

Lo rivoleva indietro, ma Deyan scosse la testa.

“L’hai scolpito solo con questi sassi? Non ci credo. Era più comoda una lama.”

Lei parlò, e con le dita accarezzò il suolo. Poi lo guardò mettendo le mani una contro l’altra.

“Dice che non aveva una lama, Il suo Seriema gliel’ha negata. Allora ha chiesto aiuto alla terra. E lei è più buona e generosa di lui: le ha prestato le sue ossa per modellare il j’yur. Ti chiede rispettosamente di restituirglielo, è importante per lei...”

“Anche per Aydie era importante il suo pugnale. Era stato forgiato per lui nel suo paese natale. E gli è stato rubato. Abbiamo discusso molto su questa faccenda, e alla fine l’unica colpevole possibile sei tu: sei stata vista accanto a lui, il pugnale è stato ritrovato da Saal tra le tue cose, e non si può sospettare di lui perché non è mai entrato nella casa di Kor, dove vivono gli altri predoni. La conclusione è ovvia.”

Naysiak ascoltò la traduzione e guardò i presenti, con occhi dilatati dallo sconcerto.

“Dice che l’avete condannata ancor prima che potesse difendersi. E che è disonorevole per lei essere accusata di un atto così meschino come un furto. Ricorda che lei è una guerriera sacra...”

“Ti proclami guerriera, quindi desideri avere delle armi: questo è comprensibile. Ma hai rischiato moltissimo a rubarle a un predone qui, su Luna di Fuoco. Se Aydie appartenesse a un’altra squadra, non potremmo evitare che i Marjaban si occupino della faccenda, e le conseguenze sarebbero pesanti anche per tutti noi. Ma dato che è un nostro compagno, posso sistemare l’accaduto in maniera privata con lui, poiché che la colpa del tuo furto ricade naturalmente su di me: infatti tu non sei ancora un membro della Comunità, ma soltanto la mia schiava. E questo, in un certo senso, ti salva; altrimenti toccherebbe a Ran punirti per aver derubato un compagno, il che tra di noi è considerato un delitto rivoltante.”

Naysiak strinse i pugni in grembo. 

“Dice che tutto questo è follia. Lei non ha mai rubato nulla a nessuno. E non prenderebbe mai un’arma a un altro guerriero, se non dopo un regolare duello, come diritto di saccheggio. Tantomeno prenderebbe il fragile coltello di un kelith con cui non ha avuto nulla a che fare.”

“Continua a negare,” mormorò Ran. “Ne ha, di faccia tosta...”

Deyan strinse le labbra. “Naysiak, ti avevo ordinato di essere sincera.”

“Dice che non avevi bisogno di ordinarglielo. Uno Xarani non mente.”

Deyan guardò in quegli occhi fieri, sdegnati. Poi scosse la testa. 

Prese il pugnale di Aydie, glielo posò davanti con garbo. “Mi dichiaro responsabile di quest’incidente. Ti restituisco la tua arma e ti faccio le mie scuse: indicami la riparazione che pretendi, e io la pagherò.”

“Essere ospitato nella casa di un nobile come te è già un premio sufficiente,” disse Aydie, riprendendo il suo pugnale e mettendoselo alla cintura. “La ragazza azzurra non sapeva le nostre regole, adesso le sa. Direi che nella sfortuna è andata bene a tutti quanti: niente è stato perso e ogni cosa è stata appianata.”

“Sei generoso, Aydie. Farò in modo di rimarcare la lezione in modo che quest’incidente non si ripeta mai più.” Gettò un’occhiata a Saal. “Chiama Ibal e fagli portare la frusta.”

Pushpa impallidì. “Che cosa?...”

Deyan lo guardò. “Non ho altra scelta. Io e Aydie siamo kelith. Lui è stato offeso da un membro della mia famiglia, e secondo le nostre consuetudini è mio preciso dovere farlo assistere alla punizione. Tocca però a me sceglierla, e farò in modo che sia leggera... molto più leggera di quanto richieda il delitto commesso. Tratterò Naysiak come una serva che ha commesso un errore, e non come una ladra. Dovrebbe essermene grata.”

Naysiak accolse la sentenza con occhi sconvolti. 

“Dice che è innocente, che non ha fatto niente di male, che ha obbedito ed è stata paziente, e non hai nessun diritto di sottoporla anche a questa vergogna, essere frustata come una serva. Lei è una guerriera sacra, e dovrebbe bastare la sua parola di Xarani a scagionarla da quest’indegna accusa. Non vede nessun motivo per esserti grata di una punizione che non merita.”

“E se non è lei la colpevole, allora chi è?”

La voce di Naysiak si alzò di tono.

“Non lo sa, e non le interessa minimamente. Quel pugnale non la riguarda, ripete che non l’ha mai visto prima in vita sua. Quel che sa è che tu sei un uomo ingiusto, perverso e crudele come tutti gli albini kelith, incapace di credere all’onore e alla vera nobiltà del cuore, e sempre in cerca di pretesti per umiliarla e farle del male.”

Un angolo della bocca di Ran si alzò. 

Risposta sbagliata, sorella. 

“Pushpa, dille che non ho bisogno di pretesti. E che stia attenta a come parla al suo padrone. Si accontenti di una decina di scudisciate dalle morbide mani di un eunuco, è sempre meglio di quel che meriterebbe come ladra.”

Ibal apparve, nella sua veste multicolore, e con la frusta in mano. Naysiak lo guardò e ringhiò qualcosa.

Pushpa esitò a tradurre. “Ha... detto che se quel mezzo uomo osa solo avvicinarsi per percuoterla, lei lo sventrerà con le sue nude mani.”

Ibal impallidì spaventosamente alla minaccia.

“Tu non farai niente del genere, Xarani,” disse Deyan, con voce durissima. “Ti metterai in ginocchio e subirai la tua punizione senza reagire. È un ordine.”

Naysiak fece un sorriso amaro, e si mise in ginocchio. 

“Ya, Seriema!”

“Ibal, fa’ il tuo lavoro.”

L’eunuco raccolse il suo coraggio e si avvicinò a Naysiak, che non lo guardò: tutta la sua attenzione era su Deyan, che fissava con odio. 

“T’shish, sibilò, quasi sputando la parola.

“Che significa?” chiese Deyan a un Pushpa sempre più agghiacciato.

“Significa... Demone bianco. È il modo in cui ai tempi dell’impero...”

Deyan alzò la mano, interrompendolo. “Il resto non importa. Non è la prima volta che la sento rivolgersi a me con questa parola.” La guardò, con un freddo sorriso. “Bene, Naysiak: come vuoi tu. Ibal, spogliala. Forse sulla nuda pelle certi argomenti saranno più convincenti.”

“Deyan-shir!” esclamò Pushpa. 

“Cosa c’è?”

“Lei è innocente! È sotto giuramento Xarani, ti ha già detto che non è stata lei... non puoi farla frustare per un delitto che non ha commesso!”

“Ne ha commesso un altro, proprio adesso. Mi ha insultato.” La voce di Deyan divenne di ghiaccio. “E non osare mai più dirmi ciò che posso e non posso fare in casa mia!”

Il t’yr tacque, intimorito. Doveva stare attento, perché la suscettibilità domestica dei kelith era quasi un analogo di quella sayanni in faccende sessuali. Interferire coi diritti padronali era considerato un’offesa personale, e questo valeva ancora di più per un nobile. 

Ibal intanto aveva tolto a Naysiak lo straccio che lei aveva avvolto intorno al busto, denudandola fino alla vita. E poi le aveva spostato i capelli intrecciati sul petto, per scoprirle la schiena. Lei era rimasta eretta e fiera, senza mostrare nessuna paura. 

L’eunuco prese lo scudiscio, pregò le sue divinità di aiutarlo... e calò la prima frustata. 

Tutti sussultarono. 

Lei no. Restò perfettamente immobile, con le mani sulle ginocchia, senza neanche trasalire. 

L’eunuco ebbe un’espressione smarrita. Poi la colpì di nuovo. E ancora...

Non cambiò nulla. Naysiak restava impassibile, ed era come frustare una roccia. Non batteva neanche le palpebre, continuava a fissare Deyan con aria di sfida, come per dirgli quanto fosse puerile quel che stava facendo.

Alla decima frustata, Ibal era visibilmente sudato e ansimante, e lei sembrava in grado di sopportarne per sempre. Girò appena la testa, con un sorrisetto sardonico, come per chiedersi se fosse tutto lì. Poi alzò gli occhi alle finestre traforate della shanda, dietro le quali si vedevano delle figure che si muovevano. E gridò qualcosa con voce allegra.

“Dice: schiave, è di questo che avete tanta paura?”

Saal trasalì visibilmente. La barbara osava sfidare l’autorità del padrone sobillando le altre donne?!

Deyan non aveva mosso un muscolo.

“Altre dieci frustate. E insegna alle schiave perché devono aver paura.”

Ibal ci si mise d’impegno, ma non ottenne molto di più: solo un lieve tremito al diciannovesimo colpo. Per il resto Naysiak non emise nemmeno un sospiro, nonostante la sua schiena fosse ormai tutta solcata di segni viola. 

Finita la seconda serie, Ibal era veramente distrutto. Non era quello il modo in cui era abituato a punire le donne. Guardò implorante il suo padrone, ma lui fissava solo gli occhi selvaggi della sayanni.

“Allora, ammetti la tua colpa e chiedi perdono?” 

“Hye.”

Un sorriso duro. “Non ti illudere, Naysiak: non sono mai le prime frustate a far urlare. Sono le ultime.”

Lei ascoltò la traduzione e rispose con tono sarcastico. Pushpa spalancò gli occhi, scosse la testa, impercettibilmente...

“Yanè!” lo incalzò lei, indicando Deyan col mento.

“Che ha detto?” 

“Ha detto... che tu questo lo sai fin troppo bene, Deyan-shir.”

Un silenzio agghiacciato seguì quelle parole. L’allusione a ciò che era avvenuto sulla piazza delle esecuzioni di Shana era chiarissima...  

Ran rabbrividì. Sorella, questo non dovevi dirlo.

Deyan aveva smesso di sorridere, e un rossore allarmante era apparso sulle sue pallide fattezze. “Saal,” chiamò, con voce mortale. “Evidentemente ho sbagliato a considerare quest’animale femmina come una delle nostre donne. Trovami un servo robusto al posto di Ibal, e cambia la frusta.”

Tutti i presenti mormorarono, sgomenti.

Naysiak sorrise, col volto madido di sudore. “Nee shima kai, t’shish. “

“Dice: non mi fai paura, demone bianco.”

“Non voglio farti paura, barbara.” Deyan aveva la gelida, minacciosa calma del nobile kelith furioso. “È già tardi per questo.”

Arrivò il servo a dare il cambio a Ibal. In mano aveva una frusta per la doma dei corsieri del deserto. 

“Dèi del profondo,” mormorò Ran, allibito. “Vuoi usare quella?!”

“Deyan-shir,” fece eco Aydie, altrettanto preoccupato. “Non è troppo per un pugnale?”

“Il pugnale non ha più importanza,” sibilò lui. “Ormai è una questione tra lei e me!”

Al suo segnale il servo colpì, e la frusta cantò ben più forte di quella di Ibal. Stavolta Naysiak faticò a controllarsi: i suoi occhi si strinsero, e le sue mani in grembo ebbero uno scatto convulso. Ma non emise un lamento.

“Continua!” 

I servi ascoltavano agghiacciati gli schiocchi della frusta, e dalla shanda venivano pianti soffocati. Erano gli unici rumori che si udivano, assieme ai grugniti di sforzo del servo, e il respiro sempre più stentato di Naysiak. Ran vide delle gocce di sangue scivolare sulle sue braccia nude, la vide tremare. Ma il volto rimaneva quasi impassibile, nonostante gli occhi le luccicassero di lacrime. 

Il servo, esasperato da quella resistenza, calò un colpo particolarmente violento. Naysiak ansimò e barcollò in avanti, appoggiandosi al suolo con le mani contratte. La sua schiena ormai era tutta rigata di sangue, che le colava lungo ai fianchi: ma non cedeva. Alzò la testa e fissò Deyan con un’espressione indomita, sussurrando qualcosa. 

“Ti chiede se la invidi perché tu al suo posto avresti già gridato.”

Dèi del profondo, sorella, sta’ zitta! Smetti di provocarlo! 

Il servo alzò nuovamente la frusta...

“Basta,” disse Deyan, a voce bassa. 

Aveva visto torturare dei guerrieri sayanni. Quelli di rango più elevato si potevano spezzare, ma era una procedura lunga e difficile: amavano sbattere in faccia ai kelith il loro stoicismo; e Naysiak sembrava fatta della stessa pasta. Capì che non avrebbe potuto ottenere soddisfazione da lei se non sacrificandola, e non era ancora il momento: gli era costata troppo per gettarla via. 

Naysiak accolse la fine del supplizio emettendo un lungo respiro pieno di sforzo, chinando la testa. Era fradicia di sudore, sfinita, e le braccia le tremavano. Mormorò una preghiera ai suoi dèi, e chiuse gli occhi.

Ci fu un momento di denso silenzio. Poi Aydie si alzò dal tappeto, posò un ginocchio davanti a Deyan e gli indicò la statuetta del daino.

“Ti chiedo scusa, Deyan-shir. Ma ho ripensato alla tua offerta di riparazione. Accetti di darmi questa figurina di legno?”

“È tua,” mormorò lui, con lo sguardo fisso al suolo.

Aydie la prese, andò da Naysiak e gliela posò davanti.

“Sono su Luna di Fuoco da tanto tempo ormai, e conosco i sayanni. Solo i guerrieri fanno quel che hai fatto tu, e i guerrieri hanno una parola sola. Mi hai convinto, e visto che questa statuetta è così importante per te, te la dono in cambio delle frustate che hai preso ingiustamente.”

Naysiak lo guardò, con occhi tremanti. 

“Kelith-kin kandan, shishe-ne. Seriema-ni jakkai Naysiak kayenji nikka yanai, ii niei ki.”

Aydie si voltò verso Pushpa, che tradusse:

“Ti è grata di credere alla sua innocenza, è l’unico dono che puoi farle. Deyan-shir le ha vietato di accettare qualsiasi regalo, e lei deve obbedirgli.”

“Cosa?...” mormorò Ran, con un filo di voce. Si voltò verso Deyan. “È vero?”

“Sì,” rispose lui. Sospirò. “Ma per questa volta farò un’eccezione. Pushpa, dì a Naysiak che può accettare il dono di Aydie.”

Lei raccolse la statuetta, e se la premette al petto.

“Gra-zie,” mormorò, a fatica, la sua prima parola nella nuova lingua. 

Tentò di rialzarsi. Non ci riuscì: Pushpa si alzò precipitosamente, ma lei scosse la testa: “Hye!” Ci riprovò, e in qualche modo riuscì a rimettersi in piedi, mezza nuda e sanguinante, tremando come una foglia. 

“Naysiak... Xarani-nin... m’hay.”

Si voltò, fece un paio di passi verso il pozzo... e stramazzò a terra. 

Ran trasalì, pallido in viso, ma non riuscì ad alzarsi dal tappeto per andare a soccorrerla. In quanto ad Aydie, naturalmente non avrebbe mai osato. Pushpa rimase immobile, il volto raggelato e gli occhi dilatati.

“Ibal, falla portar dentro,” mormorò Deyan, cupamente. “E dì alle schiave di curarla.”

 

 








 

 

 

La sera successiva Ran si presentò alla casa di Deyan, con un involto sulle spalle. Disse a Saal che doveva parlargli in privato, e con urgenza. 

Deyan l’accolse nella sua stanza favorita, seduto sui cuscini. Ran lo vide strano, pensieroso e quasi assente, come se quel che era successo avesse svuotato di energie anche lui. 

“Stai bene?” gli chiese, colpito di vederlo così.

Il kelith annuì appena. “Cosa posso fare per te?”

Ran esitò, poi emise un sospiro.

“Lei dov’è?”

“Nella shanda, assieme alle altre donne. Non è in pericolo.”

“Era proprio necessario arrivare fino a questo punto, Deyan-shir?”

Lui lo guardò, con amarezza. “Non era necessario, Ran. Era inevitabile. Ho fatto ciò che andava fatto... e anche lei ha fatto lo stesso. Io e lei siamo due acerrimi nemici che qualche dio crudele ha legato assieme. Prenditela con lui, non con me.”

“Perché le hai vietato di accettare doni?”

“Perché voi sayanni la venerate come una figura sacra. E io... volevo invece che restasse al suo posto.”

“Quello di una schiava sottomessa? Ma certo. È una donna. E voi kelith odiate le donne.”

“Non è vero, Ran. Io ho perso tutto, per una donna. Ho pianto, per una donna. Ed è una dea che venero, non un dio. Non giudicare con leggerezza il mio popolo, hai già commesso quest’errore più di una volta... e te ne sei pentito.”

“Avresti reso schiavo quel guerriero se fosse stato maschio? Lo avresti trattato così?”

“Non gli avrei permesso di sfidarmi con la sua grandezza.”

“In onore del tuo dannato motto dei principi di Shana, vero? Solo gli dèi sopra di noi.”

Deyan ebbe un’espressione di dolore. 

“Sono nato albino, Ran. Nulla potrà mai cambiare la mia natura.”

“E nulla potrà cambiare la natura di quella Xarani.” Gli occhi di Ran tremarono. “È una grande guerriera, e me l’ha dimostrato ieri, più di quanto non l’abbia fatto battendomi e umiliandomi come un novellino.”

“Adesso l’ammiri? L’hai odiata anche più di me.”

“È vero,” ammise lui. “L’ho odiata! E... sono stato ingiusto. Tremendamente ingiusto, perché le ho fatto pagare qualcosa di cui era completamente innocente. Pensavo che tutto si sarebbe risolto in un castigo da beffa, e invece... l’ho vista torturare sotto ai miei occhi, senza che avesse fatto nulla di male...”

“Ran,” mormorò Deyan, vedendolo sull’orlo delle lacrime. 

“È lei che merita di battersi contro Shartip!... Non io. E mi vergogno di tutto quel che ho detto, fatto e pensato di lei: vorrei solo... che mi sorridesse ancora. Per questo motivo sono venuto qui a chiederti un favore.” Posò una mano sull’involto. “Permetti alla tua Xarani di ricevere almeno i miei doni, Deyan-shir. Non mi importa degli altri, continua pure a vietarglielo. Ma fai un’eccezione per me. Te lo chiedo... come amico.”

“È così importante per te?”

Ran evitò il suo sguardo. “Dimmi sì o no.”

Gli occhi di Deyan lo studiarono, a lungo. 

“Ran, perdonami se, da kelith quale sono, forse commetto un’indelicatezza. Mi stai chiedendo il permesso di corteggiare Naysiak?”

Il sayanni avvampò. “Non è questo! Lei... lei è...”

Una femmina antica e giovane nello stesso tempo, della tua stessa casta, forte e fiera, e probabilmente ai tuoi occhi anche bella, per quanto tu abbia abbondato in sarcasmi ogni volta che l’hai descritta.

Deyan guardò il turbamento dell’amico. Come funzionava l’innamoramento nei sayanni? A parole lo negavano, ma gli istinti erano istinti, e Ran era un maschio adulto e vigoroso.

Il sayanni intercettò quel suo lieve sorriso, e lo intese alla perfezione.  

“Non saltare alle conclusioni da kelith, Deyan-shir: come io non capisco il tuo popolo, tu non capisci il mio. Noi non corteggiamo nessuno, gli sposi vengono assegnati l’uno all’altra. Io e la Xarani siamo vergini, quindi possiamo essere amici e io... voglio provare a diventarlo. Mi concedi questa possibilità?”

Deyan lo guardò, con un’espressione quasi tenera. 

“È ben difficile che possa rifiutare qualcosa al mio, di Seriema,” disse, e batté le mani. Saal apparve. “Manda a chiamare la sayanni, che venga qui.”

“Subito, padrone.”

Dopo qualche istante d’attesa, la porta si aprì di nuovo, e Naysiak entrò. Era pallida, con gli occhi segnati e lucidi dalla febbre, ma ancora eretta e fiera. Deyan le indicò un cuscino di fianco a Ran, e lei andò ad inginocchiarsi su di esso, senza una parola. Ran scorse le sue spalle nude rigate dai segni della frusta, e lo straccio avvolto intorno al busto macchiato di sangue fresco. Distolse lo sguardo, con uno spasimo di pena. 

“Pushpa non è con noi,” mormorò Deyan. “Dovremo trovare il modo di farci capire.”

“Ci penso io,” disse Ran. 

Prese il suo involto e lo mise di fronte alle ginocchia della donna. Naysiak lo osservò, ma non lo toccò. Allora lui lo aprì davanti a lei.

Era la pelle della tigre di montagna che aveva ucciso su Sayanna. 

Lei la guardò con occhi stupiti, perché era bellissima e preziosa. Alzò gli occhi a Ran con aria interrogativa, e lui si tolse dai capelli la sua penna migliore, e la posò sulla pelliccia. Quindi prese la mano di Naysiak e la portò su quelle ricchezze. 

“Per te,” le disse.

Lei capì, e azzardò un sorriso triste. Ritirò la mano e scosse la testa. 

“Seriema jakkai Naysiak kayenji nikka yanai...”

“Seriema dice che puoi,” la interruppe Deyan. Prese la penna di Ran e la mise nella mano della donna, facendole un cenno d’assenso. “Sì, Naysiak. Hai il mio permesso.”

E il volto di lei si rischiarò, come il cielo che si liberasse dopo una tempesta. 

Con un gesto faticoso per le sue spalle ferite, si infilò quella penna tra i capelli. Guardò Ran con gratitudine, e gli fece un sorriso che gli straziò il cuore.

“Randanai... shi nin m’hay.”

Sorrise anche lui, anche se non aveva capito. Ma non importava. 

Si alzò, salutò, uscì da quella casa. Andò al Tempio delle Divinità Duali.

Si sedette davanti alle statue di Kamoh e Lilia. 

Chinò la testa, e pianse. 

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Capitolo 11
*** Dove un duello decide molte cose ***


 

 

 

 

La portantina oscillava appena, facendo danzare le ghirlande di fiori che vi erano appese, e occhi ammirati erano fissi su di lei, e sul barbaglio azzurro delle piume sulle sue spalle. Tra i capelli le avevano legato le penne rare dei celebrati guerrieri che avevano ceduto alle sue armi; e quel giorno sarebbe andata a prenderne un’altra. Ma non era quello il premio: era battersi sulle pietre lisce della Casa Santa, dove solo un velo separava i combattenti dalla Divina Presenza. Le madri guerriere tendevano tra le braccia i loro bambini verso di lei, affinché la sua ombra li toccasse: fin dall’alba erano venute ad aspettarla, per poter dire che i loro figli avevano visto da vicino un Guerriero della Cometa. Il canto dei t’yr era festoso, tra un tintinnio di cimbali e campanelle, e alcuni uomini nudi danzavano alla luce dei due soli, creando un serpente di muscoli che si torceva tra la folla. In fondo al viale la portantina del suo avversario era parata di strisce di seta rossa, che svolazzavano nella brezza: un generale, onorato da quel privilegio per aver portato i teschi di almeno cento pirati kelith: bianchi e ghignanti, erano impilati con ordine sulla piattaforma. Ma il trofeo più prezioso se l’era legato al possente braccio: lo scalpo di un demone bianco. Per quello aveva meritato l’onore di battersi con lei davanti ai re divini; e la guardava con la gioia negli occhi, quasi implorandola di rendere la giornata memorabile. Lei gliel’aveva promesso con un cenno regale del capo, e un battito di mani ritmico aveva cominciato a salire intorno a loro... assieme a un grido di guerra... 

Ainè! Ainè! Ni Kamoh u Lilia yakkai, ainè...

Naysiak aprì gli occhi. 

Odore di paglia umida sotto di lei, la sua stuoia. E calore sopra: la pelliccia che Randanai le aveva donato, bianca a strisce nere. Era assurdamente regale, per una triste schiava col collare e la schiena dolorante. Non aveva dubbi, prima o poi le avrebbero tolto anche quella. 

Le avevano già tolto tutto il resto. Tutto quel che un essere umano potesse perdere. L’unica cosa che non avevano ancora provato a toglierle era la Membrana. Aveva sperato che ci provassero, per aver una via d’uscita onorevole: ma nessuno la toccava. Così era stata costretta a continuare a vivere lì, in una dannata shanda kelith, unica vergine tra creature che esistevano solo per il peccato, un’altra bizzarria di un Liberatore che l’aveva tirata fuori da una prigione solo per rinchiuderla in un’altra. 

Non finirà mai la mia punizione?

Naysiak si morse le labbra, ingoiando le lacrime. Forse tutto quel che stava vivendo non era altro che una visione, e lei era ancora dentro al Feretro, a immaginare quell’incubo sconcertante. Era troppo assurdo quel che le era successo: una guerriera sacra, venerata da tutti, addestrata ed educata dalla nascita a essere l’ombra delle Divinità, ridotta a tanta abiezione? Davvero poteva essere costretta a servire un albino? Vivere nella sua immonda casa, essere trattata in quel modo, e il tutto a infinite leghe dal suo vero mondo, e in un futuro che era sinistramente uguale al suo passato? 

Qual’era il limite tra fantasia e realtà? Ed esisteva ancora una realtà per lei?

Forse quella era l’ultima prova che le Divinità le imponevano, prima di varcare i cancelli di Ta’itza, e ricominciare tutto daccapo, in un altro corpo, in un’altra mente...

Un rumore, vicinissimo. 

Trasalì, alzò la testa. Una creatura rosea e grassottella sussultò con un gridolino e scattò all’indietro, ricadendo seduta sul pavimento. Lei la guardò sconcertata: sembrava una bambina, coi lunghi capelli bianchi e uno strano vestito legato al collo, che le lasciava scoperte le tonde braccia. 

Un’altra delle stupide schiave di quel maledetto kelith!

La fanciulla la fissava, tremando. Aveva paura di lei. Ma era curiosa, attirata da quella strana creatura azzurra, un’intrusa nel suo regno. La guardava come se fosse una specie di animale selvatico. E Naysiak provò rabbia: come un animale, le ringhiò contro nella sua lingua.

“Lasciami in pace!...”

La ragazzina sussultò ancora, portandosi una mano davanti alla bocca. E gli occhi le si riempirono di lacrime.

Vattene, patetica creatura. 

Naysiak si mosse, e sentì un familiare bruciore. Il collare era pesante, e le aveva scavato una profonda escoriazione all’attaccatura delle spalle. Non riusciva ad abituarsi a portarlo. Tante volte aveva infilato le dita nel gancio del lucchetto, esasperata, piena di voglia di strapparlo... ma aveva avuto l’ordine di metterselo dal suo Seriema, e uno Xarani aveva una sola parola. 

Emise un gemito di rabbia, e voltò la testa. 

Sono una schiava anch’io... schiava del mio Liberatore!

Sentì un tocco timidissimo sui capelli, una carezza. Nella ragazzina la pena aveva lottato col terrore, e aveva vinto: quell’animale era feroce, ma era triste. Naysiak sentì la sua pietà, e se ne vergognò. Ma non ebbe cuore di respingerla: ricordò quando nella foresta si era imbattuta in una lupa moribonda, che guaiva stesa sul fianco, le viscere mezze di fuori. Lei l’aveva accarezzata allo stesso modo, parlandole nella lingua degli animali, raccontandole dei territori di caccia al di là di Ta’Itza... e poi con il pugnale l’aveva addormentata. 

Se solo quella fanciulla avesse avuto il coraggio di fare altrettanto con lei... 

Passi, morbidi. Lieve fruscio di abiti. 

Lui.

Lo riconosceva tra tutti, perché era stranamente neutro ai suoi sensi animali: quasi senza odore, silenzioso, come un fantasma. E anche per via di quel legame misterioso tra di loro: provava un brivido, quando si avvicinava.

Sento il tuo odio, Liberatore.

La odiava, perché l’aveva deluso, l’aveva toccato, l’aveva sfidato; ma soprattutto perché la sentiva troppo vicina, e il suo istinto naturale era distruggere chi osasse entrare troppo a fondo nella sua intimità. L’ingenuo uomo delle montagne non aveva idea di quante volte avesse rischiato di trovarsi un coltello nella gola da parte del suo amico; quante volte sentimenti contrastanti avevano lottato nel cuore di quel demone bianco, affetto contro fastidio, gratitudine contro orgoglio...

Il tuo spirito è un labirinto, figlio di Kelitha. E io ne sono prigioniera.

Vide i suoi stivali da deserto accanto a sé. Non alzò nemmeno gli occhi a vedere il resto. 

Lui disse qualcosa, con quella sua voce fredda e autoritaria. La ragazzina mormorò una scusa e sgattaiolò via.

Lo sentì chinarsi su di lei. 

“Naysiak.”

Com’era strano sentirgli pronunciare il suo nome. Lo diceva con le consonanti alla kelith, pur accentandolo correttamente. Ma era sempre meglio di animale o barbara.

“Seriema,” rispose, senza guardarlo. 

Le chiese nella sua lingua se si sentiva bene, se aveva fame: lei lo capì, ormai quelle parole le stavano diventando abituali. Parlarle era un’altra questione, era costretta a esprimersi con un linguaggio  elementare e si rendeva conto che questo non faceva che abbassare ancora di più la considerazione che avevano di lei. 

Ma tanto cosa m’è rimasto da dire? 

Tacque e scosse la testa. No, non aveva fame. 

Lui le disse che il giorno del duello era arrivato.

Lei annuì: lo sapeva già, perché appositamente per quello era stata tenuta in vita. Doveva battersi contro un disonorato senza piume, ma con un’oscena collana di orecchie seccate. Lei, che aveva onorato i generali delle Divinità, costretta dal suo padrone a duellare con un essere che valeva meno di una bestia. 

Ma combattere vuol dire dimenticare... vuol dire anche poter morire.

Si costrinse a far forza sulle braccia, per raddrizzarsi. Voleva che lui vedesse che era forte, che era pronta: il dolore non contava, non doveva vederlo. Si mise in ginocchio sulla stuoia, alzando su di lui gli occhi che bruciavano. Le rispose quel suo sguardo così strano, dai colori tutti sbagliati: le iridi rosse e le ciglia bianche, invece degli occhi blu e le ciglia nere. Gli occhi degli odiati Dominatori.

Represse un moto di disgusto e si strinse addosso la pelliccia. 

Lui le posò davanti un involto. 

Lei lo guardò, chiedendosi se fosse un altro dono di Randanai. Ci posò sopra le dita, e sentì sotto la stoffa una forma familiare... trasalì, aprì l’involto col cuore in gola.

Era la cintura con le sue armi.

Emise un gemito di gioia, e gli occhi le si riempirono improvvisamente di lacrime. 

“Maakanai! Yeneii!” le salutò, con voce rotta, premendosele al petto: la sua spada e il suo pugnale, suoi fedeli compagni, forgiati per lei un’eternità prima dal fabbro sacro Tikkana, e temprati nel sangue kelith dei prigionieri vivi. 

Che la loro sete non si estingua mai...

Aveva assistito da fanciulla alla cerimonia, e all’invocazione sul metallo fumante: e sentiva che le sue armi non avevano dimenticato. Sentiva la loro sete, dopo più di un millennio: volevano il sangue di quell’uomo di fronte a lei.  

Uccidi il diavolo bianco, Naysiak. Uccidilo!

Afferrò l’elsa della spada: la sensazione era meravigliosamente familiare. Colse con la coda dell’occhio la posizione dell’albino: aveva l’avambraccio posato sul ginocchio, e la sua mano sfiorava appena il manico del suo pugnale. Naysiak vide benissimo che era all’erta, nonostante il corpo fosse apparentemente rilassato... 

Mi stai mettendo alla prova, kelith? 

Con uno scatto sguainò la spada e la tese verso di lui, a un palmo dal suo volto. 

Lo sai che se volessi prendermi la tua vita, nulla potrebbe salvarti? 

Notò che lui non si era mosso: i suoi occhi non guardavano la spada, ma lei. 

Ne hai di sangue freddo, padrone. 

Fece danzare la lama nell’aria, poi poi riaffondarla con un sibilo nel suo fodero decorato. 

Perdonami, Maakanai. Ma ho giurato. 

Posò la cintura coi foderi, emise un lungo respiro, mise le mani una sull’altra davanti al petto. 

“Grazie, Seriema.”

Almeno morirò da guerriera. 

Lui annuì, con un sorriso remoto che lo rendeva meno odioso.

“Manderò Pushpa a prenderti.”

 














 

 

 

 

C’era praticamente l’intera Comunità nella piazza di fronte alla Grande Casa, dove quattro paletti erano stati piantati per delimitare l’area rettangolare del duello. Le due squadre che si fronteggiavano stavano sui lati opposti, Deyan e Saraji dal lato della Grande Casa, fiancheggiati dai loro luogotenenti; e un mare di gente ovunque ci fosse posto. 

L’aria era pesante, carica di elettricità. Si avvicinava una delle tempeste di polvere che ogni tanto flagellavano il pianeta: il vento prendeva velocità nella desolazione e si metteva a giocare bizzarramente con la terra, creando imponenti nuvole ocra che salivano fino al cielo. Era l’atmosfera adatta per quell’occasione, perché la tensione era palpabile: i confronti tra caposquadra erano rari, e ancor più quando le squadre erano importanti. La Squadra Sacrilega non era ancora una delle Grandi, ma la sua popolarità la rendeva quasi tale; e molti erano curiosi di vedere se fosse giunta alla fine del suo incredibile percorso. 

Molti anche lo speravano. 

Per questo ci furono molte voci di incitamento quando Saraji proclamò che al suo posto si sarebbe battuto Shartip lo Spietato, in un leale duello sayanni (e rimarcò la parola, in faccia a Deyan). 

Direttamente da una bettola, dov’era andato a prepararsi bevendo del buon vino, il gigantesco predone fu accompagnato dai suoi uomini in festa fino al recinto della piazza. Portava soltanto un perizoma a grembiule, come li mettevano gli uomini sposati; ma intorno alle braccia e alle gambe aveva legato una quantità di decorazioni di conchiglie e dischetti d’argento, e la sua famigerata collana gli pendeva sul vasto petto ombreggiato di nero, essendo lui della razza dei villosi uomini del grande nord. Alla cintura gli penzolava il fodero della spada: una massiccia trave d’acciaio larga un palmo, con un’elsa lunga che indicava una presa a due mani. I capelli erano legati in una gran coda di cavallo, senza nessuna pretesa di acconciatura guerriera, e questo nonostante i suoi tatuaggi lo qualificassero come tale. Rideva forte, e guardava Deyan mostrandogli i denti: gli fece i gesti del codice dei ladri per fargli capire cosa gli avrebbe fatto, una volta finito il duello. 

“Dunque è così che ha perso l’onore,” mormorò Deyan, con un sorriso ironico.

“Allora,” ringhiò Saraji. “Sei pronto a batterti, kelith?”

“Ho anch’io un campione a cui affidarmi.”

Saraji sogghignò, contemplò Ran che stava alle sue spalle, con la sua lancia in pugno. “Ti compiango, fratello...”

“Non è Ran.” Deyan non degnò di un’occhiata il vecchio sayanni. “Non spreco un amico per uno come te.”

“E allora chi si batterà con il possente Shartip?”

“Basterà la mia schiava.”

Un mormorio seguì quelle sprezzanti parole. 

Saraji s’oscurò in faccia. “Con chi credi di aver a che fare, kelith? Che vuol dire quest’altro insulto...”

“Deyan-shir è nel suo diritto,” intervenne il Giudice delle Contese. “Il nome della schiava?”

“Naysiak.”

E adesso la mia vita è nelle tue mani, guerriera. 

La vide avvicinarsi allo spiazzo, seguita da Pushpa; e la gente ammutoliva al suo passaggio. Era avvolta nella pelliccia di tigre, che portava come un mantello; con i capelli perfettamente intrecciati e legati insieme in un complicato nodo, la piuma di Ran legata a una treccia; e due righe bianche le attraversavano orizzontalmente il volto. 

Shartip la guardò, perplesso.

“Una sayanni?”

Naysiak si fermò un istante sul bordo del recinto, guardò il cielo, poi si tolse la pelliccia e la consegnò a Pushpa. Sotto portava solo il solito perizoma e, in onore della sensibilità kelith, lo straccio legato stretto attorno al seno; non aveva addosso altro, se non il suo collare da schiava. Però si era dipinta tutto il corpo, con numerosi simboli tracciati col colore bianco: piccole spirali, che risaltavano sulla sua pelle azzurra e la facevano sembrare una strana creatura notturna. Attorno ai fianchi nudi portava la bellissima cintura della spada, con le sue decorazioni in argento sbalzato di animali che si inseguivano: sembrava completamente fuori luogo in una figura dall’aspetto così arcaico e barbarico. 

Tutti mormorarono, guardandola. Qualche sayanni si piegò a toccare il suolo; alcuni t’yr presenti emisero dei gemiti a vedere la sua schiena, e si coprirono gli occhi, con gesti di dolore.

“Che succede?” chiese Deyan a Pushpa, che era andato a raggiungerlo tenendo tra le mani la pelliccia, come se fosse stata una reliquia. 

“Che succede?” fece eco il saggio, con un sorriso amaro. “Semplice, Deyan-shir. Vedono cosa ne hai fatto, di un Guerriero della Cometa.

“Un... cosa?!” esclamò Saraji. 

“Quella donna è una Xarani,” gli disse Pushpa. 

La parola passò di voce in voce, e risuonò come un mormorio in tutta la piazza.

“Xarani?” La voce di Shartip si levò, accompagnata da una grassa risata. “Io vedo soltanto una selvaggia dipinta, con qualche tatuaggio di troppo.” La guardò, con occhi lubrici. “Un po’ piccola, ma decisamente femmina... e dai segni della frusta, direi che è già stata domata e montata dal suo padrone: non dovrò nemmeno fare la fatica di sverginarla.”

I t’yr si irrigidirono, indignati da quella mancanza di rispetto. Deyan sentì un sinistro scricchiolio di denti dietro di sé: era Ran, con una faccia quale mai gli aveva visto prima...

“Controllati,” gli mormorò. 

“Se non lo uccide lei, lo uccido io.”

Naysiak non diede nessun segno di aver compreso le parole insultanti di Shartip. Il suo sguardo era vuoto, assente, il corpo era completamente rilassato, le mani lontani dalle armi. 

Guardò verso i due soli, che cominciavano a velarsi. Mormorò: 

“Ainè, ainè, ni Kamoh u Lilia yakkai, ainè...”

I suoi occhi divennero lucidi. 

“Ai vostri posti,” ordinò il Giudice delle Contese. 

Shartip sguainò la sua grande spada, godendosi il rumore del metallo. 

Lei restò immobile, sempre guardando verso il cielo. 

“Kamoh, Lilia,” sussurrò Pushpa, con voce rotta. “Rendetele facile il passaggio...” 

Uno dei t’yr alzò le braccia al cielo e cominciò un canto. Altri si unirono a lui, facendo lo stesso gesto. 

Deyan trasalì. “Pushpa, che succede?” 

“Non vedi i segni che Naysiak ha sul corpo?” C’erano lacrime, nella sua voce. “Sono bianchi. Si sta preparando a morire: i t’yr le offrono di accompagnare la sua anima.”

Ran sbarrò gli occhi. “Che cosa?!”

Deyan si sentì impallidire. “Le avevo ordinato di battersi!” 

“E lei si batterà, ma con quel che le resta delle forze... e della voglia di vivere.” Pushpa chinò la testa. “Se morirà compiendo il suo dovere, lei avrà comunque onorato il suo giuramento.”

“Aveva giurato di proteggermi. Se perderà questo duello, avrà mancato al suo dovere...”

“Non puoi chiederle l’impossibile, Deyan-shir. Lei è stanca. Ferita, dentro e fuori. Mille cicli di dolorosa attesa, per poi risvegliarsi così... umiliata, calpestata, torturata. Puoi biasimarla, se si è dipinta addosso i simboli dell’addio?”

Il Giudice delle Contese estrasse un fazzoletto rosso e lo alzò nel cielo. Il vento lo fece sventolare.

Ran fece un passo in avanti, la sua voce tuonò per tutta la piazza. “Xarani!...”

Lei spostò lo sguardo su di lui, con occhi disperati. 

“Non arrenderti,” gemette il sayanni, quasi una preghiera. 

Il Giudice lasciò andare il fazzoletto. E tutti si misero a gridare. 

Shartip attaccò. Naysiak estrasse la propria spada, e si gettò coraggiosamente in avanti. 

Il suo avversario è immenso rispetto a lei, pensò Deyan, con un brivido di apprensione. 

Alla donna sembrava non importare, accettò lo scontro a viso aperto: un’esibizione di scherma antica che colse di sorpresa il gigante. Il quale contrattaccò con violenza, prendendosi i suoi vantaggi in termini di forza e potenza della sua arma: era effettivamente abile a manovrare la sua grande spada. Deyan vide che Ran aveva avuto ragione: in quel tipo di combattimento lui avrebbe avuto la peggio, perché non avrebbe potuto far molto meglio di quella donna; che era costretta adesso in una posizione difensiva, con un gioco di parate e schivate faticosissimo.

“Non può reggere per molto,” mormorò Ran, che fissava la scena ad occhi spalancati. 

Naysiak passò la spada nell’altra mano, cercando di distribuire lo sforzo: ma questo la mise nella posizione ideale per Shartip, che ne approfittò immediatamente e calò fendenti pesantissimi in sequenza. Alla fine riuscì a piazzare il primo colpo, falciando Naysiak con un fendente al fianco che avrebbe potuto tagliarla in due. Tutti gridarono, ma Shartip l’aveva volutamente colpita col piatto della spada... un colpo doloroso, ma non mortale. 

Lei cadde a terra, pesantemente, e lui rise. 

“Non così in fretta, bambina. Prima mi voglio divertire un po’!”

La prese a calci e calò altri fendenti su di lei, ritmati dalle urla di incitamento della sua squadra. Con la forza della disperazione, Naysiak riuscì a rimettersi in piedi ed allontanarsi un poco da lui, per avere un po’ di requie: ma zoppicava.

“Resisti, ragazza azzurra!” gridò Aydie, spingendosi fino al limite del recinto. 

I predoni della Squadra Sacrilega si misero a gridare anche loro, per incitarla. Ma lei si voltò a guardare Deyan, ansimando e tenendosi il braccio che reggeva la spada.

E scosse lievemente la testa, come per dirgli che ci aveva provato, ma non ce la faceva. Gli fece un sorriso triste, poi si girò a fronteggiare di nuovo il suo avversario.

“Fa’ qualcosa, Deyan-shir,” implorò Ran. “Al prossimo attacco Shartip la ucciderà!”

Il volto di Deyan era pallido. “Pushpa, dille nella sua lingua che un guerriero non bara col destino.”

Il t’yr lo guardò, sorpreso. 

“Diglielo!”

“Seriema yanai, jinna-nin najanakin shikka nakai!”

Lei girò la testa a guardarlo, e i suoi occhi tremarono. 

“Combatti, donna!” gridò Ran, affiancandosi a Deyan. “Non lasciarti massacrare!...”

“Oh sì, invece,” ringhiò Saraji. “Shartip, massacrala.”

Il gigante le era già addosso: ma invece di un colpo mortale, le assestò un’altra tremenda piattonata che sbattè violenta contro la sua coscia, facendola cadere su un fianco. 

Naysiak emise un gemito, portando la mano sulla gamba.

“Ti piace il dolore, vero?” le ringhiò Shartip, colpendola ancora, e ancora. “Quando ti avrò macerata per bene, aprirai le gambe anche per me.”

“Uccidila!” gridò Saraji. “Smettila di giocare: avrai donne quante ne vorrai, quando avrai finito.”

“Voglio divertirmi!” tuonò lui. “Allora, miei compagni, da dove comincio? Le stacco un piede? Una mano?...” Un sorriso osceno. “O la monto qui, davanti a tutti?”

“Bastardo disonorato!” tuonò Ran, facendo un passo in avanti. 

“Cos’è, la tua femmina?” rise Shartip, guardandolo. “Senza Membrana c’è posto per tutti e due, fratello.“

Gli occhi di Ran si spalancarono di furia.  “Ripetilo con la mia lancia sotto il naso, carogna immonda!”

Fece per avanzare, ma il Giudice delle Contese gli sbarrò il passo. 

“Non puoi entrare nel recinto,” lo ammonì. “È la regola!”

“Non lasciarti provocare,” gli disse Deyan con urgenza, prendendolo per un braccio e costringendolo a guardarlo. “Sono solo parole. Abbi fiducia in Naysiak.”

“Tu ce l’hai?” 

“Sì.”

Ran si stupì della sicurezza che gli lesse negli occhi. “Deyan-shir...”

“Un vero guerriero non bara col destino. Nemmeno quando è contro di lui.”

Naysiak aveva approfittato di quell’interruzione per allontanarsi di qualche passo dal suo aguzzino, strisciando penosamente a terra. La sua voce salì, rotta e acuta, un tono di implorazione. 

“Povera sciocca.” Saraji ridacchiò. “Chiedere pietà a Shartip non farà che eccitarlo ancora di più.”

“No,” mormorò Pushpa, con le sopracciglia contratte. “Non sta chiedendo pietà. Sta invocando il Mondo Magico!”

Il vento soffiò, con una raffica pesante che fece boccheggiare gli astanti. Le nubi in cielo si tinsero all’improvviso di strani colori metallici, e i due soli scomparvero. La frizione scatenò un fulmine, che illuminò per un istante la scena con un lampo azzurrino, seguito da un tuono...

Naysiak si alzò in ginocchio, piantò la spada a terra e gridò: “Ainè Mi-nai shinna kai!...” 

Gli occhi le si accesero, si strinsero. Il corpo le si irrigidì, i muscoli pieni di una strana tensione.

“Ainè Mi-nai shinna kai!...”  ripeté, le mani aggrappate all’elsa.

“Che sta gridando?” chiese Deyan, stupito. 

Pushpa spalancò gli occhi. “Sta... chiedendo aiuto a Luna di Fuoco!”

Gli altri t’yr si guardarono, poi si unirono all’invocazione, che salì ritmica, quasi portando una nuova speranza. “Ainè Mi-nai shinna kai... Ainè Mi-nai shinna kai...”

“Ainè Mi-nai shinna kai!”

Quella non era la voce di un t’yr. Era la voce di un kelith. 

“Aydie!” mormorò Ran, sbalordito.

Lo sfregiato non sapeva il senso di quelle parole, ma si era messo a gridarle anche lui, perché si era reso conto che erano importanti per Naysiak... le mostrò il pugno chiuso, mentre ripeteva assieme ai t’yr l’invocazione in antico sayanni: qualcosa di assolutamente incredibile.

Tutta la Squadra lo imitò. Kelith e sayanni insieme.

“Ainè Mi-nai shinna kai!... Ainè Mi-nai shinna kai!...”

E il vento soffiava, ululando... Deyan rabbrividì: qualcosa fece trasalire il suo istinto di uomo del deserto.

C’è umidità in quest’aria! 

Naysiak voltò lo sguardo all’intorno, il respiro affrettato, i grandi occhi dilatati. Le sue mani lasciarono l’elsa della spada e qualcosa di tremendo sembrò entrare in lei, contorcere il suo corpo in qualcosa di non più umano.

“J’yur,” ringhiò, e si mise a soffiare. 

“Ora basta!” gridò Shartip, esasperato. Si avvicinò a lei, con la spada in pugno...

Più rapida di un felino, lei gli balzò in faccia con uno strillo da far gelare il sangue. Uno scatto violento della sua mano destra, e due delle sue dita si conficcarono nell’orbita sinistra di Shartip: un altro scatto, e l’occhio fuoriuscì dall’orbita, restando appeso solo per qualche nervo. 

Shartip urlò, assieme a tutta la folla, e Saraji portò le mani contratte alla propria faccia, con un grugnito...

“Dèi del profondo!” esclamò Ran. 

Naysiak ricadde a terra, ma balzò subito in piedi: il viso stravolto, le movenze da animale da preda. Balzò di nuovo sulle spalle di Shartip e affondò i denti nel suo collo, mordendo con tutte le sue forze e agitando la testa come per strappare la carne. Lui urlò di nuovo, si dibatté cercando di liberarsi, e alla fine lei si staccò. Balzò a terra sulle mani e sulle ginocchia, ululando come un lupo.  

“Lo spirito-animale,” mormorò Pushpa, impressionato. 

“Ti squarterò, femmina maledetta!” urlava Shartip, furibondo, col sangue che gli colava sul petto e la mano premuta sull’occhio ormai perduto. “Quando ti metterò le mani addosso...”

Lei balzò da un lato all’altro, e con uno scatto gli strappò dal collo la collana di orecchie. Se la portò vicino alla testa, ed emise un gemito pieno di pena... quindi parlò ancora. 

Pushpa tradusse: “Dice che ci sono orecchie di innocenti, in quella collana. Sente il loro pianto.” 

Raggiunse la sua spada, la svelse dalla terra e la alzò sopra la testa, con un urlo di sfida.

“Maakanai!”

Shartip tolse la mano dalla rovina del suo volto, e afferrò il suo spadone. 

“Muori, puttana dei kelith!...”

Alzò la spada e calò un fendente accecante, dall’alto al basso, per tagliarla in due: lei lo evitò gettandosi di lato.  E nello stesso tempo la sua spada corta saettò come un lampo, in un gesto trasversale dalla violenza sbalorditiva, accompagnato da uno strillo acuto come il richiamo di un rapace...

“Ha vinto,” mormorò Deyan, in un assurdo istante di silenzio.

Shartip arretrò da lei, con l’unico occhio rimasto sbarrato. Sul suo ventre apparve una linea rossa... che divenne gialla... e di nuovo rossa, colando sangue.

Naysiak sorrise, e i suoi denti bianchi lampeggiarono nella bocca arrossata.

“Yerenai mayè, sh’ki hulum!”

Si rizzò come una molla, lanciò un urlo e scaricò una ginocchiata contro quella linea. E un viluppo di visceri grigiastri fuoriuscì dalla ferita, rovesciandosi sulle gambe di Shartip. 

Tutti urlarono dall’orrore, coprendo il grido atroce del sayanni sventrato. Ran strinse i denti, colse l’espressione del suo amico kelith: era perfettamente impassibile, da degno albino qual’era. 

Saraji era sconvolto. “Shartip, maledetto idiota...”

Il gigantesco sayanni era crollato a terra, in ginocchio: le sue mani impazzite tentarono di ricacciare le viscere nella ferita, tremando sempre di più. Naysiak gettò la spada, gli andò vicino, gli sussurrò qualcosa. Poi, con un gesto violento e deciso, gli cacciò nell’addome la collana di orecchie, infilando il braccio fino al gomito tra le sue budella. 

“Oh Divinità Sante...” esalò Pushpa, con una smorfia. 

Qualcuno degli uomini di Saraji si piegò in due a vomitare. Altri kelith scapparono dalla piazza. 

Shartip era crollato terra, urlando in preda alle convulsioni. Lei gli rimase rabbiosamente sopra, ringhiando e frugando tra le sue viscere. Finché non trovò quel che cercava, e lo strappò con un grido di furia: un torrente di sangue schizzò dalla ferita, come se lei avesse trovato una fontana.

“Dèi del profondo,” ansimò Ran. “Che cos’ha fatto?”

“Gli ha aperto il grande vaso sanguigno nell’addome,” spiegò Deyan, che in quanto nobile conosceva fin troppo bene l’anatomia interna dei sayanni. Fece un lievissimo sospiro. “Troppo rapido, ma lei dev’essere esausta.”

Shartip si afflosciò e finalmente tacque, gorgogliando. La donna estrasse dal suo ventre il braccio lucido e completamente arrossato; si sistemò a cavalcioni del corpo che ancora fremeva ed estrasse il pugnale dalla cintura. Quindi gli afferrò la testa per i capelli.

“E adesso che fa?!”  

Pushpa ebbe uno sguardo vacuo. “Quel che i tuoi antenati facevano ai suoi tempi, Ran. Si prende un trofeo.”

Deyan fissò quello spettacolo agghiacciante: la piccola femmina insanguinata che lavorava di coltello sulla testa del nemico, con un sorriso di feroce soddisfazione sulle labbra.

Mi devo ricordare di questo momento, ogni volta che dimenticherò chi è veramente questa donna. 

Naysiak era molto pratica: le ci vollero solo pochi minuti. Si rialzò, barcollante, impastata di polvere e sangue, le pitture sul suo corpo ormai quasi cancellate. Alzò la mano al cielo, mostrando lo scalpo di Shartip, e lanciò un grido di trionfo che si fuse con l’eco di un altro tuono.

“Deyan-shir ha vinto la disputa,” proclamò il Giudice delle Contese, pallido come un cadavere. 

Saraji, la faccia slavata dallo shock, alzò gli occhi con uno sguardo folle. 

“Maledetto kelith, mi hai mandato contro una strega...”

E mise mano al suo pugnale. 

Deyan era pronto a difendersi, ma non ne ebbe il tempo: un colpo secco, uno scricchiolio agghiacciante, e la punta della lancia di Ran fuoriuscì dallo sterno del vecchio bandito. 

Ci fu un altro urlo della folla nella piazza, subito zittito. 

“Hai perso, Saraji,” proclamò Ran, con voce ringhiosa. “Va’ all’inferno col tuo campione!”

Con uno scrollone violento estrasse la lancia dalla schiena di Saraji, che crollò a terra con gli occhi aperti, spandendo sangue sull’avida polvere. E ne rimirò il cadavere, respirando profondamente.

“La regola è la regola,” dichiarò, e guardò il Giudice delle Contese, che tremò, ma annuì.

“Eri già pronto a ucciderlo?” mormorò Deyan.

Ran aveva una gelida determinazione negli occhi. “Sì, come i suoi luogotenenti erano pronti a uccidere te se la Xarani avesse perso.” Li guardò e questi arretrarono, intimiditi. “Non aveva più senso lasciare in vita questo disonorato infido: ci avrebbe sobillato contro i suoi uomini, e avrebbe cercato in tutti i modi di vendicarsi.” Guardò Saraji. “Ha creduto di vincere facilmente, e invece ha perso: un predone paga col sangue le sue sconfitte.” Si voltò verso la squadra del defunto. “Vero, sayanni?!”

Gli uomini di Saraji tacquero.

“Chi è il vostro capo?!” gridò Ran, puntando su di loro la sua lancia insanguinata. 

Gli rispose un cupo silenzio. Poi, una voce si alzò. 

“Non abbiamo più un capo.”

“Io sono il vostro capo, adesso.”

C’era una calma autorità nella sua voce, nella sua persona intera, che sembrò spandersi come un’onda tra la folla ammutolita. Naysiak abbassò la mano con lo scalpo gocciolante, guardandolo col respiro stentato. 

“Randanai,” mormorò, con tutta la fierezza del suo popolo.

Deyan li guardò, sentendosi un intruso. I pregiudizi kelith in lui si erano confermati e smentiti insieme... barbari, semplici, nobili e solenni: così erano i sayanni, distanti da lui quanto quel mondo dai due soli nel cielo. 

Provò improvviso un senso di solitudine, una remota tristezza che temperò la consapevolezza del suo successo.

Abbiamo vinto!

Sentì un tocco caldo sul viso. Poi un altro. Guardò a terra: piccoli cerchi scuri si disegnavano nella polvere,  ticchettando...

Tutti i presenti trattennero il fiato. 

“Non è possibile,” mormorò il Giudice delle Contese, guardando il cielo. 

“La pioggia,” esalò Pushpa. 

Sull’abitato di Luna di Fuoco non pioveva da decadi. Non era lì che avvenivano le rare precipitazioni del pianeta: solo in casi rarissimi le tempeste di polvere si caricavano dell’umida aria polare per portarla a quelle latitudini. 

Tutti si misero a gridare a quel miracolo.

Deyan era sgomento: la pioggia non faceva parte del suo universo, per uno Shanì era come se dal cielo cadesse dell’oro; levò lo sguardo alle nuvole che si torcevano su di lui, tra una danza di fulmini. Ran invece rideva, con una felicità assoluta e liberatoria, godendosi la cosa che più gli mancava delle sue montagne sayanni. La pioggia si intensificò, crepitando fino a diventare un vero e proprio acquazzone, e la gente cominciò ad abbracciarsi e a ballare per le strade. 

Naysiak rovesciò la faccia verso il cielo, lasciando che quell’acqua calda e polverosa lavasse via il dolore, il sangue e la furia dal suo volto. Aprì le braccia, con un sorriso ad occhi chiusi.

“Mi-nai ni...” sussurrò, ringraziando il suo nuovo mondo.

Prima che i predoni della Squadra Sacrilega si precipitassero da lei urlando di gioia, per portarla in trionfo. 

 

 

 






 

*








 

 

 

Mastro Kurmaji li aspettava, con le sue consuete tazzine d’infuso già pronte, la pipa accesa, e le tavolette disposte di fronte a lui. La sua stanza accogliente sembrava adesso soffocante, ora che per qualche giorno Luna di Fuoco avrebbe mostrato la sua effimera bellezza: la pioggia era durata ben poco, ma aveva reso limpidissima l’aria, riempito le cisterne e i pozzi della Comunità, e infiniti semi dormienti da cicli e cicli di soli si erano destati, creando incredibili macchie verdi e colorate sull’arido suolo. 

Sarebbe durato tutto un pugno di giorni, ma nessun predone aveva chiesto di scendere sul mondo in quel periodo: solo i procacciatori di viveri, che avevano fatto affari d’oro. Sembrava che un velo di stupore avesse coperto la Comunità intera. 

“Vi servirà un’altra casa,” disse il Marjaban. 

Ran annuì. “La casa di Kor non basta più. Ci trasferiremo nel quartiere che era di Saraji: ci spetta per diritto di conquista. Una volta che avrò sbattuto fuori gli elementi che non mi piacciono, e mi sarò liberato dell’eccesso di schiavi che si teneva in casa, ci sarà spazio a sufficienza per accogliervi anche la nostra squadra. Chi vuole dei tagliagole indisciplinati e pervertiti potrà servirsi liberamente dei miei scarti: voglio tenere solo gente in gamba, che sappia il mestiere e che segua le regole: che sappia combattere e obbedisca in azione, e che accetti di convivere con i kelith. Non mi interessa la casta di nascita.”

“Sono condizioni dure,” disse Kurmaji.

Ran rise, mostrando la perfetta dentatura. “Sarà, ma al momento ho perso il conto dei predoni sayanni che mi stanno implorando di entrare a far parte della squadra. Credo che potremo permetterci una certa selezione, invece di buttarci subito a far concorrenza con le Grandi Squadre.”

“Ecco i conti della squadra di Saraji,” mormorò il Marjaban, tendendo a Ran una tavoletta. Lui la guardò, e la passò subito a Deyan, grattandosi la testa: il kelith la studiò con attenzione. 

“Il suo commercio fruttava bene,” commentò. “Pagava molto alcuni dei suoi uomini, ma altri li manteneva con compensi miserabili. Aveva molti debiti, ma una volta ripagati resterà un fondo di tutto rispetto. Ci farà comodo: lo unirete ai nostri.”

“Una vincita munifica, conquistata con quest’azzardo incredibile... il primo kelith che sfida un sayanni, e il primo Guerriero della Cometa di questa comunità che vince il duello per lui. Ammetto che la tempistica di questa catena di eventi mi ha turbato. Qualcuno parlerebbe di fortuna... ma l’esperienza mi ha insegnato che spesso questa non è che l’ombra del futuro sul presente.”

“Hai ragione, Mastro Kurmaji.” Deyan fissò la tazzina davanti a sé. “Troppi eventi concatenati: quel mio contatto casuale col Feretro, qui, nella tua Casa... il fatto che toccasse a me il ruolo di Liberatore di un sayanni... l’ossessione che ho provato, e che alla fine mi ha spinto a fare quella scelta avventata, la sfida a Saraji, quando ancora non sapevo di poter contare su un’arma potente come quella Xarani...”

Ran lo guardò, con una smorfia. “Allora è stata una scelta avventata.”

“Io direi inevitabile,” intervenne Kurmaji. Un’occhiata astuta. “Non avevamo bisogno di ricevere le lagnanze di Saraji per sapere cos’era successo in quella bettola: noi Marjaban osserviamo tutto. È stato Saraji a volere il confronto, per imporvi un’umiliazione pubblica e mettere in chiaro che mai due come voi avrebbero potuto competere alla pari con lui: la scelta era accettare questa sottomissione ed essere ridimensionati, oppure opporsi per continuare ad esistere.”

“Quindi non siete in collera con noi,” disse Ran. 

“Noi non siamo mai in collera con nessuno,” replicò il Marjaban. “Del resto attendevamo da tempo uno scontro simile: questa situazione non è nuova tra i predoni della Comunità, i rapporti tra i capi non sono sempre facili e improntati al rispetto. Siamo contenti che tutto si sia svolto secondo le regole e non sia degenerato in una vera e propria carneficina... com’è accaduto talvolta in passato. Sapevamo che questo duello si sarebbe risolto in una perdita per la Comunità, era solo da vedere quale. Abbiamo perduto un vecchio capo e un potente guerriero; ci rimangono un principe kelith e un Guerriero della Cometa sayanni.” Sorrise. “Curioso, che ognuno di loro rappresenti il vertice delle due società in cui è diviso il mondo.”

Deyan tacque, pensieroso. 

Kurmaji guardò verso la porta, come se potesse penetrarla con lo sguardo. 

“E parlando del Guerriero della Cometa, è interessante per noi il fatto che possieda una grande magia. Diversa da quella del suo feretro, ma del tutto paragonabile alla nostra.” Chiuse gli occhi un istante. “Anche adesso la sta adoperando. Riesco a sentirla sin da qui: sta sondando le mie intenzioni verso di te, Deyan-shir.”

Fece un gesto e la porta si aprì silenziosamente, su un corridoio oscuro. Appena distinguibile tra le ombre, e solo perché era piena di fasciature bianche, Naysiak era accosciata contro la parete. 

“Xarani!...” esclamò Ran, sorpreso.

Deyan sospirò. “Le avevo detto di restare a casa a farsi curare: che ci fa qua?”

“Il suo dovere,” rispose Kurmaji, e si alzò con un fruscio della sua gran veste. Si rivolse a lei e le parlò nella sua lingua, in tono di rispettoso invito. 

Naysiak rispose, con voce lieve e sorpresa. 

“Parli la lingua cerimoniale sayanni?” chiese Deyan, stupito.

“La mia razza sa ricordare, Deyan-shir... è la sua funzione principale su questo mondo. Quella che adesso è una lingua cerimoniale era l’idioma del popolo azzurro milletrecento cicli di sole fa.” Kurmaji sorrise, e aggiunse: “Kann’arah meyen Kelithe sh’awan.”

Deyan trasalì. “Questa invece è la mia Lingua Antica.”

Naysiak si era tesa, a sentire quelle parole. E Kurmaji le fece un cenno col capo. 

“Sì, e la conosce anche lei. Era la lingua dei suoi nemici più mortali... i tuoi antenati.” Una pausa. “Però non devi adoperarla con lei, Deyan-shir. La considera impura. Gli antichi sayanni si rifiutavano di pronunciare persino i nomi dei kelith, considerandoli contaminanti. Anche il tuo nome lo è, per lei: per questo preferisce chiamarti Liberatore.“

La donna si alzò faticosamente da dove si era messa, e zoppicando entrò nella stanza, andando a sedersi di nuovo a terra, nell’angolo più lontano: respinse con un cenno gentile l’offerta di un cuscino tra gli uomini, e sistemò la propria cintura con le armi in modo che la spada fosse pronta per essere sguainata. Era pulita, ma ancora scalza e vestita di stracci: e ogni aspetto maestoso era rovinato dai segni e dai lividi che la costellavano, quelli che Pushpa non aveva fasciato. Sembrava una mendicante, assurdamente ben armata.

Kurmaji sembrò comunque volerle far onore: versò una tazzina del suo infuso, e con le sue mani glielo portò mormorando parole cortesi. Lei lo guardò ad occhi spalancati, ma accettò, bevve e restituì la tazzina, facendo il gesto di ringraziamento. Poi gli parlò, senza alcuna soggezione o stupore.

“Dice che sapeva dell’esistenza dei maghi neri: ai suoi tempi alcuni marinai tramandavano ancora i ricordi dei viaggi verso Marja, e il gigantesco cataclisma che ne provocò lo sprofondamento. Ovviamente, come tutti, pensava che la nostra intera razza fosse perita.”

“Forse qualche mago del passato riuscì a mescolarsi coi sayanni, generando la stirpe Huanai?” Deyan la guardò, notando quanto fosse diversa da Ran: dal colore della pelle, ai lineamenti del volto. 

“Forse,” annuì Kurmaji. “Non possiamo escluderlo. E forse è per questo che lei ha capacità simili alle nostre.”

Naysiak disse qualcosa. 

“Dice che i sayanni hanno sempre avuto degli sciamani, e l’etnia non ha importanza. È una dote con cui si nasce, ma che va sviluppata tramite un duro addestramento a riconoscere le forze della natura. Nel suo caso, l’abbandonarono da piccola in una foresta selvaggia.”

“Povera ragazza,” mormorò Ran.

Naysiak fece un lieve sorriso e scosse la testa. 

Kurmaji spiegò: “Dice che in realtà non è una ragazza. Quando arrivò l’Arca su Sayanna le era già stato assegnato un marito. Gli Xarani seguono la tradizione guerriera e quindi si sposano solo alla piena maturità, dopo aver reso la prima parte del loro servizio.”

Ran allibì. “Allora è sposata?...”

“Non fece in tempo a celebrare il rito: poté solo sapere chi sarebbe stato il marito, un generale di nome Pa’ekin.” 

“Quindi è promessa.”

“A un uomo morto più di un millennio fa?”

Ran tacque, imbarazzato. 

Deyan la guardò. Non era dunque una fanciulla come sembrava, ma qual’era la sua età reale? Quel suo aspetto giovane era davvero opera del Feretro, come pensava Pushpa, o qualcosa che derivava dal suo sangue particolare? Per un attimo lo sgomentò l’idea che lei fosse più anziana di lui, un kelith entrato da pochi cicli nella piena età adulta. Poi si rese conto che in realtà lei era immensamente più anziana di tutti quanti, anche di Kurmaji e del più vecchio vivente su ciascuno dei due mondi. 

Naysiak guardò Ran e parlò in tono quasi consolante. 

“Dice che è ancora vergine, e quindi potrà forse avere un altro marito al posto di quello che ha perso: non ci sarebbe nulla di disonorevole in questo.”

Deyan fissò l’amico, ma lui sembrava non aver colto alcuna allusione. E forse non ce n’erano: in una società dove i matrimoni venivano assegnati, poteva esistere il caso di sposi che si scegliessero spontaneamente? 

“Credo che noi Marjaban dovremo prendere delle precauzioni, quando la manderemo sul mondo attraverso il Vortice,” disse Kurmaji, guardando la donna con intensità. “La sua presenza su Luna di Fuoco altera alcuni particolari mistici equilibri... e quello che è successo qua fuori direi che lo dimostra.”

“È stata lei a far piovere?” chiese Ran, sbalordito.

Kurmaji tradusse la domanda, Naysiak scosse la testa. 

“Dice che non ha nessun potere del genere, ma può darsi che abbia fatto rabbrividire Luna di Fuoco. Si era messa in contatto con lo spirito profondo del pianeta, chiedendogli aiuto affinché le desse la forza di... non barare con il destino.”

E gli occhi della donna si incontrarono con quelli di Deyan. 

Lui ricordò quel momento. La disperazione comune che avevano provato. Non aveva mostrato la sua, ma sapeva che tanto con lei era inutile: e sapeva di averle chiesto qualcosa al di là della lettera del suo giuramento. 

Salvami, e salva il sogno di tutti noi. Onora lo spirito della tua promessa, non le parole. So che mi odi, ma avrai tempo e modo di vendicarti solo su di me. 

Emise un sospiro e fece un lieve sorriso. “No, non l’ha fatto: glielo riconosco.”

“Ti chiede se si è meritata la sua ricompensa.”

Il sorriso di Deyan si spense. 

“Di che ricompensa parla?” chiese Ran. 

No, Ran non lo sapeva... Deyan notò la sua penna legata a una delle trecce di Naysiak; e ricordò il suo amico, quasi in lacrime, a implorarlo di consentirgli di fare un dono a quella donna che adesso lo guardava con la speranza negli occhi: come poteva dirgli che la ricompensa che la sayanni gli chiedeva era quella di morire? E come avrebbe potuto dare quel permesso atroce davanti a lui?

Perdonami, Naysiak...

“No.”

Vide il dolore esploderle negli occhi, ma lei non protestò. Chinò lo sguardo ed emise un lieve sospiro. 

“Kainì, Seriema.”

Ran si girò a guardarlo, con espressione indignata. “Deyan-shir, lei ci ha fatto vincere un futuro da Grande Squadra. Come puoi negarle...”

“Ha fatto il suo dovere, nient’altro.”

“Si è battuta contro un mostro come Shartip. Ti ha salvato la vita!” Ran era violaceo in faccia. “O pensi che sia bastato metterle quel collare da schiava per liquidare come dovere l’impresa che ha fatto, senza farle meritare nemmeno un grazie?!”

Deyan si alzò, con un movimento fluido. Si voltò verso il mago e gli fece il gesto Shanì del saluto.

“Grazie per la tua ospitalità, Mastro Kurmaji.” E fece per andarsene.

Ran si alzò a sua volta, con irruenza. “Deyan-shir, ti ho fatto una domanda!...”

Lui si fermò. “Ho sentito. E normalmente non rispondo su questioni che riguardano le persone della mia casa. Visto che sei tu, farò un’eccezione. Naysiak ha la mia gratitudine: gliela esprimerò nei modi in cui la mia gente compensa i propri schiavi. La farò riposare, farò curare con attenzione le sue ferite, le procurerò quanto necessario per abbigliarsi decorosamente. Ma quello che lei mi chiede va oltre. Per cui si accontenti.” Un’occhiata tagliente. “E accontentati anche tu, Ran; o... dovrò approfondire il mistero per cui ho trovato un certo oggetto a casa mia.”

Il sayanni ammutolì per il tempo necessario a Deyan per uscire dalla Grande Casa, seguito come sempre dalla sua ombra azzurra. 

Quando trovò la voce, Kurmaji ascoltò cose tremende sui kelith, e specialmente su quelli con i capelli bianchi e un marchio sulla faccia.

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Capitolo 12
*** Dove si raccoglie una messe, e si seminano altre. ***


 

 

 

 

C’era odore di calce fresca nella casa che era stata di Saraji. E di fumo: qualcuno stava bruciando rifiuti nel grande cortile. Dappertutto c’era operosa confusione, e il menestrello era occupato a dipingere qua e là il simbolo della Squadra Sacrilega: un cerchio diviso a metà, bianco e azzurro.

Deyan contemplava la nuova stanza di Ran, con le pareti ancora spoglie. 

“Il principe Estsen ha nel suo palazzo un antico arazzo Abayanì, trapuntato d’oro, di cui è molto orgoglioso. Starebbe benissimo, di faccia alla porta.” Inclinò leggermente la testa. “E un paio dei suoi incensieri d’argento, lì e lì... “ e indicò i punti, “aumenterebbero il senso di profondità.”

“Non mi servono i tuoi consigli sull’arredamento,” sbottò Ran. 

Deyan lo guardò, divertito. Seduto sui suoi spartani cuscini di cuoio, imbronciato e con la lancia a portata di mano, era una figura allo stesso tempo regale e minacciosa. Ma se pensava di intimidire uno come lui, si sbagliava: per cui gli si sedette davanti senza cerimonie, e lo guardò negli occhi.

“No, non è per l’arredamento che sono venuto a consigliarti.” Un sorriso astuto. “Ma sul modo migliore in cui potremmo impadronirci di un certo tesoro.”

Gli occhi di Ran si spalancarono, e scattarono in tutte le direzioni, come per assicurarsi che fossero soli. 

Poi di nuovo lo guardò: si era ripromesso di fare il gelido con lui, per fargliela pagare... ma certe parole avevano un fascino irresistibile per un predone.

“Di che tesoro parli?”

Una semplice alzata di sopracciglia: Deyan sapeva dire molto, nei suoi silenzi.

“Era un segreto.”

“La tua lingua ti tradisce, quando bevi troppo. Durante i festeggiamenti per la vittoria ti sei lasciato andare: per tua fortuna c’ero io con te. E siccome avevi perso del tutto il controllo...”

Infilò le dita nello scollo della tunica, e le estrasse appaiate. Ran vide un ago tra di esse. 

Si portò una mano al collo che ancora gli bruciava, e spalancò gli occhi. “Allora sei stato tu, non sono caduto addormentato per la sbronza!”

Deyan ripose l’ago in chissà quale tasca nascosta della sua tunica. “Diciamo che eri già sulla buona strada: io mi sono limitato a darti una piccola spinta.”

“Mi hai drogato!” Ran era indignato. “Accidenti, la Xarani aveva ragione a chiamarti Demone Bianco: le insegnerò termini più moderni per definirti...”

“Meglio di no,” ribatté lui, con quel suo tono principesco che Ran conosceva tanto bene. “Sai bene che non tollero l’insolenza... se non da un amico, e solo molto in privato.”

Il sayanni tirò un respiro profondo.

“La sai una cosa, Deyan-shir? A volte ti odio.”

“Lo so,” rispose lui. “E a volte io odio te.” Un lieve, remoto sorriso. “Ma non dimentico i momenti in cui ti ho sentito quasi come un fratello.”

“Bel complimento! Voi nobili kelith considerate i fratelli dei nemici.”

Deyan inclinò appena la testa, considerando la frase. “Infatti ho detto quasi. Tu non sei mai stato neanche lontanamente capace di essere mio nemico quanto lo è Gamosh. È a questa perfezione che aspiri?” 

“Ci siamo spinti troppo avanti tu e io insieme, per diventare davvero nemici. Ma non condivido le tue scelte...”

“Quelle per la squadra o quelle personali?”

“Quelle che riguardano una certa persona che mi sta a cuore!”

Deyan fu colpito da quella veemenza... e anche da quella candida ammissione. 

“Ti riferisci a Naysiak?”

“Ci sono altri sayanni nella tua casa?” ribatté lui, acidamente.

“Allora... lei ti piace.”

“Ma certo!” Ran lo guardò, stupefatto. “Come potrebbe non piacermi? È forte, coraggiosa, e ora che l’ho conosciuta meglio è anche simpatica... non l’avrei mai detto, di uno Xarani, ma è così. Merita molto di più di quel che le stai dando. E questa è anche l’opinione di tutta la squadra: è una nostra compagna ormai, non soltanto la tua schiava!”

Una volta di più Deyan si sentì smarrito a seguire i percorsi tortuosi del sentimentalismo sayanni. 

“Aspetta, a considerarla una compagna. Al momento è solo la mia guardia del corpo, e se non fosse vincolata a me non credo che esiterebbe a tornare su Sayanna, dove non è detto che l’accoglierebbero come una fuorilegge.”

“Pushpa ha detto che ha disobbedito agli ordini delle Divinità.”

“Non riesco a immaginarmi Naysiak che manca a un suo giuramento.”

“Nemmeno io, ma in quel feretro ci è finita sì o no?” Ran fissò il suolo. “Lei è una fuorilegge... la giustizia sayanni non dimentica mai; e nel suo caso, poi... un Guerriero della Cometa ribelle... la ucciderebbero all’istante.”

Deyan sospirò. 

“E se fosse questo il suo desiderio, Ran? Morire?”

Il sayanni scosse la testa e fece un gesto reciso con la mano. “Tutti noi abbiamo avuto questo desiderio, prima o poi. Mollare tutto, chiudere gli occhi e farla finita: che c’è di strano? L’ho desiderato anch’io, senza aver bisogno di chissà quali gravi e altissime motivazioni. Si guarisce, Deyan-shir. Si guarda avanti.” Alzò uno sguardo pieno d’accusa. “Se qualcuno te lo permette, e non ti mette invece le mani sugli occhi rendendoti la vita un inferno!...”

“Se Naysiak è ancora viva, è proprio perché mi appartiene,” ribatté Deyan, seccamente. “Visto che ti sta così a cuore, ringrazia le tue Divinità che il suo padrone sia io.” Abbassò la voce a un tono più morbido. “E ad ogni modo mi sono ripromesso di essere meno severo con lei. Già adesso, per essere una schiava, gode di libertà che nessuna kelith potrebbe mai avere. In quanto al suo far parte della squadra... aspettiamo di vedere come si comporterà in missione. Se andremo contro le autorità sayanni, dovrà fare delle scelte tra le sue diverse lealtà. Sai prevedere da che parte si schiererà?”

Ran esitò. Poi scosse la testa. 

“No,” ammise. “Ma dopo quel che ho visto, non vorrei ritrovarmela davanti come nemica.”

“È il mio stesso pensiero, su cui pondererò parecchio prima di scendere di persona su Sayanna... portandomela dietro. Potrebbe essere preferibile rinunciare alla sua abilità e tenerla qua su Luna di Fuoco.”

“Se riuscirai a staccarla da te.”

“È una schiava, deve obbedirmi.”

Ran fece un sorrisetto. “Non hai ancora capito con chi hai a che fare, Deyan-shir. Io sì, perché ho la pelle azzurra come la sua, e conosco le donne del mio popolo.” 

“Come ad Arendia conoscesti quella funzionaria disonorata che, avendoti catturato e sapendo di una certa fama che hanno gli uomini delle Montagne, voleva a tutti i costi la tua Membrana, e naturalmente tutto il resto...”

“Ho raccontato pure questo?” mormorò Ran, imbarazzato. 

Deyan annuì.

“D’accordo,” sbottò, violaceo in faccia. “Credo di doverti ringraziare per avermi chiuso la bocca.”

“Fuggisti illibato, ma con un interessante racconto su un certo tesoro...”

“Ovviamente da solo non l’avrei mai potuto rubare. Ma adesso le cose sono cambiate: potrebbe essere la missione ideale per mettere alla prova i nostri nuovi predoni.”

“E io, saputo il tuo desiderio, mi sono messo discretamente in azione.”

Cavò dalle pieghe del mantello una pergamena e la srotolò. 

Era la mappa di una zona di Sayanna sull’oceano occidentale. Era costellata di ideogrammi kelith, con frecce indicanti la direzione dei venti. 

Ran la guardò, con una smorfia. “L’hai comprata dalla Fratellanza...” 

Invidiava la capacità di Deyan di scavalcare l’Atrio delle Informazioni. Spesso il suo socio intavolava trattative private e riservatissime con i mercenari kelith della Comunità, e i Marjaban lo lasciavano fare perché era nel suo diritto cercare notizie in esclusiva. 

“È una vecchia carta nautica,” spiegò Deyan, e puntò un dito. “Qui è segnata una fortezza che si chiama Zakkara, data alle fiamme. Era la sede di un governatore locale. Adesso è in rovina.”

“Le fortezze sayanni hanno due piani sotterranei per ognuno costruito in alto. E il governatore di Zakkara aveva lo stesso vizio maledetto di tanti altri suoi simili: accumulare risorse come una formica. I governatori! Piuttosto si nutrono solo di semi bolliti, ma nascondono mucchi d’oro qua e là, e dicono di far questo in previsione di chissà quale grande evento. Ho sempre odiato quest’avarizia, specie quando poi la usano per imporci un’esistenza priva di piaceri, con la scusa che dobbiamo mantenerci sani e sobri...”

“Quest’avarizia però ci consente di spogliarli in maniera rapida ed efficiente. Il tesoro di Zakkara non sarà certo l’unico su Sayanna: se riusciamo a impadronircene potremmo imparare a saccheggiarne degli altri. In questo momento la nostra squadra ha la dimensione giusta per questo tipo di impresa: non troppo piccola, non troppo grande. Un’azione rapida, per cogliere di sorpresa i sayanni, scovare il tesoro, prelevarlo interamente e coprirsi la fuga...”

“Ci costerà un bel po’, organizzare questo colpo. Dovremo andar giù in molti.”

“Sì, e non sarà un lavoro da poco. Non intendo muovermi se prima non raccolgo altre informazioni. Ma il denaro in questo momento non ci manca, e vale la pena di spenderlo a questo scopo. Il tuo contabile è molto impegnato  a unire i nostri conti con quelli di Saraji, e gli ho fatto presente che mi è stato insegnato a leggere tra le cifre. Gli ho ricordato il trattamento che su Kelitha si adopera con i truffatori.”

“L’hai mai visto applicare?”

“Sì. Discretamente impressionante, la prima volta che si vede.”

“Allora dev’essere qualcosa di terribile, se ha impressionato persino te.”

“Ero ancora un bambino.”

Dannati kelith...

“A proposito di soldi...” Ran slegò dalla sua cintura un sacchetto di pelle, e lo posò davanti a Deyan. “Questi mi sono avanzati: te li restituisco.”

“Come, avanzati?” Deyan guardò il sacchetto, perplesso. “Una femmina al mercato che non spende?”

“Quella non è una femmina, Deyan-shir. È un Guerriero della Cometa.” Ran fece un sorriso sardonico. “E ho scoperto che è cresciuta ignorando completamente il commercio: tutto quel che aveva le veniva offerto da mani devote... quindi non ha la più pallida idea dell’uso del denaro.”

“Non avrà rubato qualcosa,” mormorò Deyan, preoccupato. 

“Non temere: ci ho pensato io a schivare il pericolo, spiegandole che non poteva portarsi via la roba senza pagare. Non è stato facile farle comprendere tutto in termini di doni reciproci, e ho capito che era meglio che i soldi li tenessi io, prima che lei li regalasse al primo che capitava. Siamo andati al mercato, come ci avevi chiesto, e ti lascio immaginare com’è stato il nostro arrivo... tutti hanno taciuto e si sono fatti da parte tremebondi, alla vista della terribile guerriera che ha scotennato Shartip. Lei non ci ha fatto caso, forse è abituata a fare un certo effetto alla gente; ma vederla lì, coi suoi stracci addosso, tutta ferita, che incedeva con la mano sull’elsa della spada... beh, è stato uno spettacolo memorabile!” 

Un degno sayanni si fa vanto delle sue ferite in battaglia, e soprattutto delle torture subite dai kelith. Deyan fece un remoto sorriso. Le ho fatto un favore, facendola frustare...

“L’ho portata dai miei fornitori, perché tra noi i guerrieri si vestono tutti uguali, maschi o femmine che siano... e qui la prima difficoltà: lei è piccola.” Ran colse un’occhiata risentita da parte dell’amico. “Voglio dire... è alta come te, ma rispetto a noi del popolo degli Altipiani è troppo minuta, e ormai noi qui siamo la maggioranza: tutto era enorme su di lei. Ma qui è arrivata la seconda difficoltà: trova buffissimo il modo in cui si vestono adesso i guerrieri rispetto a un millennio fa.” Non riuscì a fare a meno di sorridere. “Tu non hai idea di quanto sia stato incredibile vedere uno Xarani ridere da tenersi la pancia davanti a un paio di calzoni. Piangeva, quasi: e veniva da ridere anche a me perché... perché...” Pure i suoi occhi luccicarono, “perché non pensavo che una come lei sapesse ridere così, dopo tutto quel che ha passato...”

Deyan vide lì accanto l’anfora del vino e gliene versò in fretta una tazza, prima che la commozione lo travolgesse. Ran la prese e la svuotò in tre sorsi, si pulì la bocca col dorso della mano e proseguì il racconto.

“Ha abbandonato quei banchi ed è andata invece a procurarsi delle pelli. E di pelli me ne intendo anch’io, così ho potuto contrattare al suo posto, perché naturalmente non sa fare neanche questo. Poi ha voluto dei modesti attrezzi da lavoro, dei pigmenti e una pezza di tessuto non tinto, da poco prezzo... non temere, ho pagato tutti, anche se molti volevano regalarle ciò che voleva, per ammirazione, o anche paura. E alla fine mi ha fatto capire che voleva tornare a casa. Ho fatto risuonare il borsellino e le ho detto che le avevi dato il permesso di comprare dell’altro, ma mi ha guardato come se fossi ubriaco. E col suo fagotto se n’è corsa via.”

Deyan era francamente sorpreso. “Forse ha frainteso il mio ordine di comprare il necessario per abbigliarsi.”

“L’ho pensato anch’io, e gliel’ho detto. Ho indicato le botteghe degli artigiani, spiegandole che erano ai suoi ordini.  E lei?” Alzò le mani, il gesto dei t’yr. “Li ha salutati dando la sua benedizione in nome delle Divinità. Tutto qui.”

Il kelith raccolse il sacchetto: era ancora molto pesante. 

“Non mi aspettavo una simile frugalità.”

“Nemmeno io,” disse Ran. “È vero che noi sayanni siamo educati a disdegnare il lusso e preferire la comodità, ma i guerrieri in particolare amano adornarsi ed essere appariscenti.” Si guardò le collane e le armille, si toccò gli orecchini e la piuma che gli ornava i capelli. “Io sono un montanaro, quindi piuttosto sobrio: dovresti vedere come si addobbano i guerrieri del popolo delle Pianure...”

“Forse un millennio fa le cose erano diverse nella tua casta.”

“Infatti era modesto, il costume della tua Xarani! Lo sai quanto sono rari gli uccelli che hanno le piume adatte per confezionare un mantello da sciamano? L’hai vista, quella sua cintura con la spada, tutta lavorata in argento? E mi hanno raccontato della sua armatura: riluceva a una lega di distanza...”

“E una guerriera così si adatta a vestirsi di pelli e tessuti da poco prezzo?”

Ran scoppiò a ridere. “Mi ricorda tanto un certo kelith, che aveva passato la vita a esser vestito di seta: ma quando gli tolsero i suoi begli abiti, preferì indossare tunica e pantaloni di ruvida fibra, e un mantello sfrangiato. E li tenne finché non riebbe indietro il suo costume principesco, perché solo quello era degno di lui.”

Deyan chinò lo sguardo, con un lieve sorriso. 

Che si spense.

Ran se ne accorse, e mormorò: “Tu non la sopporti perché in tante cose è troppo simile a te, vero?”

“Non dire sciocchezze,” rispose Deyan, risentito. “Io e quella femmina non abbiamo niente in comune.”

Come no, pensò Ran; ma tacque, perché era inutile riaprire quel discorso senza rischiare di litigare nuovamente. Deyan si era liberato di tanti pregiudizi, ma era pur sempre un kelith... anzi, il kelith. 

Non posso cambiarlo, sorella. Dovrai aprirgli gli occhi tu.

 

 






 

 

 

Naysiak era contenta. 

Musica dolce trapelava dai recessi della shanda, e una voce femminile vibrava in una sospirosa melodia: diversissima dai canti sacri e guerrieri che lei conosceva, ma non per questo priva di bellezza. 

La musica la trasportava via, mentre tagliava la pelle come le avevano insegnato quando era ancora una bambina tutta ossa. All’epoca aveva inciso pelli grezze, raschiando grumi di carne e grasso rancido; ma la pelle che aveva di fronte era liscia, leggera, morbida e già perfettamente conciata, e aveva un buon profumo, che le parlava delle foreste, delle nuvole e della pioggia. 

Di nuovo usò un pezzo di corda per controllare le misure, poi si chinò e praticò un altro taglio. Quindi, per non strappare la pelle, la posò sul telaio di legno e cominciò il lavoro col punteruolo, per creare i forellini necessari. 

Mai avere fretta. Rispettare il sacrificio dell’animale, sentire il suo spirito che entrerà a far parte del nostro.

Canticchiò sottovoce, seguendo la melodia della ragazza kelith, ma sovrapponendoci le parole nella sua lingua:

Tahond tani kayi tayi, jinna-ni ue-me aytiyai...

Non era male, il posto dove avevano messo il suo giaciglio. Era in un angolo, vicino al cancello: il pavimento era pulito, polvere a parte; e le robuste pareti erano confortanti. E lì non dava fastidio a nessuno, sul confine dei due mondi separati in cui era divisa quella casa kelith: quello esterno, e la misteriosa shanda.

Quel quartiere aveva un unico scopo: la cura del corpo e dello spirito del padrone. Comprendeva la stanza da riposo di Deyan, e il suo bagno riservato, che possedeva addirittura una vasca incassata, tutta rivestita di piccole mattonelle multicolori. Il resto era occupato dalle stanze comunitarie delle schiave, che ci vivevano da assolute recluse. Solo due persone potevano muoversi liberamente da lì al resto della casa: una era Ibal, l’eunuco; l’altra il padrone, unico maschio ad aver quel privilegio.

Naysiak era diventata la terza. 

Era un situazione del tutto anomala in una casa kelith, ma Naysiak era anomala come schiava: priva di funzioni sessuali, era una specie di creatura senza genere. Collocarla era stato un problema morale delicato per Saal: doveva essere considerata una donna? Ma solo una Prima tra le Prime aveva diritto di uscire dalla shanda, ed era ridicolo quel titolo su una barbara vergine. O un uomo? Era evidente che Naysiak non lo fosse... Alla fine era toccato a Ibal, come eunuco e quindi altro essere asessuato, condividere con lei i suoi luoghi privati, e Naysiak ne era stata contenta: almeno non avrebbe dovuto sopportare la vista di gente senza Membrana, spettacolo che ripugnava ai sayanni vergini. Ibal non aveva nulla da nascondere... in alcun senso. 

Diede altri colpetti col punteruolo. L’eunuco passò, la vide, e le diede un’occhiataccia.

“Non fare rumore, barbara,” le sibilò, sottovoce. “Non è di buon umore.”

Vuoi dire, peggiore del solito? 

Non ricordava di aver mai sentito ridere quel diavolo bianco: sicuramente era la vendetta delle Divinità, che gli avevano tolto in eterno la capacità di farlo. Quando varcava quei cancelli si lasciava togliere di dosso gli abiti impolverati senza dire una sola parola, con un’aria stanca e amara che fuori di lì non mostrava quasi mai; ed era un peccato, perché anche se aveva quei colori della morte addosso era comunque abbastanza gradevole d’aspetto, per essere un kelith, se solo si fosse lasciato andare a un vero sorriso di gioia ogni tanto... ma nemmeno quando lei aveva vinto era sembrato esultare, anzi: era stato l’unico dei suoi a restare immobile e impassibile anche quando lei gli aveva mostrato lo scalpo del nemico; e Naysiak, sconcertata, alla fine si era rivolta all’uomo delle Montagne, il quale almeno le aveva dato la soddisfazione di una giusta espressione felice.

Che uomo incontentabile!

Solo dopo il riposo e gli strani, perversi riti della sua stanza (che Naysiak immaginava cruenti perché si concludevano sempre con grida, gemiti e lamenti) si poteva avere il privilegio di vederlo appena soddisfatto; se non era invece andato in collera, il che era temutissimo perché nessuno avrebbe potuto fermarlo, neppure se avesse deciso di uccidere con le sue mani tutti gli occupanti della shanda. 

Il suo umore rendeva perennemente ansiosi tutti, lì dentro: a cominciare da Ibal, che si sforzava di venire incontro a qualsiasi possibile esigenza del suo volubile padrone, anticipandola e rendendo tutto perfetto: ogni visita alla shanda era come l’organizzazione di una festa, dove tutto doveva contribuire a creare un’atmosfera paradisiaca. Naysiak doveva ammettere di ammirare il senso del dovere di quell’eunuco, benché ai suoi occhi fosse naturalmente uno spreco: tutta quella fatica, solo per il benessere di un unico uomo... non c’era da sorprendersi poi se gli albini kelith si abituavano male, e si credevano semidèi. 

Una porta si aprì, dolcemente. Ne uscì la ragazzina bianca e grassottella. Si accorse che la sayanni stava facendo qualcosa di interessante, e in punta di piedi le si avvicinò, mantenendosi però a distanza di sicurezza da lei. 

Naysiak la riconobbe e le fece un cenno con la mano.

Vieni.

La ragazzina guardò verso la porta della stanza del padrone, dove ancora si suonava e si cantava. Poi tornò a guardare la sayanni, tutta rossa in faccia. E scosse la testa.

“Qui,” sussurrò Naysiak, ripetendo il gesto. E le sorrise. 

Non ti mangio. 

La ragazza osò avvicinarsi di mezzo passo, tremante. Guardò le pelli, la semplice veste di stoffa che Naysiak aveva già tagliato e sommariamente cucito, una specie di tunica dritta. Gli occhi le si dilatarono, con atavico interesse: toccò il proprio vestito spumeggiante e francamente inverecondo, e forse capì in quel momento che l’animale azzurro davanti a lei era una donna. 

“Nome,” chiese Naysiak.

La ragazzina la guardò con occhi vacui. 

“Io Naysiak. Tu? Nome.”

Ci pensò un po’ su, poi si sollevò la veste su una coscia tutta fossette. E le mostrò un marchio, inciso a fuoco. 

Naysiak rabbrividì. Povera bimba. 

Il marchio sulla coscia era un numero. Lei lo riconobbe, dato che i segni erano uguali sia tra i kelith che tra i sayanni: cambiava solo l’orientamento dei tratti, orizzontale per i pellebianca e verticale per il Popolo Azzurro.

Alzò la mano mostrando tre dita.

La ragazzina annuì e ripeté il gesto, poi indicò se stessa. “Tre.”

Si chiama Tre?!

A confermarglielo, la fanciulla la indicò e disse: “Tu sei Tredici.”

“No,” fece lei, indignata. “Io Naysiak.” 

Sono un Guerriero della Cometa, non un numero!...

La ragazzina la guardò, con l’aria di non aver capito. 

“Naysiak vuol dire Tredici in barbaro?”

“Naysiak nome!” Cercò di spiegarsi. “Ibal, nome.” Indicò la stanza padronale, fece uno sforzo. “Deyan-shir... nome. Naysiak nome.”

La ragazzina ridacchiò, come se trovasse divertente tanta ignoranza. “Le schiave non hanno nome.”

Che cosa?!

La musica terminò, e la porta della stanza padronale si aprì. Ne uscì Deyan: aveva addosso solo un paio di pantaloni stretti alle caviglie, e un telo intorno al collo. La sua pelle era lucida di olio da massaggio; le essenze di cui era cosparso giunsero al naso sensibile di Naysiak, e lei starnutì.

Lui si fermò, bruscamente. La ragazzina si accorse della presenza del padrone e cadde a terra in ginocchio, con un gemito di spavento. Anche Ibal apparve, con aria desolata. Tutti la guardarono con riprovazione.

Naysiak se ne accorse, ma non si scusò: già sopportava gli odori innaturali dei kelith, certi aromi esotici erano troppo forti per lei. Si toccò il naso e guardò tutti con calma. 

È stato solo uno starnuto, non fatene una tragedia.

E conficcò metodicamente il punteruolo nel buco che aveva appena inciso nella pelle, per rifinirlo. 

Deyan le si avvicinò. 

“Che stai facendo?” le chiese, con la solita voce brusca.

Lei si mise il punteruolo tra i denti e alzò il pezzo di pelle che stava lavorando per mostrarglielo, quasi con un gesto annoiato. Non si vede?

“E lei?” Lui indicò il mucchio rosa e bianco che era la ragazza, tremante a terra.

Naysiak si tolse il punteruolo dalla bocca. “Lei vedere.” Gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Lei Tre?”

Deyan guardò la ragazza, poi gettò un’occhiata a Ibal, che annuì. 

Non sa neanche che numero è?!

“Schiava segno.” Indicò la coscia. “Naysiak schiava. Naysiak segno?”

Lui capì, scosse la testa. “È stato un altro uomo a farglielo. Io non marchio le mie schiave.”

“Io contenta. Segno male.” Un’occhiata ironica. “Vero, Seriema?”

Deyan sentì il sangue defluirgli dalla faccia: non si aspettava quella sfida, nel luogo dove lui non era mai sfidato...

“Sei così ansiosa di provarlo anche tu?” disse, minacciosamente.

Lei alzò le mani e spalancò gli occhi, in una parodia di terrore.

“No padrone!” squittì, imitando le implorazioni delle schiave. ”No padrone! Paura, padrone! Padrone buono! Padrone, pietà!...” Girò lo sguardo intorno, e poi gli rivolse un sorriso impertinente. “Ecco. Seriema contento.”

E conficcò il punteruolo in un altro punto della pelle, rimettendosi a canticchiare.

Ibal era assolutamente allibito. La ragazza era raggelata a terra, col naso sul pavimento; e il silenzio mortale che aleggiava indicava che anche le altre erano in ascolto. 

Poi, incredibilmente... Deyan ridacchiò. 

Non era una risata vera e propria, ma la cosa più prossima che chiunque in quella casa avesse mai sentito. Naysiak smise di canticchiare e alzò la testa a guardarlo, stupita da quanto lui sembrasse più giovane all’improvviso. Lo vide fissarla e scuotere appena la testa, come se avesse assistito allo spettacolo più assurdo e grottesco della sua vita. 

“Che peccato che mio fratello Bakar sia morto,” mormorò. “Era molto più bravo di me, a domare le proprie schiave. Ti avrei volentieri regalata a lui, e saresti stata la sua sfida più esaltante...”

Seriema non regala. Naysiak giurato.” 

“L’unico modo per liberarmi di te è ucciderti?”

Una lunga occhiata risentita. “Seriema non vuole.”

“E non ne sai il motivo?”

“Seriema t’shi...”

Uno schiaffo secco le strozzò in gola il resto della parola. 

“Non usare quel termine con me.”

Lei rimase un istante senza fiato. Poi, lentamente, si toccò la guancia, incredula e furiosa: un kelith era riuscito a colpirla in faccia? E senza che lei riuscisse a impedirglielo?

Digrignò i denti e sibilò lo stesso il suo insulto: “T’shish!”

E lo guardò da sotto le sopracciglia inarcate, con un tetro sorriso.

E adesso, padrone? Che fai, chiami ancora qualcuno con la frusta? O mi fai marchiare a fuoco?

Deyan non fece nulla di tutto questo: si limitò a guardarsi la mano, per poi tenderla verso Ibal.

“Ho toccato una cosa sporca: provvedi.”

L’eunuco si affrettò a prendere una salvietta e un catino d’argento, versandoci l’acqua da un bricco. Si avvicinò, e Deyan immerse la mano, guardando Naysiak con intenzione: lei trasalì, comprendendo il significato di quel gesto...

Sono io la cosa sporca?!

L’umiliazione la morse dolorosamente. Strinse furiosamente il punteruolo tra le mani, in dubbio se conficcarlo nel petto di quell’uomo maledetto, o nel proprio...

“Non abusare di quel che resta del mio cuore,” le disse lui, quasi con un tono di preghiera. “Sono costretto a sopportarti nonostante la tua maleducazione, e tu sai benissimo il perché.”

Il perché!...

La sua furia si sciolse in vergogna. Era quello, che la teneva in vita? Ed era giusto che lei lo mettesse alla prova fino alla distruzione, uccidendolo assieme a se stessa?

Si morse le labbra, per frenarne il tremito. Chinò la testa e mormorò, con voce soffocata:

“Kainì, Seriema.”

“Si dice perdono. Dillo.”

Lei chiuse gli occhi, e trovò la forza di obbedire.

“Perdono.”

“Brava,” mormorò lui. “Lo vedi? È così semplice l’armonia, con qualche buona maniera. Sei nella casa di gente che ha tre millenni di civiltà alle spalle. A te ne manca almeno uno, ma puoi ancora imparare.”

Ibal gli asciugò la mano, e lui se la annusò appena, soddisfatto. Poi andò da Tre, e le diede un colpetto col piede. 

“Tu,” le disse. “Mi è venuta voglia di una Gru a Due Teste. Ibal, porta gli strumenti.”

“Subito, padrone,” mormorarono i due. 

La ragazza si alzò, tremante e con gli occhi bassi, e corse nella stanza padronale. Ibal andò a prendere una cassettina e la seguì. Deyan entrò per ultimo, senza fretta.

La musica ricominciò. 

Ibal uscì, richiuse la porta e andò a vuotare il catino in un grosso vaso. Poi lo portò fuori, con un sospiro.

“Stupida barbara ignorante,” sibilò, passando accanto a Naysiak. 

Lei attese di rimanere sola, per ricominciare a lavorare sulla pelle. 

Ma le lacrime gliela macchiarono.








 

 

 

*

 

 






 

“Jenna-shir, sono perplesso.”

Il principe Khandar-shir fissava le luci del porto dalle mura del suo palazzo. Era una notte tranquilla e tiepida, e il popolo dormiva e i marinai gozzovigliavano nelle taverne: ma gli albini vegliavano sotto le stelle.

“Mio principe, non possiamo ignorare questo messaggio.”

“Se è autentico.”

“A che scopo fornirci un’informazione falsa?”

“Per estorcerci denaro, come fanno i criminali.”

“Non sono criminali comuni, quelli che osano interferire con la nostra Razza Sovrana.”

Ed è terribile pensarlo, pensò il margravio. 

Il principe Khandar levò i suoi vecchi occhi verso la baia di Deera, con un sospiro.

“Jenna-shir, che cosa sta succedendo? Perché tutti questi eventi si stanno accumulando così, dopo tanti cicli di equilibrio?”

“Un equilibrio non è altro che un punto fermo tra forze contrastanti, mio principe. E la pietra vacillante nell’arco dell’Augusto Consorzio è sempre la stessa...”

“Shana,” mormorò il principe.

“Tutte le perturbazioni vengono da lì... o puntano verso quel principato.”

“È verosimile uno Shanì che si spinga così fuori dal suo deserto?”

“È già successo in passato. Il mio principe non dimentichi che le guerre dinastiche hanno strozzato Shana nell’entroterra, ma una volta aveva un accesso al mare.” Un gesto della mano a indicare il golfo. “Questo.”

Di lì passava la foce del fiume che miracolosamente tagliava il deserto centrale di Kelitha, incidendo una riga verde e sottile tra le sabbie roventi per poi sboccare sull’oceano. Deera aveva sempre temuto che Shana rivendicasse i territori perduti, e per tutelarsi aveva teso tutta una catena di alleanze all’interno dell’Augusto Consorzio. Fino a quel momento l’equilibrio era stato garantito; ma con l’incognita di Gamosh come nuovo principe, Khandar-shir aveva dovuto affidarsi sempre di più al suo nobile esperto di spionaggio. 

È il mio uomo migliore, pensò. Jenna veniva da una famiglia antica e onorata, fedelissima alla corona: e come ambasciatore designato, aveva passato la vita a viaggiare, distinguendosi da altri nobili che preferivano godersi in pace le loro ricchezze. Basso e magro, con i suoi baffi bianchi ben curati e l’abbigliamento raffinatissimo, era  un noto esteta tra l’alta nobiltà kelith, ed era capace di parlare con competenza di arte... e contemporaneamente tenere le fila di una rete di informatori tra i più sordidi. 

“La tua opinione, margravio.”

“Mio principe, chi ci ha offerto quest’informazione non è uno stupido, né uno sprovveduto. Afferma che l’ex principe Deyan intende attaccare una costa sayanni, e attende il compenso per dirci quale. Questo è più che offrirci la possibilità di catturare un ricercato. Questa è una notizia che potrebbe scuotere l’intero Augusto Consorzio.”

“Quale? Che l’uomo del deserto si è convertito in pirata? Inverosimile.”

“Perché, mio principe? Il mare e le sabbie si solcano con le stesse stelle, e impongono gli stessi rischi: non sarebbe difficile per uno Shanì passare dalla sella di un corsiere... al ponte di una nave.”

“Ma avere una nave significa anche avere un porto.”

“Esatto, mio principe. E chi dell’Augusto Consorzio consentirebbe a Deyan-shir una libertà così inaudita? Chi avrebbe più vantaggio da una possibile destabilizzazione di Shana?”

Khandar rabbrividì.

“Deera,” mormorò.  

Jenna vide che il suo signore aveva inteso perfettamente il pericolo. 

“Ma l’uomo vestito di nero, mascherato, che aveva presenziato alla commemorazione di Unari...”

“Era Deyan-shir?” Jenna tacque un istante. “Mio principe, non conosco i mercenari che ci vogliono vendere questa notizia, ma conosco il principe Gamosh.”

E mi fiderei piuttosto di una meretrice del porto.

“Come si può mettere in dubbio la parola di un principe contro quella di fantomatici mercenari?”

“Gamosh non ha mai pronunciato quella certa parola, mio principe. Non ha mai affermato che l’uomo nerovestito fosse suo fratello, l’ha solo fatto intuire. In realtà Deyan potrebbe essere ovunque, e con lui tutte le questioni che si porta dietro. Rifletti, mio principe: è l’unico fuorilegge albino che sia mai esistito in tutta la nostra storia. Con lui le regole e le leggi che finora hanno regolato la nostra giustizia non valgono.”

“È stato marchiato come schiavo perpetuo...”

“Ma un nobile con i capelli bianchi e gli occhi rossi può mai essere considerato uno schiavo?” Un lieve sorriso. “A chi apparteniamo, noi della Razza Sovrana? Non certo a un barbaro sayanni che ci comprasse: ci legano solo i giuramenti sacri, e il vincolo di parentela, e Deyan-shir adesso è assolutamente libero: suo padre è morto, e Gamosh è addirittura sotto di lui in quanto a nobiltà di sangue.”

“Jenna-shir, stai dicendo che....”

“Che se presentassimo questo caso tra i magistrati dell’Augusto Consorzio, sarebbe come lanciare un pesce in uno stormo di gabbiani. Gamosh lo sa, per questo è così ossessionato dall’idea di catturare il fratello. E se mi figuro la mente di questi fantomatici informatori... è chiaro che se non acquisteremo noi l’informazione, la venderanno proprio al principe di Shana.”

“Non potrebbe farsene molto, non avendo accesso al mare.”

“Mio principe, ti figuri cosa accadrebbe in una riunione dell’Augusto Consorzio, con un principe che chiede aiuto agli alleati... e riceve un rifiuto?”

“Nessun principe fa richieste irragionevoli.”

“Abbiamo a che fare con Gamosh, non con un principe. È noto in che maniera compensa la sua origine mediocre... con la crudeltà, e la superbia. Potrebbe usare quest’incidente come pretesto: le indicazioni ci sono tutte.”

Khandar si sentì soffocare. “Cosa proponi, margravio?”

“Comprerò l’informazione, mio principe.” Jenna sospirò. “Naturalmente mi aspetto che i mercenari che me la venderanno faranno lo stesso con Gamosh: è gente senza onore e cercherà di incassare il proprio compenso due volte. Ma quando Gamosh ci chiederà aiuto, noi saremo già in mare per tentare di intercettare Deyan... abbiamo già una nave veloce pronta.”

“Chi manderemo per una faccenda così delicata?”

“Un uomo dal rango così elevato che nessuno, nemmeno Gamosh, possa mettere in discussione la correttezza di Deera di fronte all’Augusto Consorzio.”

Khandar allibì. 

“Non intenderai...”

“Sono l’unica persona in grado di gestire questa crisi, mio principe.”

“Sono più di cento cicli di soli che nessun albino sale su una nave.”

“Forse Deyan-shir l’ha già fatto,” mormorò Jenna, con un sorriso. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 



 

 

 

La giornata si presentava molto calda: i fiori nella desolazione erano già un ricordo, i cespugli di spezia nel cortile di Deyan avevano di nuovo il colore metallico che prendevano nella siccità. Ma Ran era lo stesso di buonumore, e insieme al padrone di casa attendeva l’arrivo di Pushpa. 

“Ho chiesto un Giudice delle Contese per i giuramenti dei nuovi predoni, e lui si è precipitato a offrirsi alla bisogna.”

“Non mi sorprende: qui c’è un reperto storico vivente da studiare, per lui è una tentazione irresistibile.”

“Io credo che abbia anche una specie di amicizia con te, Deyan-shir. È sempre stato famoso qui su Luna di Fuoco perché è il miglior medico ed erborista, benché per molta gente sia matto da legare su tutte le altre faccende. Sta’ sicuro che faceva valere questa sua abilità, praticando tariffe spaventose con tutti; ma con te era diverso, ti ha curato addirittura gratis...”

“È stato un buon investimento, adesso l’ho reso ricco.”

“Sì, ma gli è costato la stima degli altri t’yr. Quella che gli era rimasta, si capisce.”

“Questo è molto sciocco da parte della tua gente. Pushpa è un genio.”

“Nato però sul continente sbagliato. Cosa vuoi che ce ne facciamo noi sayanni di un saggio che conosca anche la storia dei kelith, o che scriva ponderosi tomi su cose avvenute più di mille cicli fa? Chiediamo preghiere e benedizioni, inni sacri per accompagnare le nostre anime, e vogliamo vedere i nostri templi ben addobbati. Non ci piace pensare troppo al passato, come invece fate voi pellebianca: siamo il popolo del presente... e dell’avvenire.” 

Deyan considerò quelle parole, pensosamente.

“Eppure, se fossi diventato principe, avrei cercato uomini come Pushpa per gettare finalmente un ponte tra le nostre nazioni, invece di continuare questa eterna guerra tra i nostri popoli.”

Ran rise e scosse la testa. “Non è vero, Deyan-shir. Sei stato educato a combattere questa guerra... esattamente come me. Senza i Marjaban e senza Luna di Fuoco, forse tu e io ci saremmo incontrati sul campo di battaglia... anzi, no: tu mi avresti comprato per farmi a pezzi a una festa di compleanno. Se io non fossi riuscito a tornare al mio villaggio con la testa dei tuoi compatrioti!”

“Ribadisco il mio convincimento, Ran: ti definisci ignorante perché sai a malapena leggere e scrivere, ma sei il sayanni più saggio che io conosca.”

E lui sorrise, inorgoglito. 

Sentirono una risatina soffocata dall’impenetrabile grata del piano di sopra, seguito da sussurri. 

Le schiave ci stanno spiando ancora, pensò Deyan. 

Le aveva sentite spesso spettegolare nella shanda a proposito del gigante barbaro amico del padrone. L’arrivo di Naysiak aveva reso la situazione decisamente piccante: le ragazze erano convinte che il padrone stesse tenendo in serbo quella schiava particolare solo per regalarla al suo amico, e si divertivano a immaginare la loro prima notte: lui, così grande e presumibilmente tutto in proporzione, e lei, con quella Membrana che non perdevano occasione di spiarle, incuriosite da quella stranezza anatomica...

Forse è questo che dovrei fare? si chiese Deyan, guardando l'amico. Dargli la chiave del collare di Naysiak e dirgli davanti a un Giudice che d’ora in poi è sua? Se fosse un kelith mi ringrazierebbe, se la porterebbe a casa tutto contento e tra un ciclo dei soli mi presenterebbe un grosso bambino azzurro, a cui avrebbe dato il mio nome. Sarebbe tutto così semplice...

Ma sia Ran che Naysiak erano sayanni, e il loro mondo rendeva complicate le cose semplici, e semplici le cose complicate. 

“Dov’è la tua Xarani?” chiese Ran, quasi intuendo i suoi pensieri. 

“Ha lavorato tutta la notte, le ho detto di prepararsi con calma.”

“Non vedo l’ora di vederla.”

Dalla shanda scesero altre risatine. Ran le sentì, alzò la testa con un sorriso, e fece con la mano un cenno di saluto verso la grata.

Le risatine si fermarono di colpo in un silenzio raggelato. 

Abbassò lo sguardo, e si trovò a fissare la faccia pallida di Deyan. 

“Non... farlo... mai più.”  

Ran si guardò la mano, imbarazzato. E si ricordò dell’atavica gelosia kelith...

“Ti chiedo perdono,” mormorò.

“Un altro al tuo posto l’avrei ucciso,” replicò Deyan, gelidamente. 

Per fortuna in quel momento arrivò Pushpa, introdotto cerimoniosamente da Saal. E in cortile giunse anche Naysiak, sbadigliando con una mano davanti alla tonda faccia.

Il t’yr la contemplò deliziato, spalancando le braccia quasi ad abbracciare la sua immagine. 

“Come nei bassorilievi di Kairana!” 

“Ki-ran,” lo corresse lei, portando le mani davanti al petto in segno di saluto. “Huanai-ne mayaniah kikka na.”

“Ya, kainì.”

“Kainì, perdono.” Naysiak sbadigliò ancora, e ripeté il gesto di saluto. “Randanai...”

Lui la guardava. “Quindi è così che si vestivano i guerrieri un millennio fa?”

“Sì,” affermò Pushpa. “Così appaiono nell’arte sacra, anche se non sono rimaste indicazioni dei colori.”

Naysiak portava una versione diversa del tipico corsetto sayanni, corto e legato ingegnosamente al collo, che imprigionava il petto lasciando liberi i fianchi per la cintura della spada. Sotto aveva un perizoma, sul quale indossava una sorta di corto gonnellino, e gambali appesi in vita, che arrivavano poco sotto al ginocchio. Ai piedi, invece dei sandali del Popolo delle Pianure e gli stivali di quello degli Altipiani, portava dei semplici mocassini legati alle caviglie. Il tutto era tenuto insieme da una moltitudine di lacci e da cuciture non molto raffinate, ma era sempre meglio dei due stracci precedenti, anche se Deyan un po’ li rimpianse: quel costume di pelli non aveva nessuna particolare grazia e mascherava anche quel poco che Naysiak aveva di femminile.

Ran pensò che era venuto il suo turno di ridere dell’abbigliamento altrui, e lo fece.

“Sorella, sembri un animale della foresta.”

Lei parlò, e Pushpa tradusse: “Dice che un guerriero è un animale della foresta. Deve essere comodo e leggero, mimetizzarsi con i colori della terra e portarsi dietro tutto quel che serve, come un animale. Lei così sta bene, poi la decorazione arriverà più avanti, se ci sarà tempo. Di sicuro non metterà quei ridicoli pantaloni che devono anche essere scomodi quando c’è da accucciarsi.”

“E la pelliccia che le avevo donato?”

“La usa sul suo giaciglio. Ti ringrazia, ma trova che sia troppo appariscente per i suoi compiti adesso. Non deve più proteggere le Divinità, ma un uomo in costante pericolo.”

“Pericolo?” chiese Deyan, aggrottando le sopracciglia.

Naysiak si accovacciò a terra, e col dito disegnò un quadrato, poi indicò dei punti all’esterno.

“Dice che fuori da questa casa ci sono almeno quindici persone che ti sono ostili, e alcune sembrano anche abbastanza intenzionate a farti del male. Però non ti attaccheranno oggi, sono incerte e hanno paura.”

Ran restò sbalordito. “Come fa a saperlo?”

Lei lo guardò, perplessa. 

“Naysiak Xarani-nin m’hay,” disse, come se quella fosse una spiegazione.

“Non si diventa Guerrieri della Cometa per caso,” mormorò Pushpa. “Lei è stata addestrata per essere il protettore perfetto. Tutte le sue capacità di guerriera e di sciamana sono state sviluppate in questo senso. Percepire i nemici è una priorità.”

“Lei... sente i pensieri delle persone anche quando non le vede?!”

“Non le vede con gli occhi: ma calcano la terra, respirano l’aria e si scaldano ai due soli. Lei li percepisce attraverso il mondo.” 

Naysiak sfiorò la terra con la mano. 

“Dice che Luna di Fuoco all’inizio non le rispondeva, ma adesso è quasi un’amica per lei. Quando verserà altro sangue la terra si nutrirà e lei avrà ancora più potere.” Fece un sorriso da bambina feroce. “Quindi è contenta di avere un Liberatore tanto odiato, che le darà occasione di raccogliere altri scalpi.”

Quello di Shartip, opportunamente trattato dalle sue mani abili con sale, calce e succhi vegetali, era appeso all’ombra e finiva di asciugarsi: un ornamento davvero bizzarro per una casa kelith, assieme allo spadone del guerriero. Ran lo notò e borbottò:

“Perché la spada di Shartip è appesa all’aperto? Così si rovinerà.”

Naysiak fece un sorrisetto astuto. Si raddrizzò, andò da Ran e lo prese per mano, invitandolo ad avvicinarsi alla spada. Gli mostrò con pazienza tutte le intaccature sul metallo, e poi sguainò la propria spada corta per dimostrargli che non aveva neanche un segno.

“Dice che quello spadone era mediocre come materiale e pessimo come fattura, fatto da un fabbro incompetente; e non valeva nemmeno la pena di prenderlo se non per umiliare ulteriormente il suo nemico: Deyan-shir può tenerlo lì come ornamento, o darlo ai servi per zappare la terra. La sua spada è più piccola, ma è fatta di acciaio superlativo e da un fabbro sacro che era tale da dieci generazioni, e ha inciso una tacca per ogni parata che ha fatto; e questo perché nel combattimento non conta essere più grossi, ma essere più perfetti...”

E con quella frase Naysiak fece un sorriso allusivo, indicando con la mano la sua statura e quella di Ran. 

“Direi che la metafora è chiara,” disse Deyan, divertito. 

“Lampante,” brontolò Ran, ma con l’ombra di un sorriso nel volto corrucciato. Si baciò la mano, e si chinò a toccare il suolo davanti a lei. “Riconosco la tua superiorità, Xarani. E non ti chiamerò più piccola.”

Naysiak lo guardò con simpatia, si baciò la mano a sua volta, e gliela posò sulla guancia ben rasata. 

“Che significa quel gesto?” chiese Deyan a Pushpa.

“È una benedizione. Non scordare che lei riveste un ruolo sacro tra noi sayanni.”

Sembrava tanto una carezza, invece. E l’espressione di Ran era di una dolcezza così particolare che Deyan si chiese una volta di più se il suo amico non si fosse innamorato. Il modo in cui guardava quegli occhi ovali di fronte a lui... 

E Naysiak? Che significa quel suo sorriso? Cos’è questa sua strana confidenza che ha con Ran nonostante tutto? Le piace? 

“Pushpa,” mormorò. “È lecito per un kelith chiederti qualcosa sugli usi matrimoniali della tua gente?”

“Certo, se non scendi in particolari... troppo intimi.”

“Chi decide i matrimoni tra la vostra gente? E con che criterio?”

“Su Sayanna vengono decisi dalle autorità, ai vari livelli: dai capivillaggio per gente come Ran, alle Divinità stesse per gli Xarani come Naysiak. Il criterio è naturalmente quello del bene per la razza; le caste vengono mantenute separate, in modo che guerrieri si sposino coi guerrieri, contadini con i contadini, artigiani con gli artigiani, t’yr con t’yr...”

“E su Luna di Fuoco?”

“Non abbiamo mai celebrato un matrimonio qui. I sayanni sposati sono arrivati con i loro compagni direttamente dal continente: sai bene che tra di noi il matrimonio è unico e indissolubile e niente separa una coppia se non la morte. Se ci trovassimo nella necessità di stabilire delle nozze... penso che tocchi ai Marjaban deciderle. Sono loro la nostra autorità, qui. Almeno penso.”

“E se un sayanni maschio e una femmina decidessero di sposarsi per conto loro?”

Pushpa lo guardò, incredulo. “Perché dovrebbero?”

“L’istinto... riproduttivo.”

“È un istinto, come dici giustamente tu. Ci siamo evoluti dalle bestie dominando i nostri istinti e convertendo quelle energie a più nobile scopo. La riproduzione è una faccenda che riguarda la società, non i singoli. Le tentazioni... e la curiosità eccessiva ci sono, non lo nego: abbiamo sempre avuto la piaga dei disonorati. Ma siamo una società misericordiosa, consentendo loro di continuare la loro esistenza, ovviamente in un contesto separato da quello corretto, che non deve lasciarsene contaminare.”

“Tu sei sposato, Pushpa?”

Il t’yr si toccò la guancia per indicare il tatuaggio. “Ovviamente sì. Mia moglie è morta molti cicli di soli fa, dando alla luce mia figlia che adesso è t’yr nella Città Santa. C’era anche la sua firma, sulla mia condanna a morte per eresia,” e Pushpa rise. “Noi sayanni non abbiamo i legami filiali di voi kelith, è la comunità che ci cresce, i genitori ci sono indifferenti. Mi è dispiaciuto quando mia moglie è morta, ma ho semplicemente ritenuto concluso il mio compito riproduttivo e mi sono rimesso a studiare.” Un’occhiata curiosa. “Perché tante domande sul matrimonio, Deyan-shir?”

“Perché mi hanno detto che Ran è nell’età giusta.”

“Ahhh...” Pushpa annuì. “Sì, è vero. Ormai sarebbe tempo anche per lui. Ma la cosa ti riguarda?”

“Io ho una femmina della sua razza e lui... mi sembra affezionato a lei.”

“Ran è facile all’affezione, Deyan-shir. È stato sventurato e tende ad amare altri sventurati: è il suo modo di rivalersi sul destino. Trovo ben poco strano che si sia affezionato a Naysiak, che in quanto a sventure non ha pari.” Si incupì. “Davvero, povera donna. E tutto, per aver...”

Tacque. 

“Pushpa?”

“Mi ha fatto giurare di non dirlo,” mormorò. “Riguarda le Divinità, ed è una cosa... che ha davvero cambiato la storia del nostro popolo. Posso però dirti che lei ha fatto ciò che ha fatto spinta solo dai sentimenti più nobili, non per vantaggio personale. E ha pagato questo... con un dolore che basterebbe a riempire un universo.” 

“E la gioia, per Naysiak? Se si sposasse anche lei?”

“E con chi? Dove lo si trova, un guerriero di rango adeguato al suo? Vuoi forse rapire un generale nella Città Sacra, o un altro Xarani?”

“Lei non ha rango, in questo momento. Non è altro che una schiava.”

E potrebbe accontentarsi di un disertore...

Il t’yr ebbe una smorfia. “È una schiava? E tu cosa sei di diverso, Deyan-shir?”

“Ran mi ha liberato...”

“Per Kelitha tu risulti essere uno schiavo in perpetuo.”

“Io sono un nobile di sangue reale!”

“E lei invece è un Guerriero della Cometa!” Pushpa lo guardò, severamente. “Non ti sei ancora reso conto che è nobile quanto te? Il collare che le hai fatto mettere quel giorno maledetto... è uguale al marchio che ti hanno impresso sul viso. Una menzogna!”

Deyan fissò lo sguardo su quella barbara orgogliosa che ora attendeva, nei suoi semplici abiti, pronta ad affrontare quella nuova vita senza paura.

Tu non la sopporti perché in tante cose è troppo simile a te, vero?

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Capitolo 13
*** Dove il passato complica il presente ***


 

 

 

 

La cabina della nave era spaziosa e comoda, foderata di nobili stoffe, profumata da essenze delicate che ricacciavano fuori il tanfo delle sentine, e dei marinai compressi nei loro rustici quartieri. La nave era ancorata, le vele ripiegate, i rematori schiavi chiusi nelle loro gabbie: solo un lieve scricchiolio del fasciame disturbava la notte. 

Jenna-shir guardava dalla finestrella aperta verso oriente lo spettacolo di Luna di Fuoco che sorgeva, ridotta a falce, dietro a terre indistinte all’orizzonte. 

Ormai ci siamo, il tempo indicato è giunto, il pilota assicura che la posizione è questa. Ma le vedette non hanno visto neanche una nave. Una beffa, una trappola? 

Sospirò. Una volta di più si disse che il suo compito era avere pazienza, e poi ancora pazienza. La pazienza era la base della sua intera esistenza.

Tutto era andato nel migliore dei modi: i venti erano stati costanti e l’Oceano benevolo, la sua Corrente d’Oro aveva abbracciato la veloce nave kelith facendola volare sulle acque. In molto meno tempo di quanto avesse immaginato, Jenna si era trovato a rimirare le coste di Sayanna: il capitano gli aveva spiegato con deferenza che il viaggio di ritorno sarebbe stato assai più lento, col mare che si riprendeva i suoi diritti; ed era il motivo per cui le flotte sayanni preferivano attaccare partendo dal lato orientale del loro continente, e non da quello occidentale. 

Non che i sayanni tentassero spesso di restituire la pariglia a Kelitha: da barbari quali erano, e privi della rapacità dei più civili nemici, si allontanavano a malincuore dal loro paese che consideravano il più perfetto dell’intero pianeta. Ma ogni tanto colpivano dolorosamente i porti kelith con spedizioni suicide: mandavano navi ricolme di guerrieri fanatici che sbarcavano, bruciavano le loro stesse imbarcazioni per indicare che non intendevano ritornare, e si lasciavano andare alla distruzione e alla carneficina più sfrenate, finché non venivano tutti uccisi. Alcune città ci mettevano decadi, per riprendersi dopo attacchi del genere. 

Dopo i primi giorni in cui il corpo di Jenna si era ribellato alla scomodità della navigazione, qualcosa in lui si era svegliato, e si era adeguato mirabilmente. Gli stessi marinai si erano sentiti onorati e inorgogliti della sua presenza a bordo: un membro della Razza Sovrana sulla loro nave! Era come se questo l’avesse trasformata in una propaggine del Palazzo, e tutti loro promossi al rango di servi della corte. Il capitano aveva visto vecchi lupi di mare impegnati a lucidare gli ottoni della nave, nella speranza di un’occhiata di approvazione di quegli occhi rossi. E il carnefice di bordo era rimasto inoperoso, perché tutti facevano impeccabilmente il loro dovere: tale era la magia che aveva operato Jenna con la sua sola presenza. 

Per rifornirsi avevano razziato qualche villaggio sulla costa sayanni, singolarmente sprovvisto di guerrieri: gli abitanti erano fuggiti nell’entroterra non appena avevano avvistato la potente nave kelith, senza nemmeno provare a opporre resistenza. Il bottino era stato magro: viveri a parte, solo qualche robusto contadino per sostituire gli schiavi ai remi morti nella traversata, e un fanciullo catturato e portato a bordo a scopo ricreativo. Jenna era stato contento del regalo, aveva molti ingegnosi esperimenti in mente: erano stati un argomento di piacevole discussione tra i nobili più altolocati. Ovviamente sulla nave non aveva i mezzi adeguati, ma si era ingegnato con ciò che c’era a disposizione; e anche se il piacere era durato poco, aveva avuto un sapore rustico che aveva stuzzicato un palato stanco di raffinatezze. I servi che avevano sbarazzato dei residui la sua cabina avevano tremato dall’orrore, ma era normale perché erano creature inferiori. Jenna era al di là dei sentimenti del volgo.

Non abbiamo colore, e non abbiamo limite. 

Era il motto della prima casa imperiale kelith, e Jenna l’aveva fatto proprio sin da quando l’aveva letto sulle rovine di Mahajana, l’antica capitale squarciata dalle guerre dinastiche. Raccoglieva meticolosamente rari reperti storici del periodo nella sua casa, che era quasi un museo, e a cui anelava tornare: ma il destino gli aveva sempre dato in sorte una vita raminga. 

Schioccò le dita, senza distogliere lo sguardo da quell’immagine da quadro davanti ai suoi occhi. Il servo gli mise tra le dita il calice di cristallo, ricolmo di dolce liquore di palma. Era una specialità Shanì a cui aveva finito per affezionarsi: la linfa di una particolare pianta veniva estratta dopo un decennio di attesa per poi essere fermentata e concentrata per altri tre, fino a trasformarsi in una festa di aromi dal singolare colore argentato. Era una bevanda regale, anche se veniva evitata dai nobili per i suoi effetti anafrodisiaci: ma Jenna aveva lasciato la sua shanda a Deera e preferiva non aver desideri carnali a ottenebrargli la mente. O almeno, non del tipo grossolano che si potesse soddisfare con qualche femmina, e quelli elevati - quelli nobili - si alimentavano col ricordo.

Era assolutamente naturale provare attrazione per il fiore della razza bianca, l’acme dell’evoluzione e della perfezione dell’intero pianeta: e Jenna era un finissimo esteta, sensibile a questo fascino e orgoglioso di esserlo. Alla corte di Shana si era riempito gli occhi con ragazzi albini meravigliosi e allegri, rampolli vanitosi e viziati dagli sguardi deliziosamente perversi, la cui vita era un passaggio da un piacere all’altro. Tutti costoro però erano stati eclissati dalla presentazione del principe Bakar: un giovane esuberante e sensuale che era apparso carico di gioielli sin nelle dita dei piedi, dipinto e profumato quasi come una donna e con un sorriso seducente verso tutti, un vero dio dell’amore. 

Bellissimo.

Jenna l’aveva ammirato, e gli si era avvicinato secondo l’etichetta per porgergli i suoi omaggi a nome del suo principato. Ma Bakar non l’aveva neanche considerato, troppo occupato a parlare di argomenti futili con la sua corte pedissequa: il nobile aveva temprato la propria delusione, e si era ritirato con un inchino e un sorriso, contento in cuor suo di vedere Shana finire nelle mani di un erede così sciocco.  

Nulla cambierà in questo paese. Ma almeno i miei occhi faranno festa.

Era stato deluso: Bakar era morto tragicamente, e al suo posto era stato eletto un principe misconosciuto, che alla presentazione l’aveva lasciato stupefatto: un giovane dal singolare aspetto misurato e quasi ascetico, l’esatto contrario dell’esuberante fratello.

Il misterioso Deyan, su cui nessuno chiacchiera, ma tutti sussurrano.

Aveva notato che era guardato a distanza anche dalla sua stessa corte, e specialmente dalla parte più allegra che ne era chiaramente sconcertata: il nuovo erede infatti non si lasciava andare alla levità degli argomenti in voga, né sembrava apprezzare la compagnia dei suoi coetanei. Un’ostentazione di quieta superiorità inattaccabile, che poteva sembrare superbia se non fosse stata accompagnata da modi impeccabili: ma era chiaro che quella figura austera era ben consapevole di chi fosse, e dell’omaggio che le era dovuto.

Jenna gli si era presentato formalmente, secondo l’etichetta, e con sua sorpresa si era visto invitato ad accomodarsi e rimanere, come persona di riguardo. Aveva scoperto che quel giovane in realtà era anche più bello del suo celebrato fratello, ma in un modo puro e sobrio che travalicava le convenzioni del tempo, e che rendeva di colpo volgari altri paragoni. Si era incantato a studiarlo, confrontandolo mentalmente con le eleganti figure degli affreschi di Mahajana, mentre veniva interrogato sui commerci di Deera, i suoi costumi, i suoi paesaggi, le sue rotte di navigazione... 

L’ambasciatore, sia pur irrimediabilmente affascinato, si era sentito tremare dentro.

E questo ragazzo sveglio e serio sarà il prossimo principe di Shana?

Il suo rapporto a Khandar-shir era stato pieno di entusiasmo, ma anche di timore. Quel Deyan non sembrava persona dappoco, e non sembrava incline a lasciarsi intrappolare dal fascino di una vita oziosa sprofondata nel lusso. Un principe così aveva la potenzialità per cambiare radicalmente il ruolo di Shana, fino a quel momento un paese il cui splendore si concentrava quasi esclusivamente nella corte famelica, lasciando i sudditi miserabili a produrre merci pregiate a basso prezzo. 

E quanto questo è convenuto a molti nell’Augusto Consorzio... 

Il principe Khandar gli aveva suggerito di stringere rapporti con Gamosh, nell’eventualità che convenisse usarlo contro Deyan se fosse diventato un pericolo per l’equilibrio di potere. Era stato l’ordine più rivoltante che Jenna avesse mai ricevuto, e aveva obbedito di malavoglia. Gamosh era stato rude al limite dell’insulto, vedendo nella raffinatezza di Jenna il compendio di tutto quel che odiava. L’ambasciatore aveva stomaco per ingoiare tutto e non aveva lasciato trapelare il fatto che l’antipatia fosse reciproca. La sua deferenza era stata naturalmente interpretata come abietta paura. 

Poi era andata com’era andata. Quell’incredibile vicenda per cui Deyan aveva perduto tutto, anche se stesso. E Shana, imprimendo quel marchio terribile sul suo volto, aveva ucciso forse un futuro di prosperità inimmaginabile, mettendosi nelle mani di un arrogante che pensava di poter sfidare tutto il resto di Kelitha con un esercito raccolto tra le sabbie del deserto. 

E adesso qual’è il mio ruolo in questo gioco? Come ricavare il massimo da questa situazione?

Voleva ardentemente rivedere Deyan, per capire cosa fosse diventato nel frattempo. Poteva essere stato distrutto nell’animo, come tutti immaginavano: un essere involgarito dalla sua esperienza di schiavo, probabilmente usato nelle maniere più turpi per sfogare il risentimento verso tanta perfezione. Poteva essere diventato semplicemente un nemico della sua razza, pieno solo di odio senza fine. 

O poteva essersi semplicemente indurito ancora di più, come una buona lama battuta dal fabbro: e in tal caso sarebbe stato un uomo formidabile, da non sprecare assolutamente... 

Vide un punto di luce, sulla costa. Si levò in un arco e scomparve, come un rapido sogno. Trasalì, nello stesso istante in cui sentì il grido dalla vedetta sulla coffa. 

Un razzo di segnalazione!... Il mercenario ha rispettato il suo patto. Le sue labbra si stesero in un duro sorriso. Mai sottovalutare l’onestà tra criminali.

Vuotò il liquore, posò il bicchiere e andò alla porta della cabina. Uscì sul ponte, la sua bianca figura evidentissima nella notte. Fissò l’orizzonte, poi alzò gli occhi al cassero, dove il pilota era già pronto assieme al capitano. 

E fece un gesto con la mano.

“Ai vostri posti!” gridò il capitano. “Rotta per Zakkara!...”

 

 

 

 

 

“Perché ci sono tutti questi guerrieri qua intorno?” chiese Ran, alla stazione di posta, presentando all’oste il contrassegno per avere la ciotola di amma, il cibo d’ordinanza dei corrieri; e guardò con faccia scontenta la tazza d’acqua e aceto che l’accompagnava, perché il vino non era ammesso tra i portatori di messaggi. 

“C’è una nave kelith nei dintorni,” spiegò l’oste. “Sono giorni ormai che è stata avvistata.”

“Cosa c’è da proteggere a Zakkara? Solo un mucchio di rovine incenerite.”

“Il sacro suolo di Sayanna, ecco cosa c’è da proteggere.” L’oste lo guardò male. “Sei troppo cinico, fratello. Quand’è stata l’ultima volta che sei andato al tempio?”

“Ci sono stato di recente,” fece Ran, incupendosi.

Ma le Divinità non mi hanno ancora perdonato. 

Si cacciò in bocca una cucchiaiata di amma. Il cibo era insipido, al solito: nutriente e sano, splendidamente sayanni sia nel colore dei semi germogliati, che nella solida collosità. Si chiese distrattamente cosa ne avrebbe pensato Deyan, che mangiava forse un terzo di lui a pasto, ma diviso in almeno cinque pietanze diverse condite con un concerto delle sue spezie; tra cui una incredibilmente piccante, che Ran aveva assaggiato per finire in lacrime con la faccia in un secchio d’acqua, mentre quel kelith delicato non batteva ciglio...

 “Da dove vieni, guerriero?”

“Arendia,” rispose Ran, con la bocca piena.

“Come vanno le cose lassù?”

“Al solito. Non cambia mai nulla nel nostro glorioso paese.”

“È cambiato il governatore.”

Ran deglutì e prese la tazza. “Prosegue nell’opera sicura del suo predecessore.”

“Il precedente governatore è stato destituito e crocefisso per comportamento non conforme.”

Ran impallidì, ma mascherò l’ennesima cantonata bevendo quella mistura acida, e guardandosi attorno come se stesse per rivelare un segreto.

“Può darsi che erigeranno un’altra croce... ma mi raccomando, io non ho detto niente.”

L’oste era costernato. “In che tempi viviamo,” mormorò. 

“Eh già. Meno male che le Divinità tutto vedono e tutto controllano. Dicevi che c’è una nave kelith da queste parti: è normale qui vedere i diavoli all’opera?”

“No,” disse l’oste. “Era molto tempo che non si facevano vedere. E non capiamo il perché: ci sono zone molto più interessanti della nostra.” Una pausa. “Non che auguri questa sventura ad altre città, ci mancherebbe.”

Ran rise. “La chiami sventura? Vedo che vi siete organizzati per dar loro il benvenuto: il vostro comandante ha l’opportunità di ammazzare dei pellebianca. Pagherei, per avere la stessa sventura.”

Una volta, adesso non più...

“Il nostro comandante pagherebbe anche più di te.” L’oste abbassò la voce. “Dicono che... sia stata disonorata da un’intera truppa di kelith: vive solo per vendicarsi.”

Ran emise un fischio sommesso. 

“Capisco allora perché qui ci siano tanti guerrieri: non è solo il sacro suolo di Sayanna che si vuol difendere...”

“Tu hai l’aria di essere un guerriero in gamba. Potresti fermarti e raccogliere la tua parte di gloria.”

“Ho già la mia missione, fratello.” Finì il suo pasto e colse un’occhiata intenta. “Spiacente, ho il divieto di parlarne.” Spinse via da sé la ciotola e la tazza. “Kamoh e Lilia ti accompagnino, buon uomo.”

“E illuminino il tuo cammino, guerriero.”

Ran si avvolse nel suo mantello e uscì, incamminandosi sul sentiero che scendeva dalla costa. Da lì vedeva il crudo panorama, tutto di rocce aguzze e scarni cespugli, e la spiaggia di ciottoli neri, frustata dalle onde schiumanti. Le rovine della fortezza dominavano la spiaggia, e molti uomini si aggiravano nei dintorni: la situazione era diversa da come Deyan l’aveva pianificata... avrebbe saputo trarne vantaggio?

A una certa distanza Ran si fermò, si guardò bene intorno. Poi andò verso delle rocce, come un uomo che cercasse un riparo per espletare le proprie funzioni corporali: si chinò in un anfratto, e da lì si buttò a pancia a terra e strisciò fino a infilarsi in una stretta apertura del suolo. L’oscurità era quasi totale, ma intravide i gradini scolpiti da mani umane: era l’ingresso di una caverna-magazzino.

Immediatamente sentì un contatto proprio sulla colonna vertebrale, a livello dei lombi. E rabbrividì, riconoscendo quella particolare tecnica. 

“Sono io,” sussurrò in fretta, prima che Deyan procedesse a paralizzarlo tagliandogli il grande nervo della schiena: gliel’aveva già visto fare con altri sayanni. Era il suo modo di azzerare lo svantaggio fisico che aveva contro di loro, ed era squisitamente kelith nella sua lucida crudeltà. 

Deyan ritirò la lama. “Ben arrivato, Ran.” 

Un fruscio, e gli altri uomini che si trovavano lì smisero di celarsi. 

Ran si voltò verso l’amico, faticando a distinguerlo incappucciato e velato com’era, e in quella poca luce. 

“Cos’hai saputo?” 

“C’è una nave kelith qua intorno, forse diretta proprio qui. Che sia coincidenza o no, i tuoi compatrioti ci stanno rendendo le cose difficili: il comandante locale, una donna disonorata dai tuoi, ha tutte le intenzioni di catturare quella nave e ha portato qui tutti i guerrieri che ha saputo raccogliere...”

“La fortezza è sorvegliata?”

“No. Ma molti dei guerrieri si accamperanno sicuramente lì, è il posto migliore per controllare il mare.”

Una pausa di silenzio. “Quanti dei nostri sayanni sono guerrieri?”

Ran esitò. Poi fece un sorriso da lupo. 

“Vuoi che ci mescoliamo con i guerrieri del comandante, vero?”

“Precisamente. E quelli che non lo sono resteranno celati, finché non arriverà il momento di entrare in azione.”

“Questo vale soprattutto per te.”

Deyan scosse la testa.

“Io sarò il primo ad entrare in azione. La mia utilità qui è quasi esclusivamente tattica, su Sayanna non posso offrire la mia forza... tocca a me il ruolo di esploratore.”

“Sarei stato più tranquillo se ti fossi portato dietro la tua guardia del corpo.”

“Ne abbiamo già parlato: non mi fido ancora. Liberatore o meno, io sono quello che lei chiama demone bianco: qui è più dura essermi leale.”

“Sarà in collera.”

Ran intravide appena un’occhiata sardonica. 

“Oh, sì. È in collera.”

Lo sente attraverso il loro legame? Da un mondo all’altro? O lo intuisce?... Povera Xarani: come schiava non potrebbe comunque avere accesso al Vortice, senza il suo padrone. Deyan è riuscito a inchiodarla su Luna di Fuoco. 

Non era stato facile, Naysiak aveva giurato di seguirlo e proteggerlo ovunque, e non aveva accettato di rimanere indietro; Deyan gliel’aveva ordinato, e vedendo che non bastava si era avvalso di altri mezzi.

E prima di partire si era inginocchiato accanto alla sua stuoia, mentre Ibal scostava la pelliccia di quel fagotto immobile per controllare i suoi segni vitali. Lei ancora lottava, ma tre narcotici insieme (tra cui il famigerato Loto Rosso, a cui la fisiologia sayanni era sensibilissima) erano troppi... gli aveva rivolto un tremante sguardo d’odio, a cui lui aveva risposto con un remoto sorriso. 

“Addio, Naysiak degli Huanai. Se non torno, Saal ha già le sue istruzioni per te.”

“T’shish,” era stato il suo commiato, prima di sprofondare nell’incoscienza.

Barbara incorreggibile.

“Ran, cerca di allontanare più uomini che puoi dalle rovine. Se vieni a sapere qualcosa sull’ingresso ai piani inferiori, segnalalo nel modo che abbiamo concordato. Io userò queste ore di luce per esplorare la zona: se quel che mi hai detto è vero, e lì sotto ci sono degli forzieri di metallo nero...” Deyan estrasse dalla borsa un piccolo strumento, delicatamente costruito.

“Che cos’è, un oggetto magico?”

“Non è magia, è scienza. Il metallo nero influenza una scheggia sua simile sospesa in questo liquido, ermeticamente chiuso.”

Ran lo fissò, incredulo. Ma quante volte Deyan l’aveva stupito, con quella sua scienza...

“Traccerò un percorso sicuro per scendere alla fortezza senza essere visti,” disse il kelith, rivolgendosi anche agli altri uomini. “Molti di voi sono cacciatori: lascerò le tracce di una lucertola crestata, ne ho viste a riscaldarsi sulle rocce, eventuali guerrieri sayanni non si insospettiranno.”

Molte teste annuirono. 

“Non torneremo tutti in una volta,” continuò lui. “Siamo in tanti e recuperare il bottino è essenziale. Man mano che avremo qualcosa lo manderemo nel Vortice con qualcuno dei nostri.”

“Ci costerà di più,” brontolò Ran, che sapeva le tariffe dei Marjaban per ogni volta che aprivano il Vortice.

“Lo so,” ribatté lui, “ma è il sistema più sicuro. Tu controlla la situazione e occupati dei nostri guerrieri, cercando di tenerli qui vicino: potrebbero doverci coprire la ritirata.”

“Preferirei di no: anche se non ho gli scrupoli della tua Xarani, non mi piace combattere la mia gente.”

“Pensa a quello che farebbero a un disertore.”

“E tu pensa a quel che farebbero a un albino.”

Deyan portò una mano al pugnale alla cintura, con un lontano sorriso. “Quel che farebbero al mio cadavere. Non mi lascerei mai catturare vivo da loro.”

Ran sentì un groppo in gola. “Abbi cura di te. Se muori, la tua Xarani mi ucciderà.”

“Se muoio, lei sarà la tua schiava.”

Con quelle parole Deyan si calò la maschera di cristallo verde sugli occhi, e in un istante scomparve dall’apertura della caverna. Ran restò a fissare il vuoto, con occhi dilatati.

Cosa?!...

Si morse le labbra: non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per distrarsi. Si voltò verso le tenebre.

“Chi ha tatuaggi da guerriero venga con me: la caccia comincia.”

 

 

 

 

 

Naysiak, furibonda, cercava la pace perduta studiando un sasso che aveva raccolto sul lato della strada. Era grigio, e pieno di piccole scintillanti scaglie di mica: cercò di concentrarsi su quel piccolo universo di minuscoli crateri, schegge bianche e venature di ossidiana. 

Sono la dea di questo mondo.

La lima era già molto usata, ma era di buona qualità e ancora ruvida; lo scalpello invece si era già smussato. Lo puntò comunque con precisione sul sasso posato a terra, e con un’altra pietra diede delicati colpettini, finché il sasso non lasciò andare la scheggia che lei desiderava. Sospirò, con il solito misto di sollievo e concentrazione, pulì il sasso contro i gambali, e poi prese in mano la lima per lisciare l’incisione.

Con la coda dell’occhio vide Saal che usciva dalla bottega kelith che era andato a visitare. Ovviamente a mani vuote: gli acquisti sarebbero stati portati dal mercante stesso, con grande cerimonia, quasi fosse stato un privilegio servire la casa di un bianco signore. Naysiak fece una smorfia, soffiò via la polvere dal sasso e ripose tutto in una sacchetta che teneva appesa alla cintura, dove teneva gli strumenti e quel che trovava in giro, a volte tra i rifiuti: pietre morbide, pezzetti di legno non carbonizzato, ossa. Era un’abitudine che Saal giudicava disgustosa (come tutte le altre, peraltro), ma lei se ne infischiava: e in un angolo del cortile custodiva quel mucchietto di roba disparata che poi lavorava in tutti i suoi momenti di riposo.

E Deyan l’aveva costretta ad averne più di quanto lei desiderasse. 

Maledetto Liberatore! Se non torni più, come mi giustificherò davanti ai miei dèi? Sarò una Xarani che si è lasciata ingannare per mancare al suo dovere. Ho sopportato in silenzio tutte le umiliazioni che mi hai inflitto, e ancora non ti fidi di me? Ho strappato il cuoio capelluto a un tuo nemico, e ancora non ti fidi di me? Non ti ho ucciso con le mie stesse mani, quando morirei dalla voglia di farlo; e ancora non ti fidi di me? 

Si alzò dal ciglio della strada e si mise a seguire Saal. Il maggiordomo fece il disdegnoso e guardò avanti: non aveva richiesto i servigi di Naysiak - inconcepibile un kelith che chiedesse la protezione di una femmina - ma lei, non potendo più seguire Deyan, aveva deciso di proteggere la sua famiglia. 

Non poteva però proteggere se stessa dall’ostilità di parte della sua comunità, che non aveva compreso il perché del suo asservimento a un kelith; e che tutto sommato avrebbe preferito uno Shartip, disonorato e bestiale ma pur sempre sayanni in più, e un nobile depravato in meno. 

E siccome era schiava, e quindi privata anche del diritto di difendersi dalle ingiurie degli uomini liberi, aveva dovuto imparare a sopportarle in silenzio: e che a ingiuriarla fossero i sayanni era una cosa che l’aveva ferita profondamente, molto più della diffidenza e del disprezzo dei kelith, che tutto sommato aveva sempre messo in conto. 

Non ho più amici, nemmeno tra la mia gente...

Quella sensazione le bruciava dentro come una piaga. Anche quando arrivavano ai massimi livelli delle loro gerarchie, i sayanni restavano sempre sayanni: non sopportavano la solitudine, avevano bisogno dell’affetto e del cameratismo per sentirsi completi. Naysiak aveva dovuto vivere momenti di pesante isolamento durante il suo addestramento, che l’avevano costretta a cercare quel sentimento anche fuori dall’umanità: l’aveva trovato, ma dentro di sé aveva tanto bisogno arretrato di compagni, di risate in comune, di calore.

E quando finalmente li aveva avuti, l’avevano strappata dal suo mondo per chiuderla nel Feretro. 

Ricordava il terrore di quei momenti, le sue lacrime di fronte alla lucida superficie che era il volto del Tirri, e le sue mani d’argento che le premevano sul volto quella molle cappa di vapori. I suoi stessi ultimi respiri l’avevano assordata, mentre la voce del dio le arrivava da molto lontano, per dirle che quello era l’unico modo per salvarla... 

Salvarmi?

Si era svegliata nell’oscurità. In un utero immobile. Cercando disperatamente un modo per contare il tempo che passava. Le aveva risposto la montagna, con la lenta voce di un essere che si sentiva giovane con milioni di cicli di soli alle spalle. Le avevano risposto le creature viventi, con le loro vite che bruciavano in un istante. Le avevano risposto le nuvole, insopportabilmente veloci, e il movimento degli astri, un balletto solenne e indifferente. E lei si era smarrita, diventando tutti e nessuno, aggrappata ai suoi ricordi eternamente rivissuti, chiamando nel vuoto il suo Liberatore, e sentendo solo il silenzio... quel particolare, immenso silenzio, in cui nemmeno i fruscii della carne erano percepibili. Il silenzio tra i mondi. Il silenzio degli dèi. 

Speranza, disperazione, speranza... disperazione. Intercalati da un vuoto sfinito, e da esplorazioni minuziose della propria stessa follia. Visioni. Frammenti di conversazioni che il suo spirito forse captava: e di cui comprendeva le parole quando chi le aveva pronunciate era decrepito. Il lento, lentissimo strisciare di un verme sulla superficie del Feretro, che era diventato per lei come una strana pelle, il bozzolo di una farfalla pietrificata. Le urla della sua anima torturata, quando decideva di smettere i suoi viaggi tra i mondi e tornare in quel corpo che era il suo, ma che non riconosceva più: e non poteva nemmeno piangere o pregare, poteva soltanto... aspettare.

Liberatore, dove sei? Sei già nato? O sono nati solo i tuoi antenati? Esisterai?  

Tutta la sua coscienza si era concentrata in quel punto, dandole la forza. 

La speranza nel Liberatore è stata l’unica luce in più di un millennio d’inferno... 

Ed era per quel motivo che gli era fedele, che non poteva fare a meno di essergli fedele. Anche se le costava un mare di sofferenza. Anche se la rendeva una reietta.

Non è solo un giuramento a legarmi. È qualcosa di così profondo e immenso da trascendere le parole. Ma nessuno tranne me è in grado di comprenderlo, perché sono la sola al mondo ad aver provato cosa vuol dire aspettare  e sperare per più di mille cicli di soli. 

Un’occhiata al cielo. 

E forse gli dèi mi hanno creato così forte perché sapevano che avrei dovuto portare questo fardello...

“Ehi, schiava! Dov’è il tuo padrone?”

“Te l’ha dato, un osso da succhiare?”

Voci volgari ridevano. Di cosa, lei non si sforzava di comprenderlo. 

Ma Saal mostrava tutta la sua indignazione: ci doveva essere qualcosa di insultante anche per il suo padrone, in quella battuta.

“Muoviti!” sibilò alla sayanni, quasi fosse colpa sua. 

Lei emise un lieve sospiro. Si distrasse a ricordare quando da Guerriero della Cometa le avevano dedicato una gran festa, con canti e balli. Adesso si sarebbe accontentata di molto meno. Di essere almeno lasciata in pace...

Ciac!

Un impatto contro la sua nuca. Una sensazione bagnata tra i capelli. 

Le avevano tirato contro qualcosa. 

Le era già successo. Si portò una mano alla testa, giusto per controllare che non fosse la sostanza immonda della volta precedente. No, era un frutto, la cui fatica di esistere era stata sprecata solo per sporcarla e ferirla. Si tenne la polpa fradicia tra i capelli, senza neanche guardare l’uomo che gliel’aveva lanciata. 

Una volta mi lanciavano fiori.

Ricominciò a camminare e sentì dei passi che si avvicinavano alle sue spalle. Le vennero le lacrime agli occhi.

No, vi prego, basta. Non costringetemi a uccidervi...

“Siamo in vena di giocare?”

I passi si fermarono bruscamente. 

Naysiak si voltò appena, per vedere chi aveva osato interrompere i suoi tormentatori. Era Aydie, che spuntava da una bettola, occupato a pulire il suo pugnale con uno straccio. 

“Che vuoi, kelith?!” lo apostrofarono i sayanni. 

Lui li fissò con un sorriso orribile nel suo volto sfigurato, ed emise un particolare schiocco con la bocca. 

Altri kelith cominciarono ad affacciarsi qua e là, e ad apparire dagli angoli delle case. Pellebianca che di bianco non avevano più nulla, cotti dal sole, duri come cuoio stagionato, infagottati nelle loro tuniche stazzonate e spesso rammendate, però adornate di fibbie d’argento. 

Naysiak li riconobbe, stupita.

I kelith della Squadra Sacrilega!

Erano rimasti su Luna di Fuoco, ad attendere l’esito della missione su Sayanna. 

Un brivido di tensione passò per la strada.

“Statevene alla larga, feccia,” ringhiò uno dei sayanni. “La faccenda non vi riguarda.”

“State molestando una nostra compagna.”

Naysiak trasalì. Compagna?

“Proprio una bella squadra, quella che chiama compagna una lurida schiava.”

“Hai detto bene,” replicò Aydie. “È una schiava. Proprietà privata del nostro capo. La proprietà degli altri si rispetta, qui su Luna di Fuoco.”

“Altrimenti?” lo sfidò il sayanni. “Intervenite voi deboli pellebianca a proteggerla?”

“No.” Aydie rinfoderò il pugnale, sogghignando. “Lei non ha affatto bisogno di noi per difendersi. Ha bisogno solo... di essere autorizzata a farlo.” Un’occhiata sardonica. “E per quel che ne sapete voi, Deyan-shir può avermela prestata durante la sua assenza, quindi come suo custode potrei autorizzarla io...”

I sayanni esitarono, e quando Naysiak si voltò verso di loro fecero un passo indietro. 

“Che ne dici, ragazza azzurra?” fece Aydie, incrociando le braccia sul petto. “Ti autorizzo? Senza ammazzarli, eh, mi raccomando. Solo una bella lezione di buone maniere...”

I sayanni si ritirarono, in un torvo silenzio. E i kelith scoppiarono a ridere. 

“Eccoli, i coraggiosi pelleblu...” Aydie si avvicinò a lei, scuotendo la testa. “Saremo feccia noi, ma quella del tuo popolo ci tiene una più che degna compagnia, quassù.” Le porse lo straccio che aveva usato per lucidare il pugnale. “Pulisciti con questo, ragazza. Scusa, ma non ho di meglio.” 

“Grazie,” mormorò lei, commossa. 

“Di nulla,” replicò lui, e fece per andarsene. Ma si fermò e le diede un’occhiata di sguincio. “Oh, naturalmente ho mentito... i principi kelith non prestano mai nulla: o si tengono tutto, o lo regalano.”

Naysiak lo guardò, perplessa.

“Non avrei potuto autorizzarti.” Si mise un dito davanti alle labbra. “Ma... non lo diciamo in giro, d’accordo?”

Fece un gesto, e così come i kelith erano apparsi, scomparvero.

E Naysiak corse dietro a Saal, sentendosi un po’ meno triste, e un po’ meno sola.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mare rombava, le onde tracciavano righe bianche di schiuma. Quando era sceso come un’ombra verso la fortezza, Deyan si era tolto un istante la maschera di cristallo, per rimirarne il vero colore: identico a quello del ricordo che Naysiak gli aveva trasmesso.

Non aveva provato alcun stupore davanti a quello spettacolo, benché fosse in realtà la prima volta che lo vedesse: frastuono a parte, impressionante alle sue orecchie, era davvero simile al kannah-ri amini, il Mare Immobile del suo perduto paese. 

Oh, Shana...

Ma non era laggiù, tra le dune dorate, bensì su Sayanna; e quel continente ostile lo opprimeva, aumentando il suo peso e avvelenandogli l’aria con tutta quella sconcertante umidità. 

Perché sono qui per rubare un suo tesoro.

L’aveva trovato abbastanza agevolmente, grazie al suo strumento, e a un segno che Ran aveva inciso su un muro scrostato: un cerchio con sovrapposta una freccia. Evidentemente la parlantina del suo socio gli aveva fatto guadagnare qualche altra preziosa informazione. Sotto un mucchio di mattoni calcinati, adorni di ciuffi di vegetazione stentata, aveva trovato una robusta porta di metallo, chiusa da un chiavistello arrugginito. E aveva sorriso, sotto al velo.

Bene, qualcosa qua sotto c’è. 

Della porta si erano occupati i predoni sayanni che l’avevano seguito, intanto che i guerrieri agli ordini di Ran fingevano di fare la guardia con cipigli marziali; alla distanza era difficile distinguerli da quelli inquadrati. L’attenzione dei soldati era infatti tutta fissa al mare, da cui si attendevano il pericolo, e non alle loro spalle. 

Deyan era penetrato nel sotterraneo della fortezza, dove l’aria era chiusa da decadi: non aveva mostrato paura, a differenza dei sayanni che erano più superstiziosi. Con una torcia schermata e la sua droga a dilatargli le pupille, aveva esplorato e tracciato un percorso per i suoi uomini, tra rocce infiorate di cristalli di sale e giganteschi ragni appostati negli angoli. Il suo strumento era impazzito indicando il fondo di una rustica scalinata, alla fine della quale quindici scrigni erano apparsi, coperti da almeno una spanna di polvere: perfettamente disposti e sigillati. 

Ma non c’era serratura che Deyan non avesse appreso a forzare; e lui era stato addestrato con quelle kelith, che erano infinitamente più complicate di quelle sayanni. Gli era bastato qualche strumento e un poco di pazienza, per aprire uno di quei pesantissimi scrigni e vederne il contenuto. 

Pietre nobili, coralli multicolori, barre d’argento.

I sayanni che erano stati di Saraji diffidavano di lui e lo odiavano, ma quando avevano visto cos’erano venuti a rubare si erano dimenticati di colpo del colore della sua pelle e dei capelli, e avevano esultato. Lui aveva imposto loro di mantenere il silenzio e di comunicare solo col codice di segni dei ladri: avevano obbedito con la stessa prontezza che avevano offerto al loro precedente capo. 

Deyan sapeva che il Vortice non poteva penetrare nelle viscere della terra, ma aveva individuato un anfratto fuori dal sotterraneo, circondato da alte rocce, che poteva essere un buon posto per effettuare il trasferimento: ci stavano solo pochi uomini alla volta, ma era impossibile scorgerli per un uomo a livello della spiaggia. Aveva segnalato ai predoni di dividersi in coppie, e provvedere a trasportare gli scrigni fuori da quel nascondiglio, uno alla volta. Quindi era andato a presidiare l’uscita, per dare i tempi del rientro. 

Era una procedura lunga e delicata, ma lui non si era lasciato prendere dalla fretta. Al momento giusto, un segnale e un’indicazione, e i primi due avevano trasportato lo scrigno nel luogo preposto.

Stava per partire il sesto scrigno, quando Deyan fermò tutti: un guerriero si stava avvicinando di corsa alla fortezza. Non sapendo chi fosse, si mantenne nascosto: l’uomo si voltò intorno cercando qualcuno, poi cavò di tasca il pugnale e graffiò in fretta qualcosa su un muro cadente, correndo via. 

Deyan attese, contando mentalmente fino a cento, poi uscì dal nascondiglio, scivolò tra le ombre come una vipera e in silenzio raggiunse quel muro. 

Quel che vide lo agghiacciò. 

Il disegno schematico di un uomo su un triangolo, con le braccia alzate e una riga tra polsi e collo.

Hanno catturato Ran.

 

 

 

 

 

 

Chiuso tra le quattro mura di una capanna, legato con robusti canapi nel classico modo sayanni per costringerlo a restare in ginocchio (e meditare sui suoi peccati), Ran fissava la porta chiusa, chiedendosi se quella beffa del destino non fosse una vendetta delle Divinità. 

Era sembrato tutto così semplice: si era presentato baldanzosamente, con la sua lancia in pugno, per offrire i suoi servigi, e i guerrieri sayanni l’avevano salutato con piacere, soprattutto vedendo la sua stazza imponente. Ran era stato affabile, parlando con entusiasmo del suo desiderio di lavare la sua lancia nel sangue degli immondi pirati bianchi; e dopo un po’ di movimento, aveva detto di aver visto qualcosa verso nord: poteva essere una delle immense creature marine, o anche una nave kelith, il cui fasciame era dipinto per confondersi alla vista...

I guerrieri erano andati ad avvertire il comandante, che aveva mandato subito delle vedette e aveva chiamato a raccolta la truppa per ricollocarla sulla spiaggia. 

“Chi è il valoroso che ci ha portato questa notizia?”

Il suo luogotenente aveva indicato Ran e gli aveva fatto cenno di avvicinarsi. Lui aveva obbedito, con un gran sorriso. “Ai tuoi ordini, custode della nostra sacra terra!”

Il comandante l’aveva guardato in silenzio, dalle fessure del suo elmo foderato di cuoio. 

“Arrestatelo.”

Ran aveva sbarrato gli occhi, incredulo. “Che cosa?...”

“Gli altri si dividano in tre gruppi: uno rimanga qui. Gli altri due si spostino una lega a nord e l’altro a sud: portate le torce per i segnali, tra poco i soli tramonteranno.”

E aveva voltato le spalle per andarsene, senza degnarlo di una seconda occhiata, mentre lui veniva circondato. 

“Comandante!” aveva gridato. “Aspetta!...”

“Chiudetelo da qualche parte: mi occuperò di lui quando ne avrò il tempo.”

“Non provate a toccarmi!” Ran aveva alzato la lancia, minacciosamente. “Chi si avvicina...”

Qualcuno alle sue spalle era riuscito a sferrargli un accecante colpo alla testa, con qualcosa di molto duro. 

Era caduto sulle ginocchia, stordito, e in un istante era stato disarmato e trascinato via: aveva appena fatto in tempo a vedere Nemel che arretrava prudentemente tra gli uomini, e poi correva via...

Per tutti gli dèi, avverti Deyan-shir!

Scosse la testa: gli faceva ancora male. Sentiva la nuca pulsare, ma non poteva toccarsela: le mani erano saldamente legate alle caviglie. Probabilmente i capelli gli avevano protetto il capo da quel colpo pazzesco, ma non avrebbero potuto far molto per salvarlo dal Grande Martello. Quel pensiero gli scese come acido nello stomaco: aveva assistito a una di quelle esecuzioni e l’aveva odiata, per il modo in cui cancellava ogni parvenza umana del condannato. La morte era istantanea (a differenza dei supplizi kelith che prevedevano sofferenze prolungate, a volte di giorni interi); ma quel che restava, quando andava bene, era un corpo senza testa... quando andava male, una caricatura deforme e grottesca. Era un effetto chiaramente voluto, per impressionare il popolo e fargli preferire il gioioso servizio agli dèi, piuttosto di quella fine ignominiosa.

E dopo una vita a cercare di sfuggire a questa morte, ecco che le finisco in bocca. 

Non si faceva illusioni: anche se avevano diviso le loro forze, i guerrieri sayanni che erano rimasti erano più che sufficienti per vincere una battaglia campale contro i predoni della Squadra Sacrilega. Era meglio pensare alla sua cattura come una magnifica diversione, di cui Deyan avrebbe approfittato con la sua consueta lucidità e spietatezza: doveva pensare al vantaggio di tutta la squadra, non a quello di un uomo solo. Ran non gliene avrebbe voluto, il rischio era una componente naturale della vita di un predone.

Ho giocato la mia partita, e ho perso. E come dicevo a Saraji, un predone paga sempre le sue sconfitte... con la vita. Non posso pretendere che tutta la mia squadra rischi il disastro per salvarmi. 

Raccolse il proprio spirito guerriero e si impose quindi di non sperare: si concentrò sulla ricchezza munifica che sarebbe arrivata su Luna di Fuoco e la felicità dei suoi uomini, che avrebbero benedetto il suo nome e il suo ricordo. Salutò in cuor suo Deyan, l’amico più straordinario che il destino gli avesse regalato, rivivendo quei momenti in cui avevano condiviso un sorriso e ogni differenza nel colore della loro pelle e dei capelli aveva perduto di significato. Gli dispiaceva solo non aver trovato il coraggio di chiedere scusa alla sua Xarani, ma forse lei sapeva già tutto... e l’aveva perdonato con uno di quei sorrisi che la facevano sembrare così poco guerriera. Quelli, e quel piccolo naso che lui aveva pensato di romperle: invece era stata lei a rompergli quasi il suo. 

E me lo sarei meritato...

La porta della capanna si spalancò, strappandolo ai suoi pensieri. 

Il comandante entrò, col suo luogotenente. Diede un’occhiata al prigioniero, e vedendolo ben legato annuì al sottoposto. “Aspettami fuori.”

L’uomo obbedì, e chiuse la porta. 

“Ebbene, disertore?”

Lui ebbe un’espressione indignata. “Non sono un disertore: sono un guerriero, e tu sei in errore.”

L’ufficiale gli si avvicinò, lo prese per il mento e gli girò la faccia da un lato, e poi dall’altro.

“Sei lontano dalla tua terra, uomo del clan Kurya... come hai fatto a sopravvivere fino ad adesso?”

“Respirando,” replicò acidamente lui. 

“E sei riuscito a schivare il Grande Martello per tutto questo tempo? Notevole.” Una risata. “Vedo che non sei sposato. Il che, con un fuorilegge come te, non significa nulla.”

Si tolse l’elmo, gettandolo a terra e rivelando il volto lungo e maturo di una donna, segnato da una cicatrice orizzontale sullo zigomo sinistro che distorceva i tatuaggi sottostanti.

Ran sbarrò gli occhi e avvampò. Poi abbassò lo sguardo.

“Non sono un fuorilegge.”

“Su, montanaro, non fingere di non riconoscermi. E io non posso fare a meno di riconoscere te: non mi serve neanche consultare i registri per sapere che hai disertato. Certe cose... io non le dimentico.”

“Ti confondi con qualcun altro.”

Lei gli afferrò le trecce e gliele scostò dalle spalle, per guardargli il collo taurino. E con un dito percorse il segno di una cicatrice.

“Ma davvero... per poco non ti staccavo la testa, quella volta ad Arendia.”

Ran chiuse gli occhi, mormorando una maledizione. 

“Ne è passato di tempo,” ridacchiò lei. “Non pensavo che ti avrei mai più rivisto.”

“Che ci fai qui?” 

“Zakkara è stata la mia fortezza,” disse lei, raccogliendo uno sgabello e sedendocisi sopra pesantemente: lo sgabello scricchiolò. “Avevamo dodici catapulte, e i pellebianca hanno pensato bene di bruciarcele... quattro navi, piene di arpioni, gettafuoco, trabucchi e veleni. Ho perso quasi tutti i guerrieri ai miei ordini.”

“E non solo i guerrieri, mi hanno detto.”

Lei sorrise, senza alcuna piacevolezza.

“Ti hanno detto quel che volevo che si dicesse.”

Ran si mosse, per attenuare il dolore del suo corpo costretto da troppo tempo a quella posizione umiliante, e la guardò da sotto le sopracciglia corrugate.

“Quindi non è vero che sono stati i kelith.”

Lei esplose in una breve, aspra risata. “I kelith erano uno. Molto azzurro, e molto forte... e pure sposato.”

“Sposato?!” La guardò con tanto d’occhi. “Un sayanni adultero?!”

“Era il fabbro da cui mi facevo affilare le armi. Per molto tempo l’avevo rimirato al lavoro, coltivando desideri segreti dentro di me. Un giorno riuscii a farlo ubriacare... il resto fu semplice. Non so nemmeno se si rese conto che non ero sua moglie: avevo provveduto da me a liberarmi di un certo impiccio...”

Ran era scandalizzato. “Bugiarda e depravata! E hai il coraggio di giudicare me!”

“Io non ti giudico,” disse lei, guardandosi le unghie di una mano. “Quello l’hanno già fatto i capi del tuo clan. Sei colpevole di diserzione e condannato a morte.” Aprì le braccia. “Io? Una triste vittima di questa eterna guerra. Il mio disonore è anche motivo d’orgoglio, una ferita inferta dai maledetti kelith: non posso mostrarla... ma tutti sanno che c’è.” Lo guardò maliziosamente. “Non sei curioso di vederla?”

“No,” fece lui, con espressione schifata. 

“Peccato. Perché vedi... tu sei proprio il tipo di uomo che a me è sempre piaciuto.” Si sporse verso di lui. “Mi piace questa tua faccia così franca e aperta... e la fierezza di questi tuoi begli occhi blu, anche se non hai nulla di che essere fiero: sei soltanto la feccia della nostra casta... un guerriero che è scappato per non compiere il suo dovere.”

“Forse sono così fiero perché so che almeno non sono come te!”

“Sai cosa sei? Un uomo morto.” 

Lui deglutì a vuoto, ma mantenne lo stesso un’espressione spavalda. 

“Almeno nella mia vita mi sono divertito.”

Lei si alzò dallo sgabello, gli si avvicinò e gli accarezzò le spalle possenti, in un modo che gli mandò un brivido lungo la spina dorsale...

“Non sai nemmeno il significato di questa parola, guerriero. Volevo insegnartela quando ti vidi ad Arendia... una magnifica tigre di montagna, un po’ scarna e lacera, ma decisamente appetitosa per una donna delle pianure come me. Ma forse, in questi tuoi cicli a peregrinare come fuggiasco, hai finalmente trovato chi ha vinto i tuoi scrupoli morali...”

“Ero vergine allora, e sono vergine adesso.”

“Ah sì?” 

Lei si inginocchiò al suo fianco, gli slacciò i pantaloni. Guardandolo con intenzione.

“Non ho nulla da nascondere,” sibilò lui, affrontando quello sguardo. 

“È mio diritto... e dovere controllare, come ufficiale in comando.”

Ran lottò per non dibattersi, per rimanere monumentalmente fermo, ma sentì il sudore scivolargli lungo il collo... strinse i denti, sentendo la mano della donna infilarsi sotto l’indumento.

Udì il suo lievissimo sospiro di disappunto. 

“Contenta?” le ringhiò. 

“Non è un problema. Bastano due incisioni con un coltello.” Se lo cavò dalla cintura, e glielo mostrò. 

Ran impallidì spaventosamente. 

“Tocca la mia Membrana con quel coltello, e ti ammazzerò: non mi importerà quel che mi succederà dopo!”

“Suvvia, montanaro! Un vero guerriero non avrà paura del dolore, vero?” Gli si avvicinò, ad un palmo dal volto. “Pensando al piacere che ne seguirà. Ma soprattutto, pensando che con questo piccolo sacrificio si guadagna il diritto di respirare anche il giorno dopo...”

“Che razza di infame baratto mi proponi?!”

“Posso liberarti da questi legami... e dagli altri. Poi uscire di qui e dichiarare che il mio è stato un errore e che non sei il disertore che credevo. Potrei anche aiutarti a cambiare identità, in modo da tenerti con me...”

“E io come spiegherei a tutti il mio, di disonore?” La sua voce divenne sarcastica. “Racconto anch’io di essere stato violentato dai kelith?”

Lei storse la bocca. 

“Sei ostinato, come tutti quelli della tua razza. Forse non ti rendi conto che l’alternativa per te è trovarti con la testa su un masso: sei già stato condannato, e qualsiasi ufficiale che ti catturi è autorizzato ad eseguire la sentenza di morte sul posto.”

Ran distolse lo sguardo. 

Perdonami, Deyan-shir, vorrei tanto non lasciarti solo, ma questo prezzo è troppo caro per me...

“Allora?” lo spronò lei.

Lui inspirò profondamente... e lasciò andare un grido tonante, con tutta la forza dei suoi polmoni. 

“Guardie!...”

Lei sbarrò gli occhi, colta alla sprovvista. Alle sue spalle la porta si aprì immediatamente e le guardie si affacciarono, allarmate da quel grido. 

“È vero, sono un disertore,” dichiarò Ran, con voce alta e chiara. “E non solo! Sono un bandito e un ladro!”

Lei impallidì, si voltò a guardare i suoi uomini. Avevano sentito...

“E adesso che ho confessato, è la legge che mi protegge da te,” disse Ran, con un sorriso feroce. “Non puoi più disonorarmi. Puoi solo mettermi a morte.”

Gli uomini si guardarono, e poi fissarono la donna.

“Comandante?”

Lei si alzò, lentamente, con le labbra contratte. E poi, con un gesto di purissima furia, mollò a Ran un gran manrovescio che fece sobbalzare le guardie. 

“Dunque preferisci il Martello a me?” gli mormorò, a voce bassissima. “Come vuoi, disertore. Sarai accontentato.” 

Lui sputò il sangue e la guardò, con occhi di fuoco.

“Dove? Ad Arendia?”

“No,” ringhiò lei. “Non sei così importante.” Raccolse il suo elmo e se lo rimise in testa. “Stanotte stessa sarai giustiziato, qui, su questa spiaggia, e il tuo cadavere lo getteremo in pasto ai pesci. E questo è tutto quel che ti meriti.”

E se ne andò, sbattendo la porta alle sue spalle. 

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Capitolo 14
*** Dove la morte cerca chi abbracciare ***


“Kamoh e Lilia sono misericordiosi, figliolo...”

“Buon per loro, io non me ne sono mai accorto.”

Il giovane t’yr era turbato. “Non bestemmiare alle soglie della morte...”

“Sei solo un uccello canterino che ripete a memoria parole polverose. Sparisci.”

“Ma il tuo atto di contrizione...”

“Mi salva la vita?” 

Un silenzio imbarazzato. “Salva la tua anima,” azzardò il t’yr.

“La mia anima è azzurra, e finirà nel sole azzurro. Quando ci sarà bisogno di un po’ di spirito in qualche villaggio di musoni morti di fame, rinascerò lì con o senza il tuo permesso. E adesso piantala di seccarmi, e fammi avere almeno una tazza di vino: ho la gola secca.”

“Solo acqua. Devi andare alla morte da lucido.”

“Acqua!... Bella crudeltà da kelith, negarmi anche il profumo di un caro compagno! Allora dì alle guardie che sono pronto, che si muovano. Sono stanco di aspettare.”

“Tra qualche istante, quando suonerà la campana di mezzanotte. È l’usanza.”

“Quanti spettatori?”

“Solo le truppe che sono rimaste qua. Che altri spettatori volevi?”

“Come?!... E tutti gli altri guerrieri?”

“Quelli restano nelle loro posizioni. Ci sono stati altri avvistamenti della nave nemica. Sta pattugliando ormai il golfo, l’attacco sembra imminente.”

“Che tutti gli dèi infernali si trascinino quei maledetti kelith negli abissi!...”

“Anche se sei un peccatore, riveli il cuore di un vero sayanni...”

“Che c’entra il cuore? Per colpa di quei bastardi un colpo liscio come l’olio si è trasformato in quest’incubo; e adesso scopro che non avrò uno stuolo di testimoni del mio coraggio davanti alla morte!... Conta di più quella bagnarola di pellebianca della mia esecuzione?!”

“Figliolo, la vanità è un peccato...”

“Se vuoi sentire dei peccati, e di quelli da non dormirci la notte, va’ a confessare il tuo comandante. E adesso, per l’amor del cielo, levati di mezzo e lasciami in pace, apportatore di cattive notizie!”

Il t’yr se ne andò, e Ran sospirò.

Contemplò tutti i suoi effetti personali, gettati in un mucchio in una grande cesta: l’avevano spogliato completamente, perché secondo la legge tutto quel che aveva era di proprietà delle Divinità e sarebbe stato ridistribuito; gli dispiaceva per la sua lancia, che sarebbe finita in mano a chissà chi, e per le sue piume, che erano comunque dei cari ricordi. Gli avevano anche sciolto le trecce per indicare che non doveva più considerarsi un guerriero; per i tatuaggi... ci avrebbe pensato il Martello. 

Sarò cancellato, come se non fossi mai esistito. E non avrò nemmeno un funerale.

L’unica soddisfazione era che tutti avrebbero visto che andava alla morte da vergine.

Almeno quello!

Sentì il suono della campana. E le viscere gli si contorsero nel ventre. 

Coraggio, è solo un istante... fa più male strapparsi un dente. 

La porta della capanna si aprì, e le guardie entrarono. Si fermarono davanti a lui, l’ultimo gesto di rispetto che gli avrebbero concesso.

“Andiamo,” disse il luogotenente. 

Ran inspirò profondamente, e trovò la forza di alzarsi in piedi da solo. Si guardò intorno, pallido in viso, quasi per salutare quel riparo provvisorio, e la sua vita. Poi emise un sospiro, e ordinò alle sue gambe di muoversi.

Che vedano che non sono un vigliacco.

La notte era umida, il cielo coperto da nubi. Il mare, più tranquillo, sciabordava con un ritmo meno ossessivo. Ran sentì freddo, una sensazione inconsueta per lui che da uomo delle montagne non lo temeva, e si rese conto che la sua baldanza lo stava abbandonando... la ritrovò imprecando perché era costretto a camminare scalzo sulla spiaggia sassosa: provò quasi sollievo, a pronunciare oscenità. 

Il t’yr aveva le braccia alzate e cantava la solita monodia sacra, con una vocetta tremula che si fondeva col rumore delle onde. I guerrieri erano accovacciati intorno a un masso piatto, circondato da torce; accanto ad esso un sayanni nerboruto era appoggiato al Grande Martello: una mazza micidiale che solo braccia muscolose potevano manovrare con precisione. Il boia portava un grembiule di cuoio per proteggersi dagli schizzi, e gli spettatori si erano disposti in cerchio a più che rispettosa distanza per non farsi contaminare: certi colpi ben dati erano capaci di mandare parti di cervello anche a più di dieci passi. 

Ran guardò quella scena con una smorfia.

Che razza di squallido patibolo, per un aspirante Khanshir! Almeno Fahxen è stato decapitato nella Città Sacra, io... io finirò schiacciato come un granchio sotto la ruota di un carro.

Il comandante era l’unica persona che attendeva all’interno di quel cerchio di vuoto. Gettò un’occhiata alla figura nuda e orgogliosa di Ran, e un’espressione di disappunto le salì sul volto.

“Per gli dèi, che dannato spreco,” mormorò, a voce ben udibile.

Chi la udì pensò che si riferisse all’abilità guerriera del condannato, ma Ran capì perfettamente che la donna si riferiva ad altro. E la guardò con alterigia. 

Non ho commesso crimini abbastanza gravi per meritarmi il supplizio di stare tra le tue braccia, disonorata!

Lei sembrò capì perfettamente il pensiero, perché fece una smorfia. Poi estrasse dalla cintura un rotolo di pergamena e lo aprì, ma solo come gesto formale, perché non lo lesse.

“Quest’uomo è Ran, figlio di Raiki, del clan Kurya, di casta guerriera: colpevole di diserzione... e furto, a quanto dichiarato da lui stesso. Essendo già condannato a morte non si terrà conto dell’aggravante. Kamoh e Lilia abbiano pietà di lui.”  Richiuse il rotolo. “Giustiziatelo.”

Le guardie spinsero avanti il condannato, conducendolo davanti al masso. Lo fecero inginocchiare e lo legarono, con le mani dietro alla schiena e in modo che non potesse più rialzarsi: il terrore poteva giocare brutti scherzi, anche al guerriero più coraggioso. Ran non si oppose, fissò il vuoto davanti a sé, grigio in volto, con respiro corto. 

Ci siamo. Addio, amici miei. Addio, maghi neri. Addio, mio pazzo amico kelith. Addio... Figlia della Cometa.

Il boia lo afferrò per i lunghi capelli, per disporgli la testa sul masso...

All’improvviso si udì un grido d’allarme. Dalla scogliera una specie di serpente di fuoco sembrò strisciare verso la spiaggia, tracciando una linea sinuosa e lucente nell’oscurità appiccicosa. 

“Cos’è?!” chiese il comandante, aggrottando le sopracciglia.

La linea di fuoco arrivò a destinazione: un sibilo acuto, e di colpo divampò in un falò luminosissimo. 

“Quello non è un fuoco normale!” esclamò il luogotenente, avvicinandosi di corsa al comandante.

“No,” mormorò lei. “È come i nostri fuochi di segnalazione, con della polvere bianca dentro. Qualcuno deve aver preso il materiale dal faro della stazione di posta... ma perché accenderlo sulla spiaggia?”

Il luogotenente si voltò verso il mare. 

La guerriera spalancò gli occhi. “Ma certo. Se c’è una nave nei paraggi lo vedrà!”

“Che facciamo, comandante?”

Lei esitò. “Spegnetelo. E fa’ segnalare alle altre truppe di convergere qui...” 

Un altro allarme. Un’altra luce. 

“Il quartier generale!” gridò uno dei guerrieri. “Il tetto... brucia!”

I sayanni si voltarono in tutte le direzioni, sconcertati.

“Svelti, correte a spegnerlo!” gridò il luogotenente. Poi si voltò verso il comandante. “Cosa sta succedendo? Siamo sotto attacco?!”

“Evidentemente sì,” ruggì lei. “Ma da parte di chi?”

“Amici del condannato?”

Lei gettò un’occhiata a Ran, in ginocchio davanti al masso, e lo vide guardare quei fuochi col suo stesso stupore. 

“Un miserabile disertore non ha complici... e quelli di un bandito non sono certo all’altezza di sfidare un gruppo di guerrieri in assetto da battaglia!”

Le giunsero altre grida: un’altra luce era apparsa, stavolta dal contrafforte della fortezza. 

“Eccolo!... È lassù!”

Una figura umana teneva alta una torcia fiammeggiante. 

“Chi è quel traditore?” ringhiò il comandante. 

La figura abbassò la torcia verso la pietra: con un sibilo e una vampata, un mucchio di sterpi e di olio denso prese fuoco, spargendo una luce intensissima e illuminandolo in pieno.

Era un uomo dalla pelle chiara, vestito con una tunica su pantaloni e bassi stivali, alla maniera dei kelith; era a testa scoperta, con una sciarpa scura svolazzante alle sue spalle, e il vento agitava i suoi capelli che sembravano fatti di luce essi stessi...

Ran sbarrò gli occhi. 

Deyan-shir?!

Non faceva nulla per celarsi, anzi, sembrava che volesse essere visto. Gettò la torcia nel fuoco, raccolse da terra una balestra e si erse sul contrafforte come una statua, quasi sfidando i sayanni sulla spiaggia.

I guerrieri rumoreggiavano, attoniti a quell’incredibile apparizione. 

“No, non è possibile!” esclamò il luogotenente. “Non può essere un albino! Non si vedono da decadi e decadi sul nostro sacro suolo...” Si voltò verso uno dei suoi uomini che si era avvicinato. “Da’ l’allarme generale, svelto! Fa’ suonare la campana!”

“Albino o no, quello è sicuramente un kelith: forse vuol dire che i suoi sono già sbarcati, o che lui fa parte dell’avanguardia, e ha acceso quei fuochi per indicare ai suoi dove attaccare!”

“Ma com’è possibile?! Le nostre vedette non hanno segnalato...”

“In qualche modo quello straniero dev’esser pur arrivato qui!”

Una dei guerrieri giunse di corsa dal quartier generale, dove alcuni cercavano di spegnere l’incendio: un denso fumo saliva nell’aria. 

“Perché non avete suonato ancora la campana?!” la aggredì il comandante. 

“Perché... non c’è più! Qualcuno l’ha portata via!...”

La donna alzò la testa al contrafforte della fortezza. Il kelith bianco era ancora lì, accanto al falò. Ma era evidente che non era da solo. 

“Guerrieri, raggruppatevi!” ordinò, estraendo dal fodero la spada. Si voltò verso Ran. “Tu continua a pregare, disertore... la tua morte è solo rimandata. Prega che i kelith ti facciano compagnia nell’aldilà, o finirai tra le loro mani, e rimpiangerai questo Martello!”

“Lascia che mi difenda, allora!” gridò Ran. “Sono un sayanni!”

Lei esitò, ma poi scosse la testa. “Scapperesti, come sei scappato ad Arendia.” 

“Dove vuoi che scappi?!” tuonò lui. “Sono circondato dai tuoi uomini!”

“Non mi fido!... Resta in ginocchio e pensa ai tuoi peccati!”

“Ne ho meno di te, cagna disonorata!...” 

Lei lo ignorò e si voltò verso i suoi guerrieri. “Formazione aperta! Cinque là, cinque laggiù, cinque qua con me, gli altri alla fortezza! Voglio quel kelith... vivo!”

Ran guardò verso la fortezza, con l’emozione che gli bruciava nel petto.

Pazzo d’un testabianca. E io che ho pensato che mi avresti abbandonato... solo perché era la cosa più giusta da fare! Potevi tornartene su Luna di Fuoco a goderti il bottino, invece eccoti là a rischiare la vita per cercare di salvarmi... 

Uno dei guerrieri nell’ultima fila si voltò brevemente verso Ran, e gli fece un cenno con la mano.

Il codice dei ladri?!

L’uomo imbracciò una lancia: Ran la riconobbe, era la sua. Poi si tolse il cappuccio. 

Era Nemel. 

 

 

 

 

 

Dalla sua postazione Jenna regolava le lenti del suo cannocchiale rivestito d’oro, osservando quei punti di luce che squarciavano le tenebre della spiaggia. Vide le figure dei barbari che si agitavano, mentre cercavano di spegnere i fuochi che avevano rivelato la loro presenza. Uno dei fuochi, il più alto, ardeva ancora, saturo di polvere chimica: emanava un bagliore bianco dalle sfumature azzurrastre, e il suo autore restava nella sfera di luce, spavaldamente, sovrastando gli azzurri insetti che si slanciavano verso di lui. 

Un ampio sorriso si distese sotto ai suoi baffi.

“Procedete, svelti,” ordinò al capitano. “Le prede sono tutte allo scoperto.”

 

 

 

 

 

Deyan studiò la situazione, sospeso in quello stato di silenzio interiore che aveva appreso nel tempio della Misteriosa. Non aveva potuto pensare a un piano in grande scala, non ne aveva avuto il tempo: Nemel era riuscito a informarlo dell’esecuzione imminente. Si era concentrato in silenzio per svariate clessidre di tempo, mentre i suoi uomini discutevano sommessamente e scuotevano la testa, incerti su cosa fare. 

Poi finalmente aveva dato gli ordini. 

Aveva considerato la vita di Ran come un altro tesoro da rubare, alla stregua di quello che aveva già fatto portare su Luna di Fuoco; e aveva deciso di portarselo via a tutti i costi. Quella decisione aveva sorpreso i nuovi sayanni del gruppo, che non se l’aspettavano; e li aveva anche fatti vergognare, perché al suo posto l’avrebbero abbandonato al suo destino, sia pur a malincuore: come pensare di sottrarre un prigioniero dalla guardia di un intero manipolo in assetto di guerra? 

Ma Deyan non si era lasciato scoraggiare. Un’azione frontale era da escludersi, sarebbe finita in un disastro: era meglio creare un diversivo. La minaccia della nave kelith, che tanto aveva contribuito a intralciare il loro piano, poteva venir comoda; e il fuoco era uno dei cinque elementi che i maestri di strategia gli avevano insegnato ad usare.

Aveva saputo dai suoi uomini che accanto alle stazioni di posta i sayanni custodivano sempre il necessario per le segnalazioni luminose: legna, olio pesante, pece, polveri chimiche. Aveva ordinato agli uomini di rubare tutto il possibile a questo scopo, e di intralciare tutte le altre modalità di allarme, per non far convergere gli altri guerrieri sul posto; i banditi avevano annuito alle sue istruzioni, e l’avevano anche guardato con ulteriore rispetto... perché per sé aveva tenuto il ruolo più pericoloso.

L’esca.

Deyan aveva infatti deciso di giocare la carta della propria apparizione, sicuro dell’effetto dirompente che avrebbe avuto sui sayanni. Ormai da secoli nessuno del Popolo Azzurro poteva vantarsi di aver ucciso un albino: al sicuro in Kelitha, dietro ai propri imprendibili palazzi e difesi da uno stuolo di soldati, i nobili erano virtualmente imprendibili. Che lui fosse in realtà uno schiavo era un dettaglio trascurabile di fronte alla differenza razziale; e in ogni caso i sayanni non l’avrebbero saputo... finché non avessero visto il marchio che aveva sulla faccia. 

Ma per il momento, quel che vedevano sul contrafforte era solo lo spirito di Kelitha impersonificato. 

Venite a prendermi. Io valgo molto di più di un disertore!

Un ultimo sguardo alla posizione dei nemici, e poi voltò le spalle alla scena e si allontanò dal fuoco, correndo sul sentiero della roccaforte. Si avvicinò alla porta metallica dei sotterranei, vedendo i predoni che la presidiavano: uno stava cercando di richiuderla.

“No, Manai,” gli disse. “Tienila aperta, con una torcia accesa gettata per terra. Qualcuno la vedrà e penserà che io sia stato tanto stupido da nascondermi là dentro. Voi appostatevi nelle tenebre, e se i guerrieri entreranno per controllare... chiudeteli dentro; saranno dei nemici di meno.”

I predoni annuirono, con un sogghigno. “Sì, Deyan-shir!”

Il kelith li lasciò e scivolò tra le rocce, saltando dall’una all’altra con tutta l’agilità che quella gravità gli consentiva. Quasi a livello della spiaggia, cavò dalla borsa alla cintura il suo acciarino e accese la punta del dardo della sua balestra, avvolta in una striscia di stoffa intrisa di olio denso. Quindi puntò l’arma al cielo e fece scattare la corda: il segnale infuocato salì nell’aria.

Chat, tocca a te.

Altre sei torce si accesero in vari punti della spiaggia e cominciarono a zigzagare nelle tenebre. 

Gli giunsero le grida dei guerrieri sayanni, in preda alla confusione. Caricò un altro dardo nella balestra, osservando la scena sulla spiaggia: Ran in ginocchio, il carnefice, la donna in armi che gesticolava gridando ordini per i suoi. Doveva affrettarsi. 

Prima che arrivino gli altri guerrieri, prima che uccidano Ran, prima che sorga il sole giallo. 

Tanti imperativi e pochi mezzi... e tempi che dovevano incastrarsi perfettamente. Deyan inspirò profondamente quell’aria umida e pesante, rivedendo nella mente il sorriso senza tempo della sua dea. 

Sono nelle tue mani, Madre Misericordiosa.

Si gettò la sciarpa nera sul capo, per coprire capelli e volto, e cominciò a strisciare tra le ombre. 

 

 

 

 

 

 

Il comandante osservò la lotta dei suoi i guerrieri contro il fuoco sulla spiaggia. Non era facile contro i combustibili che venivano usati in quei fuochi, e che erano fatti per bruciare anche sotto la pioggia: ci sarebbe voluta della sabbia, ma lì intorno c’erano solo pietre. I guerrieri comunque cercavano di soffocare le fiamme sotto i mantelli intrisi d’acqua, e di disperdere le parti oleose che le alimentavano. Altri inseguivano quelle torce che zigzagavano verso la scogliera, sperando che fossero portate da altri kelith, o da quel kelith particolare.

Un albino. Uno dei loro maledetti nobili! 

La donna strinse l’elsa della spada, con un brivido di eccitazione. Sperava davvero di prenderlo vivo. Non ne aveva mai visto uno in vita sua - e ne era sempre stata felice, sapendo che vederli spesso significava averli come spettatori alla propria morte. Ma stavolta sarebbe stato diverso: sarebbe stato lui in suo potere. E sperava di avere l’opportunità di trascorrere almeno una clessidra sola con lui: aveva diverse curiosità da soddisfare...

Sarà vero che sono meno dotati dei sayanni, ma infinitamente più bravi nelle arti peccaminose? E che i piaceri che sono in grado di dare superano di gran lunga l’immaginazione di qualsiasi femmina azzurra? 

Quando avesse finito con lui, l’avrebbe consegnato con gran pompa alle Divinità stesse, offrendo loro il trofeo più ambito dall’intera comunità sayanni: non immaginava neanche la promozione che avrebbe conquistato, nonostante il suo disonore. In quanto all’albino, avrebbe probabilmente avuto il destino dei suoi simili che ormai era risaputo solo dalle iscrizioni sulle antiche steli: storie di vendette atroci, prolungate per interi cicli di soli, che si concludevano con lo scuoiamento da parte dei Guerrieri della Cometa. Le pelli di quei rarissimi prigionieri erano conciate e portate in giro per il paese, affinché tutti le ammirassero e le toccassero, e leggessero i nomi dei catturatori incisi sopra...

Le mancava quasi il fiato, alla prospettiva. 

Io, la catturatrice di un demone bianco!

Le giunsero grida, un tonfo metallico, rumori di lotta dalla fortezza. Il fuoco illuminava figure armate: quanti erano i nemici? Dove avevano attraccato? E dove avevano nascosto le loro scialuppe? Avevano voluto approfittare della distrazione di quell’esecuzione? 

Ma come hanno fatto a sapere che ci sarebbe stata? 

Corrugò le sopracciglia. C’era qualcosa che non quadrava in quella situazione... 

“Semplifichiamo le cose,” mormorò, e si rivolse al carnefice. “Tu! Schiaccia la testa a questo disertore e falla finita: non ho più tempo da perdere con lui.”

Ran trasalì, la guardò inorridito. 

“Che cosa?!...”

“Agli ordini,” sospirò il carnefice, e afferrò di nuovo Ran per i capelli. “Giù la testa...” 

Il predone resistette. “No! Aspetta!... Così è un omicidio, non un’esecuzione!”

Il boia lasciò la mazza e raccolse da terra un robusto bastone. 

“Lo sai che non è onorevole per un guerriero, ma non mi lasci scelta.”

Se il condannato opponeva resistenza, lo si stordiva con un colpo alla testa, che a volte era fatale. Ad ogni modo poi sarebbe stato disposto col capo sulla pietra, per ricevere il colpo di grazia dal Grande Martello. Era una fine talmente miserevole che tutto lo spirito di Ran insorse: i suoi muscoli possenti si contrassero contro le corde, ma vanamente. 

“No!” gridò. “Non accetto questa vergogna!...”

“Sbrigati ad ammazzarlo!” ordinò il comandante.

Il boia alzò il bastone...

Uno schiocco secco, un sibilo. Il rumore di un impatto, come un sasso che colpisse un pezzo di legno. 

“Che è stato?!” esclamò il comandante. 

Il carnefice piombò a terra, a faccia in su. Qualcosa gli si era conficcato in un occhio, uccidendolo istantaneamente.

“Dèi del profondo,” ansimò Ran, ad occhi sbarrati.

Un dardo di balestra...

“Là!” gridò uno dei guerrieri, indicando un’ombra che si proiettava a malapena contro la luce dei fuochi. “È il kelith!”

“È uscito allo scoperto!” tuonò il comandante. “Circondiamolo!” Si voltò verso il suo uomo. “Tu! Rimani accanto al prigioniero, e se fa un solo movimento, uccidilo!”

“Sarà fatto!” esclamò Nemel, battendosi marzialmente il pugno sul petto. 

 

 

 

 

 

Deyan vide i guerrieri sayanni slanciarsi verso di lui. Infilò un altro dardo nella balestra facendo scattare il meccanismo per caricarla. Poi, senza più curarsi d’altro, si mise a correre lungo la spiaggia.

Ormai il piano è compromesso. Non dovevano vedermi così presto, ma non potevo lasciare che uccidessero Ran... se arrivo là dove ci sono quelle rocce, ho ancora qualche possibilità: potrei trovare un posto nascosto per richiamare il Vortice, come staranno facendo gli altri.

Ma sentì delle grida. Altri guerrieri sayanni scendevano dalla scogliera, lungo un sentiero che lui non aveva considerato: vedeva le loro torce muoversi con troppa rapidità, convergendo verso di lui. Non erano molti, ma sapeva che erano più che sufficienti.

Tra poco gli avrebbero sbarrato quella via, e tutte le altre, lasciandogli soltanto il mare nero.

Se solo fossi un buon nuotatore... come nessun Shanì è mai stato.

Assurdamente, in quel momento, uno dei ricordi di Naysiak si proiettò nella sua mente.

Respiro gioioso, piedi azzurri che corrono su una spiaggia di fine sabbia bianca, un tuffo tra infinite bolle di freschezza; dopo un momento di frastuono, il silenzio sibilante sott’acqua, con il fondo costellato di conchiglie. L’uscita da quel magico mondo, con un grosso respiro, e lo sguardo alla spiaggia, dove tanta gente vestita a festa osserva la scena esterrefatta, il Guerriero della Cometa che lascia le cerimonie per abbracciare il suo mare...

Ebbe dentro di sé un istante di gratitudine. Quel ricordo era stato come una piccola perla di felicità... come l’ultimo bagliore dell’ultimo dei due soli, prima che svanisse oltre l’orizzonte.

Trattala bene, Ran. Ti ho dato l’opportunità perfetta per tornare da lei, sfruttala. Dille che il mio ultimo ordine è che ti renda felice.

Si fermò di scatto, ansimando nell’aria pesante. Imbracciò saldamente la balestra.

Devo trovare il modo di rallentare gli inseguitori.

Avvicinò l’occhio al mirino, cercando la figura del comandante: anche senza la droga per dilatare le pupille, gli albini erano comunque favoriti nella visione notturna. La donna era un ufficiale ed era ben riconoscibile dalla sua armatura: Deyan inspirò profondamente, sospese il respiro... e premette la leva di sblocco.

Sentì un grido acuto e la figura inciampò e cadde. I guerrieri esitarono, ma lei con un urlo ordinò loro di non fermarsi. Evidentemente era stata ferita, ma non gravemente. 

Deyan lasciò cadere la balestra. Adesso non aveva più scelta.

Il mare: al limite morirò là dentro, ma sarà sempre meglio che finire nelle mani dei sayanni.

Si voltò verso di esso, cominciando a correre in quella direzione... e i suoi occhi videro degli strani luccichii. 

Cosa sono quelle forme che intravedo?!

All’improvviso si udirono tre fischi acuti, a cui rispose un coro di fischi prolungati. Tutti coloro che si trovavano sulla spiaggia guardarono in quella direzione, urlando, e Deyan si arrestò là dove le acque lambivano i suoi stivali.

Scialuppe nere apparse dal nulla avanzavano rapidissime, cariche di soldati ben inquadrati, e molte luci si accesero all’improvviso, riflettendosi sulla superficie del mare.

Erano le luci di una possente nave kelith, che gettava l’ancora ai limiti del pescaggio.

 

 

 

 

 

 

Naysiak chiuse gli occhi. Nella sua mente si era proiettata l’immagine di una sciarpa di garza bianca, che volava nel vento che se l’era portata via. Come un petalo, o un languido fantasma, danzava contro un cielo di colori smaltati, su un orizzonte così geometrico da sembrare l’opera di un immane architetto...

“Seriema,” mormorò. 

Posò la ciotola: non aveva più fame. Non riusciva a superare il nodo che aveva nello stomaco. 

Che ti sta succedendo, Liberatore? Perché ho sentito il tuo spirito? 

Nella shanda le altre schiave finivano i loro pasti: Ibal sorvegliava arcignamente cibi, quantità e orari, e non permetteva loro di smangiucchiare tutto il giorno, in preda alla noia. Non che ne soffrissero: le loro menti immature erano adattate a una vita fatta di una pigra, perenne attesa, con poche attività; quando non si facevano belle, si esercitavano con un poco di musica e di danza, oppure facevano qualche semplice gioco infantile. Non sapevano leggere né scrivere (a differenza della barbara), non erano istruite in altro che nelle arti innominabili, e le loro chiacchiere sembravano sciocche e vane alle orecchie di Naysiak. 

Non si rendono conto che il loro signore potrebbe non tornare più?

Ma per loro il padrone era semplicemente qualcosa che esisteva a prescindere, e le sue attività fuori dalla shanda un mistero in cui non erano tenute a entrare. Si preoccupavano solo dei loro bisticci quotidiani, dei dolcetti che Ibal procurava, e del vestito che avrebbero messo. E naturalmente parlavano di lui, del suo corpo virile, dei suoi gusti erotici, dei giochi che preferiva, confrontandoli con quelli di un altro uomo, discorsi che le infiammavano e offendevano il senso di pudore di Naysiak.

Animali lussuriosi! Senza alcuna decenza, senza vergogna, indifferenti a chi servono, tutte piene di bassi appetiti, non interessa loro chi sia a soddisfarli...

Quella notte si era svegliata scoprendo che la piccola Tre le si era infilata sotto la pelliccia, sulla sua stuoia. Aveva pensato che la ragazza fosse spaventata o triste, e l’aveva abbracciata. Invece la fanciulla le aveva accarezzato il corpo tonico, le braccia forti; e poi le aveva preso una mano e se l’era portata dove ogni brava sayanni aveva la sua Membrana, solo che lei non l’aveva, e Naysiak aveva toccato la cosa più oscena che potesse concepire... 

Si era messa a gridare, scandalizzata, e avrebbe spezzato il collo di quella disgraziata se Ibal non si fosse svegliato, scoprendo cos’era successo. Anche lui si era infuriato; Naysiak aveva pensato che avrebbe punito la ragazza per aver tentato un atto innominabile con un’altra femmina, e invece l’aveva rimproverata perché un’albina non doveva sporcarsi con una barbara, col rischio poi di contaminare anche il letto del padrone. E poi aveva chiamato tutte le altre schiave, per ribadire che la sayanni, nonostante i suoi muscoli, non andava usata come giocattolo erotico. Poi tutte erano state rimandate a letto. 

Lasciando una sconvolta ed umiliata Naysiak a meditare sugli abissi della depravazione kelith. 

Kamoh, Lilia, salvatemi! Non è questo il mio posto! 

E anche in quel momento, lei pensò la stessa cosa. Non era quello il suo posto. Avrebbe dovuto essere lontano... su un altro mondo, a compiere il suo dovere e proteggere il suo signore. 

E invece era lì, assieme alle altre schiave, ad aspettare. Ma a differenza di loro, sapeva cosa stava succedendo: e il pericolo per il suo Liberatore era come un veleno che le scorresse nell’anima.

 

 

 

 

 

 

Dopo i sayanni, i kelith... e meno male che Zakkara doveva essere un luogo desolato!

Ran aveva sempre disprezzato le doti marziali dei pellebianca, considerandoli sotto questo aspetto (e molti altri) una razza inferiore. Ma su quella spiaggia aveva visto all’opera i kelith quando erano irregimentati. Nessuno dei loro soldati naturalmente valeva un sayanni in quanto a forza e coraggio; ma in gruppo, disciplinati e crudelmente armati, risultavano micidiali.

I diversivi di Deyan avevano indirettamente aiutato i suoi conterranei: i soldati avevano trovato i sayanni dispersi e distratti, e li avevano attaccati con facilità, bersagliandoli con una pioggia di proiettili. Nemel era stato ferito a una gamba, e mentre Ran era chino su di lui una rete di maglie metalliche era stata lanciata contro di loro, intrappolandoli entrambi. Altre truppe kelith avevano ingaggiato una breve, feroce battaglia contro i guerrieri sulla spiaggia, vincendola. La donna ufficiale, ferita, era stata catturata; il suo luogotenente ucciso con le lunghe picche. 

Anche Deyan era stato catturato: i soldati l’avevano circondato, con le armi spianate. Avevano notato che non era un sayanni, e solo per questo motivo non l’avevano ucciso sul posto; ma gli avevano abbassato il velo sul viso, notando nella scarsa luce il suo marchio di schiavo, e l’avevano frettolosamente legato con le mani dietro alla schiena, spingendolo senza tanti complimenti verso lo spiazzo davanti alla roccaforte dove le truppe si stavano riunendo in tutta fretta. 

Il luogo era stato circondato da numerose torce, piantate tra i sassi. I soldati si stavano schierando in file, agli ordini dei loro superiori. Alcuni cadaveri kelith erano stati distesi con rispetto, mentre le teste mozzate dei caduti sayanni erano disposte in ordine, in modo da attribuire i vari premi ai loro uccisori. Deyan ci passò accanto, e non ne riconobbe nessuna: lasciò andare un lieve sospiro di sollievo. 

I predoni hanno fatto in tempo a mettersi in salvo. 

Lo portarono verso il gruppo di prigionieri, e sentì una lama fredda nelle viscere. 

Ran!

Era là, riconoscibile tra tutti gli altri per la sua nudità, solidamente incatenato. E accanto a lui, seduto a terra, c’era Nemel. Con loro c’erano altri guerrieri disperati, che fissavano il vuoto con facce pietrificate. La donna ufficiale era stata imbavagliata, per soffocare le sue urla piene di rabbia; tacque di colpo, quando vide i soldati che spingevano il misterioso kelith con le mani legate. Quindi si rimise a mugolare, con occhi sbarrati: ma nessuno le fece caso.

Deyan fu gettato in malo modo tra i prigionieri, che si ritrassero con ribrezzo da lui. Ran trasalì e fece per lanciare un’esclamazione... ma un’occhiata perentoria dell’amico lo ammonì a tacere. 

Dovevi approfittare dell’opportunità che ti avevo dato per fuggire. 

Il sayanni inarcò le sopracciglia, come se avesse intuito quel pensiero. Guardò Nemel, come per spiegare perché non l’avesse fatto; e le sue mani incatenate si mossero nel codice di segni dei ladri.

Anche tu.

Deyan distolse lo sguardo, con un lieve sorriso. 

Forse era inevitabile, che condividessimo lo stesso destino. 

Non ebbe il tempo di domandarsi quale. Sì udirono i fischi modulati con cui gli ufficiali in mare davano gli ordini: i kelith sulla spiaggia si agitarono quasi freneticamente. Dal mare stava giungendo una scialuppa lussuosa, illuminata da lampade dorate e coperta in parte da un ricco baldacchino. 

Un po’ troppo, per un semplice commodoro. 

Le truppe si schierarono sull’attenti, e molte altre torce si accesero. L’imbarcazione si arenò con un movimento dolce dei remi e gli uomini accorsero a disporre una sorta di pontile provvisorio, affinché l’esimio personaggio sotto il baldacchino potesse scendere senza bagnarsi i piedi. Un elegante albino biancovestito si alzò dal seggio imbottito, e con movimenti precisi sbarcò; tutti i soldati si chinarono a posare un ginocchio a terra, in un frastuono di armi.

Il nobile fece qualche passo con espressione stupita, come se fosse la prima volta che sperimentasse la variazione del proprio peso. Schioccò le dita chiamando un ufficiale.

“Non perdiamo tempo, prima o poi altri barbari arriveranno qua. Dove sono i prigionieri?”

“Laggiù, signore.”

Una smorfia di riprovazione. “Ero stato chiaro, con i miei ordini. Qualcuno se n’è dimenticato: individuate i responsabili e gettateli da quella scogliera.” Un brivido passò tra le truppe. “In quanto a quel kelith che avete sciaguratamente messo in mezzo ai barbari, slegatelo e conducetelo qui con tutta la cortesia di cui siete capaci.”

Le guardie si affrettarono ad obbedire, in un silenzio sconcertato.

Deyan fu sciolto e accompagnato davanti alla bianca figura. Il nobile lo guardò con un sorriso etereo sulle labbra, e fece un inchino impeccabile secondo l’etichetta.

“Ti prego di perdonare questo sacrilegio sulla tua nobile persona, ma i miei uomini non sapevano chi tu fossi... principe Shana-iban Unari Deyan-shir.”

Un mormorio si levò da tutti i presenti. 

Deyan emise un sospiro rassegnato, e si tolse dal capo la sciarpa, lasciando libera la sua candida capigliatura. 

“Mi era stato detto che non avrei mai più sentito quel nome per intero,” mormorò.

“Da tuo padre lo udisti per l’ultima volta, quel giorno fatidico. Io ero presente.”

“Chi sei, nobiluomo?”

“Auni-iban Uran Jenna-shir, margravio di Eri, della casata del nobile Khandar-shir.

“L’ambasciatore,” annuì Deyan. “Mi ricordo di te.”

Un sorriso enigmatico. “E io non potrei mai dimenticarmi di te, principe.”

I due albini si fissarono, come se intorno a loro non esistesse nessun altro.

“Sono lieto di rivederti in così buona salute, principe,” disse Jenna. “Il tuo nobile aspetto non è andato perduto. Anzi, direi che quel segno sul tuo volto, così unico tra la nostra gente, aumenta il tuo fascino... ciò che rovina la perfezione può anche esaltarla: la simmetria spesso conduce i sensi alla noia, come sanno i più raffinati tra gli architetti; non trovi?”

Deyan non si lasciò distrarre da quella frivolezza. 

“Dimmi, Jenna-shir: è forse un nuovo divertimento della casa reale di Deera, varcare gli oceani per trafficare in schiavi?”

Un’occhiata maliziosa. “Fossero tutti schiavi come te... ne varrebbe la pena.”

Deyan controllò le emozioni, mantenendosi immobile. 

Logico. Il bottino di questa razzia non ripagherebbe neanche un quarto di tutti questi uomini. Non c’è alcuna casualità nella presenza di un alto dignitario, qui. Sono io, il vero scopo del suo viaggio.

E questo poteva voler dire una sola cosa... 

L’Augusto Consorzio mi tiene ancora gli occhi addosso.

“Come hai saputo che ero a Zakkara?”

“Da chi lo sapeva, naturalmente.” 

“E non mi rivelerai chi mi ha tradito.” 

Un lieve sorriso. “Suvvia, principe: ho cose molto più interessanti da discutere con te. Vuoi salire a bordo della mia nave?”

Deyan sentì un brivido gelido nella schiena. “No.”

“Peccato.” Jenna alzò le spalle e schioccò le dita. “Vorrà dire che parleremo qui.”

Dei servi si precipitarono con un ricchissimo tappeto, che disposero sulla spiaggia: altri accorsero con vassoi dorati e cuscini di seta.

“Mio signore,” fece uno dei marinai. “La marea...”

Jenna ebbe un’espressione seccata e fece un gesto con la mano. Immediatamente un armigero affondò la picca nel petto di quell’uomo, impalandolo al suolo. 

“Detesto le obiezioni degli esseri inferiori,” sibilò il nobile. “I membri della Razza Sovrana non vanno mai disturbati. La mia guardia lo sa, ma certa marmaglia se ne dimentica... una lezione ogni tanto è utile per ricordarglielo.” Si accomodò sui cuscini, in quell’improvvisato salotto sulla spiaggia, e fece gesto a Deyan di fare altrettanto. “Vieni, principe: siediti e parliamo insieme, come si addice a membri della nobiltà più pura di questo mondo.”

Lui studiò la situazione: era critica, e quell’esibizione di ferocia dietro le maniere felpate di Jenna indicava la sua pericolosità. Le sue guardie si mantenevano a rispettosa distanza, ma Deyan non si faceva illusioni: al di là delle apparenze d’onore, era ancora un prigioniero. 

Doveva stare al gioco. 

Salì sul tappeto e si sedette sui cuscini, con movimenti calmi e controllati. Jenna lo studiò alla luce delle torce, e fece un lieve sorriso di ammirazione.

“Cosa faresti, Deyan-shir, se ti offrissi la possibilità di tornare a Kelitha... da uomo libero?”

“Io non sarò mai un uomo libero su Kelitha.”

“Per via di quel marchio? Si può celare.”

“No, e anche se potessi... questo comunque non farebbe di me un uomo libero. Per quale motivo un principato offrirebbe asilo a uno come me? Rischierebbe la guerra con Shana... mi domando quale contropartita mi chiederebbe in cambio.”

“Il principe Gamosh sembra aver certe mire espansionistiche...”

“Vuole Deera? Avete degli alleati a proteggervi. O avete bisogno di uno schiavo il cui nome è stato cancellato?”

“Il tuo nome persiste, Deyan-shir. Ed è un nome che ha grande valore.”

“Il valore è un concetto relativo.”

“È il motivo per cui sono giunto fino a questa terra di barbari,” annuì Jenna. “Riprovando lo spirito d’avventura dei nostri avi, per impossessarmi di ricchezza.” Diede un’occhiata sprezzante ai prigionieri. “No, non quella robaccia. Ma per esempio... quel sayanni nudo.” E indicò Ran. “Mi sembra di riconoscerlo... questi animali si somigliano tutti. Non è il predone che prima ti ha catturato, e poi ti ha comprato?”

Ran strinse i denti. In altri tempi avrebbe risposto a tono, e impulsivamente. Ma tacque, rendendosi conto che in quella situazione tutto dipendeva da Deyan...

“Che vorresti fare di quell’uomo?”

“Ahhh... vedo che ti interessa il suo destino. Quindi, come dici tu, ha un valore relativo. Potrei offrirtelo, come dono in cambio della tua... collaborazione.” Sorrise. “Dimmi, principe, quanto varrebbe per te il piacere di vedere l’uomo che ha osato essere il tuo padrone, sotto tortura? Potresti sfogare su di lui tutte le tue fantasie. E prenderti la tua vendetta: scommetto che sarebbe memorabile...”

“Le mie vendette riguardano soltanto me.”

Jenna inclinò appena il capo. “Come vuoi, Deyan-shir. Ho sempre ammirato la tua eccezionale temperanza. Quel sayanni comunque vale molto, per Shana: se non lo vuoi tu, Gamosh potrebbe comprarcelo a peso d’oro... per darlo all’uomo che ti sta impersonando.”

“Che assurdità è questa?” mormorò Deyan, impallidendo.

“Ah, non lo sapevi? Tuo fratello ha organizzato questa messinscena interessante. Il leale Gamosh che vendica il povero ex erede vittima della crudeltà paterna... un albino mascherato e nerovestito, come un adepto di El, che ha la libertà di muoversi dalla città alla reggia.”

“Chi è in realtà?” 

“Lo ignoro. Per il momento. Forse, con l’omaggio di quel barbaro, Gamosh lascerà cadere qualche velo.” Gli occhi di Jenna si strinsero. “E sarebbe tutto quel che avrebbe da me, Deyan-shir. Non intenderei mai venderti a lui, non sprecherei la tua perfezione in questo modo. Saresti ospite della mia casa, servito e riverito, finalmente trattato secondo il tuo altissimo rango...”

“Prigioniero in una gabbia d’oro?”

“Avresti le albine più squisite per i tuoi piaceri. Gli abiti più fini. I divertimenti più raffinati. Suvvia, principe, che vita hai fatto finora, tra i barbari? Guardati, abbigliato come un mercenario, con quelle tue mani eleganti rovinate, e gli occhi segnati da così tante brutture: tu, un nobile di purissimo sangue, l’erede di un principato. Hai così tanto da perdere, per disdegnare l’offerta di un membro dell’Augusto Consorzio?”

Deyan tacque.

Cederà, pensò tetramente Ran. La proposta è troppo allettante per lui...

“Portate quel sayanni sulla nave,” ordinò Jenna, rivolto ai suoi ufficiali.

“No,” fece Deyan, con voce recisa. 

“Spiacente, principe. Ma qualunque sia la tua decisione, quell’animale viene con me.” Un’espressione di scusa. “Mi perdonerai, ma non posso tornare da questa missione a mani vuote: sarebbe inammissibile...”

Non aveva neanche finito di pronunciare l’ultima sillaba, che Deyan era già in azione: una mano ad estrarre un’arma nascosta nella manica, un balzo acrobatico più rapido del battito delle ciglia... e il nobile di Deera si trovò lo Shanì alle spalle.

I soldati della guardia lanciarono un grido e avanzarono, armi in pugno.

“Fermi dove siete!” ordinò Deyan, e premette una lama sottile alla gola dell’ambasciatore. “Nessuno di voi si muova. Obbedite... o il nobile Jenna-shir muore.”

La minaccia raggelò tutti. 

Jenna non aveva battuto ciglio. Inspirò profondamente e fissò il vuoto davanti a sé, il volto lievemente arrossato dalla sorpresa.

“Questo non me l’aspettavo, Deyan-shir. Perché?”

“Quel sayanni è importante per me. Non ti permetterò di portarlo via.”

“È soltanto uno spregevole barbaro! Non vale la pena di renderci nemici. Rinuncia a lui, e non temere, non lo tratterremo male... fino a Kelitha. Perché sarà il nostro trofeo di quest’impresa, almeno agli occhi degli sciocchi; mentre il vero premio... saresti tu.”

“Nemmeno io verrò con te, Jenna-shir. Ho inteso perfettamente il tuo gioco, ma non mi avrai come burattino da manovrare.”

“Forse da te voglio qualcos’altro,” mormorò il nobile. 

La lama di Deyan gli morse la gola. 

“Attento, margravio... con me certe passioni sono pericolose.”

“E per questo più eccitanti, vero?” Un lieve sorriso. “Non fraintendermi, principe: quel che vorrei veramente da te è un tuo discendente. Un tuo figlio maschio.”

“Per fartene che cosa?” mormorò Deyan, sorpreso. “Pensi forse di poter usare mio figlio per esautorare gli eredi di Gamosh?”

“E se fosse così?”

“Non è così. Secondo la legge di Kelitha mio figlio non sarebbe altro che uno schiavo come me. Sarebbe reso sterile, e messo come giocattolo in una shanda. Io non genererò mai una creatura destinata a questo, Jenna-shir.”

“Forse l’hai già fatto, solo che nessuno sa ancora che è tuo figlio.” 

La lama nella mano di Deyan vacillò.

“Cosa?...” 

Era l’incertezza che Jenna attendeva. 

In un istante il nobile schizzò di lato, lo stiletto pronto nella mano che aveva tenuto celata in grembo. Colpì con la velocità di un fulmine, ma Deyan era già balzato in alto, schivando l’affondo senza neanche pensare. Ricadde più pesantemente di quanto non avesse voluto e alzò la propria lama come un pugnale, in posizione di difesa. Poi si rese conto di quel che era successo. 

Questa tecnica!...

I soldati mormorarono, increduli.

Jenna si mise in piedi con sorprendente agilità, un sorriso sardonico sulle labbra. 

“Gli dèi sanno che non avrei mai voluto eliminarti, Deyan-shir, ma sembra che non intendi lasciarmi scelta: tutte le tue risposte sono sempre dei no. Io non posso accettarle. Se non farai ciò che ti chiedo... non potrai essermi utile in alcun modo. E allora meglio assicurarmi che almeno non mi recherai danno.”

“Dove hai imparato a combattere in quel modo?”

Uno sguardo tagliente.

“La mia vita è stata lunga... e intensa.”

E rapido come un serpente, partì all’attacco. Ma Deyan era pronto, e parò il colpo; poi contrattaccò.

Tutti fissarono la scena, sbalorditi: molti non immaginavano neanche che gli albini fossero in grado di battersi tra di loro, e il loro duello era qualcosa di mai visto prima: un combattimento velocissimo di riflessi eccezionali, una danza mortale di cui non si riusciva nemmeno a cogliere tutti i movimenti. 

“Jenna-shir!” esclamò uno degli armigeri, e fece un passo avanti.

Ma il comandante lo fermò. “Sono due nobili!... Nessuno deve interferire.”

Deyan e Jenna si separarono, studiandosi per qualche passo, e poi di nuovo ingaggiarono la loro agilissima battaglia, in uno strano silenzio. Non emettevano un suono, si sentiva solo il fruscio delle vesti e il tinnio delle armi: molti kelith che ancora erano in piedi si inginocchiarono, quasi con riverenza.

Dunque è così che si battono i membri della Razza Sovrana...

Fu uno spettacolo sbalorditivo, ma durò solo lo spazio di pochi respiri. Poi si udì un gemito soffocato, e Deyan piroettò fuori dal rettangolo del tappeto; ma la tunica sul fianco era squarciata, e sporca di sangue. 

Ci portò la mano, se la guardò... e barcollò.

Jenna si raddrizzò, respirando profondamente. E la mano con lo stiletto gli cadde al fianco. Guardò Deyan, e lo vide cadere pesantemente a terra, con le membra rigide. 

Dalle truppe venne un grido di trionfo, che si fuse con quello di disperazione di Ran.

“No!..”

I prigionieri sayanni lo guardarono ad occhi sgranati, ma lui non ci fece caso: scosse le catene, nel tentativo di liberarsi... si meritò solo la bastonata di un sergente, per farlo star zitto. Chinò la testa sanguinante fin quasi a terra, mordendosi le labbra.

Oh, Deyan-shir!

Nel silenzio Jenna si avvicinò al corpo riverso dell’avversario, lo prese per le spalle, e gentilmente lo voltò verso di sé. Deyan ansimava, gli occhi semiaperti, il dolore evidente nei suoi lineamenti. 

“Perdonami,” mormorò l’ambasciatore. 

“La tua lama... avvelenata.”

Lui sorrise e annuì, con tristezza. 

“Farò conservare il tuo corpo, e lo riporterò in Kelitha. Lo offrirò a Gamosh di fronte a tutto l’Augusto Consorzio. In questo modo non avrà il pretesto per attaccare Deera, e la sua finzione che tu sia ancora vivo... dovrà finire.” Jenna sfiorò il suo volto con la punta delle sue dita sottili. “Mi dispiace infinitamente, principe. Avremmo passato momenti meravigliosi, insieme. E tu saresti rimasto la mia carta da giocare, a seconda delle decisioni di Gamosh. Ma non sono riuscito a convincerti... perché forse tu stesso desideravi morire. E... ti comprendo.” Una carezza su quel marchio, e Deyan chiuse gli occhi. “Sì, splendido giovane così crudelmente rovinato. La tua è stata una vita troppo sventurata e piena di dolore. Posso solo consolarmi al pensiero che la morte per mano mia è dolce... e onorevole. Ti ha ucciso un nobile, non un essere inferiore. E ti addormenterai tra le mie braccia, che sono più che degne di accoglierti...”

Sussultò, con un singhiozzo soffocato.

“Solo le braccia della Dea sono degne di accogliermi,” sibilò Deyan. 

Jenna si raddrizzò, con espressione stupita. E si contemplò il manico della lama, affondata a destra, sotto le costole. 

“Jenna-shir!” gridarono alcuni dei suoi uomini, costernati. 

Il nobile spostò lo sguardo incredulo su Deyan. “Come... come hai fatto...”

Lui gli indicò la propria coscia. Da dove spuntava un ago d’acciaio, conficcato nel muscolo.

“Tu... avevi l’antidoto per questo veleno,” alitò Jenna, sbiancando in volto. 

“Mi sono ferito di proposito prima che la paralisi avesse effetto,” annuì Deyan. “Conosco il veleno che hai usato, Jenna-shir. Sapevo che l’avresti adoperato... nel momento che ho riconosciuto la tua tecnica.”

Jenna tremò. “Allora... l’hai capito...”

“Sì.” La voce di Deyan era piena di una sorda disperazione. “Sei anche tu un adepto di El!”

Ran fissò la scena, ammutolito come tutti. 

Jenna fece un pallido sorriso, e quasi cadde. Alcuni dei suoi fecero per accorrere da lui, ma egli li fermò con un gesto.

“No!... Che nessuno di voi si avvicini.” Afferrò il manico della lama e la estrasse: una macchia scura si allargò immediatamente sulla sua candida tunica. “E che nessuno che non sia di nobile stirpe... osi toccare o sfidare quest’uomo, anche dopo la mia morte. Egli è sacro!” Un’occhiata al comandante delle sue guardie. "Avete capito?...”

L’uomo posò la mano sul cuore e si inchinò. 

“Sì, signore.”

Jenna vacillò, e si accasciò sul tappeto. Toccò a Deyan incombere su di lui. 

“Mi hai battuto, fratello,”  mormorò il nobile. “Anche... la tua lama era avvelenata.”

“Sì,” ammise Deyan. “Ma il mio veleno, a differenza del tuo, non ha antidoto.”

“L’artiglio del favorito della Dea... oh, Deyan-shir! Lo sapevo, che la mia duplice lealtà un giorno mi sarebbe costata la vita. Sono stato iniziato in segreto, prima che tu nascessi... e sono diventato la mano destra di Khandar-shir. Ho amato Deera più della Divina, ho pensato al suo interesse... e non a quello di Kelitha, e tu mi hai giustamente castigato per questo: la nostra dea... non accetta mezze lealtà.” Jenna impallidiva a vista d’occhio. “Ma sono onorato di finire per tua mano, fratello... la più nobile che potessi trovare per mandarmi tra le sua braccia.”

“Mi hai parlato di un figlio...”

“Tu sei l’antica stirpe Mahajana rediviva... il Tempio ti proteggerà, ma solo se non troverà il tuo erede di sangue.” Jenna fece un tremante sorriso, i suoi occhi divennero vitrei. “E quando ciò accadrà...  perderai il tuo ultimo rifugio...”

“Con chi avrei generato questo figlio?” Deyan si avvicinò al volto esangue di Jenna. “Rispondi!”

“Non... lo so.” 

Chiuse gli occhi. 

“Jenna-shir!” lo chiamò Deyan, quasi con un ruggito.

“Ci sono tanti tipi di veleno... fratello.” Le palpebre si aprirono appena. “E io voglio che tu assaggi... l’ultimo, prima che io muoia. Ti ricordi ancora... di Tasia?”

Il cuore di Deyan sussultò nel suo petto.

Tasia?!

“Il principe Estsen non la sopportava più, dopo che eri giaciuto con lei... prima l’ha cacciata in esilio, e poi... ha pensato di ucciderla. Ma... un nobile si è fatto avanti... pagando una cifra inverosimile per averla, nonostante... il suo disonore. E dicono... che vuol farne... la propria Prima tra le Prime...” Ridacchiò. “Che... indecenza...”

Un brivido violento, e un lungo rantolo.

“Quale nobile?” chiese Deyan, col cuore in gola. “Chi l’ha comprata?” Lo scosse. “Chi?!”

Jenna non riuscì quasi a pronunciare la parola, ma le sue labbra la formarono ugualmente.

Gamosh.

 

 

 

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Capitolo 15
*** Dove vecchie e nuove ferite bruciano ***


 

 

Il fuoco aveva salvato Ran, e un altro fuoco illuminava la festa nel quartiere della Squadra Sacrilega. Ma le porte erano aperte a tutti, e la baldoria era così clamorosa che tutta la Comunità non aveva chiuso occhio nella notte piena di stelle. Le risate e le grida salivano fino al cielo, assieme al fumo e all’odore di pane e carne arrostita.

Ran, vestito a festa e ben satollo di buon vino, si dava all’ennesima riproposizione in chiave epica della fuga da Zakkara, di cui era uno dei pochissimi testimoni; questo arricchiva di particolari emozionanti un evento che Deyan ricordava solo come una catena di colpi di fortuna.

Nell’incertezza seguita alla morte di Jenna, i guerrieri sayanni erano finalmente giunti a dar manforte ai propri compagni. I kelith se li erano visti arrivare addosso e non avevano più avuto il tempo di considerare se rispettare Deyan o trascinarlo in catene a Deera: si erano dati alla fuga, portandosi dietro il cadavere del loro signore. I sayanni da parte loro si erano precipitati all’attacco, senz’altro pensiero che quello di spazzar via gli invasori (a cui probabilmente avrebbero addebitato la perdita del loro tesoro). In quella situazione caotica Deyan era riuscito a liberare Ran dalle sue catene, e insieme a Nemel e al comandante prigioniero (che Ran si era trascinato dietro senza tanti complimenti, pronto a usarla come ostaggio), si era nascosto tra le rocce, giusto in tempo per non essere coinvolto nella battaglia.

Lunghi istanti d’ansia... e poi finalmente il Vortice li aveva presi tutti, e si erano trovati su Luna di Fuoco; Nemel e la guerriera svenuti, Ran sanguinante e in preda alla nausea, Deyan col fianco in fiamme e la follia negli occhi.

Ma ancora vivi!

Ed era quella, la vera impresa. Aver rubato un tesoro senza aver perso nemmeno un uomo, nonostante le incredibili avversità che avevano riunito lì così tanti nemici. 

“Quindici scrigni!” esclamava Ran, concludendo il suo racconto tra le acclamazioni degli ascoltatori. “Il bottino di un’intera stagione... anzi per molti di tutta una carriera... e noi ce lo siamo portato via in una sola missione!”

“Quindici scrigni e una prigioniera,” corresse qualcuno. 

“Quella che stava per farmi schiacciare la testa?... Meritava che la lasciassi ai kelith, quella disonorata. Ma sono un predone dal cuore d’oro...”

“Di dorato tu hai solo le monete nella scarsella.”

Una gran risata seguì quella battuta, e Ran fece la faccia offesa.

“Cos’è questo cinismo? Non fa parte della mia natura. Ho solo... corretto il piccolo sbaglio commesso dalle Divinità con lei, e l’ho messa nel posto più adatto alle sue inclinazioni!”

“Cioè?” chiese Deyan, quando Ran si avvicinò per versarsi un’altra coppa di vino.

Lui si guardò a destra e a sinistra. “L’ho venduta a un bordello dalla robusta clientela: me l’hanno pagata bene perché è una guerriera, e dicono che la mia casta è quella più compressa in certe faccende, ma quando si libera...”

Non finì la frase, con un velo del suo solito imbarazzo.

“Un altro esempio della tua proverbiale saggezza.” 

“Non sono neppure sicuro che sia una vendetta, Deyan-shir. Forse così l’ho fatta felice. Ma del resto dovevo pur ringraziarla per avermi parlato tanti cicli di soli fa di quel tesoro, no?”

“Intanto hai arrotondato il nostro bottino.”

“Mi fa impressione, pensare a quando una cifra come quella mi sarebbe sembrata munifica. E adesso è solo un’aggiunta a un mare di ricchezze.”

“Non sono tutte nostre,” lo corresse Deyan. “In realtà, dedotti i costi di quest’impresa, ne avremo solo per chiudere la stagione con un ricco premio per tutti.”

“Sì, ma adesso siamo una Grande Squadra. Quel che abbiamo fatto è già nei racconti dei trovatori, e la nostra fama è alle stelle. Non è solo il tesoro che ci siamo portati dietro da Zakkara...”

Deyan abbassò lo sguardo.

“No,” mormorò. 

Io mi sono portato dietro l’inferno.

Ran sapeva che Jenna aveva conficcato in lui qualcosa di più di uno stiletto. 

Gli riempì la coppa di vino. “Ogni cosa a suo tempo, Deyan-shir. Non è il momento di pensare, questo.” Gli posò una mano sulla spalla, facendolo trasalire. “Guardati intorno, amico mio. È il momento di festeggiare, di godersi il piacere del successo... e condividerlo con gli altri. Lo dobbiamo a loro, prima ancora che a noi stessi. Inebriati un po’, sbarra la mente ai pensieri e alle angosce... e vivi questo momento di gioia, come un vero predone.” 

Deyan voleva dirgli che non poteva capire quanto fosse profonda l’angoscia che stava provando... ma ricordò di aver davanti un uomo che per ben due volte si era ritrovato sul punto di essere giustiziato, per poi essere messo in catene e quasi imbarcato verso una morte atroce. E ricordò il suo urlo liberatorio quando si era trovato nel Cerchio, nella Grande Casa... i suoi occhi sbarrati in un’esultanza allucinata quand’era uscito da lì, tuffandosi quasi tra gli altri membri della Squadra... l’abbraccio quasi disperato con cui aveva rischiato di stritolare la povera Naysiak, facendola quasi sparire nella propria immensità. 

Anche tu hai le tue ferite, Ran...

Sospirò e fece un pallido sorriso. “Ci proverò.”

Ran rispose al sorriso e si alzò in piedi. Ondeggiò un poco, ma si piantò saldamente sulle gambe e alzò la propria coppa. 

“Ascoltatemi tutti!”

“Ancora?!” fece Chat. 

“No, basta racconti,” disse lui, tra le risate di tutti. “Ma è tempo di brindare: questa compagnia mi sembra troppo poco ubriaca per i miei gusti!”

“Giusto!” gridarono molte voci. 

“Allora: brindiamo ai Marjaban... che quando avranno finito i conti si prenderanno una bella fetta del nostro tesoro, per il disturbo di averci portato qui... certo, sotto il naso di un mucchio di nemici... per cui siano sempre lodati e ringraziati, anche se la pelle la rischiamo noi.”

“Viva i Marjaban!”

“E brindiamo ai nostri bravi musici, ai cuochi e ai fornitori di vino, che stasera ci alleggeriranno ulteriormente per farci pagare la nostra gioia!”

Qualche urlo si levò in risposta, e i tamburi rullarono.

“Sì, compagni predoni: tutti costoro ci strapperanno il frutto del nostro duro lavoro... ma quanto vale, questo momento di gioia e di libertà in mezzo a voi? Esiste qualcosa di simile nel mondo che abbiamo lasciato?” E indicò il disco bianco, bruno e azzurro che dominava il cielo notturno. “Un luogo dove tutto quel che siamo è già stato deciso alla nascita, sia per i kelith che per i sayanni... e a noi non resta che obbedire?” Puntò un dito a terra. “Qui almeno nessun destino è già scritto in partenza. Siamo su Luna di Fuoco, fratelli, e qui nulla è impossibile!”

Ci fu un’ovazione, e Deyan osservò le facce dei predoni, illuminate dal fuoco: erano piene d’orgoglio.

Ran, finalmente cominci a credere a te stesso come Khanshir?

“Già, amici miei: qui tutto può succedere... che io, un bandito perennemente assetato, abbia ora abbastanza ricchezza da poter dissetare tutti coloro che mi circondano... e che mi ritrovi a dover la vita a un nobile kelith!”

Tutti gli occhi si fissarono su Deyan, con un mormorio d’approvazione. 

“Lui è stato la vera mente di quest’impresa... e anche qualcosa di più. Dopo il tesoro, ha rubato... anche me.” E qualcuno rise. “E con questo siamo pari a quando fui io, a rubare lui... entrambi da un’esecuzione. Quel che provo per un amico così leale e coraggioso...” Intercettò uno sguardo ammonitore di Deyan, “... beh, non ve lo dico: sono affari suoi e miei. Ma noi tutti abbiamo un debito con i compagni che l’hanno aiutato, perché grazie a loro la maledetta giustizia sayanni è stata beffata ancora!”

Tutti i sayanni mandarono un urrà. 

“E che dire del mio vecchio socio Nemel, che è rimasto eroicamente ferito...” 

“Presente,” replicò il predone, col volto violaceo. 

“Come, presente? Non posso fare il tuo discorso celebrativo, così. Vai a farti curare!“

“E lasciarti la mia quota di vino?” Nemel alzò la tazza a sua volta. “Ran, ti hanno mai detto che parli troppo? Falla finita con tutti questi discorsi, e beviamo!”

“Beviamo!” assentì Ran, tracannando il vino, imitato da tutti i predoni. 

Deyan trasse un sorso del proprio, e posò la coppa. Non si sarebbe ubriacato: un nobile doveva perdere il controllo solo in luoghi molto riservati, e al limite solo tra suoi simili. E lui di simili non ne aveva: su Luna di Fuoco era completamente solo.

E cominciavo ad abituarmi ad esserlo...

Ma in quel momento gli pesava. Si rese conto che l’aver parlato con Jenna gli aveva messo davanti agli occhi il mondo a cui era sempre appartenuto, e che lo chiamava a sé. E una parte di lui avrebbe voluto salire su quella nave, per stare insieme a un altro membro della Razza Sovrana; pur sapendo che su Kelitha l’attendeva un destino di morte...

E invece sono qui, dove gli unici esseri come me sono le mie schiave. Jenna sarebbe stato una compagnia più interessante, anche a letto dove probabilmente mi avrebbe invitato... prima di uccidermi.

“Musica!” gridò Ran, spronando gli strumentisti.

Le note delle danze sayanni cominciarono a risuonare, aumentando l’allegria dell’intera compagnia; al punto che qualche kelith ubriaco si alzò e si mise a ballarle con le molli movenze del suo popolo; altri batterono le mani a ritmo, divertiti dallo spettacolo.

Ran tornò al suo posto, accanto a Deyan, e si guardò intorno.

“La tua Xarani dov’è?”

Mi sembrava strano, che non chiedesse di Naysiak... 

“Dietro di te, appostata sulle mura.”

Ran si voltò, alzò gli occhi e notò a fatica una sagoma accovacciata, che si stagliava contro il cielo stellato. 

“Perché è lassù?”

“Da là può tenermi d’occhio senza bisogno di starmi vicino.” Un remoto sorriso. ”E finire di ingoiare la sua medicina amara.”

“L’hai fatta punire ancora?!” 

“Deve imparare a rispettarmi.”

Non le chiedo molto di più...

Ma già al suo arrivo se l’era trovata davanti, a squadrarlo con i pugni ai fianchi e uno sguardo di rimprovero che nessuna schiava avrebbe mai dovuto permettersi col proprio padrone. Poi, vedendolo pallido e con un fianco sanguinante, aveva pensato bene di accorrere a sorreggerlo, mettendolo in imbarazzo davanti a tutti. L’aveva trascinato a casa quasi di peso, come se avesse deciso lei che dovesse essere curato, e Deyan era stato troppo provato per impedirglielo; ma non appena il chirurgo era uscito aveva ordinato a Ibal di darle una decina di vergate sulle mani, per insegnarle una buona volta a tenerle a posto. Era una punizione più che altro simbolica per una dura guerriera, ma incredibilmente lei non l’aveva accettata e si era ribellata.

Ne era seguito uno sconcertante litigio, che Deyan aveva accettato unicamente perché gli permetteva di non pensare a quel che era successo a Zakkara...

“Stendi le mani a Ibal, è un ordine!”

“Naysiak non fatto niente male, perché punire?”

“Non devi mai toccarmi senza permesso.”

“Perché? Randanai tocca.”

“Lui è un amico, tu sei soltanto una schiava!”

“Naysiak schiava? Questo non male. Schiave tocca Seriema, lui contento.”

“Per caso la vergine guerriera avrebbe voglia di toccarmi come fanno loro?”

Lei aveva osato fare la faccia offesa. “Naysiak non animale.”

“Le mie albine sono molto meno animali di te.”

“Seriema pericolo, aiutare schiave molli sì padrone oh padrone ancora padrone?” Si era battuta un pugno sul petto. “No! Naysiak aiutare, Naysiak uccidere nemico!... Sacra mano Xarani tocca Seriema, onore grande. Lui punire. Naysiak non capire.”

“Le tue mani per me non hanno proprio nulla di sacro.”

Uno sbuffo. “Seriema kelith, niente sacro per lui.”

“Io, sono sacro. E soprattutto per te. Impara a rispettare i tuoi superiori!”

“Naysiak rispetta superiori.” Aveva alzato un dito al cielo. “Kamoh e Lilia, superiori di Xarani!”

Deyan si era adombrato. Era un’affermazione troppo simile al motto della casata di Shana, Solo gli dèi sopra di noi... come si permetteva quella femmina di farlo proprio?

“Prima dei tuoi dèi ci sono io, il tuo padrone.”

“Naysiak obbedire Seriema per patto con dèi.” Uno sguardo sdegnoso. “Kelith superiori sayanni? Kelith superiori Xarani?!... Hye! Nahin ne!”

“Bada, Naysiak. Non sono dell’umore per sopportare le impertinenze di una schiava!”

“E Naysiak stanca sopportare stranezza di altro schiavo!” era esplosa lei, perdendo ogni ritegno.

Un silenzio agghiacciato aveva seguito quell’incredibile affermazione. 

“Cosa sarei, io?...”

“Kainakai. Schiavo.” Si era puntata un dito alla guancia. “Seriema segno qua.” Poi il suo dito era sceso sul corpo, un po’ dappertutto. “E segno frusta qua, qua, qua, qua...”

“Tu vuoi che ti uccida,” aveva mormorato lui, pallido di furia. 

Lei si era illuminata tutta. “Uccidi. Naysiak contenta!”

“Potrei accontentarti, ma non ti piacerebbe il modo.”

“Molte strade, meta una. Naysiak non paura!”

Deyan l’aveva presa per una sfida, quale effettivamente era: aveva ordinato a Saal di andare ad affittare un carnefice dalle case dei mercanti di schiavi. Ibal aveva rispettosamente fatto notare che la barbara non provava dolore come gli esseri civili, quindi ci sarebbe voluto un vero professionista, e dubitava che su Luna di Fuoco si trovassero. Saal proponeva invece la semplice mutilazione di qualche parte poco utile, o addirittura dannosa (come la lingua), per non sprecare quella che si era rivelata una discreta lavoratrice...

Avevano discusso animatamente, mentre Deyan sentiva la nausea crescere dentro di lui: l’effetto dei residui del veleno che gli erano rimasti nel sangue. E a peggiorare il suo mal di testa aveva contribuito Naysiak che si era messa a cantare marzialmente, con voce da spaccare i timpani, gli occhi fissi al vuoto con espressione da eroina.

Tahond tani kayi tayi! Jinna-ni ue-me aytiyai! Tahond tani kayi tayi! Jinna-ni ue-me aytiyai...”

“Basta!...” aveva ruggito lui, esasperato. 

Tutti s’erano azzittiti, tranne lei che aveva continuato a cantare.

“Sono troppo stanco per combattere anche questa battaglia. Toglietemi di torno questa femmina invasata e chiudetela da qualche parte! Penserò a lei a mente fredda.”

E se n’era andato a riposare nella shanda, mentre Naysiak veniva spogliata e gettata in un pozzetto di raccolta scavato nei sotterranei della casa: un luogo da cui quel fastidioso canto guerriero non desse troppo fastidio. L’avevano ulteriormente attenuato chiudendo la botola, ma la voce squillante di lei era trapelata lo stesso, colma di ostinazione. 

Aveva cantato per svariate clessidre di tempo. Poi la sua voce era divenuta incerta. 

E si era finalmente spenta.

Un silenzio riposante era sceso su tutta la casa, e tutti avevano tirato un respiro di sollievo... ma quando ormai erano convinti che sarebbe durato, un grido si era levato dalle cantine.

Ed era angoscia allo stato puro.

Deyan, sul suo letto, aveva aperto gli occhi con un tetro sorriso. 

Dunque non è vero che non hai paura di niente, Naysiak...

Dopo più di un millennio trascorso da sepolta viva, era diventata claustrofobica. Aveva picchiato i pugni contro le pareti, tra ansiti isterici; gridato con rabbia, minacciato, poi implorato di essere tirata fuori da lì, aveva invocato con voce piagnucolosa gli déi, gli spiriti, il padre e la madre... e alla fine si era messa a strillare in preda al panico.

“Seriemaaaaaa!...”

Deyan si era alzato a sedere tra i cuscini. “Ibal!”

L’eunuco si era immediatamente presentato, con aria rassegnata. “Sì, padrone?”

“Portami due ragazze, e sceglile... tra quelle che piangono più facilmente.”

Lui era rimasto allibito. “Ma il padrone è stanco e ferito...” Uno sguardo tagliente di quegli occhi rossi, e si era subito inchinato. “Questo servo chiede perdono. Provvedo subito.”

Al mattino i servi erano scesi nelle cantine, avevano aperto la botola del pozzo e avevano trovato la sayanni miseramente appallottolata sul fondo, tutta graffiata e orribilmente insozzata: il terrore l’aveva vinta al punto di scioglierle le viscere. Era così sfinita da non riuscire nemmeno a muoversi: l’avevano tirata fuori a forza, lavata e riportata al loro signore, che l’aveva guardata senza più animosità.

“Mi mancherai ancora di rispetto?”  

“Hye, Seriema,” aveva singhiozzato lei, con gli occhi a terra.

“Bene. Perché non farò pulire quel pozzo, lo terrò pronto per la prossima volta in cui ti comporterai male; e stavolta farò inchiodare la botola. Ci siamo intesi?”

Lei aveva annuito, tremante.

“Guardami in faccia e rispondimi.”

Aveva obbedito, umiliata. “Ya, Seriema.”

Deyan si era immaginato la faccia del suo amico, se avesse visto quel viso tondo così rigato dalle lacrime... 

“Sei congedata.”

Saal l’aveva fissato, stupito. Tutto lì? Niente mutilazioni, niente frustate, niente privazioni? 

Lei era barcollata verso la shanda, rintanandosi nel suo giaciglio e cercando conforto nell’abbraccio della pelle di tigre di Ran. Non aveva mangiato nulla e non aveva più detto una parola. Aveva passato tutto il tempo a fissare il vuoto, scuotendosi solo quando aveva sentito che il padrone si apprestava ad uscire: il senso del dovere era stato più forte di tutto. L’aveva seguito in armi, come sempre; ma standogli a distanza, con chissà quali pensieri. 

Ed ora sedeva sulle mura, indifferente al vento freddo, il volto rivolto al mondo... a Sayanna.

“Sei stato tu a vietarle di far festa?” chiese Ran, guardandola. 

“Non le ho vietato nulla. Forse preferisce rimanere da sola.”

“Sciocchezze, Deyan-shir. Nessun sayanni preferisce rimanere da solo.”

Si alzò e andò sotto di lei per parlarle. La musica impedì a Deyan di sentire cosa le diceva, ma la vide sporgersi e scuotere la testa.

Ran ovviamente non si arrese. Fece dei gran gesti, mimò una danza. Poi, visto che lei non si muoveva, andò a una scala a pioli che era appoggiata al muro e la portò con intenzione sotto di lei. A quel punto Naysiak si alzò e saltò giù da dove si era appostata, un balzo di più di quattro stature da cui atterrò con sbalorditiva disinvoltura.

Ran la prese per mano, attirandola verso il gran fuoco. Lei resistette: Pushpa aveva spiegato a Deyan che gli Xarani danzavano solo a scopo religioso. Ma Ran non voleva sentir ragioni: la trascinò ridendo verso gli altri, e siccome lei continuava ad arretrare si chinò ad afferrarla per le gambe, sollevandola di peso per costringerla a ballare con lui. Lei finalmente si lasciò andare a una risata e puntò le mani sulle sue larghe spalle, cercando di divincolarsi; lui la imprigionò ancora più strettamente e si mise a danzare, la faccia praticamente affondata nel suo corsetto... e lei alla fine si arrese, circondandogli il collo con le braccia e lasciandosi trasportare.

Deyan non poté fare a meno di distogliere lo sguardo, con imbarazzo tutto kelith: quella scena gli sembrava troppo intima tra un uomo e una donna per essere mostrata in pubblico. Gli altri sayanni invece erano indifferenti, come se in quell’abbraccio non ci vedessero altro che un normale cameratismo.

Ma è veramente cameratismo? 

Deyan sapeva che Ran, da bravo sayanni, era piuttosto generoso nei suoi abbracci (una cosa che all’inizio del loro sodalizio era stato un incubo per lui, abituato al riserbo della sua razza); ma il modo in cui cercava il contatto con Naysiak era diverso: sembrava trarne qualcosa di speciale, una gioia che i compagni maschi non gli davano. Ma continuava ostinatamente a dire che quello era il normale atteggiamento tra commilitoni. Forse, semplicemente, si rifiutava di ammettere i propri istinti in onore del mito della purezza sayanni; e Deyan pensò torvamente che era ipocrita ad accusarlo di non aver rinunciato a tutti i suoi pregiudizi, quando era evidente che la stessa cosa valeva anche per lui.

Cosa c’è di così innaturale nel provare attrazione per una femmina... perché è femmina?

Ran non resse molto nella sua danza, mezzo ubriaco com’era: dovette fermarsi e lasciar andare la sua prigioniera. Chinò la testa a guardarla in faccia alla luce del fuoco, e Deyan vide un gesto quasi delicato, le sue dita che sfioravano il volto di lei. Naysiak respinse la sua mano e gli assestò un violento spintone, mandandolo a terra; si strusciò gli occhi con una mano furtiva, esitò, poi si riavvicinò, sedendosi accanto a lui. Altri sayanni si accomodarono intorno a loro e si passarono un’anfora di vino; lei naturalmente rifiutò, astemia come tutte le guardie sacre, e nessuno si offese. Ran però non aveva nulla da sorvegliare e bevve ancora, per poi posare la testa sulla sua spalla, con espressione beata. Lei non fece nulla per allontanarlo, gli passò anzi un braccio sulle spalle per sorreggerlo, e fece un lontano sorriso, mentre tutti chiacchieravano intorno a lei. 

Se Ran non si decide, lo farò io per lui, pensò Deyan guardando quei due.

 

 

 

*


 

 

 

Gamosh guardava con una smorfia il nuovo ambasciatore di Deera, un nobile obeso e dalla faccia liscia come quella di un eunuco; anche la voce era piuttosto acuta, e la trovava fastidiosa. 

“Il nobile Jenna-shir... morto?!”

I piccoli occhi dell’ambasciatore si strinsero ancora di più.

“Ahimè, gran principe, sì. Triste è stato il ritorno della nostra nave, che avevamo mandato secondo la tua richiesta... ehm, un segno della nostra amicizia e stima per il tuo potente principato. Un malore improvviso ha stroncato il margravio, e il viaggio è stato interrotto. Il capitano ha riposto le nobili spoglie nella bara con i liquidi conservanti che avevamo approntato per riportarti l’eventuale cadavere di... ehm...”

“Deyan,” completò Gamosh. 

L’ambasciatore deglutì a sentire l’odio con cui il principe pronunciava quel nome. 

“È pur sempre di Razza Sovrana,” disse, con tono di scusa. 

“Apprezzo la sollecitudine”, replicò Gamosh seccamente. “Quindi quella bara non è stata utilizzata per riporvi un criminale, ma è diventata rifugio per le spoglie del nobile Jenna: un discreto insulto per il vostro margravio, ma capisco lo stato di necessità. Immagino che i medici ne abbiano esaminato il corpo, e abbiano potuto stabilire le cause di questo suo malore... mi era sempre sembrato in ottima salute.”

“Sfortunatamente non è stato possibile, gran principe.”

“Che cosa?”

“La nave si è imbattuta in una tempesta che l’ha spinta fuori rotta, e solo dopo molte tribolazioni è riuscita a tornare a Deera. Purtroppo i marosi avevano danneggiato la bara; e dato che mancavano ancora molti giorni all’arrivo, e il nobile corpo di Jenna-shir non avrebbe retto alla disdicevole... ehm, corruzione, il capitano ha ordinato di cremarlo.”

Le labbra di Gamosh si strinsero. 

“Cremarlo?”

“Non c’era altra soluzione per evitare che gli... ehm, sgradevoli effetti della sua morte giungessero alle persone comuni, danneggiando il ricordo della sua... ehm, dignità. Ma tutto è stato fatto nella massima solennità. Le ceneri sono state tumulate poi a Eri in un solenne funerale, alla presenza del nobile Khandar-shir.

Gamosh batté nervosamente il frustino sugli stivali da cavaliere delle sabbie. 

“Immagino che avrete fatto una approfondita inchiesta per verificare la buona fede del vostro equipaggio.”

L’ambasciatore spalancò gli occhi, cavando dalla veste un fazzoletto di garza con cui si tamponò il volto sudato. 

“Non abbiamo motivi per dubitarne, gran principe...”

“Prendere il mare con un nobile di altissimo rango a bordo, il primo dopo decadi... e tornare a mani vuote con quel nobile morto, senza essere stati in grado di proteggerlo, né di vendicarlo... non conosco gli usi della tua nazione, ambasciatore, ma qui a Shana quei marinai sarebbero stati tutti impalati.” 

“Ehm, senz’altro, e anche a Deera...”

Un tetro sorriso. “Invece, raccontando questa storia, quei vigliacchi hanno potuto tornare a casa, restituendo a Khandar-shir un’urna graziosa nella quale si spera che ci siano almeno le ceneri del nobile Jenna, e non quelle di chissà chi... così voi non avete prove della sua morte violenta, e siete costretti a credere alla storia del malore; e vi conviene anche, perché così almeno recuperate la vostra nave e le vostre truppe, che altrimenti sarebbero andate a nutrire le flotte dei pirati.”

L’ambasciatore sudava copiosamente. 

“Gran principe, mi permetto di obiettare a queste... ehm, insinuazioni. Il nobile Jenna era parente del principe Khandar, e universalmente stimato a Deera. Se soltanto avessimo avuto il minimo sospetto di una frode mostruosa come quella che ipotizzi avremmo... ehm, preso provvedimenti.”

“Io avrei fatto torturare gli ufficiali, uno per uno, con gli altri ad assistere. Se ci fossero state delle frodi, prima o poi qualcuno avrebbe parlato.”

“Gran principe, gli ufficiali hanno tutti giurato, e anche il medico di bordo...”

“Non importa,” lo interruppe Gamosh, nauseato. “Spero che almeno il capitano sia stato arso vivo, per aver mancato di rispetto al cadavere di un nobile della casa regnante. Noi albini siamo imbalsamati e inumati, non bruciati come vile spazzatura sayanni!”

“Il capitano è stato... ehm, decapitato, gran principe. Come offerta funeraria sulla tomba di Jenna-shir.”

Gamosh ebbe un’espressione furiosa. 

“Voi di Deera avete una considerazione troppo bassa della vostra nobiltà; lo farò presente all’Augusto Consorzio.”

“Ma, gran principe...”

“Avete mandato un margravio a cercare un criminale, quando poteva bastare un comune cacciatore di taglie.”

“Faccio rispettosamente notare che quel criminale è... di sangue reale...”

“È uno schiavo!” tuonò Gamosh. 

L’ambasciatore chinò la testa, con le mani che tremavano.

“Pensavamo... di renderti onore, gran principe...”

“Prendo nota delle vostre nobili motivazioni,” sibilò Gamosh, in tono minaccioso. “Sappiate che mi sono ben chiare.”

Seguì un pesante silenzio. 

“Però come nobile non vi perdono per aver barattato la vita inestimabile di un membro della Razza Sovrana... in cambio di una volgare nave e la vita di un mucchio di marmaglia senza valore. Pertanto non pagherò la somma che mi avevate richiesto come contributo alla missione. Ritengo che abbiate già avuto adeguata compensazione.”

L’ambasciatore restò a bocca aperta. 

“Gran principe, avevi firmato un accordo...”

“Non è più valido. Vi darò due schiavi sayanni per i giochi funerari, ma solo come mia offerta personale alla memoria del nobile Jenna-shir che ormai era di casa alla mia corte.” Un gesto secco con la mano. “Puoi ritirarti, ambasciatore.”

L’ometto obeso esitò, gettò un’occhiata alle guardie... e poi cercò comunque di inchinarsi con grazia.

“Gran principe,” mormorò, arretrando. 

Gamosh restò a guardarlo, con una smorfia. 

Viscido come il suo predecessore, ma me lo sta già facendo rimpiangere. Era l’unico uomo valido in quel paese di  mercanti parassiti! Si prenda Deera il costo di questo fallimento: io volevo solo Deyan, e quel maledetto l’ha fatta franca anche stavolta. 

Si voltò e si diresse verso i propri quartieri: non aveva più voglia di cavalcare, anzi, era un esercizio che gli dava sempre meno piacere, man mano che diventava più massiccio e meno elastico. Per quanto gli procurassero i corsieri da deserto più grandi e forti e li addestrassero a tenere un passo uniforme, gli scossoni al suo corpo gli divenivano presto insopportabili. Non era mai riuscito a eguagliare la grazia di Bakar, che si esibiva cavalcando in piedi sulla sella col suo corsiere lanciato a tutta velocità; né la linearità di Deyan, che cavalcava con l’attitudine di un carovaniere, più contento di percorrere venti leghe che farne una in un lampo. In quanto a Nabil, si muoveva solo in palanchino. 

E forse è questa la scelta più saggia, per un principe. 

Limitando le cavalcate a quelle che si facevano piacevolmente nella shanda, dove la sua fantasia aveva fatto approntare anche adeguati finimenti per le schiave...

Il pensiero lo eccitò, fece per raggiungere la propria sala del piacere. Ma esitò. 

E si diresse invece verso la stanza riservata al suo ultimo acquisto, senza passare prima per i lussuosi bagni che pure erano già pronti. 

Voglio che senta l’odore della mia cavalcatura, il mio sudore, la polvere sul mio corpo. 

La sorprese in piedi, davanti allo specchio della sua alcova, un elegante cubicolo foderato di stoffe scure che bevevano quasi la luce delle lampade aromatiche. Si stava appuntando i lunghi capelli bianchi, e le braccia alzate mettevano in evidenza le curve generose del seno, mentre il resto traluceva dall'audacissima veste trasparente che le scendeva fino ai piedi, scintillanti di gioielli. 

La bianca dea dell’amore in carne ed ossa. 

Lei lo vide e si voltò di scatto, ma non si gettò in ginocchio: si inchinò nobilmente, un ricordo di quando era ancora Prima tra le Prime. Poi si avvicinò a lui, i tondi seni che sobbalzavano gentilmente ad ogni passo. 

“Benvenuto, mio signore,” mormorò, ad occhi bassi. 

Gamosh la guardò, avidamente. Era bella, e questo era normale nel serraglio di un principe... però aveva anche un fascino adulto tutto particolare, che le altre schiave non avevano. 

Non dev'essere una donna dappoco, quella per cui Deyan ha gettato via il trono di Shana.

Provò a ignorare quel corpo provocante e le mise una mano sugli occhi, coprendole la parte superiore del volto e immaginandola così come il fratello l'aveva vista, la prima volta. 

Anche con una maschera, è sensuale... ha una bocca perfetta. 

Si avvicinò ad essa, sentì il profumo del miele rosso che copriva quelle labbra. C’era un'aroma di spezie, nel suo fiato. Lei rimase perfettamente immobile, disponibile, ma senza timore. Se mai era possibile dominare qualcuno con la sottomissione, lei ne conosceva il segreto alla perfezione. 

“Volevo farti un dono, ma purtroppo gli strumenti che dovevano procurarmelo hanno fallito.”

“È terribile incorrere nella tua ira, mio signore.”

“E la tua? L’hai mai provata?”

“Solo quella che il mio signore ammette.”

“Eri una regina, e uno Shanì in una notte ha cambiato il tuo destino. Reietta, cacciata... venduta.”

La vide irrigidirsi, e fu delizioso. 

“Non sapevo che fosse lui,” sussurrò appena. “Sono stata ingannata...”

“Hai provato piacere tra le sue braccia.”

Lei respirò più forte.

“Mi vergogno, mio signore...”

“E il tuo padrone ti ha punito per questo.” 

“Ero innocente...”

“Mostrami la punizione.”

Lei esitò, poi con movenze morbide si sfilò il vestito di velo, facendolo cadere a terra. Si sedette sull’orlo del letto.

“No. Voltati. In ginocchio, e apri le gambe.”

Lei tremò, ma obbedì. 

Gamosh sorrise a quello spettacolo. Lei sembrava umiliata... e allo stesso tempo complice del gioco. Le si avvicinò, posandole una mano sulla curva della schiena, e chinando la testa a studiarla.

“Queste piccole cicatrici...” Le toccò, e lei trasalì. “Deve averti fatto male, quando ti ha fatto cucire.”

“Sì, mio signore.”

“Ma poi ti ha fatto togliere i punti.”

“Dopo tre giorni... ha cambiato idea.”

“Altrimenti saresti morta.”

“L’avrei preferito, mio signore.” 

“Io ti avrei uccisa,” replicò lui. “Lasciarti viva... per fare confronti?”

“Non oserei mai, mio signore.”

“Quanti maschi ti hanno montata, finora?”

La sentì rabbrividire. 

“Quanti?” ripeté lui. “Non sei giunta vergine nel letto di Estsen, vero?”

“No, signore... fu mio padre a iniziarmi.”

Gamosh fece una smorfia. I divieti all’incesto naturalmente non valevano per gli albini, ma la pratica di mettere le figlie nel proprio letto rovinava la razza, oltre a essere considerata micragnosa. Solo i nobili spiantati si producevano il materiale della shanda direttamente in casa... 

"E poi?" incalzò. "Chi altri?"

 Bella come sei, non sarai rimasta a lungo senza compratori...

“Il... conte Ersha; al primo sangue, mio padre mi vendette a lui. Fu messo a morte, e io fui tra i beni confiscati dalla Corona... così entrai nella shanda del principe Estsen. Poi... arrivò lui.” Prese fiato. “Il nobile Deyan.”

“Quattro.” Gamosh si raddrizzò. “E con me, cinque. Ne hai, di esperienza, per giudicare chi è il migliore di tutti!”

Aveva ancora in mano il suo frustino. Lo guardò, poi lo abbatté sulle natiche esposte della donna, che si contorse con un grido. 

“Ferma. Avrai una frustata per ogni tuo amante. Questa è per tuo padre.”

Il frustino schioccò di nuovo, e un’altra riga rossa si incrociò con la prima. Lei gridò ancora, poi gemette, e fece per portarsi una mano sul segno.

“Non toccarti. Questa è per quell'Ersha, di cui non conoscevo neanche l'esistenza.”

Un altro colpo... un altro contorcimento eccitante.

“Questa è per Estsen.”

La frustata successiva fu la più violenta, e lei gridò senza ritegno, lamentandosi poi con voce fioca.

“Questa è per Deyan.”

Lei si morse le labbra. “Oh basta... basta, signore...” Si strusciò sul letto, il bellissimo volto congestionato, le gambe tremanti. “Se questo bruciore... è la misura del piacere che mi ha dato il nobile Deyan... non potrei sopravvivere... al colpo che prepari... per te.”

Lui restò sbalordito. 

Che cosa?!

Lei lo guardò spavaldamente, da sotto la cascata di bianchi capelli. “La tua frusta mi taglierebbe in due... perché non c’è uomo... che sia pari a te, mio signore. Appartenerti, per me... è la gioia più grande!” Alzò le natiche rigate, con espressione estatica. “Oh signore, splendido e crudele!...”

Gamosh sentì qualcosa di nuovo in sé, uno strano calore che proveniva dal petto, e non solo dai lombi. 

Splendido e crudele.

“Non hai neanche cominciato a imparare quanto posso essere crudele,” sibilò, e alzò di nuovo il frustino: lei si tese tutta con un ansito pieno di aspettativa...

Ma non la colpì. La toccò ruvidamente tra le gambe, e si ritrovò la mano bagnata.

“Osi godere di me?!”

Lei si leccò le labbra. “Sì.”

Provò una deliziosa rabbia, ma mai un insulto gli era sembrato più piacevole. Non aveva mai sentito una tale sensazione di complicità con una schiava: era una cosa nuova, un liquore mai assaggiato. 

Finalmente una donna che sa davvero l’arte di compiacere un uomo!

Pensò ai tanti giochi sadici di cui era esperto, e alla novità di farli con una femmina che li avrebbe goduti assieme a lui, e non semplicemente piangendo o implorando pietà. Ma non avrebbe rovinato quel corpo meraviglioso, piuttosto avrebbe sacrificato qualche schiava di poco conto. La voleva accanto, come una spezia che insaporisse ogni piatto, con tutto il suo disonore eccitante, la compagna ideale per una nuova stagione di segreti divertimenti...

La ribaltò sulla schiena. Lei gemette e si inarcò, ma poi lo guardò con occhi assolutamente adoranti. 

“Possiedimi, mio signore. Ora, subito. Non desidero altro... non esiste altro per me.” Le sue mani ardite salirono ad afferrare i suoi abiti, attirandolo senza smettere di guardarlo negli occhi. “Sei il mio salvatore. Sei l’uomo... più eccitante che esista!”

E Gamosh scoprì di crederlo. Con tutto se stesso. 

 

 


 

*

 


 

 

Naysiak lasciò cadere il secchio che portava.

L’acqua si sparse sul pavimento, e il servo imprecò. Era un bene prezioso, su Luna di Fuoco, e quella barbara l’aveva sprecata...

Ma lei aveva ben altro da fare, che asciugare il pavimento. Senza esitare un istante si mise a correre per tutta la casa, travolgendo Saal che stava portando via un vassoio; non si fermò ad aiutarlo, scavalcò coppe e piatti con un balzo e aprì la porta della piccola stanza delle visite di Deyan.

Lui era sdraiato su un fianco, su un tappeto, la tunica sollevata; e l’azzimato chirurgo kelith si apprestava a controllargli la medicazione, la borsa con gli strumenti aperta accanto a lui. 

La fissarono entrambi, stupiti da quell’intrusione. Ma lei non perse tempo: entrò decisamente nella stanza, si chinò ad afferrare il braccio destro del medico in una morsa d’acciaio, e lo allontanò bruscamente da Deyan ribaltandolo a sedere tra i cuscini.

Il chirurgo lanciò un’esclamazione indignata.

“Come osi toccarmi, lurida schiava?!”

E lurida, in quel momento, lo era: la tunichetta che si era cucita con le sue mani era chiazzata d’acqua e sudore, le scopriva le ginocchia impolverate e le braccia striate di polvere rossastra. 

Saal accorse precipitosamente, scioccato da quell’incredibile incidente. 

“Questo servo chiede perdono,” disse a Deyan, imbarazzato. “La barbara è sfuggita al mio controllo...” Poi fissò su Naysiak uno sguardo di fuoco. “Come ti sei permessa?! Lascia immediatamente il nostro ospite, domanda perdono ed esci subito da qui!”

Lei non lo considerò minimamente. Fiutò il chirurgo, che a sua volta la squadrava ad occhi sbarrati, vedendo da vicino quella sua faccia tatuata, la determinazione mortale in quegli occhi selvaggi. 

“Paura, kelith?”

Gli torse il braccio dietro alla schiena, e lo frugò rapidamente.

“No!” protestò l’uomo, cercando di dibattersi. “È un’indecenza... signore!” gridò, rivolto a Deyan. “Ti prego, richiama la tua schiava... dille di non toccarmi!”

Lei lo ribaltò a faccia a terra, con la solita sconcertante facilità; gli si sedette quasi sopra e continuò a perquisirlo. Mostrò quel che aveva trovato tra i suoi vestiti: un bisturi nella sua custodia, alcune minuscole fiale e un pugnale. Sguainò quest’ultimo e lo puntò sotto l’orecchio del medico.

“No, pazza!” gridò Saal, sconvolto. “Non fargli del male...”

“Seriema comanda,” replicò lei. E guardò Deyan, attendendo ordini. 

Lui si era rimesso a sedere. 

“Naysiak... lascialo.”

Lei obbedì e si inginocchiò alle spalle del medico, ma tenendo il pugnale pronto nella mano. 

Lui si rassettò gli abiti, con aria offesa. “Grazie, signore! Questa sayanni ignorante ha scambiato le mie cure per un attentato alla tua nobile persona...”

“Devi perdonarla, maestro. Non le piace che qualcuno mi si avvicini... con un pugnale.”

L’uomo ammutolì. In tutta Kelitha avvicinarsi a un nobile con un’arma senza avvertirlo era un delitto capitale. E anche se lì erano su Luna di Fuoco, la casa di Deyan era un frammento di quel continente dove gli usi tradizionali erano scrupolosamente applicati. 

“Quel pugnale non è mio!” esclamò il medico, e guardò Naysiak, con malevolenza. “Sarà stata sicuramente lei a metterlo tra le mie cose, per giustificare la sua aggressione!”

Naysiak fece un lieve, amaro sorriso. Deyan si stupì che lei non negasse: ma si ricordò di quanto le era servito, quando l’avevano accusata di aver rubato quello di Aydie...

“Sarà sicuramente come tu dici, maestro.”

Lui si rilassò, con aria soddisfatta. 

“Saal, paga quest’uomo, e accompagnalo all’uscita.”

“Ma... ma signore... non ti ho ancora cambiato la medicazione...”

“Ci ho ripensato. Sei congedato.”

Il medico impallidì, ma Deyan era stato chiaro e reciso... e l’etichetta kelith non ammetteva repliche, specialmente se il padrone di casa era un albino. Raccolse le proprie cose, si inchinò profondamente, si alzò e uscì, seguito da Saal con un’espressione perplessa in viso.

Deyan fece un profondo sospiro, passandosi una mano tra i capelli. 

“Seriema,” mormorò lei, “pugnale di kelith.” E lo posò davanti a sé, sul pavimento.

“Lo so,” annuì lui. “Non ne ho mai dubitato, non temere.”

Lei non alzò lo sguardo, ma il suo volto si distese. 

Deyan si girò ad aprire una cassetta accanto a lui, estraendone il necessario per scrivere: vergò rapidamente un messaggio con la sua calligrafia precisa e regolare, lo rilesse e lo arrotolò, riponendolo in un cilindro. 

“Quell’uomo è da tenere d’occhio," le disse, tendendoglielo. "So che sapresti seguirlo meglio di chiunque, ma mi servi qui; inoltre questa è una faccenda kelith, ed è meglio che ne occupino gli amici di Aydie. Fammi da messaggera, la squadra sa chi sei.”

“Ya, Seriema.”

Lei si alzò e prese il cilindro del messaggio. Poi fece per uscire. 

“Aspetta,” la fermò Deyan. 

Lei esitò, si voltò ancora verso di lui. “Seriema?”

“Perché non hai i tuoi abiti da guerriera?”

“Naysiak...” si corresse, “io lavoro di casa. Portare acqua da pozzo.” Si guardò la tunica. “Perdono per vestito.”

Era un povero indumento, ma lei l’aveva decorato lungo gli orli, con disegni tracciati con un colorante bruno: era sempre occupata a far qualcosa di artistico, anche con le cose più umili. 

“Come hai fatto a sapere che ero in pericolo?”

Tacque per qualche istante. “Io... animale.”

“No,” mormorò lui. 

I suoi occhi scuri si alzarono da terra, e la sua voce si abbassò. 

“Io Xarani.”

Deyan sorrise appena, rammentando un proverbio Shanì: L’orgoglio è come la sabbia, per quanto lo spazzi ti rimane sempre sotto ai piedi. 

La vide uscire, e rimase solo, a fissare l’intrico di disegni del tappeto sotto di sé. Poi si guardò le mani, affusolate ma dai tendini forti, con la loro geografia di zone sensibili e callosità, il sacrificio all’ideale estetico della sua razza che le avrebbe volute morbide e lisce.

Prendere l’acqua... 

Ricordava quando era toccato a lui fare quel lavoro. 

La vecchia casa di Ran non aveva un pozzo, bisognava andare alla fontana nella strada. Ran per qualche tempo mi risparmiò quel compito, per non umiliarmi, e lo sentii irridere e beffare per questo. Ma lo schiavo ero io, così un giorno presi i secchi e uscii per strada. Tutti mi fissarono, mormorando: volevano vedere il giovane di sangue reale servito per tutta la vita, che si apprestava a diventare servitore... mi resi conto che non avevo che un modo per sopportare quell’umiliazione: viverla con orgoglio. Come se fosse una mia scelta, e di nessun altro. 

Ed era lo stesso modo con cui l’affrontava Naysiak. Il segreto della sua dignità anche quando era costretta a dormire in cortile vestita di stracci, o portare secchi sui calli della spada. Perché per quanto portasse quel collare e faticasse come una sguattera, non scordava mai di essere una guerriera sacra.
E questo probabilmente gli aveva appena salvato la vita.

Deyan chiuse gli occhi un istante.

Forse avevi ragione tu, Ran.

 

 

 

 

 

 

Le condizioni di Nemel peggiorarono nei giorni a seguire. 

La sua ferita alla gamba non era sembrata particolarmente seria, e lui l’aveva trascurata. Pushpa l’aveva curata, estraendo la punta metallica che i kelith vi avevano conficcato, e aveva prescritto medicine, riposo e dieta adeguata per recuperare le forze e il sangue perduto. Ma Nemel aveva preferito festeggiare e far baldoria, assieme a tutti i suoi compagni, e all’ennesima sbornia lo trovarono addormentato accanto alle sue grucce... senza più riuscire a svegliarlo. 

Pushpa accorse, e quando vide la situazione divenne grigio in volto. La gamba di Nemel era gonfia, benché la ferita sembrasse richiusa; ma il predone ardeva di febbre e la sua pelle aveva una sfumatura verdastra. Senza perdere tempo, il t’yr lo fece trasportare nelle stanze di cura accanto al tempio delle Divinità, dove un cerusico esperto incise la ferita.

Scoprirono che il male aveva intaccato anche l’osso. 

Drenarono, bruciarono, pulirono tutto il possibile, approfittando dell’incoscienza di Nemel. La febbre scese, e il predone riprese i sensi: ma fu per rimpiangerlo. Il dolore era spaventoso, e Ran si disperava per l’amico. Chiese aiuto anche a Deyan, con la sua esperienza in narcotici, e lui gli mise a disposizione tutto quel che avesse.

Nemel ottenne finalmente un po’ di pace allucinata, e giacque oscillando tra coma e rari istanti di lucidità. Ma il suo corpo non rispondeva alle cure, e si indeboliva sempre di più. Pagava una vita faticosa, le tante vecchie ferite, il cibo troppo scarso e il vino troppo abbondante. Come tanti predoni, aveva vissuto come un uomo che non avesse un domani, e il suo fisico gli presentava il conto. 

Nessuno dei sayanni osò proporgli di amputare la gamba che lo stava uccidendo. Un guerriero poteva perdere qualche parte di sé, ma doveva restare abile al combattimento: se non lo era, era suo preciso dovere sollevare la società dal suo fardello, e uccidersi onorevolmente. A Nemel era però risparmiata anche quella delicata scelta morale, perché i suoi momenti di lucidità diventavano sempre più rari, man mano che le sue condizioni declinavano.

Era sempre circondato dai suoi amici, che non lo lasciavano mai solo e sopportavano la visione e gli odori della sua agonia. Era anche un modo in cui farsi coraggio: i sayanni avevano molta poca paura della propria morte, ma ne avevano tantissima della morte dei compagni, che erano la loro vera famiglia; ed esternavano i loro sentimenti con manifestazioni di dolore al limite del parossismo. Chat era ridotto a un fanciullo in lacrime, perché Nemel non lo riconosceva più e lo chiamava “madre”; e Ran era il ritratto della disperazione: tuonava, gridava, piangeva, si strappava i capelli. Deyan non poteva che assistere da lontano: come kelith non era il benvenuto in quella tetra veglia. 

Ci mandò Naysiak, e lei gli chiese il permesso di riprendere per un giorno il suo mantello da sciamana. Con quello sulle spalle, entrò nella stanza dove Nemel giaceva, e tutti si allontanarono lasciandola sola col moribondo, per la Danza dell’Addio.

Nel silenzio si udì solo il fruscìo dei suoi piedi sul pavimento, e la sua voce femminile che cantava. Una nenia sommessa, intima, antichissima, che tutti ascoltarono con le lacrime agli occhi. Era come la ninna nanna di una madre, che prendesse per mano le anime e le portasse via. E si sentiva una nota di dolce invidia, mentre le antiche parole si susseguivano nel canto, raccontando la pace gloriosa che attendeva là, nel mondo senza tempo e senza dolore...

Nemel si incamminò nel suo viaggio tra rutilanti piume azzurre, col sorriso sulle labbra. 

 

 

 


 

 

Quando tornò a casa, Naysiak restituì il mantello a un Saal cupamente silenzioso. Poi percorse le varie stanze, in cerca del suo Liberatore. 

Lo trovò nella stanza degli ospiti. Assieme a Ran, che giaceva sdraiato tra i cuscini.

Spalancò gli occhi, sorpresa. 

Gli sta tenendo la testa in grembo?!

Lui la guardò e si portò l’indice sulle labbra. Teneva tra le dita una stecchetta d’argento: accanto a lui, un piccolo vaso di cristallo era aperto, con una pasta verdognola. Davanti al volto di Ran finiva di fumigare la brace di un minuscolo incensiere: il profumo era intenso, aromatico.

Lei si inginocchiò silenziosa, guardando quella scena incredibile: il grande guerriero sayanni distrutto dal dolore, con la testa posata sulla tunica impeccabile di un albino kelith. 

Ran non piangeva più. I suoi occhi arrossati erano persi nel vuoto.

“Nessuno meglio di me conosce il valore dell’oblio,” mormorò Deyan; e coprì l’incensiere soffocandone il filo di fumo. “Khal... un istante di pace nel dolore... era tutto quel che potessi offrirgli.”

Quasi con una carezza, coprì con la mano gli occhi del sayanni.

“Adesso dormi, amico mio. Lasciati andare.”

“Nemel... Ne... mel...”

Ran non riuscì nemmeno a finire la frase, le sue membra si rilassarono. 

Deyan attese, con pazienza, finché non sentì il suo respiro farsi lento e profondo. Allora gli tolse la mano dagli occhi: erano chiusi. 

“Ecco,” gli sussurrò, con triste dolcezza. “Vola lontano, Ran delle Montagne. Fa’ riposare il tuo spirito. Il tuo corpo resterà qui, al sicuro.” Alzò gli occhi a lei. “Con noi.”

Naysiak ebbe un brivido a quel tono, alla tenerezza struggente di quelle parole. 

Questo diavolo bianco ha un cuore!

Contemplò quasi con stupore la sua figura elegante ed equilibrata, quel suo profilo cesellato, nobile, i bianchi capelli ondulati che gli sfioravano le spalle.

E seppe che da quel giorno non sarebbe mai più stata in grado di odiarlo davvero.

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Capitolo 16
*** Dove si alternano lacrime e sorrisi ***


 

 

 

“Tanto sarà tutto inutile,” ridacchiava la vecchia veggente, quasi schiacciata dal mantello di piume. 

Pinhasi, il Guerriero della Cometa che scortava la sua portantina, la guardò brevemente, intanto che sondava tutti i dintorni con i sensi all'erta. Non che qualcuno avrebbe mai fatto del male a una degli ultimi sciamani rimasti nella Città Sacra, ma le tradizioni si rispettavano. Un essere così importante doveva essere vegliato dal guerriero di più alta carica, quindi da lui. 

“Perché dici così, santa Hymirka?”

“Perché sono veggente,” ribatté la vecchia. “E quindi so bene che anche dicendovi la verità, non ci crederete. Penserete che sono i vaneggiamenti di una sciocca dopo una vita passata tra fumi acri, e bacche velenose.” Un cavernoso colpo di tosse. “Mentre non sono mai stata lucida come oggi...”

“Noi crediamo ancora ai tuoi poteri.”

“Il popolo crede ancora,” lo corresse lei. “Ma qui, tra le più sante delle pietre... chi parla in nome degli dèi si è dimenticato che questo non è l’unico dei mondi. Tu stesso sei un grande guerriero... e nient’altro. Una volta gli Xarani conoscevano il Mondo Magico, e alcuni erano grandi sciamani... con poteri inimmaginabili.” Una risatina chioccia. “Ma ora avete tutti quanti... fretta.”

Fretta? 

Pinhasi era stato strappato alla madre non appena svezzato, come tutti i suoi compagni; e aveva passato la sua esistenza ad addestrarsi. Ne aveva avute, di occasioni, per praticare la pazienza. 

E guardando quell’astioso mucchietto d’ossa coperto di piume azzurre, si rese conto di non aver ancora finito di praticarla. 

“Ormai conta il numero, non la qualità,” brontolò la veggente, con tono acido. “Mai visti tanti Xarani: niente più selezione come in passato... solo i palesemente inadatti vengono eliminati. Tu stesso forse non saresti sopravvissuto alle prove che si imponevano, prima del ritorno dell’Arca!”

La mitica Arca delle leggende?  Pinhasi sospirò. Povera Hymirka.

“Lo sai che una volta una sola ala del tempio era sufficiente ad accogliere tutti i Guerrieri della Cometa? Erano pochi... ma sufficienti per proteggere le Divinità, e anche per scendere sulle coste e castigare gli immondi kelith.” Un indice nodoso indicò un’intera distesa di edifici. “Adesso voi Xarani siete un esercito: forse che si sono moltiplicati Kamoh e Lilia? O qualcuno minaccia la loro preziosa esistenza?... No! La verità è che non proteggete più le Divine Persone... ma le loro voci. Che sono diventate tante... troppe.”

Il guerriero chinò il capo piumato. Era vero, la Città Sacra era diventata sempre più grande ad ogni generazione, ed ora era un immenso santuario che testimoniava la devozione di tutta una popolazione. Perché la veggente si adirava per questo?

“Tutto questo è stato predetto... più di mille cicli di soli fa!” sbraitava lei. “È scritto nelle Tavole delle Profezie, quelle che adesso quasi vengono nascoste nei templi... ricordi, guerriero? Bada, Cuore di Sayanna! La gloria è una, ma tanti la reclameranno. Dove c’è un sacerdote, ce ne saranno cento; dove c’è uno Xarani, ce ne saranno cento; dove c’è un tempio, ce ne saranno cento...”

“E dove c’è un nemico, ce ne saranno cento,” completò lui.

Lei emise una sorta di grugnito, come se Pinhasi non avesse capito niente di quell’antica ammonizione, e scosse la testa con riprovazione.

“Significa solo che da un solo grande nemico... sono nati cento piccoli nemici.” Una smorfia di disprezzo. “Non ci fa più paura Kelitha la Depravata, divisa tra i suoi viziosi signori bianchi occupati a complottare e a guerreggiare tra di loro. Tu, grande guerriero cresciuto per combatterli, non ne vedrai mai uno in tutta la tua vita...” Una risata sdentata. “Io invece uno l’ho visto: un giovane ardito, con una cicatrice su una guancia... ah se fossi stata ancora fanciulla, per cantare con lui il lamento di Nyliuk!”

“Veneranda Hymirka!” mormorò Pinhasi, scandalizzato. 

Era una ballata nata nella notte dei tempi, che era stata messa all’indice per immoralità in quanto trattava un argomento indecente come l’amore, per di più tra razze diverse. Tuttavia ogni sforzo per estirparla del tutto era stato vano: quella turpe storia riusciva magicamente a tramandarsi di generazione in generazione.

“Non sono sempre stata vecchia, sai?” Lei ridacchiò. “E noi sciamani abbiamo il sangue caldo... perché in noi brucia il fuoco della vita.”

“Ti prego, santa Hymirka!” Pinhasi si guardò intorno, preoccupato che altri ascoltassero le farneticazioni oscene della veggente. “Siamo in un luogo sacro.”

Lei scrollò le magre spalle. “Era sacro anche il mio santuario, dove ho visto il mio bel diavolo bianco. E non in sogno, ma in carne ed ossa, e nonostante tutto il vostro stuolo di presuntuosi Figli della Cometa a proteggermi!”

Lo Xarani tacque, educatamente.

“Oh, lo so, non c’erano prove...  e i testimoni sono morti. Ma non mi importa se non ci credi. Questo non rende meno reale il mio incontro con lui... e con un alto sayanni che non aveva tutti i tuoi tatuaggi, ma che aveva il potere.”

“Quale potere?”

“L’unico che vale la pena di chiamare tale, sciocco d’un guerriero.” 

Quello di attirare altri poteri intorno a sé!

La portantina arrivò a destinazione, e fu delicatamente posata a terra. La vecchia non si mosse: attese che Pinhasi stesso si chinasse e la prendesse tra le forti braccia, cosa che lui fece con delicatezza e premura. 

“Sei un uomo retto, figlio mio.” La voce della vecchia era appena udibile. “Perdona le mie chiacchiere. Servono solo a farmi... chiudere gli occhi su ciò che è diventato questo posto... la nostra gente.”

“Non siamo mai stati tanto uniti e potenti, venerabile Hymirka.”

Pinhasi cominciò a trasportarla nel santuario, sentendo la sua fragilità estrema tra le braccia. 

“Tu non la vedi, ma intorno a te... la corruzione dilaga. Santi uomini si sfidano per ottenere più potere. I valori in cui credevamo sono ormai solo formule vuote... ripetute senza cuore. Sayanna la Pura... Sayanna la Santa! Bah! Pura e santa solo tra il povero popolo... dove molti ormai vi voltano le spalle, diventando vostri nemici. È più probabile che tu uccida un bravo sayanni che un vile kelith. Ed è giusto, questo?”

“Il nostro compito è castigare i peccatori.”

“Un giorno ti ordineranno di castigare anche me.”

Pinhasi si fermò, colpito.

“Questo è impossibile, Hymirka.”

“Già, perché arriverai tardi. Io sarò già morta.” Una quieta risatina. “Ma... forse incontrerai un’altra Hymirka.” Un sospiro. “Una cometa tornata dal passato, dopo un lungo viaggio...”

“È questa la tua visione?”

“Che ti importa? Attenderai che i saggi te ne diano l’interpretazione ufficiale. E diranno ciò che loro conviene. Tu lo accetterai senza discutere, e obbedirai a qualsiasi ordine, pensando... che il tuo dovere di Xarani sia solo questo.”

“E non lo è, venerabile?”

Lei lo guardò con i suoi occhi acquosi, con un sorriso antico. 

“No.”


 

 

 







 

 

 

*











 

 

 


 

 

 

Era ancora notte fonda quando Naysiak percepì dal suo giaciglio i movimenti delle schiave. Non che questo fosse inconsueto: gli albini erano esseri notturni, e solo le necessità di Luna di Fuoco avevano reso Deyan più diurno dei suoi consimili. Ma gli avevano anche devastato il ritmo circadiano, rendendo del tutto erratici gli orari del suo riposo: spesso si limitava a brevi sonni sparpagliati tra giorno e notte, finché non crollava e dormiva da tramonto a tramonto. Tutta la sua casa si era naturalmente adeguata a questa sua bizzarria, con la tipica rassegnazione kelith. 

Naysiak aprì gli occhi, con uno sforzo deliberato: era la festa dell’Unione, la più solenne del calendario religioso sayanni. Lei non avrebbe potuto partecipare ai riti, chiusa com’era in quella casa di pellebianca miscredenti; ma avrebbe ugualmente pregato dal muro di cinta, bruciando profumi e cantando, con lo sguardo fisso ad oriente fino al sorgere dei due soli in congiunzione. 

Si raddrizzò dalla sua stuoia, sbadigliando... 

E trovò intorno a sé quattro ragazze, tutte adornate e truccate, con grandi sorrisi sui volti perfetti.

“Ben svegliata, signora,” cinguettarono in coro, come se lei fosse stata una Prima tra le Prime. 

Lei le guardò, incredula. Signora?

La schiava Tre, che a detta delle compagne aveva una vera e propria passione per lei, fece da portavoce per tutte. “Il padrone ha detto che oggi è una giornata speciale per te. Ci ha ordinato di servirti.” 

Gli occhi di Naysiak si riempirono di allarmato sconcerto. 

È uno scherzo? 

Le ragazze la circondarono, le offrirono salviette umide e profumate per rinfrescarsi il volto e il corpo, una tazza di infuso purificante, la aiutarono a sciogliersi i capelli e a pettinarli di nuovo, intrecciandoli e appuntandoli secondo il complicato schema di festa, indicato da un disegno di Pushpa. 

Poi apparve Ibal, barcollando: teneva tra le braccia un mucchio di cuoio e metallo, e sudava dallo sforzo. Lo posò col massimo garbo possibile davanti a lei.

“Il padrone ha pensato di farti cosa gradita restituendoti questa per l’occasione.”

Lei ebbe un tremito, rendendosi conto che non era uno scherzo... che era veramente la sua armatura!

Oh, Liberatore!...

Si coprì gli occhi con le mani, troppo emozionata per parlare. Tre naturalmente ne approfittò per confortarla con un abbraccio, e Naysiak scoprì di averne bisogno... quasi stritolò la ragazza, facendola boccheggiare in estasi. 

Poi guardò l’eunuco con occhi lustri. “Potere... vestire?”

Ibal annuì, sorridendo suo malgrado di fronte a tanta felicità.

Lei scattò in piedi e si mise frettolosamente a indossare l’armatura, dopo aver cinto il perizoma: le schiave cercarono goffamente di aiutarla, benché non sapessero nulla di come si allacciavano tutte quelle stringhe addosso a lei, e mormorassero al peso di ogni pezzo. 

Poi l’accompagnarono davanti a uno specchio, affinché potesse vedersi. E lei restò senza fiato, a riconoscersi finalmente dopo così tanto tempo. Non più la schiava in stracci, o la guerriera delle foreste...

Naysiak degli Huanai, Figlia della Cometa, Guardiana Sacra delle Divine Persone.

Allacciò la cintura della spada intorno ai fianchi, accarezzò quella superficie di tessere metalliche che, obbedienti, seguivano il profilo del suo corpo senza intralciarne i movimenti: era la sua seconda pelle, che tornava a splendere assieme al suo spirito, e davvero poteva sembrarle che non fossero passati tutti quei cicli dei soli, tutta la sofferenza dell’eterna reclusione, e del risveglio...

Poi si voltò, vedendo le schiave fissarla in silenzio, stupefatte. E Ibal stesso si inchinò, quasi intimorito. Era incredibile quel cambiamento, da misera serva a splendente dea della guerra, dorata e azzurra.

“Sei bellissima,” ansimò Tre, tutta rossa in faccia. “Sembri un grande condottiero.”

Ibal le porse cerimoniosamente l’elmo. 

“Il padrone mi ha ordinato di dirti che stasera ti regalerà una cerimonia del bagno.”

Lei lo guardò, esterrefatta. 

I kelith erano molto puliti, anche in quella casa dove vigeva la ferrea disciplina sull’acqua tipica della gente del deserto. Ma proprio per quella parsimonia il loro bagno era così speciale da essere considerato un lusso, e per quello la vasca di Deyan era così bella. Una volta lei era andata di soppiatto a vederla, toccando l’acqua per godersi lo scintillio di tutte quelle mattonelle colorate, e fissare lo sguardo oltre di esse, come in un pozzo delle visioni... e quando l’avevano sorpresa l’avevano punita duramente, perché aveva osato contaminare il bagno del padrone.

E lui ora le regalava la possibilità di bagnarsi in quella stessa, magica vasca...

“Abbiamo l’ordine di darti quanto di meglio una donna del nostro paese possa desiderare,” spiegò Ibal. “Avrai quindi profumi, massaggio, vesti e gioielli, musica... il servizio di una Prima Signora.”

Tre la guardò, famelica. “Ti laverò io, Tredici, con le mie mani.”

Ibal sorrise con condiscendenza. “In via eccezionale, il padrone ti concede anche di disporre delle sue schiave secondo il tuo piacere. Se le vorrai per i giochi tra femmine, non si opporranno.”

“Giochi?...” 

“Quelli del tuo popolo... o i nostri, se vorrai che le schiave te ne insegnino qualcuno.” 

Le ragazze ridacchiarono maliziosamente.

“Il padrone ti ha fatto procurare anche dei cibi rari... dal mare, perché ha saputo che sei nata sulle sue rive.” Ibal fece una smorfia. “Ha anche assunto un cuoco per la giornata, perché noi Shanì non siamo pratici di creature dell’oceano, né di quelle grosse conchiglie che chiamate myrni: spera che la sua opera sia di tuo gradimento.”

Lei era sempre più sbalordita. Myrni? L’ultima volta che aveva assaggiato quel delizioso mollusco, Kelitha era ancora un impero, sotto l’antenato degli antenati di Deyan...

“Naturalmente oggi sei esentata da ogni lavoro manuale. Puoi andare al tuo tempio, a festeggiare assieme alla tua gente. Torna quando lo desideri.”

Lei temperò la sua felicità.

“Non potere andare, Ibal-ji. Posto di me qua. Seriema in pericolo...”

L’eunuco la guardò per la prima volta con qualcosa di simile al rispetto, vedendo quanto teneva al suo signore. 

“Non aver paura per lui. Ha deciso di non uscire dalle sue stanze e non ricevere nessun estraneo, affinché tu non debba temere per la sua sicurezza e possa goderti appieno questo giorno di libertà.”

A Naysiak si chiuse la gola dalla commozione.

Un padrone che si rinchiudeva per far felice una schiava. E un giorno indimenticabile per riconciliarla con la vita, dopo un millennio trascorso a maledirla.

Oh, Liberatore... è questo il dono che vuoi farmi?

 

 

 

 

 

 






 

 

 



 

 

 

Deyan aveva preso quella decisione qualche giorno prima.

Aveva sentito la voce di Naysiak, in cortile. Sapeva che per lei era uno strumento potente, addestrato a tutte le esigenze della liturgia e della guerra. Quel giorno però era una carezza: ripeteva all’infinito la stessa frase secondo la tradizione dell’antico canto sayanni, col suo ritmo altalenante.

Na-ni, na-ni, nikka ji, hakinijanna ni, taitanai mahé, na-ni, na-ni...

Ed era un suono quasi amorevole, che aveva lavato via le pesanti emozioni di quei giorni. 

Saal aveva ordinato a un servo di uscire e farla tacere, ma Deyan l’aveva fermato. Era sceso lui stesso, incuriosito dal quel canto. L’aveva trovata seduta accanto al pozzo, le trecce legate a mazzo sulla testa, sudata dopo i suoi esercizi; stava riparando il laccio spezzato di un mocassino, con un sorriso quasi sognante sulle labbra.

Il suo cuore si sta intenerendo, come dicono le mie schiave? 

L’aveva chiamata, e lei si era raggelata, smettendo di colpo di cantare. A Deyan era sembrato di aver spento un focherello buttandoci sopra brutalmente un sacco di sabbia...

Si aspetta sempre il peggio, da me.

Riteneva però di non meritare quella diffidenza. Naysiak era tutto quel che un padrone kelith non avrebbe mai voluto in una schiava, e lui era stato piuttosto conciliante con lei... molto più di quanto le dure usanze prescrivessero. Una sola volta l’aveva fatta frustare sul serio, ma poi l’aveva fatta curare invece di farla rotolare nel sale, come avrebbe fatto qualsiasi altro kelith di fronte alla sua impertinenza (o impalare, come avrebbe fatto qualsiasi altro nobile). Le aveva concesso di uscire dalla shanda, di rivolgere la parola agli uomini, di essere armata accanto a lui, di potergli parlare in pubblico, le aveva fatto mantenere i suoi costumi, e non l’aveva mai toccata, benché avesse tutti i diritti di usarla a piacimento... 

Cosa pretende di più?

Le aveva parlato, ma lei non aveva staccato gli occhi da terra: c’era in lei qualcosa di simile alla tristezza dell’animale domato. Aveva risposto con deferenza, usando un linguaggio elementare, ma sempre più elaborato a ogni giorno che passava: lui si era complimentato per la rapidità con cui stava imparando la nuova lingua, e lei aveva avuto un’espressione amara, che gli aveva fatto intuire perfettamente il suo pensiero.

Stupito che quest’animale sia anche intelligente?

Invece gli aveva detto che era tutto merito di Pushpa come insegnante. E notando che si portava ancora la mano al fianco, gli aveva suggerito di prendere il t’yr anche come medico personale: finché non avesse chiarito la questione con i kelith, era meglio fidarsi di un sayanni che gli era già amico.

Era stato un consiglio pieno di buonsenso, e lui si era stupito di non averci pensato prima. E considerando anche che era stata fedele, onesta e volenterosa, e aveva sventato una probabile minaccia alla sua vita, aveva pensato di ricompensarla.

“Sono tra gli uomini più ricchi di Luna di Fuoco,” le aveva detto. “Chiedimi un dono qualsiasi, e io ti accontenterò.”

Si era maledetto nello stesso istante in cui finiva di pronunciare quella frase, perché si era reso conto di quanto avrebbe potuto costargli quel momento di generosità... 

Mi chiederà di morire. Come mi ha sempre chiesto, sin da quando mi ha giurato fedeltà!

Ma ormai aveva dato la sua parola... si era rassegnato a ricevere quella tremenda richiesta, pensando con angoscia a Ran che si stava appena riprendendo dal lutto per Nemel. 

Ma stavolta lei non gli aveva chiesto il permesso di uccidersi. Aveva esitato, a lungo, poi aveva alzato gli occhi al cielo con una strana, malinconica espressione.

“Kainì, Pa’ekin-ji. Naysiak-ki imaa ekka hanai...”

Infine aveva guardato Deyan con un triste sorriso, e gli aveva domandato solo un’okka di resina aromatica, e il permesso di andare sulle mura prima dell’alba, per bruciarla e cantare la sua preghiera agli dèi.

Lui era rimasto sorpreso. “Una manciata di profumo da bruciare? Nient’altro?”

“Altro Seriema non volere dare.”

“Ci sono molte cose, tra il nulla e il tutto.”

Aveva scosso la testa. “Schiava non avere desiderio di cose. Schiava volere solo.... momento di dimenticare.”

“Dimenticare cosa?”

“Dolore.”

Era seguito un lungo istante di silenzio tra loro due. 

“Sia,” aveva mormorato Deyan. “Se è questo che vuoi, l’avrai.”

Almeno per un giorno, dimenticherai il dolore.

 

 













 

 

“No, per favore, basta!” disse Ran, alzando una mano per respingere il servo che gli porgeva di nuovo il piatto. “Sono sazio. Per gli dèi, mi toccherà slacciare la cintura...”

“Non mi sembra che tu abbia mangiato molto,” notò Deyan, lavandosi le dita nella ciotola di acqua profumata davanti a sé. “Ricordo ben altre prestazioni del tuo stomaco: forse il cibo che ti ho offerto non era di tuo gusto?”

“Al contrario,” disse lui. “Era tutto così buono da farmi dimenticare che un bravo sayanni mangia solo per nutrirsi, e non per il piacere di mangiare.” Si lavò le dita a sua volta. “Del resto l’amore kelith per la buona tavola è un altro dei segni della vostra inarrestabile degradazione morale: o almeno così ci viene insegnato.“

“Povera scusa per inorgoglirvi della vostra dieta monotona,” ribatté Deyan. “Poi, quando voi sayanni assaggiate la nostra cucina decadente... finite col preferirla alla vostra.”

“È vero,” sogghignò Ran, “E confesso di essere un peccatore.”

Deyan si rilassò sui cuscini, conficcando uno stecco d’argento in un dado di fresco melone.

“Lo trovo confortante.” 

Ran alzò un sopracciglio, prendendo la sua coppa di vino speziato. Conosceva quell’attitudine del suo amico, che lo faceva tanto somigliare a un bianco felino in agguato. 

Ha qualcosa in mente, non c’è dubbio... 

Ma sapeva che non gliene avrebbe parlato: l’etichetta kelith bandiva dalla tavola qualsiasi conversazione troppo seria o impegnata. Il pasto era un momento di riposo anche per la mente e il cibo reclamava il giusto rispetto. Soprattutto quel cibo, che non avrebbe avuto uguali su tutta Luna di Fuoco. 

Ran sorseggiò il suo vino e si voltò verso la finestra, da dove entrava la fresca aria della sera. La musica trapelava dalla shanda risuonando per tutta la casa: un tema gioioso di strumenti a corda. Era intercalata da mormorii e risatine femminili, e da un grido di protesta vagamente scandalizzato. 

“No!... No, detto no... io non fare gioco kelith!”

Ran non poté fare a meno di sorridere, riconoscendo quella voce. “Grazie, Deyan-shir.”

“Di cosa?”

Indicò la finestra. “Di questo.”  

“Ero stanco di sentirla solo soffrire. Le ho regalato un giorno di vacanza dal suo dolore.”

“Sei stato generoso. E non solo con lei, ma anche con me... e con tutti i sayanni di Luna di Fuoco.” Chinò la testa con un sospiro. “Se solo il povero Nemel fosse sopravvissuto, per vivere una giornata come questa...”

Per lui era cominciata prima dell’alba: da ostinato ribelle qual era, si era rifiutato di vegliare, ma l’avevano destato le grida emozionate dei suoi compatrioti: nel tempio delle Divinità Duali c’era una Guerriera della Cometa in armatura! 

Lei?!

Si era scaraventato fuori dal giaciglio, correndo insieme a tutti gli altri verso il tempio. Vi era arrivato senza fiato, trovando i sayanni accalcati in religioso silenzio attorno a una figura scintillante che pregava. Poi la sua voce magica si era alzata nel canto sacro, che non era mai cambiato dalla notte dei tempi...

Lui aveva pianto di emozione, senza curarsi di nasconderlo. 

Poi lei aveva sguainato spada e pugnale, e si era offerta per il combattimento rituale: un onore millenario che aveva lasciato senza fiato gli astanti, perché quello era un rito che si compiva solo nella Città Sacra. Sei sayanni di casta guerriera si erano subito presentati per sacrificare le loro piume alle Divinità, tramite quel duello che non avrebbero mai potuto vincere: Naysiak gliele aveva prese con onore dimostrando il suo incredibile talento, in un combattimento incruento. 

Anche Ran si era presentato, desideroso di mostrarsi degno di una simile amicizia. Aveva scelto il pugnale, e si era impegnato al massimo per cercare di sconfiggerla... il suo era stato il duello più prolungato e spettacolare. Ma forse era stata lei a volerlo così, perché quando aveva deciso di concluderlo lui si era trovato battuto come tutti gli altri; i sayanni l’avevano comunque acclamato, e lei gli aveva fatto un cenno di approvazione. Poi era andata a guidare l’inizio della processione, tra un tripudio di canti, nella più memorabile delle feste dell’Unione mai celebrate su Luna di Fuoco...

“Ran?”

Si scosse. “Scusa. Hai detto qualcosa?”

Deyan sorrise. “Non ha importanza.” 

“Perdonami.” Un sorriso confuso. “La mia mente... era lontana da qui.”

“Desideri concludere la cena? 

“Se questo non ti offende.”

“Sei mio ospite, la mia casa è tua.” Attese che Ran si alzasse per primo, secondo l’etichetta, e lo fece a sua volta, portando la mano destra sul petto. “Ti ringrazio per l’onore che mi hai fatto, sedendoti alla mia tavola.”

Lui fece un breve inchino. “L’onore è mio, e tua la mia gratitudine.” 

Deyan gli lanciò sguardo d’approvazione. “Ormai le tue maniere kelith sono impeccabili, Ran. Potresti cavartela anche tra ospiti altolocati.”

“Non mi interessano, ho già il piacere di frequentare il più altolocato di tutti.”

Lui sorrise e batté le mani, segnalando alla servitù che il pasto era finito. 

“Spostiamoci nella mia stanza di conversazione,” disse, facendo strada all’amico. “Ti servirò del rati per aiutare la tua digestione, ci rilasseremo e parleremo liberamente.” 

Lo fece entrare in quell’elegante saletta, nella quale erano già state accese le lampade ad olio profumato. Ran si accomodò sul suo cuscino preferito, mentre un servo portava il fornello per la preparazione del rati, la calda bevanda dolce e speziata tipica di Shana. Accese il fuoco sotto al bricco dorato, già riempito d’acqua, e dispose le tazze sul vassoio. Quindi si allontanò. 

Deyan si sedette a sua volta, un’isola di sobria seta scura tra le stoffe colorate dei cuscini. Dalla finestra giungeva l’eco del canto di una delle sue schiave, a creare un’atmosfera magica.  

“Sono lieto che tu abbia accettato il mio invito a cena. Sei smagrito, amico mio.”

“Ho concluso solo tre giorni fa il periodo di digiuno in onore di Nemel. Ma non devi preoccuparti: sono forte, e poi il mio stomaco ricorda ancora i digiuni che facevo per motivi assai meno nobili...”

“Hai perso molti amici in vita tua?”

“Quando scappi con una condanna a morte sulla testa, è come se perdessi tutto ciò a cui tieni in un colpo solo.... amici compresi. E tutti.” Un sospiro. “A parte questo, sono stato anche abbastanza fortunato, per essere un guerriero. Pochi i compagni per cui ho pianto. Ogni volta... ho sperato che fosse l’ultima, ma so che non è così. La nostra è una vita pericolosa.” Gli occhi blu si  abbassarono. “E so benissimo che prima o poi un altro mio caro amico... andrà a corteggiare la morte.”

Deyan si irrigidì appena. 

“Non negarlo,” mormorò Ran. “E... non nascondermelo, come hai fatto l’ultima volta.”

Ci fu un istante di silenzio tra i due. 

“È la trappola che Jenna mi ha messo davanti, per vendicarsi di me,” ammise alla fine Deyan, a voce bassa. “Ma anche sapendolo, non posso evitarla. Devo tornare a Shana.”

“Quando partirai?” 

“Solo quando avrò chiuso i conti con chi ha cercato di vendermi all’Augusto Consorzio. O lo rifarebbe ancora... e questa volta mi sarebbe fatale.”

“Chi è il tuo nemico?”

“Non lo so ancora, ma sospetto qualcuno della Fratellanza...”

“I mercenari kelith?!”

“Avevo comprato la mappa di Zakkara da loro. Molti sono informatori di professione, come tu ben sai: lo fanno per noi predoni, ma hanno le conoscenze per farlo anche in senso inverso: in fin dei conti l’unico segreto che non venderebbero mai è quello del Vortice, perché altrimenti si troverebbero abbandonati dai Marjaban; ma il resto è un’altra faccenda.”

“È una cosa ignobile!” esclamò Ran. “Contraria allo spirito della Comunità...”

“Che è fatta in gran parte di fuorilegge senza scrupoli, occupati a cercare il proprio profitto.”

La calma con cui Deyan accettava l’amoralità altrui era per Ran la sua caratteristica più kelith. 

Si grattò la testa, perplesso. “Sicuro che sia qualcuno di Luna di Fuoco?”

Deyan annuì. “Jenna non era a Zakkara per caso. E non solo sapeva dove avremmo attaccato, ma anche quando. E io questo l’avevo deciso quando quel nobile doveva essere già in mare, o non avrebbe fatto in tempo a raggiungermi...”

“Non è possibile usare il Vortice per raggiungere una nave in mare: i Marjaban accettano solo destinazioni sulla terraferma. Quindi quel traditore dev’essere per forza sceso a Zakkara con noi: se i Maghi Neri ci dicessero chi altri si è fatto trasportare da quelle parti...”

Deyan scosse la testa. “Sai bene che non rivelano mai i dettagli dei viaggi che vendono: la riservatezza è parte del patto, e ogni destinazione è segreta.” Si alzò per prendere gli ingredienti del rati da un’artistica cassetta. “Certo, niente impedisce ai predoni di sapere in altro modo dove qualcuno si è diretto; e seguire un nemico sul mondo, dove le nostre leggi non valgono, è un sistema come un altro per risolvere i nostri conflitti.”

“Conflitti?” mormorò Ran. “Ma tu non ne hai mai avuti, con i kelith di qua!”

Un amaro sorriso. “Valgo troppo, Ran. Jenna mi ha fatto capire la tentazione che suscito in troppa gente. Qualsiasi cosa mi riguardi sposta un’ingente ricchezza... e infatti è questa, la pista che intendo seguire. Ho già messo Aydie e i suoi al lavoro, per spiare chi mi spia.” 

“E quando scoprirai chi è?”

Gli occhi rossi si strinsero in uno sguardo affilato come una lama.

“Qualcuno imparerà il motivo per cui quelli come me vengono chiamati Diavoli Bianchi.”

Ran rabbrividì, e tacque. 

Le perle di metallo sul fondo del bricco cominciarono a cantare, segno che l’acqua stava per bollire. Deyan si accostò al fornello: aveva sempre preparato lui il rati per Ran, sin da quando era diventato il suo liberto: era un gesto d’affetto, e insieme d’onore. Aprì il coperchio del bricco e vi versò la giusta quantità di miscela, aggiunse profumatissime foglie di spezia e pasta dolce, richiuse il coperchio e spense il fuoco.  

“Non pensare a questo, Ran,” disse, vedendo l’espressione pensierosa dell’amico. “Lascia a me questa sciarada tra infidi kelith. È vero che forse sei, assieme a Pushpa, il sayanni che più comprende la mia gente; ma il suo lato oscuro non può che sfuggire a un cuore limpido come il tuo.”

“E il tuo cuore non lo è, Deyan-shir?”

“Molti dicono che noi albini non abbiamo un cuore: solo un muscolo che ci tiene in vita.” 

Ran lo guardò prendere il bricco e scuoterlo gentilmente, poi versare il liquido quasi goccia a goccia nelle tazze smaltate. 

Molti si sbagliano, perché tu ce l’hai... anche se lo nascondi gelosamente.

Deyan gli porse la tazza. “Accantoniamo questi discorsi tristi: oggi è un giorno di festa per la tua gente... e anche per questa casa; e voglio vederti sorridere, non angosciarti o pensare a ciò che non puoi cambiare.”

Ran accettò la bevanda, con gratitudine. 

“La tua dev’essere l’unica casa kelith dove si fa festa per una nostra ricorrenza...”

“E perché no, quando il mio miglior amico è sayanni?” Uno sguardo sornione. “E non solo lui.”

Batté le mani, facendolo trasalire.

“Saal!”

La porta si aprì immediatamente. “Padrone?”

Deyan finse un tono severo. “Ho un ospite con me: dov’è la mia guardia del corpo?”

Saal si inchinò, nascondendo un sorriso. “Questo servo l’ha già fatta chiamare, sta arrivando.” 

Ran posò frettolosamente la tazza, si lisciò il farsetto nuovo, ornato di borchiette splendenti, e si passò una mano tra i capelli per essere sicuro di essere in ordine. Poi sistemò le armille d’argento ai bicipiti, e i bracciali di pelle in modo che mostrassero correttamente le decorazioni in corallo. Controllò che gli orecchini fossero a posto, poi intercettò il sorriso divertito di Deyan.

“Non preoccuparti, Ran: secondo i canoni sayanni, sei uno degli uomini più attraenti di Luna di fuoco... anche senza tutti i tuoi orpelli da guerriero.”

“Sciocchezze,” brontolò. "Mi prudeva giusto qui," e si grattò sotto l'orecchio. 

La porta era rimasta aperta. La voce di Saal sibilò: “Corri!”

Si udirono i passi leggeri e affrettati di piedi nudi, ritmati da un tintinnio musicale...

E Naysiak entrò, trafelata. “Perdono, Seriema!

“Sei scusata, ma solo perché il mio ospite è un... ”

Non completò la frase, guardandola sbalordito. 

Aveva segretamente ordinato a Ibal di farla bella per far colpo su Ran; l’eunuco aveva obiettato che una povera barbara non era fisicamente adatta alle cure estetiche delle donne civili, ma d’altra parte non si sapeva nemmeno se esistesse, un’estetica sayanni... così lui e le schiave avevano lavorato di improvvisazione.

Dopo il bagno l’avevano massaggiata con oli profumati, fino a far rilucere la sua pelle come seta, e le avevano infilato addosso un lungo e morbido abito kelith color di rosa, sbracciato e scollatissimo, di un tessuto così lieve che il suo corpo azzurro si intravedeva nella trama; la cintura della spada ne era un bizzarro complemento. Il collare le era stato lucidato, le avevano allacciato ai polsi e alle caviglie delle fasce di seta con graziosi sonaglini d’oro che risuonavano ad ogni movimento, e le avevano anche spruzzato polvere dorata intorno ai grandi occhi: lei doveva aver opposto resistenza, perché le era finita un po’ dappertutto, dandole uno strano aspetto da notte stellata. I suoi capelli umidi e strofinati di balsami erano ancora sciolti, perché astutamente non le avevano dato il tempo di intrecciarseli come al solito, e Deyan si accorse per la prima volta di una stranezza che non aveva mai notato prima...

Ha i capelli ricci!

Era una caratteristica assolutamente inconsueta tra i sayanni, che normalmente avevano capigliature abbondanti, ma lisce. Forse era vero che Naysiak avesse qualche goccia di sangue Marjaban nelle vene. 

Un’occhiata a Ran, e fu chiaro che la sorpresa aveva fatto il suo effetto. 

Visto, amico mio? Adesso non puoi più fingere che lei non sia una femmina e tu non sia un maschio. Vediamo se finalmente superi i tuoi scrupoli sayanni, e diventi l’uomo di cui lei ha bisogno per smettere di pensare soltanto alla morte.

Lui squadrava con aria esterrefatta quella strana fata atletica e tatuata, confrontandola con la guerriera in armatura con cui si era battuto quella mattina.

“Sei... proprio tu, Xarani?” chiese, in tono incerto.

Lei annuì, con un sorriso tutto fossette. “Benvenuto, Randanai.”

“Per gli dèi, sorella, ma... ma come ti sei conciata?!”

“Vestito dono di Seriema,” rispose lei con assoluto candore, come se quell’abito raffinato non fosse che un’altra versione della sua tunichetta da lavoro. Una carezza ai capelli. “Perdono per non treccia, ma Randanai amico, ni?”

Andò nel suo solito angolo (mostrando quella meravigliosa cascata di riccioli neroblu, che giungeva fino alla curva delle natiche che peraltro, essendo lei nuda sotto al vestito, si intuivano perfettamente), cercò di sedersi a gambe incrociate, ma l’abito la impacciava: dovette raccogliersi con le gambe sotto di sé, in una posa graziosissima, e portò la spada sulle ginocchia, scostando la massa di capelli su una spalla e scoprendo l’altra; la spallina del vestito si abbassò in maniera seducente su un seno, senza che lei ci facesse caso.

Deyan era incredulo a ciò che vedeva.

E questa sarebbe la mia barbara feroce che si veste di pelli e scotenna i nemici?

Ran era evidentemente turbato da quella selvaggia femminilità rivelata tutta d’un colpo, e il suo imbarazzo era così grande da sembrare addirittura comico. 

Si girò appena di fianco, come per non doverla vedere; colse lo sguardo di Deyan, e gli ringhiò in tono d’accusa: “Che ti è saltato in mente, dannato kelith?! Volevi prenderti gioco di lei?”

“No!” disse lui in tono reciso, vedendo gli occhi di Naysiak dilatarsi con uno sguardo allarmato. “Non ho inteso insultarla. Volevo soltanto farle un dono, e non sapendo cosa potesse piacerle... le ho offerto ciò che una donna del mio paese troverebbe bello e desiderabile.” Si rivolse a lei. “Credimi, Naysiak. Volevo solo farti contenta.”

Lei lo guardò negli occhi, come per leggergli dentro. E annuì, con un sorriso adorabile. 

Dea Benedetta, cosa diavolo aspetta Ran a chiedermi di dargli una donna come questa...

Ma lui fissava ostinatamente il pavimento davanti a sé, con la faccia violacea, come se cercasse di pompare la propria indignazione per resistere a quel fascino. 

“D’accordo, sorella. Le intenzioni erano buone. Ma un po’ di senso della decenza!... Capisco che sei in una casa di scostumati pieni di vizi, ma sei sempre una Guerriera Sacra, non dovresti giocare a fare la schiavetta da shanda!”

Deyan trasalì a quella definizione così brutale della sua casa: ormai era raro, sentire Ran ricadere nei vecchi stereotipi contro il suo popolo. In quanto al suo rimprovero, una donna kelith avrebbe taciuto, vergognandosi...

Ma Naysiak non era una donna kelith.

“Randanai non dire cosa io deve fare.” Uno sguardo altezzoso. “Randanai padrone di Xarani?” 

Non ancora, pensò Deyan, segretamente divertito.

“Se fossi il tuo padrone, non ti permetterei certo di abbigliarti come una... come una...” 

Non finì nemmeno la frase, troppo indignato.
       Ma lei alzò il mento, orgogliosa. 
“Regalo Seriema piace a Naysiak. Io mettere, Randanai non piace, Randanai non guarda.” 

“Ti rendi conto che sei ridicola?” sbottò lui, decidendosi finalmente a guardarla. 

“Randanai ridere?” Lei lanciò un’occhiatina allusiva ai suoi larghi pantaloni, e Ran avvampò. “Allora io anche ridere.” Sorrise, sfacciata. “Tutti ridere. Giorno di festa.”

Deyan portò le dita alla fronte, ridacchiando suo malgrado. 

Oh, Naysiak. 

Era la seconda volta che riusciva a incrinare il suo serio contegno. C’era qualcosa di così spontaneo e irresistibile nella sua impertinenza, quando era allegra...

Ran contemplò quella sua rarissima ilarità con aria offesa. 

“Accidenti, Deyan-shir!... Questa da te non me l’aspettavo! Ho sbagliato a credere che volessi prenderti gioco di lei: sono io la vittima di questo tuo scherzo grottesco!”

“Quale scherzo?” fece lui, ricomponendosi a fatica. “Davvero, Ran: mi sembra che tu te la stia prendendo un po’ troppo. Nessuno qui ha mai voluto il tuo male. Né io, ne la povera Naysiak.” Gliela indicò. “Guardala: ha sofferto così tanto... e oggi che è felice, tu le rimproveri anche la gioia di un semplice vestito, indossato nell’intimità delle mura di una casa?”

Lui le rivolse uno sguardo incerto. Naysiak gli sorrise, stavolta con dolcezza: i riccioli ribelli le erano ricaduti intorno al viso; era incredibile come ammorbidissero il suo volto, che non sembrava più così tondo...

“Pace, Randanai?”

La faccia del sayanni era lucida di sudore.

“Pace,” mormorò, con un grosso respiro. 

Deyan non aveva ancora toccato la sua tazza di rati. La prese e la tese verso di lei, con un cenno benevolo.

“Bevete insieme,” disse. “E suggellate questa pace.”

Lei lo guardò con occhi sorpresi. 

“Seriema, non potere. Io solo schiava...”

“Sei la persona che sta più a cuore all’unico vero amico che ho.” Uno sguardo a Ran, la cui faccia era quasi incendiata. “È un brav’uomo, leale, forte, e onesto più di quanto un predone forse dovrebbe essere. Bevi con lui.” La vide in dubbio, e soggiunse, con dolcezza: “È un ordine.”

Lei sorrise. “Ya, Seriema.”

Si alzò con un movimento elegante, tra un tintinnio di sonaglini. Riportò la spada sul fianco: la luce della lampada dietro di lei rivelò tutte le trasparenze del suo vestito. Si avvicinò con passo lieve a Ran, sprigionando una nube di profumo, e si sedette con grazia davanti a lui. Si girò a prendere la tazza dalle mani di Deyan, stando attenta a non toccargli le dita, e con un gesto cerimoniale la sollevò quasi alle labbra, attendendo che Ran prendesse la sua e facesse altrettanto. 

Ma Ran non guardava la tazza. Guardava lei, i suoi piedi nudi ornati dalle cavigliere, la nebbia rosa che avvolgeva le sue gambe lisce, e più in alto, dove non c’era traccia di alcun perizoma...

Spalancò gli occhi e si portò le mani al ventre. 

“Che ti succede?!” mormorò Deyan, sorpreso. 

“Niente... niente...” Strinse i denti, la faccia violacea. “Non è... niente.”

Prese la tazza con mani tremanti, e la vuotò del liquido ormai quasi freddo. Anche lei lo fece, guardandolo negli occhi: sembrava quasi un rito di nozze. Restò sorpresa all’aroma del rati, che non aveva mai provato prima in vita sua: le piacque, e con la punta della lingua si sfiorò le labbra generose per sentire il gusto dolce che vi era rimasto...

Ran sbarrò gli occhi. Poi si piegò in avanti, con un gemito. 

Naysiak posò la tazza, preoccupata. “Randanai male?” 

Si chinò premurosa su di lui, e Ran si trovò a guardarle direttamente dentro la scollatura.

Emise un ruggito e si piegò ancora di più, artigliandosi l’inguine. 

“Maledizione!” gemette. “Per Kamoh e Lilia, toglimi questa strega Xarani dalla vista, Deyan-shir!”

“Strega?...” mormorò lei. “Io non sapere parola...” 

“Non importa, te la spiegherò dopo.” Deyan prese con urgenza la tazza dove Ran aveva bevuto, fiutandola. “Forse qualcuno è riuscito ad avvelenare...”

“Sì!” gridò Ran. “E sei stato tu! Potevamo chiacchierare in pace... e tu hai fatto venire questa dannata femmina svestita!”

“E da quando in qua vedere una femmina svestita ti dà fastidio?” chiese lui, perplesso. “Hai visto Naysiak nuda o quasi più di una volta...”

“Ma lei adesso non è nuda, non lo vedi, dannato d’un kelith?! È peggio che nuda!...” Ansimò, quasi disperato. “Accidenti, ormai sei su Luna di Fuoco da tempo, sai come siamo fatti noi sayanni, sai come sono fatto io... devo proprio spiegarti tutto?!”

Finalmente Deyan capì, e sprofondò nell’imbarazzo. 

“Ti chiedo umilmente perdono.”

Si alzò di scatto, prese per un braccio la stupita Naysiak. Lei lo guardò, incredula che lui l’avesse addirittura toccata: doveva essere una cosa veramente urgentissima!

“Presto, vieni via.”

La trascinò fuori da quella stanza, lasciando Ran a bestemmiare, e si infilò di nuovo nella sala da pranzo. Il servo che stava rassettandola li guardò con tanto d’occhi...

“Fuori!” sibilò lui, con un tono che qualsiasi kelith avrebbe trovato pericolosissimo. 

Il servo scappò a gambe levate.

Deyan lasciò Naysiak e si passò una mano tra i capelli.
       “Oh, Dea... che errore che ho commesso.”

Lei lo guardò: non aveva mai visto tante emozioni tutte insieme sul suo viso. Era come se non sapesse scegliere cosa provare tra costernazione e ilarità.

Abbassò la voce a un sussurro. “Seriema, pericolo?” Un’occhiata intorno, come se potesse penetrare le mura con lo sguardo. “Io non sente nemici.”

“Non hai capito cos’è successo?”

Lei scosse la testa.

“Ma perché con voi sayanni dev’essere tutto così complicato?” Un sospiro esasperato. “Ascolta, Naysiak: è meglio che Ran non ti veda più con quel vestito. Pensavo di fargli piacere...”

“Fare piacere a Randanai?” Lei lo guardò, senza capire. “Vestito e... cura di schiave per Naysiak. No?”

“Sì,” ammise lui, “ma pensavo che anche a Ran sarebbe piaciuto vederti così. Invece ne è rimasto turbato.”

“Perché Randanai odia cose di kelith?” Lei scosse la testa, con un sorriso incredulo. “Ma Randanai mangiare cibo di kelith, bere acqua di kelith, avere... amico kelith!”

“Non so se mi considererà più un amico, dopo questo.”

“Io non capire, Seriema.”

Deyan dovette ricordarsi che lei era una vergine sayanni, quindi completamente all’oscuro di tutto ciò che aveva a che fare col sesso...
       Cercò con attenzione le parole adatte. 
“Vedi, Naysiak... a noi kelith piace la bellezza, e quel che ti abbiamo fatto ha esaltato la tua. Ran è un maschio adulto, forte e sano, e la tua vicinanza ha provocato... una certa naturale reazione fisica nel suo corpo.” 

Lei annuì, pur essendo chiaro che ancora non capiva. 

“Lui però è vergine. Quindi ha provato... dolore a guardarti.”

“Dolore?” fece lei, corrugando le sopracciglia. 

“Alla... Membrana.”

I suoi occhi si dilatarono. “Io... fatto male a Membrana di Randanai?!” 

“Del tutto involontariamente,” si affrettò a dire lui. “E non credo che ci siano stati... danni. Ma puoi capire il motivo per cui Ran era così... arrabbiato.”

Lei ebbe uno sguardo smarrito. “Arrabbiato, sì! Onore, pericolo! Povero Randanai! Perché?” Si lisciò la stoffa delicata addosso. “Vestito kelith perverso?”

“È solo un pezzo di tessuto, nient’altro...”

“Allora Randanai perverso?”

“No, assolutamente. È un bravo sayanni e non ha mai avuto problemi di questo genere.”

Lei si guardò. E poi guardò lui, con l’accusa negli occhi.

“Seriema perverso.”

Deyan sospirò: era l’inevitabile conclusione. Non era lui il kelith per antonomasia?

“Le mie intenzioni erano diverse, Naysiak, e non c’era nulla di perverso in questo. Non puoi dare la colpa a me se hai ispirato desiderio in un uomo pronto per le nozze...”

“Desiderio?” Lei rabbrividì. “Cosa kelith. Io sayanni! Randanai sayanni. Corpo normale! Perché cosa di kelith fare corpo perverso? Perché tutto di kelith fare cose perverse?!” Le spuntarono le lacrime agli occhi. “Io volere solo giocare, una volta, una volta in tanta vita... e fatto male a onore di amico... io cattiva!”

“No,” mormorò lui, colpito dal suo dolore. “Non sei cattiva. Non hai fatto nulla di male. Sei una donna, e Ran è un uomo... per quanto voi sayanni vogliate fingere di non aver sesso, siete creature viventi come tutte le altre.”

“Come animale,” sussurrò lei, piena di vergogna. “Io animale... fatto sentire Randanai animale.”

Si abbassò frettolosamente le spalline del vestito.

“Che fai?” esclamò Deyan.

“Naysiak toglie cattivo vestito kelith.”

Se lo sfilò dalle braccia in un concerto di sonaglini, poi cercò di slacciare la cintura della spada che glielo serrava sui fianchi: la cascata di riccioli rotolò dalle sue spalle sul seno scoperto e cosparso di scintille dorate...

Dea misericordiosa!...

Lui la fermò con un gesto urgente, prima che si sfilasse del tutto il vestito. “No,” le disse con pazienza, come a una bambina da educare. Prese le spalline per rimetterle a posto. “Rivestiti, svelta...”

La porta si aprì e Saal apparve, con un vassoio tra le mani. 

Vide Deyan con una femmina sayanni mezza nuda tra le braccia; e con le spalline del suo vestito in mano.

Lasciò cadere rumorosamente il vassoio e si coprì gli occhi con le mani. 

“Ma, padrone!...” osò protestare, con voce indignata. 

Deyan si sentì arrossire. Non era difficile immaginare come Saal avesse interpretato la scena....

Il padrone che si accoppia fuori dalla shanda?! E... con una barbara?!

Chiuse gli occhi, resistendo a stento alla tentazione di imprecare. Se avesse fatto anche quello, Saal avrebbe pensato che il suo signore aveva completamente perduto il senno.
       Contò mentalmente fino a dieci, inspirò profondamente e si calmò.

“Saal.”

“Padrone...”

“Tu non hai visto niente. Chiaro?”

“Questo servo... non ha visto niente.”

“E quindi non dirai una parola su quel che è successo in questa stanza.”

“Seriema,” mormorò lei, guardandolo smarrita.

“Zitta.” Finì di sistemarle la veste, con eroico distacco. “Adesso torna nella shanda. E non preoccuparti per Ran: la colpa di tutto questo equivoco è soltanto mia. Gli offrirò le mie scuse.”

Lei chinò lo sguardo. “Seriema dire Randanai Naysiak chiede perdono.”

“Tieni a lui, Naysiak?”

Lei esitò. Poi annuì lievemente. “Randanai grande cuore.” 

“Allora vedrai che ti perdonerà, e tutto sarà dimenticato.”

Lei si voltò e uscì, passando di fianco a Saal che teneva gli occhi ben chiusi. Sulla porta si voltò brevemente a guardare Deyan da sotto ai riccioli, con occhi pieni di dolce tristezza. 

“Grazie per tutto, Seriema.”

Poi se ne andò, lasciando dietro a sé una scia di profumo.

Tutto sarà dimenticato...

Deyan sapeva di aver mentito. Nessuno di loro avrebbe dimenticato. 









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Piccola annotazione: ho ricevuto una fanart su questa storia.
Non ci sono parole per esprimere la mia sorpresa: questa è una storia originale, quindi priva di fandom!
La cosa mi ha commosso, anche perché devo confessare un mio handicap: sono priva di ogni talento di visualizzazione. Tecnicamente cieca. Se devo "pensare" oltre alla scrittura, mi è più facile far musica che costruire un'immagine. Quindi, che ci si creda o no, non ho mai avuto la minima idea di che faccia avrebbero i vari personaggi che descrivo (e vale anche per le fanfiction, nonostante lì almeno si parta dall'idea originale del creatore). 
La gentile V.B. (ho solo le sue iniziali) mi ha mandato la sua personale versione di Deyan (il suo personaggio preferito), che allego qua in formato ridotto. Non posso dirle se lui è proprio così, perché non lo so nemmeno io. :)
Però grazie di cuore per questo regalo inaspettato, V.B.



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Capitolo 17
*** Dove alcuni hanno ciò che si meritano ***



(Chiedo scusa per il lungo stop, ma nella mia vita paradossale l'estate è il periodo dell'anno in cui ho meno tempo per seguire veramente i miei interessi. Non ho però rinunciato a continuare questa storia.)



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Tasia varcava il cancello sacro della shanda. 

Si muoveva in un silenzio teso, fiancheggiata dagli eunuchi, avvolta nella sua veste luccicante e impenetrabile, che infagottava il suo magnifico corpo rendendolo impossibile da indovinare; e con la maschera ben calcata sul volto, ma la candida capigliatura raccolta a cupola sul capo, e ben visibile.

I simboli del suo essere albina, essere donna, ed essere soprattutto la Prima tra le Prime. 

Non c’era in lei l’emozione che tutti si aspettavano: molte donne avevano reazioni estreme, il primo giorno che uscivano dalla shanda. Alcune piangevano di commozione o in preda all’isteria, altre tremavano di paura ed esitavano ad affrontare il mondo esterno, altre ancora ridevano follemente o dovevano essere portate fuori a braccia; quasi tutte cercavano istintivamente di nascondersi.

Lei non faceva nulla di tutto questo. Incedeva tranquilla, col suo passo lento e maestoso. Sorrideva appena, godendosi il suo trionfo senza esultare. 

Prima tra le Prime. 

Caso più unico che raro nell’intera Kelitha, per lei non era la prima volta: era sempre stata scelta come Prima tra le Prime dai suoi precedenti padroni. Perché non solo era bellissima, ma l’anziano eunuco del conte Ersha aveva intuito il suo talento, e l’aveva anche istruita. Tasia quindi era ben più del solito animale da letto: elegante e sicura di sé, aveva appreso a conversare, ascoltare, osservare e utilizzare la propria intelligenza, distinguendosi così da tutte le altre schiave in ogni shanda in cui era finita. 

Le era stato insegnato che la sua esistenza dipendeva unicamente dal suo padrone; la propria importanza dalle sua, la sua fortuna dalla sua felicità, il suo successo dal potere che avrebbe ottenuto sulle altre schiave. Ricordava sempre quello strano animale che il vecchio eunuco le aveva mostrato nel suo giardino: una lucertola volante che cambiava colore a seconda del luogo su cui si posava. 

Questa è la tua maestra, bambina mia. Devi fare come lei.

E le aveva spiegato che la lucertola cambiava colore solo per istinto. Ma un essere intelligente doveva fare di più: decidere quale fosse la superficie a cui conformarsi. Molti si conformavano al costume, all’ambiente, alle credenze, alle tradizioni, alle mode... 

Tasia si conformava unicamente ai desideri del padrone.

Mi feci raccontare tutti i dettagli della gioventù del principe Estsen. Così, quando venne a scegliersi una schiava per la notte, mi presentai in mezzo alle altre vestita da ragazzo, col costume di un paggio Kayumi.... e lui scelse me.

Essere diversa dalle altre, farsi notare. Vincere la fiducia del padrone, rendersi a lui indispensabile e poi, una volta raggiunta la maschera di Prima delle Prime, provvedere a controllare la shanda, fino a diventarne l’incontestata regina. Tasia aveva dimostrato più volte di avere questo talento. 

Ma non aveva mai immaginato di poter sedurre un maschio anche al di fuori di quel mondo chiuso e geloso, l’unico in cui poteva mostrare la sua accecante bellezza. Invece il suo fascino era riuscito anche in quell’incredibile impresa. Certo, c’era voluto un nobile come Deyan-shir per percepirlo. Un essere straordinario per molti aspetti... compresi quelli più deleteri. 

Come ha osato desiderarmi?

Era sicura di non avergliene dato alcun modo: con lui era stata educata ma irraggiungibile, come doveva essere una Prima tra le Prime. Certo, aveva segretamente osservato la sua figura elegante: si era chiesta come sarebbe stato avere un padrone giovane e bello come lui, invece degli uomini già maturi o vecchi che aveva servito sin da piccola. Ed era rimasta commossa a cogliere nel suo viso impassibile uno sguardo ardente, un’ammirazione misteriosa che l’aveva lusingata, proprio perché non poteva venire dall’esposizione della sua bellezza.

Ah, se fossimo stati soli io e lui...

Eppure sapeva che l’adulterio era qualcosa di totalmente impossibile, tra i nobili. Il solo pensiero aveva il sapore della morte. Nel segreto della shanda aveva attirato Estsen nel proprio letto, sfogando con lui i propri pericolosi desideri e lasciandolo ignaro e soddisfatto. Poi, più calma, aveva riposto le sue fantasie nel mondo delle cose impossibili, costringendosi a pensare soltanto al suo signore. 

Ma questo non aveva impedito al suo ospite di pensare a lei. 

E quella notte...

Rabbrividì, al ricordo. Un istante di autentico piacere. Annegato in una tempesta di vergogna, dolore, e giorni e giorni pieni soltanto di terrore.

Mi hanno considerato colpevole al pari dell’uomo che mi ha violato. 

E quel che gli avevano fatto le aveva tolto il gusto di odiarlo: cosa poteva augurargli di peggio? Non aveva neppure fatto in tempo a esultare per la gioia di averla avuta, sia pure con l’inganno: un istante dopo era già nelle mani dei torturatori. Poi era stato rapito, riscattato, privato del suo rango, marchiato a fuoco, ignominiosamente fustigato in pubblico, venduto per servire in un bordello... aveva pagato carissimo quel momento di incredibile passione per lei. Il suo spaventoso dolore aveva dato fama imperitura al nome della donna che l’aveva causato, e lei si era trovata ad esserne amaramente lusingata. 

Tasia, La Bellissima, colei per cui un principe perse tutto. 

Anche lei aveva perduto tutto, una Prima tra le Prime non scendeva dal suo trono se non per entrare nella sua tomba: tale era la convenzione presso la nobiltà kelith. Secondo ogni logica quindi Estsen avrebbe dovuto ucciderla, ma forse la morte non gli era sembrata abbastanza per il disonore che aveva patito. Aveva ricevuto un’incredibile offerta in oro da parte del signore di un paese che ormai odiava e disprezzava...

Gamosh-shir.

Sembrava infatti che il principe di Shana non aspirasse ad altro che a possedere quella femmina, ed Estsen aveva provato una torbida soddisfazione a cedergliela, convinto che quella fosse una punizione peggiore della morte. La crudeltà di Gamosh era infatti ormai leggendaria: un terzo delle schiave della sua shanda non sopravviveva a un rivolgersi delle stagioni. 

Ma proprio per via del disprezzo che aveva per le sue donne, il posto di sua Prima tra le Prime era ancora vacante. E Tasia aveva deciso di puntare a quel titolo. Non aveva dovuto usare nessun trucco per attirare l’attenzione di Gamosh, perché bastava il fatto di essere stata di Deyan per renderla speciale. Pochi incontri con lui, e aveva scoperto che dietro la ferocia di quell’uomo c’era un inconfessabile senso di inferiorità, che aveva plasmato la sua intera esistenza. Il suo animo era tormentato da una ferita perenne nel suo orgoglio; il suo desiderio più ardente, piegare un’indomabile maestà che in realtà ammirava, chiedendo, anzi implorando la sua approvazione e considerazione...

E lei l’aveva accontentato, comportandosi come lui segretamente voleva. 

Era un gioco pericoloso, perché comportava un po’ di sfida, e qualche esperienza di dolore era da mettere in conto: ma lei si era indotta a goderlo come una spezia; e dopo le prime volte a recitare, aveva scoperto di non averne più bisogno: la violenta eccitazione di certe situazioni la compensava di qualche livido o escoriazione. Giorno dopo giorno Gamosh aveva finito per intossicarsi di lei: era affascinato dallo scandalo che rappresentava; in soggezione davanti alla sua esperienza, e incantato dalla sua educazione che faceva di lei ben più del solito animale senza cervello. La chiamava per nome, unica tra tutte le femmine della sua shanda, e si fermava a dormire da lei trascurando i letti delle altre schiave. Tasia vegliava per essere sempre regale e perfetta al suo risveglio, quando le avrebbe raccontato dei suoi grandi progetti di cui non comprendeva nulla, ma che ascoltava fingendo di approvare. Si era accorta dell’immensa solitudine di quell’uomo acido e amaro, del suo desiderio inconfessabile di essere amato. Gliene aveva data l’illusione. 

Guardami, padrone, sentiti bene con me, e fammi vivere, lasciami vivere, lasciarmi esistere ancora...

Sapeva benissimo che quando non erano più appetite o appetibili, le albine bevevano il loro vino alla sera, e al mattino non si svegliavano più. Una ruga, un difetto fisico, una gravidanza troppo faticosa, una malattia... e si procedeva, in silenzio e senza sofferenze. L’aspettativa di vita delle ragazze dai capelli bianchi era quindi molto corta, a paragone di quella delle donne del popolo a cui era consentito di invecchiare: una manciata di cicli di soli e svanivano nel nulla, spesso senza neanche arrivare alla piena maturità. Erano addestrate a considerare questo assolutamente naturale: l’ignoranza in cui erano mantenute addolciva il loro triste destino, condizionandole a pensare unicamente al presente, e a considerarsi delle privilegiate. Ozio e lusso erano compensazioni adeguate per una vita così effimera.

Ma io non voglio che sia effimera!

Era di nuovo la Prima tra le Prime di un principe. Con un po’ di attenzione, avrebbe potuto vivere fino alla sua morte: e Gamosh non era ancora vecchio. Le sue gambe erano piene di vene gonfie e bluastre, che sulla pelle d’albino risaltavano sgradevolmente, e i reni funzionavano male: ma con un po’ di cura avrebbe potuto durare ancora a lungo...

E devo generargli un figlio al più presto, un erede al trono: così lo legherò completamente a me.

Sperava di essere ancora capace di procreare: in tutta la sua vita era stata ingravidata una volta sola, ma nel momento sbagliato. L’eunuco con lei aveva cercato in tutti i modi di nascondere e proteggere quella gravidanza, ma lei non aveva voluto rischiare di perdere la perfezione del suo corpo per un figlio di cui non era certo chi fosse il padre. Aveva fatto in modo che Estsen sapesse che era incinta: l’ordine di abortire era arrivato immediatamente, e quel che era uscito dal suo grembo era stato chiuso in un vaso, per essere gettato oltre il confine con Shana.

Rabbrividì.

Non pensare a quel bambino, Tasia, non pensare, non pensare...  

Arrivò alla fine del lungo corridoio e i servi separarono le grandi cortine di velluto, facendole frusciare nel silenzio. 

Gamosh era lì, che la guardava soddisfatto mentre i cortigiani erano pietrificati in un sorriso agghiacciato. Molti avevano sconsigliato a Gamosh quella palese provocazione di un vicino: Estsen non avrebbe gradito affatto trovarsi davanti la propria ex-moglie in un’occasione ufficiale. Gamosh avrebbe potuto tranquillamente godersi quella donna in privato, senza clamore, e molti imbarazzi sarebbero stati evitati...

Il principe non li aveva ascoltati. Anzi, aveva provato piacere all’idea di sfidare le convenzioni dell’Augusto Consorzio in un modo tanto clamoroso. Che tutti sapessero che il letto di Estsen era territorio di conquista Shanì: e se il principe avesse voluto obiettare, tre divisioni in assetto di guerra erano pronte al confine con Itka, e in una tenda del loro accampamento un albino nerovestito e mascherato attendeva ordini...

Il capo degli eunuchi picchiò a terra il suo bastone ornato di campanelli e proclamò con voce acuta e solenne:

“Salutate la nobile Tasia, Prima tra le Prime dell’eccellentissimo principe Shana-iban-Unari Gamosh-shir!”

Tutti chinarono appena il capo, vergognandosi di farlo per una donna, e soprattutto per quella donna. Lei li ignorò: avanzò nel silenzio e sorrise al suo signore, con un inchino perfetto.  

Devo essere felice. Devo sentirmi felice. 

Sì, era bello sospirare sugli antichi manuali dell’erotismo, che rappresentavano invariabilmente amanti nobili dai tratti raffinati, con occhi rapaci e corpi forti e flessuosi, capaci di far gridare di piacere le ragazze a cui si avvinghiavano... ma erano solo favole, e lei aveva imparato a temere il momento in cui si avveravano. 

Addio, Deyan-shir.

Non voleva più saperne della passione, non voleva più pensare agli altri suoi padroni, al bel giovane che l’aveva desiderata al punto di distruggere quasi entrambi... voleva pace, voleva ricchezza, voleva sicurezza; voleva la vita. 

E Gamosh, sia pure con le sue crudeltà e le sue manie, il suo corpo sgraziato e pesante, il suo alito sgradevole e la sua incapacità di sostenere più di un coito ogni due giorni, era tutto questo.

Me lo farò bastare.






*






Un urlo umano filtrò tra le rocce, riverberando ed espandendosi nel silenzio della desolazione, dove la torrida aria asciutta lo assorbì disperdendolo. 

Ran, seduto all’ombra di tre immensi macigni bizzarramente incastrati insieme, si sentì a disagio. La sua gente sapeva essere brutale e non aveva molti scrupoli quando si trattava di punire un nemico; ma quando era il momento si andava per le spicce, senza trascinare a lungo la faccenda. 

Per i kelith le cose erano diverse, naturalmente: non avevano mai fretta. C’era sempre una componente di piacere nel loro modo di infliggere sofferenza, ed era questo che disturbava la mentalità sayanni.

Con i pellebianca ogni cosa diventa peccaminosa, anche la morte.

Guardò i kelith con lui: sogghignavano nervosamente. Molti rimpiangevano di non poter assistere allo spettacolo. Aydie, seduto con le spalle all’ingresso della caverna, canticchiava una canzone Kayumi mentre si preparava una foglia di spezia da masticare. 

“Anche uomini molto istruiti commettono errori molto sciocchi,” disse, filosoficamente. 

Nafur, esperto mercenario ed ex pretoriano alla corte del principe di Adara, era andato da solo a sollazzarsi nel quartiere dei bordelli kelith. Ne era uscito nel colmo della notte, contento e distratto. Così non si era accorto di una figura scura che l’aveva seguito tra i vicoli, e quando l’aveva sentita era stato troppo tardi. 

Era un soldato esperto, con una vasta esperienza sul campo di battaglia. Ma non gli era servita a nulla: prima ancora che potesse gridare si era trovato disarmato, abbattuto, legato e imbavagliato; e solo un istante prima che il suo avversario gli calcasse un sacco sulla testa, Nafur aveva visto che aveva la pelle azzurra.

“Kelith non buono guerriero,” aveva sentenziato un'assurda voce di fanciulla. 

E due braccia forti l’avevano sollevato come un pacco, portandolo via.

Nessuno si era accorto di nulla. 

L’avevano portato nella desolazione, molto lontano dall’abitato: un luogo inospitale che ben pochi si erano peritati di esplorare, non contenendo nulla di utile. Il mercenario era stato trascinato in un luogo chiuso e pieno di echi, e legato saldamente a un grosso masso orizzontale. Gli avevano tolto il sacco dalla testa e il bavaglio, e si era trovato in compagnia di un piccolo gruppo di predoni della Squadra Sacrilega, e dei suoi due capi. 

Deyan era vestito di nero, come un carnefice;  la sua testa bianca catturava la luce delle torce con cui la caverna era illuminata. La sua voce era riverberata nel silenzio, calma e inespressiva. 

“Grazie per essere rimasto su Luna di Fuoco, Nafur. Quando hai saputo che sia io che Ran eravamo riusciti a tornare da Zakkara, avresti potuto scappare in qualche angolo di Kelitha e non tornare più: nessuno avrebbe potuto impedirtelo. Invece sei stato così avventato da rimanere: evidentemente ho sottovalutato la tua audacia... e tu il genere di nemici con cui avresti avuto a che fare.”

“Non so di cosa tu stia parlando, signore! Sono solo un informatore, e i miei clienti sono sempre stati contenti di me...”

“Quali clienti?” aveva chiesto Ran, con voce minacciosa.

Nafur aveva stretto le mascelle. “Mi spiace, ma le transazioni di noi informatori... sono riservate.”

Deyan aveva fatto un pallido sorriso. “Niente è riservato quando in palio c’è una grossa somma, dovresti saperlo. Un informatore non rivela le sue transazioni? Non importa: si paga un altro informatore che le scopra. È quel che ho fatto, ed è risultato che i tuoi clienti sono i nobili dell’Augusto Consorzio.”

“Cosa?! Ma io... io...”

“Quando siamo arrivati a Zakkara c’era una nave kelith ad aspettarci. E non è stato un caso: Jenna-shir era lì apposta per me. C’è solo un modo che spieghi come i nobili sapessero con tanta precisione i miei movimenti. E un solo uomo in grado di trattare con dei principi... uno che ha vissuto vicino a loro. Un pretoriano.”

Nafur li aveva guardati, in preda al panico. “Non sono il solo ad aver lavorato per un nobile!... Come potete affermare che sia una spia? Che prova avete?”

“I cinquecento Astri che hai incassato di recente. Nessuno su Luna di Fuoco è in grado di pagare una cifra simile per un’informazione che ci riguarda.” 

“Ci... cinquecento Astri?!... Io non li ho mai avuti...”

“Il denaro lascia sempre tracce, Nafur. Nessuno meglio di te dovrebbe saperlo.” Lo sguardo di Deyan si era fatto tagliente. “Noi albini non ci intendiamo solo di belle schiave e buoni vini: siamo educati a governare. Io dovevo ereditare una nazione, e i miei maestri mi hanno insegnato tutto sull’uso delle spie, sulla corruzione, e su come uomini che si reputano furbi nascondono le loro ricchezze.”

Nafur si era irrigidito, pallido come uno straccio. 

“Già, le ricchezze. Credevi che fossero importanti solo per te? So che molti mi odiano per la mia origine; ma come predone sono rispettato, perché finora non ho sbagliato un solo colpo. Ho comprato informazioni e le ho pagate bene e puntualmente, e la Fratellanza non ha mai avuto motivo di lagnarsi di me. Tutto è andato bene e ognuna delle parti si è arricchita, finché non sei arrivato tu con la tua idea... vendermi la mappa di Zakkara con una mano, e vendere me e Ran a Deera con l’altra!”

“Carogna sleale,” aveva ringhiato Ran. “Lo sai cosa mi avrebbero fatto, se mi avessero catturato?!”

Nafur l’aveva guardato, come se si fosse accorto solo in quel momento di lui. 

“Non gli interessava,” disse Deyan. “Tu non sei niente per lui, solo un barbaro che per qualche strano gioco del destino è diventato famoso. Io invece sono uno dei nobili che lui tanto odia, perché è stato a causa loro che si è trovato degradato e costretto a lasciare il suo comodo posto di guardia di palazzo. Sia tu che io avremmo avuto un destino peggiore della morte, e sarebbe stata la fine della nostra Squadra Sacrilega. Nafur non avrebbe sentito la nostra mancanza... ma non ha considerato il fatto che suoi confratelli non l’avrebbero pensata allo stesso modo. Sarebbe stato come se lui avesse tagliato un albero per venderne la legna, dimenticando tutti coloro che vivevano dei suoi frutti.”

Il prigioniero aveva tremato, comprendendo la trappola che Deyan gli aveva costruito intorno. 

“Così non mi è stato difficile raccogliere le prove che lo inchiodassero. E siccome ho in progetto di continuare a riprendermi ciò che la mia gente mi ha tolto in Kelitha... non posso tollerare una loro spia alle mie spalle.” Si era chinato sul prigioniero. “Quindi, Mastro Nafur, devi morire. Ti avrei eliminato nel modo che noi adepti di El adoperiamo per i traditori... ma il mio amico Ran ha un credito di sangue con te perché a causa tua ha perduto un amico. Non potevo defraudarlo della sua vendetta: quindi sarà lui a ucciderti.”

“Non potete,” aveva protestato lui. “Le regole di Luna di Fuoco...”

“... ci vieterebbero quel che stiamo facendo,” completò Deyan. “Ma qual’è lo spirito di quelle regole? Conservare l'ordine. E chi le custodisce?... Ti abbiamo rapito in segreto, ma nessuno può nascondere qualcosa ai Marjaban. Essi sanno tutto, anche che sei una spia: hai comprato da loro i tuoi spostamenti e c’era un solo motivo per cui potevi voler andare a Zakkara prima che ci andassimo noi. Secondo il loro uso non sono intervenuti, rimanendo ad attendere gli eventi. Ora però sono inquieti: la prossima volta potresti vendere altri segreti di Luna di Fuoco, forse ancor più delicati... non è meglio per loro voltare la testa, far finta di non vedere, e lasciare che Ran e io facciamo pulizia eliminando un potenziale pericolo per tutta la Comunità?”

Nafur aveva guardato in quegli occhi rossi, privi di misericordia; e la sua voce era tremata.

“E se ti sbagli, Deyan-shir?... Se invece i Marjaban inchiodassero te e la tua squadra qui, su Luna di Fuoco, per sempre?... Potrei aver lasciato tracce che tu non hai considerato, e il tuo crimine non essere così segreto come credi. Una volta risaputo che tu uccidi chi ti intralcia, i Marjaban non potrebbero più far finta di non vedere. Ti ritroveresti incapace di fare qualsiasi missione, e i tuoi uomini ti abbandonerebbero; le tue risorse prima o poi si esaurirebbero, e finiresti nuovamente su quel banco degli schiavi dove il marchio che porti ti ha sempre destinato! Sei proprio sicuro di voler correre questo rischio?!...

Deyan l’aveva guardato con un’alzata di sopracciglia.

“Sì, Nafur. Sono disposto a correrlo.”

Aveva sciolto un involto di cuoio, disponendolo accanto a sé. Dentro Ran aveva visto il luccichio metallico di alcuni strumenti misteriosi...

Anche Nafur li aveva visti, e la sua faccia era diventata verdastra. 

“Che... che significa... ”

“Ho detto che sarà il mio amico Ran a mandarti tra le braccia della Misericordiosa...” Deyan aveva fatto un remoto, sottile sorriso. “Ma sarò io a insegnarti ad amarla: alla fine la invocherai con tutto il tuo cuore. Benché mi sia capitato di rado di esercitare l’antica arte con le mie stesse mani... ho visto abbastanza per sapere come si fa.” 

“Dèi del profondo, Deyan-shir,” aveva esalato Ran.

“Non temere, amico mio: avrai la tua vendetta, te l’ho promessa. Ma anch’io mi prenderò la mia, per tutto quel che mi è costato il tradimento di quest’uomo.” Aveva scelto una lama affilata, terminante in un uncino. “Per colpa della sua avidità il nobile Jenna-shir è morto, e la dea che venerava è adirata. C’è un solo modo per placarla.”

“La... dea?!.. no... no signore, no...”

Shi-El, Nafur.” 

Un brivido era sceso nelle schiene di tutti. 

“Nooo!!!...” aveva urlato Nafur, e si era contorto contro le corde in uno spasimo di puro terrore: aveva rivolto a Ran uno sguardo disperato. “Ti prego, sayanni, uccidimi, uccidimi... sono colpevole, è vero, è vero, guardami, sono colpevole, usa la tua lancia, spaccami il cuore, ora, subito, ti prego...” 

Ma lui non si era mosso.

Allora aveva cominciato a gemere e a smaniare, mentre Deyan si copriva il capo con un drappo nero, e cominciava a recitare una lunga preghiera nella sua ermetica, musicale Lingua Antica. Ran non capiva le parole, ma ne sentiva il potere: era un’invocazione solenne e insieme intima, la consacrazione di una vittima per una divinità assetata di sangue...

I kelith si erano affrettati ad andarsene, lasciandolo solo; e Ran si era trovato sospinto da essi fuori dalla caverna, senza tanti complimenti. Solo in quel momento si era accorto che non era l’unico sayanni presente: anche Naysiak era stata scovata dal suo nascondiglio, dov’era stata fino a quel momento a sorvegliare il suo padrone, ed era stata trascinata fuori quasi a forza.

“Svelti, o la sua dea prenderà anche voi!...”

Ran non aveva mai visto tanta paura negli occhi di uomini che pur erano predoni, avvezzi a guardare in faccia la morte. E non aveva opposto resistenza, lasciandosi condurre fuori da lì: dopotutto nemmeno lui aveva voglia di restare a vedere cosa intendesse Deyan per vendetta. 

Una volta all’aria aperta, nella luce accecante del giorno, lui e Naysiak si erano guardati. Lei non era bella in quel momento: sporca di polvere, il corpo malridotto dipinto a strisce nere, come una tigre, gli abiti di pelle macchiati, il collare da animale. Ran aveva distolto lo sguardo, impiegando qualche istante a ritrovare un equilibrio nella ridda di sentimenti che provava, e quando aveva rialzato gli occhi... lei non c’era più. 

“Dov’è andata?!” aveva chiesto ai kelith intorno a loro.

Aydie aveva indicato l’imboccatura della caverna. 

“È tornata dal suo padrone. Quella non ha paura di niente, neanche di una dea.”

Ran si era sentito il cuore pesante.

Per giorni interi l’aveva evitata: gli bastava chiudere gli occhi per rivederla nelle vesti seducenti di una schiava kelith. Aveva provato il desiderio di ridere di lei... e altri desideri, inammissibili: e ogni volta la sua Membrana l’aveva castigato ricordandogli il suo dovere di uomo d’onore. Alla fine, esasperato, era andato a ubriacarsi; e aveva così ritrovato la pace. 

Ma era pieno di risentimento: Deyan non si rendeva conto di cosa gli aveva fatto! In un colpo solo aveva rovinato tutta l’immagine ideale che lui si era tenuto gelosamente nel cuore: la guerriera forte e coraggiosa, la perfezione marziale impersonificata...

Ora al suo posto c’era una sgualdrinella tutta veli e sonaglini. 

Dannazione! 

Aveva perdonato a fatica il suo amico, e solo perché dopotutto era un kelith, incapace di comprendere appieno il cuore di un sayanni. Ma questo non valeva di certo per Naysiak, che si era prestata a quel gioco. E così, quando finalmente l’aveva incontrata nel nuovo quartiere della Squadra Sacrilega, aveva respinto sdegnosamente ogni sua offerta di riparazione, trattandola con disprezzo; e non si era lasciato commuovere dalla sua espressione ferita. 

Aveva creduto che la faccenda si chiudesse lì. Ma non aveva fatto i conti con l’orgoglio di lei, o forse Naysiak aveva capito che scusarsi non sarebbe servito a nulla, e che doveva cambiar tattica. Allora gli era andata fin sotto al naso per dirgli che era un montanaro senza educazione, e che del suo perdono non se ne faceva nulla. Le parole tra loro si erano fatte grosse; e poiché lei, a causa della sua imperfetta conoscenza della lingua, non poteva combattere alla pari una battaglia di insulti con Ran (ben pochi su Luna di Fuoco avrebbero potuto, del resto), gli aveva chiuso la bocca con un gran manrovescio. Ran non ci aveva visto più: in men che non si dica era partita una vera e propria rissa, sotto gli occhi allibiti di tutti i predoni. Era accorso Deyan, che aveva ordinato a Naysiak di fermarsi; lei aveva obbedito immediatamente...

Ma Ran non si era fermato, se non un attimo troppo tardi.

Solo quando l’aveva vista inerte e scomposta nella polvere, con la mascella livida e un filo di sangue che  le traboccava dalla bocca, si era reso conto di averla colpita solo perché lei non si era difesa. La sensazione di esser stato sleale l’aveva riempito di una vergogna così acuta da fargli dimenticare completamente la sua ira: aveva gridato ai predoni di portargli dell’acqua, le aveva tamponato la faccia con una pezza bagnata, pregando che si riprendesse...

“Apri gli occhi, Xarani, ti prego, guardami!”

Lei ci era riuscita, roteando lo sguardo con aria stranita e un gemito di dolore. Lui l’aveva aiutata a rimettersi a sedere e lei si era di nuovo sentita male: ma poi aveva vomitato un grumo di sangue, ed era stata meglio. Si era pulita la bocca col dorso della mano, senza recriminare. E l’aveva guardato con una tale franchezza che lui si era sentito uno stupido ad aver dubitato di lei...

“Ora amici?” gli aveva chiesto, da vera guerriera. 

Ran si era sentito sciogliere, e finalmente l’aveva abbracciata, felice di poterlo fare e non sentir altre sensazioni, felice di averla ritrovata. I sayanni avevano mandato degli urrà e lei gli aveva sorriso... nonostante la faccia tumefatta e un occhio semichiuso. 

La contentezza di Ran era durata poco. Due giorni dopo Saal si era presentato alla sua porta trascinandosi dietro Naysiak, col volto ammaccato, e la tunica stracciata sulla schiena affinché tutti vedessero che era stata frustata. Ran era rimasto esterrefatto a quel crudele spettacolo, ma i suoi predoni l’avevano guardato scuotendo la testa: possibile che non si fosse reso conto che lei portava un collare? Aveva commesso un delitto, attaccando briga con un uomo libero; e dato che lui non si era disturbato a intercedere per lei, Deyan non aveva avuto altra scelta che punirla: era una questione d’onore. 

A Ran dunque era toccato rimanere in piedi mentre lei si inginocchiava davanti a tutti, per chiedergli perdono. Ma non era umiliata. Gli aveva toccato un piede e aveva recitato la formula dell’implorazione a memoria, ma con la voce colma di una strana fierezza. Poi aveva alzato quel suo sguardo limpido e senza rancore su di lui, aspettando la sua risposta.

E Ran si era sentito bruciare gli occhi. 

“Ti perdono.”

Ma sapeva bene di esser lui il vero colpevole, la causa prima di tutto quell’inutile dolore. 

Se avessi accettato subito le sue scuse... se non me la fossi presa tanto per quello stupido vestitino...

Ma non era per il vestito che si era adontato, doveva essere onesto con se stesso: era per aver scoperto la propria immonda lussuria. Per alleggerirsi la coscienza aveva fatto in modo di scaricarne la colpa su di lei, l’innocente causa del suo peccato; e ci era riuscito mirabilmente. 

Povera ragazza, quanto ha pagato caro un momento di spensieratezza! Sono riuscito un’altra volta a farla frustare per una colpa che era soltanto mia. Sono contento, adesso? Sono fiero di quel che ho fatto?!

Erano troppo gravi le colpe che aveva verso di lei. Troppo grande la distanza tra la nobiltà dei loro cuori. E aveva il coraggio di definirsi amico di Naysiak? Con tutto il male che le aveva fatto, solo perché era migliore di lui?

Perdonami tu, Xarani. Perdonami, perché non sono degno di te.











Era notte quando la piccola comitiva si diresse di nuovo verso l’abitato. Deyan procedeva svelto davanti a tutti, alla luce fioca delle stelle, senza inciampare neanche una volta. I suoi occhi pallidi riconoscevano sentieri noti a lui solo; a una certa distanza gli altri lo seguivano, illuminandosi il cammino con luci schermate. 

Naysiak non aveva luce, seguiva quella degli altri. E si affidava ai suoi sensi animali, perché gli occhi le bruciavano: per la polvere, la stanchezza e le lunghe ore insonni. Percepiva la traccia metallica del suo Liberatore: anche se si era purificato e cambiato d’abito, gli era rimasto attorno un alone sanguigno. Gli altri kelith emanavano note di spezie, e aromi esotici nell’alito e nel sudore; il sayanni dietro di lei sapeva di cuoio, resina e legno bruciato: e anche da lui veniva un lieve odore di sangue.

Aveva dato il colpo di grazia al corpo sezionato che il Liberatore gli aveva offerto: il prigioniero era morto con un ghigno di gioia sulle labbra. Una volta strappata la lancia dal suo cuore, Ran aveva immerso le mani nel suo sangue. Quindi era uscito, nella luce del tramonto, e aveva alzato quelle lucide e rosse mani in direzione del sole azzurro.

“Per te, Nemel,” aveva proclamato.

Naysiak non conosceva quel rito, l’aveva guardato con stupore.

Cosa se ne fa lo spirito di un sayanni, del sangue di un misero kelith?

Ai suoi tempi un pellebianca morto era solo materiale. Niente che avesse un valore o meritasse rispetto. Dopo le battaglie i sayanni raccoglievano i corpi dei nemici e li utilizzavano: con i teschi adornavano le mura, coi femori facevano recinti o ricavavano flauti, e le scapole venivano incise artisticamente; bruciavano il grasso, davano la carne agli animali e agli schiavi, raccoglievano i capelli; e il resto lo usavano come fertilizzante. Solo per gli albini c’era più considerazione, vista la loro rarità.

E io ne ho uno proprio davanti a me...

Tante volte aveva pensato a cosa avrebbe fatto di Deyan, se lui non fosse stato il suo Liberatore. Aveva contemplato oziosamente i cento modi in cui avrebbe potuto ucciderlo: l’aveva visto addestrarsi e non era malaccio come combattente - era sicuramente meglio del mercenario che l’avevano mandata a rapire, un soldato ridicolmente debole - ma contro di lei non avrebbe avuto alcuna speranza. Dopodiché avrebbe utilizzato la sua magica carcassa per ottenere preziosi amuleti. Ci pensava con piacere, specie quando Deyan era cattivo con lei: scolpiva ossa di animale immaginando che fossero le sue; lisciava lo scalpo di Shartip immaginandoselo bianco, tagliava le sue pelli sognando di scuoiare quell’insopportabile massa di orgoglio kelith: e fantasticava di aprirgli il ventre per leggere il futuro tra le sue viscere...

Ma è il mio Liberatore, e io ho giurato.

Sospirò: quanto era diventata strana la sua vita! I Tirri le avevano fatto uno scherzo atroce, mandandola a vivere proprio accanto alla propria nemesi; e senza sconti, perché Deyan era esattamente uguale agli albini dei suoi tempi, quasi che gli dèi avessero voluto resuscitarne uno appositamente per lei. 

Questo non valeva per gli altri kelith: erano decisamente cambiati in un millennio. Naysiak notava quanto ci tenessero a distinguersi tra loro per provenienza,  a differenza di quando erano uniti sotto l’Impero; avevano guadagnato in loquacità quel che avevano perso in bellicosità, ponendo l’astuzia al primo posto tra le doti a cui aspirare. Anche i più ribelli tra loro avevano un solenne senso dell’ordine. Adoravano le simmetrie, le poesie complicate, la musica piena di abbellimenti, le decorazioni, le formalità, le classificazioni. Erano ribollenti di passioni che cercavano continuamente di codificare, avevano un senso della vergogna bizzarro per un sayanni, ma erano dei buoni compagni. Naysiak si stupiva di non provare più disgusto a trovarsi in mezzo a loro: aveva cominciato a conoscere quella gente pallida, e a riconoscere la loro umanità sotto la pelle diversa dalla sua.

Questo è male. I nemici devono rimanere nemici. Saggi erano i sayanni dei miei tempi, che non permettevano neanche di pronunciare il nome di un kelith. 

Si accorse di rimanere indietro: il suo passo non teneva il ritmo di quell’infaticabile ombra grigia davanti a lei. Era troppo stanca, e sentiva i brividi: aveva freddo, la sua carne stava gettando via il prezioso calore del corpo e non aveva mangiato abbastanza per generarlo. 

Si sforzò di camminare più rapidamente. Non avrebbe mostrato a Deyan o agli altri kelith la sua debolezza. Era una sayanni, una grande guerriera, una Figlia della Cometa...

Ma ne esistono con la schiena ridotta come la mia?

Si portò una mano sulla spalla, e strinse i denti: non sarebbe morta per così poco. La vita era forte in lei, e da quando era uscita dal Feretro bruciava con un ardore compresso, che a volte la stupiva. C’erano così tante cose da apprendere e sperimentare, in quel nuovo mondo in cui era rinata. Tante cose da fare, e da vedere. 

Quante volte ho sognato di poter veder le stelle, nella notte eterna della mia prigionia...

Si accorse quasi all’improvviso di essersi fermata a guardare il cielo. I kelith erano andati avanti, ma non era sola. Alle sue spalle, vicinissimo, l’uomo delle montagne bloccava il vento freddo col suo gran corpo. 

E tante emozioni da provare...

“Qualcosa non va?”

Lei chinò lo sguardo. “No. Perdono.”

Riprese a marciare rapidamente, cercando di raggiungere gli altri. 

Non sei stanca, Naysiak. Lo sai, che non c’è mai un ultimo passo. Lo hai imparato nella foresta, quando scappavi dalla tormenta verso la tua tana, e sapevi che se ti fermavi eri morta. Lo hai sperimentato nel Tempio, dove ti lasciavano al buio in un labirinto sotterraneo, e dovevi uscirne o morire nel tentativo. Hai riposato per più di un millennio, non ti è bastato?... Cammina, dunque, e non lamentarti. 

Il suo respiro si fece affannoso, il cuore le batteva forte nelle tempie. Il paesaggio si sciolse davanti ai suoi occhi in un grigiore bluastro indistinto tra cielo e terra, punteggiato dalle luci ondeggianti dei suoi compagni. Le guardò sperando di vederle avvicinarsi... e inciampò in una pietra.

Cadde pesantemente al suolo; i sassi appuntiti la accolsero maligni, graffiandola. Ingoiò il lamento frustrato del proprio corpo, che non ne poteva più... 

Due mani forti l’afferrarono e la rimisero in piedi. 

“Dobbiamo arrivare prima dell’alba, Xarani.” 

Lei si sforzò di mantenere un tono calmo e controllato. “Io stanca. Dire Seriema... io chiede perdono.” Cercò di prender fiato. “Randanai protegge Seriema per Naysiak? Io prego...”

“È mio amico, non c’è bisogno che me lo chiedi.”

Amico di un albino... 

Il vento soffiò contro di loro, e lei rabbrividì violentemente. Lottò per non far sentire il tremito nella propria voce.

“Randanai, ora prego andare. Io non utile...”

Lui sbuffò e la prese in braccio con facilità, come se fosse stata una bambina. Lei trasalì e scalciò debolmente.

“No!” mormorò, piena di vergogna. 

“Non è disonorevole per un guerriero farsi aiutare da un compagno.” Se la sistemò tra le braccia. “Stai ferma!”

E cominciò a camminare verso le luci del drappello di Deyan, tra un tintinnio di armi. 

“Io peso,” mormorò lei, imbarazzata. “Randanai fatica.”

“Fatica?” La sua risata quieta le giunse direttamente dal suo petto. “Sei piccola, Xarani.”

Lei gli mollò un pugno secco sul petto, che risuonò sul cuoio del suo farsetto. 

“Bene,” sorrise lui. “Adesso siamo pari con quello che ti ho dato in faccia.”

“No.”

Nessuno era mai riuscito a farmi perdere i sensi, nemmeno tra gli Xarani...

Le schiave di Deyan erano trasalite quando l’avevano vista rientrare nella shanda con i segni di quel pugno, ma erano state contente di sapere che era stato lui a picchiarla: voleva dire che lei gli piaceva davvero. Presto quella simpatica massa di muscoli l’avrebbe richiesta al padrone, e lei finalmente avrebbe dormito con lui, conoscendo il calore di un maschio.

Naysiak le aveva guardate, attonita: che relazione c’era tra un pugno in faccia e piacere a qualcuno? E in quanto a dormire con Ran, non ne vedeva la necessità: le notti erano fredde, ma lui le aveva regalato una pelliccia con cui scaldarsi; e nei lunghi inverni della Città Santa aveva già dormito con maschi, naturalmente vergini: non erano più caldi delle donne...

Le ragazze avevano riso di lei. 

Non aveva riso affatto il Liberatore, che le aveva chiesto conto delle sue azioni. Naysiak era rimasta stupita: qualcosa in lei riteneva che Ran dovesse essere onorato che una Xarani avesse fatto tanto per far pace con lui. Le sopracciglia del Liberatore si erano inarcate in modo minaccioso: le aveva rammentato che non era che una schiava, sull’ultimo gradino della pur semplificata società di Luna di Fuoco; e quel che si era permessa di fare a un grande capo di predoni, alzando le mani su di lui davanti a tutti, era stato di una gravità inaudita: un crimine punibile con la morte.

Naysiak si era scusata, con sincerità. Non perché avesse paura di morire, ma non era stata sua intenzione far fare una brutta figura al suo signore e metterlo in imbarazzo, né umiliare Ran di fronte a tutti i suoi uomini: aveva voluto solo far pace con lui. Ma ormai il danno era fatto, e Deyan era implacabile quando si trattava del suo amico. Il castigo era stato duro.

L’avevano frustata con una verga metallica, per lasciarle il segno. Lei non aveva gridato, nemmeno quando le avevano gettato un secchio di acqua calda salata sulla schiena, e aveva sentito il cuore scricchiolare nel petto. Ma quando aveva capito che l’avrebbero anche rinchiusa nel pozzo in cantina, si era messa a piangere. Tuttavia non si era ribellata, benché il terrore quasi la soffocasse: aveva trovato uno strano conforto nel pensiero che tutta quella sofferenza era il prezzo che aveva pagato per riavere l’amicizia dell’uomo delle montagne. 

Non ne vale la pena?

E all’improvviso tutto era stato accettabile. Non era crollata. Non aveva implorato di esser tirata fuori da lì. Non aveva gridato né tentato invano di scalare quelle strette, lisce pareti che sembravano schiacciarla. Era rimasta ferma, ad occhi chiusi nel buio, respingendo il ricordo del Feretro, e sostituendolo con quello di ben altro imprigionamento... quello tra le solide braccia di quell’uomo. 

Tienimi stretta, Randanai.

C’era qualcosa di così confortante nel suo abbraccio... era come essere avvolti dalla forza delle montagne che gli avevano dato i natali: un riparo contro qualsiasi tempesta. E i suoi occhi blu erano come il cielo del suo paese: bastava una bava di vento per farli passare dal più fosco dei temporali al sereno più smagliante. Naysiak li aveva rivisti nella sua mente e aveva sorriso, pur tra le lacrime. Aveva bisogno di quella luce, nel buio della sua esistenza. Aveva bisogno di quel calore, nel gelo eterno del suo cuore... 

Pa’ekin. 

Si vergognò: perché pensava a lui? Non doveva. Era un’altra cosa. Un altro tempo. 

Un’altra Naysiak...

Tantissimi cicli dei soli prima, in un giorno d’estate, era stata convocata al tempio e le avevano comunicato che quel generale sarebbe stato suo marito: ne aveva preso atto con rassegnazione. Il matrimonio era un dovere doloroso, ma necessario e inevitabile. Lei e Pa’ekin si conoscevano appena: lui era stato ammesso alla Presenza Divina quando lei era stata la Xarani di guardia, e per questo si erano battuti nei duelli sacri; ma era stato tutto. 

Un perfetto estraneo.

Dopo il loro fidanzamento però si erano incontrati più spesso, e avevano scoperto che ognuno di loro si era fatto un’idea sbagliata dell’altro. Pa’ekin era un grand’uomo autoritario, ma una volta fuori dai suoi panni marziali era un tipo cordiale, un buon compagno. E Naysiak, quando non era la rituale figura sacra, era una donna pratica e allegra, con quel velo di anticonformismo tipico degli sciamani. Si erano sorrisi, scoprendo che potevano piacersi: e Naysiak si era accorta di aver molto meno timore delle nozze di quanto avesse creduto...

Perché?

Si era accorta che c’era qualcosa di strano in lei. Un timido calore interiore, un’emozione sottile che percepiva quando lui le era vicino. Era una specie di gioia, qualcosa che ai suoi occhi rendeva Pa’ekin diverso da tutti gli altri amici e compagni. C’era un’energia in lui che riusciva magicamente a passare in lei, a stimolare la sua vita. Una volta aveva trovato il coraggio di prenderlo per mano, guardandolo negli occhi, e si era accorta che anche lui la sentiva. Lui aveva evitato il suo sguardo, imbarazzato, ma poi le aveva regalato una delle sue piume più belle, senza motivo...

Quanto si erano arrabbiati, i sacerdoti! 

Ma le loro nozze erano state rimandate: l’Imperatore kelith aveva lanciato un violento attacco contro Sayanna, e Pa’ekin era stato costretto a partire di gran fretta verso la costa per organizzare la difesa. A lei era toccato il compito di Prima Guardia, un onore che la inchiodava nella Città Sacra assieme alle Divinità; e proprio mentre dal cielo si avvicinava la misteriosa Arca. 

Molte volte Luna di Fuoco era cresciuta e scemata, prima che Pa’ekin potesse tornare alla capitale. Quando finalmente ci era riuscito, aveva scoperto che Naysiak era stata condannata a essere sepolta viva. Solo per via del suo alto rango era riuscito a ottenere un ultimo incontro con lei, per dirle addio. Nelle prigioni del Tempio li avevano tenuti separati, ma erano riusciti a sfiorarsi le dita in un estremo saluto. E Pa’ekin le aveva sorriso, con le lacrime agli occhi.

Ti aspetterò oltre Ta’itza, mia sposa...

E poi gli Xarani l’avevano portato via. 

Non l’ho mai più rivisto. Non so che ne è stato di lui. Neanche il Padre t’yr ha trovato notizie, al di là del suo nome e di qualche data di battaglia. È svanito dal mondo, e anche dalla storia. 

E lei aveva creduto che mai più avrebbe provato quella sensazione, quel calore magico dentro di sé. Aveva immaginato che la sua vita sarebbe trascorsa con l’animo mutilato, capace solo di percepire quell’assenza, senza neanche saper bene cosa aveva perduto: un sordo dolore che addolciva in lei l’idea della morte...

Ma poi si era accorta di non sentirsi più così sola. Era quell’uomo che le faceva riprovare il desiderio di vivere. Era come se lo conoscesse da sempre, e forse la sua intimità con lo spirito del Liberatore l’aveva aiutata in questo. Non era che un volgare bandito, manesco e amante del vino, ma era anche un compagno sincero e un degno guerriero. E anche se le aveva fatto del male, nei suoi momenti di tristezza era sempre apparso a sollevarle il morale, facendole scordare quel dolore che era l’unico di cui lei avesse paura...

Si accoccolò meglio tra le sue braccia, sentendo il ritmo calmo e sicuro dei suoi passi, il suo ampio respiro, l’odore buono del suo corpo sano.

“Quando Randanai stanco, io cammina,” gli sussurrò.

“Sì,” rispose lui. 











Deyan arrivò silenziosamente davanti alla sua casa, davanti alla quale alcune torce spandevano una luce fioca.

Era solo: a un suo cenno gli altri predoni si erano dispersi per i vicoli, in modo che nessuno notasse il drappello. Alzò gli occhi al cielo, ancora buio; tranne che per la falce del mondo che era sorta a oriente, imitando il sorriso ineffabile della sua dea.

Benedetta sia la tua venuta, madre dell’oscurità. Benedetto il sangue che ho versato in tuo nome. 

Si sentiva segretamente euforico, come se avesse partecipato a una cerimonia nel suo tempio. 

Presto ci tornerò. E incontrerò di nuovo Krsyl...

Avrebbe avuto molte cose di cui parlare con lui. Nafur era stato molto loquace, mentre lo dissezionava mantenendolo in vita: aveva raccontato tutto ciò che sapeva; e non era poco. 

Si guardò intorno, stupito. Naysiak non c’era, da nessuna parte. Si stava abituando alla sua costante presenza, come se fosse imprescindibile: quando la vedeva, la accantonava automaticamente nella mente; ma la sua assenza lo inquietava...

Poi sentì il rumore di passi nella polvere, il tintinnio familiare delle armi di Ran. 

Come mai arriva così tardi?

Lo vide spuntare da un angolo della strada, col mantello di sghimbescio sulle spalle in modo da coprire in parte un fardello che portava tra le braccia. Era lustro di sudore nonostante il freddo, e aveva il respiro pesante; ma aveva la faccia più serena della sua vita. 

Deyan gli andò incontro e vide che il fardello era proprio Naysiak: riconobbe i suoi indumenti. Alzò gli occhi all’amico, preoccupato.

“Che è successo?”

“Parla piano,” sussurrò Ran. “Dorme.”

Dorme?!

Deyan prese l’orlo del mantello di Ran e lo sollevò appena. Vide la faccetta tonda di Naysiak con gli occhi chiusi, in un abbandono quasi da bambina. 

“Per quante leghe l’hai portata?” chiese, esterrefatto.

“Per quelle che erano necessarie.” 

La sua espressione si fece severa. E questa sarebbe una guerriera?

“Mettila giù.”

“No!” Ran fece mezzo passo all’indietro, come per proteggerla. “Lasciala dormire. Era sfinita, e bruciava di febbre; l’hai costretta lo stesso a combattere e a seguirti in quel posto nel nulla... e lei ti ha obbedito, finché ha potuto. Non potevi chiederle di più.”

“Se non ce la faceva a seguirmi, doveva dirmelo, non rimanere indietro.”

“Non voleva rallentarti!” Ran strinse i denti, sforzandosi di tenere la voce bassa. “Sono stato io a decidere di portarla, non me l’ha chiesto lei.” Lo guardò negli occhi, pressante. “Promettimi che non la rimprovererai per questo... che non le farai ancora del male a causa mia. Ti prego, Deyan-shir...”

Lui chinò lo sguardo, e sospirò.

“Te lo prometto.” 

Ran fece un sorriso di autentico sollievo. “Grazie, amico mio.” 

Deyan lo guardò: era così felice, con quella femmina sporca tra le braccia.... più felice di quando gliel’aveva mostrata bella e profumata. Forse era vero, che lui non aveva capito nulla dei sayanni.

Se non è questo il momento...

La sua mano scese lentamente alla cintura; infilò le dita nella tasca dove teneva la chiave del collare di Naysiak, e sentì un senso di peso nel petto. 

“Cosa facciamo?” Ran non aveva notato il gesto, guardava il viso addormentato di lei. “Non vorrei svegliarla...”

Deyan fece un profondo sospiro, stupito dalla tristezza che provava. 

Non devo essere così meschino...

“Portala a casa tua,” suggerì, con voce appena percettibile.

E lasciamo che la vicinanza faccia il suo corso.

Ran annuì, come se fosse stata la cosa più ragionevole. 

“A domani,” mormorò. 

E se ne andò. 

Deyan restò a guardarlo, mentre i suoi servi assonnati aprivano il portone per accoglierlo. Poi tolse la mano dalla cintura.

La chiave era rimasta lì.


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Capitolo 18
*** Dove matura un frutto aspro ***






Nel piccolo bagno di quella casa terribilmente indegna di accogliere un principe, Ibal scaldava l’acqua in un bricco, contando mentalmente in modo che avesse la temperatura giusta. Una pratica di anni l’aveva reso preciso più delle aste di metallo liquido con cui il suo padrone lavorava nel suo laboratorio, dove preparava le sue armi. 

Dalla stanza accanto la progressione del piacere procedeva bene. Ibal era esperto in quelle cose: nato tra i servi di palazzo, castrato alla giusta età e da quel momento introdotto nel quartiere riservato alle donne, aveva passato la vita ad assistere alla sessualità degli altri. Aveva già pronto il registro degli accoppiamenti, per quanto poco servisse, dato che non ci sarebbe stato un figlio. Ma con quello forse avrebbe potuto capire se era in arrivo o no una Prima tra le Prime. 

Tre, cinque, uno, dodici, otto e nove, uno quattro dieci insieme, dodici due e sette insieme...

I gusti di Deyan variavano capricciosamente. A volte voleva la tenerezza di una fanciulla, a volte la malizia dell’intraprendente, a volte la timidezza della recalcitrante, a volte la bizzarria della schiava che era stata di Gamosh. E non di rado le voleva in gruppo, quand’era di buon umore.

Sembra non aver preferenze... prima o poi gratifica tutte.

Da un lato era una complicazione: senza la Prima tra le Prime molti compiti decisionali cadevano sulle spalle del Maestro delle Chiavi, cioè Ibal stesso (che era tra l’altro l’unico eunuco della casa, mentre anche un nobile minore ne avrebbe avuti diversi al suo servizio). D’altra parte però era la situazione che tutti auspicavano: niente schiave trascurate e depresse, niente ripicche e vendette. La serenità in quasi tutti i serragli era simulata, ma lì poteva anche essere abbastanza autentica: il bel padrone e le sue innamorate, unite tutte dal desiderio che avevano di lui. 

E non dalla sola paura, come altre schiave meno fortunate.

Ibal scorse le date: Deyan sfruttava bene la sua shanda, senza gli eccessi di altri nobili che, non avendo altro da fare nella loro pigra vita, ne facevano il loro interesse primario. Una regolare attività sessuale, con una tendenza ondivaga e qualche pausa inquietante. Poi c’erano periodi come quello, dove sembrava frugare febbrilmente tra le sue ragazze, alla ricerca di qualcosa che non trovava... 

Colpa mia?

Ibal era preoccupato. Le ragazze erano brave, ma la loro istruzione erotica era abbastanza convenzionale. Forse Deyan si stava stancando di quella povertà tecnica: con dei gusti raffinati come i suoi, ci voleva dell’altro... nuove danze, nuovi vestiti, nuovi strumenti, nuove arti.

Ma dove trovo materiali e manuali da cuscino adatti, in questo posto squallido?

Uno schiocco di dita: non era necessario niente di più da parte del suo padrone, per avvisarlo che era il momento di entrare. Accantonò il problema per parlarne con Saal alla prima occasione, e versò l’acqua in un catino; ci aggiunse la giusta dose di profumo rilassante, vi tuffò una piccola spugna e si mise sul braccio un telo pulitissimo. Quindi, con discrezione, penetrò nella stanza padronale.

La tenda di velo danzava mollemente di fronte alla grata della finestra, dando un colore dorato alla cruda luce dei due soli nel meriggio. Il grande letto coperto di seta era alquanto disfatto dopo la battaglia dell’amore, e il corpo ondulato e bianco della schiava Due era avvinghiato, ansimante, a quello del padrone. Lui riprendeva fiato, con la testa sul cuscino, i capelli che gli si erano appiccicati al volto sudato. Era una scena che sarebbe stata perfetta per un quadro erotico, di quelli che con discrezione erano venduti a caro prezzo solo a clientele molto selezionate.

Se solo avessi la capacità di mettere su tela ciò che questi occhi vedono... 

Se solo avesse avuto la libertà di raccontare a qualcuno quei segreti che solo lui sapeva.

Sospirò e si mantenne in disparte, in paziente attesa. 

Gli albini erano notoriamente molto precoci: al primo interesse mostrato verso il sesso venivano introdotti al piacere direttamente nella casa dei padri, fino a quando non avessero avuto diritto ad avere una shanda tutta loro. Quando Deyan aveva cominciato a sentire i primi turbamenti, Unari aveva affidato ad alcuni eunuchi il compito di gestire i suoi rapporti con le donne. Ibal era stato scelto tra gli altri: a quell’epoca era giovane e non aveva molta esperienza, ma era figlio di un funzionario di palazzo, quindi di buona famiglia, raccomandato e molto ben educato; e con lui i chirurghi avevano fatto un capolavoro, evitando che puzzasse. Per questo, quando secondo l’uso gli avevano cambiato nome dopo la castrazione, l’avevano chiamato Puro nell’antica lingua.

Nel corso del tempo aveva appreso dai suoi superiori tutto quel che c’era da sapere sull’arte di lavorare in una shanda principesca, dove rigide regole e libertà sfrenata dovevano convivere in un sottile equilibrio. Sapeva che molti lo compativano per non essere più un uomo, ma quanto poteva essere intensa ed eccitante la vita in quel luogo pieno di lusso e di bellezza, brulicante di intrighi! Era un vero universo, che non gli faceva rimpiangere quello al di fuori. E lì Ibal aveva fatto il suo apprendistato con dedizione, servendo e istruendo il suo giovanissimo signore sulla varietà dei piaceri a cui aveva diritto. 

Poi, un giorno, Deyan aveva rivolto la sua principesca attenzione anche su di lui. Era stato un passaggio quasi inevitabile, in un’educazione che favoriva ogni curiosità in materia sessuale. Ibal aveva dunque finalmente compreso perché fosse stato scelto tra molti anziani, e non aveva avuto altra scelta che sottomettersi al capriccio di quel fanciullo; ma non era stato così terribile, né umiliante come gli avevano detto. Era accaduto per due o tre volte, e poi il suo padroncino aveva naturalmente accantonato la cosa, senza più richiederla. 

Ma quella minuscola parentesi aveva significato tutto, nella vita di Ibal. L’aveva completato rendendo la sua menomazione soltanto fisica, e non spirituale. Era stato in grado di capire molte cose che in teoria gli erano negate, era maturato diventando un essere nuovo. Aveva accolto anche l’inevitabile degradazione del suo corpo, che nella maturità si ribellava alla castrazione; e ne aveva anzi favorito la bruttezza, perché in quella carne grassa avrebbe nascosto per sempre il giovane servo che si era innamorato di un essere incomparabilmente superiore. Naturalmente non sarebbe toccato a lui dargli le gioie dell’amore; ma sarebbe stato suo dovere fare in modo che qualcun altro provvedesse e fosse all’altezza: e in questo, nessun Maestro delle Chiavi sarebbe stato più severo di lui. Nel letto di Deyan, sempre, ci sarebbe entrata anche una piccola parte del suo spirito. 

Sei stato soddisfatto, mio signore? si chiese, osservando la situazione con occhio critico.

Era evidente di sì: molto seme era stato sparso. E la ragazza aveva il volto arrossato, segno che anche lei aveve avuto la sua parte, benché non le fosse dovuta. Aderiva tremante al corpo sudato del suo amante; ma faceva caldo, e Deyan non voleva indugiare con quella morbida carne bianca addosso; per cui le diede un colpetto sul fianco e le ordinò di ritirarsi. Lei sospirò e si rialzò con riluttanza: Ibal vide grosse chiazze rosse sul suo seno, e sull’incavo della gola d’alabastro.

Oh padrone, finirai per scorticare le tue ragazze!

Per qualche misteriosa ragione, Deyan aveva deciso di smettere di radersi. Era bastato poco tempo perché già un alone bianco si notasse sul suo volto: gli Shanì erano una razza molto antica, e non erano glabri come le etnie vicine: l’albinismo non alterava questa caratteristica. Le schiave erano pazze di curiosità: sapevano che a volte i nobili si facevano crescere dei baffi sottili, ma nessuna di loro aveva mai visto un uomo con la barba. 

Oh, è così... così animale!

Ibal aveva sorpreso Dieci a fare quel commento irrispettoso, e dato che era orgogliosa del proprio florido cespuglietto candido, gliel’aveva strappato con la cera calda, lasciandola in lacrime e implume. Però dentro di sé si vergognava, perché la ragazza aveva avuto ragione. Deyan non sembrava mai pago di rovinare il suo splendido aspetto principesco: aveva anche spezzato il cuore di Saal sforbiciandosi i capelli, proprio quando avrebbe potuto essere acconciato come si conveniva a un nobile. 

Perché?!

Ovviamente non aveva dato alcuna spiegazione. Si era chiuso nel suo laboratorio, con quelle ciocche preziose in mano e polveri chimiche, nonché tutto il materiale per scrivere e svariati testi da consultare. E non ne era uscito se non per mangiare qualcosa. Poi si era ritirato a riposare nella sua shanda; ma prima aveva scelto la soffice Due per scaricare la tensione, con un Drago Verde Attorcigliato. E seppur esausto, sembrava sul punto di chiedere qualche altro esercizio erotico: come se il suo spirito avesse una fame che il corpo non era in grado di saziare. 

Quale demone ti tormenta, padrone? Perché nulla sembra darti pace?

Ibal si avvicinò al letto, come prescriveva il suo dovere, e la schiava prese la spugna dal catino per rinfrescare e ripulire il corpo del suo padrone. Quando finì le porse il telo pulito per asciugarlo, e contemplò quel corpo che non aveva mai avuto la morbidezza prevista dai canoni estetici di moda tra le corti. 

Se solo ti avessero lasciato vivere la pigra vita di un principe, mio signore...

Ma se mai Deyan aveva avuto l’occasione di addolcire le sue forme, l’aveva persa nel momento che era diventato un reietto. La dura vita di Luna di Fuoco aveva poi spazzato via da lui ogni morbidezza residua: ora era più simile a uno dei suoi ex sudditi, con la loro stessa aggraziata e ostinata resistenza alle crudeltà del clima... e degli uomini. 

Uno Shanì autentico, anche nell’indole. Difficile da accontentare.

Chissà cosa sarebbe accaduto, se a un uomo con quell'ascendenza si fosse permesso di salire al trono. Chissà anche cosa sarebbe stato di Ibal, Primo Eunuco e Maestro delle Chiavi di un principe regnante, con tutta la ricchezza e il potere di un simile ruolo... 

Ma il destino ha voluto altrimenti. 

Irrigidì il suo cuore. Un eunuco dopotutto aveva un solo signore: era disdicevole che qualcuno che conoscesse così bene l’intimità di un nobile si mettesse al servizio di qualcun altro. Gli altri eunuchi di Deyan avevano dimenticato quella semplice regola per loro convenienza: solo Ibal aveva accettato piuttosto la degradazione a servo.

Non servirò mai un altro padrone, finché il mio vive.

Quella sua scelta, che era sembrava pazzia all’epoca, era stata premiata. Gli altri eunuchi erano morti, uccisi giustamente da Deyan stesso quando si era ripreso lo scettro di Shana e le sue schiave. E lui viveva ancora, dirigendo con fatica ma anche con maestria quella minuscola, ma ben organizzata shanda. 

Tocca a me renderla degna di un principe, nonostante la nostra povertà.

Anche se erano poche, le schiave erano di prima qualità, e nella loro varietà rappresentavano bene il canone tradizionale della perfetta bellezza kelith, con corpi morbidi, forme rotonde ma non flaccide, pelle immacolata, visetti delicati. Due era particolarmente florida, con i seni grossi come la Bianca Dea: quando finì il suo compito si chinò a baciare la mano di Deyan, e nel farlo lo sfiorò deliberatamente con tutta la sua abbondanza. Poi, nuda com’era, se ne andò ancheggiando in maniera invitante. Ibal per un momento sperò che il padrone la richiamasse indietro...

Invece lui si voltò dal lato opposto, la faccia semiaffondata nel cuscino. 

“La sayanni non è ancora tornata?”

Lui restò interdetto alla domanda. 

La sayanni?!

“No, padrone.”

E magari non tornasse più!

Non era quello il suo posto. Veniva dal passato di un popolo che era tuttora incivile, era troppo selvaggia, ineducata, rozza per stare assieme a quei gioielli di perfezione che erano le ragazze albine: anche se fosse stata destinata a un capriccio bizzarro dei sensi (c’erano nobili che per noia si accoppiavano con nani, esseri deformi e anche animali) avrebbe dovuto essere confinata in un serraglio separato, ben nascosto, dove nessuno la vedesse. Ma a quanto sembrava non era quello il caso: dopo tutto quel tempo era ancora vergine, e totalmente inutile a qualsiasi soddisfazione dei sensi: si rifiutava persino di danzare, e cantava soltanto i propri inni barbari. 

E quindi cosa ci faceva, in un’onorata casa kelith? La guerriera? Non era un lavoro da donne, quello. I sayanni erano dei folli a consentire alle loro femmine certe libertà: poi era naturale che diventassero arroganti nei confronti degli uomini. Ibal ammirava la stabilità geometrica della propria società, dove la convenzione faceva sì che non si sprecassero energie a cambiare ciò che già funzionava: ognuno aveva il proprio compito. Gli uomini facevano gli uomini e le donne facevano le donne (e gli eunuchi facevano gli eunuchi); gli uomini comandavano, tutti gli altri obbedivano; gli uomini possedevano, tutti gli altri erano posseduti.  

 Ma i sayanni dicono di appartenere soltanto ai loro dèi incarnati. Non hanno nemmeno un adeguato concetto di proprietà! Sono come insetti, tutti intorno alla loro ape regina. E quando se ne stacca uno dall’alveare, si ha a che fare con una creatura elementare e screanzata.

E quanto era difficile educarli... ci si riusciva a malapena se gli schiavi erano presi giovanissimi. Ma quella femmina non lo era: anzi, era immensamente antica, e per di più di una casta che era notoriamente riottosa a qualunque tentativo di doma. Un tatuaggio da guerriero su un sayanni significava che il prodotto era spendibile solo nell’arena, o per qualche morte spettacolare: era inutile per ogni altro scopo. Se Deyan si illudeva che bastasse qualche frustata e un pozzo, per riuscire dove altri avevano fallito...

Non c’è speranza, padrone. L’unica cosa che hai ottenuto è un rispetto minimale delle più basilari regole di questa casa, ed è già più di quanto si potesse sperare da una selvaggia. Ma non pretendere l’impossibile. 

Sarebbe stato meglio sbarazzarsi alla svelta di quella schiava, realizzando il capitale che rappresentava in un periodo dove gli affari di Deyan comprendevano più uscite che entrate. Saal si era informato con discrezione sul possibile valore di mercato di una Xarani vergine, l’ultima di una razza estinta: e aveva capito che era ingente. Ne aveva parlato col padrone, sperando che si decidesse a sbarazzarsi di quell’anomalia...

Lei l’aveva sentito. Aveva fatto irruzione nella stanza e aveva osato interrompere i due uomini che parlavano di lei, dicendo con le lacrime agli occhi che aveva fatto un patto sacro davanti a suoi dèi, e pertanto non potevano venderla: non avrebbe mai accettato un altro padrone. Saal era rimasto senza parole di fronte a quell’incredibile impudenza.

Come si permette una schiava di dire la sua su chi la possiede?

Ma ormai follie come quelle erano all’ordine del giorno. Che dire di una donna che ogni giorno si esercitava in ginnastiche durissime, per poi tornare nella shanda e mettersi a scrivere? Che non stava mai ferma, rovinandosi le mani a scolpire gingilli o a tagliar pelli, trasformando la sua cuccia in una specie di laboratorio? Che ringhiava quando Ibal minacciava con la frusta le schiave disubbidienti, e dichiarava di voler dar loro un nome vero al posto del numero che avevano?...

Ibal sospirò, scuotendo lentamente la testa.

No, padrone, ti prego: basta. È meglio che lei rimanga in compagnia del tuo amico, come pagamento di quel triste debito d’onore che hai con lui. Sarà la pace per questa casa, che tornerà alla sua primitiva purezza. E anche quella poveretta starà meglio, senza più dover essere disciplinata per farla diventare ciò che non potrà mai essere... una di noi. Lasciala dunque tra i suoi simili, a strappare bocconi di carne dagli spiedi sul fuoco, far giochi maneschi coi compagni, affilare le proprie armi, cucire le proprie pelli, pregare i suoi dèi...

Si accorse che Deyan aveva chiuso gli occhi. 

Sorrise, soddisfatto: finalmente si era addormentato. Aveva riposato pochissimo negli ultimi giorni, anche meno del solito; e aveva usato droghe pericolose per combattere la stanchezza. L’eunuco contemplò il suo volto: c’era come una punta di dolore, nei suoi tratti regolari. 

Sei troppo giovane per poter fare a meno del sonno, mio povero signore. 

Lo coprì col lenzuolo, andò a tirare un’altra tenda rossa per mascherare ulteriormente la luce della grata, e accese un bruciaprofumi spargendovi sopra un’essenza rinfrescante. Quindi scivolò silenziosamente via da quella stanza, portando via il catino.

Non fece nemmeno in tempo a finire di riordinare per bene ciò che era stato adoperato: l’ultima goccia della clessidra era ancora appesa al cristallo, quando si sentì chiamare di nuovo.

“Ibal!”

Posò il panno che teneva in mano, desolato. 

Così poco riposo? 

Entrò nella stanza e vide Deyan seduto sul letto, la testa china e i capelli scomposti. 

“Vestimi per uscire.” 

“Padrone... è ancora giorno, e la luce ferisce...”

“Quindi mi servirà la maschera.” Si strofinò gli occhi, poi si passò la mano sul volto non rasato. “Fai presto.”

Aprì la bocca per protestare...

Gli albini kelith discendono da una stirpe divina, e tu hai l’onore immenso di poterli servire. Il tuo compito è obbedire al meglio delle tue capacità. Puoi far loro delle domande, ma solo per servirli meglio. Non hai il diritto di discutere con loro. Di fronte alla loro nobilità, ricorda che tu non sei niente.

L’antico catechismo degli eunuchi risuonò nella sua mente. E Ibal inspirò profondamente, inchinandosi. 

“Sì, padrone.”











Ran era in piedi, nella piazzetta in mezzo al quartiere della Squadra Sacrilega, e squadrava le figure sedute a terra intorno a lui. 

Quanti sono?!

Non li aveva mai contati veramente. Ma adesso i suoi predoni erano davvero tanti. Sayanni e kelith, che tendevano naturalmente a far gruppo separatamente, ma i veterani si mescolavano ormai senza problemi. Una varietà di costumi diversi, figure massicce o esili, capigliature di vari colori. 

C’erano anche gli schiavi: comprati tra i falliti, e che erano contenti di essere finiti in un posto dove, con colui che aveva avuto il coraggio di liberare nientemeno che un albino kelith, c’era la speranza di tornare all’antica dignità. Con loro Ran aveva fatto un patto chiaro: se avessero fatto bene il loro lavoro di servi, quando si fossero ripagati la spesa del loro acquisto sarebbero stati dichiarati liberi. 

Deyan aveva aggiunto alla compagnia uno strano regalo: un gruppo di Shanì troppo vecchie per i bordelli. Erano vedove campagnole, rimaste senza figli maschi che potessero ricomprarle alla morte del marito, e che venivano offerte al mercato rimanendo spesso invendute, e per questo venivano soppresse: ma lui aveva mandato un mercante di Luna di Fuoco a procurarsele in segreto. Ran aveva storto la bocca a veder arrivare quelle vecchie asciutte, ma quando le aveva viste all’opera aveva capito la saggezza dell’amico: erano lavoratrici instancabili e meticolose, vere forze della natura. Tenevano in ordine le cose, dormivano e mangiavano pochissimo, e non turbavano i sensi dei predoni. Anche in quel momento se ne stavano sotto il portico a preparare il cibo, e bisbigliavano tra loro a proposito del loro principe. 

A quanto pare Deyan-shir è diventato una sorta di eroe popolare per il popolo di Shana. I cantastorie narrano la sua vicenda e le sue imprese, anche se devono farlo in segreto perché Gamosh ha ordinato di strappare la lingua a chiunque osi nominarlo. 

Ran sospirò. Era inutile illudersi: il legame di Deyan con la sua terra era qualcosa che avrebbe sempre interferito con la sua vita da predone. Lui non aveva nessun legame con Sayanna, e ne era ben felice: si sentiva totalmente libero. Laggiù non era stato nessuno, su Luna di Fuoco... era diventato un capo.

Con quel pensiero in mente, si erse orgogliosamente, squadrando gli astanti. 

“Compagni, la stagione è finita. I Marjaban ci hanno accreditato una bella somma dopo aver ritirato il bottino di Zakkara; dopo aver pagato i debiti, sia io che Deyan-shir ci siamo presi la parte del capo secondo gli usi di Luna di Fuoco. Ma tutto il resto ci avanza: la Squadra Sacrilega non accumula ricchezze nelle proprie casse, quindi abbiamo deciso di distribuirla a tutti.”

Un’acclamazione di gioia salì nell’aria.

“Solo chi ha partecipato a quel colpo ha diritto a un premio,” obiettò un sayanni, alzandosi in piedi; e un brivido di tensione passò tra i predoni. 

Ran lo squadrò, corrugando le sopracciglia.

Manai, uno dei luogotenenti di Saraji.

“Questo valeva nella tua vecchia squadra, fratello. Qui le regole sono diverse, e la prima regola... è che la distribuzione del bottino la decidiamo io e Deyan-shir, e nessun altro: è chiaro?”

Manai tornò a sedersi, intimorito.

Ran addolcì il suo tono. “Se possiamo partire sicuri e ben equipaggiati, è anche grazie al lavoro di quelli che sono rimasti a casa. E questo da noi viene riconosciuto.” Una scrollata di spalle. “Poi, se le nostre decisioni non vi aggradano, siete liberi di lasciarci in ogni momento: tranne gli schiavi, nessuno è vincolato a restar qui contro la sua volontà. Siamo liberi predoni, che vanno dove c’è la convenienza di stare...” Un’occhiata suadente tutt’intorno. “Ma fate bene i vostri conti, amici miei. Perché chi lascia questa squadra... non ci ritorna.”

 Gli uomini si guardarono, ma nessuno si mosse. 

“Avrete le tasche belle piene. Alcuni saranno contenti di quel che hanno, e riposeranno; altri cercheranno di metter su casa su questo posto spendendoci una fortuna, e altri se la berranno e mangeranno nei prossimi giorni rimanendo senza un soldo in tasca, come spesso accade a noi predoni... non c’è problema, il mondo lassù è pieno di cose buone da rubare.”

“Vuoi dire che hai in mente altre missioni?” chiese qualcuno.

“Ma non hai rubato abbastanza?!”

Ran fece un sorriso smagliante. “Quando uno ha fatto la fame, non basta certo un banchetto a saziarlo: lo stomaco si calma, ma il ricordo del digiuno no. Per essere ricchi non è per forza necessario scovare tesori come quello di Zakkara: il grande frutto è buono, ma vale come dieci piccoli frutti.” Fece un ampio movimento con le mani. “La nostra idea è quella di un flusso di ricchezza per la nostra squadra, poca o tanta che sia, sulla quale poi ricamare quelle grandi imprese che fanno in modo che la gente ci sorrida quando entriamo nelle bettole. Finché non ne organizzeremo un’altra, vi lasciamo la libertà di dividervi in squadre più piccole, per colpi più agili e meno impegnativi, sui quali ovviamente la quota che vi chiederemo come capi sarà... poco più che simbolica.”

Gli uomini si scambiarono occhiate ironiche. Sapevano che Ran non aveva in mente nulla di simbolico, ma la proposta li interessava. 

“Nessuno sarà costretto a lavorare; ozio, buon cibo, buon vino e divertimenti innominabili sono a disposizione di chi vuol riposare. Ovviamente, chi non riposa diventa più ricco. Io ho saputo che da qualche parte, sulla Grande Strada che solca le pianure meridionali, transiterà un carro molto ben sorvegliato carico di perle rosse destinate alla decorazione di qualche luogo sacro. Non ho mai visto una perla rossa, e sono molto curioso...”

“Te la potresti comprare,” disse qualcuno, e ci furono delle risate. 

“Io non compro se non da altri predoni,” fece Ran, sdegnosamente.

Tutti risero. “Giusto!”

“In fin dei conti che scopo ha la nostra vita, se non l’avventura? Ho riposato, mangiato e bevuto: mi annoio. E anche Deyan-shir.” Indicò genericamente alla sue spalle, anche se non c’era. “Partirà anche lui, perché anela ai tesori di Kelitha; com’è giusto che sia.”

“Io al suo posto non mi annoierei, con tutte quelle schiave al mio servizio,” borbottò uno dei kelith.

“Al mio paese si dice che il pane è più buono quando si ha fame,” ribatté Aydie. “Vuoi mettere il piacere di tornare tra calde braccia, piuttosto che starci?” Sputò un pezzo di foglia di spezia. “Deyan-shir è oltremodo saggio per la sua età. Penso che seguirò il suo esempio: non mi va di bighellonare in questa luna di reietti mentre gli altri si divertono sul mondo.”

“Si divertono,” disse il suo compagno. “Ma a volte ci muoiono.”

“E allora?” La cicatrice di Aydie si contorse in una smorfia. “Si muore anche quassù...”

Ran ripensò a Nafur. Rabbrividì.

È vero, si muore anche qua. Si muore nelle risse e nei duelli; si muore per le ferite, per i troppi bagordi, per le malattie, per la durezza di questo clima selvaggio; si muore perché non si è buoni a nulla e dopo la schiavitù c’è solo l’abbandono nella desolazione, per eliminare bocche inutili da sfamare. Luna di Fuoco non è un paradiso, è soltanto un rifugio. Gli animali condotti qui s’ammalano misteriosamente, e muoiono; nascono pochi bambini, come se la natura non volesse che ci moltiplicassimo troppo quassù...

Represse la tristezza e inalberò un sorriso.

“Avrete tempo di pensare ai prossimi guadagni, e a come ottenerli. Intanto il nostro contabile, Sermek il kelith, è già pronto a distribuire il premio. Siate educati con lui: ci ha lavorato tutta la notte ed è molto stanco... e ricordate che è qui perché ha aperto la pancia a un mercante troppo insistente.”

Non è vero, ma così eviteranno di prenderlo per il collo per avere i loro soldi. 

Si voltò, mentre i predoni si alzavano contenti e cominciavano a parlare animatamente tra di loro. Sicuramente la loro eccitazione avrebbe fatto il giro di tutta Luna di Fuoco, aumentando la popolarità della Squadra Sacrilega. La notizia che persino Ran si sarebbe buttato a fare nuovi colpi sarebbe suonata come uno schiaffo agli altri grandi capi, che si sentivano tali solo quando mandavano gli altri a rischiare la pelle. 

Come già fanno i capi là sul mondo: e allora dov’è la differenza? 

Camminò verso il suo alloggio, notando come i suoi uomini lo guardavano: c’era ammirazione, nei loro sguardi, e rispetto. Ricordò quando da ragazzino gli dicevano che non avrebbe mai combinato nulla di buono, e il pensiero gli diede il buonumore. Forse molti saggi avrebbero questionato sul fatto che creare un gruppo disciplinato di tagliaborse fosse un’impresa meritevole, ma ognuno doveva cercare l’eccellenza dove poteva... 

Non mi sono mai sentito tanto completo come in questo momento. 

Gli offrirono delle focacce calde, cotte sulla pietra: se ne mise una in bocca, ne prese un’altra e scostò la tenda del suo alloggio: non c’erano porte, in onore della pura tradizione sayanni che faceva di una casa uno spazio comune.

“Xarani!”

Gli rispose il silenzio. 

Entrò nella grande stanza. Non c’era nessuno. Cercò con lo sguardo il proprio giaciglio in mezzo agli altri: era in ordine, con le pellicce rimesse a posto. Su di esse era stata posata una statuetta, scolpita in una pietra tenera. 

Ran si avvicinò a raccoglierla, guardandola con improvvisa malinconia. Rappresentava la Coppia Divina: i due dèi erano spalla a spalla e si tenevano per mano...

Il suo pollice sfiorò la figura di Lilia.

Xarani.

La ricordò come l’aveva vista quel mattino, dopo essersi svegliato tutto indolenzito: aveva dimenticato cosa volesse dire dormire direttamente a terra, sulla sua vecchia coperta. Aveva aperto gli occhi e l’aveva scorta seduta accanto a sé, con una delle sue pellicce stretta al corpo nudo, le braccia atletiche che risaltavano contro il pelo dorato dell’animale, la schiena seminascosta dalla massa dei capelli. Si era girata verso di lui e gli aveva sorriso con gratitudine.

“Kamoh u Lilia sh’nei ni, Randanai.”

Lui non aveva saputo come risponderle: forse per la prima volta in vita sua, gli erano mancate le parole...

Gli altri sayanni vergini avevano sbuffato, destandosi a loro volta e sbadigliando; lei si era girata a benedire anche loro. Sembrava felice, nonostante la compagnia non fosse certo delle più elevate: era finalmente tra la sua gente, e si godeva quella sensazione come se fosse stata l'ultima della sua vita. 

Erano arrivate le vecchie kelith, che sembravano non dormire mai: avevano portato il solito pentolone di zuppa calda con cui i sayanni iniziavano la loro giornata. Avevano notato la donna in mezzo agli uomini, ma vedendo che aveva il collare da schiava non l’avevano servita. Lei le aveva guardate andar via con aria incerta; quindi si era rivolta a Ran e con vergogna gli aveva confessato di aver tanta fame, ma di non aver assolutamente nulla di proprio con cui pagare...

Ran si era sentito bruciare dentro, colto da una pena indicibile. In quel momento avrebbe voluto essere Khanshir solo per depredare tutti i palazzi dei kelith e tutti i templi di Sayanna, e mettere ogni ricchezza del mondo ai suoi piedi, affinché lei non dovesse mai più sentirsi così umiliata!

Più svelti di lui erano stati però gli altri sayanni, che avevano tutti offerto la propria ciotola di zuppa a quell’essere sacro, sperando che lei la toccasse; e Naysiak si era trovata all'improvviso circondata da tazze fumanti. Aveva sorriso, facendo l’antico gesto di ringraziamento, e aveva mangiato una cucchiaiata da ogni ciotola, come in un rito di condivisione. Era stato un momento di intensa emozione: anche predoni induriti si erano commossi, e Ran aveva sentito quel caldo senso d’unione tribale che era tra le gioie più dolci della sua razza, e che nessun kelith individualista era in grado di comprendere.

Con lei non siamo stati più reietti. Non ci siamo più sentiti cacciati dal nostro paese, nemici del nostro popolo, maledetti dai nostri dèi. Ci siamo sentiti a casa, anche qui, e lei non era una guerriera sacra, né una vile schiava, ma soltanto una di noi... la compagna che ogni sayanni vorrebbe al proprio fianco.

Che lui avrebbe voluto al proprio fianco. 

Ran sospirò, riconoscendo quel pensiero. 

Devo fare qualcosa. Non sopporto più questo senso di vergogna che ho dentro di me: vergogna per le cose che ho fatto... e per quelle che non ho avuto il coraggio di fare!

Posò la focaccia sul davanzale e aprì la sua vecchia cassapanca. Ne estrasse un oggetto 

Mi spiace, amico mio. So cosa vorrebbe dire per te se ti restituissi questo triste ricordo. Mi ero ripromesso di non mostrartelo mai, perché so quanto dolore ti ha provocato, e so che fai di tutto per dimenticarlo. Ma anche se mi odierai per questo, è arrivato il momento di farti render conto di quel che stai facendo... di farti ricordare quel che hai provato tu, quando hai portato questo!

Era un collare di bronzo, dalla saldatura spezzata. 












Deyan avanzò nelle strade polverose del quartiere kelith, coperto dalla testa ai piedi. Di lui si vedevano solo gli occhi dietro la maschera che li proteggeva dai raggi solari, ma bastava quella a farlo riconoscere: era appartenuta a uno dei suoi antenati di mezzo millennio prima, scolpita magistralmente in un solo cristallo Ankay dall’ottica perfetta, ed era stato il primo oggetto che aveva rubato. Gli sfaccendati lo notavano e distoglievano subito lo sguardo, con quella sorta di timore reverenziale a cui lui era abituato. 

Passò per la zona dei divertimenti e proseguì oltre, là dove le case si trasformavano via via in baracche sempre più povere e isolate, e la desolazione infilava le proprie dita polverose tra le strade dei predoni più derelitti, quelli ormai a un passo dal fallimento. I due soli frustavano il paesaggio disegnando duplici ombre nette, e un silenzio inquietante gravava nell’aria immobile. 

Si diresse verso un mucchio di pietre, un rozzo arco coperto da una vecchia stuoia: era l’ingresso di una casa interrata, niente più che un squallido buco sottoterra. Seduto accanto alla stuoia c’era un rottame umano dai lunghi capelli, così chiari da sembrare un albino: ma erano giallastri, come la pelle che una vecchia tunica lasciava scoperta tra uno squarcio mal cucito e l’altro. 

L’uomo alzò la testa verso il nuovo venuto, strizzando gli occhi come un uccello notturno. 

“Benvenuto, nobile signore.” Ebbe un tremito.  “Hai portato da bere?”

Deyan scostò il mantello ed estrasse un piccolo otre da cinque misure.

L’uomo si precipitò ad afferrarlo, come se da esso dipendesse la sua vita. Strappò lo zipolo e si versò a canna il liquido in gola: solo dopo parecchie sorsate sembrò calmarsi. 

“Ah, il nymaa, il piscio degli dèi!” sospirò, voluttuosamente.

Era una definizione fin troppo generosa per il più vile dei liquori kelith. Quell’uomo ormai viveva solo di quella sostanza, com’era inevitabile per coloro che se ne intossicavano, e Deyan vedeva chiaramente che non gli restava molto da vivere: era magro come uno scheletro, con la bocca quasi completamente sdentata, gli occhi gonfi e sporgenti, le mani tremanti. 

“Parlami ancora di Chanda,” gli disse, e si accosciò a terra, davanti a lui. Preferiva restare lì fuori, piuttosto che entrare nel buco maleodorante che era la tana di quel derelitto. 

“Non ho più molto da dirti,” disse l’uomo, tracannando un’altra sorsata. “TI ho già raccontato tutto. Noi siamo il popolo del nord, delle piane nevose e delle estati brevi. Qualche bastardo dice che... siamo più simili ai sayanni che ai kelith, ma non è vero: diventiamo azzurri solo quando le tempeste ci sorprendono tra i ghiacci, e moriamo fissando il cielo più bianco dell’inguine di un’albina...” Una risatina. “Sì, Deyan-shir, io, un uomo comune, l’ho visto. E per questo anch’io, come te, sono stato marchiato come schiavo... e mandato a remare sulle galere del mio principe, possano i suoi lombi avvizzire e il suo nome sparire nell’oblio.”

Deyan aveva già sentito quella storia, ma non interruppe il flusso di parole. 

“Noi Chandì siamo una razza antica, la più antica di Kelitha: persino Shana è venuta dopo di noi. Siamo di alta statura, coi capelli che mostrano la nostra ascendenza dal sole giallo; i nostri occhi sono dell’oro che nel nostro paese non vediamo mai, perché la nostra terra è povera. Abbiamo poche donne, che sono molto belle da fanciulle, ma poi diventano dure e scabre come i nostri alberi. Siamo divisi in clan che si distinguono da una fusciacca che portiamo sulla veste: uno Chandì rimane nudo, piuttosto di lasciarsi togliere la keima. Le nostre case sono in legno, e la shanda è una sorta di torre separata, circondata da un alto muro, perché un buon Chandì brama tutte le femmine, anche quelle degli altri... e in questo siamo piuttosto simili, non è vero, nobile signore?” Rise, sarcasticamente. “Che altro vuoi sapere?”

“Dicono che vi piacciano le musiche tristi. Insegnami un’altra canzone del tuo paese.”

L’uomo si schiarì la gola, sputò e cominciò a cantare con voce roca ma ben intonata:

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

ma abbiamo perduto il paradiso.

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

ma nostro padre ci volta le spalle.

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

e la morte non ci fa paura...

Deyan ascoltava con attenzione. Il canto faceva riferimento all’Arca leggendaria... che però, come aveva scoperto, era esistita veramente.

Davvero siamo stati generati da esseri provenienti da altri mondi?

Nella cultura kelith non era quasi rimasta traccia di quel vascello divino: solo nelle ballate, nelle favole e in qualche antica pittura, dove si vedeva un palazzo tra le nuvole, dal quale gli déi spargevano semi sulla terra. Non c’era poi quasi menzione del suo ritorno: nell’osservatorio astronomico del palazzo in rovina di Mahajana i sapienti avevano registrato il passaggio di uno strano astro, diverso da ogni cometa; ma quell’oggetto inconsueto era sparito dagli orizzonti di Kelitha, e solo i navigatori dell’oceano l’avevano rivisto, con racconti che erano sembrati inverosimili: una luce immobile sul cielo di Sayanna. Si era sperato che fosse il castigo celeste per quegli insopportabili barbari che infestavano l’altra parte del mondo... 

E per una di loro lo è stato davvero.

Il pensiero di Naysiak fermò la sua mente: gli sembrò di sentirsi addosso il suo sguardo vigile. 

Attento, Seriema...

Detestava quelle intrusioni nel suo spirito, ma sentì i propri sensi obbedire all'esortazione. Guardò l’uomo che cantava, concentrandosi su di lui e non sulle sue parole. E notò che i suoi occhi cisposi si spostavano, guardando di sottecchi a destra e a sinistra. 

Cosa sta cercando? 

L’uomo continuava a cantare. Però con voce più forte, adesso: e stringeva l’otre ormai quasi vuoto. Deyan sentì un lievissimo rumore alle sue spalle: si voltò, ma non vide nessuno. 

Sono in pericolo?

I suoi occhi dietro la maschera perlustrarono la scena, poi tornarono ad affissarsi sul Chandì.

“Perché hai paura?” gli chiese.

L’uomo tacque. Poi la sua bocca sdentata si allargò in un triste sorriso. 

“Perché dei sayanni stanno arrivando qui.”

Il Chandì indicò verso la sua sinistra e la sua destra. Deyan gettò uno sguardo verso le altre baracche, e stavolta vide degli uomini azzurri uscire dagli angoli, con le vesti succinte e i corpi massicci e polverosi. 

Rabbrividì. Un’imboscata?

“Credevo di esser stato abbastanza generoso, con te.”

“Non sei sempre con me, nobile signore." Il suo sorriso si mutò in una smorfia. "Lo sai cosa si prova, quando si resta senza nymaa?... Si impazzisce, e si fa qualunque cosa per un sorso di giallo liquore! In vita mia ho fatto ben di peggio che raccontare... che un certo nobile sarebbe prima o poi tornato da me. Ti hanno tenuto d’occhio... e io ho dato loro il tempo di arrivare.” Una scrollata di spalle. “Niente di personale.”

Una calma mortale scese nell’animo di Deyan. 

Dovevo aspettarmelo... dovevo essere più prudente. 

Si alzò lentamente, preparando le proprie armi sotto il mantello. 

“Mi ucciderai?” chiese il Chandì, con voce lamentosa. 

“La tua vita è un inferno, perché mai dovrei essere misericordioso con te?”

Osservò freddamente i nemici che lo circondavano.

Sayanni, armati fino ai denti. Ran saprebbe identificarli, io non li conosco: probabilmente sono uomini di Saraji che non hanno trovato posto nella nostra squadra, e vogliono vendicarsi. Sarebbe meglio evitare lo scontro, ma non è saggio pensare che mi lascino libera la via per rientrare nel quartiere dei kelith. Potrei fuggire verso la desolazione, ma mi inseguirebbero, e non ho acqua per spingermi nelle profondità.

Guardò il Chandì, evidentemente ubriaco.

Quest’uomo mi è completamente inutile. Non ha le forze neppure per scappare. Non ho modo di avvertire Ran: nessuno sa che sono venuto qui.

Un sorriso amaro gli salì sulle labbra.

Ho commesso un errore... o forse ho voluto commetterlo? 

Qualcosa di simile alla disperazione gli salì nell’animo... ma tutti i pensieri si infransero contro una barriera immateriale in lui: gli sembrò che un’entità gelida e oscura l’abbracciasse, cancellando ogni emozione. 

Dea Misericordiosa, dolce è la tua vicinanza. 

Attese i suoi nemici, senza paura.

“E la tua cagna da guardia, kelith bianco?” esordì uno dei sayanni, guardandolo con disgusto. “Ci hanno mandato a tagliarle la gola, ma visto che non c’è taglieremo la tua.”

"Forse gli altri, ma tu no."

Deyan alzò il braccio e il suo lanciadardi scattò quasi istantaneamente. Il sayanni fu colto alla sprovvista: il quadrello d’acciaio gli si conficcò nella gola. Emise un verso strozzato e si portò le mani al collo, con gli occhi sbarrati, cercando di strapparsi il dardo... ci riuscì, ma un fiotto pulsante di sangue schizzò di fronte a lui e gli salì alla bocca, soffocandolo.

“Jirian!” gridò uno dei suoi compagni, e accorse da lui, in tempo per sorreggerlo prima che cadesse. Lo guardò boccheggiare, rendendosi conto della gravità della ferita. Non perse tempo: estrasse dalla cintura il pugnale e glielo affondò con precisione nel cuore.

Uomini risoluti, pensò Deyan con un brivido. Se aveva sperato di guadagnarsi del tempo, era stato deluso. 

“Uccidere a distanza è da vili,” mormorò il sayanni, lasciando andare il cadavere.

“Anche andare in tanti contro uno,” replicò Deyan, mettendo mano al suo coltello. “Adesso avete un uomo in meno, ma siete sempre troppi per considerarvi dei sayanni coraggiosi.”

“Ci dividiamo la vergogna di doverti toccare, non la gloria per un’uccisione!”

“Vi dividerete anche il bando dei Marjaban.”

“Sì, se qualcuno andrà a raccontare come sarai morto...”

Deyan lanciò uno sguardo al Chandì: era con quella vuota moneta che si era comprato un momento di paradiso?

Ma io in che cosa sarei diverso da lui? 

Si abbassò il velo scoprendo il viso, e i sayanni videro che sorrideva...

Partì all’attacco, prendendo alla sprovvista gli avversari che mai si sarebbero aspettati tanto da un kelith. Si piegò fulmineamente e la sua mano armata tracciò un arco basso sulla gamba dell’uomo più vicino: sentì l’acciaio che mordeva la carne e l’urlo del nemico.

Cento battiti del suo cuore, e il veleno comincerà a fare effetto...

Piroettò per recuperare una posizione difensiva e intanto con l’altra mano estrasse un pugnale da lancio, scagliandolo contro un altro sayanni che gli correva incontro con la spada sguainata. L’uomo alzò il bracciale d’acciaio, intercettando il pugnale e deviandolo. Deyan non si fermò un istante, fece per estrarne un’altro, saltando di lato; ma anche i suoi avversari erano agili. Uno gli si tuffò ai piedi proprio mentre atterrava: cercò di evitarlo con una contorsione acrobatica, si lasciò cadere col pugnale puntato in basso, per colpire comunque il suo avversario: lo raggiunse nella schiena, ma sulla vasta scapola: l’urto quasi gli fece perdere la presa sull’arma. 

Dannazione!...

Non poteva sprecare tempo con ferite leggere, i sayanni avevano una resistenza straordinaria e il veleno era ormai esaurito. Conficcò il pugnale da lancio che teneva in mano nel collo del nemico, sperando di ucciderlo; ma nello stesso tempo si sentì afferrare per una gamba, e una forza sovrumana lo sollevò letteralmente per aria...

Sono troppi!

Sbattè violentemente con le spalle a terra, e l’urto gli fece ronzare le orecchie. Per un attimo perse il controllo sul proprio corpo, e quando lo recuperò qualcosa di pesante lo inchiodò nella polvere: era lo stivale di uno dei sayanni, puntato sul suo petto. L’uomo aveva i denti scoperti in un ghigno crudele.

“Ti schiaccerò come un insetto, dannato testabianca...”

Un urlo acuto, modulato e penetrante, squarciò l’aria secca come un colpo di spada. 

"Ai-ni-ri-ri-ri-ri-ri-ri Naiai-ai-ai-ai-aiii!"

I sayanni si irrigidirono quasi istantaneamente, come se quel suono li avesse paralizzati. E dal tetto di una baracca una figuretta bruna e azzurra balzò nel vuoto, con un salto quasi impossibile; atterrò nella polvere con una capriola acrobatica, si rimise in piedi con lo stesso slancio e corse velocissima verso Deyan.

“Seriema! Scappa!...” 

Naysiak!  








Deyan vide i sayanni scuotersi dall’effetto di quell’urlo, e voltarsi tutti ad affrontare la piccola donna che si gettava verso di loro, con un grido di guerra. Lei attaccò a testa bassa il primo guerriero che le si parò davanti, in un mulinar di spada e pugnale, ma non lo uccise: gli consentì di contrattaccare, e si spostò abilmente di lato. Deyan capì che stava cercando deliberatamente di allontanare i sayanni da lui. 

Vuol darmi l’occasione per mettermi al sicuro!

Si rimise velocemente in piedi, approfittando di quella diversione per allontanarsi e trovare rifugio nel labirinto di baracche. Prima di svoltare l’angolo intercettò il suo sguardo, la vide fargli un cenno d’assenso; poi lei lanciò un altro urlo di battaglia e colpì: un ventaglio di sangue si disegnò nell’aria, seguito da un ruggito di dolore...

Quei tagliagole non sono al suo livello.

Corse via, ma il suo passo pian piano rallentò, come se le gambe gli fossero diventate di piombo. 

Ma loro sono tanti, e lei è da sola. La sto abbandonando ai miei nemici.

E cosa c’era di strano in questo? Nella logica kelith era naturale sacrificare uno schiavo per salvarsi la vita. Poteva essere una perdita dolorosa, ma era sempre meglio che farsi uccidere...

Non devo sprecare l’occasione che mi sta dando.

Continuò a camminare, ma si artigliò il petto con una mano, scoprendo di faticare a respirare. Nella sua mente viveva il combattimento di lei, vedeva le facce distorte dall’ira dei suoi avversari, che lei provocava a bella posta per attirarli contro di sé. Sentiva la sua fatica, il dolore dei muscoli della schiena ancora ferita, ma anche la gioia perché da qualche parte lassù qualcuno avrebbe accolto la sua anima ancora intatta... 

Deyan si fermò, sentendo il cuore battergli forte nelle tempie. 

Devo andare via... lasciarla al suo destino. 

Ma intanto che faceva quel pensiero, caricava già un altro dardo nella sua balestra da braccio. Poi prese tutti i pugnali da lancio che gli rimanevano, e tornò indietro di corsa, verso il rumore della battaglia. 

Sono un pazzo! Tutto per una schiava...

No. Per Naysiak.

Svoltò l’ultimo angolo, col cuore in gola; in tempo per vedere quattro sayanni calare fendenti su una figura quasi invisibile tra di loro, combattendo tutti insieme. Senza un solo pensiero scaricò il suo dardo sulla testa di uno di loro: lo colpì in pieno nella nuca, uccidendolo. Gli altri si girarono verso di lui, stupiti da quell’intrusione...

“No!” gridò Naysiak, guardandolo quasi con orrore."Non qui!... Seriema via, via, via!" 

Lanciò un urlo carico di frustrazione e rabbia, e partì al contrattacco come una furia. Solo allora Deyan si rese conto della sua tattica.

Non voleva uccidere i suoi compatrioti! Combatteva per distrarli, non per eliminarli...

Ma la presenza di Deyan cambiava tutto: ogni uomo in armi era un pericolo per lui. E lei non ebbe più esitazioni: una testa volò via dalle spalle, un mucchio di visceri uscì da un addome squarciato, due occhi si strabuzzarono quando lei conficcò il pugnale sotto il mento di un enorme guerriero. 

Vista la malparata, gli altri arretrarono, incerti. Lei ringhiò come un animale, raccolse per i capelli la testa che aveva appena tagliato e la lanciò contro di loro come un proiettile, urlando maledizioni nella sua lingua...

Era troppo: i sopravvissuti scapparono. 

Deyan si avvicinò a lei, vedendola cadere in ginocchio nella polvere, col fiato grosso. Era ferita? O era tutto sangue altrui quello che la ricopriva? 

“Naysiak...”

“Indietro,” ansimò lei, conficcando a terra la spada e fissando il vuoto. E quando lui fece un altro passo si voltò a guardarlo, con occhi fiammeggianti. “Scappa, shki kelith!...”

Deyan si irrigidì. “Non darmi ordini...”

“Stupido!” ruggì lei, facendolo trasalire. 

Cosa ha osato dirmi, questa schiava?!

“Perché Seriema tornato? Perché non ascolta?!” I suoi occhi scattarono in tutte le direzioni. “Presto! Via! Qui non posto buono...”

Un rumore secco, come uno schiocco. I sensi addestrati di Deyan lo riconobbero istantaneamente.

Una balestra!

Ma da quale direzione? Non ne aveva idea!

Gli automatismi di una vita fecero afflosciare i suoi muscoli per lasciarsi cadere, ma sapeva che ormai era troppo tardi. Sentì il sibilo del dardo che fendeva l’aria, attese l’impatto inevitabile...

Si trovò di colpo rovesciato a terra, con così tanto impeto da strappargli il fiato dai polmoni.

Naysiak?!

Gli era saltata addosso, veloce come un fulmine; e lui non aveva immaginato che una femmina potesse essere così pesante. Lo schiacciava a terra, rendendogli difficile persino respirare... 

Per un istante nessuno dei due si mosse. Poi lei alzò appena la testa.

“Perdono... per toccare,” mormorò al suo orecchio.

“Cosa...”

“Nemico kelith. Uomo. Odore forte.” Una lunga pausa, e il suo corpo si rilassò. “Andato via.”

Anche Deyan si lasciò andare, fissando il cielo giallastro.

Un kelith!... 

Dunque l’attentato era stato organizzato da lui, e i sayanni dovevano servire unicamente come diversivo. Era un piano complesso, tortuoso, tipico della Fratellanza: Nafur per loro era scappato, ma qualcuno al corrente dei suoi affari doveva aver pensato di prendersi la preda che si era lasciato alle spalle...

La mia guerra segreta non è ancora finita, pensò acidamente. 

“Ora, Seriema... andare a casa.” La voce di Naysiak era sottile, implorante. “Al sicuro. Io prego.”

“Alzati, voglio che mi accompagni.”

“No.” La sentì tremare. “Seriema andare... da solo.” 

Fu solo in quel momento che si rese conto che lei gli aveva fatto da scudo. La afferrò e la rovesciò sul fianco, e vide la freccia conficcata nella sua schiena, poco sopra la cintura.  


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Capitolo 19
*** Dove la morte gioca a cambiare la vita ***


Naysiak non capiva. 

Aveva giurato davanti a Kamoh e Lilia che avrebbe considerato Deyan come Liberatore, e che l’avrebbe protetto secondo il compito divino per cui era stata addestrata. Lui, da bravo kelith, l’aveva resa schiava e l’aveva sfruttata con la protervia tipica della sua razza, senza nessuna considerazione dell’alto onore di avere una guardia del corpo Xarani. Nonostante le infinite vessazioni subite, lei aveva mantenuto il patto con l’abnegazione tradizionale, salvandolo dal pericolo. E tuttavia adesso lui non si decideva a comportarsi come doveva, e continuava a rischiare la sua preziosa vita, in maniera intollerabile...

“Seriema, via!” lo pregò, sperando che fossero le parole giuste. Forse non comprendeva quel che voleva dirgli? “Ferita niente! Non importante! Seriema importante!” Stupido d’un diavolo bianco, se solo non fossi tornato indietro... “Andare, non paura. Piccola freccia kelith fatto poco, guarda...”

Si portò la mano alla schiena. Sentì l’asta che sporgeva dalla pelle, e prima che lo sgomento la fermasse l’afferrò. 

“No!” esclamò lui, vedendo cosa stava per fare.

Ma lei se la strappò ugualmente...

Rimase stupita dal poco dolore che aveva provato. Si guardò la mano insanguinata, e comprese immediatamente il perché: aveva sfilato solo l’asta, ma la punta le era rimasta conficcata dentro. 

“I dardi di balestra sono studiati per non lasciarsi estrarre così facilmente,” sibilò lui.

Lei respirò a fondo, per auscultarsi secondo un'esperienza che aveva fatto sin da piccola: sentiva la punta conficcata profondamente nel muscolo, che la tormentava a ogni movimento. 

Maledetti kelith, sempre a pensare a modi per rendere più cattive le loro armi vigliacche...

"Niente cosa importante di corpo dentro, ferita,” concluse, sperando che questo convincesse Deyan a muoversi. E fece per rialzarsi in piedi, ma ricadde sulle ginocchia con aria stupefatta. 

Le mie gambe...

"Lo immaginavo," mormorò lui. “La freccia era avvelenata." 

Lei sentì un brivido, a quella sentenza.

Quindi sto per morire?

Il presagio si era avverato. La tazza con cui aveva bevuto si era spezzata, quella mattina; ne aveva contemplato i cocci, e aveva sentito il vento di Luna di Fuoco soffiarle sul viso, sussurrandole che tutto stava per finire...

E io sono pronta. Respirò profondamente, mentre la sua anima si arrampicava su quella scala di luce dentro di lei. Lo sono sempre stata, dopo quell’eternità nel Feretro: cosa può farmi paura ormai?

“Io contenta fatto dovere di Xarani,” disse, con voce calma. “Ora Seriema andare al sicuro, prego.” 

“E tu?”

“Io qui. Presto nemici tornare.” Afferrò il proprio pugnale dalla lama imbrattata. “Io morte con armi... grande onore. E andare in Ta’Itza con famiglia, amici...” La voce le vacillò: “... sposo.” 

Pa’ekin, finalmente ti raggiungerò anch’io... ho aspettato questo momento per più di un millennio!

Il Liberatore la guardava, con un’intensità quasi dolorosa. 

“E io cosa dirò a Ran?”

La sua solita crudeltà... le ricordava la vita, proprio in faccia alla morte. 

“Randanai guerriero, capire dovere di guerriero.” Kamoh, Lilia, fate che sia veramente così! “Ora andare, prego. Addio...” Lo guardò, e si fece forza per pronunciare per l’ultima volta il suo nome maledetto: “... Deyanshir.”

Gli voltò le spalle e strisciò verso la propria spada. La prese e restò in ginocchio, tranquilla, ad aspettare la morte. 

Lui si raddrizzò, guardandosi intorno. 

“No,” mormorò. “Ci dev’essere un’altra soluzione.”

“Seriema!...”

“Zitta,” le sibilò lui. “E non muoverti: ogni tuo sforzo accelererà l’effetto del veleno nel tuo corpo. Non puoi quindi seguirmi con le tue gambe. Se ti abbandono qui, morirai. Se vado a cercare aiuto, non farò in tempo a salvarti. Se rimango qui, morirò con te.” Si rialzò il velo, agganciandolo al nasale della maschera. “Direi che non ho alternative.”

La raggiunse, l’afferrò e cerco di caricarsela in spalla.

Naysiak restò sbalordita da quell'audacia. Come tutti sapevano, la magia di Sayanna rendeva i corpi dei suoi abitanti non solo più forti di quelli dei kelith, ma anche più densi. Lei era una femmina, e di una razza minuta, ma anche così eguagliava o superava addirittura il peso di Deyan… 

E lui se ne rese subito conto, quando se la mise addosso. Ma non disse altro che un laconico: “Aiutami, cerca di bilanciarti sulla mia spalla.” 

Lei obbedì, e con discreto stupore si trovò sollevata da terra, con la testa contro la schiena di lui e un suo braccio intorno alle cosce.

“Questo non saggio!” protestò.

“Se fossi saggio, a quest’ora sarei sul trono di Shana... e tu ancora dentro a quel feretro.” Barcollò, sotto il suo peso. “E ora fa’ silenzio!”

Lei chiuse gli occhi, con vergogna. 

“Ya, Seriema.”

Lo sentì iniziare a camminare. I primi passi furono incerti, barcollanti: ma poi lui ritrovò il ritmo. 

Perché fa tutto questo? Ormai non gli sono più utile! 

Sapeva lo sforzo che stava facendo: lo sentiva nel tremito dei suoi muscoli, nel suo respiro sempre più affannoso, nel sudore che inzuppava i suoi abiti sotto al mantello. Si aspettava da un momento all’altro che stramazzasse al suolo, e lei addosso a lui. E allora forse avrebbe accettato l’inevitabilità delle cose, e si sarebbe deciso ad abbandonarla...

Ma lui resisteva, continuando ostinatamente la sua marcia. E lei se ne stupiva: non immaginava che sotto quell’aspetto fine e aristocratico il suo Liberatore nascondesse tanta forza. 

Credevo che tutti gli albini fossero vermi senza spina dorsale…

Doveva ammetterlo, sia pure a malincuore: Deyan era quanto di più detestabile, ma anche di più ammirevole ci potesse essere nel suo insignificante popolo. Differente in lei in ogni cosa, aveva tuttavia un punto in comune con il suo spirito,: ed era quella sorta di essenza guerriera alla quale lei sapeva di potersi affidare. 

Per questo, quando nel Feretro l'ho sentito, ero convinta che fosse un sayanni…

Sentì uno strano calore invaderle i piedi, ebbe la sensazione di sentirli sciogliersi e diventare enormi. Non era doloroso, ma provò sgomento. Era l’effetto del veleno? Stava già cominciando a ucciderla?

Note di strumenti esotici le giunsero alle orecchie, sempre più forti. Sentì il tintinnio dei campanelli augurali, brusio di conversazioni, odori di spezie sconosciute. Aprì appena gli occhi, vedendo solo un rutilante mondo di pietra chiara con figure avvolte in vesti multicolori... 

Il quartiere dei divertimenti dei kelith!...

Rabbrividì all’idea di trovarsi in quel luogo rigurgitante di peccati. Sentì la tensione che accompagnava il loro passaggio nelle vie: non era consueto vedere un kelith che trasportasse sulla spalla una schiava sayanni, ferita e insanguinata. La gente si faceva da parte, osservandoli curiosamente. 

E lei sentiva l’ostilità degli uomini… e la pressione dei loro sguardi. Alcuni avevano il gusto dello stupro, secondo le abitudini sudicie della loro razza: una femmina nemica ancora vergine da violare era un piacevole diversivo. Forse Deyan l’aveva portata via da una morte onorevole per poi farla finire a quel modo? 

Andiamo via, Liberatore, via da qui, ti prego!

Ma il suo respiro le indicava che ormai era arrivato anche lui al limite delle sue forze. Lo sentì fermarsi, per poi cadere in ginocchio. L’urto mosse la freccia nella sua schiena, e Naysiak si irrigidì ingoiando il lamento che aveva nel petto... si lasciò scivolare a terra, guardò i propri piedi: erano assolutamente normali. Ma non riusciva più a muoverli.

Non sono più in grado di combattere.

Alzò la testa a guardare il Liberatore, che ansimava per riprendere fiato. Lui si guardò intorno, notando l’attenzione degli astanti: mercanti, prostitute, tagliaborse, ubriaconi, giocatori d’azzardo, mercenari...

Alcuni di loro li circondarono, e Naysiak mise la mano sull’elsa del pugnale.

Piuttosto che mi tocchino, mi uccido.

“No,” la fermò lui. 

Si alzò in piedi, si tolse il cappuccio, liberando i folti capelli incollati dal sudore, e abbassò anche il velo e la maschera, come per rivelare a tutti di essere un albino.

“Questa è la mia gente,” disse, “e io ho bisogno di loro.”

Un silenzio teso lo circondò, e Naysiak rabbrividì. 

Lui girò il suo rosso sguardo all’intorno, come per sfidare i suoi nemici a farsi avanti. Quindi abbassò gli occhi su di lei, e fece un pallido sorriso.

 “Ed ora vedremo se io e te ci siamo guadagnati la vita... o la morte.”











Pushpa stava spazzando la soglia del Tempio delle Divinità Duali, quando sentì il clamore di molta gente che s’avvicinava. Alzò la testa, stupito, e vide corrergli incontro una donna, con le vesti ancora macchiate dalla pittura con cui stava decorando una casa. 

“Kelith!...” gridava. “E si dirigono qui!...”

Pushpa lasciò cadere la scopa.

I pellebianca?!

A memoria d’uomo non era mai successo che osassero avvicinarsi tanto al luogo più sacro dei sayanni in esilio. Pushpa sperò di non dover assistere a un tentativo di sacrilegio, a cui sarebbe seguito un bagno di sangue...

Ma vide una figura dai capelli bianchi, in una veste da deserto macchiata, che guidava il gruppo di invasori camminando rapidamente davanti a tutti, con la maestà di un uomo che non avesse bisogno di guardarsi le spalle.

Deyan-shir?!

Era a testa scoperta in pieno giorno, una spavalderia pericolosa per lui; alle sue spalle un numeroso ed eterogeneo gruppo di kelith avanzava, con l’aria torva. Quattro di loro trasportavano un ferito su una barella, coperto da un mantello.

“Pushpa!” chiamò l’albino, con voce decisa, e alzò le mani vuote. “Calma la tua gente, non siamo qui con intenzioni ostili. Ho bisogno del tuo aiuto, e subito!” 

“Come osate contaminare il nostro tempio con i vostri feriti?” tuonò uno dei t’yr del Tempio. “Non ci sono più medici tra i kelith?!”

Deyan tolse il mantello dalla figura prona distesa sulla barella. “Lei non è kelith.”

Pushpa sentì le viscere farsi di ghiaccio. 

La Xarani!

Corse incontro al drappello, col cuore in gola, e si parò davanti a Deyan. “Che è successo?!”

“Qualcuno ha tentato di uccidermi,” rispose lui, quasi senza emozione. “Naysiak mi ha fatto da scudo. Una freccia l’ha colpita alla schiena, ed era avvelenata: se l’è strappata, ma la punta è rimasta nella carne.”

Pushpa si girò verso il suo accolito, grigio in volto.

“Presto! Apri la casa della Medicina! Fa’ accendere il tripode per la purificazione!” Si avvicinò alla barella, scostò le trecce della donna che vi era distesa e si chinò a guardarle il volto madido. “Xarani-nin de nai? De nai?...”

“Sen’t’yr,” mormorò appena lei. 

“Grazie agli dèi! È ancora cosciente!... Maku?”

“Shoi jan neme-i akeai...”

“Dice che non riesce più a muovere le gambe.” 

“È l’effetto del veleno.” Deyan indicò la ferita. “Come vedi, il sangue non coagula, e questo benché voi sayanni l’abbiate più denso del nostro. Ci sono molte sostanze con un effetto simile, ma solo una paralizzante: la saliva di una vipera a due code... quella che noi kelith chiamiamo naghrim.”

Gli occhi azzurri di Pushpa si spalancarono in un’espressione costernata. 

“Non conosco questo veleno!”

“Non mi sorprende, è troppo raro e costoso per essere usato come arma contro di voi." Un mormorio ostile si levò da parte dei sayanni presenti, ma Deyan non ci fece assolutamente caso. “Bisogna estrarre al più presto quella punta di freccia dalla sua schiena...”

“Jinna-nin mee’ha yanke’ii.”

Pushpa si impietrì.

“Che ha detto?” chiese Deyan.”

“Che... un guerriero sa quando una battaglia è perduta.”

Naysiak voltò la testa e guardò il t’yr con occhi imploranti. Mormorò appena qualcosa nella sua lingua.

“Dice che è tutto inutile, il veleno in lei è troppo forte.” La voce di Pushpa si incrinò. “Chiede di essere portata al tempio, di fronte alle statue di Kamoh e Lilia, e di essere lasciata a morire in pace...”

“Come si dice codarda nella sua lingua?”

Il respiro di lei si interruppe di colpo. 

“Codarda?!...” ripeté Pushpa, incredulo.

“Dov'è finito il coraggio di questa stupida femmina?” disse Deyan, la voce dura come una frustata. “Si proclama guerriera, ma si è arresa prima ancora di cominciare la battaglia. Forse la grande Xarani ha paura del dolore?”

Nemmeno da moribonda Naysiak poteva accettare quella provocazione. 

“Io paura di niente, t’shish!” ruggì, con un lampo di furia.

“Dimostramelo," ribatté lui, indifferente all'insulto. “Altrimenti muori. Vorrà dire che non valevi niente.”

Lei lo fissò come un animale feroce, ansimando. “Io… Xarani!”

“No,” fece lui, “sei solo una debole schiava piagnucolosa. Una vera Xarani si farebbe togliere quella punta di freccia, e lascerebbe che Pushpa usi tutte le sue arti per salvarla. E non oserebbe pronunciare parole di resa: invocherebbe piuttosto gli dèi, gli spiriti, qualunque entità possa aiutarla… ma resterebbe aggrappata alla vita per proteggere il suo signore!” 

Seguì un istante di bizzarro silenzio. 

Naysiak era rimasta colpita dalle parole di Deyan. Tremò, mentre una lieve sfumatura violacea invadeva le sue guance tatuate. E alla fine fece un lungo respiro tremante. 

“Perdono… Seriema. Io… vera Xarani.”

Deyan fece un pallido sorriso. “Allora non arrenderti,” la esortò, con voce di nuovo tranquilla. “E affronta la tua battaglia: non sarai sola a combatterla.”

Alzò gli occhi a Pushpa, che annuì e fece un cenno ai kelith che portavano la barella. 

“Presto, trasportatela dentro quella casa e dite al sayanni che incontrerete di prepararla per l’operazione.” Alzò le mani. “Kamoh e Lilia vi benedicano per ciò che avete fatto, dandovi fortuna!”

Non era mai successo che un t’yr benedicesse dei tradizionali nemici. I kelith si guardarono, sorpresi; poi si affrettarono a obbedire. 

“Sbrigati, Pushpa,” mormorò Deyan. “Ho perso fin troppo tempo ad arrivare qui. E fa’ attenzione a non ferirti a tua volta: il veleno potrebbe contaminare anche te.”

“Come lo combatterò?” gemette il t’yr, nervosamente. “Non so niente su di esso, sul suo effetto, mi occorrerebbe un medico esperto della tua gente, un saggio che conoscesse…”

“È il più forte antispasmodico della nostra medicina,” tagliò corto Deyan. “Ma da puro è mortale per noi kelith, e temo che sia altrettanto letale per voi sayanni. È acido, si ossida facilmente, e per questo quando viene adoperato nelle armi viene stabilizzato con una resina solubile, in modo che si accumuli nel sangue: per questo devi togliere alla svelta quella punta di freccia.”

Pushpa lo guardò, allibito. 

“Sei forse anche un medico?”

Una lieve esitazione. “Sono stato educato in molte arti, Pushpa.”

“Sai allora se esiste un antidoto?”

“No. Non l’abbiamo neanche cercato: l’azione del veleno in noi kelith è troppo rapida per darci il tempo di contrastarlo. Ma Naysiak ha una fisiologia diversa dalla nostra, ed è anche molto resistente...”

“Vuoi dire che dovrei affidarmi unicamente ai suoi poteri di sciamana?!”

Deyan scosse la testa. “Io non credo alla magia nel senso di voi sayanni. Ci dev’essere una spiegazione razionale per quei poteri, forse lei è istintivamente in grado di alterare…” 

Si interruppe, fissando il vuoto. Pushpa lo studiò, notando la sua intensa concentrazione.

“Dea Misericordiosa,” alitò alla fine. “Ma certo!”

“Cosa?”

“Forse si può tentare qualcosa. Sarebbe pericoloso, ma cos’abbiamo ormai da perdere?” Si gettò il mantello sulle spalle. “Mi servono alcune sostanze rare.”

“La mia farmacia è la migliore di Luna di Fuoco...”

“No.” Deyan si calcò il cappuccio sul capo. “Per questo genere di cose, la migliore è la mia.”

Si voltò di scatto e corse via.











La distanza non era poca, i soli flagellavano la polvere, la fatica e l’angoscia si facevano sentire: il passo di Deyan era meno rapido di quanto avesse voluto. 

Se solo avessi un corsiere del deserto!

Ma ogni tentativo di importare su Luna di Fuoco animali più grandi di un falco o di una lucertola era fallito. I predoni avevano a disposizione il più mirabolante sistema di trasporto sul mondo che potesse esistere... ma nel contempo, a casa loro, erano costretti a muoversi come in una società primitiva. 

E questo aiuta a mantenere la stabilità della nostra Comunità, gli aveva spiegato Kurmaji, con un sorriso saggio. Offre lavoro alla parte servile della nostra popolazione, fa in modo di canalizzare le energie dei predoni verso il più comodo, ricco, accogliente mondo lassù. Luna di Fuoco non ci permette di affezionarci troppo a queste polverose lande, e seleziona spietatamente solo i migliori tra i reietti, anche attraverso la fatica... come fa il deserto di Kelitha, che tanto tempo fa plasmò la stirpe imperiale.

Ma Deyan dubitava che i suoi augusti antenati avessero mai corso così tanto. 

No! La stanchezza genera la fatale distrazione, la mente rifiuta di restare concentrata, ma il vero adepto la domina con la forza e cancella ogni pensiero estraneo. 

Ignorò la sensazione della luce cruda sulla pelle, il sudore che lo intrideva, il dolore nelle gambe e nei polmoni. Gli sembrò di annullarsi nella volontà di un altro essere, e questo diede al suo corpo energie che non pensava nemmeno di possedere. 

Giunse finalmente alla sua casa e gridò ai servi di aprirgli. Gli spalancarono subito le porte, entrò come un turbine di sabbia, e quasi finì tra le braccia di Ran, che lo aspettava nel cortile. 

“Finalmente sei qui!” esclamò il sayanni, e si erse con aria formale, in un tintinnio di amuleti e gioielli. “Perdonami, amico mio, ma devo parlarti...”

“Dopo!” lo interruppe lui, e quasi lo scavalcò, lasciandolo esterrefatto.

Si infilò di corsa nel suo laboratorio, frugò tra le scansie bene ordinate, prese alcune minuscole fiale e le infilò in un’apposita borsa di cuoio rigido. Alla porta trovò Ibal, che gli porse senza una parola una tazza di acqua di palma, come se avesse previsto il suo bisogno: la vuotò in pochi sorsi, sentendosi subito meglio. L’eunuco annuì con aria d’intesa, e si fece da parte.

Deyan corse di nuovo fuori, e trovò Ran ad attenderlo, assolutamente sconcertato.

“Si può sapere cosa...”

“È la Dea che ti ha mandato, Ran: mi serve il tuo aiuto. Hanno tentato di uccidermi, Naysiak è rimasta ferita.”

I servi mormorarono, guardandosi tra di loro.

“Un vero peccato,” mormorò Saal, asciutto. “Ma il padrone sta bene...”

“Io sì, ma lei è stata avvelenata e io forse posso ancora aiutarla.” Alzò gli occhi a Ran, che era diventato pallidissimo. “L’ho lasciata da Pushpa, e sono stato abbastanza fortunato da uscire vivo dal quartiere sayanni... ma non credo che mi lascerebbero rientrarvi: sono un albino!”

Ran era un guerriero e non perse tempo in vane domande: si tolse il mantello e afferrò con mano salda la sua inseparabile lancia. 

“Tu ci rientrerai: va’ e non occuparti d’altro, al resto penserò io.”

Deyan annuì e si voltò, cominciando a correre. Ran lo seguì come un’ombra, con una velocità insospettabile per un uomo della sua stazza. Ad una svolta emise un fischio potente, e altri fischi risposero. 

Sta chiamando la Squadra per scortarmi.

I passi pesanti del suo amico divennero ben presto molti passi, ma Deyan non si voltò indietro: fissava solo la strada polverosa davanti a sé. Non diede retta alle grida di chi lo notava: ignorò ogni distrazione e si diresse a tutta velocità verso la Casa della Medicina. 

A memoria raggiunse la stanza dove Pushpa curava i suoi malati: era stata la sua prigione, la prima volta che Ran l’aveva portato su Luna di Fuoco. Ci arrivò totalmente esausto, e col cuore in gola…

Dea, fa’ che sia ancora in tempo!

Naysiak era prona, a torso nudo, sulla stuoia coperta da un telo che era stato pulito, ma ora era sporco di sangue. Gli strumenti di Pushpa erano immersi in un catino pieno di distillato pungente, che era diventato rosa: la punta della freccia era con essi. Il t’yr era chino sulla donna e premeva una ferita da taglio che arrivava in profondità: la tergeva con una pezzuola bollita ormai inzuppata. Deyan respirò di sollievo. 

Se il sangue scorre significa che è ancora viva.

Si tolse i guanti, prese la borsa di cuoio, estrasse una delle fiale e la diede a Pushpa.

“Una goccia in ciascuna narice.”

“Che cos’è?”

“Niente domande. Hai una lancetta cava?”

“Nella cassetta,” mormorò lui, girando Naysiak su un fianco per somministrarle il farmaco. Deyan vide i suoi seni da ragazzina che si levavano e abbassavano, rivelando il respiro rapido e stentato. Era pallidissima, ma non mostrava dolore o paura: i suoi occhi erano semiaperti, ma ancora vigili.

Sta combattendo, come le ho ordinato. 

“Devo darle dell’acqua?” chiese Pushpa, con voce incerta.

“No, la vomiterebbe. Niente per bocca, finché il veleno è ancora in circolazione.” Aprì la cassetta e cercò febbrilmente lo strumento che cercava: lo intinse nel contenuto di altre fiale. “Ora sta’ ferma.” Conficcò con destrezza la punta d’acciaio nel braccio della donna, che sussultò appena. 

“Che cosa le hai iniettato?”

“Ti ho detto niente domande, Pushpa. Hai polvere di radice Man?”

“Man? Man... Manya...” Il t’yr si concentrò. “Arbusto, fiori viola, stami lunghi, foglie opposte e divise?”

Un breve respiro per respingere l’impazienza. “Sì. Va messa sulla ferita, in abbondanza. Procurami anche del sale rosso, non diluito.”

Pushpa lo guardò, suo malgrado impressionato. 

“Sbrigati!” lo stimolò Deyan, quasi con un ruggito.

“Vado,” mormorò. Si alzò e andò a procurarsi i medicinali. 

Deyan restò solo con Naysiak. Sentì confusamente il clamore proveniente dall’esterno dell’edificio, ma lo accantonò e si concentrò su di lei. La vide ansimare, gli occhi socchiusi e pieni di lacrime: l’effetto dello stimolante. Posò due dita sotto il suo orecchio: il battito era molto rapido, per un sayanni che aveva il cuore più grande di un kelith. 

Ha perso troppo sangue... devo fermare l’emorragia.

Prese un panno pulito, lo immerse nel distillato e lo premette con forza contro la ferita. Lei fece una smorfia, ma non le sfuggì nemmeno un gemito.

“Non sprecare energie a nascondere il dolore,” le disse, con voce impersonale. 

“Io… non sente dolore… come civili kelith.”

“Ho visto torturare abbastanza sayanni per sapere che non è vero.” La pressione crebbe. “Respira. A bocca aperta. Non devi dimostrarmi niente. Non devi sfidarmi. Devi solo far entrare aria nei tuoi polmoni.”

Lei obbedì, cercando di respirare a fondo.

“Perché… fare tanto... per inutile schiava?”

“Questa inutile schiava mi ha salvato la vita.”

“Dovere...”

“Non mi importa. Sono un uomo d’onore, e non voglio debiti con nessuno... nemmeno con te.”

“Non debito. Lascia io andare in Ta’Itza...”

“Ti ho già detto che non hai il mio permesso di morire.”

“Perché?” chiese lei, con un filo di voce. “Seriema meglio... senza Xarani che odia, no?” Un respiro tremante. “Casa contenta. Niente più fastidio di barbara, niente parole cattive... niente dolore.” 

“Niente dolore,” annuì lui, e la sua voce si abbassò. “Quante volte l’ho pensato anch’io. Niente vergogna. Niente ricordi di quando ero un principe. Niente cicatrici da sopportare. Padre contento, madre viva, fratelli a dividersi in pace ciò che era stato mio. Ran ricco, come meritava, e senza il problema di avere un amico come me. Era facile, Naysiak... ma così tu non avresti avuto un Seriema.”

Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. 

“E saresti ancora in quel feretro, prigioniera dell’oscurità... immobile in quell’eterna non-vita, ad aspettare fino alla fine del mondo. Se solo io mi fossi lasciato vincere dalla disperazione, come stai facendo tu adesso...” 

“Kainì, Seriema,” gemette lei, ad occhi chiusi. 

E la sua mano afferrò quella di Deyan.

Era un contatto ardito, contrario a tutte le usanze, e il primo, naturale impulso di Deyan fu respingerlo. Ma non lo fece. Era come se lei gli chiedesse di darle la sua forza…

La forza di un kelith, Naysiak?

Sorrise all’ironia della sorte e strinse quella mano, sentendola tremare. 

Pushpa arrivò di corsa, portando vasi di terracotta e rotoli di bende. Sorprese quella scena incredibile, e allibì. Ma non fece commenti: non c’era tempo di pensare alle convenzioni. Con una destrezza impareggiabile distribuì la polvere medicinale sulla ferita, e cominciò a fasciarla. Naysiak restò immobile nelle sue mani, come una bambola rotta. La guardò: i suoi occhi erano fissi in avanti, come se raccogliesse ogni stilla di energia. Ma i suoi tatuaggi sulle guance e sulle tempie risaltavano sempre più sinistramente: stava impallidendo a vista d’occhio. 

“Freddo,” mormorò, con voce roca.

Deyan cercò di massaggiarle le mani, le braccia, di riscaldarla. 

“Naysiak,” la chiamò, vedendole gli occhi che si velavano. “No, guardami! Rispondimi. Parlami.”

La testa le ricadde di lato, e lui si accorse di un filo di saliva che le colava sulla guancia. 

La paralisi sta arrivando troppo in alto... non riesce più a deglutire, tra poco soffocherà!

“Naysiak... no, non lasciarti andare!”

Ma era come vedere una candela che si spegnesse. Il suo corpo si copriva di un velo di sudore gelido, e non tremava nemmeno più. Pushpa se ne accorse, e automaticamente cominciò a mormorare l’antica preghiera, il canto di accompagnamento dei defunti. 

“Taci,” gli sibilò Deyan. “Non è ancora morta!”

“Manca poco ormai,” ribatté lui, con voce rotta. “Ed è mio dovere instradare la sua anima…”

“La sua anima è mia!”

Quel ruggito scosse Naysiak dal suo torpore. 

Lei lo guardò, con occhi imploranti: ormai la consapevolezza della morte era chiara sul suo volto slavato. Raccolse tutte le forze per emettere un sibilo roco.

“Seriema… shishi kan nee mo kaina… Xarani-nin mikka hainè… kan hainè…”

“Che dice?!”

“Ti prega… di non farla morire schiava,” tradusse Pushpa, in lacrime. “È nata libera, ti chiede di morire da libera. È il suo ultimo desiderio, davanti alla morte…”

“Dunque è questo che vuole?” 

Deyan mise la mano alla sua cintura, estrasse la chiave che non lasciava mai. 

“Sai cos’è?” Lei socchiuse gli occhi, ma lui la afferrò brutalmente per la mascella e gliela mise a un palmo dal naso. “Sai cos’è, Naysiak?...”

Pushpa rabbrividì.

Guarda, è la tua libertà. Se vivi. Ma se muori... morirai da schiava!”

“Deyan-shir!...” esclamò il t’yr, sconvolto.

Naysiak fissò la chiave, lottando per respirare. I suoi polmoni emisero un suono raschiante. 

“È qui, è qui per te,” la spronò lui. “Non arrenderti...”

Lei gemette, poi gli occhi le si rovesciarono. Un rantolo animale le salì dalla gola, la faccia si contrasse. 

“Kamoh, Lilia!” singhiozzò Pushpa, non sapendo più che fare...

Vide quell’altezzoso albino afferrare la testa della donna azzurra, chiuderle le narici con le dita e coprire la sua bocca con la propria. 











Ran era in ginocchio davanti alle statue delle Divinità, insieme ai suoi uomini torvi. Un silenzio pesante aveva preso il posto del clamore, e il quartiere sayanni intorno al tempio si era svuotato: tutti si erano chiusi in casa o nelle bettole, ad attendere l’esito degli eventi. La paura era percepibile nell’aria stessa, e Ran la inalava assieme all’odore di sudore, incensi e polvere silicea.

Fanno bene, ad avere paura. Se diventerò un vendicatore, farò impallidire il ricordo di Fahxen, che uccise di sua mano tutti i capi che gli erano ostili. 

Si stupiva del silenzio della sua anima: era come un animale appiattato tra i cespugli. Pregare gli dèi? Non gli riusciva, benché in apparenza fosse ciò che stava facendo. Attendeva, sospeso in un vuoto in cui ogni cosa sembrava senza senso: la sua vita… la vita di lei.

Xarani, ora ricordo il tuo ultimo sorriso... sapevi che sarebbe accaduto questo; e nonostante ciò sei andata ugualmente ad affrontare il tuo destino. Avrei dovuto fermarti?

Sapeva già la risposta. 

Nessun sayanni ha il diritto di sbarrare a un altro la via per la gloria.

Ma Deyan non era sayanni. E non era nemmeno un kelith come gli altri. 

L’ha portata da Pushpa, invece di abbandonarla come avrebbe fatto qualsiasi pellebianca… o ucciderla sul posto, come avrebbe fatto qualsiasi sayanni. Perché?

Qualcuno tra i suoi uomini aveva commentato che non si buttava via un tesoro di kontar qual’era quella schiava unica nel suo genere. Sayanni e kelith si sarebbero strozzati a vicenda pur di comprare una simile rarità… 

E Deyan avrebbe avuto un pensiero così meschino, lui che a sua volta è stato una rarità sul banco degli schiavi?

Ran sospirò, fissando torvamente i sorrisi ineffabili delle statue di Kamoh e Lilia.

Adesso tutto è nelle vostre mani, Divinità; e io sono qui che mercanteggio con voi, promettendo offerte e minacciando sacrilegi se mi volterete ancora le spalle: questo è ciò che il mio popolo chiama preghiera. E voi mi guardate dall’alto e ridete della mia stupidità…

Uno dei t’yr lo chiamò. 

Sospirò e si alzò, seguendolo in silenzio. L’uomo lo accompagnò alla casa della Medicina, e lì Ran si trovò faccia a faccia con un Pushpa stanchissimo, con le maniche della veste arrotolate.

Ma sorrideva, e Ran sentì il cuore esplodergli nel petto. 

“È salva,” mormorò il t’yr.

“Salva!” ripeté, con voce così tonante da far vibrare le pareti. 

Pushpa sbarrò gli occhi. “Non urlare!… Esulterai a tuo modo nella piazza, o in una bettola.”

“Siano ringraziati Kamoh e Lilia…”

“Mi fa piacere che ogni tanto ti ricordi di loro, dannato miscredente,” replicò il t’yr, con tono vagamente acido. Ma sorrise, vedendo la commozione di quel gigante davanti a lui. “Hai ragione comunque a ringraziarli: è stato un miracolo. Se fosse dipeso unicamente da me, sarei qui a chiederti i doni funebri per preparare il suo rogo. Ma al mio fianco avevo quel kelith bianco...” Pushpa emise un grosso sospiro. “Mi vergogno ad ammetterlo, ma è stato lui a salvarla, non io. A quanto pare sa di veleni più di chiunque io abbia mai conosciuto. Davvero competente... “ Corrugò le sopracciglia. “Forse anche troppo.”

“È un principe,” replicò Ran, non volendo rivelare la confidenza che Deyan gli aveva fatto riguardo al suo addestramento. “Sai com’è, i nobili kelith sono immersi negli intrighi. Gli avranno insegnato a difendersi dai cospiratori...”

“Forse.” Pushpa annuì, pensierosamente. “Comunque non avevo idea dei limiti a cui era disposto ad arrivare. All’ultimo istante, quando lei ormai stava morendo… lui le ha soffiato la vita in corpo.”

Ran allibì. Ha fatto questo per una schiava?!

“L’ha mantenuta in vita col proprio fiato, mentre io stesso non sapevo più che fare. In questo modo lei ha superato la crisi, dopodiché il veleno non ha avuto più potere: forse le medicine che lui le aveva iniettato hanno fatto effetto... forse quel suo potere di sciamana ha avuto finalmente il sopravvento. Lentamente è riuscita ad emergere dalla paralisi, finché non è stata fuori pericolo.” 

“Dèi del profondo,” mormorò Ran, impressionato. “E la ferita della freccia?”

Una scrollata di spalle. “Oh, quella è di poco conto: nessun organo vitale è rimasto trafitto. L’ho già ricucita, guarirà rapidamente. Non le resterà altro che un’altra cicatrice onorevole.”











Ran trovò Naysiak in una stanza pulitissima e odorosa di erbe medicinali. Riposava su un fianco, su una stuoia nuova coperta da teli freschi di bucato. Un braciere consumava resina aromatica, dando un profumo confortante all’aria pervasa da un sottile odore di sudore e sangue.

Si precipitò accanto a lei, gettandosi in ginocchio accanto al suo giaciglio.

“Xarani,” mormorò. E tese una mano tremante, quasi a sfiorare i tatuaggi sulla sua guancia...

“Non toccarla!”

Si voltò e vide una figura seduta a gambe incrociate accanto alla porta, con la tunica sporca e macchiata di sangue secco, i pantaloni sudici e strappati, i capelli chiari che gli cadevano sul volto pallido. Lo fissava con occhi simili a carboni ardenti nella penombra, la mano sul manico del pugnale in cintura.

“Deyan-shir,” mormorò. “Sono io…”

Lui esitò, poi allontanò la mano dal pugnale, quasi con uno sforzo.

“Perdonami, Ran. Sono molto stanco.”

Il sayanni tornò a guardare Naysiak. Le sue trecce mezze disfatte si spargevano sul guanciale, rivelando il volto su cui si leggevano ancora le tracce lasciate dall’ordalia: gli zigomi tirati, gli occhi gonfi e le occhiaie violette, le labbra secche e slavate. 

Ma tentò di sorridere, e fu come un raggio del sole azzurro.

“Randanai,” sussurrò.

Lui le prese una mano e la strinse, con occhi lucidi. “Salute, sorella. L’aldilà è già pieno di eroi, uno in più non avrebbe fatto la differenza. Ma qui non ne abbiamo… grazie di essere rimasta con noi.”

“Seriema... dato forza.” I suoi occhi tremarono. “Dato anima.”

E voltò la testa verso Deyan, con un’espressione grata che Ran non le aveva mai visto prima. 

Lui seguì quello sguardo, notando la fissità della stanchezza negli occhi irritati dell’amico. Qualche vescica gli si era formata sulla fronte e la pelle era scottata sotto la barba che stava crescendogli: era stata una prova durissima anche per lui. 

“Allora è vero, sei stato tu a salvarla…”

“Ho fatto tutto quel che ho potuto,” mormorò Deyan. “La Dea magnanima ha deciso che fosse sufficiente.” 

Cercò di rialzarsi, con un movimento pieno di fatica. Ran andò ad aiutarlo a rimettersi in piedi, e impulsivamente lo abbracciò. Solo un momento di rigidità gli ricordò che aveva a che fare con un nobile kelith, ma Deyan era così esausto che non si sottrasse a quel contatto.

“Grazie,” disse Ran, e si sentì bruciare gli occhi. “Grazie per non averla lasciata morire!”

“Avevo scelta?” 

Ran restò colpito dal suo tono tinto di amarezza: lo staccò da sé, per guardarlo in faccia. 

“Che vuoi dire?”

“Mi avresti perdonato, se non l’avessi fatto?”

“Ne avresti avuto il diritto.”

“E saresti rimasto mio amico?”

“Vuol dire che l’hai fatto per me, e non perché lei lo meritava?…” 

Deyan esitò. “L’ho fatto per noi, Ran. Per salvare… il nostro futuro.”

“Non capisco.”

Con un gesto stanco si liberò dalle sue mani. 

“Forse un giorno te lo spiegherò. Adesso resta con lei, devo parlare con Pushpa.”

E senza dir altro, si allontanò dalla stanza.

Ran stette a guardarlo. Poi sentì un fruscio: si voltò e vide Naysiak che cercava di alzarsi a sedere sulla stuoia. Accorse precipitosamente da lei e la prese per le spalle. 

“Che fai?!” le disse, con urgenza. “Sta’ giù, sei ferita!”

Lei lo guardò, con una luce angosciata negli occhi iniettati di sangue.

“Dove... andato?”

Ran provò pena a vederla così debole: la ridistese con cautela, ricoprendola. 

“Non preoccuparti per lui, non può succedergli nulla: la casa è circondata dai miei uomini, nessuno oserà sfiorarlo nemmeno con un dito.” 

Lei annuì lievemente e chiuse gli occhi, esausta. Ran si accomodò a gambe incrociate accanto al suo giaciglio, preparandosi a una lunga veglia: non gli importava che lei fosse la schiava di un altro, sarebbe rimasto al suo fianco, come un degno compagno sayanni.

Dopo alcuni istanti sentì il rumore di passi che si avvicinavano, e Pushpa apparve nella stanza, seguito da Deyan. Il t’yr indossava una veste pulita e recava una tavoletta e uno stilo. 

“Sono stato convocato da Shana-iban Unari Deyan-shir quale Giudice delle Contese,” disse, formalmente ma con un’evidente emozione; e poi tradusse: “Me’han Shana-iban Unari Deyanshir-kin yanaee nir Sha-ji Mi-nai ni t’yr n’hay.”

Gli occhi di Naysiak si aprirono, il suo respiro si fece affannoso. 

Ran si rese conto che qualcosa di importante stava per accadere. Guardò Deyan avvicinarsi, per poi posare un ginocchio accanto alla stuoia di Naysiak. Il kelith sospirò ed estrasse una chiave da una tasca della cintura. 

“È da tempo che volevo regalarti questa donna, Ran.”

“Regalarmi?!”

“Sì. È l’uso di noi kelith. So quanto l’ammiri: ho pensato che fosse il dono più bello che potessi farti. Cosa avresti fatto di lei poi avrebbe riguardato soltanto te: ma sapevo che in modo o nell’altro tu... saresti stato felice.”

Ran avvampò visibilmente, e Naysiak lo fissò sconcertata...

“Ma poi il destino ha voluto altrimenti, per cui sono qui a chiederti perdono: per tener fede al mio onore, devo defraudarti di questo mio dono. Non sarà dunque la tua schiava...” 

Infilò la chiave nel lucchetto del suo collare. 

“Ma nemmeno la mia.”

La serratura si aprì con uno scatto; Naysiak lo guardò con occhi pieni di lacrime.

“Uno Shanì ha una parola sola,” le disse Deyan, con triste dolcezza. “Ti avevo detto che saresti morta come schiava... o avresti vissuto come libera. E così sia: manterrò la mia promessa.” Alzò lo sguardo a Pushpa. “Prendi atto della mia volontà, come Giudice e testimone.”

“Dichiari dunque libera questa donna, e rinunci a ogni diritto su di lei?”

Il volto di Deyan si svuotò di ogni emozione. 

“Sì.”

Ran restò senza fiato. Il tempo si annullò e ricordò se stesso, rabbioso e disperato in piazza con un’ascia in mano, a spezzare un collare di bronzo senza nemmeno rendersi conto dell’enormità che stava facendo. 

Dichiaro libero questo schiavo, e rinuncio a ogni diritto su di lui!...

E tutto quel che era seguito, tutto il nuovo e intricato mondo di morti e successi, di ricchezza e dolore, di speranza e vendetta, tutta la storia cambiata e tutte le nuove e vecchie vite intrecciate erano state le conseguenze di quella semplice frase, ma così potente…

Pushpa tradusse, con voce piena d’emozione: “Deyanshir-kin ni yayie Naysiak-ji ni kaina shinai.”

Naysiak emise un gemito quasi straziato, e si coprì la faccia con le mani. “Gra... zie...” balbettò, tremando. “Kamoh u Lilia sh’nei ni, Seriema-ji...”

E si mise a singhiozzare, in un pianto irrefrenabile.

Ran si morse le labbra, in preda alla commozione. Si strusciò gli occhi a sua volta, guardò il kelith e gli tese la propria mano. “Deyan-shir,” mormorò, con gratitudine.

Si aspettava che la stringesse, nel gesto d’amicizia che gli concedeva... ma lui la prese e ci posò sopra le labbra. Era il gesto di un liberto, e Ran rabbrividì.

“Che fai?” gli chiese, sconcertato.

Gli occhi rossi di Deyan lampeggiarono sotto le ciglia candide, in uno sguardo dolce e amaro insieme. 

“Un kelith paga i suoi debiti, Ran. Sempre.”

Poi si alzò e se ne andò dalla stanza, senza voltarsi indietro.

Ran restò a guardarlo, poi si voltò verso Pushpa. E lo vide fissare qualcosa a terra.

“Deyan-shir ha lasciato la sua borsa,” mormorò il t’yr.

Ran seguì il suo sguardo e vide la sacchetta di cuoio sul pavimento. Trasalì, e si tastò frettolosamente alla cintura... 

Ma quella è la mia borsa! Come fa a trovarsi lì?!

La risposta lo agghiacciò. 

È stato Deyan. Quando l’ho abbracciato.

Era stato proprio lui a insegnargli quel trucco da ladro, notando quanto erano agili e precise le sue mani...

Sapeva cosa stavo per riportargli.







*







 

Non aveva mai camminato per più di cento passi senza fermarsi. Non aveva mai visto la luce del giorno se non attraverso grate, tende e veli. Non aveva mai visto il mondo al di fuori di un palazzo. Non aveva mai avuto fame o sete, né sentito il calore feroce dei due soli, e il gusto della polvere. 

Sono soltanto un candido fiore del giardino segreto…

Il vuoto intorno a lei l’atterriva, ma come un animale spaventato si trascinava ansimante lungo la pista rovente, tenendo in braccio il suo bambino che aveva coperto con tutto quel che poteva dargli. Singhiozzava senza lacrime, pensando al suo corpo quasi nudo esposto vergognosamente, ma chi c’era a guardarla? Forse i soldati di confine l’avrebbero notata, con i loro cannocchiali, ma non l’avrebbero raggiunta nemmeno per violarla, perché lei era ancora sul suolo di Shana, e nessuno avrebbe rischiato una guerra per una schiava.

Non aveva un nome. Le avevano marchiato un dodici sulla coscia, con un ferro rovente; ma poi era diventata un numero indistinto in uno stuolo di ragazze, per cui si erano limitati ad applicarle un orecchino inamovibile con una sigla e l’ideogramma di Itka, giusto per sapere la sua provenienza. 

Col bianco corpo che si riempiva di vesciche, e gli occhi accecati dalla luce senza requie, ricordò perché si trovava lì. 

Alcuni giorni prima Gamosh era entrato nella shanda come una tempesta, rovesciando preziose suppellettili e calando bastonate su schiave ed eunuchi al suo passaggio. Quando si era appena placato, Tasia gli era andata incontro, in uno di quei vestiti regali che solo lei aveva il diritto di indossare.

E Gamosh l’aveva guardata digrignando i denti. 

“Gli dèi maledicano tutto ciò che viene da Itka!...”

“Portate del vino forte per il nostro nobile signore,” aveva ordinato Tasia, impallidendo perché lei era di Itka. “E badate bene che sia vino di Shana!” Poi, premurosa, l’aveva accarezzato. “Cosa turba il mio signore?”

“I miei ambasciatori mi scrivono che Estsen si è offeso perché ti ho nominato Prima tra le Prime... e ha... deciso di ripulire la sua shanda dell’immondo sangue Shanì... ha detto proprio così. C’erano due figlie di Unari tra le sue donne: sai cos’ha fatto quel bastardo alle mie sorelle?!”

“Le ha uccise?”

Una smorfia. “Le ha fatte gettare nei pozzi degli schiavi comuni, quelli dove marciscono i peggiori criminali.”

Tutti avevano tremato di orrore.

“Quegli animali non hanno creduto alla loro buona ventura, vedendosi consegnare due bellissime albine di sangue reale. Le hanno stuprate a morte, e Estsen si è goduto lo spettacolo con calma, dopodiché se n’è tornato al palazzo. Le figlie di Unari sono rimaste lì: dicono che la foia degli schiavi fosse così implacabile che quei vermi si sono giocati ai dadi persino i loro cadaveri.”

Un gemito era salito da tutti gli astanti. 

Tasia aveva scosso la bianca chioma con un movimento altero della testa. 

“Che vendetta squallida,” aveva detto, spavaldamente. “Il signore di Itka sembra non poter vivere senza vergogna. In un modo o nell’altro, spinge le sue donne nelle mani di altri uomini.”

Molti erano trasaliti a quella frase. Ma Gamosh aveva guardato Tasia, ed era esploso in un’improvvisa risata.  

“Sì, mia cara! È proprio così. Vuole che tutti sputino nel suo letto, non ha proprio ritegno. Io non darei mai una schiava toccata da me a un criminale!”

Nel silenzio tutti avevano distolto lo sguardo da lui, per non ricordargli che il principe Deyan non aveva aspettato che gli fosse dato alcunché. 

Era arrivato il vino, e Gamosh l’aveva bevuto a grandi sorsate.

“Occorre però una risposta da parte di Shana,” aveva sibilato, con occhi torvi. “Un simile pubblico affronto non può essere tollerato in silenzio. Se Estsen vuol far pulizia nella sua shanda... a maggior ragione devo farla anch’io.”

E aveva guardato la sua bellissima Prima tra le Prima, con una ruga di dubbio tra le sopracciglia...

Tasia aveva sentito il pericolo, e si era affrettata a indicare un altro bersaglio a quell’ira: la giovane che aveva scorto tra le altre schiave. 

“Quella ragazza laggiù è la figlia Estsen-shir.”

La schiava aveva fissato Tasia con orrore, rammentando che era stata Prima tra le Prime anche a Itka... era ovvio che si ricordasse di lei, dato che a suo tempo l’aveva scelta per essere mandata a Shana!

Gamosh l’aveva guardata, digrignando i denti. “La figlia?!” Aveva scoperto i denti in un ghigno. “Ma bene!”

La ragazza aveva tremato, in preda al panico. 

“Pietà, padrone!” aveva mormorato, prostrandosi. “Questa schiava è innocente dei crimini del padre!...”

“Innocente?... Sei del sangue del mio peggior nemico, l’assassino delle mie sorelle! E io dovrei mettere una parte di me nel corpo di una creatura contaminata?” Gamosh aveva storto la bocca. “No, non ti voglio più rivedere. Ma non temere, non sono un barbaro come il tuo genitore: noi di Shana siamo infinitamente più civili dei cani di Itka. Per cui sarò magnanimo.” Un gesto agli eunuchi. “Cacciatela via dal palazzo, che sia rimandata immediatamente nel suo lurido paese.”

“No, possente signore!” aveva gridato lei, sconvolta. “Non mandarmi via... non posso lasciare il mio bambino!”

Tasia l’aveva guardata, con un sorriso amaro. 

“Sciocca,” aveva mormorato. "Hai condannato anche tuo figlio." 

Gamosh infatti aveva fatto un’espressione disgustata, guardando gli eunuchi accanto a sé. “Dice il vero, questa femmina? Io avrei fatto un figlio con questa schiava? Mescolato il sacro sangue di Shana... con quello di quel cane?!” Una scrollata di spalle. “Lo rinnego: cacciate via anche lui con lei.”

“Ma, nobile padrone...” Uno degli eunuchi aveva fatto coraggiosamente un passo avanti. “Questo servo invoca la tua clemenza. Il piccolo Janir è pur sempre un cadetto della casa reale di Shana... consegnarlo ai nemici del padrone non sarebbe altro che dar loro un’altra occasione di... profanazione!”

“È contaminato,” aveva replicato Gamosh. “Sbarazzatevene con la madre. Ho figli in abbondanza, e non mi preoccupo per il destino di un trascurabile cadetto.”

Tutti erano ammutoliti: non si aspettavano tanto cinismo da un uomo che a sua volta era stato cadetto.

Non c’era altro da dire, la volontà del principe era stata chiara, gli ordini incontrovertibili. La figlia e il nipotino di Estsen erano stati presi, scortati rapidamente verso un carro chiuso, sbarrati dentro; e senza neanche dar loro modo di salutare o raccogliere qualcosa, erano stati portati via dal palazzo.

Il viaggio era stato pieno di fracasso e di scossoni, scortato da uomini armati, un incubo oscuro dove ogni senso del tempo era smarrito, ogni riposo bandito: nella semioscurità di quella cigolante cabina la giovane donna aveva pensato con disperazione a tutte le sicurezze che aveva perduto, e a cosa avrebbe fatto suo padre a vedersela riconsegnare con il figlio di un uomo esecrato tra le braccia... 

Poteva fuggire? E dove? Una ragazza albina, ignorante del mondo, divisa da tutte le altre donne dalle caratteristiche che la rendevano così speciale, e senza protettori... era un fiore reciso, scartato da tutti i vasi e destinato ad avvizzire miseramente tra di essi.

Povero il mio piccolo, bellissimo Janir! 

Quando l’avevano portato via aveva pianto, com’era normale per i bambini della sua età. Poi, sfinito, si era addormentato. E quando avevano cambiato i corsieri che trainavano il carro, si era svegliato per arrampicarsi curioso a spiare dalla piccola grata, eccitato da quell’avventura inconsueta, un viaggio fuori dal palazzo. 

Poi, di colpo, il carro si era fermato. I soldati della guardia li avevano tirati fuori dalla cabina, in una notte piena di stelle. Avevano indicato loro delle luci in lontananza, dicendo che era il confine di Itka. E senza dir altro, se n’erano andati tornando indietro, abbandonandoli lì.

Nel mezzo del nulla. 

E allora la giovane aveva capito che Gamosh non aveva inteso affatto esser magnanimo. 

Ora, dopo quella marcia disperata nel deserto, si rendeva conto che non sarebbe sopravvissuta. E nemmeno il figlio: non lo sentiva più nemmeno lamentarsi, sotto il fagotto di tessuto. Le pesava tra le deboli braccia come un fardello floscio, le sue bianche braccine abbandonate. Cadde in ginocchio, stupendosi della sensazione di freddo che provava, guardò in avanti, il miraggio dipinto dai due soli, il confine con la sua vana promessa di salvezza: non ci sarebbe mai arrivata... 

Si alzò il vento, sollevando la polvere, e tutto divenne indistinto. Con un ultimo sforzo si piegò a proteggere il corpicino del bambino. 

Forse perse i sensi, ma poi qualcosa la risvegliò: un rumore strano, come di grandi zampe, e poi di passi fruscianti sulla sabbia. Qualcosa eclissò i due soli, dandole l’illusione di un’ombra. Alzò gli occhi semiaccecati. 

Due uomini avvolti in vesti color terra torreggiavano su di lei, il volto coperto dal velo, la cintura ornata d’argento e una falce di luna dipinta sulla fronte. 

Mani forti le strapparono dalle braccia il suo fardello. Lei emise un gemito.

“Janir...”

“È ancora vivo?” chiese uno  dei due.

“Forse.” Uno sguardo sulla donna. “Lei è spacciata, è inutile sprecare acqua: lasciamola qui.”

La giovane non ebbe nemmeno la forza di disperarsi, giacque inerte nella sabbia col corpo devastato, ma l’animo acceso dalla speranza per suo figlio.

“Chi... siete?”  domandò, con il suo ultimo sussurro. 

“El-Markas,” rispose l’altro uomo, chinandosi su di lei e guardandola con occhi violetti. “Muori in pace, sarai vendicata.”

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Capitolo 20
*** Dove si preparano molte imprese ***


Ran non guardava più il grosso vaso di cristallo. Fissava quasi affascinato la freddezza di Deyan, che studiava il macabro reperto senza il minimo moto di disgusto, da degno nobile abituato a spettacoli atroci.

“Non è un taglio netto, si vede che è stato usato un coltello. Probabilmente prima è stato ucciso e poi decapitato.”

“Questa è roba da kelith,” sbottò Ran. “Noi non mettiamo le teste sotto spirito.”

“Chi l’ha portata?”  

“Uno che vaga sempre nel mercato, e che è rimasto muto dopo che gli hanno spaccato il cranio in una rissa.”

Deyan fece il suo classico sorrisetto kelith. “Capisco.”

“Non abbiamo trovato messaggi...”

“Il messaggio è proprio questo, Ran.” 

“Che vuoi dire?”

L’albino posò la sua pallida mano sul vaso, quasi accarezzandolo.

“Che la Fratellanza si è stancata di questa situazione, e ha deciso di sistemare la faccenda una volta per tutte.”

“Ah.” Ran corrugò le sopracciglia. “La Fratellanza.”

“Questo è un classico modo in cui l’alta criminalità kelith appiana certi problemi.”

“Quindi questa testa sarebbe una sorta di... offerta di pace?”

“Sì. Mi dicono che mi preferiscono vivo, e con me la Squadra Sacrilega. Altre... iniziative personali dei loro adepti non saranno tollerate.” Una scrollata di spalle. “Però, se le condizioni cambiassero, potrebbero mettere la mia testa in un vaso: quindi mi ammoniscono gentilmente affinché mi accontenti di questo regalo... e continui a renderli ricchi.”

“Tutti questi messaggi in una testa sottovetro,” mugugnò Ran, a cui il sottile gioco di allusioni dei kelith sembrava sempre incomprensibile. Guardò i lineamenti contratti del morto. “Questo dunque dovrebbe essere l’uomo che ha tentato di assassinarti...”

“Probabile. Anche se non capisco come ha fatto a coinvolgere dei sayanni.”

“Ho riconosciuto uno dei morti, era un amico di Shartip e come lui aveva il gusto delle... ehm, pratiche innominabili con le kelith.” Ingoiò il suo imbarazzo a pensare a quella indicibile perversione. “Facile per i tuoi nemici contattarlo in qualche lurido bordello, e comprarlo... e lui avrà comprato gli altri: erano tagliagole senza onore, per questo li avevo sbattuti fuori a calci.”

“Comunque i sayanni erano solo un diversivo: quest’assassino temeva la mia speciale guardia del corpo. E mentre lei era impegnata con loro, e io distratto, una freccia avvelenata mi avrebbe tolto di mezzo...”

“Disonorato figlio di disonorati,” ringhiò Ran: non poteva dimenticare che quella freccia si era quasi portata via la sua amica. Chiamò uno schiavo. “Toglimi di torno questa porcheria, buttala in qualche canale di scolo... anzi, no, aspetta: trattala con attenzione, perché deve rimanere tutta intera: voglio mostrarla alla Xarani, che veda che è stata vendicata.”

“Sì, padrone,” fece lo schiavo, pallido dall’orrore. 

Una volta uscito, Ran si rilassò: stava decisamente meglio senza quella faccia rincagnata davanti agli occhi. Deyan si sedette sul cuscino davanti a lui, col solito movimento elegante.

“Questo omaggio mi toglie qualche pensiero, in vista del mio viaggio a Shana.” Si accarezzò la cicatrice sulla guancia, intorno alla quale la barba bianca ormai ben definita non cresceva. “Ovviamente non intendo fidarmi di nessuno, e prenderò ugualmente le mie precauzioni. Ma  non credo che ci saranno altri attentati a disturbare le nostre attività... finché avremo successo.”

“Lo avremo,” dichiarò Ran, con convinzione. “Il mio colpo lo do per già realizzato. In quanto alla percentuale sui bottini dei piccoli gruppi, mi aspetto di veder già qualcosa in cassa; anche se i Marjaban hanno respinto la mia richiesta di farci una tariffa più accomodante.”

Un alzar di sopracciglia. “Davvero hai creduto che facessero favoritismi? Lo sai meglio di me che questo è contrario alle loro convinzioni.”

“Cordiali sanguisughe,” brontolò il sayanni. “Ah, a proposito dei pellenera...” Si alzò dal suo cuscino e andò alla sua cassapanca, e ne estrasse una tavoletta. “Mi hanno chiesto di darti questa.”

Deyan la prese e scorse gli ideogrammi. “È la registrazione della liberazione di Naysiak.” 

Ran tornò a sedersi, di buon umore. Ma il suo sorriso si spense, rendendosi conto dell’espressione vuota dell’amico. Non mostrava alcun sentimento, ma era proprio quello il segnale che qualcosa non andava; più volte l’aveva sorpreso a guardare verso gli angoli, o alle spalle, come se cercasse qualcuno che non c’era più...

“Ti dispiace averla liberata, vero?” 

Deyan alzò gli occhi di scatto, come se fosse stato sorpreso in un atto riprovevole.

“L’avrei persa comunque.”  

“Hai fatto la cosa giusta.”  

“No,” fu la secca risposta.

Ran lo fissò, colpito da quella veemenza. Deyan arrossì lievemente, e unì le mani in grembo con un sospiro.  

“Ma non importa,” mormorò, “devo saper trovare l’oro nella sabbia, come si dice al mio paese; e il lato positivo di questa situazione è che almeno non avremo più motivi di dissenso tra noi due.”

“Di che dissenso parli?” domandò Ran, perplesso. 

Gli occhi rossi si affissarono nei suoi, con aria severa. 

“E va bene, parliamo chiaro. Per tutto questo tempo io e te eravamo riusciti a superare le nostre differenze razziali: so bene che detesti le mie usanze, ma hai imparato a tollerarle... a patto che rimangano circoscritte tra la mia gente. Ma nella mia casa è entrata una sayanni come te; e questo ha cambiato tutto. Finché l’odiavi per via del suo alto titolo, ti andava bene che la trattassi secondo la mia legge; poi, quando hai cominciato ad ammirarla... la tua tolleranza verso i costumi del mio popolo ha cominciato a vacillare. Non sopportavi che fosse mia... soprattutto ricordando che io ero stato tuo!”

Ran chinò lo sguardo. È vero...

“Eri già pronto a umiliarmi per lei, ma quell’assassino ti ha preceduto. Si è interposta tra me e quella freccia, salvandomi la vita, e mi ha chiesto lei stessa di abbandonarla ai miei nemici e scappare; era logico, anche la legge me l’avrebbe consentito... ma tu cosa avresti fatto, sapendo che l’avevo lasciata morire senza far nulla?”

“Io... io...”

“Mi avresti disprezzato,” concluse Deyan, amaramente. “Avresti odiato me e la mia razza, sarebbe stata la fine della nostra amicizia, e a quel punto che senso avrebbe avuto tutto quel che abbiamo costruito insieme, la Squadra Sacrilega, il sogno di un nuovo popolo... la corsa al titolo di Khanshir?”  

Ran fissò il vuoto, rendendosi conto che l’amico aveva ragione. 

“Dèi del profondo,” mormorò. “Dunque è questo che ti ha spinto a salvarla?”

“Non è quel che tutti si aspettano da me, te compreso?” La nota sarcastica nella voce di Deyan era chiarissima. “Sono un albino, un essere razionale e senza cuore. I gesti spontanei e disinteressati sono una specialità tua: come testimonia una tavoletta come questa... col mio nome sopra.”

E la posò a terra, tra loro due. 

Ran la raccolse, contemplando a lungo quegli ideogrammi complicati.

“Sì, è vero,” mormorò. “Se tu mi avessi regalato la Xarani, io l’avrei liberata un istante dopo.”

“Avresti dunque gettato via il mio dono?”

Un’occhiata spavalda. “Ci sono schiavi così nobili da disonorare i loro padroni.” 

Deyan impallidì all’accusa sottintesa. 

“Questo forse vale per te.”

“Ah sì?... Vale anche e soprattutto per un principe. Quanto onore ha guadagnato Unari, quando ha venduto il suo erede al trono come un animale, dopo averlo fatto frustare di fronte a tutto il suo popolo?”

Gli occhi rossi si svuotarono di ogni vita. Ran si accorse di quell’immobilità mortale, e trasalì temendo di essersi spinto troppo oltre...

Il momento passò. 

“Non... voglio parlare di quest’argomento,” mormorò Deyan, con uno sforzo deliberato. 

“Mi dispiace,” fece Ran con un sospiro. “Ma è il mio senso di giustizia che si ribella. Non credere che abbia voluto ferirti a cuor leggero: sei mio amico, il tuo dolore è il mio dolore. Ma lo era anche... il suo dolore. Tu almeno avevi commesso un delitto, lei aveva già espiato il suo e non aveva colpe verso di te. Non meritava che tu le facessi pagare la tua stessa vergogna.”

Deyan chinò lo sguardo, fissandosi le mani strette in grembo. Poi le sue dita si rilassarono. 

“Ad ogni modo, è finita,” mormorò, quasi a se stesso.

Ran sospirò. Sì, è finita. Grazie a tutti gli dèi.

Si strofinò la bocca, e andò a prendersi da sé un’anfora sigillata, dimenticando di avere dei servi. Tornò da Deyan recando la propria tazza di terraglia, e una delicata ciotola di vetro rosso per il suo ospite. Li posò sul basso tavolino, e vedendo l’espressione vuota dell’amico tentò di mettergli una mano sulla spalla. Deyan gliela spostò con un gesto secco. 

Ran non insistette, ingoiò la propria amarezza e stappò l’anfora, versando il vino nelle ciotole. 

“Abbiamo entrambi commesso degli errori, Deyan-shir; ma siamo mortali, non dèi. Dimentichiamo le amarezze e guardiamo soltanto al futuro: questo forte vino di montagna ci aiuterà a farlo. Bevi, e che ci sia la pace nei nostri cuori.

Deyan fissò il liquido profumato, poi raccolse la ciotola e la portò alle labbra, vuotandola fino all’ultima goccia con l’avidità di quando cercava l’oblio. Il sayanni fece altrettanto, ed emise un sospiro di soddisfazione. Riempì ancora le ciotole, e piombò di nuovo sul suo rustico cuscino di cuoio. 

“Tutto è come doveva essere sin dall’inizio,” disse. “E tutto sommato il mondo si prospetta più eccitante, ora che ognuno di noi è libero di scegliersi la propria strada.”

“Davvero sei soddisfatto?” Deyan lo guardò, con un sorriso triste. “Una volta Naysiak era una schiava e tu un grande predone... avere la tua amicizia era un onore per lei. Adesso lei ha un rango superiore al tuo...”

Ran ridacchiò. “L’ha sempre avuto, anche quando aveva quel collare. Quando l’hai costretta a chiedermi scusa per aver attaccato briga con me, era in ginocchio nella polvere... ma mi sorrideva, forse perché sapeva che un giorno sarebbe toccato a me essere al suo posto.” 

“Ti sei inginocchiato davanti a lei?”

“Ho provato a fare anche questo,” ammise lui, senza alcun imbarazzo. “Anche perché è l’unico modo in cui quella piccoletta può guardarmi dall’alto. Le ho chiesto di venire con me su Sayanna, a rubare quelle perle rosse. Le ho detto che avrei aspettato finché non si fosse sentita perfettamente guarita; ho usato tutta la mia eloquenza, le ho fatto le proposte più vantaggiose; lei mi ha ascoltato con squisita cortesia, è stata gentilissima con me, ma poi... mi ha guardato con quei suoi occhi furbi, e mi ha detto un rotondo no.”

Deyan chinò lo sguardo.

“Non sentirti in colpa,” gli disse Ran, indovinando il suo pensiero. “È giusto così. Lei è una Prima Guardia delle Divinità, e io sono un volgare bandito. Adesso, se voglio la sua stima, me la devo conquistare con fatica, da guerriero a guerriero.” Vuotò la sua tazza e sorrise.  “E sai una cosa, Deyan-shir? Mi sta benissimo così.”











Quando Deyan si decise a tornare a casa, scortato da un drappello di predoni, notò un una volta di più che qualcosa era cambiato nel modo in cui la gente lo guardava per la strada. Era l’essere sacro di un popolo che aveva salvato e liberato l’essere sacro dell’altro, in una catena di miracoli ed eventi eroici senza precedenti. Era una storia così incredibile da sembrare una leggenda: i trovatori si erano messi all’opera sfornando canzoni, e nelle bettole e nei bordelli non si parlava d’altro. 

Tutti si erano chiesti cosa avrebbe fatto la Xarani, ora che era una donna libera: sarebbe tornata su Sayanna, dove forse si erano scordati di lei avendola data per morta più di un millennio prima? Sarebbe andata a vivere con la Squadra Sacrilega, o sarebbe rimasta col suo precedente padrone, così come lui era rimasto con Ran? O avrebbe preferito una vita completamente indipendente, forte dei propri straordinari poteri? 

Lei aveva preso tempo, chiedendo di trascorrere la sua convalescenza nel Tempio delle Divinità Duali, sotto le cure affettuose di Pushpa. Era una scelta che rifletteva la sua profonda educazione religiosa, ma anche il bisogno di un momento di pace e tranquillità per meditare su se stessa e sul proprio futuro.

Deyan non si era opposto: dopo averla formalmente liberata, non l’aveva più cercata né contattata, ritirandosi nella sua casa in un dignitoso silenzio. Aveva passato le prime giornate chiuso nella sua shanda a recuperare le forze perdute, curato e vezzeggiato dalle sue schiave. Quando ne era uscito aveva ripreso le sue usuali attività, ma come un uomo che dovesse guarire da una ferita; e i suoi domestici indovinavano il motivo. 

Un nobile era educato ad essere ferocemente possessivo verso le proprie donne; e benché Naysiak non fosse propriamente una donna nel senso kelith del termine, era evidente che Deyan la considerava sua. Saal non poteva che ricordare la scena che aveva sorpreso nella sala da pranzo: il padrone con le braccia attorno alla barbara, nuda fino alla cintola... non ne aveva parlato con nessuno, fedele alla consegna ricevuta, ma era contento che quella turbolenta schiava fosse andata via prima di creare altro scandalo; anche se avrebbe preferito una lucrosa vendita a quella liberazione senza profitto. 

Forse per togliersi del tutto quel pensiero, Deyan aveva deciso di restituire a Naysiak le sue cose, anche se di diritto appartenevano a lui. Era stato un gesto generoso da parte sua, dopo che aveva già perso così tanto liberandola; ma tutto sommato chi altri a parte un principe avrebbe potuto essere così magnanimo? Aveva rispettato i sentimenti religiosi dei sayanni e non si era avvicinato al loro luogo sacro; aveva mandato il proprio maggiordomo a capo di una squadra di servi con tre scrigni, due dei quali contenevano gli inestimabili reperti con cui Naysiak era stata sepolta nel Feretro. Lei  quasi non aveva potuto credere a quell’insperato regalo: si era commossa fino alle lacrime a rimirare le vestigia del suo glorioso passato, e il mantello di piume che ora poteva indossare a piacimento. Se l’era messo sulle spalle e aveva danzato davanti alle statue delle Divinità, tra il rullare dei tamburi sacri e un tintinnare di campane d’argento mosse dal vento; e forse solo in quel momento aveva capito di essere davvero libera...

E Deyan, chiuso nella sua casa, aveva stretto tra le mani l’antico scettro di Shana, ricordando come l’aveva rubato al padre: aveva assaporato la sensazione di riavere qualcosa che gli spettava di diritto. Poi aveva compreso che era stata lei a evocare in lui quel gradito pensiero: in qualche modo i loro spiriti si erano toccati ancora, e quella sensazione era stata come un dolce addio. Aveva riposto lo scettro, così come i suoi ricordi agrodolci di quella incredibile creatura che aveva incrociato la sua vita, e aveva considerato conclusa la misteriosa missione che qualche dio del passato gli aveva dato. 

Tutto come doveva essere, aveva detto Ran... e così era.

Fu quindi con discreta sorpresa che, una volta arrivato alla propria casa, vide molta confusione davanti ad essa: dei sayanni armati di torce, e Saal che sbarrava loro l’ingresso con l’aria di non saper più cosa fare. Si avvicinò, e il maggiordomo si accorse di lui: si inchinò profondamente, con evidente sollievo. Anche i sayanni si voltarono, e la figura più piccola tra loro gli si parò davanti. 

“Seriema!...”

Era proprio lei, la sua ex schiava. 

“Naysiak,” mormorò lui, rimirandola con stupore.

Sembrava scoppiare di salute, e la sua comunità era stata generosa con la nuova veggente: portava ancora il suo antico costume di guerriera, ma interamente rifatto in fini pelli chiare e morbide, artisticamente cucite. Indossava pendagli d’avorio alle orecchie, una gorgiera di perline al posto del vecchio collare, bracciali di cuoio lavorato, la piuma di Ran ben legata a una delle trecce neroblu, e un mantello legato su una spalla con una fibbia a forma di occhio sacro, che lasciava scoperto il braccio destro dipinto di disegni gialli. Aveva l’aspetto di una regina barbara, ben diverso da quando indossava soltanto un paio di stracci. 

“Gioia vedere Seriema in salute,” disse, portando una mano sul cuore nel saluto tradizionale.

“La notte ti sorrida,” rispose lui, freddamente.

Per un lungo istante si fronteggiarono, quasi come due avversari. Deyan non si aspettava quell’incontro, e non gradiva che fosse pubblico... si rendeva conto dell’attenzione di tutti gli astanti, e di altri curiosi che si stavano avvicinando: era troppo appetitoso il confronto tra quei due personaggi di spicco di Luna di Fuoco, dopo la loro separazione.

“Contenta tu qui,” disse lei, evidentemente seccata. “Saal-ji non fa entrare. Io chiedo perché, ma Saal-ji non parla, fa solo gesto di andare via.”

Deyan notò che la sua padronanza della lingua era assai migliorata: doveva essere opera di Pushpa. Diede una rapida occhiata al proprio maggiordomo, ed emise un lieve sospiro.

“Sta solo seguendo le usanze kelith,” le spiegò. “Salvo alcune particolari eccezioni, noi non rivolgiamo la parola alle donne estranee.”

“Io estranea?” chiese lei, stupita. 

“Non appartieni più alla mia casa.” 

Lei lo guardò, smarrita. 

“Ma io guarita. Mio posto qui, per proteggere Seriema. 

Saal ebbe un’espressione di sgomento e scosse la testa, dicendo silenziosamente: no, no!

Deyan non badò a lui. “Credevo che il tuo posto fosse in un tempio, Naysiak. Sei una guerriera sacra.”

“Sì, e guerriera sacra fatto giuramento. Tu accettato. Tu Seriema.” 

“Io ti ho liberato dal Feretro e tu mi hai salvato la vita: siamo pari. La tua esistenza di schiava è terminata: non hai più alcun impegno verso di me.”

Lei scosse la testa, come se lui non capisse. 

“Memoria di kelith non buona? Io giurato proteggere fino a ultimo mio giorno sotto i due soli. Xarani non gioca con parole.”

Deyan la fissò, perplesso. Ricordò Pushpa, quando aveva cercato di opporsi alla schiavitù di lei. 

Liberala, per amore di tutto ciò che è giusto e santo! Non ti costa niente, lei è comunque tua, ti ha appena giurato fedeltà, il suo vincolo è molto più forte di qualsiasi legge o catena umana...

“Vuol dire che intendi servirmi... anche se non sono più il tuo padrone?”

“Tu sempre Seriema, ni?... Prego, chiedo permesso di entrare: io portato mie cose,” e indicò un paio di sacchi. “Non armatura e mantello: cose sacre,” e alzò il palmo della mano con un gesto solenne. “Lasciati in Tempio, per servizio a Divinità.” Sorrise. “Ma gente dato armi e cose belle, Seriema non bisogno comprare cose per Naysiak, io adesso guerriera ricca!”

Lui quasi non poteva crederci. Aveva immaginato che lei avrebbe fatto qualunque cosa pur di non rivedere il perverso diavolo bianco che tanto l’aveva umiliata. Le aveva dato la libertà, ma anche una collezione di cicatrici sulla schiena, e ragioni di amarezza a sufficienza per odiarlo. Forse, dopo che si erano conosciuti meglio, avrebbero potuto non essere più ostili l’uno all’altra come in passato; ma mai si sarebbe aspettato che lei sarebbe tornata da lui, come se nulla fosse accaduto... 

“Padrone,” interloquì Saal, “questo servo fa rispettosamente notare che quel che chiede questa femmina è inammissibile.”

Naysiak lo guardò, incredula. “Perché?”

Saal non si rivolse a lei, ma rispose alla sua domanda guardando ostentatamente il suo padrone. 

“Una donna entra nella casa di un uomo solo se è sua: in casi eccezionali può visitare altre donne, col permesso del padrone, ma mai da sola: deve essere accompagnata da un eunuco. Questa donna non ha un padrone che le dia il permesso, né un eunuco che la accompagni; e questo, secondo le consuetudini kelith, darebbe al padrone di casa il diritto di reclamarla come sua proprietà una volta che avesse varcato la soglia.”

Lei restò a bocca aperta. “Ma io mio padrone!”

Deyan sospirò. 

“Saal ha ragione, Naysiak. Nella nostra società non esistono donne che appartengano a se stesse. Le nostre leggi non contemplano nemmeno un caso come il tuo.”

“Perché io sayanni. Legge di kelith non vale per sayanni, ni?”

“No,” fece lui. “Ma vale per me: io sono kelith, e tu sei una donna.”

“Io guerriero, come Randanai. Tu dimentica Naysiak come donna!” 

Deyan la fissò. Sì, con quel costume addosso poteva sembrare un ragazzo, ad occhi kelith. E anche da nuda c’era qualcosa di sbagliato in lei, quasi asessuato nella sua durezza. Ma ogni tentativo di non vederla come donna si scontrava con il ricordo di lei sorridente in quel vestito rosa, la polvere dorata che luccicava sulla pelle oleata, e quella cascata selvaggia di riccioli sulle spalle.

Cosa mi è venuto in mente di fare, quella sera...

“Quel che mi chiedi è impossibile,” disse, lievemente imbarazzato. 

“Tutto per colpa di leggi kelith stupide!” soffiò lei.

“Tengono insieme la nostra società da più di tre millenni,” ribatté lui, piccato. “Ti ho dato la libertà di non seguirle, ma non pensare di poterle discutere.”

Saal approvò con un cenno deciso della testa: come si permetteva quella barbara di criticare i costumi della civiltà?

Una luce risoluta entrò negli occhi di Naysiak: fece cenno ai sayanni con lei di lasciare i suoi sacchi lì accanto. 

“Se io non potere entrare, allora io protegge Seriema da fuori.” Con la punta del piede tracciò una croce a terra. “Questa, mia nuova casa! Io non muove da qui.”

E incrociò le braccia sul petto, come per significare che faceva sul serio. 

Deyan non ne aveva alcun dubbio: aveva già avuto prove a sufficienza della sua testardaggine. Si sarebbe davvero accampata come una mendicante lì, fuori dalla sua porta, al freddo della notte e al calore dei due soli di giorno, alla mercé delle tempeste di polvere, senza acqua o cibo al di là di quel che le avrebbero portato, in attesa che lui uscisse per seguirlo... non era certo la pazienza che le mancava, dopo aver trascorso più di un millennio in un feretro di pietra!

E ne sarebbero sortiti un mare di guai: con la comunità sayanni, con Ran... con la propria coscienza.

Sospirò, esasperato. “Mi stai mettendo in una posizione impossibile.”

“Io!” ribatté lei, pestando un piede a terra. “E tu?! Vuole sayanni andar via con disonore di giuramento rotto!”

“Non ti ho chiesto niente. Torna al tuo tempio... o trovati un’altra casa.”

“Questa, mia casa!” tuonò lei, indicando il portone.

“È una casa kelith. Se ci entri, ridiventi mia schiava.”

Lei si irrigidì, per un lungo istante. 

Poi chinò la testa, e mormorò: “Se questo prezzo per fare dovere, io pago.”

Che cosa?!

“Non starai parlando sul serio,” disse Deyan, incredulo. “Ti ho appena liberata!”

“Ya,” rispose lei, e il petto le si gonfiò in un sospiro. “Momento bello di tutta vita... tu sa bene cosa sente spirito che perde libertà, e poi uomo buono dare ancora.” 

Lui lottò per rimanere impassibile. Sì, lo so.

“Ma libertà inutile senza onore,” concluse lei in tono deciso. “Io Xarani, e onore prima di tutto.”

Guardò il portone. Gli occhi le luccicarono, ma si fece forza e avanzò verso di esso, in un silenzio carico di tensione. Sarebbe entrata, davanti a tutti quei testimoni, e Deyan avrebbe riavuto la sua schiava barbara...

Ci sono schiavi così nobili da disonorare i loro padroni.

“Fermati,” le disse. E vedendo che non lo faceva, soggiunse: ”Sono il tuo Seriema o no?... Ti ordino di fermarti!”

Lei si arrestò, a un passo dalla soglia. E si girò a guardarlo, con occhi disperati.

“Sei una femmina ostinata,” mormorò Deyan.

Un’occhiata di triste orgoglio. “Solo femmina ostinata vive dopo molto, molto tempo chiusa in pietra.”

Era vero, era sopravvissuta al supplizio più atroce che si potesse immaginare, aveva resistito al dolore, alla follia, aveva mantenuto una mente straordinariamente equilibrata nonostante tutto, aveva saputo superare tutte le sue disgrazie in virtù di una forza interiore che non aveva paragoni...

E io ho pensato di domare uno spirito così?

Deyan fece un pallido sorriso di resa.

“E sia,” sospirò, sapendo che in verità non aveva scelta. Si voltò verso Saal. “Siamo su Luna di Fuoco, non a Shana, e dobbiamo adattare le nostre tradizioni. In via del tutto eccezionale, questa donna ha il permesso di varcare la mia soglia. Potrebbe diventare mia, ma io non eserciterò il mio diritto su di lei. Pertanto resterà libera.”

Un mormorio salì dai presenti, a quella decisione senza precedenti.

“Libera?!” protestò Saal. 

“Tale è la mia volontà.”

“Ma è inaudito! Non esistono donne libere, solo uomini! La legge...”

Deyan gli lanciò un’occhiata di fuoco. “Tra le mura di casa mia io sono la legge!” 

Il maggiordomo impallidì e si piegò sotto quella sferzata.

“Perdono... nobile signore,” balbettò, spaventato dal passo falso che aveva fatto. “Naturalmente nessuno discute i sacri diritti domestici del padrone.” Cercò di ritrovare un contegno: “La... ehm, signora... andrà accolta come... Mastro Ran?” 

“Equiparala a un vassallo al mio servizio.”

“Vassallo?! Ma è una barb... è femmina!”

Un’alzata di sopracciglio. “Quindi avrà accesso anche alla shanda. Informa Ibal.” 

Saal si inchinò. “Sì, padrone,” alitò, sconvolto. 

Deyan si voltò di nuovo a guardare Naysiak, che lo fissava con occhi commossi. 

“Per venire incontro al tuo onore di sayanni, ho sacrificato parte del mio di kelith. Fa’ che ne valga la pena.”  

“Ya, Seriema!”

Lui finalmente si sciolse dalla sua impassibilità principesca, e sorrise.

“Bentornata a casa,” le disse, e scoprì di essere sincero.

Naysiak lanciò un grido di trionfo, che risuonò come il canto di un uccello. Poi raccolse i suoi sacchi, e senza aspettare altro si precipitò dentro, salutando i servi sbalorditi: Deyan poté sentire la sua allegra e rumorosa progressione da una stanza all’altra, finché non udì le proteste di Ibal, e l’acuto strillo di gioia della schiava Tre.  


















Era arrivata Akkai, la fine del Ciclo dei Soli. 

Era la ricorrenza più sacra di Kelitha, l’alba eliaca della stella Bianca, che marcava la fine del percorso apparente dei due soli tra le costellazioni: dopodiché sarebbe iniziato un nuovo ciclo. La tradizione prescriveva dieci giorni di festeggiamenti per tutti, tranne gli schiavi. E tutte le capitali dei principati kelith gareggiavano in splendore.

Gamosh aveva raccolto con piacere quella sfida. Poiché era tradizione che per quei giorni la classe dominante si mostrasse in mistica unione col proprio popolo, aveva assoldato il più grande architetto di Shana per costruirgli una piattaforma nella piazza, collegata direttamente al palazzo, da cui lui e la sua corte avrebbero potuto assistere ai festeggiamenti. Era un monumento di legni rari, ricchi baldacchini e tappeti di seta così splendenti da accecare sotto la luce del sole. Tutta la piazza era stata rimessa a nuovo, tutte le case intorno ridipinte, un intero quartiere era stato raso al suolo e ricostruito con vie larghe e caserme spaziose: armigeri erano dappertutto a controllare l’ordine pubblico, e nella stessa piazza era stato eretto un patibolo per il consueto spettacolo di sangue. Ladri e malfattori erano avvisati. 

Il principe si recava alla sua piattaforma nel tardo pomeriggio, trasportato dai più nobili dei suoi cortigiani su una lussuosa portantina. La vestizione era noiosa, ma ogni dettaglio del suo elaborato costume principesco era fatto per impressionare la folla: il suo corpo massiccio era avvolto in stoffe sontuose e il suo diadema svettava imponente. Il popolo taceva al suo apparire, e tutti si inginocchiavano come davanti a un dio vendicatore. Per un lungo momento Gamosh assaporava il piacere di vedere quella distesa di schiene piegate, godendosi il silenzio pieno di timore. 

Poi un funzionario anziano levava la sua voce esercitata, lievemente tremula e cantilenante.

“Sia lode eterna al principe Shana Iban-Unari Gamosh-shir, Unico Sovrano, Stella Polare, discendente da principi, di stirpe purissima, signore assoluto e padrone di Shana, Padre del suo popolo, grande condottiero ispirato dagli dèi, amato dagli antenati, temuto dai nemici, generosa mano divina sul nostro capo. Lunga vita al principe Gamosh-shir!”

“Lunga vita al principe Gamosh-shir!” ripeteva la folla, più volte.

A quel punto il principe agitava il suo scettro: non aveva l’antichità di quello rubato da Deyan, ma era ornato da diamanti di incomparabile splendore, e catturava la luce dei due soli al tramonto mandando riflessi multicolori. L’immensa campana del palazzo suonava, e la folla si rialzava, plaudente, mentre i festeggiamenti riprendevano: processioni, danze, lotte gladiatorie, sacrifici solenni, spettacoli di ogni genere. 

Anche quella sera il popolo di Shana ebbe la sua visione di magnificenza, levando lo sguardo su quella piattaforma che tante tasse era costata. Solo durante Akkai era tollerato che uomini comuni potessero fissare in volto gli albini, mentre in tutti gli altri giorni un’occhiata troppo lunga o troppo interessata sarebbe stata pagata con l’accecamento. I nobili erano a tutti gli effetti parte dello spettacolo: esseri speciali, inquietanti nel loro candore accuratamente ostentato, elegantissimi e adornati come figure sacre, floridi e rosei; nascondevano sotto le ricche stoffe corpi fragili come vetro, curati da stuoli di medici specializzati, e non molti di loro riuscivano ad arrivare all’età avanzata. Ma erano splendidi per come si muovevano, come parlavano, e persino per come mangiavano. Ogni loro atto era solenne e misurato, e le loro espressioni erano di sublime distacco: erano la Razza Sovrana, nata per governare. 

Gamosh si degnò di guardare lo spettacolo nella piazza: la gilda dei mercanti di schiavi aveva organizzato una gara di giocoleria, esponendo pezzi pregiati della propria merce. La gente era pronta a lanciare manate di fango sugli sconfitti: una volta avrebbe lanciato frutta marcia, ma anche quella era diventata troppo cara per sprecarla in quel modo. Il principe ne era contento: non avrebbe gradito ulteriori cattivi odori nell’aria. Nonostante gli incensieri che lo circondavano, gli arrivava ugualmente la puzza di tutta quella umanità: era sgradevole per un naso abituato alla vita di palazzo. Ma era anche eccitante, come quei certi odori che aveva colto durante le torture, e che erano così offensivi da risvegliare i suoi sensi... 

E quel pensiero lo rese consapevole della sua Prima tra le Prime.

Era stata portata dagli eunuchi su una graziosa portantina, e fatta accomodare sotto un lussuoso baldacchino sul gradino più basso, alla sua destra. Dalla veste luccicante spuntava solo una piccola testa graziosa, con la bocca vermiglia sotto la maschera tradizionale, sovrastata da un’acconciatura monumentale dei bianchi capelli. Sedeva eretta sul suo seggio, velata dalle tende che l’avevano chiusa in una scatola semitrasparente per proteggere la sua pelle delicata. 

Molti erano gli sguardi che osavano posarsi su di lei, e Gamosh provò piacere a sapere che nessuno avrebbe potuto conoscere davvero la sua bellezza. Era solo per lui, ed era perfetta. Si succhiò il labbro inferiore, chiedendosi perché allora dentro di sé provasse il desiderio di vederla brutalmente posseduta da uomini brutti e sporchi. E si sarebbe orchestrato quel piacere, se non fosse stato troppo pericoloso anche per un principe regnante... Tasia ormai era ufficialmente la sua Prima tra le Prime, non più una schiava qualsiasi; la rigida etichetta kelith la proteggeva. La propria moglie favorita doveva essere sacra e intoccabile: quando non lo era nulla poteva rimediare al disonore. Come Estsen ben sapeva. 

C’è un piacere nascosto anche nel desiderio insoddisfatto. 

Spostò lo sguardo sull’ambasciatore di Itka: non fingeva neanche di divertirsi. Sorseggiava vino ghiacciato da una coppa di cristallo, parlando con il figlio maggiore, e lanciava occhiate di disgusto al baldacchino della Prima tra le Prime, e di disprezzo per tutto il resto. Il figlio annuiva: era un elegante giovane dai lunghissimi capelli e dal viso paffuto, le mani soffici come bianchi cuscinetti e un adorabile doppio mento. Ricordava molto la languida figura di Bakar, i cui ritratti adornavano molte principesche magioni anche fuori da Shana: la sua statua commemorativa aveva sempre fiori freschi ad adornarla. 

Ho fatto la fortuna di Bakar, uccidendolo. Ho salvato la sua bellezza per sempre. 

La folla emise un oh! di stupore a vedere le evoluzioni di uno schiavo Abayanì che sembrava privo di ossa: si contorceva all’indietro fino a posare le mani a terra, e poi ancora di più, mettendo la testa tra le gambe. Gamosh sorrise con approvazione: nelle sue stanze del dolore ultimamente mancavano idee per nuovi supplizi, e quel contorsionista gliene aveva date di interessanti. Si degnò di lanciargli una moneta d’oro, e il padrone accorse a raccoglierla, baciandola e inchinandosi.

“Sei generoso, mio signore,” disse il suo ciambellano. 

“Quel ragazzo ha più spina dorsale di parecchi dei miei nobili.”

Un istante di silenzio, e poi, obbedienti, i cortigiani emisero un’educata risatina. 

“Tacete,” ordinò seccamente Gamosh, e loro lo fecero, come uccelli spaventati. “Voglio parlare con l’ambasciatore di Itka.” 

Il nobile si affrettò a riportare l’invito, e il gentiluomo fece cenno al figlio di rimanere al suo posto. Poi si avvicinò al seggio principesco, in un’ostentazione di buone maniere. 

“Mi inchino di fronte alla tua magnificenza, nobile principe,” disse, in tono annoiato. “Magnifica festa.”

“Certamente aspiravi a trascorrerla nel tuo ben più confortevole paese.”

“Sono a Shana da molti cicli dei soli ormai: è quasi una seconda patria per me.”

Un sorriso. “Bada, nobile Chabei: gli ambasciatori non devono mai affezionarsi troppo al paese che li ospita.”

“È vero,” annuì il diplomatico, con un’altera alzata di sopracciglia che sembrava smentire quel pericolo. “Ma ormai qui tante cose mi ricordano Itka...”

E lanciò un’occhiata allusiva al baldacchino della Prima tra le Prime. 

Come osa, quest’insetto vestito di seta?!

Gamosh stava per ordinare alle guardie di gettarlo di sotto, e al diavolo le conseguenze...  

“Il mio signore mi concede graziosamente il permesso di salutare il suo distinto ospite?”

La dolce voce di Tasia lo colse di sorpresa. Non si aspettava quell’ardire da parte di una donna, ma quella era una Prima tra le Prime, e anche già esperta nel ruolo e perfettamente a suo agio anche fuori dalla shanda.

Notò il rossore sul volto rigido dell’ambasciatore. Trovava offensivo che l’ex prima moglie del suo principe gli rivolgesse la parola? Era un buon motivo per consentire a quel dialogo. 

“Non solo hai il mio permesso, signora. Ti invito a farlo.”

Tasia fece un gesto verso gli eunuchi. Costoro aprirono le cortine di velo in modo che lei potesse guardare direttamente l’uomo che le stava di fronte. 

“La tua presenza ci onora, nobile Itka iban-Lanni Chabei-shir.”

L’ambasciatore chinò lo sguardo, incerto sul da farsi; poi si rese conto che stava umiliandosi davanti a una donna che non avrebbe dovuto nemmeno vivere... e la fissò con lo stesso sdegno che avrebbe avuto Estsen, di cui era il fratello cadetto.

“Anche per me è un onore rivedere una signora così famosa.” 

La scelta del verbo era pericolosa, ma Tasia non la raccolse e chinò il capo, facendo tintinnare gli ornamenti sulla sua regale acconciatura.

“Non sono che l’umile recipiente della gloria di altri.” 

“E in te la gloria di Shana risplende... con duplice forza.”

Tutti sentirono perfettamente il veleno dietro a quell’apparente complimento. Poteva riferirsi all’altro principe di Shana che l’aveva avuta, prima di diventare la sposa di Gamosh?

Lei parò anche quel colpo, sorridendo soave. “Dici il giusto, nobile signore. Il mio principe è come i due soli nel cielo.” Voltò la testa verso il tramonto. “Meravigliosi... e mortali per chi osa sfidare la loro luce.”

Chabei era sin troppo pratico del gioco, per non accorgersi della minaccia sottintesa in quelle poetiche parole; ma decise di inoltrarne un’altra a sua volta. 

“È vero, mia signora. I due soli sono mortali, come ha scoperto disgraziatamente una parente del principe Estsen-shir, il quale ha giurato che mai più accadranno simili incidenti.”

“Un giusto proposito,” fece lei in tono neutro. 

Fece un gesto ai suoi eunuchi, e di nuovo la cortina di velo calò davanti a lei, significando che il colloquio era finito. 

“È triste perdere un parente,” sospirò Gamosh, e schioccò le dita per richiedere la sua pipa da spezia. “Anche se è una trascurabile femmina. Del resto è un dolore che noi di Shana conosciamo già molto bene.”

Chabei abbassò il tono di voce. “Il mio principe non vorrebbe che altri lo provassero: la violenza diffonderebbe questa conoscenza tra molta più gente di quanto non sia necessario...”

“Violenza?” chiese Gamosh, alzando le sopracciglia.

“Il mio principe vorrebbe sapere perché tante truppe si stanno ammassando al confine.”

Un sorrisetto ironico. “Vuol saperlo da me? Non bastano le sue spie?”

“Non abbiamo spie,” protestò Chabei. 

“Allora i miei soldati sono stati troppo zelanti, con quei tuoi connazionali che hanno deviato dalla Grande Strada per seguirli?”

L’ambasciatore si oscurò. “Erano solo semplici mercanti, e i soldati li hanno gettati vivi in un nido di insetti mangiatori di carne! Adesso i loro compagni hanno paura a varcare il confine, e i nostri commerci ne stanno risentendo...”

“Risentono di più per il dazio che avete messo sulle merci di Shana.” Gamosh guardò la sua pipa cesellata. “Una stupida ripicca, che danneggia più voi che noi. Suggerisco al mio nobile vicino di trovarsi ministri delle finanze un po’ più abili, e di mandare quelli che ha a girare le macine.”

Un’occhiata altera. “Un nobile non gira le macine, mio signore... non almeno al mio paese.”

La musica risuonava allegra, e alcuni acrobati si arrampicavano su una struttura di pali che era stata eretta nella piazza: ma il principe aveva occhi solo per il nobile di fronte a sé.

Ora basta, stupido pavone.

“Parli con tanta leggerezza del sacrificio che ha fatto Unari-shir in omaggio al tuo principe... ma forse sono emozioni che non si possono descrivere, solo provare.” Il suo sguardo si fissò con intenzione sul giovane dai lunghi capelli, che si faceva ammirare dal popolo. “È con l’esempio che devo insegnarti ad aver rispetto della memoria di mio padre?”

Chabei impallidì vistosamente. “Nobile principe...” 

Gamosh fece un gesto, chiamando il capitano dei pretoriani. “Arrestate il figlio dell’ambasciatore. Procedete con discrezione, non disturbate la festa. Conducete quel ragazzo a palazzo in un quartiere degno della sua nobiltà, e confinatelo lì. Nessuna comunicazione con l’esterno.”

Chabei era rimasto assolutamente sconvolto. 

“Non potete toccarlo!” esclamò, impietrito. 

“Voi di Itka avete toccato l’erede al trono di Shana,” sibilò Gamosh. “E l’avete trattato molto peggio di quanto io farò con tuo figlio. Non darmi lezioni su quel che posso e non posso fare nel mio paese, Chabei-shir. Io non sono mio padre!”

L’ambasciatore diede un’occhiata alle guardie scintillanti, che senza clamore stavano accompagnando il giovane verso la scalinata della piattaforma. Strinse i pugni per trattenere il proprio sdegno.

“Se gli accadrà qualcosa di male, sarà la guerra...”

“È ancora da vedere quale dei nostri due principati avrebbe più da perdere, in uno scontro armato.”

Chabei lottò per non perdere il controllo, e tentò un tono conciliante. 

“Tutto ciò è frutto di un equivoco, nobile principe. Itka... non ha mai misconosciuto il grande gesto di riconciliazione fatto da Unari-shir.”

“Non lo meritavate,” ribattè Gamosh, seccamente. “Dovevate rendere grazie a Shana per il suo eroismo, invece avete continuato a comportarvi in maniera ostile, come se il mio principato dovesse sentirsi in perenne debito con voi. Ma quel debito è stato pagato, e più volte, e la vostra arroganza sta portando la mia pazienza al limite.”

“Se il nobile Gamosh-shir ha delle questioni con il mio principe, esistono delle procedure da seguire. L’arbitrato dell’Augusto Consorzio...”

Per il quale io sarei indegno del trono.

“Per quale vicenda dovrei richiedere un arbitrato? Voi di Itka avete libertà di fare ciò che vi aggrada nel vostro paese; anche uccidere le mie sorelle, se mio padre è stato tanto folle da cedervele con regolare contratto. Non ho levato alcuna protesta, perché la legge è legge. Ma  la stessa cosa vale per voi: sono un principe regnante e legittimo, e non accetto le vostre ingerenze nei miei affari, specie quelli privati. Dillo pure al tuo signore, quando lo vedrai. E cerca di convincerlo a ingoiare il suo dannato orgoglio!”

La faccia di Chabei era quasi verdognola. “Nobile principe... e mio figlio?”

“Resterà gradito ospite nel mio palazzo,” sorrise ferocemente Gamosh. “E tu non ti opporrai né ti sognerai di protestare con l’Augusto Consorzio per questo, altrimenti lo tratterò come è stato trattato il precedente erede di Shana... e tu sai cosa gli è stato fatto, perché hai voluto assistere a tutte le fasi del supplizio!”

Chabei sbarrò gli occhi. “Mio figlio però non... ha commesso sacrilegio!”

“Lui no, ma suo padre potrebbe.” Gamosh si chinò verso di lui. “Se continuasse a complottare contro di me. Se continuasse a essere insolente con me. Però, finché si comporterà con i dovuti modi, suo figlio sarà trattato con tutti gli onori, e sicuramente imparerà ad apprezzare la lussuosa vita di Shana: forse in futuro potrà anche sostituirlo come ambasciatore presso di noi.”

Quando sarà diventato una mia creatura.

Chabei si inchinò, e la voce gli tremò. "Ti prego, nobile principe, mi sia permesso almeno di salutarlo...”

“No. Partirai per Itka stanotte stessa. E adesso ritirati: devi prepararti al tuo viaggio.”

Lo congedò con un gesto della mano e si rilassò tra i cuscini, guardando la piazza con soddisfazione. 

Avrei dovuto farlo prima: e al diavolo la diplomazia! Tanto non avrò mai la stima degli altri principi. Mi considereranno sempre un intruso. 

Ormai i soli erano tramontati, accendendo di fantasmagorici colori l’orizzonte, e tingendo di magnifiche tonalità pastello i tetti delle molte case di Shana. Uno stormo di uccelli bianchi si mosse stridendo verso il canale meridionale, danzando nel cielo. 

Anche se sono nato cadetto, sono il padrone di tutto questo: non ho motivo di esser soddisfatto di me?

Guardò nella piazza, dove molte torce colorate erano state accese. Aveva voglia di distrarsi, dopo quel colloquio: raccolse una manciata di monete e le gettò agli schiavi che si esibivano. Tutti si precipitarono a raccoglierle, tranne uno: un giovane dall’aspetto esotico, che continuò imperterrito il suo numero, volteggiando tra la struttura di pali come se la gravità per lui non esistesse. 

Gamosh si soffermò a guardarlo, incuriosito da quell’apparente mancanza di avidità. 

Era chiaramente uno straniero: bianco di pelle e col volto velato da una barba bionda, portava una particolare fascia di stoffa colorata di traverso su una spalla e poi legata in vita, e un paio di calzoni in pelle aderenti in maniera quasi invereconda. I suoi muscoli guizzavano come creature vive mentre si fermava in una perfetta verticale, in equilibrio su una stanga, e poi si slanciava in un salto mortale ricadendo su un’altra stanga. 

Niente male.

La folla lo applaudì con ammirazione. Uno degli altri acrobati, un Kayumi dalla pelle scura, balzò a sfidarlo e si arrampicò sulla struttura per tirarlo giù: cercò di afferrarlo per il collare, ma il giovane barbuto si torse con un avvitamento e gli tirò una ginocchiata sul mento, facendogli mollare la presa. Il Kayumi cadde rovinosamente a terra, e la gente scoppiò in una gran risata. Il vincitore si appollaiò trionfalmente sulla stanga, raccogliendo gli applausi; poi si lasciò cadere a terra con un salto acrobatico.

Gamosh approvò con un sorriso, e fece un cenno al capitano delle sue guardie. L’uomo gettò ai piedi del giovane un sacchettino tintinnante, la ricompensa per quell’esibizione.

Ma lo schiavo non fece alcun movimento per raccoglierla: la ignorò e rimase fermo, a testa alta, con un atteggiamento tutt'altro che dimesso. La gente ammutolì intorno a lui. 

E Gamosh rabbrividì.

Perché ho l’impressione di aver già visto questo straniero?

Un uomo nel ricco costume di un mercante di Niisa si precipitò in avanti e si inchinò profondamente verso la piattaforma, raccogliendo il sacchetto e baciandolo più volte.

“Inchinati!” soffiò allo schiavo. “Il principe ti guarda!...” Si girò intorno, con aria di scusa. “Perdonatelo, miei signori: è cieco...”

La gente mormorò dallo stupore, mentre lo schiavo si inchinava con grazia, levando poi quei suoi occhi neri, fissi nel vuoto.

“Un acrobata cieco?” borbottò Gamosh. “Questa sì che è una rarità.”

“Bel ragazzo,” cinguettò un nobile effeminato. “Mi manca proprio, uno schiavo del nord...”

“Con quei capelli biondi, non può venire che da Oranda,” disse il ciambellano.

“No,” lo corresse uno dei margravi più anziani. “È uno Chandì: ne porta il costume. E non vi consiglio di comprarlo: le vedete, quelle cicatrici da fuoco sulle sue palpebre?”

“Che significano?”

“Che è stato accecato con un ferro rovente davanti agli occhi, prima di essere marchiato in viso come schiavo. È il trattamento che a Chanda si usa con i pirati.”

“Oh,” fece il nobile, con una smorfia delusa. 

“Un pirata,” sogghignò Gamosh, e si alzò dal suo trono. 

Immediatamente tutti i presenti tacquero e si inchinarono, mentre il principe saliva sulla sua monumentale portantina per andare a godersi il meritato riposo a palazzo. 

Non appena i portatori si mossero, gli eunuchi scostarono i veli del baldacchino di Tasia e tesero le loro mani per aiutarla a rialzarsi; ma lei disdegnò ogni contatto servile e si eresse da sola, con un movimento pieno di grazia. Prima di salire a sua volta sulla propria portantina, rivolse da dietro la maschera un’ultima occhiata alla piazza. 

Nessuno naturalmente osò alzare lo sguardo verso di lei: gli unici occhi che incontrò furono quelli dello schiavo cieco.

E quegli occhi sembrarono fissarla fin nell’anima.

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Capitolo 21
*** Dove qualcuno vuol tornare a casa ***


(Diversi problemini di salute - eeeh l’età! - alla mia parte sinistra mi hanno reso piuttosto ostico il lavoro di scrittura. Dover “andar piano” scompaginava i miei pensieri, i quali schizzavano in tutte le direzioni costringendomi a un lavoro estenuante di taglio e cucito. Adesso dovrei rimettermi in carreggiata: se state leggendo questo preambolo, vuol dire che sono in debito con voi per la pazienza. Accettate le mie scuse per l’attesa.) 

————






Nella sua bettola preferita, Ran masticava semi tostati nel sale per farsi venire una sete piacevole, che spegneva con una brocca di ottimo vino schiumoso. Aspettava un mercante kelith che si era detto interessato alle sue perle rosse: si era messo al collo la più grossa, una sfera lievemente irregolare grande come un occhio di bufalo. 

Fu dunque abbastanza stupito quando vide sedersi davanti a lui non l’avido commerciante, ma una matura donna sayanni.

“Sei una canaglia, uomo del clan Kurya, ma i miei occhi festeggiano sempre a rimirare la tua possanza.”

Lui la fissò, sorpreso: era piuttosto appariscente, con un vezzoso collare ornato di borchiette d’oro, e una veste alquanto scollata su un petto prosperoso. Non era particolarmente graziosa e aveva una cicatrice sottile su uno zigomo, ma il sorriso era accattivante… e sulle guance si vedevano benissimo tatuaggi da guerriero.

Trasalì, riconoscendola. 

“Il comandante di Arendia…”

“Ho un nome, disertore. Mi chiamo Mailo.”

Per un attimo si fissarono, notando ognuno la mano dell’altro sotto al tavolo. Poi lei alzò entrambe le mani, con un sorrisetto.

“Non ho intenzioni ostili,” disse.

Ran tolse a sua volta la mano dal pugnale. “Potrei averle io, per cui vattene. Non mi va che mi vedano parlare con una disonorata.”

“Solo le sante Xarani sono degni di rivolgerti la parola?” replicò la donna. “In quanto a disonorati, ne hai pure nella tua squadra, e nessuno lo sa meglio di me…”

“Li compiango, come compiango te. In quanto alla Xarani, ringrazia gli déi che sia lontana da qui: o ti ucciderebbe sul posto per la tua indegnità.”

“Lei, che va dietro a un albino?” 

“Il legame che ha con Deyan-shir è casto.”

Mailo fece un sorrisetto. “Sempre il solito ingenuo e candido montanaro. Hai mai sentito del canto di Nyliuk?” 

Ran avvampò. “Una stupida leggenda…”

“Il tuo amico è un nobile kelith, proprio come quello della leggenda; e nulla gli sarà ignoto nelle arti del piacere. Prima o poi la santa guerriera se lo ricorderà, e allora… vedremo quanto saprà resistere alla tentazione.”

Ran si alzò in piedi di scatto, e tutti intorno a lui trasalirono.

“Oh,” mormorò Mailo, rimirandolo. “Qualcuno si è arrabbiato.”

Lui tornò a sedersi, lentamente, fissando la donna con freddezza sdegnosa. 

“Ascoltami, Mailo. Se non ti prendo a calci fino all’uscita di questa taverna, è solo perché non voglio far dispetto al tuo padrone rovinandogli la merce. Per cui prendi la tua insolenza e riportala nel tuo bordello, dal quale non avresti nemmeno diritto di uscire.”

Lei alzò una spalla. “Mi prendi per una banale schiavetta kelith? Sono una conquistatrice, e il bordello che doveva essere la mia prigione è diventato il mio regno!”

“Non mi interessano le tue attività impure.”

“Però sei tu che mi ci hai condannato, caro integerrimo tutto d’un pezzo.”

“Tu mi avevi condannato a morte per non aver acconsentito alle tue voglie. Sono stato misericordioso a lasciarti in vita.”

“Più che misericordioso.” Mailo prese un pugno di semi tostati, mettendosi a sbucciarli tra i denti. “In effetti, dopo i primi momenti, ho trovato piacevole la mia nuova situazione.” Sputò con grazia la buccia del seme e ridacchiò. “Ho anzi cominciato ad avere un certo entusiasmo per le esperienze che facevo, scoprendo che non è affatto vero che noi sayanni non siamo fatti per certe cose… anzi, oserei dire che ci siamo molto portati!”

Ran sapeva che era vero: quando un sayanni si disonorava, difficilmente la sua caduta era occasionale. Anche perché ormai non aveva più nulla da perdere, precipitava in un baratro di depravazione in cui sfogava una vita intera di autocontrollo; e il risultato era alquanto penoso da contemplare.

“Gli dèi ci hanno dato un corpo di qualità superiore rispetto a quello dei kelith,” mormorò. “Per questo è doppiamente pericoloso per noi degradarlo.”

“E che ci facciamo con questo corpo di qualità superiore?” Mailo guardò intenta le larghe spalle del suo interlocutore. “Lo sprechiamo in eterne esercitazioni, in privazioni marziali e in una guerra che nessuno ha veramente interesse a vincere… sì, certo: così lo nobilitiamo. Col dolore, con la fatica, con la fame… mai con il piacere.” Una smorfia. “Molte volte mi sono trovata a meditare su queste assurdità, mio bel gigante ostinato.”

“Cerchi soltanto giustificazioni per i tuoi peccati. E ti infastidisce sapere che c’è qualcuno che non vuol farti compagnia nel disonore.” Ran vuotò il suo vino e la guardò, sarcastico. “Ti senti per caso sola, comandante Mailo?”

“Sola? Io?” Lei scoppiò in una roca risata. “Non mi sono mai sentita tanto in compagnia come qua su Luna di Fuoco. Tra gente che ha tanto in comune con me… te compreso.”

“Io con te non ho proprio niente in comune.”

“Sei un predone, amante dell’avventura e sprezzante del rischio; e sei… un comandante anche tu.”

“Mi permetto di ricordarti che sei tuttora una schiava.”

“Legalmente sì, ma ho messo da parte qualcosa per ricomprarmi la libertà.”

“Allora hai derubato il tuo padrone.”

“Certo,” ammise lei sfacciatamente. “Uno dei miei clienti… uno tra l’altro che conosci molto bene e che si intende di denaro, mi ha suggerito di investire la somma a suo nome presso la Grande Casa.”

“Uno dei miei uomini?” Ran la guardò, con una ruga tra le sopracciglia. “Un disonorato…”

“Non esattamente: uno che la Membrana non l’ha mai avuta.”

Ran impallidì, comprendendo chi era.  “Ti sei… ti sei…” gli mancò il verbo, “… con un kelith?!”

Lei lo guardò quasi con compatimento. “Nei bordelli non si va molto per il sottile, e non pochi kelith trovano interessanti le femmine della nostra razza.”

“Depravati,” mormorò Ran.

“Davvero,” annuì lei, serafica. “Depravati oltre ogni limite. D’altra parte praticano lo stupro sui sayanni che catturano, no? E anch’io…” abbassò modestamente gli occhi, “come sai, sono una vittima di questa circostanza.”

“Hai raccontato di esser stata disonorata dai kelith mentre in realtà te la facevi con un fabbro, e pure sposato.”

“Non stiamo a sottilizzare,” replicò lei. 

“Vuol dire che sei un’ottima bugiarda, oltre a una ladra e una pervertita.”

“Lo prendo come un complimento, da un criminale come te.”

“E ora che mi hai mostrato fino a che punto sei caduta in basso, sei soddisfatta?”

“No,” rispose lei. “Non è per questo che ti ho cercato.” Un sorrisetto. “So che parlare di perversioni con te è tempo perso. Voglio invece discutere di cose molto più concrete.”

Ran alzò un sopracciglio. “Cioè?”

Mailo si sporse in avanti, quasi posando lo statuario seno sul tavolo. “Devo pensare al mio futuro: non ho intenzione di fare la prostituta per il resto della mia vita. Sono pur sempre una guerriera e rimpiango l’azione…” Smise di sorridere. “E poi sono incinta.”

Ran restò per un attimo interdetto.

“Incinta?”

“Ho un’altra vita nel ventre. Per gli dèi,” soffiò lei, “sarai anche vergine, ma spero che almeno questo tu lo sappia! È così che nascono i bambini.”

“E il padre?”

“Chi se ne importa del padre?” fece lei, con un gesto distratto della mano. “Tanto sono io a tramandare la casta, e ho in pancia un futuro guerriero. È il primo che faccio, e voglio vedere cosa ne esce fuori: ho concordato col mio padrone una pausa dal mio lavoro per generarlo… a patto che gli versi l’analogo delle entrate che facevo nel bordello. Quindi devo procurarmi questo denaro in altro modo.” Schioccò le dita con fare imperioso, e il taverniere le mise davanti una tazza di acqua e vino. “E qui entri in gioco tu.”

“Io?” fece Ran, sospettosamente. 

“Sì. Uno dei capi della Squadra Sacrilega. Chi altro accetterebbe una disonorata come me?”

“Nessuno, neanche la Squadra Sacrilega.” Ran fece una smorfia. “Figuriamoci! Credi che mi dimentichi i tuoi ricatti infami? E la tua dolce voce che ordinava al boia di schiacciarmi la testa?”

“E allora? Hai vinto tu nella nostra battaglia, quella faccenda è chiusa, è acqua passata. E come ti ho spiegato, non ho alcun motivo di cercar vendetta su di te, anzi… sarebbe mio desiderio mostrarti la mia gratitudine.” Di nuovo rimirò la prestanza fisica dell’uomo di fronte a lei, e tirò un grosso sospiro. “Ma visto che il modo che ho in mente non è condiviso da te, ti propongo un’interessante alternativa, per il nostro mutuo vantaggio.”

“Spiegati.” 

“Nessuno su Sayanna sa delle mie imprese, qua su Luna di Fuoco. Sono tuttora il comandante in capo delle forze di difesa della costa, scomparsa dopo la razzia dei kelith sulla spiaggia di Zakkara. Mi credono morta gloriosamente nell’arena o per il sollazzo di qualche nobile… ma se invece tornassi indietro con una buona storia da raccontare?” Ammiccò. “Magari in compagnia dei valorosi prigionieri sayanni che, con un abile colpo di mano, sono riusciti a prendere possesso di quella nave per tornare a casa, sfuggendo al loro atroce destino come schiavi?” 

“Cosa mi stai proponendo?”

“Un affare,” sorrise lei. 











 

Naysiak aveva giurato di seguire il suo Liberatore anche all’inferno, e una città dei kelith era qualcosa che ci andava molto vicino. 

Solo nascondendo i suoi tatuaggi, il suo sesso e la sua libertà poteva compiere il suo dovere laggiù, e non trovarsi invece chiusa in gabbia o in catene, separata dai maschi. Dopo molte discussioni la sua figura androgina era stata trasformata in quella di un paj: un ragazzo catturato da piccolo, castrato e cresciuto in cattività, e per questo considerato docile. Aveva dovuto nascondere eroicamente le proprie lacrime di vergogna, accettando quella disonorevole trasformazione pur di onorare il suo giuramento. Randanai almeno aveva avuto il buon gusto di non ridere di lei, quando l’aveva vista con le guance dipinte a spirale, come una fuoricasta...

“Avresti dovuto venire con me,” le aveva detto, scuotendo la testa.

Stupido uomo delle montagne! Credi che abbia scelta?!

Ma poi lui le aveva stretto le mani, trasmettendole la paura che aveva per lei. 

“Kelitha è una terra infida e crudele. Tu non ci sei mai stata, naturalmente: sei una Xarani... ma io invece ci sono andato molte volte, e ho imparato che laggiù è meglio non illudersi che la nostra forza basti a tutto. Solo al fianco di un uomo che doveva governarla sono riuscito a portare a casa ricchezza e la mia pelle insieme. Proteggi Deyan-shir, ma lascia che sia anche lui a proteggere te. Quello è il suo mondo, non il nostro.”

Non il nostro.

Aveva tremato di disgusto, immaginandosi quel luogo che per la sua razza significava solo morte e disonore. Si era figurata un caos di altari idolatri, patiboli sanguinosi, tane promiscue rigurgitanti di peccati, dove prosperava la malattia che infestava la terra: i discendenti del demone Kel, nemico di Kamoh e Lilia nei miti della creazione...

Ma quando finalmente vi era giunta, dopo il suo primo viaggio spaventoso nel Vortice (per il quale avevano dovuto unirsi ben quattro Marjaban, perché qualcosa in lei si opponeva alla loro magia), era rimasta senza fiato. 

È questa la patria del mio Liberatore?

Adagiata tra le basse colline di un territorio arido, bianca, dorata e verde, la capitale di Shana scintillava come un gioiello nella luce combinata dei due soli. Le mura turrite racchiudevano una distesa compatta di edifici di varie forme, dominati dalla mole di un palazzo gigantesco, a sua volta chiuso da mura e confinante col deserto. Ingegnosi canali artificiali e macchine mosse dal vento portavano la preziosa acqua dal Grande Fiume, strade solide e piste sabbiose si incrociavano, e monumenti colossali celebravano antichi regnanti. Lei aveva lottato per reprimere il senso di meraviglia che provava, ma era pur sempre una Huanai, amante della bellezza e dell’arte... non poteva disconoscere quella di un nemico. 

Come ha fatto un popolo così debole a costruire tanta magnificenza?

La città aveva assaltato i suoi sensi, riempiendoli di un euforico sgomento. Non aveva mai visto tanti kelith tutti insieme: le strade erano piene di piccoli uomini industriosi, donne velate di nero, innumerevoli bambini, e il loro vociare saliva alto nel meriggio assieme alla musica di strumenti sconosciuti. C’era colore dappertutto, quasi in sfida alla monotonia cromatica del paesaggio: anche le case più povere avevano gli infissi dipinti in maniera sgargiante, e ovunque si vedevano tappeti dai disegni complicati. L’aria sapeva di spezie, sudore, fiori dolcissimi, erbe fermentate, sentori di acqua ferma, odori degli animali: cani, uccelli di tutte le forme, strani animali dai larghi piedi e dalle zanne aguzze che trainavano ingegnosi veicoli. La gente scorreva con ordine e senza intralciarsi, salutandosi cerimoniosamente: ogni cosa sembrava essere rodata come un congegno vecchio di millenni. 

Naysiak era sconcertata dalle differenze sociali che vedeva intorno a sé. Lei veniva da un mondo antico dove il rigido sistema delle caste faceva sì che diritti e doveri fossero omogenei in ogni gruppo, con ben poche variazioni. Persino una come lei (una Figlia della Cometa!) aveva vissuto come una normale guerriera, in una casa comune senza lussi particolari: era anche un modo per ricordarle che negli Xarani si venerava la potenza delle Divinità, non la loro. L’orgoglio era un peccato, per i sayanni...

Invece per i kelith era una dote di cui vantarsi. Ognuno era consapevole del proprio posto in società, e pretendeva il proprio omaggio da chi riteneva inferiore a sé: chi aveva qualcosa lo ostentava in faccia a chi non l’aveva, senza alcun pudore. Gente grassa  conviveva con miserabili affamati, e i ricchi ignoravano i poveri con assoluta disinvoltura. Si comportavano insomma come se non fossero uno stesso popolo, ma molti, ognuno indifferente ai bisogni dell’altro. E con grande stupore di Naysiak, sembravano trovare tutto questo naturale. 

L’immenso palazzo principesco, visibile da ogni parte della città, era la rappresentazione del limite superiore di quella disuguaglianza. Sembrava dichiarare a tutti che il popolo che viveva al di fuori di esso, numeroso quanto fosse, non contava nulla: ogni onore e gloria spettava solo ai membri della cosiddetta Razza Sovrana, i dominatori incontrastati di quel mondo. In una piazza grandiosa lei aveva avuto il privilegio di vederli in tutta la loro arroganza, elevati su una piattaforma splendente come esseri divini e protetti da uno stuolo di scintillanti soldati in armatura. Erano creature eteree e quasi disumane nella loro bianchezza, immerse come grasse larve o sparuti insetti in un mare di lusso oltraggioso. 

“Kamoh u Lilia hulum ne, kai shki t’shish,” aveva imprecato sottovoce, sputando per terra. 

Poi si era resa conto con un brivido che anche il suo Liberatore era uno di quei nobili; anzi, per stirpe era il più nobile di tutti, anche del principe che dominava la scena dal suo trono foderato d’oro…

Si era girata a guardarlo, vergognandosi di averlo insultato, ma lui l’aveva completamente ignorata: si era strappato il velo di garza che fino a quel momento gli aveva coperto gli occhi, alzando il volto verso quella piattaforma e fissandola con un’intensità quasi dolorosa. 

“Tasia,” aveva mormorato, con un filo di voce.

Naysiak si era sentita tremare: strane emozioni le erano echeggiate nello spirito, un desiderio mortale che le aveva fatto sentire le ginocchia molli. Chi era quella fredda donna vestita d’argento e mascherata? E cos’era quella sofferenza rabbiosa che percepiva nel suo Liberatore? Era così forte da far odiare la vita per il solo fatto di provarla…

Aveva messo mano al manico del pugnale nascosto nelle vesti: se era una fine eroica che lui voleva, lei era pronta! In fin dei conti aveva vissuto e sofferto per più di un millennio, era abbastanza. Si sarebbe unita a lui in quell’epico massacro di albini, e sarebbe stata uccisa compiendo il proprio dovere: la morte più gloriosa che un sayanni potesse immaginarsi!

Ma la ferrea disciplina interiore di Deyan aveva avuto il sopravvento. Aveva osservato la piazza col proprio addestramento militare, e aveva capito che non avrebbe mai raggiunto Gamosh, neanche con una Xarani al fianco. Sarebbe morto vanamente, dando al fratello uno spettacolo inaspettato, ma indubbiamente gradito...

Aveva deciso di dargli un altro spettacolo: si era arditamente unito agli schiavi che si esibivano nella piazza. Non era un acrobata, ma la sua pratica quotidiana dell’arte di combattimento lo rendeva abile ad arrampicarsi e volteggiare: si era messo a farlo con grazia sfacciata. Il popolo l’aveva acclamato, quasi sentisse istintivamente la sua superiorità; e anche i nobili alla fine si erano degnati di notarlo, chinando su di lui sguardi condiscendenti. 

Ma nessuno aveva esclamato o mormorato il suo nome. Nessuno si era accorto che quel giovane dall’aria spavalda era nientemeno che il perduto principe di Shana...

Cos’è, troppo uomo per sembrare una di quelle larve lassù?!

Naysiak era rimasta allibita da se stessa: il pensiero le era sorto così spontaneo! 

Ma si era resa conto che, forse per la prima volta, non aveva più visto in Deyan un etereo diavolo bianco. 

E in effetti non lo era più. Aveva sacrificato quella che secondo i kelith era la sua maggior bellezza, in nome della sua incredibile determinazione: un passo alla volta, si era trasformato in un uomo del grande nord, dall’aria stranamente più vigorosa. Si era lasciato crescere la barba per confondere i suoi lineamenti tipici delle razze centrali; aveva curato l’abbigliamento, l’accento nel parlare, i modi e le tradizioni; e aveva combinato da sé una misteriosa sostanza gelatinosa che, applicata alla zona intorno agli occhi e lasciata asciugare, prendeva l’aspetto di vecchie cicatrici da fuoco. Ran ne era rimasto impressionato, e gli aveva chiesto perché si fosse sfigurato a quel modo.

“Posso tingermi i capelli, le sopracciglia, la barba... anche la pelle, benché sia più pericoloso; ed è per questo che ho deciso di passare per uno Chandì, un’etnia dalla pelle chiara. Ma non posso cambiare il colore dei miei occhi. Devo fingermi cieco per avere il pretesto di nasconderli.”

“Quelle gocce strane che metti...”

“Sono utili, perché arrossano le sclere e dilatano le pupille. Ma posso usarle solo di notte, di giorno mi accecherebbero davvero. Userò una benda di garza nera, che non mi impedirà di vedere, ma nasconderà i miei occhi e li proteggerà dalla luce.”

“E il marchio? Quello come farai a nasconderlo?”

Deyan aveva fatto il suo solito sorrisetto kelith, e gli aveva mostrato un collare di metallo. 

Ran era allibito di fronte a tanta sfacciataggine. “Dei del profondo, non vorrai…”

 “Al mio paese c’è un detto: se sei un seme, nasconditi nel granaio.” 

Lo stratagemma aveva funzionato. Benché ci fosse il mistero di quell’albino mascherato tollerato dalle guardie, il ritratto giovanile di Deyan (la miniatura di un fine aristocratico dai capelli lunghi, senza marchio) appariva ancora tra quello dei ricercati. Ogni volto velato veniva controllato, ogni donna era esaminata da eunuchi. Ma cosa c’era da vedere negli schiavi, se non che erano schiavi? Ne arrivavano a frotte, per la fiera di Akkai...

E dunque non c’era niente di strano se l’onorevole Munanmar di Niisa (così era scritto nelle credenziali di Aydie, preparate meticolosamente dallo stesso Deyan che era pratico del linguaggio burocratico kelith) aveva fatto il suo ingresso in città con un paj oberato dai bagagli, un artista cieco e mezzo kontar in oro da investire. Il mistero semmai era che un uomo con tanto denaro fosse seguito solo da due schiavi e non da uno stuolo di servi; ma poi si notava la faccia sfregiata sotto l’ampio cappello, l’aria spavalda, il pugnale dal manico lucido e i robusti stivali; segni rivelatori di un trafficante dalla vita avventurosa, di quelli che accumulavano ricchezze incredibili infilandole nelle casse delle loro gilde, in attesa di dilapidarle quando non avrebbero più avuto la fibra per dormire all’addiaccio. 

Quello che ormai era diventato a tutti gli effetti il luogotenente di Deyan (e che lo era diventato sfidandolo quando ancora era il liberto di Ran, credendo di aver gioco facile contro un fragile albino, guadagnandosi un’altra cicatrice in faccia) si era subito offerto volontario per quella rischiosa missione. Per quanto guadagnasse, si ritrovava sempre sempre senza il becco di un quattrino, e la ricompensa che il suo capo gli aveva offerto era generosa, come anche la promessa di un’eccitante avventura per un uomo che ormai non aveva più motivo di temere la morte.

Ci serve una persona dalla lingua sciolta, gli aveva detto Deyan. Un pratico viaggiatore in grado di muoversi in un paese straniero, e mantenere le apparenze. Come ben sai, i Marjaban ci vietano di usare il Vortice per giungere direttamente nelle città, dato che là sarebbe arduo trovare luoghi adatti per un arrivo non notato. Dovremo entrare e uscire da Shana assieme alle carovane mercantili. E se io e la sayanni lo faremo come schiavi… ci occorre un padrone. 

Aydie aveva obiettato che una faccia come la sua era ben riconoscibile e c’erano bandi con la sua effigie alle porte di molte città kelith. Ma Deyan sapeva - e lo sapeva naturalmente anche lui - che quei bandi ingiallivano sulle mura di città lontane da Shana, e rappresentavano un arcigno predone scarmigliato, non un distinto avventuriero. 

Reciterò il ruolo del tuo padrone, Deyan-shir, ma solo se mi prometti che mi perdonerai per questo. Ho troppo rispetto per te: dovunque tu vai, il denaro ti rincorre. Sei il Nemaii delle leggende di Niisa…

E Aydie ricordava quel colloquio, soppesando la borsa con le monete che Gamosh aveva gettato. 

Il Fabbricatore di Ricchezza, davvero! 

Quel denaro ovviamente apparteneva al suo capo, ma Deyan si sarebbe fatto tagliare le mani piuttosto che accettare l’elemosina del fratello: l’ostentata indifferenza - quasi sprezzante - con cui aveva ignorato quell’offerta aveva rischiato di indisporre Gamosh, con conseguenze che potevano essere tremende. Solo a fatica Aydie era riuscito a convincerlo a piegare il suo orgoglio aristocratico, inchinandosi alla fine - e molti si erano accorti che il suo inchino era quello di corte, alquanto bizzarro in un giovanotto semibarbaro del nord. Dopodiché il cieco aveva lanciato una lunga, oltraggiosa occhiata nientemeno che alla Prima tra le Prime del principe, come se avesse voluto farla bagnare tra le cosce…

Dannazione, Deyan-shir!

“Va’ dal tuo signore e fingi di guidarlo via da lì,” mormorò a Naysiak. “Conducilo a quel porticato, io devo fare una cosa.”

Lei annuì e andò a raggiungere Deyan, che era rimasto immobile al centro della piazza. Aydie raggiunse un venditore ambulante di vino e gli lanciò una delle monete che Gamosh gli aveva regalato. L’uomo la guardò stupefatto; valutò il cliente, ripose la tazza ordinaria e trasse un calice di metallo, mettendosi industriosamente a strofinarlo.

“Sbrigati a riempirlo e dammelo,” ringhiò Aydie. “Non mi interessa chi ha bevuto prima di me.”

Strappò quasi di mano il calice al venditore e lo vuotò d’un fiato, poi glielo porse e se lo fece riempire di nuovo. Solo al quarto calice sembrò calmarsi: si nettò la bocca corrugata col dorso delle dita e si voltò verso il centro della piazza. 

Notava come la gente fosse intimidita da Naysiak: aveva il viso di un ragazzo, ma era pur sempre alta quanto il kelith che conduceva, e c’era qualcosa di minaccioso nella disinvoltura con cui si muoveva. I bambini si arrestavano a guardarla con la bocca aperta, stupiti dalla sua pelle azzurra e dai suoi lineamenti strani; non dal suo costume, che sia pur pacchiano era quello di un domestico kelith. Naturalmente serviva un compagno che, sia pur schiavo, era un uomo civile: anche nella classe servile la superiorità kelith era naturale. Molti occhi guardavano il giovane barbuto, che si era di nuovo coperto gli occhi con una benda per non ostentare le sue cicatrici. Uno schiavo cieco non era una rarità: molti cantastorie e musicisti erano privi di vista, e si diceva che per questo avessero memoria migliore. Ma un bardo con quella prestanza era davvero eccezionale, e la abbinava a una carnagione rara in un paese bruciato dai due soli come Shana…

“Permetti una parola, straniero.”

Aydie si voltò di scatto. Si trovò di fronte un uomo massiccio, con un turbante sul capo e un bastone in pugno. 

“Ti ho visto tra i mercanti, e vorrei sapere qualcosa di più su questi tuoi schiavi. Non se ne vedono molti così, a Shana…”

“Gli dèi vi siano propizi, signori.” Un anziano vestito in modo assai decoroso si fece avanti, le mani infilate nelle maniche: fece un elaborato inchino verso Aydie. “Sono l’intendente della famiglia Aharir, una delle più eminenti della città.” Guardò malevolmente l’uomo che l’aveva preceduto. “Sono interessato anch’io alla merce di questo mercante.”

Lo sguardo attonito di Aydie passò dall’uno all’altro.

“Volete... comprare i miei schiavi?!”

Si guardarono, imbarazzati. “Sarebbe più opportuno attendere il giorno di mercato, ma se possiamo anticipare la trattativa…”

“E poi al mercato non c’è riservatezza,” fece l’intendente a denti stretti. 

Aydie si tolse il cappello, scompigliandosi i capelli con un gesto di imbarazzo. “Ah, gentili signori… sono davvero onorato del vostro interesse, ma non posso accontentarvi. Purtroppo arrivate tardi: sono già in parola con un... cliente importante...”

“Oh,” esclamarono entrambi, con tanto d’occhi. 

Ma non guardavano più Aydie: fissavano due soldati in armatura, che si avvicinavano con passo marziale e tintinnante. 

Pretoriani!

Aydie impallidì e mise mano al manico del pugnale, ma non lo estrasse: vide che Naysiak era stranamente tranquilla, solo curiosa. Non percepiva pericolo? O era indifferente ad esso, come i guerrieri della sua razza? 

In effetti i soldati non avevano l’aria di volerli arrestare. Si fermarono semplicemente davanti a lui, e uno di essi proclamò: 

“Sua eccellenza il Sesto Custode delle Chiavi del Palazzo vuole parlarti, straniero.”

I due acquirenti restarono a bocca aperta. Era quello il cliente importante a cui avevano pensato di soffiare la merce?!

“Chiediamo perdono per averti importunato!” esclamarono quasi in coro, e si allontanarono come se avessero avuto un branco di lupi alle calcagna.

“Per le cosce della Bianca Dea,” mormorò Aydie, asciugandosi il sudore dalla fronte.

“Andiamo, straniero,” gli dissero i pretoriani. “Non sta bene lasciar attendere il servo del principe. I tuoi schiavi possono seguirti.”

“Vengo subito,” rispose lui. Si voltò un istante verso Deyan. Non poteva vedergli gli occhi, ma sapeva che di sottecchi lo stava guardando. Usò i gesti del codice dei ladri per chiedergli cosa doveva fare.

Le dita di Deyan risposero con il gesto che imitava un serpente sotto una roccia. 

Aydie emise un breve respiro e pregò. 

Un esercito di servi lavorava per riporre le ricche stoffe e i magnifici oggetti d’arredamento usati dai nobili, affinché vento e polvere non li rovinassero. Una figura corpulenta dirigeva lo smantellamento del baldacchino della Prima delle Prime: quando vide avvicinarsi coloro che aveva invitato, smise di dare ordini e si alzò dalla sua seggiola, sgranchendosi con un gemito quasi femmineo. 

“Sua eccellenza il Sesto Custode delle Chiavi del Palazzo,” lo presentò uno dei pretoriani, e Aydie si inchinò immediatamente nel modo più solenne, perché aveva di fronte uno dei potentissimi eunuchi della casa regnante. 

Naysiak fissò ad occhi spalancati quella sconcertante creatura. La faccia era truccata con uno spesso strato di cipria gessosa, che la faceva sembrare una maschera; le labbra erano dipinte di cremisi, le palpebre d’azzurro, e pesanti orecchini d’oro stiravano i lobi fin quasi alle spalle. Il suo odore era così forte ai suoi sensi da farla quasi boccheggiare: profumi dolci, sentori ammoniacali, e una nota di pericolosa eccitazione nel sudore…

Lui si accorse della sua attenzione, e non gli piacque. 

“Quella bestia azzurra mi fissa,” sibilò con una smorfia. “Vuole attaccarmi?”

“Cosa?” Aydie si scosse e guardò Naysiak. “Oh no, eccellenza, assolutamente no! Il mio paj è assolutamente inoffensivo. È solo che è ancora un cucciolo curioso, e non ha mai visto una persona importante come te...” Le mise una mano sulla spalla. “Giù!”

Lei gli rivolse uno sguardo incerto. Giù? 

“Avanti, obbedisci. E digli che implori il suo perdono, maleducato!”

Lei scrollò le spalle. “Come padrone vuole.” Si sedette per terra e ripeté con voce squillante: “E digli che implori il suo perdono, maleducato.”

Seguì un istante di silenzio.Tutti erano rimasti perplessi, tranne Deyan: voltò brevemente la testa, con l’ombra di un sorriso... 

“Stupido!” Aydie le assestò una manata sulla testa, mentre i soldati ridacchiavano. “Lo vedi, eccellenza?” disse, paonazzo in faccia. “È buono e obbediente, anche se ovviamente la sua intelligenza è limitata. ”

“Tienilo d’occhio,” disse l’eunuco, per nulla convinto. “I sayanni mi fanno paura.” Rivolse lo sguardo a Deyan. “Anche quello schiavo barbuto è tuo, vero?”

“L’indegno nome sul suo collare è il mio, sì.”

L’eunuco lo studiò in silenzio, accarezzandosi la pappagorgia. Deyan mosse appena la testa, come per cercare di capire dove fosse; poi accennò a inchinarsi verso di lui.

“No.” L’eunuco si mordicchiò il gonfio labbro inferiore. “Rimani dritto.” Si rivolse ad Aydie, ma senza staccare lo sguardo da lui. “Avevo visto femmine con i capelli d’oro, ma mai un maschio. E con la pelle così bianca!”

“Ho fatto di tutto per preservarla dal contatto con i due soli,” fece il predone con un inchino. “Coprendola bene e viaggiando di notte, sapendo che sarebbe stata sempre più apprezzata man mano che mi muovevo verso sud.”

“Allora non l’hai schiarito tu? È così di natura?”

“Sì, eccellenza. È uno Chandì delle Isole del Ghiaccio. Mi sono recato nel Grande Nord quando ho saputo che il principe Rükkrah aveva deciso di sbarazzarsi dei clan che si erano dati alla pirateria: la sua flotta ha distrutto molti villaggi, portando alla capitale parecchi prigionieri. Lui è uno di quelli.”

“E come mai ha gli occhi bendati?”

“Era il figlio di uno dei capi ribelli; doveva essere messo a morte, ma io ho offerto al principe un prezioso rubino affinché lo risparmiasse e me lo vendesse come schiavo. Il principe ha accettato a patto che me lo portassi via per sempre da Chanda; ma prima di consegnarmelo l’ha fatto accecare.”

“Quindi è una sorta di nobile tra i criminali!” Gli occhi dell’eunuco si dilatarono. “Interessante. Posso toccarlo?”

Deyan smise di colpo di sorridere, e Naysiak ebbe un brivido. 

“Toccarlo?” mormorò Aydie.

“Me n’è venuta voglia… e dato che è tuo, devo chiederti il permesso.”

Il predone esitò, imbarazzato. Era una richiesta del tutto lecita: uno schiavo dopotutto non era che un oggetto senza dignità, e non c’era nulla di strano a trattarlo da tale. Che scusa poteva inventarsi per negare quel permesso a un potente cortigiano, col rischio di inimicarselo?

“Eccellenza,” balbettò, sudando freddo. “Veramente, io…”

“Mi rifiuteresti questa piccola cortesia?” domandò l’eunuco, in tono pericoloso.

“Non è questo!” Aydie guardò nervosamente Deyan, come per chiedergli cosa fare. “Non mi permetterei mai di rifiutarti qualcosa… ma vedi... ehm... il mio schiavo non è pulito!” Fece un grosso sospiro imbarazzato. “La fatica che ha appena fatto l’ha reso... impresentabile. Perdonami, ma mi vergognerei che mani pure come le tue toccassero...” 

L’eunuco lo interruppe alzando una mano. 

“Che sciocco che sono,” sorrise amabilmente. “È naturale che tergiversi: sei un mercante! Giustamente ti aspetti un corrispettivo per l’utilizzo delle tue cose.” Si posò pensosamente un’unghia dorata sulle labbra. “Il tuo permesso, ora; e avrai... dieci min in argento. Che ne dici?”

I presenti mormorarono, e Aydie si sentì in trappola: dieci min solo per toccare uno schiavo?! Era l’acconto per comprarlo! Una somma talmente sproporzionata da essere impossibile da rifiutare, senza generare sospetti.

“Oh, eccellenza,” mormorò, confuso. “Signore, io…”

“Sì, lo so,” annuì l’eunuco, con una scrollata delle gracili spalle. “Sono troppo generoso, ma se non posso spendere il poco che possiedo per queste piccole soddisfazioni… a che servirebbe essere ricchi?”

Si avvicinò a Deyan, con un sorrisetto compiaciuto. Non era armato e non c’era minaccia in lui, ma a Naysiak non piaceva il suo improvviso cambio di odore. Fece automaticamente per rialzarsi, ma la mano di Aydie le strinse la spalla con decisione. 

“No,” le sussurrò appena. 

E chinò la testa, come per non guardare. 

L’eunuco si fermò davanti al giovane bendato. “Sei troppo alto per me, schiavo. Inginocchiati.”

Deyan esitò visibilmente. 

“Ho detto inginocchiati. Forse sei sordo, oltre che cieco?”

Naysiak vide un respiro forzato sollevare il suo petto. Non aveva scelta: obbedì all’ordine dell’eunuco. Lei non poté fare a meno di provare un istante di amara soddisfazione a vederlo in ginocchio.

Ti ricordi di quando mi hai fatto mettere il tuo collare, Liberatore?...

L’eunuco lo studiò da vicino, poi la sua mano grassoccia gli slacciò il mantello e si posò sulla spalla che la keima lasciava scoperta, percorrendo con ammirazione la perfetta muscolatura. Deyan sussultò appena a quel contatto indiscreto in pubblico, ma si dominò: non era che uno schiavo, non aveva diritto di sentirsi oltraggiato… chinò la testa, pallido come il marmo.

“Dunque saresti lo sfortunato figlio di un uomo senza onore, ucciso dalle sue colpe… che storia interessante.”

L’eunuco gli accarezzò la barba, come se fosse stato il pelo di un animale; poi scese sul collo e sul torace. 

“Chissà di quali delitti si è macchiata la tua famiglia, per far adirare così gli dèi.” Si chinò quasi a parlargli nell’orecchio. “Forse i tuoi fratelli non sono altro che dei volgari... ladri.” 

Deyan strinse i pugni ai fianchi, ma non si mosse.

“E forse, dentro questo petto così ben fatto...” La mano destra dell’eunuco si infilò maliziosamente sotto la keima, a contatto diretto con la pelle, “si nasconde il cuore…” 

Un movimento ad artiglio delle dita sotto la stoffa, e Deyan trasalì dolorosamente…

“… di un assassino!”

Seguì un istante di bizzarro silenzio. In cui si udì una sorta di basso ruggito, un antico suono di minaccia.

L’eunuco si voltò a fissare Naysiak con una smorfia; lei non si era mossa, ma gli aveva piantato addosso gli occhi con espressione selvaggia.

Ti sei divertito abbastanza, mezzo uomo. Ora togli quelle mani perverse dal mio Liberatore, o ti strappo la trachea e te la metto in bocca. 

“Toh, il cucciolo è geloso,” soffiò l’eunuco, allontanandosi dall’impietrito Deyan; e scoppiò in una risatina nervosa, a cui educatamente si unirono anche quelle dei suoi servi. 

“Eccellenza,” mormorò Aydie. “Hai forse finito…”

“Oh, sì. Ho soddisfatto la mia curiosità.” Si rivolse ai suoi servi e indicò Aydie, con un gesto stanco. “Pagate quest’uomo e mandatelo per la sua strada, non ho più bisogno dei suoi servigi. Che si porti pure via i suoi animali!”

E senza dir altro andò a issarsi sulla sua lettiga, alle cui stanghe otto robusti portatori erano già pronti.

I servi e le guardie lo seguirono mentre tornava a palazzo, e coloro che avevano assistito alla scena scrollarono le spalle: le bizzarrie dei castrati non erano una novità, come non era una novità la casualità con cui spendevano la loro immensa ricchezza. Invidiarono Aydie per tutti i soldi che si era guadagnato facilmente quella sera.

Deyan restò in ginocchio per un lungo istante, con aria indifferente, come se fosse abituato a quel genere di umiliazioni. Ma quando le sue mani raccolsero il suo mantello, Naysiak notò che tremavano.











Un canto ondeggiante, accompagnato da uno strumento a corde che sembrava imitarne la voce, si levava dal bordello sulla strada, nella zona dei mercati. Un bambino magro come un ragno era andato ad accendere le lucerne intorno al portone aperto sulla strada ormai deserta. Soltanto tre grossi cani da guardia presidiavano il cortile polveroso.

Seduta con le spalle appoggiate al muro di mattoni crudi di una povera baracca, Naysiak strofinava tra le mani piene di sabbia alcuni semi duri, che avrebbe usato per fare una cavigliera. La schiava Cinque avrebbe cercato in tutti i modi di nasconderla a Ibal (che non voleva che oggetti barbari contaminassero la shanda), per indossarla quando Deyan l’avesse chiamata. Le ragazze si erano accorte che gli piaceva vederle con quei gingilli addosso: era più gentile con loro. Era una magia? Lei aveva sorriso, scuotendo la testa di fronte alla loro ignoranza: i talismani magici erano ben altra cosa… ma se credevano che quei semplici adornamenti portassero fortuna, che male c’era a renderle felici? 

Alzò la testa, guardandosi intorno. La locanda era dignitosa, adatta ai mercanti stranieri di passaggio. Aveva stanze graziose, un bagno pubblico per le abluzioni, una cucina e un recinto chiuso per gli schiavi. Era lì che lei e Deyan avrebbero dovuto stare, ma Aydie aveva escluso di mettere la sua merce pregiata in quel buco infestato da parassiti, occupato da tristi portatori. Dopo molte discussioni e trattative, il locandiere aveva capitolato e aveva offerto in alternativa quella piccola baracca in cortile, normalmente usata per riporvi secchi, ramazze e altri oggetti. Però aveva fatto notare che non c’era la serratura alla porta.

E allora? aveva sbraitato Aydie. I miei sono schiavi per bene, non scappano. C’è il mio nome sul collare, non me li possono rubare. E poi guardali, un cieco e un barbaro… quanto lontano credi che arriverebbero, senza farsi pizzicare dalle guardie?

Il locandiere aveva scrollato le spalle. Ognuno aveva il diritto di fare con la propria roba ciò che voleva, bastava che se ne prendesse anche la responsabilità. 

Il predone si stava avvicinando dal cortile. Era quasi irriconoscibile, molto compiaciuto negli abiti fini che indossava: un uomo pronto a festeggiare in case onorate. Portava una fascia di tessuto alla fronte, da cui cadeva un elegante velo a coprirgli la metà del viso rovinata; il velo poi era avvolto intorno alla gola, fermato sulla spalla da una spilla d’argento. Canticchiava le parole della canzone che si udiva: una ballata piena di argomenti proibiti per i sayanni come amore e desiderio. Per quanto i kelith fossero segretissimi in molte faccende e le loro donne non si vedessero quasi mai, uno scandaloso erotismo permeava tutta la loro arte. Naysiak se ne sentiva assediata: rimpiangeva l’atmosfera casta e serena in cui era vissuta prima di essere rinchiusa nel Feretro, le sale del Tempio dove uomini e donne potevano convivere senza nemmeno pensare a certe sconcezze. 

E le Divinità hanno punito il mio orgoglio facendomi riemergere in un mondo pieno di peccato, sfidandomi a mantenere la mia purezza anche in una shanda. Naysiak sospirò pesantemente e ripose i semi in un sacchetto. D’altra parte è facile chiudere occhi e orecchie a queste sollecitazioni: basta sentire quanto tormento provano i kelith quando descrivono l’amore. Noi sayanni siamo più saggi e conserviamo le nostre energie per scopi più nobili che… “spirare nel profumo di un soffice seno”. Si aprì appena lo scollo della casacca per sentire che odore aveva il suo: quello del corpetto di pelle che lo comprimeva perché non la intralciasse. E scrollò le spalle. Che stupidaggine!

Aydie la raggiunse: lei si alzò rispettosamente, come ci si sarebbe aspettati da un domestico. Si era naturalmente accorta che il locandiere era alla finestra, a spiare cosa facesse lo straniero che aveva tanto a cuore i suoi schiavi. 

“Vorrà vedere se a furia di viaggiare con un ragazzo sayanni ho finito per mutare i miei gusti.” 

“Prego?” domandò lei.

“Oh, non sarebbe una novità tra gli schiavisti. Quella canaglia deve aver pure scommesso con qualcuno, ma io lo deluderò: passerò la notte tra le braccia di qualche adorabile, grassa Shanì… ammesso che se ne trovino ancora, con tutte le tasse che si pagano da queste parti.”

Naysiak voltò la testa con una smorfia. “Cose perverse.”

“Lo spero proprio,” annuì Aydie, e sospirò. “Avete avuto da mangiare?”

Lei annuì. 

“Servo portato cose avanzate da cucina. Dice noi schiavi di straniero, molto fortunati; ma io non credo. Cibo forte e brucia gola: e poi io visto grande pentola per altri schiavi, mette dentro animale con coda senza pelo. Io dice: buona carne! Noi niente? Servo dice io non civile e va via.”

Il predone ridacchiò. 

Non invidiare chi si disputerà una zuppa acquosa arricchita da un roditore catturato nelle fogne…” Abbassò la voce. “Sempre meglio comunque di quel che date voi sayanni ai vostri schiavi: dicono che li nutrite con la carne dei loro compagni morti.”

Lei lo guardò, stupita. Che c’era di male? La carne era carne. E quella dei prigionieri kelith valeva quella di qualsiasi altro animale: era immonda solo per la sua origine, ma se doveva finire nello stomaco di esseri già immondi per conto loro, dov’era il problema?

Ma forse per i kelith mangiare è più sacro di quelle faccende che invece trattano con indecente leggerezza. 

Doveva essere per quello che il Liberatore l’aveva cacciata dalla baracca, scandalizzatissimo. E tutto perché lei gli aveva portato la ciotola con gli avanzi, e l’aveva messa tra sé e lui; poi aveva fatto per affondarci una delle croste di pane che le avevano dato. 

Deyan aveva usato la sua canna da cieco per colpirla sul braccio: una secca vergata che l’aveva fatta trasalire più di sorpresa che di dolore. 

“Come ti permetti, barbara presuntuosa? Credi di potermi insultare anche tu?”

Lei l’aveva guardato, sconcertata.

“Io non insultato, Seriema. Tuo cibo, uguale a mio cibo…”

“Ma tu non sei la mia uguale!” 

Su questo siamo d’accordo, stupido kelith.

Non c’era stato nulla da fare: Deyan non avrebbe toccato cibo finché lei non se ne fosse andata. L’aveva accontentato, portandosi via la sua parte e mettendosi a mangiare da sola in cortile; ma tanto si era sentita privata del piacere sayanni della condivisione, che aveva chiamato i cani a farle compagnia…

“Seriema arrabbiato,” mormorò. 

“Lo immagino. Quel maledetto castrato…”

“Fatto volere di Divinità.”

“Cosa?…”

Lei lo guardò quasi con compatimento. Come potevano i kelith essere così ciechi davanti all’operato degli dèi? Era talmente evidente ciò che era successo…

“Kamoh e Lilia ricorda che Seriema fatto schiava povera Naysiak, e trattato male, davanti a tutti. Lui tolto me tutto, lascia me nuda, senza armi, con cattive parole, picchiata, a fare serva!…” Inspirò profondamente per dominare lo sdegno. “Divinità fatto sentire a Seriema solo piccola ombra… piccola, perché lui non forte come valorosa sayanni… di grande dolore fatto da lui a loro figlia.”

Aydie scosse la testa. 

“Se è il dolore di Deyan-shir che vuoi, ragazza azzurra, non hai bisogno di affidarti ai tuoi dèi: guarda semplicemente nel suo passato. Ce n’è abbastanza per ritenerti vendicata di tutto quel che ti ha fatto.” 

“Vendicata?…”

Le indicò la cupola del palazzo principesco, in lontananza: era illuminata da centinaia di lampade colorate e sembrava una visione da sogno. 

“Quella laggiù era la sua vera casa… e immagina cosa sta provando a guardarla da una baracca da schiavi, con un collare addosso.”

“Noi non schiavi veramente.” Lei si toccò il collare. “Questo, finto!”

Aydie le rivolse quel suo inquietante mezzo sorriso. 

“Per te, sì. Ma non per Deyan-shir. Non ha importanza quel che Ran ha fatto su Luna di Fuoco: per le leggi di questa terra lui è e rimane uno schiavo, e nessuno può liberarlo: in mancanza di un padrone legale, la sua proprietà torna alla Corona.” 

Naysiak ammutolì. 

“E se credi che sia ormai un dettaglio senza importanza… ricorda che lui è un aristocratico. Chiunque di noi kelith se ne può infischiare delle usanze, rinnegare i propri costumi: lui no! E quindi sa che non potrà mai essere veramente un uomo libero… neanche su Luna di Fuoco.” Un sospiro. “Avanti, perché pensi che lui, un principe, renda così tanto onore a uno come Ran, un brav’uomo, sì, ma quello che per lui non può essere altro che un barbaro?”

Lei trasalì. “Perché amico!”

Aydie scosse lentamente la testa. 

“Lo onora perché dentro di sé lo considera ancora il suo padrone. Ecco perché tratta Ran con i privilegi che normalmente concederebbe solo ad altri nobili. Ecco perché mangia solo in sua compagnia e gli apre le porte della propria casa come se fosse sua, e gli concede persino di toccarlo! Dietro a questa sua incredibile lealtà c’è la consapevolezza della sua vergogna: ogni giorno l’affronta. Ogni giorno ne sente il morso. E ogni giorno ci viene a patti, ma solo perché Ran non abusa mai del suo potere. È lui che è così generoso da considerare Deyan-shir un amico.” 

Naysiak chinò la testa.

Oh, Randanai…

“Ma si illude di essere ricambiato: un nobile non può essere amico di nessuno. Tantomeno dell’uomo che, sia pure per poco tempo, l’ha tenuto al guinzaglio: l’orgoglio ferito di Deyan-shir brucerà per sempre come una piaga aperta. Benché oggi il nostro capo abbia avuto una piccola dimostrazione di quella che avrebbe potuto essere la sua vita, con un altro padrone. Con qualsiasi altro padrone. Che gli avrebbe inflitto ben altre piaghe…”

Un profondo suono di campana arrivò dal palazzo principesco: una vibrazione che si espanse nell’aria asciutta. Gli fecero eco le campane più piccole dei templi. 

“È l’ora,” mormorò Aydie. “Va’ a vedere se è pronto.”

Lei annuì, in silenzio. 

Prese la lucerna e aprì la porta della baracca, facendo luce al suo interno. 

Il suo Liberatore era rimasto al buio, come ci si sarebbe aspettato da un cieco; ma questo non gli aveva impedito di prepararsi: finiva di chiudere la propria bisaccia. Poi si alzò e se la caricò sulle spalle assieme a una cetra dalle chiavi allentate, sfiorando con la testa il basso soffitto della baracca. Naysiak notò che si era di nuovo tolto la benda, e i suoi occhi sembravano pozzi senza fondo: l’espressione era lontana. 

“Quando Aydie si fermerà nella casa che ha scelto, tu lo aspetterai fuori. Io proseguirò da solo.”

“No. Io venuta qui per proteggere.”

“Lo sai cosa ti farebbero, se ti catturassero in mia compagnia?”

“Perché catturare? Nessuno sa Seriema qui.”

Deyan sospirò e si portò una mano al petto; quindi scostò di qualche pollice la keima. Naysiak vide un segno rosso sul muscolo pettorale… una piccola ferita superficiale. 

“Forse,” mormorò lui, toccandosela.

La ferita era un graffio lasciato da un’unghia. 

A forma di mezzaluna.



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