L'Amaro Caso di Villa Nakano

di Hoel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: 1925 ***
Capitolo 2: *** Agosto 2012 - prima parte ***
Capitolo 3: *** Agosto 2012 - seconda parte ***
Capitolo 4: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: gli Eventi dal 1850 al 1856 ***
Capitolo 5: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: la Notte di San Giovanni, Annus Horribilis 1858 ***
Capitolo 6: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: 1858- 1919, Decadenza di una Famiglia Maledetta ***
Capitolo 7: *** Agosto 2012 - terza parte: Osud ***
Capitolo 8: *** Agosto 2012 - quarta parte: Thàlassa ***
Capitolo 9: *** Epilogo: 2037 ***



Capitolo 1
*** Prologo: 1925 ***


Lo so.

Dovrei aggiornare sia “The Akatsuki Program” che “Blood Brothers.” Ma credetemi se vi dico, che questa storia è il prodotto di una settimana chiusa in casa per a) virosi infida, b) pioggia torrenziale che in questo esatto istante si è trasformata in neve c) vicini cretini che sparano nel cuore della notte i petardi, facendomi venire un infarto! Allora, il mio cervello va in panne e si inventa nuove storie; ciononostante, non temete: entrambe le fic sono in fase di scrittura, specie A.P.

Dunque, partendo con qualche nota introduttiva:

Punto primo. Mpreg. Signori, cercate di capire. Ho da poco compiuto gli anni e volevo farmi un regalo. Con la mia coppia preferita! Ormai avete capito chi è: Kisaita! Kisame è troppo brutto per essere papà? Eh? Eh? Eppoi, dai, l’Mpreg è talmente accennato che neanche ve ne accorgerete! *fidatevi!* In ogni caso, ormai ho deciso: facciamolo strano! XD Se Sakura ha i capelli rosa, non vedo perché Itachi non possa rimanere incinto. *che razza di logica!* Sul serio, solo perché non è una Mpreg Sasunaru (o viceversa) non significa che la storia non abbia potenzialità, o mi sbaglio?

Punto secondo. Appunto per le piogge torrenziali ora trasformatasi in un bufera di neve, dannato clima del pippio, e la febbriciattola mi è venuta la smara (= malinconia) di casa. Di conseguenza, ho voluto scrivere una storia dell’orrore, scegliendo come base una leggenda veneziana, la mia preferita. Mi manca il Carnevale! T^T Siccome la leggenda è in “prosa”, l’ho voluta rendere simile ad una ballata. La riconoscerete dallo stile song-fic. Epic fail? Speriamo di no!

Punto terzo. Chi mi conosce bene, sa che sono una patita alla die hard della Sasunarusasu (dopo Kisaita, of course!) Ma in questa storia li ho fatti riscoprire etero. Perché? Ihihihih … lo rivelerò all’ultimo capitolo! (se non si sarà già capito leggendo la storia)

Punto quarto. Anche se ho i capitoli pressoché pronti, non voglio sacrificare A.P. e B.B. Ergo, gli aggiornamenti saranno settimanali. Poco male, la storia si compone solamente di: prologo, primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo/epilogo.

Punto quinto. Non si accettano minacce di morte per eventuali OOC. E credetemi, ce ne sono! Ci sono andata anche leggera stavolta! Lo sportello è chiuso!

Che altro dire? Buona lettura?

 

 

H.

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Fedelmente guardati, qui rimanete,

Dove vi protegga la benedizione d’amore!

Vittorioso coraggio, amore e felicità

Vi uniscono con fede in felicissima coppia!

 

(Canto Nuziale, “Lohengrin”, R. Wagner)

 

 

 

 

 

1925

 

Yamanaka Ino si contemplava estasiata davanti allo specchio, lisciando le pieghe del suo abito da sposa e assaporando coi polpastrelli la morbidezza della seta e i ghirigori dei merletti. Si sistemò vezzosamente infastidita una ciocca ribelle dietro l’orecchio, ammiccando al riflesso ridente di una sposa pronta ad unirsi all’uomo che ama.

Ce n’era voluto di tempo, accidenti accidenti!, per irretirlo, ma alla fine Sai si era deciso a parlare con suo padre e, in seguito alla conversazione più ostica che il giovane avesse mai sostenuto in vita sua, finalmente egli aveva ottenuto il permesso di inginocchiarsi dinanzi ad Ino, offrendole il prezioso pegno - un anellino d’oro bianco con annesso un diamante – assieme alla solenne promessa di convolare a nozze e di appartenersi per tutta la vita, finché morte non li avrebbe separati.

A quel pensiero, di solito così scontato da sorvolarci allegramente sopra, un piccolo brivido freddo smorzò il sorriso altrimenti raggiante della fanciulla, la quale si voltò, certa di aver avvertito una presenza alle sue spalle.

“Porta male vedere la sposa prima delle nozze!”, esclamò ad alta voce la giovane, voltandosi di scatto.

Niente.

Nessuno.

Era completamente sola nella sua cameretta.

Eppure, eppure …

La finestra era sempre stata aperta?

Beh, era il caso di chiuderla, nevvero?

“Ah! Sei tu! Santo cielo, mi hai spaventata!”, sospirò Ino assai sollevata, mentre stendeva le braccia e si apprestava a serrare la finestra – aveva sempre fatto così freddo? - sennonché la voce alle sue spalle, soave come un dolce zefiro primaverile e al contempo più gelida della bora invernale, le sussurrò malinconica l’orecchio:


 

Posso raccontarti una storia?

 


“Ino? Sei pronta? Su, colombella mia, ti stiamo tutti aspettando! Non vorrai mica far attendere lo sposo più del dovuto, spero? Dai, che sennò scappa!”, la richiamò scherzando sua madre, Yamanaka Noriko, bussando alla porta ben serrata. Non ricevendo risposta, la donna si risolse ad entrare forzatamente nella stanza della figlia, preoccupata per quell’insano silenzio.

“Ino, tesoro, ti senti bene? Ino, che succ- … Oh mio Dio, no!”, gridò Noriko, tappandosi la bocca e barcollando all’indietro alla terribile vista offertale, non appena mise piede nella camera da letto della sposa. “Ino! Ino! Oh mio Dio! Bambina mia! Perché? Perché?”, prese a singhiozzare istericamente, attirando di conseguenza l’attenzione degli ospiti al pianoterra, in particolare del padre e dello sposo, i quali corsero istintivamente verso la fonte di quel pianto disperato.

Giuntivi infine, sia Inoichi che Sai rimasero pietrificati sul posto, increduli e terrorizzati.

Seduta scompostamente sul morbido tappeto completamente inzuppato di acqua salsa, Ino fissava assente il vuoto davanti a sé, la mano destra che reggeva il polso della sinistra, dalla quale cadevano leziosi rivoletti di sangue vermiglio.

“Oh, tesoro mio! Perché proprio te? Perché? Che male avevi fatto, bambina mia?”, abbraccio la madre la figlia in stato palesemente catatonico.

Dalla mano sinistra di Yamanaka Ino mancavano sia l’anulare che l’anello di fidanzamento.

La maledizione di villa Nakano aveva mietuto l’ennesima vittima.

 

 

 

 

 

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To be continued …

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Ovviamente, la Marcia Nuziale del “Lohengrin” deve essere letta in chiave ironica …

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Capitolo 2
*** Agosto 2012 - prima parte ***


Jetzt geht’s weiter!

 

Malgrado l’epidemia che sta spedendo a casa amici e colleghi (e la sottoscritta con loro), siamo riuscite a pubblicare questo capitolo!

Confesso che è da un po’ che non scrivo una horror “classica” (a buon intenditor poche parole! ;-P) e mi sento di conseguenza un po’ arrugginita: questo è per chiedere venia se il capitolo vi farà – traduco letteralmente dal tedesco – mangiare all’incontrario!

Ah, mi ero dimenticata di dirvi!

L’ubicazione di questa fic – similmente a “Blood Brothers” – è vaga e soprattutto in un paese di fantasia (non mia del signor Kishimoto). Le date e gli stili artistici e architettonici servono solo per dare un’idea al lettore del periodo, in cui questa storia potrebbe aver avuto luogo e per aiutarlo a seguire il filo cronologico degli eventi. In ogni modo, possiamo dire che Konoha poteva corrispondere in un ipotetico Ottocento all’Inghilterra vittoriana: prospera, bigotta e ipocrita. Mentre Kiri, l’altra città qui menzionata, alla più liberale e tollerante Francia del Secondo Impero / Terza Repubblica (il regno della regina Vittoria copre entrambe le forme di governo sopracitate). Infatti, contrariamente ai rigidissimi provvedimenti vittoriani contro gli omosessuali, secondo il codice napoleonico le coppie gay non dovevano essere in alcun modo perseguite come criminali dalla legge, a condizione che i soggetti fossero entrambi maggiorenni (ergo aventi 21 anni) e consenzienti. Ovviamente, il matrimonio era fuori questione, ma questa è una fic di fantasia e quindi mi sono presa qualche licenza poetica.

Ricapitolando: Konoha = no matrimonio; Kiri = sì matrimonio tra omosessuali. Capish? Bien, perché vi servirà per i prossimi capitoli.

Un’ultima cosa: ho leggermente diluito il brodo di questa fic, nel senso che sono stata costretta a tagliare a metà il primo capitolo, giacché stava venendo troppo lungo. Ad alcuni magari non importa, ma per meglio focalizzare gli indizi e i dettagli di questa storia, forse è meglio propinarla a piccola dosi.

Le età dei personaggi sono assolutamente sfasate e pure i lavori. Siamo in un’AU, yes sir!

Uhm … vediamo, cos’ho dimenticato? Il fatto che stamattina pioveva a dirotto, dopodiché s’è messo a nevicare fino a seppellirci tutti vivi? No?

Giusto!

Ringrazio i miei lettori e recensori, in particolare: Jooles, Nirvana96 e Sagitta72. Un sentito ringraziamento anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, seguite e ricordate!

Vi auguro una buona lettura,

 

 

H.

(più in là, che di qua)

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Agosto 2012

 

“Entrate, miei curiosi amici! Forse non ci crederete, ma una bellezza senza pari abitava in queste stanze … e ancora vi abita! Su, dolcezza, perché non ti mostri?! Ah-ha! Eccoti qua, trovata! Bella, eh?”, scherzò il padrone di casa, balzando in un birbante agguato da dietro la pesante tenta scarlatta e catturando la sua fidanzata, la quale lanciò un gridolino spaventato, divincolandosi immediatamente.

“Naruto!”, esclamò ella rossa come un pomodoro, portandosi una mano là dove il suo cuoricino batteva impazzito. “Certi scherzi!”, protestò, sedendosi velocemente accanto al cugino, che se la rideva invece alla grossa assieme al futuro “cognato”, se così si poteva chiamare, e ad un altro loro amico, Inuzuka Kiba.

“Eddai, Hinata! Non hai proprio alcun senso dell’umorismo, dattebayo! Si trattava solo di un innocuo scherzetto!”, si giustificò gioviale il giovanotto biondo, esibendosi in una smorfia giocosamente contrita e cercando di abbracciare la mora, che di riflesso si strinse al braccio di Neji.

“Come no!”, mormorò ella in un filo di voce. “Lo sai che non mi garbano simili birbonate! Soprattutto in questa casa!”, aggiunse Hinata, tremando leggermente e lanciando delle ansiose occhiate intorno al salotto arredato in stile pomposamente vittoriano. “Potrebbe sentirci e arrabbiarsi con noi  …”

All’udire ciò, Kiba arcuò un sopracciglio castano. “Come sarebbe a dire? Chi potrebbe infastidirsi?”, inquisì intrigato.

“E chi lo sa! Dattebayo!”, sbuffò Naruto, alzando le braccia in segno di resa e lasciandosi cadere pesantemente sul canapè. “Secondo lei, la casa è infestata dai fantasmi! Anzi, dal fantasma della Sposa Mancata!”, sentenziò grave il giovane, ridendo subito dopo e scuotendo la zazzera dorata. “Un anno che vivo in questo posto e, in fede mia, ancora non ho avuto il piacere di conoscerla di persona … o di spirito!”

“Non deridermi, Naruto! Non sto vaneggiando, né sono la sola a crederlo! Anche … anche l’agente immobiliare la pensava così!”

“Sicuro, sicuro …”

“Naruto! …”

“In ogni modo”, s’intromise Hyuuga Neji nella speranza di evitare una lite tra i due fidanzati. “Spiriti e spiritelli a parte, deve esserci qualcosa di più concreto sotto. Insomma Naruto, non per giocare al pignolo rompiscatole, ma hai ottenuto questa signora villa più giardino romantico ad un prezzo davvero irrisorio per il suo valore effettivo!”

In effetti, i dubbi del cugino non apparivano completamente infondati. Non che la coppia patisse la fame, anzi, il signor Uzumaki aveva ottenuto un vantaggioso trasferimento da Uzushio a Konoha, avanzando di grado da vice a commissario. Quanto alla signorina Hyuuga, ella lavorava da tempo presso lo studio di suo padre, noto commercialista di Konoha. Tuttavia, in circostanze normali, neanche due salari come i loro sarebbero stati abbastanza per l’acquisto di siffatta proprietà. Quel che Neji ignorava, era che in realtà sia i proprietari effettivi che l’agenzia immobiliare stavano letteralmente morendo dalla voglia di trovare un acquirente, sbarazzandosi così di quel peso morto di villa, la quale non faceva neanche buona pubblicità al loro negozio.

Passandosi una mano tra i capelli biondo oro, il giovane sospirò snervato. “E’ vero, me l’hanno praticamente regalata! Già … sai però in che condizioni era? Per un anno intero altro non ho fatto, che ripulire stanze che parevano catacombe, cambiare tutte le serrature e i vetri delle finestre, sradicare erbacce, risanare fontane talmente melmose, che vi poteva abitare tranquillamente lo stesso Mostro della Laguna Blu! Ah, e rivendere a tutti gli antiquariati di Konoha un infinito ammasso di cianfrusaglie, che continuavano a sbucarmi fuori da ogni angolo, dattebayo! A momenti mi accoppavo con le alabarde delle armature, dattebayo!”

“Ti ho aiutato anch’io, Naruto, a mettere un po’ di ordine!”, gli ricordò dolcemente Hinata, allentando la presa al braccio del cugino e azzardando ad avvicinarsi di più al fidanzato.

“Ma certo, dolcezza mia! Non l’ho dimenticato!”, le sorrise l’altro, provocando l’ennesimo feroce rossore nelle gote della ragazza. “E una volta sposati, ridecoreremo questa villa con uno stile più moderno e meno triste, va bene? Così potrai organizzare tutti i tea pomeridiani che vorrai! Non sei contenta?”

“Tu che ne dici, cugino?”

Arricciando le labbra in un sorriso sornione, Neji dichiarò: “Non sono io quello che si sposa con Naruto fra due settimane, cuginetta!”

I quattro risero di cuore alla battuta, alleggerendo l’atmosfera dapprima opprimente.

Nascosta negli angoli bui del salottino, là dove né la luce elettrica né le guizzanti fiamme del caminetto potevano raggiungerli, un’ombra si unì a loro, osservandoli divertita.

 

In una villa a Konoha, molto tempo fa, viveva una sposa mancata.

Quest’anima sfortunata possedeva molte virtù e l’intera città ne invidiava la bellezza e l’intelligenza vivace.

 

“Hinata! Esco un secondo a fare la spesa!”, le giunse la voce di Naruto dal pianoterra. Prima che l’interpellata in questione avesse modo di abbandonare il manico dell’aspirapolvere e di correre dabbasso, ecco che il portone d’ingresso si chiudeva in un sordo schiocco, che alla giovane parve riecheggiare per tutte le pareti dell’antica villa.

Era rimasta sola.

L’improvvisa consapevolezza le provocò un violento tremore e Hinata rimase paralizzata da una sinistra ansia per una buona manciata di minuti, stringendo di riflesso le spalle e fissando spaurita il vuoto, neanche temesse in un improvviso attacco da chissà quale angolo di quella casa che, a discapito di quanto affermasse Naruto, non le era mai piaciuta fin dal primo istante in cui vi mise piede dentro, nello specifico una settimana fa.

La trovava cupa, soffocante, con quelle enormi finestre, le linee severe e l’arredamento troppo legato a tempi perduti e al gusto di coloro, che vi avevano un tempo abitato. Per questo preferiva le case nuove a quelle già “vissute”: infatti, la ragazza credeva fermamente che lo spirito dei previi inquilini continuasse ad aleggiare nella loro dimora, la quale non doveva essere per forza vecchia di un secolo e passa, tutt’altro! Hinata ne avvertiva la presenza anche se la casa era stata abitata per neanche due anni! Figurarsi, quindi, come si sentì non appena quell’ambiente polveroso e putente di chiuso l’aveva avvolta, sussurrandole quei segreti che le sue mura avevano gelosamente conservato fino a quel momento. Beh, non che lei avesse udito esplicitamente delle parole – pazza non era né si dilettava nello spiritismo – tuttavia poteva percepire, ecco, un qualcosa di ancora vivo in essa …  a volte così palpabile … e in certe occasioni, la mora si sentiva addirittura spiata con insistente intensità … Lo zenit di quel suo malessere l’aveva raggiunto alla sua prima notte nella camera da letto padronale, tanto grande quanta piena di ombre.

Inoltre, sbarazzarsi di quelle che Naruto appellava “cianfrusaglie” si era rivelata un’impresa non da poco, come nel caso dei ritratti di famiglia dei precedenti padroni: il fidanzato voleva assolutamente darli via – avevano delle facce talmente antipatiche, sosteneva -  ma Hinata aveva avuto la certezza (come poi mistero) che qualcuno, o qualcosa, all’interno della villa se ne sarebbe rammaricato non poco. Di conseguenza, la ragazza era riuscita a persuadere il fidanzato a sistemarli in soffitta e di lasciarli lì ad ammuffire. Incredibile ma vero, in seguito a quella decisione l’atmosfera dell’intera casa le era parsa essersi d’un colpo rilassata e di certo non per un qualsivoglia litigio tra i due giovani. Senza contare, che le mani avevano preso a sudarle, quando, coprendo i ritratti con un panno, la mora si era accorta che la maggior parte di loro era stata o sfregiata da sottili e profondi tagli oppure vi erano incise frasi piene di crudeli oscenità.

Ed ora, eccola lì di nuovo sola in quella orribile villa. Come aveva fatto a non impazzire fino a quel momento? Forse la presenza ognora allegra e rassicurante di Naruto? Probabile. Anzi, probabilissimo, giacché non appena la sua aura solare s’era allontanata, le ombre di una notte eterna avevano righermito la casa, facendola sprofondare ancora nella sua malinconica cupezza. Il suo fidanzato stesso vi aveva vissuto per un anno intero, eppure non sembrava costantemente teso e ansioso come al contrario la giovane Hyuuga.

“Basta così, Hinata!”, si rimproverò ella a voce alta, sperando che chiunque si ostinasse a celarsi nell’ombra l’ascoltasse per bene. “Adesso è la tua casa! Non devi averne paura! Fra due settimane ti sposerai e, similmente a quanto ha detto Naruto, la ridecoreremo in modo tale, che nessuno la indicherà più come un nido di spiritelli invasati!” e detto questo, fece due bei grossi e profondi respiri e si diresse al primo piano.  “Devo piuttosto pensare a terminare i preparativi per le nozze: c’è ancora così tanto lavoro arretrato! Le decorazioni … il rinfresco …  i fiori … l’abito e …”

Le parole le morirono improvvisamente in gola.

Fu un attimo soltanto, ma dall’enorme finestra, la giovane aveva scorto chiaramente una figura seduta ai bordi della vasca della fontana delle Nereidi. Accostò di riflesso le pesanti tende rosse, quando la stessa si voltò nella sua direzione, quasi sapesse di essere osservata, sorridendo a fior di labbra e ritornando al suo passatempo, ergo lasciar vagabondare una mano guantata tra la frescura cristallina dell’acqua.

“Può anche uscire, signora”, gridò quella, acciocché Hinata la sentisse oltre i vetri della finestra e i muri della villa. “Sono il nuovo giardiniere. O meglio”, si corresse “il solito giardiniere, prima che gli ex-proprietari mettessero in vendita la villa. È suo marito che mi manda. Non le ha parlato di me?”

Affacciandosi al balcone, Hinata, fattasi coraggio, replicò domandando: “Mi scusi, temo di non conoscerla: qual è il suo nome?”

“Shu è il mio nome … ”, rispose l’altro, osservando le gocce che, una ad una, gli scivolavano giù dalle dita guantate “… e Taka è il mio cognome”, terminò, scuotendo energicamente la mano, asciugandola e portandola al grembo quando la mora, seppur un poco titubante, si risolse a raggiungerlo. “E mi dica, ho forse l’onore di parlare con la nuova padrona di villa Nakano? Con la signora Uzumaki?”, disse, voltandosi.

Hinata dovette sforzarsi notevolmente a mantenere serrata la bocca: dire che il giovane dinanzi a lei era “bello”sarebbe stato un eufemismo: egli possedeva un fascino quasi inorganico, non associabile a quello della gente in carne ed ossa. I lineamenti eccessivamente perfetti e una serica pelle che poteva competere con la medesima madreperla lo rendevano non dissimile ad un’opera d’arte, un essere artificiale creato ad hoc e appositamente privo di ogni umano difetto fisico.

“Sì … No! … Insomma, non sono ancora la signora Uzumaki … Per quanto … ecco … un po’ abbiamo convissuto … ma non tanto …”, s’ingarbugliò la ragazza, scuotendosi dalla sua poco ortodossa contemplazione del giardiniere, il quale gettò indietro il capo e si sciolse in una risata più cristallina e vivace dell’acqua della fontana, intanto che il suo viso si riempiva di squisite fossette, che lo rendevano ancora più attraente. Arrossendo furiosamente – diamine, era a due passi dall’altare e si metteva a fantasticare su altri uomini! – la mora si sentì in dovere di  rettificare: “Naruto ed io ci sposeremo fra due settimane”, gli spiegò, schiarendosi la voce. “Per il momento, siamo soltanto ufficialmente fidanzati!”

“Ah, capisco …”, mormorò pensieroso il giovane uomo, abbassando lo sguardo sulle mani di Hinata. “E immagino che il suo fidanzato le abbia già regalato l’anello … quell’anello …”

“Certo”, confermò la ragazza un poco disorientata, chiedendosi dove volesse andare a parare.

Il giardiniere si inumidì le labbra, mordicchiandole incerto. “Potrei … potrei vederlo per cortesia?”, le chiese in un filo di voce, neanche le stesse domandando di compiere chissà quale sconceria.

Per tutta risposta, Hinata allungò la mano sinistra, tremando impercettibilmente al contatto della sua pelle con la stoffa bagnata dei guanti del giovane: l’acqua della fontana doveva, infatti, essere stata ghiacciata, altrimenti la mora non si spiegava il gelo che aveva avviluppato il suo arto. E sempre parlando dell’acqua, la luce riflessavi aveva donato agli scuri del giardiniere un’inquietante sfumatura cremisi, rendendo giustizia al suo nome di battesimo.

“E’ davvero molto bello”, sospirò egli mestamente, abbandonato a malincuore la mano di Hinata, che subito la ficcò in tasca, onde riscaldarla. “Lei, signorina, è molto fortunata ad avere un fidanzato così generoso. E innamorato, suppongo. Non molti si spingerebbero a comprarle una villa così lussuosa, con un giardino che assomiglia ad un parco!”, disse, indicando l’insieme con un ampio gesto del braccio. “Si preoccupa per lei, signorina, desidera darle il meglio e senza chiedere molto in cambio, se non la sua serenità. Coi tempi che corrono, talmente pregni di cieco egoismo e del mero appagamento dei sensi, l’atteggiamento del suo promesso è davvero notevole …”

Nelle sue parole Hinata vi scovò una nota di infinita, bellicosa tristezza, spingendola ad inquisire timidamente: “Lei … lei è stato … fidanzato?”

“Oh, sì …” Un sorriso di dolce rimembranza illuminò quel volto malsanamente pallido. “Molto tempo fa …”, le rivelò, mentre sfiorava coi polpastrelli la sua mano sinistra. Quand’ecco, che il tiepido sorriso si mutò in una smorfia. “Alas, vi furono delle complicazioni assai fastidiose … e lui mi fu portato via!” e le dita della destra si strinsero così forte al polso della sinistra, che ad Hinata sembrò per un istante che volesse spezzarlo “Ma è acqua passata: ormai non ci penso più!”

Silenzio eloquente.

“Le disturba apprendere che amavo un uomo, signorina Hyuuga?”

Sbattendo confusa le ciglia, la mora balbettò: “Come … come fa a sapere il mio … cognome? Sì è … informato su di … ?”

“No, no, non sono un pettegolo. Semplicemente, la gente parla …”

Il cuore di Hinata riprese a battere normalmente. “Ah, meno male! E comunque no, non mi disturba affatto. A questo mondo esiste tanto di quell’odio, che a mio avviso qualsiasi forma di amore è benaccetta! Ovviamente, sempre nel rispetto dell’altro”, affermò convinta. “A proposito, mi può dare del tu e chiamarmi Hinata! Signorina Hyuuga mi ricorda troppo i tempi del collegio dalle suore!”

Il sorriso del giardiniere si allargò ferinamente, mostrando bene i denti candidissimi.

“Allora, che fiori desideri come decorazione e soprattutto per il tuo bouquet, Hinata?”

 

 

Ma l’infelice non ascoltava il gracidare delle malelingue, poiché aveva un unico cruccio:

come sposare l’amore della sua vita, senza l’approvazione dei genitori?

 

 

Shu aveva la strana abitudine di comparire proprio quando Naruto non si trovava in casa: sbucava quasi dal nulla, la salutava cortesemente e poi si dedicava con instancabile dedizione al lavoro assegnatogli.

Non che Hinata trovasse nulla di strano nell’intera faccenda – con il matrimonio alle porte, il fidanzato era più fuori che dentro e per di più tanta di quella gente  entrava e usciva, neanche avessero scambiato casa sua per un bar – ma alla mora avrebbe fatto comunque piacere presentargli quel giovane molto volenteroso e lavoratore, che la stava notevolmente aiutando a trasformare villa Nakano in un luogo assai meno lugubre e malinconico. Inoltre, il fatto che il giardiniere le avesse rivelato il suo orientamento sessuale, l’aveva notevolmente rassicurata da eventuali scenari di infamanti pettegolezzi da parte del vicinato. L’ultima cosa che desiderava era avvelenarsi la vita per colpa delle chiacchiere di linguacce lunghe, che non sapevano come ammazzare il tempo se non insudiciando con bugie le esistenze altrui.

In ogni modo, Shu era una fonte continua di sorprese: oltre che ad aver aiutato il giardino a rifiorire in un paio di giorni – neanche lo avesse atteso per svegliarsi dal suo sonno ostinato – egli si muoveva con tale naturalezza all’interno della casa, che spesso Hinata si domandava se il suo ruolo si fosse limitato a quello di semplice giardiniere. Tanto per intenderci: la ragazza non sapeva dove si trovava l’oggetto tal dei tali? Ecco che Shu glielo portava in un battibaleno. Aveva smarrito la chiave di una delle innumerevoli porte? Voilà che spuntava un doppione! L’abito da sposa doveva essere modificato? Il tempo di girarsi e Shu glielo ripresentava risistemato esattamente nei punti dolenti, senza neppure aver preso le misure, secondo  la prassi sartoriale. Aveva dei dubbi su come decorare una sala? Da angoli impensabili lui estraeva pezzi di arredamento, quadri e oggettistica assolutamente adeguata e di buon gusto. Le stanze da arieggiare e da preparare per gli ospiti erano troppe? Nessun problema, entro sera ci si poteva dormire tranquillamente.

“C’è qualcosa che non puoi fare, Shu?”, gli rivelò Hinata in un tardo pomeriggio a cinque giorni dalle nozze, nel frattempo che tentava di non essere seppellita viva dalle scatole contenenti tutto l’ambaradam necessario al rinfresco post-cerimonia nuziale. Sfinita da tanto trafficare, si sedette, afferrando cupida la caraffa di limonata fresca, riempiendo tosto due bicchieri, uno per lei e uno per Shu.

“Sei la padrona, pardon, il padrone di casa perfetto! A volte non posso trattenermi dall’invidiarti per la tua bravura … nel senso buono, eh! Per carità, io non …” e si impappinò di nuovo, temendo di aver in qualche modo offeso il giardiniere, specie quando lui, bloccandosi, la fissò con tale intensità, che la ragazza giurò di aver visto nuovamente le sue iridi tingersi di rosso.

Nah, doveva trattarsi della luce del tramonto!

“Non posso sposarmi, Hinata. Né ora né mai. Oh, non a certe condizioni, ben inteso …”, disse egli lentamente, lo sguardo ben incatenato al suo. “Nondimeno, la mia esistenza non ha nulla per cui valga la pena di essere invidiata … Al contrario, sono io colui che ne prova nei tuoi confronti …”, sussurrò, spostando gli occhi sulla mano sinistra, che la ragazza aveva distrattamente appoggiato sul tavolo di malachite. “Non immagini quanto …”, sospirò, allungando le dita guantate sopra l’anulare e sfiorando in una rapida carezza l’anellino, che rifulgeva timido alla calda luce del crepuscolo.

Discreto contatto che venne involontariamente interrotto da Hinata, la quale, ormai porpora, si era portata la medesima mano alla guancia surriscaldata dall’imbarazzo. “Certo, certo … Hai perfettamente ragione, scusa … io …”, sbrodolò, asciugandosi col dorso gli occhi nel frattanto inumiditisi di lacrime generate dalla vergogna. “Oh Dio, che … non volevo essere così … ecco io … ti sarai offeso, non …? Sono così sciocca a volte! Parlo senza riflettere!” e vuoi per la situazione incomoda, vuoi per lo stress pre-imeneo, Hinata si coprì il volto con ambedue le mani, sfogandosi in sconquassanti singhiozzi. “Perché non riesco mai a combinare nulla di buono? Ti chiedo perdono, Shu, io non  …”, ma il lieve tocco di un dito sulle sue labbra la zittì, interrompendo quel flusso continuo di mea culpa.

“Sh, non una parola oltre, Hinata!”

Quando esattamente Shu aveva abbandonato il suo posto, aggirato il tavolo e sistematosi accanto a lei? Un istante prima l’aveva visto seduto dinanzi a lei e ora la stringeva al petto, intanto che le accarezza i lunghi capelli neri col medesimo trasporto che una madre avrebbe riservato alla propria creatura.

“Non mi devi assolutamente domandare scusa, mia cara, né tantomeno auto-flagellarti con colpe, che non ti concernono”, la consolò, cullandola impercettibilmente. “Non ti biasimo se hai supposto, che la mia vita scorresse meglio della tua: l’erba del vicino è sempre più verde. Sai, ho come il sospetto che sia stato lo stress da aspettative ad averti spinta a parlare così. Ti conosco da poco, eppure ho come la certezza che tu non sia una persona invidiosa di natura!”

La ragazza tirò su col naso. “Lo pensi davvero?”

“Mai stato così serio, Hinata”, la rassicurò grave Shu, frugando all’interno della tasca – perché si ostinava ad indossare dei guanti in piena estate? – e reperendo un fazzoletto, lo usò per tamponare delicatamente gli occhi arrossati della mora. “Su, su! Via queste lacrime, non si addicono ad una futura sposa! Le uniche che devono scorrere sono quelle di gioia …”

Seppur ancora poco convinta, la giovane annuì, lasciando che i suoi lunghi capelli neri le coprissero il volto. Sennonché, afferratole delicatamente il mento, Shu la costrinse a guardarlo dritto negli occhi. “Adesso smettila sul serio di piangere, Hinata. Un banale malinteso non merita un siffatto spreco di energie. Se devi per forza piangere, che sia per ragioni più gravi di questa, intensi?”, disse, avvicinando così tanto il suo viso a quello di lei, che quest’ultima poté discernere ogni venatura delle sue iridi scure e profonde, simili al mare in tempesta. “Mi prometti di non frignottare mai più per certe sciocchezze, Hinata?”

“S-sì”, convenne l’altra, afferrando il morbido fazzoletto – addirittura di seta? – e terminando il lavoro incominciato dal giardiniere.

“E che mi farai ora un bel sorrisone?”, la incoraggiò quegli sollecito, scostando una ciocca umida dietro l’orecchio di lei. Per tutta risposta, la ragazza abbozzò ad un impacciato sorriso.

“Brava bambina”, mormorò il giovane in approvazione, posando delicatamente le sue labbra sulla fronte di Hinata, che rabbrividì dal gelo emanatovi e si imporporò per l’intimità di quel gesto, per quanto casto esso potesse apparire. “E ora, al lavoro: Naruto tornerà fra poco! E noi vogliamo fargli trovare tutto pronto, no?”, esclamò ad un tratto il giardiniere inaspettatamente più vivace, staccandosi in fretta dalla ragazza e battendo le mani a mo’ di esortazione.

Hinata si ritrovò d’accordo con lui: ingollato in un sol sorso la limonata, anch’ella si rialzò, rimboccandosi le maniche. “A proposito, Shu”, si sovvenne “non ti piace la mia limonata? Non ne hai bevuto neppure un sorso e oggi si bolle!”, ed in effetti, il bicchiere del giovane giaceva pieno fino all’orlo sul tavolino di malachite.

Osservando distrattamente la bevanda, Shu scrollò le spalle, annoiato. “Sono sicuro che è deliziosa. Tuttavia, non ho sete; berrò più tardi”, l’assicurò, ritornando alle sue incombenze.

Silenzio indaffarato.

“Ehm … Shu?”

“Sì, Hinata?”

“Posso … insomma, non vorrei passare per la ficcanaso di turno, però … posso porti un’altra domanda o …?”

Un sorriso affabile – l’ennesimo - onorò le labbra vermiglie del giardiniere. “Le domande non sono mai indiscrete, Hinata, talvolta le risposte lo sono …”,[1] fu il suo velato invito a proseguire, senza tuttavia distrarsi eccessivamente dalla sua occupazione.

“Ecco, non ho potuto fare a meno di notare la tua incredibile famigliarità con questa casa. Per quanto tempo hai lavorato presso i suoi precedenti proprietari?”

A quel quesito Shu esitò un istante prima di rispondere, seguitando ad appoggiare meccanicamente le bomboniere su di una scrivania in stile Biedermeier. “Conosco villa Nakano da una vita, Hinata”, le confessò infine, lo sguardo assente. “E certamente meglio dei suoi indegni abitanti …”, sibilò minaccioso, aggrottando in tal guisa la fronte e le sopracciglia, che ogni tratto gradevole del suo viso si era subitaneamente mutato in una maschera di demoniaca ferinità, tanto che la mora indietreggiò inconsciamente di qualche passo, giusto per portarsi a una distanza di sicurezza, giacché dall’espressione notevolmente adirata dell’altro ella non escludeva un eventuale lancio di un oggetto. Fortunatamente, esso non avvenne, anzi! Quel volto alabastrino si rilassò tanto velocemente quanto si era alterato, ritornando gentile e amabile.

“Allora”, vinse la ragazza ogni sua ritrosia, avanzando verso il giardiniere “allora di sicuro sarai al corrente della maledizione, che la gente di Konoha sussurra aleggiare su questa casa!” Ecco, glielo aveva detto! E stranamente, la mora si sentì d’un colpo estremamente sollevata, quasi si fosse tolta un enorme peso dallo stomaco.

Una risata sarcastica commentò la sua domanda, riecheggiando sonoramente per l’intero pianoterra. “Che assurdità! Una maledizione?! È dunque questa la panzana, che ti hanno rifilato? Pah, follie di beghine senza cervello!”, rise di gusto il giardiniere, scuotendo incredulo il capo corvino. “Vuoi apprendere il vero motivo, per cui i precedenti possessori di villa Nakano l’hanno venduta? Perché erano sull’orlo della bancarotta e avevano bisogno di denaro liquido e pure in fretta!”, le spiegò gioviale, apprestandosi ad aprire un altro scatolone. Quand’ecco, che il cutter si fermò a metà strada. “A onor del vero, ora che mi ci fai ripensare, mio padre mi aveva accennato ad un evento piuttosto … tragico … che si è consumato tra queste mura …”, affermò lentamente il giovane, socchiudendo gli occhi verso l’alto, come se si stesse sforzando di riescumare una reminescenza particolarmente ostica e nebulosa dagli abissi della memoria. “Ma è roba di quasi centocinquant’anni fa! A chi importa, ormai?”

A me!, avrebbe voluto ribattere energicamente Hinata, sennonché le buone maniere le suggerirono di attendere paziente la prossima mossa del giardiniere, magari invitandolo tramite discrete e cortesi domande a seguitare col suo racconto. “A chi … a chi apparteneva villa Nakano?”

“Alla famiglia Mitarashi”, rispose prontamente Shu, arcuando perplesso il sopracciglio scuro.

Hinata negò col capo. “No, non loro. Li conosco, sono stati i Mitarashi a vendere al mio fidanzato la villa. Io intendevo i veri proprietari!”

“Questo posto ne ha avuti così tanti, che ne ho ormai perso il conto …”, le ricordò zelante il giovane, svuotando il contenuto dello scatolone. “Ma se proprio lo vuoi sapere, ebbene villa Nakano fu costruita dalla famiglia Uchiha alla fine del diciottesimo secolo. Un clan molto ricco e potente, il pettegolezzo preferito dalla gente di Konoha!”

“E … che fine ha fatto questa famiglia?”

“Estinta”, riassunse laconicamente conciso il giardiniere, appoggiando pigro la schiena su di un mobile, le braccia incrociate al petto. “Come tutte le famiglie: vanno, vengono … Nessuno è eterno … Solo il castigo divino …”

Risolino.

“Dunque, l’episodio tragico cui facevi riferimento riguardava la famiglia Uchiha?”, giunse Hinata alla conclusione, tormentandosi le dita dalla curiosità: la sua parte razionale le stava suggerendo di piantarla con quella sua indiscrezione e di seguitare coi preparativi; l’altra, invece, bramava maggiori informazioni.

“Esatto.”

“Me lo … me lo potresti raccontare, per favore?”

“No.”

Il rifiuto di Shu era stato talmente secco e perentorio, che la ragazza sobbalzò visibilmente. “Farò di più”, proseguì il moro, esibendosi in un’espressione altamente birbante e complice. “Ti porterò nel luogo dove avvenne il … fatto!”, le sussurrò all’orecchio. Dopodiché, allontanandosi con fare giocoso, ridacchiò furbescamente: “Ma non oggi! Non con Naruto che sta per suonare al campanello!”

“E quando allora?”

“Presto!”

Sbuffando, Hinata fece per rincorrere un Shu in piena fase monellaccio, sennonché uno stridulo gargarismo elettrico la distolse dalla sua impresa. “Uffa, Shu! Perché devi comportarti come un …?”

“Hinata! Oye, sei in casa? Ho dimenticato le chiavi! Hinata?”

Abbandonando un ridente giardiniere nell’angolo più remoto del salotto, una snervata mora – con te faccio i conti dopo! - si diresse nel foyer, là dove l’attendeva un Naruto più carico di pacchi di uno sherpa.

“Finalmente, dattebayo!”, si lasciò il biondo avvolgere dalla frescura dell’ombra, appoggiando sfinito il suo malloppo. “Scusami, Hinata, se sono stato via per tutto il pomeriggio! Non riuscivo proprio a trovare le stoviglie che volevi, sono stato costretto a guidare fino a Suna per comprarle!”, si giustificò Naruto, asciugandosi la fronte madida di sudore con l’avambraccio. “Spero che nel frattempo non ti sia annoiata!”

“Oh no, tesoro!”, lo tranquillizzò la mora, aiutandolo a sistemare gli scatoloni, acciocché non intrigassero il passaggio. “Shu mi ha fatto un’eccellente compagnia! Vedessi, poi, come mi ha aiutato a sistemare la casa! Vieni, devi assolutamente conoscerlo!”, gli narrò entusiasta, pigliandolo per il braccio e conducendolo in salotto. Infine si presentava l’occasione propizia per presentarlo al fidanzato. “Shu! Ecco qua il mio …!”

Silenzio.

“Già, Shu … Il caro, buon vecchio Shu …”, s’allargò oscenamente il sogghigno di Naruto, incrociando le braccia al petto. “Hinata, sono commosso come, dopo tre anni che stiamo insieme, tu ti sia finalmente decisa di presentarmi al tuo amico immaginario …

In effetti, a discolpa del palese sardonico scetticismo dimostrato dal biondo, il salotto si presentava completamente vuoto, ad eccezione dell’ordine perfetto che vi regnava e che Hinata era sicura di non ricordarsene per niente, giacché aveva lasciato l’ambiente in un chaos totale.

La giovane donna vide rosso. “A volte sei così …  così … insopportabile, Naruto!”, fumò ella simil teiera, salendo le scale a due a due e precipitandosi peggio delle Erinni infernali nel suo boudoir.

“Ma che ho detto?”, ribatté confuso l’altro, seguendola prontamente. “Sei stata bravissima! … Il salotto è una meraviglia! … Suvvia, Hinata! … Non fare così … Ti chiedo scusa! … Hinata! … Hinata! …”

“Va’ in malora!”

“Hinata! Ti prego! Scusaaaahh!!!”

Sul tavolino di malachite, il bicchiere di limonata era rimasto perfettamente intatto, ricolmo fino all’orlo.

 

 

Egli non era che il figlio di un mercante caduto in disgrazia, mentre la luce dei suoi occhi apparteneva al fior fiore dell’aristocrazia.

No, quest’unione violava ogni legge!

 

Naruto non aveva la benché minima idea su che cosa stesse accadendo ad Hinata. Oh, non che il futuro sposo brillasse in quanto a spirito deduttivo quando il gentil sesso veniva tirato in ballo, ciononostante beota completo non era e perfino uno, che s’era accorto della cotta della ragazza nei suoi confronti tramite sentito dire, poteva affermare con assoluta certezza che la sua fidanzata stesse attraversando un periodo no. Altrimenti, un’anima volenterosa doveva spiegare al signor Uzumaki il motivo per il quale, a due giorni dalle sue nozze, Hinata gli aveva per l’ennesima volta sbattuto la porta in faccia, rifiutandosi di parlare con lui.

I due – quasi – sposini avevano litigato.

La colpa è solo tua!, gli aveva urlato Hinata nel gazebo, rovesciando in  uno scatto di nervi la caraffa contenente il tea ghiacciato. Tu e le tue battute del pippio! Un orangutango possiede più tatto di te! E io che ti difendevo, quando la gente ti chiamava idiota ! Beh, aveva ragione: tu sei un idiota! Point final!, e, sgolatasi a sufficienza e spaccati per la parcondicio anche i bicchieri, se n’era andata via a passo indiavolato, abbandonando un Naruto al limite dello sconcerto.

“Hey, hey volpino! Su con la vita e giù quella bottiglia di birra!”, lo scosse Kiba – un suo amico, collega di lavoro e testimone – dal torpore in cui si era chiuso, nello specifico sul bancone del Ramen Ichiraku, un piccolo ristorante dove servivano appunto ramen in ogni salsa e i cui gestori, Teuchi e Ayame, erano stati i primi cittadini di Konoha  coi quali Naruto aveva stretto amicizia un anno addietro durante i primi mesi del suo trasferimento dalla natale Uzushio.

“Lasciami stare, strambazzo!”, borbottò scontento il biondo, scrollandosi la mano dell’amico di dosso e proseguendo ad affogare i suoi dolori sia nella quinta porzione di ramen, che nel terzo boccale di birra da Oktoberfest. 

“Oye, Naruto!”, ridacchiò partecipe Ayame, mentre asciugava una scodella, rimettendola poi al suo posto. “Sei stato ultimamente a Kiri, ché incominci a parlare nel loro dialetto?”

“Nah, non starlo a badare! Il nostro sposino ha la smara stasera!”

“E via! Basta sfottermi! Non è proprio il caso stasera, dattebayo!”, tentò il giovane di accecare Kiba con le sue bacchette, i capelli arricciati di genuina rabbia.

“Invece di giocare all’oculista pazzo”, lo trattenne Neji, sottraendogli il bisturi di fortuna “raccontaci cos’è successo? C’entra mia cugina, vero? L’ho sentita giusto oggi al telefono, mi è sembrata piuttosto depressa …”

“Depressa? Hinata .. depressa?”, si strangolò Naruto per poco con la sua medesima saliva. “Per i rotoli di ciccia del Buddha, ancora un secondo in quella casa e mi sbranava vivo, peggio di una tigre del Bengala, dattebayo!”

“Ma che è successo?”

“E che ne so, dattebayo!”, si strappò Naruto a momenti i capelli, tanto sguazzava nello sconforto. “Da tre giorni Hinata altro non fa, che rimproverarmi per essermi comportato come uno zotico nei confronti di tale Shu!”

“Shu?” Occhiatine maliziose. “E chi è costui? L’amante? Come, come? Non sei ancora sposato e già ti prude la testa?” e via con delle innocue risatine sfottitrici.

“Nah, smettetela, banda di ruffiani! Shu è il suo amichetto immaginario! Insomma, ogni volta che me lo vuole presentare, chissà perché lui sparisce misteriosamente …” e se lo scopo di Naruto era stato di aggiungere un’aura sinistra a quella vicenda di per sé assurda, hé, di certo col suo atteggiamento eccessivamente melodrammatico il giovane aveva ottenuto semmai l’effetto opposto: cognato e amico, infatti, si dovettero trattenere la pancia dal ridere.

“Sicuro! E magari per nascondersi sotto il letto!”

“E dagli, dattebayo! Volete che vi impicchi alla porta?”, sventolò il giovanotto il pugno sotto al naso dei due, minaccia non molto sottile di cambiarli i connotati, in caso avessero insistito nel loro proposito dileggiatore.

E difatti, Neji, ritornando improvvisamente serio, pose in avanti le mani. “Naruto, calmati! Si diceva così, tanto per scherzare!”

“Ovvio, che Hinata non ti decorerebbe mai la testa!”, rincarò la dose Kiba, anch’egli rinsavito da ogni afflato istrionico.

“La mia fidanzata mi ritiene responsabile di aver fatto scappar via il suo amico immaginario e voi, razza di befane in calore, ci ridete sopra? Beh, io non lo trovo affatto divertente, dattebayo!”

“Naruto … ascolta …”

“Il signor commissario ha ragione”, convenne un’anziana signora seduta poco distante da loro. “Non c’è niente da ridere, non quando c’è villa Nakano di mezzo! Quel postaccio avrebbero dovuto demolirlo già dal secolo scorso! Invece, qualcuno  lo ha impedito …”

“Koharu”, l’ammansì Teuchi con tono conciliante, sperando di dirottare la conversazione altrove: perfetto, oltre che alla paventata rissa gli mancava pure la vecchia matta del villaggio, che si metteva a raccontare storie di fantasmi al posto di servire l’ammazza caffè! “Non mi dica, che anche lei crede a quelle stupide scempiaggini di beghine annoiate!”

Utatane Koharu, ex-membro del consiglio cittadino di Konoha, si alzò dal suo posto e, posizionatasi davanti al gestore del ristorante, gli mostrò a distanza ravvicinata il pomello del suo bastone da passeggio. “Taci, anatra ripiena! È facile per te parlare: tu non hai vissuto, quel che io ho invece sperimentato in quell’infernale villa!”, berciò la donna, gonfiandosi come un tacchino e sminuendo con la sua aria autoritaria il povero Teuchi, che si rimpicciolì, sopraffatto.

Al contrario, la gioventù si spostò con le sedie più vicino a lei, le orecchie ben tese.

“Tu, ocone infarcito, non eri lì, quando trovarono nel boudoir la figlia dell’industriale Yamanaka con la mano sinistra mutilata!”

Uno scioccato silenzio ammutolì tutti gli astanti del Ramen Ichiraku; l’unico rumore rimasto era il ritmico bollore della zuppa di miso.

“La … la mano sinistra mutilata?”, ripeté Naruto incredulo, respirando appena. “E chi …?”

Una risata sardonica sfuggì dalla bocca sottile della donna. “Chi, chiede lui! Povero signor commissario, non conosce la Ballata della Sposa Mancata di Konoha?”, inquisì beffardamente perplessa, puntando i suoi occhi scuri contro quelli azzurri del biondo. “Fate quindi attenzione, care fanciulle, il giorno delle vostre nozze!”, recitò Koharu un verso, afferrando il suo bicchiere di liquore e tracannandolo in un sorso.

Di nuovo silenzio.

“Signora Utatane, io non sono di queste parti: di conseguenza, non ho la più pallida idea di chi possa essere questa Sposa Mancata, sebbene non si faccia altro che sussurrarmelo alle spalle, ogniqualvolta passeggio per il centro di Konoha. La gente sostiene essere un fantasma, però, in tutta onestà, mi risulta assai arduo crederci!”

Koharu sogghignò perfida. “Le stesse parole, che il padre di mia zia Ino pronunciò il giorno in cui decise di comprare villa Nakano dall’ultimo degli Uchiha. Un vecchio pazzo, come pazza era sua moglie e come pazzi erano tutti lì dentro! Colpa della Sposa: uno ad uno li ha condotti alla follia, non se n’è salvato nessuno! Tranne la sua bastarda, ovviamente, ma perché era la figlia del diavolo!”

I tre giovani deglutirono penosamente, pendendo oramai dalle labbra dell’anziana signora, che proseguì: “All’epoca ero una bambinetta e neppure io badai più di tanto a simili dicerie. Infatti, a quei tempi la tragica decadenza della famiglia Uchiha venne accreditata ad una serie di infelici coincidenze. Tzé!”, scosse la donna energicamente il capo, estraendo dalla borsetta un lungo bocchino nero, infilandovi dentro una sigaretta.

Accesala, Koharu ne aspirò il forte fumo, nel frattempo che si massaggiava la tempia sinistra. Infine, rivelò in un grave sussurro: “Io ho visto la Sposa.”

I suoi ascoltatori smisero di respirare; similmente i loro cuori ebbero un tuffo.

“Non fissatemi come la controfigura di un pesce palla! Sì, l’ho vista e no, non avevo bevuto quel giorno! Né è l’Alzheimer che parla per me! Io ho visto come la Sposa si è presentata a mia zia, come l’ha avvicinata con quel suo viso d’angelo, la voce soave di chi non farebbe del male ad una mosca!” Altra nuvola di fumo. “E  ho visto con che occhi fissava l’anulare portante l’anello! Come un lupo affamato!” Lungo sospiro. “Lo stesso anulare, che venne reciso alla mia povera zia il giorno delle sue nozze!”, terminò ieratica, spegnendo nervosa la sigaretta nel posacenere. “Scusami, Teuchi: mi ero dimenticata, che è proibito fumare qui dentro!”

“Impossibile!”, replicò invece Kiba, alzandosi di scatto. “Ci sta forse dicendo, che un fantasma avrebbe per davvero tagliato un dito a sua zia?”

“Non un dito, ignorante, il dito; stiamo pur sempre parlando di una “sposa”! E comunque, non tutti i fantasmi sono eterei; alcuni di loro si presentano dannatamente corporei …”

“Sì, però, che fine ha fatto l’anulare? E l’anello?”, s’informò Neji.

“Spariti.”

Tre labbra inferiori tremarono impercettibilmente. “Spariti?”

“La Sposa ne aveva bisogno”, fu la sibillina spiegazione di Koharu, prima di scendere dalla sua sedia e di pagare il dovuto al gestore, scusandosi nuovamente per la sua irruenza di poco fa. “In ogni modo, signor commissario”, disse la donna a Naruto, fermandosi all’uscita “a casa ho una foto della Sposa: gliela scattai a tradimento, a qualche giorno dalle nozze amare e mai più avvenute. Se dovesse avere ancora dei dubbi, non esiti a porgermi una visita; possiedo altre cosucce interessanti su quest’anima dannata. Tuttavia, fossi in lei, mi preoccuperei piuttosto di raccogliere baracca e burattini e di ritornartene a Uzushio il prima possibile, rinviando le nozze come minimo fra cinque anni: quando la Sposa ha designato il suo obiettivo, non c’è angolo in tutta Konoha, in cui vi possiate nascondere dai suoi occhi maledetti!”

Detto questo, uscì.

 

Quella notte, Naruto non riuscì ad addormentarsi: l’afa estiva aveva raggiunto livelli insopportabili e il giovane, stufo di rigirarsi simil braciola sulle lenzuola disfatte e madide di sudore, decise di schiarirsi le idee e di rinfrescarsi uscendo in giardino.

Aveva bisogno di riflettere.

Tutto stava prendendo una piega assurda e disastrosa; infatti, due settimane addietro, il giovane commissario si era figurato l’antivigilia del suo matrimonio come un momento certamente carico di stress e di ansie, ma felice, spensierato e soprattutto  in compagnia di Hinata.

Invece, contrariamente alle sue aspettative, aveva trascorso l’antivigilia a tentare il suicidio mangereccio da Ramen Ichiraku e a farsi riempire la testa di grottesche stramberie ultraterrene da una signora, ch’era meglio andasse in casa di riposo. Naturalmente, dopo essere stato informalmente cacciato via di casa dalla sua futura moglie.

Concentrandosi sullo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi sandali, Naruto si fermò per un istante, voltandosi in direzione di villa Nakano e contemplandone l’elegante e distinta silhouette stagliarsi alla torrida luce di una luna rossa e calante. Pensare, che il biondo vi aveva investito tante speranze! Sin dal giorno in cui l’anziana Anko Mitarashi gli aveva ceduto le chiavi, egli già s’era immaginato al suo interno una vita serena, costellata di piccole gioie e dal calore di una famiglia finalmente tutta sua. L’infanzia del giovane commissario non si poteva annoverare tra le più felici ed era per questo suo atteggiamento disincantato e pragmatico, che non aveva minimamente dato credito alle inquietanti storie riguardanti la casa. Diamine, vi aveva perfino vissuto da solo per un anno! No, l’intero bedlam era incominciato dall’arrivo di Hinata …

Perché soltanto la mano sinistra della signorina Anko indossava un guanto?, si ritrovò un perplesso Naruto a riconsiderare quel piccolo dettaglio, che all’epoca non vi aveva dato alcun peso.

Inutile negarlo, le parole di Utatane Koharu non cessavano di ronzargli moleste per il cranio, tormentandolo. Era forse possibile, che sotto quelle fiabe da balia si celasse un fondo di verità? Che una presenza maligna avesse trovato il modo di divenire abbastanza corporea appositamente con lo scopo di mutilare una sposa? E perché? Che cosa ne avrebbe guadagnato?

L’anulare … l’anello di fidanzamento … La Sposa ne aveva bisogno

Inconsciamente, Naruto contemplò il suo quarto dito sinistro: fra poco più di un giorno, una fede nuziale vi avrebbe brillato. Una vera …

E se …? Quale oltraggio maggiore …? Quale impedimento …? Quale, oh Dio santissimo!, quale ripicca migliore! …

Fantasma? Pah, doveva essere l’operato di un pazzo, di un criminale, di un essere in carne ed ossa che aveva osato compiere il più ingiurioso degli atti a danno di una futura sposa! E qui di nuovo: ma perché? Cosa potevo averlo spinto? O averla spinta: nella mente del biondo commissario, incominciava in effetti a sorgere il sospetto, che simile carognata poteva essere stata compiuta sia da un uomo – un innamorato respinto? – che da una donna – una rivale! Un pendaglio da forca che, sfruttando le leggende popolari, aveva inscenato quella grandguignolesca vendetta.

Eppure, leggendo tra le righe, l’episodio di Yamanaka Ino non pareva essere il solo … Aspetta! Significava forse, che ve n’erano stati degli altri? Assurdo! Insomma, l’amputazione dell’anulare della ragazza, come caso a sé stante, aveva senso … Ma collegato ad altri? Dov’era, dunque, il file rouge?

… Ding- Dong!

Naruto sussultò, bloccandosi guardingo simil gatto in piena caccia notturna, rilassandosi subito dopo. Che sciocco, si trattava soltanto della solitaria campana della cappella di villa Nakano, che annunciava la mezzanotte.

La mezzanotte!

“Cavolo!”, realizzò il biondo con impacciata meraviglia. “Domani mi sposo …”

Un brivido freddo gli scese per tutta la lunghezza della spina dorsale e non di certo per il felice nervosismo. O per il freddo. I vapori dell’afa si erano nel frattempo raccolti e vivacizzati in un vento man mano sempre più gagliardo, sollevando aria bollente da terra, che scuoteva le fitte fronte degli alberi per poi ricongiungersi alla luna, la quale venne prontamente inghiottita da grassi e bellicosi cirri nero inchiostro, rabbiosi annunciatori di un temporale.

Decisamente era il caso di rientrare e anche in fretta: se nel suo cogitare, Naruto aveva raggiunto la cappella – e il camposanto di famiglia annesso – doveva essersi conseguentemente allontanato parecchio dalla villa. E ciononostante, un’inspiegabile curiosità aveva ghermito il cuore del giovane, portandolo ad indugiare a metà strada. Che fare? Ritornare oppure ..?

Quale arcano desiderio stava guidando i suoi piedi verso il piccolo cimitero della proprietà?

… in cui decise di comprare villa Nakano dall’ultimo degli Uchiha …

Gli Uchiha … coloro che avevano costruito villa Nakano …

Che fossero ancora lì seppelliti?

Elargendo un energico colpetto alla torcia e presi due bei respiri profondi, Naruto si avventurò in direzione della chiesetta, aggirandola e proseguendo per il retro, là dove il sentiero si’infoltiva di erbacce, le quali, straripando dalle loro recinzioni artificiali, lo occupavano e lo rendevano pressoché inagibile, a volte perfino cancellandolo. Testardo, il giovane commissario non si lasciò di certo scoraggiare da queste quisquiglie e per l’appunto proseguì tra un balzo e l’altro, sperando di non incappare in alcuna spiacevole sorpresa, poiché l’erba in certi punti cresceva così alta da imitare la placida superficie del mare, adesso tuttavia scossa in tumultuose onde a causa del vento, infrangendosi sulle bricole e paline ch’erano divenute le lapidi. 

… Un vecchio pazzo, come pazza era sua moglie e come pazzi erano tutti lì dentro! …

Muschio, edere, l’azione corrosiva degli agenti atmosferici e ovviamente il tempo avevano reso la lettura degli epitaffi piuttosto difficoltosa; nondimeno, gettandovi un’occhiata distratta, Naruto intuì che le tombe più antiche erano databili verso la fine del Settecento e che non doveva essere rimasto al mondo alcun tipo di erede, poiché il camposanto giaceva nell’abbandono totale, anche fin troppo nel caso vi fosse stato seppellito un lontano parente da poco deceduto. Che triste! Una famiglia così importante, che aveva edificato uno splendore di villa, relegata ora in un pezzetto di terra incolta, dimenticata da tutto e tutti!

… Colpa della Sposa: uno ad uno li ha condotti alla follia, non se n’è salvato nessuno! …

E in effetti, Naruto appurò che le date del decesso degli Uchiha più “recenti” si susseguivano una dietro l’altra: 1861,1862, 1863 … e avanti così per dieci anni di fila, ordinate e pulite.

“Marcite all’inferno”, leggeva incredulo il biondo in un filo di voce le colleriche e disordinate incisioni, che deturpavano l’epitaffio di ciascuna lapide, come se qualcuno avesse in uno scatto di nervi afferrato una pietra tagliente e vi avesse sfogato tutto il suo rancore. “Marcite all’inferno, figli di cagna, marcite all’inferno assieme a me …”

Deglutendo per inumidire la gola divenutagli d’un colpo secca, il giovane commissario proseguì il suo studio, notando come la serie di morti giungesse al suo termine nell’anno 1870. Evidentemente, al triste appello mancavano solamente uno o due Uchiha e Naruto non faticò molto a scovare le loro tombe.

 

R.I.P.

HARUNO SAKURA

(1843-1879)

Un dolce fiore di ciliegio

Che il diavolo avvizzì anzitempo

La follia la condusse qui.

 

 

Doveva essere la moglie di uno di loro; strano però che non sia stato aggiunto il cognome del marito, meditò  un Naruto leggermente interdetto, passando i polpastrelli sugli scarabocchi, tentando di decifrarli: anche quella lapida aveva subito il medesimo atto di vandalismo. Come … come se non avesse fatto in tempo a sposarsi … come se fosse morta prima … però … trentasei anni … a quell’epoca era già troppo “vecchia” per le nozze … non ha alcun senso … a meno che “Haruno” non fosse stato il cognome del primo marito, però lo stesso non … Hey! Ma tu guarda che figlio di …!

Puttana.

Scrofa.

Ladra.

Me la pagherai.

Voilà le parole che s’accompagnavano al mesto epitaffio, insulti che molto probabilmente il fidanzato o il marito o chiunque avesse avuto a cuore codesta Sakura s’era premurato più volte di cancellare e con scarsi risultati a giudicare dalla profondità delle incisioni.

Inumidendosi nuovamente le labbra, il biondo passò alla tomba lì accanto, l’ultima.

 

Qui giace:

UCHIHA SASUKE

(1842-1919)

Finalmente libero.

 

“Leggi qua, leggi qua Hinata! Chiunque ha scritto questa roba, doveva essersi fumato un bel po’ di erba!”

“ Naruto, non essere irrispettoso!” Piccola pausa incuriosita. “Che c’è scritto?”

“ Oh, delle cosette molto allegri e rassicuranti tipo: Tornatene all’inferno, maledetto!”

Mai.

 “Oppure: Lasciami in pace! …”

Non sarai mai libero da me!

“… Dio mio, proteggimi da lui!”

Ti aspetto nell’eterno abisso …

 “Oh, questa è la migliore: Ha preso mio padre. Ha preso mia madre. Ha preso tutti i miei parenti. Ha preso Sakura. E ora …? Perché non prende anche me? Perché continua a tormentarmi? Vattene via, demonio!”

... stupido fratello!

“Chi va là?”, gridò Naruto a pieni polmoni, girandosi di scatto e puntando la torcia contro il fitto buio. Dio del cielo! Aveva davvero udito delle … risate? Un gracchiante gorgoglio che lo dileggiava beffardo?

Un insistente battito d’ali. Sfregamento di lucenti penne nere.

“Pah … corvi …”, si rilassò il biondo, sospirando di sollievo e tuttavia avviandosi a passo spedito verso la villa: che gli Uchiha e i loro segreti se ne andassero tutti allegramente in malora, nulla a questo mondo avrebbe persuaso il giovane a rimanere in quel lugubre cimitero per un secondo di più!

 “Ma te guarda in che razza di situazioni mi vado ogni volta a ficcare! Come se non mi bastassero le rogne del lavoro! A quest’ora dovrei essere tranquillo e beato a casa mia, nella mia stanza, nel mio letto, con la mia Hinata e non in giro per cimiteri a frugare tra i croccanetti di una qualche famiglia di svitati vissuta secoli fa, dattebayo!” , si lagnava sottovoce tra sé e sé, abile escamotage per rilassare i nervi tesi ed infondersi al contempo una sana dose di coraggio.

L’intero suo corpo non cessava, infatti, di tremare e la maglietta a causa del sudore gli si era attaccata alla pelle umida, delineando le linee del torace e della schiena. Stancamente, il biondo si passò una mano sugli occhi, percependo un malsano torpore, un continuo vorticare , nonché una bizzarra pesantezza alle gambe. Avanzava barcollando, senza rendersi conto della direzione intrapresa o in che ordine avesse dovuto muovere dei piedi divenuti pericolosamente autonomi, inciampato per poco sul bordo della vasca della fontana, sbucata chissà dove da quel buio schifosamente pesto.

Ripigliando tosto l’equilibrio compromesso, Naruto immerse nell’acqua deliziosamente fresca le mani, rinfrescandosi il viso e il collo. Godimento puro. E per magia, ogni cruccio e timore sembravano essersi dissolti, apparendogli infantili e stupidi. Che idiota! Come aveva potuto lasciarsi spaventare da un paio di pennuti? Da degli ossetti vecchi come il cucco? L’afa gli stava davvero giocando un brutto scherzo, friggendogli impietosa il cervello!

Non c’era niente di cui aver paura! Niente!

Adesso sarebbe rientrato a casa, rinfilato sotto le coperte e …

 “Amico immaginario, eh?”

La frescura piacevole dell’acqua divenne improvvisamente una gelida maschera, che qualcuno alle sue spalle lo costrinse  ad indossare, spingendolo con inaudita forza sottoacqua.

Terrorizzato dalla mancanza di ossigeno e dall’impellente bisogno di respirare, che gli bruciava i polmoni ad ogni asfissiante secondo, Naruto si contorse di riflesso, scuotendo il capo, mulinando invasato le braccia e cercando affannosamente ogni tipo di leva onde potersi sollevare e quindi riemergere con la testa dall’acqua, la quale si stava infilando maligna su per il naso, nella sua bocca, nelle orecchie.  Invano: imperturbabile a quei tentativi di liberarsi, il suo misterioso aggressore seguitava serafico ad esercitare una ferrea quanto mortifera pressione, tenendolo di conseguenza fermo e impedendogli di riaffiorare da quello che aveva designato essere l’ultimo giaciglio mortale del giovane.

Ben presto, complice anche il razionamento non molto savio dell’aria, Naruto cessò di dimenarsi, percependo ogni suo senso ovattarsi assieme ad un fastidioso ronzio alle orecchie e una grande voglia di chiudere gli occhi, fatale desiderio gentilmente offertogli dal suo cervello privato del prezioso ossigeno per quasi due minuti.

Una volta raddoppiati, esso avrebbe dato infine forfè e allora …

La presa d’acciaio si ingentilì in una più leggera e delicata, la quale al posto di costringerlo là dove solamente i pesci sopravvivevano, lo issò di peso e lo ricondusse tra i suoi simili. La bocca del giovane commissario si spalancò in automatica in un rauco e rospesco gasp!, ingollando avido tutta l’aria disponibile in gracidanti singulti  e,similmente ai bifolchi della Licia rappresentati nella fontana di Latona a Versailles, anche il biondo cadde a carponi sopraffatto da tale esperienza, rigettando in un unico abbondante flusso l’acqua tracannata controvoglia e quel che non aveva digerito della cena, tossendo nel frattempo scompostamente e ingolato.

“Naruto?”, lo chiamava una vocina titubante, alternandosi ora a delle carezze circolari sulla sua nuca dei discreti ma decisi colpetti alla schiena, aiutandolo a liberarsi completamente dell’acqua ingoiata.

Ripulendosi gli angoli della bocca, il biondo si voltò verso la fonte di quel richiamo, stupendosi grandemente di vedere Hinata scalza, con indosso soltanto una leggera camiciola da notte e  inginocchiata accanto a lui. E perché poi si doveva stupire? La ragazza abitava con lui; di conseguenza, era assolutamente  logico che fosse stata lei la prima a prestargli soccorso …

E allora, come mai quell’attimo di esitazione da parte sua? Perché Naruto seguitava a fissare stranito e dubbioso la sua fidanzata? E soprattutto, cos’era quella molesta sensazione di sbagliato quando un’apprensiva Hinata lo abbracciò con trasporto, sussurrandogli all’orecchio paroline di conforto?

“Hai visto?”, si staccò Naruto da lei, afferrandola saldamente per le spalle e puntandole contro gli occhi cerulei.

La mora sbatté disorientata le ciglia. “Cosa? Cosa avrei dovuto vedere, tesoro?”, disse, alterandosi in seguito un poco. “Come mi lasciavi vedova prima ancora di sposarci?”

Snervato e poco incline alle battute di spirito – argh! Quella parola! – il giovane commissario scosse il capo. “Hai visto chi era alle mie spalle? Chi mi ha messo la testa sottacqua? Hinata, se sei accorsa da casa, devi per forza aver notato qualcuno, dattebayo!”

“Ma … con questo buio … non saprei …”

Mentiva, oh era così evidente! E non per il suo tipico balbettare, no: a tradirla era quel suo ostinarsi a non volerlo guardare in faccia mentre gli stava raccontando quella frottola!

“Hinata!”, l’ammonì perentorio il fidanzato, stringendo gli occhi in una linea severa. “Non mi rifilare certe panzane: come mi avresti allora trovato a colpo sicuro, se non riuscivi a muoverti per via del buio?”

V’era in lei qualcosa che gli suonava un po’ strano.  Solo qualcosa? Ma era un’intera sinfonia sbagliata!

Hinata, la sua Hinata, che dinanzi ad un’occhiata simile si sarebbe contorta come Bretzel, stava sul serio ricambiando con placida indifferenza il suo sguardo, il capo leggermente reclinato? E sempre con quella annoiata flemma, ella gli rispose:

“ Non c’era nessuno dietro di te, Naruto! Nessuno!”

Fu il turno del biondo di protestare la sua incredulità, esibendosi subito in una serie di ma. “Nessuno? E secondo te, avrei tentato di annegarmi? Da solo? Alla vigilia delle nostre noz- … umphf!”, non gli venne concesso di terminare, giacché Hinata, afferratogli il viso, l’aveva zittito con un bacio imperioso.

“Sarà stato un incidente, amore. Eri stanco, accaldato e magari ti eri sporto troppo dai bordi della vasca, scivolando di conseguenza … Non ti fissare con questa solfa della “teoria del complotto”! In tutta onestà, chi mai avrebbe voluto la tua morte?” e rise di cuore, mostrando i denti perfetti. “Suvvia, tesoro, andiamo a dormire! Non dobbiamo affaticarci troppo: domani sarà un grande giorno … per entrambi …”, gli sussurrò all’orecchio, schioccandogli in seguito un bacio sulla tempia. “Non credi?”

“Hinata … io …”, provò ad argomentare Naruto, preso di contropiede dall’atteggiamento eccessivamente intraprendente della fidanzata.

Perché alla mattina mi caccia e alla sera mi rivuole nel suo letto?

Ma, oh-oh, mica così spiacevole!

Sennonché …

“Naruto! … Naruto, dove sei? …  Naruto! … Naruto, ti chiedo scusa, mi sono comportata male, però per favore non giocarmi certi scherzi! … Vieni fuori per favore! … Naruto! …”

Un paio di occhi celesti si spalancarono, fuori di sé dal terrore.

“Sentito? È ora di fare la nanna, tesoro!”

L’unica cosa che Uzumaki Naruto contemplò, prima di venire inghiottito dall’oscurità dell’incoscienza, furono due ferini e compiaciuti occhiacci cremisi …

Poi, il nulla.

 

 

Spiegatelo voi, però, a due anime innamorate! Un unico cuore, un unico pensiero.

Teneri baci, impudiche carezze e la promessa di appartenersi l’un l’altro, ora e per sempre.

 

 

 

 

 

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To be continued …

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[1] = citazione da Oscar Wilde

 

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Capitolo 3
*** Agosto 2012 - seconda parte ***


Jetzt geht’s weiter!

Malgrado la peste germanica mi abbia colpita e affondata e ora stia imitando alla perfezione Violetta Valéry, tra un giro di medicine e l’altro ho scritto il capitolo. Sorry per coloro che attendevano altri aggiornamenti – questa storia non sembra molto gradita, pazienza – ma nelle mie condizioni questa era l’unica che mi sentivo di scrivere. Le altre sono troppe articolate per il mio povero cuoricino ammalato T^T. Ergo, pazientare per i prossimi! ^^ Inoltre, appunto perché sono ammalata, non si accettano flames se questo capitolo è venuto … bizzarro?! I deliri dei tossicolosi sono moooolto pericolosi (rima inclusa)!

In ogni modo, gioite! Con questo capitolo siamo a metà storia! Dal prossimo ci avviamo già alla conclusione! Yup, le storie dell’orrore non durano mai troppo!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori, a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, tra le seguite e tra le ricordate! Uno speciale ringraziamento ai miei due recensori preferiti, Jooles e Sagitta72, miei sostegni e stimolo a continuare la storia!

Bien, altro da aggiungere non ho, tranne l’augurarvi una buona lettura!

 

 

H.

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Agosto 2012, segue.

 

 

Tutto appariva così strano alla luce del sole: sparita l’ambiguità delle tenebre, una volta che il sole aveva preso il posto della luna sulla volta celeste, ecco che le esperienze vissute la notte scorsa sembrano null’altro che il prodotto di un incubo generato dalla febbre. Terrifici ghirigori di una mente accaldata e spaventata.

Schiudendo lentamente le palpebre, Naruto si guardò attorno, disorientato dal ritrovarsi disteso nel suo letto, nella sua stanza appena appena illuminata dal sole filtrante dalle veneziane e rinfrescata dal venticello, che ingrossava le tende. Accanto a lui, rannicchiata in posizione fetale, Hinata dormiva.

A quella vista, il giovane commissario balzò d’istinto giù dal letto, i ricordi della notte trascorsa subito riaffiorati con orrida nitidezza nella sua mente. Puliti, precisi. Neppure il privilegio del dubbio.

“N-Naruto …?”, sgranò la ragazza i suoi occhioni, svegliata dal tonfo di uno che fuggiva precipitosamente dal proprio letto. Puntellatasi sui gomiti, la mora lo fissò a lungo, interdetta dallo spettacolo del suo fidanzato appiccicato al muro come una zanzara dall’altra parte della camera. “Come … come ti senti?”, gli domandò poi assai preoccupata.

“Come mi sento?”, ripeté stupito il biondo, chiedendosi se il mondo avesse preso a girare all’incontrario.

“Ieri notte mi hai parecchio spaventata”, proseguì Hinata, ignorando la replica del fidanzato e avanzando verso di lui. “Uscire con quel temporale … lasciarmi qui da sola … e poi … quando ti ho ritrovato … Dio mio … giacevi per terra, ti stavi coprendo gli occhi con le mani e … ti contorcervi, urlavi … Non ti ho mai visto così, Naruto, io … io ho avuto paura che … oh, Dio mio!”, guaì la ragazza, nascondendo il viso sul petto dell’altro. “Che cosa ci sta succedendo? Prima litighiamo, poi … poi vieni colto da queste crisi … e domani ci sposiamo! Naruto!”, alzò ella di scatto la testa, guardandolo dritto negli occhi celesti. “Ho la netta sensazione, che qualcuno voglia impedirci di celebrare le nostre nozze! È assurdo, eppure ogni angolo di questa maledetta villa parve volermi urlare: Non ti sposerai mai! Mai! Non sarai mai felice con lui! Mai! Oh, Naruto, che stia impazzendo?”

Sì, decisamente era la sua Hinata la giovane piangente e aggrappata a lui. Nei suoi occhi chiari mancava la malizia intravista ieri notte dal giovane commissario, mancava la demoniaca tristezza, mancava l’odio profondo … Non v’era inganno in essi. Era lei. L’incubo non sussisteva più.

Naruto l’abbracciò fortemente, stringendola a sé.

“Va tutto bene, tesoro”, mormorò egli, cercando di infondere ad entrambi coraggio. Per la pace della ragazza, decise di non raccontarle niente sulla sua scampagnata nel piccolo camposanto della villa, né del tentato omicidio a suo danno. “Sarà stata la stanchezza dettata dai preparativi e da quest’afa atroce. Non ti preoccupare, non ti succederà nulla”, la consolò, sollevandole piano il viso ed elargendole un dolce sorriso incoraggiatore, dopo averla baciata. “Provvederò a far tacere quanto prima queste fastidiose voci, te lo prometto!”

Ancora un giorno.

Dopodiché, sarebbe finito tutto.

Forse.

 

 

 

 

… Se dovesse avere ancora dei dubbi, non esiti a porgermi una visita; possiedo altre cosucce interessanti su quest’anima dannata …

Prima ancora di rendersi conto delle sue azioni, Naruto si trovava davanti al cancello d’ingresso della villetta dove viveva Utatane Koharu, una casetta molto coccola circondata da un giardinetto curatissimo, senza scivolare nei kitschissimi e orripilanti nanetti o strane decorazioni animali e/o vegetali. Un posto vezzoso e al contempo elegante, che rispecchiava alla perfezione la personalità della padrona. Eppure, per quanto graziosa essa potesse essere - non riuscì il biondo a trattenersi dal paragonare mentalmente - la casa della signora Utatane pareva una catapecchia a confronto di villa Nakano.

In ogni modo, dopo aver suonato per ben tre volte il citofono senza aver ottenuto alcuna risposta, il giovane commissario ponderò a fondo l’opzione di lasciar perdere quella balzana visita e di ritornare da Hinata, che aveva nel frattempo lasciato a casa dei genitori con la scusa di concordare gli ultimi preparativi per l’indomani e più tardi di festeggiare con le sue amiche l’addio al nubilato. Ora che Naruto ci ripensava, con la scusa di aver rimuginato per tutto il giorno la proposta dell’anziana signora e di essersi deciso ad onorarla solamente nel bel mezzo della visita ai futuri suoceri, stava facendo tardi al suo addio al celibato. Tzé, come se ne avesse avuto voglia! Magari la settimana scorsa si sarebbe fiondato a quella festa senza pensarci due volte; al contrario, adesso non aveva alcuna intenzione di festeggiare, non con ancora in mente il viso di Hinata rigato di lacrime e decisamente non con l’immagine di quegli occhiacci malevoli marchiata a fuoco nella sua memoria.

Aveva altre priorità  e non poteva per ora permettersi il lusso di lasciarsi coinvolgere in lazzi osé.

Dannazione, perché quella vecchia bacucca non gli apriva il cancello? Lo invitava per poi farlo ammuffire alla soglia di casa sua? Che poca creanza!

Sbuffando, Naruto optò per una ritirata strategica – sarebbe ritornato più tardi – sennonché lo stridulo nasale del comando a distanza, lo schiocco della serratura e il cigolio del cancello che si apriva in una minuscola fessura lo bloccò, persuadendolo a fare dietrofront. Che la signora Utatane non l’avesse udito? Accidenti, se non era sorda!

Rincuorato dalla prospettiva di poter infine conversare con la donna e così dissipare una volta per tutte quegli atroci dubbi, che stavano corrodendo sia Hinata che lui, il giovane accelerò il passo, volando quasi sul piccolo selciato di ghiaia e presentandosi impaziente davanti alla porta di casa.

“Buonasera, signora Utatane, sono il commissario Uzumaki Naruto. Ieri mi aveva detto che …”, s’interruppe all’improvviso il biondo, essendogli le parole letteralmente morte in gola non appena la porta si aprì, rivelando non l’anziano viso pieno di macchie e rughe della signora, bensì uno assai più giovane e piacente.

E terribilmente nervoso.

“B-buonasera commissario … come sta? Cercava … cercava forse mia nonna? Ah, mi scusi, non mi sono presentata: sono Tenten, sua nipote …”, asserì inquieta la giovane donna dinanzi a lui, i cui occhi vagavano ovunque tranne che sul viso di Naruto che, ammorbidendo il tono, tentò un approccio più rassicurante (attendere troppo non rende mai le persone affabili):

“Sì, signorina Tenten, ieri sera sua nonna mi aveva invitato a casa sua per discutere su delle questioni assai pressanti. Chiedo venia per l’ora tarda, ma oggi mi è stato pressoché impossibile trovare un solo attimo di tranquillità. State forse cenando? Giuro che non è mia intenzione disturbare sua nonna più del dovuto, bastano solo cinque minuti e …”

“Signor commissario”, pose fine la ragazza ai vari mea culpa del biondo, zittendolo bruscamente. “Temo che mia nonna non si trovi nelle condizioni di poter parlare con lei”, disse con un filo di voce, tirando su col naso.

Un orrido sospetto s’insinuò nella mente di Naruto e quest’ultimo sperò di essersi sbagliato grandemente.

“Comprendo. Forse non si sente molto bene”, esordì lentamente, studiando accorto le reazioni della sua interlocutrice. “Vorrà dire che passerò un’altra volta. I miei auguri per una pronta guarigione.”

Tenten scosse il capo bruno. “Non ci sarà una prossima volta, signor commissario. Vede”, e dovette fermarsi per un attimo, respirando a fondo “mia nonna …”, altro sospiro spezzato “… è morta.”

Il mondo crollò addosso sulle spalle del biondo, mentre ogni suono parve giungergli ovattato, distante. Forse, il suo cuore manco più gli batteva in petto. Rimase dunque così, gelato dalla notizia, a fissare stranito la bocca della giovane che si muoveva freneticamente, raccontandogli tra veri singhiozzi trattenuti le dinamiche generali di quell’inaspettato decesso.

“Stamattina, verso le nove, sono venuta a trovarla come mio solito. Siccome non rispondeva e lei sorda non era, ho usato le mie chiavi, un doppione”, gli narrò Tenten, frugando nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto. In automatico, Naruto le offrì uno dei suoi. “Grazie. Dunque, entro in casa e la chiamo, ma non risponde nessuno. Allora mi reco in camera sua e … ed è lì che … oh Dio … che l’ho trovata, così rigida e fredda … era morta”, si portò ella una mano alla bocca. “Io l’avevo avvertita, signor commissario … l’avevo avvertita che stava giocando col fuoco e …”

Scuotendosi dal torpore indottogli dalla sorpresa, Naruto strinse gli occhi, sospettoso e incuriosito dalle ultime parole pronunciate dall’agitata ragazza. “Che intende con l’avevo avvertita che stava giocando col fuoco? Crede che sua nonna non sia morta per cause naturali?”

Tenten impallidì fino al verdognolo, gli occhi dilatati dalla paura. “Eh? Io non … temo che abbia equivocato, signor commissario, lei … la nonna è deceduta a causa di un infarto cardiaco. Deve essersi affaticata inutilmente, ecco perché le ho detto quella frase … non c’è nulla di strano, no?”

“Signorina Tenten”, la incalzò invece Naruto, avanzando di un passo e impedendo col piede che la giovane gli sbattesse la porta in faccia. “Dal suo atteggiamento e dalle circostanze del decesso di sua nonna, ho molte difficoltà ad attribuire un significato diverso a quella frase. Un semplice infarto non dovrebbe provocarle tutta quest’ansia e timore! Avanti, sia onesta con se stessa e con me! Lei è terrorizzata! Da cosa? Da chi? Perché lei asserisce che ha giocato col fuoco? Sospetta forse che sua nonna sia stata uccisa?”

“NO!”, gridò la ragazza fuori di sé dal terrore, confermando così ogni parola del giovane commissario. “No! Che accidenti sta dicendo? Si sta sbagliando di grosso! Mia nonna è morta di infarto, comprende? Di. Un. Dannatissimo. Infarto! Ormai l’hanno portata all’obitorio! È finita! The end! Mi lasci in pace! Vada a porre le sue indiscrete domande a qualcun altro! In troppi me ne hanno già poste a sufficienza!”

“Signorina Tenten, la prego, si calmi!”, digrignò i denti Naruto, dolendogli infatti il piede per il tentativo della bruna di chiudere la porta per l’ennesima volta. “Non la sto accusando di niente! Vorrei solamente capire alcuni dettagli, che mi sfuggono! Vede, sua nonna mi aveva invitato qui per discutere riguardo agli eventi legati a villa Nakano e …”

“Non nomini quella villa apportatrice di sventura!”, strillò isterica la giovane. “E se ne vada via da lì! Da Konoha! Abbandoni questi luoghi per sempre! O sarà per lei la fine, come lo è stato per mia nonna!”

“Sua nonna, dunque, sapeva qualcosa di importante? Di pericoloso?”, proseguì invece testardo il giovane commissario, afferrando Tenten per le spalle e cercando di immobilizzarla. “E così, vero? Qualcuno l’ha uccisa per farla tacere! E chi è stato, sentiamo? La Sposa?”

“NO!!!”, ruggì la giovane, tappando violentemente la bocca a Naruto, gli occhi fuori dalle orbite. “Zitto! Zitto! Non dica il suo nome! Non la menzioni! Altrimenti …”

“… cosa? Altrimenti cosa, signorina Tenten?”, la spronò il biondo a proseguire, addirittura scuotendola leggermente. Niente. Gli occhi scuri della ragazza erano divenuti d’un colpo opachi, inespressivi. Il suo stesso corpo aveva assunto un’innaturale rilassatezza da marionetta senza fili. “Signorina Tenten, mi risponda! Che dovrebbe succedere, in caso la … lei dovesse essere nominata?”, la esortò Naruto. “Signorina Tenten! Se sa qualcosa, per l’amor di Dio, me lo dica! Signorina Tenten! È stata lei ad aver assassinato sua nonna, non è così?”

Inutile.

La giovane pareva non ascoltarlo più: si limitava a tenere lo sguardo fisso dinanzi a sé, quasi stesse attendendo con ansia l’arrivo di qualcuno.

Fate quindi attenzione, care fanciulle, il giorno delle vostre nozze! …” , mormorò infine la bruna, la voce impastata e monocorde di chi stava parlando nel sonno.

“Cosa?”

Sciogliendosi dolcemente dalla sua presa, Tenten proseguì in uno stato sonnambolico verso il cancello della villetta, incurante di camminare scalza sulla ghiaia. “Molti anni sono ormai passati da questo amaro caso, eppure la Sposa Mancata ancora infesta la villa maledetta! ...”, seguitò, ignara degli incessanti richiami di Naruto e sottraendosi di continuo ai suoi tentativi di bloccare la sua bizzarra marcia.   

“… Una malinconica figura biancovestita erra dolente per i suoi corridoi o nel giardino, il capo chino e coperto da un fitto velo che par un sudario; un lungo coltello string’ella al petto …”

“Signorina Tenten, mi ascolti! Si fermi per un istante! La supplico!”

“…  E’ lei! Girate subito dalla parte opposta, presto! …”

“Signorina Tenten!”

Solo allora la giovane si fermò, voltandosi verso Naruto.

I loro sguardi si incrociarono, uno rassegnato, l’altro interdetto.  

“Signorina …!”

La nipote della signora Utatane sorrise mestamente.

“… Prima che si accorga di voi!”, finì in un giocoso sussurro.

Poi, fu solo lo stridore dei freni pigiati all’ultimo momento.

L’inutile corsa in avanti.

L’inutile tentativo di spintonarla via.

Di salvarle la vita.

“Tenten!!!”

Un violento tonfo.

Un sinistro crack! di ossa.

“NO!!!”

Liquido scarlatto che scivolava languido sul cemento.

Occhi del medesimo colore che assistevano soddisfatti all’opera compiuta, al corpo inanimato giacente sulla strada, allo sconcerto del conducente della vettura, alla disperazione dell’unico testimone.

Parfait.

 

 

 

“Naruto …?”

Il diretto interessato abbandonò il confortevole scudo delle sue mani, alzando lo sguardo in direzione del suo interlocutore. Dal rosso era passato al bianco? E questo quando? Dio, gli occhi gli dolevano da impazzire!

“Hey, Uzumaki!”, gli posò Kiba una mano sulla spalla, stringendola a mo’ di risveglio dalla trance, in cui Naruto era caduto da quando i paramedici lo avevano pigliato dal luogo dell’incidente e portato all’ospedale. “Ti stavamo tutti aspettando al bar per la tua festa e poi ci arriva questa chiamata dall’ospedale! Che cosa ti è successo, furbastro?”

“Niente che abbia potuto rapircelo da questo mondo”, s’intromise la voce decisa del medico alle loro spalle, una donna incredibilmente prosperosa e dall’aspetto ancora giovanile. “Le condizioni del paziente, Shizune?”, s’informò. L’infermiera che fino a quel momento aveva vegliato in silenzio sul biondo si alzò dalla sedia, cedendo la cartella clinica alla sua superiore. “Stabili, dottoressa Tsunade. Ha dormito come un ghiro fino a dieci minuti fa, ovvero fino all’arrivo del signor Inuzuka.”

“Da quanto tempo sono qui?”, inquisì Naruto, lanciando un’occhiata ansiosa fuori dalla finestra: ormai era completamente buio, dovevano essere passate da un pezzo le otto di sera.

“Tranquillo, Naruto!”, lo rassicurò Kiba. “Ho già avvertito Neji e lui mi ha assicurato, che stanotte sia lui che Hinata rimarranno a dormire dai loro vecchi!”

“E la mia fidanzata? L’hai sentita? Che ha detto? Dio mio, spero che non le sia partito un embolo …”

“Ehm, non per interrompere questa romantica conversazione, ma vorrei precisare che il signor Uzumaki si è ritrovato suo malgrado coinvolto in un drammatico incidente stradale. Vorrei quindi pregarla, signor Inuzuka, di lasciar riposare il paziente!”

“Non se ne parla nemmeno, dottoressa Senju!”, ribatté snervato Naruto, balzando giù dal letto. “Sto benissimo! Non ho alcuna intenzione di trascorrere la vigilia delle mie nozze in un ospedale! Oh beh, anche se le infermiere sexy ci sono comunque …”

Una randellata in testa riportò il biondo a più miti consigli. “Porco!”, berciò Tsunade, facendo balzare sia l’infermiera Shizune che Kiba per lo spavento da cotanta forza esibita. “Invece di blaterare cacche di piccione, ringrazia Iddio di essere ancora vivo, vegeto e in un unico pezzo! Sennò altro che matrimonio! Un funerale si celebrava!”

“Sono sopravvissuto all’incidente”, argomentò piccato Naruto, massaggiandosi lo scalpo martoriato “perché non ero io la vittima designata! Lei voleva la signorina Tenten! Non me! Ha voluto farmi assistere, certo, ma non aveva in progetto la mia morte! Non ora, almeno!”

“Assurdità!”, liquidò Tsunade la faccenda con un deciso svolazzo della mano. “E sentiamo, chi sarebbe costei? La povera signorina Mitokado ha attraversato la strada senza prestare la benché minima attenzione! Ovvio, che è stata investita!”

“Un corno! La strada era vuota! Quella macchina è comparsa all’improvviso! Senza contare … senza contare che lei l’ha spinta a compiere quel gesto! Tenten sembrava quasi ipnotizzata, non era padrona delle sue azioni!”

“Via, questa sì che è bella! Devo ammettere, che il suo stato di shock è davvero notevole, forse il più assurdo cui io abbia mai assistito!”

“Sua nonna pirata sarà in stato di shock!”, ululò Naruto, paonazzo. “Vedo abbastanza gente morta per via del mio lavoro, che non è stato di certo un cadavere mezzo spiaccicato e spalmato sul cemento ad avermi impressionato! No, è stata la certezza, che Tenten sia stata indotta dalla Sposa a suicidarsi!”

Un silenzio tombale gelò la stanza.

“Non vorrà mica … che anche lei abbia visto … Bah, scempiaggini!”, contestò flebilmente Tsunade, mentre il rosa delle sue guance fluiva via più rapido di un torrente. “Non esiste alcuna “sposa”, non esiste alcuna maledizione! Noto che la signora Utatane l’ha ben irretita, o mi sbaglio, signor Uzumaki? Beh, se lo lasci dire: quella era una vecchia matta e di sicuro ha influenzato in maniera nefasta anche la nipote, che poi tanto sana di menocca non lo era neppure lei, non dopo l’incidente stradale in cui morirono i suoi genitori. Il decesso improvviso della nonna deve averle elargito il colpo di grazia, non può sussistere altra spiegazione logica! Ergo, la smetta di sparare baggianate a gogò o la farò sedare!”, sbraitò d’un tratto inferocita, sputando saliva.

Per una che non credeva nel mortifero potere della maledizione di villa Nakano, la dottoressa Senju lo dimostrava davvero male: infatti, sembrava parecchio agitata a riguardo, impallidendo più del dovuto. Tuttavia, onde risparmiarsi una dose di tranquillanti non proprio agognati, Naruto si morse l’interno della sua guancia, scegliendo una soluzione più diplomatica, altresì nota come: annuire per poi agire differentemente appena l’avversario dà le spalle.  

“Quando potrò uscire di qui?”, chiese quindi il giovane, sperando che la sua voce suonasse sufficientemente calma e padrona di sé.

“Domani mattina”, rispose lentamente la dottoressa, insospettita da quel brusco cambio di atteggiamento, da satanasso ribelle a docile agnellino. Dinanzi allo scambio di occhiate apprensive tra il suo paziente e Kiba, la donna fugò ogni perplessità: “No, farà in tempo a presentarsi alla cerimonia. La rilasceremo verso le otto, contento?”

No, Naruto era ben lungi dall’essere soddisfatto. E non solo per la stupida quisquiglia, che nessuno lo credeva, anzi che per poco non gli davano pure dell’esagitato e isterico (se non proprio del pazzo); piuttosto, si trattava della consapevolezza che la Sposa lo aveva preceduto, tappando per sempre la bocca delle uniche due persone che avrebbero potuto indicargli la strada per esorcizzare quella presenza maligna, il cui unico scopo della sua dannata esistenza era quello di rendere amara la vita alla fidanzata e a lui. Oh, oramai Naruto non nutriva più alcun dubbio sulla veridicità della leggenda, della maledizione che appestava villa Nakano! Per ben due volte aveva giocato il ruolo di inconsapevole vittima/testimone! Per davvero qualcosa di malvagio si stava divertendo con le loro vite, spazzando via chiunque osasse interferire nel suo diletto! Per fortuna, che Hinata in quel momento si trovava a casa dei suoi genitori, altrimenti …

Se solo avesse parlato la sera precedente con la signora Utatane! Se soltanto le avesse creduto prima, così da poter subito affrontare e neutralizzare la Sposa! Ecco, dove l’aveva portato lo scetticismo!

“Signor commissario … Uzumaki?”

La chiara e squillante voce dell’infermiera Shizune lo distolse dalle sue cupissime elucubrazioni, riportandolo alla dura realtà. “Ehm, volevo dirle … ehm … non sarebbe molto corretto, però …”, la giovane donna scosse il capo scuro, porgendo un pacchetto insanguinato al giovane biondo su cui troneggiava il suo nome scritto in stampatello maiuscolo. “Quando sono venuti i soccorsi, hanno reperito questo pacco poco distante dalla vittima. So che dovrebbe essere consegnato alla polizia, tuttavia … insomma, lei è il massimo rappresentate della polizia qui a Konoha e allora … forse potrà scoprire qualcosa di interessante su di …”e inghiottì penosamente della saliva “… lei.”

Il viso di Naruto si illuminò raggiante di speranza. “Dunque, lei mi crede?”

Shizune si morse a disagio il labbro inferiore. “Sì e anche la dottoressa Tsunade le crede.  Ecco, deve sapere che la signorina Mitarashi Anko, colei che le ha venduto la villa, e la dottoressa erano in gioventù molto amiche. Sennonché, anche la povera Anko cadde vittima della maledizione e Tsunade, che aveva tentato di salvarla da tale triste sorte, venne conseguentemente punita da lei.”

“Dalla Sposa …”

“Sì”, convenne l’infermiera, rabbrividendo impercettibilmente al sentir quel nome tabù pronunciato. “Nel più orribile dei modi.” Silenzio. “Il giorno del suo matrimonio scoppiò un incendio, nel quale perirono il suo sposo – mio zio – e il suo fratellino minore.”

“No!”

“Sì, invece. Nessuno riuscì mai a spiegare le dinamiche del  rogo, dove e come fossero scaturire quelle fiamme. Si pensò trattarsi di un incidente, ma io so che è stata lei! Vede, quel fuoco non aveva nulla di normale! Non era rosso-arancione! Era nero! Nero e inestinguibile, come quello dell’inferno!”

Marcite all’inferno, figli di cagna, marcite all’inferno assieme a me …

Ti aspetto nell’eterno abisso, stupido fratello …

 “Infermiera Shizune …”

“No!”, lo bloccò la giovane donna, cedendogli il pacco e allontanandosi in fretta verso la porta della stanza. “Ho già rivelato troppo! Non parlerò oltre! Non mi costringa!”, guaì d’un colpo terrorizzata, uscendo di corsa e lasciando solo un Naruto al limite di un crollo di nervi.

Ciononostante, il biondo mantenne abbastanza autocontrollo e fermezza per sedersi sul suo letto e strappare la carta, che avvolgeva un bel pacco pasciuto di fogli, fotografie e un quadernetto, come appurò il giovane commissario una volta che ne ebbe svuotato il contenuto.

E così, queste erano le cosucce interessanti, cui la defunta Utatane Koharu aveva fatto riferimento? Maneggiando delicatamente la fragile carta ingiallita, Naruto esaminò uno ad uno i documenti, mettendoli in ordine cronologico o comunque l’ordine in cui Koharu li aveva preparati. Di conseguenza, l’unico scritto non sbiadito né ingiallito dal tempo catturò la sua attenzione, invitandolo a prenderlo e a leggerlo.

Così fece Naruto.

All’attenzione del signor commissario Uzumaki Naruto – incominciava la lettera.

Comprendo che possa suonare assolutamente cliché, tuttavia non scherzo nell’affermare che se lei in questo momento sta leggendo la mia missiva, significa che sono già morta e forse mia nipote Tenten con me.

Il motivo? Ormai, sono sicura che anche lei l’avrà capito. La Sposa sa del nostro incontro ieri sera al Ramen Ichiraku; sa quel che le ho detto. Nulla sfugge ai suoi occhi di fuoco, non quando è a caccia. Oh, non  spalanchi incredulo la mascella! Non conosce la Ballata? Quando a villa Nakano sta per celebrarsi un matrimonio, la Sposa esce dal suo torpore, fiuta la sua preda, la punta, la segue e poi … l’attacca! Sì, lei è proprio a caccia e la preda, signor commissario, altri non è che la signorina Hyuuga, la sua fidanzata!

Perché la sto avvertendo, mi chiederà.

Perché ho paura del Giudizio.

Anch’io ho i miei peccati da scontare, signor commissario. Il primo? L’aver scattato una foto alla Sposa e averne taciuto l’esistenza fino ad adesso. Che male c’è in questo, obietterà.

Ce n’è, signor commissario. C’è tutto il male del mondo.

Lei non ha idea di quante spose siano state colpite dalla maledizione di villa Nakano. La gente parla, ne ricama sopra delle macabre leggende, ma in pochi le prendono poi sul serio. E chi lo fa, tace come me in quanto assolutamente terrorizzato dalla vendicatività di questa Sposa Mancata. La signorina Anko – un’altra vittima della Sposa – non le ha mai parlato dell’incendio, che uccise il fidanzato e il fratellino della sua migliore amica, rea di aver tentato di porre fine alla maledizione?

Come avrà certamente realizzato, la Sposa non conosce il perdono. Glielo hanno negato in vita. Ora, da morta, lei lo nega a noi.

Ecco, io avevo la paura folle di dover affrontare un siffatto destino, di dover perdere coloro che amo, similmente a quei temerari che osarono sfidare la Sposa.

Ma a che pro?

Alla fine, il mio silenzio non ha salvato né me né tantomeno i miei cari.

 Infatti, finché non la intralciavo, lei m’ha concesso di vivere. Oh, non che mi avesse esentato da un piccolo avvertimento! Non è un caso, se mia nipote Tenten sia rimasta orfana di ambedue i genitori! Ora però che ho  suggerito a lei, signor commissario, un modo per sottrarre a quest’anima dannata la sua prossima vittima, ecco che la Sposa  verrà a chiedermi il conto. E lo farà, puntuale come suo solito.

Ma io rischio lo stesso, la prendo come espiazione per tutte le volte che ho taciuto, rendendomi in un certo qual modo sua complice.

In questo pacco ho messo degli articoli di giornale sulle misteriose “amputazioni degli anulari” e sui “roghi nero inchiostro”; in aggiunta, troverà la foto da me scattata nel 1925, più una risalente al 1858. Le altre foto mostrano i volti di tutte le vittime della Sposa.  

Infine, il diario di suo fratello minore: lo legga, spero che così lei potrà trovare  la soluzione per salvarsi da questa perpetua maledizione. Pregherò per lei, ovunque la mia anima sia stata spedita dal Giudice Eterno.

Un ultimo consiglio.

Dopo aver letto questo diario, si diriga a Kiri e chieda informazioni all’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara che dà sul mare. [1] Lì potrà incontrare la Sposa nella sua forma più vulnerabile.

Sento delle gocce d’acqua cadere dal soffitto.

Sono salate.

La Sposa è arrivata.

Che Iddio possa avere pietà del mio corpo e della mia anima, perché Uchiha Itachi non ne avrà per me.

 

 

U.K.

 

 

A Naruto tremavano le mani.

Aveva letto bene? Aveva tra le mani una lettera scritta da una persona sana di mente? O il delirio di una pazza?

Oppure il pazzo era lui, che impallidiva ad ogni parola, trovando in esse la conferma che cercava?

Lo stesso volto dai freschi tratti della giovinezza eppure comparente in foto di due epoche diverse.

 

 

Così, per poter impalmare la ragione del suo vivere, il giovane decise di tentare la sorte:

raccolti gli ultimi averi lasciategli dal padre, rifornite le navi e assunto abili marinai

volle dirigersi là dove si compravano e vendevano spezie più preziose dell’oro.

 

 

 

Hinata si rigirò inquieta nel letto, il sonno disturbato da una musica che ben si ricordava di non aver mai udito riecheggiare in casa dei genitori. Per quanto i signori Hyuuga appartenessero alla categoria frou frou- jou jou, la loro unica figlia non si sovveniva di una loro qualche passione melomane: concerti e opere liriche fungevano da scusa per recarsi a teatro e lì sfoggiare l’argenteria di casa. Dunque, perché quel …

Bisogna aver coraggio, / oh cari amici miei / e i suoi misfatti rei / scoprir potremo allor.”

Spalancando stupita gli occhi, la giovane si puntellò sui gomiti, studiando interdetta la stanza in cui si era risvegliata e che non assomigliava per niente alla sua cameretta: essa, dal soffitto alto e dalle pareti immacolate tappezzate di quadri, possedeva il tipico aspetto di chi l’aveva abbandonata in fretta e furia, senza premurarsi di riordinarla. Eppure, aveva conservato la presenza del proprio possessore, quasi lo stesse aspettando in quella sospesa immobilità da fotografia. Come ad esempio, i libri aperti o chiusi e lasciati nei posti più svariati, dal comodino al pavimento, o le ante dell’armadio spalancate coi vestiti penzolanti a metà sulle stampelle e alcuni caduti per terra in un confuso miscuglio di stoffe e colori. O il letto a bateau sfatto e non di certo perché vi aveva dormito Hinata.

L’amica dice bene / coraggio aver conviene / discaccia, oh vita mia, / l’affanno e il timor.”

In seguito ad una solenne pulizia e alla luce del sole, quella camera sarebbe apparsa davvero molto graziosa: le finestre ampie promettevano una vista maestosa – su che cosa, poi?, si chiese la ragazza – e l’ampiezza raggiungeva livelli tali, che avrebbe potuto contenere ben tre stanze della casa natale di Hinata. Un ottimo posto per leggere – come dimostrava la ben fornita libreria alle pareti – per scrivere – il vezzoso scrittoio in stile settecentesco -  per suonare – ad esempio, il pianoforte a mezza coda -  e rilassarsi e giocare e …

Il passo è periglioso, / può nascere qualche imbroglio. / Temo pel caro sposo / e per voi temo ancor.”

“Ti piace, Hinata, questa camera?”

Al sentir pronunciato il suo nome, l’interpellata in questione sobbalzò sul posto, riscuotendosi definitivamente dal torpore in cui si indugia quando ci si è appena svegliati. Disorientata da quel luogo a lei alieno e timorosa per la propria incolumità, la mora si rannicchiò contro il muro, portando al petto le ginocchia a mo’ di difesa.

“Ah … Shu … sei tu … che spavento, non …”, balbettò la ragazza, guardandosi nervosamente attorno. “E’ … è per caso la tua stanza?”, chiese, azzardando a rilassare le gambe stendendole sul materasso.

Shu le sorrise amabilmente. “Questa era la mia prigione”, le spiegò, tornando ad armeggiare con le leve di un teatrino di carta sul cui palcoscenico comparivano i personaggi del  Don Giovanni di Mozart, che il giovane muoveva a ritmo della musica dell’omonima opera, riprodotta da un vecchio grammofono. “Fino ai tredici anni, non ho conosciuto altri luoghi all’infuori di questa stanza. Sebbene i miei genitori si prodigassero a riempirmi di balocchi, a tenere la mia mente occupata tramite le lezioni private impartitemi dal precettore, o attraverso i libri o suonando, alla fine sono giunto ad odiare con tutto me stesso questo posto”, le confessò un poco impacciato, alzando di tanto in tanto gli occhi inumiditi dalle lacrime. Stava piangendo? E perché mai? “E’ un vero peccato, che questo portentoso grammofono sia stato inventato molti anni dopo la mia nascita [2]: avrei trascorso le ore in maggior letizia ascoltando le mie opere preferite. Non mi ricordo se te l’ho già detto, ma adoro l’opera lirica. Piace anche a te, Hinata?”

V’era qualcosa di strano in Shu, notò apprensiva la ragazza, corrugando incerta la fronte. Un’aria di infinita tristezza lo avvolgeva, sentimento sottolineato da quel suo starsene seduto all’indiana sul morbido tappeto color pastello e dal giocare con piglio infantile con quel teatrino. In aggiunta, il giovane non indossava più gli abiti coi quali aveva l’abitudine di presentarsi a lei, ergo una maglietta scura, un paio pantaloni grigi alla pescatora e i sandali. Al contrario, in quel momento Shu portava una lunga tunica bianca, simile a quella dei comunicandi il giorno della Prima Comunione, ed era scalzo. Tenuto fermo da una stretta corona di gigli e crisantemi [3] gli scendeva morbido e pesante un velo bianco, che lo avvolgeva in un soffocante abbraccio di stoffa. Di primo acchito sarebbe potuto passare per una sposa, sennonché le linee spartane dell’abito e la consistenza fitta del velo, così diversi dalla tradizionale civetteria degli altri, gli conferivano un’aura più solenne, mesta. Mortuaria, quasi.

Perché era vestito in quel modo?

“Shu”, ruppe Hinata il silenzio creatosi, scivolando giù dal letto a bateau e avvicinandosi al giovane. “Questo posto … questa camera … siamo a villa Nakano, vero? Mi hai riportata qui?” Nonostante la giovane non avesse mai visto quell’ambiente, lo stile e il gusto nell’arredamento corrispondevano esattamente a quello della casa del fidanzato.

“Ci sei ritornata da sola, dolcezza mia”, replicò ineffabile Shu, seguitando il suo divertimento coi personaggi di carta. “E’ stata la tua curiosità ad averti condotto in questa stanza.”

“No, non credo proprio”, lo contestò la mora, accovacciandosi dinanzi al teatrino. Come mai stava conversando così serenamente con lui? In altre circostanze, risvegliarsi in un altro posto, lontano dalla famiglia e dal fidanzato, avrebbe dovuto mandare in tilt chiunque dalla paura. Invece, Hinata non ne aveva, si sentiva stranamente rassicurata dalla presenza di Shu accanto a lei, per quanto il suo lato razionale le stesse urlando che era proprio da lui, che doveva guardarsi le spalle.

“Mi dispiace, ma devo contraddirti, Hinata”, ribatté testardo il moro. “Tempo addietro, avevi espresso il desiderio di conoscere maggiori dettagli riguardanti il tragico incidente avvenuto a villa Nakano. Dal canto mio, avevo promesso che ti avrei portato là dove avvenne questo spiacevole evento.  Come puoi ben vedere, ho mantenuto la parola data e sarebbe una grande scortesia da parte tua tirarti indietro all’ultimo; mi sono tanto prodigato per organizzare al meglio questo nostro ultimo incontro, così da non essere disturbati da chicchessia. Senza contare, che abbiamo tutta la notte a nostra disposizione: in attesa che giunga l’alba, ti  racconterò una storia. La storia che condusse la famiglia Uchiha e villa Nakano alla rovina. Non è di gran lunga meglio questo passatempo che un’insipida nottata brava tra amiche, o mi sbaglio?”

Hinata si inumidì a disagio le labbra, tamburellando le dita sulle ginocchia. Sì, era vero che lei gli aveva chiesto di  narrargli il misterioso aneddoto di villa Nakano: tuttavia, il suo sesto senso gli suggeriva di sviare il discorso, di non accettare, giacché proprio era quello la causa delle sventure dei precedenti abitanti della villa. “Non saprei, Shu”, temporeggiò, fissandosi colpevole le unghie. “Magari, non trovandomi in letto, in questo momento i miei genitori e mio cugino si staranno preoccupando per me e anche il mio fidanzato potrebbe essere in pensiero. Eppoi, domani mi sposo, devo riposare … forse un’altra volta …”

Un sorriso amaro graziò le labbra fini di Shu, mentre l’atmosfera, da tiepida e malinconica, si mutò in una sinistramente gelida, tagliente come la lama di un coltello. “Proprio come pensavo. Non sei diversa dagli altri: sempre pronta a chiedere, ma quando sono io che ti domando un favore, ecco che mi rifili una scusa dietro l’altra!”, scattò in piedi il moro, sovrastando severo e impietoso con la sua altezza la ragazza, cui sembrò di ritrovarsi dinanzi al Christus Iudex della cappella privata di villa Nakano.

Svanite la dolcezza, la pietosa tristezza, ingoiate dalle fredde fiamme di una composta e inestinguibile collera.

E Hinata, più che esserne atterrita, si sentì in essa avviluppata, consumata, fin quasi a compartirla.

Doveva scappar via da quel luogo, prima di esserne divorata!

“Io ho mantenuto la mia promessa. Ho esaudito la tua richiesta. Ora, rispondimi, vorrai essere così riconoscente da premiare la mia disponibilità?”

Digli di no!, gridava la mente della giovane. Digli di no!

Troppo dolce comincia la scena / In amaro potrìa terminar.”

“Ebbene, Hinata?”

L’interpellata aprì la bocca per rispondere, chiudendola invece subito dopo.  Si stava comportando da ingrata e vigliacca e ciononostante, non riusciva a fidarsi abbastanza da elargire all’altro un cenno affermativo.

“Deciditi, Hinata. Sto aspettando …”

Se soltanto avesse avuto un argomento con cui ribattere! O poter rifiutare l’offerta! Perché, si diede lei della sciocca, aveva insistito a voler sapere dei fatti degli Uchiha?

L’inatteso tintinnio di posate e lo strimpellare di strumenti, che si stavano riscaldando prima di suonare, attirò l’attenzione di Hinata, la quale colse la palla al balzo e, rimettendosi in piedi, si diresse verso la porta della stanza. “Shu, non senti anche tu questi rumori? Da dove provengono? Spero ardentemente che non siano dei ladri …”, addusse ella come scusa per poter uscire, sorpresa che il giovane glielo avesse permesso senza opporre alcun  tipo di resistenza, come invece lei si aspettava.

Non che ne avesse poi avuto così bisogno: fu Hinata stessa a fermarsi, aggrappandosi ora serialmente turbata al poggiamano delle scale. I  lunghi specchi appesi alle pareti dell’ampio salone riflettevano la luce di lunghe  candele dalle fiamme azzurrine, verdi o viola, similmente agli innumerevoli candelabri lì accesi. La loro luce fioca e fredda, quasi psichedelica nella sua fosforescenza, si riverberava nell’ambiente, enfatizzando i colori fantasmagorici del tourbillon accecante degli abiti degli astanti – sì, ospiti! -  dagli accostamenti più strani; dal grande candelabro di vetro soffiato pendevano ghirlande e scendevano coriandoli e fili di vari colori e lucentezza, accentuando quell’aria di decadenza, che permeava quel salotto che ad Hinata era sempre sembrato così smorto e asfittico.

E proprio in quel posto si stava celebrando una festa, magari in maschera a giudicare dai vestiti assolutamente fuori moda, appartenenti ad epoche diverse: tra di essi, Hinata riconobbe le gonne vaporose dell’Ottocento, i frac della Fin du Siècle, le linee vezzose della Belle Époque e quelle più dritte e geometriche del Primo Dopoguerra. Con suo sommo orrore, la giovane scovò anche abiti più recenti, molto più recenti, come quelli indossati da Mitokado Tenten e Utatane Koharu, che Hinata credeva vive fino a ieri!

Come … com’era possibile?

“Hai già legato con gli ospiti?” , le giunse inattesa la voce di Shu alle spalle, facendola sobbalzare violentemente e cozzare contro il suo petto. Quando l’aveva raggiunta?

E … e … quel silenzio nel torace …

“Shu, chi … chi sono costoro?”, chiese Hinata in un filo di voce, tentando di scivolare via dal giovane, il quale, sfortunatamente per lei, le aveva cinto il braccio alla vita, serrandola inclemente a sé. “Che cosa vogliono da me?”

Che cosa vuoi tu da me?

Di nuovo, il moro le mostrò l’innaturale candore dei suoi denti. “Suvvia, Hinata! Via quell’aria sgomenta! E che domande mi poni, poi! Chi sono? Gli ospiti per il tuo matrimonio, sciocchina! Chi vuoi che siano?”, ridacchiò incoraggiante Shu, sottoponendo la fronte della ragazza ad un leggero buffetto.

Neanche fosse stato quello il previamente concordato segnale d’inizio, gli astanti si girarono e, levati in alto i calici, esclamarono in coro: “Viva la sposa! Viva la sposa! Un brindisi per Hinata!”

“Mi stanno chiamando …”, gemette ora seriamente impaurita la giovane, divincolandosi in violenti strattoni. Invano: il braccio di Shu poteva competere quanto a forza ad un cerchio di ferro.

“Ovvio”, convenne serafico l’altro, apprestandosi a scendere le scale. “Stanno morendo dalla voglia di conoscerti, Hinata. Ho tanto parlato a loro di te e adesso sono eccitati alla mera idea di poter finalmente conversare con te!”, disse, trascinando seco una recalcitrante mora, che cercava di rallentare la discesa al pianterreno aggrappandosi a qualsiasi cosa le capitasse sottomano.

“Anche perché, la mia storia non avrebbe senso, se tu non incontrassi gli attori principali di questo doloroso dramma …”, proseguì affabile, sciogliendosi in un sorriso ferino, che provocò un mezzo svenimento alla ragazza.

“E sono loro gli …?”

“… attori? Sì, sì, esattamente!”, annuì Shu entusiasta e compiaciuto della dubbia partecipazione della giovane, che si strinse inconsciamente a lui, quando giunsero infine al centro dell’ampio salone. “Le marionette di questo patetico melodramma, i miei ospiti eterni, il mio infernale chaperon … tutti a tua disposizione, Hinata carissima, per questa notte fino a domani, prima della cerimonia”, li presentò egli tramite un ampio e teatrale gesto del braccio.

Hinata temette di aver smesso da un pezzo di respirare.

 

 

La notte prima della partenza, molte lacrime vennero versate e molti baci scambiati.

Ma ciò non bastava all’innamorato.

 

“La mia famiglia, dolce amica mia …”, indicò Shu un gruppetto di persone vestite alla guisa ottocentesca e dai capelli e gli occhi neri come quelli del suo accompagnatore. “La quale mi ama a tal punto, da volermi seguire ovunque e da soddisfare ogni mio singolo capriccio …”, le confessò, sorridendole complice.

I parenti di Shu assentirono col capo, brindando in apparenza gioiosi alla salute di Hinata: in realtà, ella poté scorgere nei loro volti una smorfia di sofferenza atroce, teoria supportata dalle calde lacrime di sangue che colavano sul loro viso pallidissimo.

 


 

 “Giurami”, diss’egli stringendo forte al petto l’altra metà della sua anima. “Giurami sulla tua vita, sugli occhi tuoi belli, su Iddio e la Madonna, che a me fedele per sempre rimarrai.”


 

 

“Et bien, mia cara, ora che ti ho presentato tutti i miei ospiti, che ne dici di sederci qui, su questo morbido canapè, cosicché io ti possa raccontare l’amaro caso di villa Nakano? Uhm, che ne dici? Magari sorbendoci nel frattempo dell’ottimo Marzemino!”, gli propose Shu, o meglio, la costrinse a sedersi, cedendole un bicchierino di cristallo portogli da uno zelante cameriere.

Con mani tremanti, neanche avesse buscato le febbri tropicali, Hinata accettò, per poi farlo cadere in seguito all’improvviso ruggito di Shu, che richiamò una sorta di vento di tramonta, il quale spense in un battito di ciglia tutte le candele, facendo conseguentemente piombare il salone nel buio assoluto.


 

 “Questo è facile: lo promisi già  il dì in cui ti conobbi.”

 

 

“Fratello!”, ringhiò egli in un cupo latrato. “Convinci quella meretrice sifilitica  della tua promessa a cessare una buona volta di piangere! Disturba l’atmosfera! Non voglio scenate isteriche alla festa in onore di Hinata! Provvedi a farla tacere o troverò io il rimedio e credimi, allora sì che la tua sgualdrina avrà di che lamentarsi!”, inveì così pesantemente, che Hinata si reputò fortunata che mancasse la luce: quella poc’anzi udita non era una voce umana, era il gorgoglio del mare in tempesta, il latrare di un mostro!

Ma ecco, ritornata la luce tanto velocemente quanto era sparita, che il tono di Shu aveva riassunto le precedenti sfumature delicate e melodiche di prima.

“Ah, le cognate!”, piegò egli le labbra in un sorrisetto birbante. “A volte sembrano essere state concepite solamente per farti dannare l’anima!” e rise alla battuta, cui prontamente seguì l’eco degli altri invitati, i quali poi ripresero serafici gli svaghi e il cicaleggio interrotti dal furioso sfogo del giovane.

“Dunque, dove eravamo rimasti?”, fece Shu distendere la mora in una posizione più comoda, in modo che la tua testa riposasse sul suo petto. “Allora, Hinata, posso raccontarti una storia?”

Quel silenzio nel torace …

… l’assenza del battito cardiaco …

… il gelo …

… il corpo di un morto.

 


 

 “E che al mio ritorno, vivi o morti, ci sposeremo.”

 


 

Respirando a fondo per infondersi coraggio, Naruto aprì il piccolo diario di Uchiha Sasuke, sfogliando delicatamente le fragili e ingiallite pagine riempite dalla fitta e minuziosa calligrafia in voga nel secolo precedente.

 


16 febbraio 1919

 

 

Il Veronal è pronto. [4]

Dies irae, dies illa. Solvet saeclum in favilla. Quando verrà il giorno del Signore, la Sua Croce risplenderà nel cielo e il mondo cadrà in rovina. 

Judex ergo cum sedebit quidquid latet apparebit, nil inultum remanebit.  Il Giudice prenderà il suo seggio e ogni sotterfugio verrà svelato; niente rimarrà impunito.

Quid sum miser tunc dicturus? Quem patronum rogaturus, cum vix iustus sit securus? Cosa dirò, allora, al Signore? In chi troverò protezione? Quando l’innocente non deve aver paura?

Voca me cum benedictis! [5]

No, non posso implorare di essere chiamato tra i benedetti, non col Veronal preparato apposta per riunirmi anzitempo con la mia famiglia, con la mia fidanzata. Sto per compiere lo stesso suo peccato, lo stesso peccato che lui ci ha costretto, uno dietro l’altro, a macchiarci, così da adempiere fino alla fine al terribile castigo inflittoci quasi cinquantotto anni fa.

Non vendetta, no.

Castigo. Punizione.

Divideremo con lui le sue lacrime, sopporteremo l’atroce dolore dei pugni al petto, i rimorsi, la solitudine, l’angoscia eterna, la gelida lontananza dall’avvolgente e calda misericordia divina.

Addio, dolci notti innamorate!

Addio, giorni pieni di letizia!

A me la sventura!

A me l’inferno!

Più volte ho tentato di raggiungerlo, affatto spaventato dalle poco allettanti promesse di quelle inestinguibili fiamme nero pece: lui me lo ha impedito. Per pietà dell’anima mia? No, perché fui io la causa principale delle sue sofferenze e dunque io meritavo di essere castigato più a lungo rispetto agli altri.

Mi ha sottratto tutto.

Tutto.

Non ho più nulla che mi leghi a questo mondo.

Né padre, né madre, né parenti, né fidanzata.

Non ho vissuto, non ho concluso niente nella mia vita.

Non ho creato una famiglia mia. Non ho realizzato alcun progetto, che mi distinguesse dalla massa anonima.

Nessuno si ricorderà del mio nome.

Sono meno di niente, una scultura lasciata a metà.

Può essere l’inferno peggiore di questa  non-vita? Ne dubito altamente.

Dunque, vada per il Veronal.

Ora lui me lo permette. È qui seduto davanti a me, col suo eterno volto di giovane uomo, con quell’abito bianco pregno di sangue e acqua salsa, e mi fissa, non mi perde per un istante di vista, mi concede di scrivere questo diario, l’ultima traccia della mia esistenza sprecata o, come sostiene lui, finalizzata all’espiazione dei miei peccati.

Che poi a nulla è servita, giacché sto per compiere quello più grande, quello più difficilmente condonabile.

Stasera prenderò una dose eccessiva di Veronal e morirò.

Non prima, però, di aver steso questa mia confessione (sempre sotto la sua supervisione), cosicché chiunque dovesse trovare un giorno questo mio ultimo scritto, abbia in seguito la bontà di pregare per le nostre anime, per la sua anima e di porre fine alla maledizione che la nostra intransigenza ha attirato sulla nostra orgogliosa cervice.

Io, Uchiha Sasuke, confesso dinanzi a Dio e agli uomini di aver dato il mio contributo alla nascita di colei che la gente di Kiri, e pian piano anche quella di Konoha, chiama la Sposa Mancata,  in vita conosciuta sotto il nome di Uchiha Itachi.

Mio fratello.

Seduto davanti a me, mi sorride, incoraggiandomi a proseguire.

Devo sul serio continuare a scrivere, fratello?

Perché mi sottrai il Veronal? Restituiscimelo!

Perché …?

 


“Lo giuro”, rispose il suo amore, due dita alzate e la mano al cuore.

 

 

 

 

 

 

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To be continued …

 

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[1] = Sant’Erasmo Martire è il santo invocato dai marinai nelle tempeste, mentre Santa Barbara Vergine e Martire è la santa protettrice della Marina Italiana.

[2] Il grammofono incominciò a venir usato nel 1870.

[3] Rispettivamente i fiori dei morti, i crisantemi per l’Europa “continentale”, mentre i gigli per l’Inghilterra e i paesi anglofoni.

[4] Marca di sonnifero, letale se assunto in dosi eccessive.

[5] Requiem

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Capitolo 4
*** Dal Diario di Uchiha Sasuke: gli Eventi dal 1850 al 1856 ***


Jetzt geht’s weiter!

Lo avevo accennato alla mia consulente privata, lo avevo minacciato nei tag, lo avevo ribadito nell’intro al prologo, me l’ero ripromesso come regalo tardivo di compleanno ed eccolo qua finalmente! Mpreg, ahoy! Oh beh, non esattamente in questo capitolo, ma se leggete tra le righe, troverete certamente le basi per la mia prima Mpreg! Muhahhahaha!!! Sono così emozionata! ^////^ Senza andare troppo nei dettagli “anatomici” ho cercato di dare una spiegazione “logica” a quest’evento, pur prendendomi tuttavia numerose licenze poetiche.

Questo capitolo è stato davvero tosto da scrivere: così tanti eventi da compattare, epoche differenti da ben descrivere, uff, uff …  Di conseguenza, purtroppo per voi, è venuto piuttosto lungo! XD Confesso che volevo essere più concisa, ma poi mi sono lasciata andare: in fin dei conti, siamo nel cuore della storia! :P E  dobbiamo poi onorare il tag “sentimentale” di un poco, no? Lasciamoci alle spalle per un breve istante l’horror!

E a proposito di epoche diverse! Leggere gli avvisi, s’il-vous plaît!

Punto primo: L’ambientazione è assolutamente di fantasia, però, come detto nel primo capitolo, mi rifaccio al “nostro” Ottocento, con tutti i suoi pregi e difetti. Questo significa che se sentirete delle frasi un po’ scioviniste, sessiste, classiste e quant’altro, non è l’autrice che lo pensa, bensì i personaggi calati in quel contesto.  Lo stesso vale per la medicina dell’epoca: in questo capitolo si parlerà molto di isteria e non per indicare uno che piange a dirotto, ma per giustificare sbalzi di umore, attacchi nevrotici, pianti improvvisi, convulsioni quasi da epilessia, insonnia, etc. L’isteria – soprattutto femminile – serviva ai signori uomini come spiegazione all’enorme carico di stress, che le donne (specie quelle sposate) non avevano modo di sfogare, se non facendosi passare appunto per “isteriche”. I medici sostenevano che fosse dovuta agli umori maligni derivati dal malfunzionamento dell’utero e che quindi l’unica soluzione all’isteria fosse l’orgasmo. Yes, avete capito bene, l’orgasmo! Adesso comprendete, quando, notando una donna particolarmente nervosa, si scherza dicendo: “Ah, ieri notte il marito non l’ha soddisfatta?” E’ il retaggio di queste teorie mediche ottocentesche!

Punto secondo. In maniera assolutamente discreta – anche perché, lo veniamo a sapere da una terza persona, che comunque ha un certo pudore nel scriverlo – ci sono degli accenni a relazioni incestuose. Ora! Prima che mi chiudiate la pagina, sappiate che NON è tra Itachi e Sasuke. Fiuh! Preso un bel respiro? Okiz, proseguiamo. I matrimoni tra parenti – anche molto stretti – non erano una novità all’epoca: più che per il cognome, servivano a mantenere quanto più possibile unito e intero il capitale di famiglia o le terre, in caso i soggetti in questione fossero anche stati dei proprietari terrieri. Matrimoni tra cugini – perfino primi – o addirittura tra zii e nipoti erano cose che succedevano e il secondo caso aveva luogo se la “sposa” non riusciva a trovare marito entro la “giusta età”. Ergo, si ritrovava spesso a fare da badante ad un vecchio bavoso. Inoltre, all’epoca era molto raro il concetto moderno di famiglia mononucleare; al contrario, quella patriarcale era più diffusa. Magari non si aveva l’intero clan in casa, ma minimo i genitori del marito sì. Di conseguenza, spesso e volentieri si scivolava in relazioni ambigue a discapito, purtroppo, delle donne e dei bambini.

Punto terzo. I bambini. Se avete letto una qualche opera di Charles Dickens, sapete cosa aspettarvi in quanto a metodi educativi. Il metodo Montessori ancora non esisteva e tutti convenivano dicendo, che le punizioni corporali – sia a scuola che a casa - fossero assolutamente necessarie per lo sviluppo del bambino. Sculaccioni sul sedere? Troppa grazia Sant’Antonio! Cintura, canna di bambù, bastone da passeggio, inginocchiarsi sui sassolini ... brrrrr …

Punto quarto. Per sottolineare il sermo diverso delle varie classe sociali e soprattutto la diversa cittadinanza (Konoha vs. Kiri) ho messo delle parole in dialetto veneziano. Spero di non offendere nessuno, ma mi sono divertita a scriverle! Anche perché la storia si basa su di una leggenda veneziana, quindi mi pareva giusto darle un minimo di credito, no? XD Siamo in Giappone solo per sentito dire! XD Vabbé, non che nei manga giapponesi che trattano di storia europea, loro siano più accurati! Vendetta, vendetta, muhahhaha ;-)

Voilà i punti salienti, spero ardentemente che li abbiate letti, non vorrei fare copia in colla in caso dovessi trovare una critica, che mi chiede conto di quanto appena spiegato sopra!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle infaticabili Jooles e Sagitta72! Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Buona lettura!

 

 

 

 

H.

P.S Adesso che ho capito come si fa, ho caricato delle immagini su ciascun capitolo! Ganzo, eh?

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Fuggire dall’ospedale non era stato un problema per Naruto: grazie all’esperienza acquisita nel suo lavoro, aveva ben imparato ad intrufolarsi e a sgattaiolare via dai posti più disparati e in situazioni ben più assurde. Del resto, gli era bastato leggere una sola pagina del piccolo diario, che aveva portato seco, per convincersi a partire alla volta di Kiri anche senza averlo terminato. Per una volta la fortuna l’aveva assistito e l’evasione del giovane commissario era stata un successo, così come l’aver trovato la coincidenza perfetta per il treno.

Fu dunque lì, nella solitudine di uno scompartimento vuoto, che Naruto proseguì nella lettura.

 

 

 

All’inizio, Itachi ed io eravamo inseparabili.

Lo amavo e al contempo lo invidiavo profondamente.

Mio fratello sin dalla nascita non era stato benedetto da una salute di ferro: al contrario, era più il tempo che trascorreva nella sua stanza sterilizzata dai vapori di acqua e aceto, che altrove. Il medico sosteneva che fosse debole di polmoni ed in effetti ancora mi sembra di poter annusare nell’aria il profumo dei continui decotti di salvia ed eucalipto finalizzati a placare la tosse e il mal di gola, che spesso lo affliggevano. Lui stesso emanava siffatto odore.

Nondimeno, non era questo il cruccio principale della mia famiglia. Certo, un figlio malaticcio non corrispondeva esattamente ad una goduria, però non era nulla che non si potesse risolvere, magari mandandolo o in montagna o al mare a respirare aria buona e pulita.

No.

L’essere tossicoloso era solo la ciliegina sulla torta: mio fratello – e noi con lui – nascondevamo un segreto ben peggiore.

Una deformazione fisica. Un motivo di vergogna e timore per la nostra famiglia e la condanna di Itachi a rimanere segregato in casa, anche se avesse sprizzato salute da ogni poro.

All’epoca non comprendevo niente di tutto ciò: reputazione, deformazione, malattie … non erano altro che vuoti paroloni alle mie orecchie di bambino. Quel che ai miei occhi appariva invece importante, era che grazie all’infermità di Itachi io avevo guadagnato un compagno di giochi esclusivamente per me. Per ordine di nostro padre, mio fratello non doveva assolutamente varcare i confini di villa Nakano né entrare in eccessiva confidenza con gli ospiti che ogni tanto ci onoravano di una visita. Nella sua mitezza, Itachi non aveva mai messo in discussione gli ordini paterni e aveva obbedito ciecamente ad ogni sua istruzione; forse per questo motivo i miei genitori, sentendosi talvolta in colpa nei suoi confronti, preferivano compensare quell’isolamento forzato tramite balocchi, dolciumi ed esaudendo ogni sghiribizzo che fosse saltato in mente a mio fratello, i quali non erano poi molti. Ciononostante, io, il figlio sano, me ne rammaricavo amaramente: nella mia ingenuità infantile, non comprendevo che io possedevo doni di maggior valore – salute e libertà – mentre Itachi doveva accontentarsi di miseri surrogati. Per questa cagione, incominciai ad invidiare il pianoforte a mezza coda nella sua camera da letto, il gatto rosso,  i trenini, l’intero reggimento di soldatini di piombo, le navi e i battelli, gli aquiloni … Oh, non che io non ne avessi mai avuti! Semplicemente, non trovavo giusto che Itachi dovesse riceverne più di me. E mi infastidiva quando mio fratello, perspicace come d’abitudine, me li cedesse più che volentieri: allora la prendevo sul personale, adducendo che non desideravo la sua carità e che io, un Uchiha, non avrei mendicato niente da nessuno. Di conseguenza, il mio più grande diletto consisteva nell’intrufolarmi nella sua stanza, rubargli i giocattoli, distruggerli a volte. Così come gli strappavo le pagine dei suoi libri preferiti oppure li  bruciavo direttamente nel caminetto. Poco mi importava se dopo nostro padre mi trascinava per le orecchie dalla mia camera al suo studio, calandomi i calzoncini e scudisciandomi con la ferula: la vista degli occhi neri di Itachi inumidirsi dal dispiacere attutiva il bruciore al fondoschiena. Eppure, dopo neanche due giorni di punizione, nostra madre mi apriva la porta dello sgabuzzino dove mi rinchiudevano, tacito invito a porgere le mie scuse a mio fratello. E lo facevo. Piangendo lacrime sincere lo abbracciavo, promettendogli di non macchiarmi mai più del peccato di invidia e auspicandomi il suo perdono. Lui, ricambiando il mio abbraccio, sosteneva che già mi aveva perdonato e che non mi serbava rancore. Una settimana dopo, eravamo daccapo. Però lo amavo, sul serio.

Tutto cambiò quando Itachi compì tredici anni.

Vorrei affermare a gran voce, che fu quell’episodio ad aver trasformato Itachi nella famigerata Sposa Mancata. Alas, non è così. Innumerevoli fattori lo hanno portato all’orlo del precipizio, punzecchiandolo, spintonandolo, costringendolo ad arretrare finché altra scelta non gli è rimasta che gettarsi da solo nell’abisso.

Ma tornando a noi.

Era il 31 marzo 1850 e come ad ogni Pasqua, la mia famiglia aveva invitato amici e parenti lontani (coloro che non vivevano con noi) per il pranzo. Per noi bambini era la manna, giacché gli adulti erano talmente impegnati a cicalare dei fatti loro, che manco si premuravano di rimbrottarci o di inquisire sul nostro operato. Quel pomeriggio di primavera non si sottrasse di certo ai suoi predecessori: ben nascosti nell’angolo più remoto del nostro giardino, Itachi ed io, assieme ai nostri cugini Shisui e Obito, giocavamo a mosca cieca, mentre gli adulti si crogiolavano al sole, sorbendosi il caffè. Quand’ecco, che Sayuri e Noriko, le nostre cugine prime e più grandi noi, ci raggiungessero, ridacchiando sonoramente e lanciandoci occhiate birbanti.

“Che volete, oche?”, le apostrofò Obito, raffinato come suo solito. O meglio, nel pieno della fase di crescita in cui le femmine erano il nemico, dopo l’acqua, ovviamente.

“Niente da te, sgorbio!”, gli rispose Noriko per le rime, nel frattempo che l’altra cugina nascondeva un perfido risolino dietro il ventaglio. “Siamo qui per Itachi!”, disse.

Levatosi la benda dagli occhi – era toccato a lui fare la mosca cieca – mio fratello domandò loro incuriosito: “Per me? E che desiderate riferirmi?”

“Solo questo: complimenti, cugino!”, gli risposero beffarde le due ragazze, schioccandogli un bacio sulle guance e sgonnellandosene via in un gran fruscio di stoffa inamidata, lasciandoci tutti assai interdetti.

L’arcano venne svelato il giorno dopo, il 1 aprile e Lunedì dell’Angelo, a colazione.

Ci trovavamo tutti riuniti nel gazebo, poiché il caldo rendeva la sala da pranzo pressoché asfissiante. Tanto eravamo presi dalla prospettiva di alzarci da tavola e di poter giocare in giardino, da non accorgerci degli strani sguardi che gli adulti ci lanciavano, nello specifico ad Itachi,  né tantomeno di quel loro affrettato e poco credibile congedo, finché, tra una scusa e l’altra, a tavola rimasero seduti solamente mio fratello e le donne di casa.

“Nipote carissimo”, gli annunciò la nonna “ieri pomeriggio, tuo zio Madara ha chiesto a tuo padre il permesso per poterti parlare.”

A onor del vero, Uchiha Madara era il cugino di nostro padre ma noi, per semplificarci la vita, lo chiamavamo zio.

“Con me?”, inquisì interdetto mio fratello, appoggiando la chicchera di latte fresco sul tavolo.

“Sì, tesoro”, convenne nostra madre “con te.”

A volte l’intelligenza non paga, fa dannare solamente: Itachi aveva purtroppo subito afferrato il vero significato dietro a quel verbo in apparenza innocuo.

“Ma … ma è vec- sono troppo giovane per lui!”, protestò debolmente mio fratello, lanciando delle occhiate ansiose fuori dal gazebo, sperando in una pronta fuga. “Inoltre, lui è già stato sposato … Ha pure avuto dei figli e …”

“Itachi, Itachi”, lo riprese giocosamente una nostra zia “non dovete mica sposarlo subito! Quando avrete ventuno anni!”

“Nel frattempo, sarà vostra cura conoscervi meglio!”, rincarò la dose un’altra nostra parente. “Per questo, vostro padre ha acconsentito a lasciarvi parlare!”

“Sì, è vero che è stato sposato. Nondimeno, ora è vedovo e non ha bisogno di una moglie che gli produca eredi, bensì di qualcuno che lo assista e gli faccia compagnia.”

“Ciononostante”, boccheggiò mio fratello, in cerca di una scappatoia “siamo … intendo dire, nel nostro paese il matrimonio tra persone dello stesso … sesso … non è contemplato! Quindi …”

“Hai perfettamente ragione, tesoro”, affermò nostra madre “ed è appunto per questo che le nozze saranno, come dire, informali.”

“Non voglio essere la sua concubina!”

All’udire il disperato sfogo di mio fratello, le donne risero assai divertite.

“Oh, povero tesoro! Quanto è innocente!”

“No, non sarai la sua “concubina”! Esiste una clausola che permette matrimoni dello stesso sesso, sebbene essi siano di seconda categoria rispetto a quelli normali e di sicuro meno vincolanti.”

“Pensate a tutti i benefici che otterrete da quest’unione: vostro zio ormai non ha più la pressione di generare un erede ed è poi molto ricco. Vivrete come un principe con lui, non vi farà mancare niente!”

“Ne abbiamo discusso giusto ieri e anche lui sembrava molto interessato a voi, senza contare che nutre nei vostri confronti un’altissima stima!”

“Concedetegli in questi anni di approfondire la vostra conoscenza! Magari, col tempo potreste affezionarvi a lui!”

“Chiedo alle signore il permesso di alzarmi: temo che la colazione mi sia andata in veleno”, mormorò flebilmente Itachi, mettendosi in piedi e abbandonando quelle ridenti pettegole, che avevano interpretato il suo malessere come naturale ritrosia di futura sposa.

Fedele agli annunci delle comari, lo zio Madara venne a visitare la settimana seguente villa Nakano e la palese contrarietà di Itachi a simili incontri non tardò a mostrarsi, seppur in maniera discreta e con l’ausilio di infiniti stratagemmi, primo fra tutti quello di non rimanere mai da solo in presenza dello zio. Certo, neanche due comuni fidanzati lo erano mai – c’era sempre un parente nascosto da qualche parte, che controllava che i due non combinassero nulla di disdicevole – nondimeno, lo zio stesso era riuscito a persuadere nostro padre ad avere Itachi tutto per sé, in barba alla tradizione. Di conseguenza, allo zio non piacque come mio fratello si prodigava a trattenere le persone accanto, impedendogli così di discorrere liberamente col nipote e la sua controffensiva non tardò a giungere: tramite cortesi richieste, qualche lagna a nostro padre e piccoli atti di corruzione (specie a noi bambini), lo zio Madara fu capace di creare pian piano terra bruciata intorno ad Itachi, isolandolo. A difesa di mio fratello erano rimasti solamente nostro cugino Shisui – che zio Madara non tardò a persuadere sua madre a spedirlo in collegio – e Haku, il domestico personale di Itachi e che lo zio non riusciva a comprare in alcun modo. Infatti, sebbene il ragazzo apparisse molto mite e servizievole, come tutti gli abitanti di Kiri e di dintorni, Haku ne aveva ereditato lo spirito altamente polemico e volitivo, tipico di chi non si fa comandare neanche quando deve servire. Tranne che per gli ordini di Itachi, lui faceva orecchie da mercante con gli altri della famiglia, anche a costo di subire tremende punizioni da parte di nostro padre.  Lo zio Madara non lo poteva soffrire e non mancò più volte di farlo allontanare da villa Nakano.

Trascorse un anno, durante il quale incominciò la metamorfosi di Itachi.

Prima di allora, mio fratello aveva posseduto un carattere sostanzialmente tranquillo, prono al compromesso e gentile. Col passare del tempo, esso veniva gradualmente sostituito da uno più inquieto, introverso e lunatico. Osservavo incredulo e al contempo turbato come il suo sguardo, solitamente così sereno, avesse assunto un’insana ansietà, spostando in continuazione da un posto all’altro quelle dilatate iridi nero pece con la stessa agitazione di un animale braccato. Si chiuse in un inspiegabile mutismo e quando veniva costretto a parlare, balbettava. Scattava ad ogni parola, s’offendeva per un niente, implorando subito perdono con una vocina straziante e infantile. Non volle più giocare con me e smise di suonare il pianoforte, preferendo invece chiudersi in camera sua a scrivere infinite lettere a Shisui. Quando non scriveva, rompeva tutto ciò che poteva reperire: vasellame, specchi, giocattoli, libri, quadri, etc., nulla si salvava alla sua nevrotica furia. In famiglia avevamo preso a chiamarlo “matto”, “isterico”, “posseduto”, senza tuttavia domandarci il perché di quell’atteggiamento.

Sì, non ci si doveva porre domande pericolose. Il “perché …?” non doveva sussistere. Forse, noi ignoravamo genuinamente quel che stava sopportando mio fratello. Forse, lo ignorammo convenientemente.

Infatti, non ci chiedemmo mai perché ogniqualvolta che lo zio Madara entrava in una stanza, Itachi, pallido come un morto, si affrettasse ad abbandonare la sua occupazione, adducendo una scusa per ritirarsi in camera sua? E che quando lo zio lo raggiungeva per “conferire” con lui, mio fratello scendesse a cena col volto di chi ha subito l’asportazione della sua anima?

Non ci chiedemmo mai perché Itachi avesse smesso di presentarsi ai pasti, rispedendo intatto il vassoio che Haku gli portava in camera sua?

Non ci chiedemmo mai perché le bottiglie di spiriti si stessero lentamente svuotando, accusando invece la servitù?

Non ci chiedemmo mai delle profonde e scure occhiaie sotto gli occhi di mio fratello? Non mi chiesi mai perché una notte, in cui nostro zio si fermò a casa nostra per via di un brutto acquazzone, vidi Itachi irrompere in camera mia, chiudendo a chiave la porta e supplicandomi in ginocchio di non dire a nessuno che mi trovavo lì. “Ti darò tutti i miei giocattoli, Sasuke!”, mi ripeteva in un mantra, guardandomi speranzoso, gli occhi neri arrossati. “Ti darò tutto quello che vorrai! Solo, non dire a lui che sono qui! Non rivelarlo a Maman e a Papa! Ti scongiuro, Sasuke! Abbi pietà di me! Aiutami!”, prese a singhiozzare istericamente e altro non potei fare che abbracciarlo di riflesso e di coricarlo accanto a me, sotto le coperte, similmente a quelle volte in cui mi intrufolavo nel suo letto, giacché spaventato dalla prospettiva di essere rapito dal malvagio Re degli Elfi.

Non ci chiedemmo mai perché Itachi, incurante dei pettegolezzi, in seguito a quell’episodio avesse ordinato espressamente a Haku di dormire con lui la notte?

Non mi chiesi mai che sorta di liquido contenesse quella boccetta che Itachi aveva comandato a Haku di comprare da una curandera [1] e che il giovane domestico gli aveva ceduto in gran segreto, in cucina?

E, infine, non ci chiedemmo mai il perché di ciò che avvenne il giorno del sedicesimo compleanno di Itachi? Del motivo per il quale  nostra madre dovette quasi tenerlo fermo, quando disse a nostro zio: “E sia, Madara caro. Vi permetto di baciare mio figlio. Qui”, dichiarò scherzosa, indicando la fronte di mio fratello, che assunse un’espressione da suppliziato, svenendo a momenti.

O trovammo mai una spiegazione al gesto da lui compiuto la notte stessa? Ancora mi rimbomba nelle orecchie l’urlo terrorizzato di Haku: “Oh, Sant’Erasmo de marinèri agiùto! Paron Itachi, fermève! No fé! No fé!”

Grido d’allarme che subito svegliò nostro cugino Shisui – che dormiva nella stanza in fondo al corridoio.

“Parla cristiano, Haku! E dimmi che succede!”, lo sentii berciare di rimando, mentre l’eco della sua corsa forsennata si riverberava per il piano. Tanto era stato lo spavento del giovane domestico, che s’era espresso nel suo dialetto.

“Paron Shisui! El se vol mazzare! Se vol mazzare!”

Presto, all’esclamazione di orrore di Haku si aggiunse anche quella di nostro cugino, seguita da strilli non dissimili a quelli di un agnello sgozzato.

“Lasciatemi! Lasciatemi stare!”

“Haku, tienilo fermo!”

“Mollatemi, ho detto! Faccio quello che voglio!”

“Paron Itachi, metta zò quel cortelo!”

“Lasciatemi! Lasciatemi!”

“Invece di parlare aramaico, dammi la medicina! Ora!”

“Non ne avete il diritto!”

“Sbrigati, pantegana di Kiri!”

“Sior màmara …”

“Ohé, ti ho sentito!”

“Oh no, paron Sasuke! Via, via! Drento in cànbera! Ehm, volevo dire: ritornate in camera vostra!”

“Non ci voglio tornare!”

“E voi ci dovete invece andare!”

“Voglio vedere mio fratello!”

“Ma sparisci, nano! Non renderci le cose difficili!”

“Lo dirò a Maman, Shisui, che m’hai insultato!”

“Bravo! Vai a far la spia e lasciaci soli!”

Quando lo scompiglio generale provocato da Itachi riuscì a svegliare tutti gli abitanti di villa Nakano e quando questi, ripresisi dallo choc iniziale, raggiunsero la fonte di tal baccano, trovarono mio fratello sfinito e ubriaco delle sue stesse lacrime in braccio ad uno Shisui pieno di graffi sul volto, sulle braccia e sulle mani e Haku che mi stava trascinando di peso in camera via, impedendomi di assistere a quel triste spettacolo.

Nessuno commentò. Nessuno fece niente.

«Ich liebe dich, mich reizt deine schöne Gestalt;

Und bist du nicht willig, so brauch ich Gewalt.» [2]

(Ti amo, sono incantato dalla tua bella figura / e se non sarai consenziente, allora userò la forza, ndr.)

 

 

 

Quando Naruto giunse al porto antico di Kiri, quello sul centro storico, le prime luci dell’alba stavano accarezzando languidamente la vellutata superficie del mare blu cobalto, tingendolo di un rosa a tratti vermiglio e sostituendo la sonnolenta luce grigio-azzurra delle ore appena precedenti al sorgere del sole. Era grato di essere uscito dal treno e di respirare a pieni polmoni l’aria frizzante proveniente dal mare placido: dopo ciò che aveva letto, si sentiva l’animo appesantito dai mefitici vapori dettati dal disgusto e dalla rabbia generata dall’impotenza. Non doveva stupirsi, erano cose anche fin troppo frequenti nell’Ottocento, eppure la sua mente non voleva accettare quel che i due fratelli erano stati costretti a patire, uno come vittima e uno come involontario testimone.

Quel diario non era il classico fascicolo che il giovane commissario leggeva, trovandoci spesso storie tristemente simili. Quelle, per quanto lamentevoli, mostravano situazioni che si potevano migliorare. La storia raccontata dal fratello della Sposa, invece, non suggeriva alcuna soluzione. Fatto. Finito. Quel che era stato era stato.  

Sospirando pesantemente, si passò una mano tremante tra i capelli biondi e si sedette su di una panchina, in attesa che il traghetto raggiungesse l’imbarcadero e che in seguito lo portasse  all’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, la cui silhouette si stagliava in controluce sull’isolotto poco distante dal porto.

Ingollando una grossa sorsata di caffè, Naruto riprese là dove si era interrotto.

 

 

 

Una prima significativa svolta avvenne a partire dal maggio del 1855 e incominciò dalla seguente conversazione tra nostra madre, la nonna e mio fratello.

“Tesoro, se non t’incomoda, potrei porti una domanda?”

Itachi, ormai diciottenne, sgranò dapprima gli occhi neri, come se non avesse udito la voce di nostra madre, per poi annuire stancamente, finendo con aria avvilita la sua cioccolata calda.

“Ebbene, Itachi, è successo qualcosa tra te e lo zio Madara?”

La tazza di cioccolata incontrò troppo bruscamente il suo piattino, macchiandolo del dolce liquido scuro.

“Perché mi domandate questo, madre? S’è forse lamentato di me? Vuole rompere il fidanzamento?”, inquisì ansioso mio fratello, lo sguardo per un istante illuminato di folle speranza.

La quale venne prontamente soppressa dalle rassicurazioni di nostra madre. “Oh no, niente di tutto ciò. Ecco, forse sì, un poco si è lamentato di te. Sostiene che in questi cinque anni lo hai spesso trattato con estrema freddezza, evitando ogni suo tentativo di conversazione e soprattutto restituendogli ogni suo regalo. Certo, la modestia è raccomandabile, però … concedere di tanto in tanto un sorriso … una qualche parolina gentile … una confidenza … altrimenti, tesoro, darai la falsa impressione di non volerlo sposare!”

“E se”, azzardò Itachi, sporgendosi verso nostra madre “e se fosse proprio questo ciò che desidero? Se non volessi sposare lo zio?”

“Oh, beata schiera angelica! Che barbarità stai dicendo, Itachi?”, lo rimbrottò dolcemente la nonna, scuotendo il capo. “Non ti rendi conto che è l’occasione della tua vita? Onestamente, devi pensare al tuo futuro. Vuoi rimanere solo per il resto dei tuoi giorni e accontentarti di giocare allo zietto coi figli di tuo fratello? Non desideri una casa tua? Itachi, ormai sai cosa implica la tua, ehm, deformazione, no? Non puoi pretendere di menare la medesima vita di Sasuke! Nessuna donna ti vorrebbe e molto probabilmente disgusteresti anche gli uomini. Di conseguenza, oltre allo zio, chi ti piglia?”

All’udire ciò, il labbro inferiore di mio fratello prese a tremare. “Già … chi mi piglia …”, ripeté come in trance, tappandosi la bocca per soffocare degli improvvisi e acuti risolini, i quali crebbero di volume e intensità, fino a portare Itachi a piegarsi dalle risate, la fronte appoggiata sul tavolo. Prima, però, che la nonna e nostra madre avessero avuto modo di invitarlo a ricomporsi, ecco che il riso si tramutava in un disperato pianto e le risate in singhiozzi.

“Itachi, per favore, controllati! Non è il caso di … oh, Vergine Santissima!”, esclamò spaventata nostra madre, alla vista di mio fratello lanciare un ultimo stridulo guaito di dolore, per poi cadere dalla sedia e, una volta sul pavimento, a contorcersi forsennatamente, neanche fosse stato percorso da continue scariche elettriche.

Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er mich an!

Erlkönig hat mir ein Leids getan! –

(Padre mio, padre mio, adesso egli mi ha afferrato!  / Il Re degli Elfi mi ha fatto del male!, ndr. )

 

 

In quel momento, io mi trovavo in cucina: Uzuki Yuugao, la mia governante, si stava prodigando a ricucirmi uno strappo ai calzoncini provocato da un solenne ruzzolone. Osservando l’abile andirivieni dell’ago nella stoffa, sorseggiavo serafico la mia acqua e menta, chiedendo di tanto intanto alla ragazza quanto le mancasse. Non che avessi un bisogno immediato dei miei calzoncini, però quello era il paio che più prediligevo.

Il trillo del campanello scosse tutti i domestici lì presenti dalle loro occupazioni, spronando uno a recarsi nella sala da pranzo. Venne e tornò, domandando di Haku, il quale abbandonò in tutta fretta il suo pane e latte, sparendo per due ore buone.

“Cos’è successo, Haku?”, gli domandò Keiko, un’altra nostra fantesca, al suo ritorno.

“Paron Itachi ha sofferto di una delle sue solite crisi”, replicò laconico il ragazzo, massaggiandosi stancamente la tempia destra. Parlare “cristiano”, come a Konoha tutti parevano essere assai zelanti a ricordargli, lo stancava grandemente.

“Mio fratello?”, m’informai preoccupato. “Una crisi? E quale? Sta bene? Posso vederlo?”, lo tempestai di domande, tirandolo per una manica.

“Sì, alla prima, paron Sasuke. Sì, pure alla seconda. Attacco nevrotico, alla terza. Adesso megio alla quarta e no, alla quinta. Non potete visitarlo per il momento. Ordini del medico”, soddisfò Haku paziente eppure conciso la mia curiosità. Dopodiché, si rivolse alla vecchia Ryoka, la nostra cuoca. “La parona Mikoto si chiedeva, se potevi intanto preparar pel paron Itachi un decotto di melissa. Per calmargli i nervi, dice lei.”

“Ché! Di nuovo? Pah!”, scrollò le spalle la donna, accingendosi ad eseguire la richiesta del giovane domestico. “Altro che melissa! Quello là ha bisogno di un esorcismo!”, dichiarò, segnandosi più volte. Alcuni dei servi lì presenti la imitarono tosto.

“Che sia posseduto?”, chiesi conferma a Yuugao, portandola a segnarsi anch’ella.

“Spero di no, padroncino!”

“Made!”, esclamò stupito Haku, incrociando le braccia al petto. “A che razza di stramberie state dando aria? Posseduto? Via digo, non vi fate sentire, per carità! Paron Itachi sta male, ecco tutto.”

“Ma che ha?”

“Lo sai forse, Haku?”

“Trascorri molto tempo con lui!”

Incrociando due dita alla bocca, Haku sentenziò solenne: “I servi ch’hanno giudizio, non vanno a parlare de’ fatti de’ loro paroni!” e detto questo, presa la tisana e si recò in camera di mio fratello.

Perché la parola di un servitore non valle nulla, anche contro le malefatte del suo padrone. Anzi, alla fine è proprio il domestico che paga la sua audacia, accusato di infondata vituperazione e calunnia.

 

 

 

“Ti ringrazio infinitamente, cugino, per aver esaudito la mia richiesta”, esordì Itachi il suo discorso, osservando Haku di sottecchi mentre questi, servito il tea e la Victorian Cake, si sistemava nell’angolo più remoto della stanza, assumendo l’espressione vacua di chi fingeva di non sentire.

Cinque giorni dopo l’attacco isterico, mio fratello aveva potuto lasciare il letto, senza tuttavia uscire dalla camera da letto: il dottore gli aveva sconsigliato ogni sforzo inutile, sollecitandolo piuttosto a riposarsi. Così, lui ed io trascorrevamo la maggior parte del tempo nel suo boudoir, mio fratello in vestaglia e allungato sulla chaise longue e io sulla poltrona accanto, leggendogli ad alta voce di tanto in tanto un libro. Passatempo che io trovavo assolutamente barboso, ma che tuttavia giovava assai ad Itachi, giacché, anch’egli annoiato, si addormentava, cullato dal mio orrido francese.

Quel pomeriggio, però, nostro cugino Shisui venne a trovarci, certamente su invito di Itachi. Preso posto scandalosamente ai piedi della sua chaise longue, invece che sulla poltrona (il cugino aveva sempre tratto un perverso gusto a sfidare le buone maniere), egli s’informò dapprincipio sulle condizioni di salute di mio fratello, il quale lo ringraziò per l’interessamento, sostenendo che stava migliorando per quanto fosse tormentato all’occasione da delle fastidiose vertigini.

“Bagni di mare, cugino caro”, gli consigliò Shisui, dopo aver ascoltato attentamente il resoconto di mio fratello. “Sono un ottimo rimedio per le vertigini. O almeno così affermano i medici. A mio avviso, ti saranno utili come scusa per allontanarti da qui per un po’ di tempo.”

Mio fratello sospirò, accarezzando pensoso il gatto rosso sul suo grembo. “L’idea non mi dispiacerebbe, Shisui. Purtroppo, però, sia mio padre che lo …”, deglutì “zio convengono quanto sia meglio tenermi in casa, così da evitare ogni possibile ricaduta.”

“Oh, una scusa convincente la si trova sempre, Itachi!”, sogghignò nostro cugino, così come soleva fare da bambino, quando aveva ideato una marachella ai danni degli adulti. “Ti ricordi, cugino, della signorina Nohara Rin?”

Sia mio fratello che io arcuammo intrigati il sopracciglio. Cos’era quel repentino cambio di argomento?

“Sì … che mi dici di lei?”

“Ebbene, mio fratello Obito nutre un certo interesse nei suoi confronti e i genitori di lei sembrerebbero approvare siffatte attenzioni. Nondimeno, prima di annunciare ufficialmente il loro fidanzamento, a Obito piacerebbe conoscere meglio la ragazza, poterle parlare liberamente a tu per tu, senza tuttavia creare infamanti dicerie. I signori Nohara tengo estremamente al decoro. Mi segui?”

“Sì …”

“Bene, perché avremo bisogno dell’aiuto tuo e dalla piccola pulce”, gli rivelò con fare cospiratore, accennando a me con un lieve cenno del capo.

Aggrottai indispettito la fronte: Shisui aveva un modo tutto suo per dileggiarmi, appellandomi nei più disparati modi. E ciò che mi irritava maggiormente, era il fatto che Itachi trovasse i suoi lazzi divertenti.

“Del mio aiuto? Di Sasuke? Come?”

“Ti ricordi della nostra lontana parente, la signorina Terumi?”

“Mei? Certo, seppur vagamente.”

“Ecco, ha deciso di prendere i voti.”

All’udir ciò non riuscii a trattenermi dall’esclamare: “Si fa suora? Non l’avrei mai detto! Mi era sempre parsa assai volitiva e energica per chiudersi in un convento!”

Mi sovvenivo molto bene di quella giovane rossa, che si diceva possedere in corpo tutti i sette diavoli di Maria Maddalena. Figurarsi: figlia unica, figlia per di più della vecchiaia, ovvio che non le facesse paura manco il demonio in persona e che fosse abituata a comandare gli altri a bacchetta! Ne sarebbe venuta fuori una portentosa badessa, altroché!

“Eppure così va il mondo e per quel che mi riguarda, lei può anche andare al diavolo!”

“Shisui!”, lo riprese Itachi, elargendogli a mo’ di punizione un colpetto alla coscia col piede.

“ Perdono cugino. In ogni modo, importa il fatto che Mei sia la migliore amica di Rin: da piccole entrambe hanno infatti studiato nello stesso convento dalle suore. E quale miglior occasione, se non questa, per avvicinare Rin? Di sicuro parteciperà all’entrata ufficiale dell’amica in monastero!”

“Sì, ma cosa centriamo noi?”

Shisui roteò gli occhi melodrammaticamente. “Se Obito dovesse recarsi a Kiri da solo, la gente capirà subito che si reca a corteggiare Rin. Se ci andassimo solo mio fratello ed io, sarà palese che uno dei due gioca alla donna – o nel nostro caso, uomo – dello schermo. Invece, se ci recassimo tutti a Kiri, sembrerà una semplice gita di famiglia. Che te ne pare? Non l’abbiamo azzeccata? Inoltre, Itachi, considerala anche come un’occasione per respirare un po’ d’aria buona e soprattutto per scrollarti di dosso certe … patelle!”, gli annunciò trionfante il ragazzo e attendendo una nostra risposta.

Dal canto mio, ero più che entusiasta di partire alla volta di Kiri, di cui avevo dei bellissimi ricordi. Mi mancavano molto le lunghe passeggiate sulla spiaggia, l’aria salmastra, l’incessante canto dei gabbiani, i bagni e soprattutto le frittelle della signora Yuki – o Mamma Haruhi – un  tempo nostra balia e madre di Haku.

Anche Itachi condivideva le mie medesime aspettative e il luccichio nei suoi occhi tradiva palesemente l’enorme voglia di poter trascorrere l’estate lontano da villa Nakano.

“Dovrò chiedere il permesso a mio padre …”

“Non ti preoccupare: penserò io a tutto! Sai quanto lo zio Fugaku mi ami alla follia!”, scherzò Shisui, le cui orecchie in realtà ancora bruciavano da tutte le volte, che nostro padre lo aveva rimproverato e punito per le sue infinite monellerie, lamentandosi poi con sua madre per non essersi risposata dopo la morte di zio Kagami, così da fornire sia Obito che Shisui di una figura paterna e autoritaria, che li avrebbe messi finalmente in riga, al posto di crescere allo stato brado, com’era solito nostro padre descrivere l’educazione impartitali dalla madre.

In ogni modo, la proposta del cugino parve aver sortito il suo effetto: per la prima volta dopo molto tempo, vidi Itachi sorridere genuinamente spensierato, rallegrandomene anch’io.

Alas, la sorte congiurò di nuovo contro di noi.

Due mesi dopo quel discorso, il colera scoppiato nel frattempo a Kumo e ad Iwa raggiunse anche Konoha, mietendo molte vittime.

Tra cui anche Shisui.

Per un anno Itachi smise di parlare, entrando in una depressione nera.

 

 

 

“Sior!”

Codesto richiamo giunse tanto inaspettato, che il diario per poco non cadde di mano a Naruto, finendo così in mare. Ricompostosi fretta, il bionde mise nella borsa a tracolla il suo prezioso quadernino, balzando giù dalla panchina e raggiungendo il traghettatore, il quale l’aspettava all’imbarcadero tra il divertito e lo spazientito.

Erano le sette e un quarto del mattino e l’alba ormai aveva ceduto il posto alla mattina vera e propria.

“Mi scusi”, si cosparse Naruto il capo di cenere, osservando preoccupato l’acqua profonda e inquieta a qualche centimetro dal suo piede. “Ero sovrappensiero …”

“E bondì anche a lei, sior”, lo salutò il giovane dai capelli biondo-rossicci, arricciando le labbra in un mezzo sorriso birbante. Con tutti quei piercing in faccia, poi, sembrava un teppista, se non proprio un galeotto.“Dormito male?”, s’informò, tendendo la mano a Naruto, che questi afferrò saldamente per entrare nella snella imbarcazione, la quale oscillò un poco, provocando una piccola vertigine nel commissario. “Si sieda ai lati, accanto ai siori e non si preoccupi: la nostra putèla non si capovolge! Non sempre, almanco!”, scherzò, mescolando alla lingua standard parole di dialetto.

Sedutosi rigidamente accanto agli altri quattro passeggeri, Naruto si sentì molto stupido per aver esternato sì platealmente il suo timore.

“E dov’è diretto?”

“All’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara!”

“Ma a quest’ora xè chiusa alle visite!”, obiettò il traghettatore.

“Non mi reco lì per scopi turistici”, replicò sibillino Naruto. “Bensì per … una ricerca.”

Gli occhi azzurri del giovane squadrarono a lungo il biondo, chiaro segno che non gli credeva interamente. Nondimeno, fischiò al suo collega l’ordine di incominciare a remare, mentre lui aiutava l’imbarcazione a scivolare via dalla banchina appoggiandosi alle paline.

Estraendo lentamente il diario, il giovane commissario ingollò l’aria salmastra – diamine, adesso scopriva che soffriva di mal di mare? – e riprese a leggere.

 

 

 

In seguito alla morte del suo cugino preferito, gli attacchi nevrotici di Itachi mutarono in apatia e se già all’inizio egli si esprimeva a monosillabi, adesso ci sembrò che la lingua gli si fosse seccata in bocca e che mio fratello avesse assunto la medesima vitalità di un automa. Non si sottraeva più alle visite dello zio, onorandole in silenzio e con lo sguardo vuoto di chi era altrove con la testa. Mantenne poi il lutto completo anche dopo i tre mesi di prassi per gli uomini, invece di sostituire l’abito scuro con la più comoda fascia nera al braccio per i restanti nove mesi.

Le letture di Itachi subirono inoltre un inquietante dirottamento: curiosando nella sua libreria personale, scoprii che mio fratello aveva sviluppato un morboso interesse nei confronti dello spiritismo e di pratiche esoteriche e sfogliando i numerosi libri e articoli di giornale, notai che si stava concentrando prevalentemente sul richiamo degli spiriti dall’Aldilà, come evocarli e parlare con loro. Alla lettura dei contenuti di quegli scritti mi vennero i sudori freddi e per la prima volta realizzai, che un qualcosa di sinistro si stesse insinuando nell’animo di mio fratello, lui di solito così calmo e razionale. Così, pieno d’ardore preadolescenziale, mi prefissai di sottrarre Itachi a quelle idee perniciose, esaudendo l’ultimo favore che Shisui aveva intenzione di fargli, ergo portarlo a Kiri. Del resto, il colera aveva sconvolto anche le nostre esistenze, sospendendo ogni attività e solo dopo un anno potemmo lentamente riprendere il normale corso delle nostre vite.

Trovai un’ottima alleata in Rin, ora fidanzata ufficiale di nostro cugino Obito. Quest’ultimo si era fatto avanti solamente al termine del periodo di lutto contemplato per la morte del fratello e sempre con qualche ritrosia. Rin, con abile civetteria, convinse il fidanzato ad accompagnarla per qualche tempo a Kiri, affermando che le mancava terribilmente la sua migliore amica e i parenti lontani. Gli stessi signori Terumi si dimostravano più che disponibili ad ospitarci per l’estate. Fu un lungo lavoro di persuasione, ma alla fine nostro padre cedette e la mattina di Pentecoste del 13 maggio 1856 la carrozza per Kiri ci aspettava impaziente, carica fino a scoppiare dei nostri bagagli.

L’accoglienza dei signori Terumi fu grandiosa, degna del loro status della famiglia più altolocata di Kiri (e non a caso erano lontanamente imparentati con noi). Non trascorreva giorno, che Madame Yurika, la madre di Mei, non ci organizzasse un tea con dei suoi conoscenti; una serata concertistica in casa sua (addirittura una volta un ballo privato); una gita fuoriporta, ad esempio ad Ame, o una gita in barca. Di tanto in tanto Mei ci onorava della sua presenza, ottenendo da brava capricciosa e testarda il permesso dalla madre superiora di uscire dal convento. Mi faceva uno strano effetto vedere quella che chiamavano la Basilissa di Kiri, sempre così elegante e raffinata, vestire di un umile saio nero e il lungo velo bianco da novizia; all’inizio molti avevano creduto che il suo gesto fosse stato dettato dalla noia o dalla sua perenne volontà di stupire. Invece, notando una certa pacatezza nel parlare e nell’atteggiarsi ora più dolce, compresi che la sua vocazione era sincera, sebbene seguitasse ad essere comunque spaventosa, quando s’arrabbiava, e regina indiscussa del “voglio e posso”.

Malgrado i notevoli sforzi dei nostri anfitrioni, mio fratello non prese parte a nessuno degli svaghi da loro proposti e del resto, per una persona che aveva trascorso gran parte della sua vita in casa, confrontarsi con così tanta gente ed essere sballottato di qua e di là gli risultava piuttosto difficile da sopportare, stancandosi conseguentemente. Eppure, il sollievo di vedere rifiorire il rosato sulle sue guance smunte e di sentirlo nuovamente conversare con gli altri non me lo levò nessuno e non mancai di scriverlo a Maman nelle nostre lettere, essendosi la genitrice molto raccomandata con me di tener d’occhio mio fratello. Inutile dire quanto ne gongolassi, orgoglioso di quell’importante incarico. Mi sentii d’un colpo più maturo e responsabile.

Sfortunatamente per le mie velleità di crocerossina, mio fratello conosceva bene l’arte di scapparmi via da sotto il naso.  

Itachi coltivava, infatti, l’abitudine di alzarsi molto presto la mattina e di pigliare con sé Haku (da solo non usciva mai) per delle lunghe passeggiate lungo la promenade principale in riva al mare e talvolta sulla spiaggia stessa. Dopodiché, al ritorno i due viravano nel centro cittadino, porgendo una visita a Mamma Haruhi, la quale li tratteneva per ore e ore, riempiendo Itachi di frittelle – che prontamente divideva con me – e di raccomandazioni circa il nutrirsi adeguatamente. Infine, rientrati a casa, mio fratello si rinchiudeva in camera sua, magari sul balcone, ripresentandosi solo ai pasti. Avendo difficoltà a dormire – così lui si giustificava – soffriva di frequenti emicranie e preferiva rimanere al buio. A noi dispiaceva questa suo essere scostante, tuttavia non potevamo di certo obbligarlo a prender parte alle nostre attività. Tranne che le serate all’opera, oh, allora sì che Itachi veniva! Peccato, che l’opera e il teatro fossero proprio gli unici svaghi in cui mi annoiassi grandemente. 

Seguimmo questa tabella di marcia per settimane, senza particolari variazioni.

Fino a quel giorno.

Era il 9 giugno 1856 e mio fratello festeggiava i suoi diciannove anni; ciononostante, come tutte le mattine, si levò molto presto, indossò i suoi abiti neri da lutto, chiamò Haku e, con i corpo solo una tazzina di cioccolata, uscì di casa per la sua abituale passeggiata mattutina, in barba ai piccoli peccatucci e licenze che si concede, quando si compiono gli anni. Più rigido di un maresciallo prussiano, Itachi seguì inflessibile l’ormai consolidato programma.

Quand’ecco che, sulla via del ritorno, passando per la pescheria uno degli affaccendati pescatori si accorse tra la folla di loro due, chiamando di conseguenza a gran voce Haku, finché questi, accortosi, ricambiò il saluto assordando per poco mio fratello. Rumorosa abitudine di Kiri! Alla domanda di Itachi circa l’identità del pescatore, il giovane domestico gli rivelò tutto d’un fiato che si trattava di Momochi Zabuza, uno che da un po’ di tempo gli faceva la corte.

“E se lui dovesse chiederti di sposarlo, accetteresti?”, gli chiese lentamente mio fratello, fissando a lungo il ragazzo, che replicò pragmatico:

“E perché no, paron Itachi? De diana, mica m’attacco con un battellaio! Zabuza possiede una casa sua, due tartane e ha gente che lavora per lui. Sa leggere e scrivere e ci conosciamo da quando io ero una creatura! Pensate, paron, che a Santa Caterina c’ha regalato una cesta piena di canocie e in primavera di moeche! [3] La mia mama m’ha detto, che se non fosse tanto vècia, lo sposerebbe lei!”

“Solo per questo saresti disposto a  divenire, ehm, il suo consorte?” Per uno appartenente all’aristocrazia, trovare appetibile un soggetto come Momochi Zabuza gli risultava assai arduo, se non proprio inconcepibile. Nondimeno, Itachi dedusse che per Haku, per il suo strato sociale, la sua educazione e il paese d’origine, egli corrispondesse ad un buon partito. Si aggiunga poi che a Kiri il matrimonio tra le persone dello stesso sesso valeva tanto quanto quello eterosessuale e il gioco valeva la candela.

“No, paron, non solo. Ammetto che mi piaccia e anca molto”, arrossì il ragazzo. “Sennò, mica gli permettevo di baciarmi, la domenica dopo la funzione!”

Le orecchie di Itachi divennero rosse. “Tu … tu l’hai baciato?”

“Sì ben, paron, e più volte! Oh, viva diana! Altrimenti, me lo prendeva ’n altro! Come faceva a capire, che m’interessava? Non vi baciate, voialtri siori?”, si giustificò Haku, interdetto dalla moralistica incredulità di mio fratello. “Però v’assicuro, che le chele le ha ben tenute in tasca, veh! Sono un putèlo onorato, io!”, lo rassicurò così solennemente, che sulle labbra fini di Itachi si curvarono in un malinconico sorriso.

“Allora, non farlo aspettare”, lo incalzò mio fratello, accennando all’uomo con un discreto cenno del capo. “Vai a parlare con lui!”

Il viso di Haku s’illuminò. “Daséno? Posso?”, disse, per poi mordicchiarsi a disagi il labbro inferiore. “Ma voi?”

“Tornerò a casa da solo, ormai conosco la strada. Prenditi la giornata libera”, gli offrì generosamente Itachi, osservando mesto come Haku si era lisciato i capelli e i vestiti prima di raggiungere Zabuza e di come il suo viso si fosse tramutato in un bocciolo di rosa, tanto le guance imberbi del ragazzo s’imporporavano di lusinga e affetto mentre cicalava con l’uomo, il quale, malgrado la grossa stazza e le forti mani ruvide, rosse e callose, trattava il giovinetto con tale garbo, che pareva avere tra le mani un cristallo di Boemia.

Chissà, magari in quel momento Itachi, osservando in disparte la scena, dovette aver provato una grande invidia nei confronti del suo domestico, così felice e spensierato nel suo amore e corteggiato da un uomo sì di umili origini, ma che lo rispettava.

E forse fu proprio con l’immagine dei due sorridenti e complici, che mio fratello deviò dal consueto percorso, dirigendosi invece verso e la spiaggia e, una volta lì, sedendosi sulla morbida sabbia ancora fresca e catturando distrattamente i granchietti che si nascondevano sotto di essa, per poi liberarli subito dopo.

In quello stato di incantamento dovette mio fratello essere rimasto piuttosto a lungo, giacché non s’accorse della marea che ingoiava avida la spiaggia man mano che il sole si alzava, né avvertì egli l’acqua lambirgli le scarpe e i vestiti. Continuava a rimanere rigidamente seduto in quella posizione, le ginocchia al petto e lo sguardo fisso davanti a sé, incurante di ciò che lo circondava, immerso nella solitudine del meriggio.

Fu quando l’acqua gli sfiorò il naso, che una forte presa per le ascelle lo issò in piedi, trascinandolo in un rumoroso scroscio a riva, o almeno così sperava di fare il soccorritore, poiché Itachi, ripresosi dall’attimo di confusione, si divincolò prontamente dall’altro, indietreggiando scompostamente e perdendo l’equilibrio, fino a cadere di nuovo in acqua in un sonoro tonfo. 

“Varé là, non fate storie!”, gli offrì lo sconosciuto la mano, onde rialzarsi. “A mollo non si sta bene!”

Per tutta risposta, mio fratello con un brusco e ampio movimento del braccio creò una piccola onda, che lavò completamente il viso dell’uomo.

“Rinfrescante!”, commentò quegli sarcastico, asciugandosi il volto gocciolante. “Via matto, datemi la mano!”, disse gentilmente, sporgendosi per afferrare quella di Itachi, che invece schiaffò via la sua, allontanandosi da lui come un’aragosta. “Se siete duro di testa, strambazzo!”

“Non mi toccate!”, berciò mio fratello, distanziandosi ulteriormente dallo sconosciuto, il quale levò in alto le mani, senza tuttavia accennarsi a lasciarlo da solo.

“Sta ben. Non vi tocco”, replicò cauto l’uomo. “Tuttavia, vogliate avere l’amabilità di rialzarvi e di tornare a riva!”

“Posso farlo benissimo anche senza la vostra supervisione! O dovete per forza controllarmi?”

“Nel vostro caso, temo di sì.”

“Aria, non siete né la mia balia né tantomeno mio padre! Non accetto ordini dagli estranei!”

“Nessun ordine, ve l’assicuro”, lo tranquillizzò serafico lo sconosciuto. “Solo un consiglio: essere mangiato vivo dai granchi non è una bella morte!”

Gli occhi di mio fratello si ingrandirono, sorpresi. “Come, prego?”

“Non lo sapete? In tempi antichi, una punizione molto frequente qui a Kiri consisteva nel legare il condannato ad un palo, fargli un piccolo taglio e lasciarlo lì, in attesa dell’alta marea e in balìa dei granchi. Macabro, nevvero?”

Evidentemente sì, poiché Itachi scattò in piedi e, crocifiggendo con lo sguardo il suo soccorritore, si diresse piccato sul bagnasciuga, borbottando tra i denti: “Siete un individuo ripugnante …”

L’uomo aprì la bocca per replicare, per poi chiuderla all’ultimo momento, limitandosi a scuotere il capo e a ridacchiare tra sé e sé. “Lustrissimo!”, salutò mio fratello, abbozzando ad un inchino.

Itachi non lo degnò di una parola, proseguendo inviperito e bagnato fradicio verso casa.

Fu la prima espressione “viva” che gli lessi in volto dopo un anno.

 

 

“E mi dica, di dove xéla?”

Sull’imbarcazione erano rimasti solamente Naruto e il traghettatore, il primo in un lieve stato di dormiveglia: complice la notte trascorsa in bianco e l’ora piacevole dondolio delle onde, gli occhi celesti del biondo si erano gradualmente chiusi e fu forse per questo motivo, onde evitare che cadesse all’indietro in acqua, che il rematore aveva attaccato bottone con lui, svegliandolo di conseguenza.

“Eh? Scusi? Che ha detto?”

Sbuffando sonoramente, il giovane ripeté snervato: “Di dove xéla?”

“Potrebbe parlare cristiano, per favore?”, lo pregò Naruto, sinceramente disorientato da quel dialetto cantilenante e sibilante e stufo di capire trequarti di quel che il traghettatore gli stava dicendo.

Peccato che la sua richiesta tinse di rosso le gote dell’altro e non ti imbarazzo. “Debòto le dago un “parlare cristiano” su la copa!”, lo minacciò neanche troppo velatamente.

E io pensavo che la gente scherzasse, quando affermava che quelli di Kiri  e di Ame fossero permalosi!, cogitò apprensivo Naruto, indovinando cosa “copa” potesse significare e, giudicando i pochi centimetri di legno che lo separavano dall’acqua, era meglio non contrariare eccessivamente il giovane pel di carota.

“Ehm, vengo da Konoha!”

“Daséno?”, strinse gli occhi il traghettatore, sospettoso. “E che è venuto a fare qui? Quale ricerca? È uno storico?”, si sforzò di conversare nella lingua standard. Evidentemente, teorizzò il biondo, voleva una risposta certa a quelle sue domande. “Un giornalista?”

“Sono un commissario!”

“Ah”, fece il giovane pensieroso. “Nisùn cuà xé sta copà!”

“Eh?”

“Ammazzato! Nessuno. È . Stato. Qui. Ammazzato!”

“Non sono sordo! E comunque, non sto indagando su di un omicidio!”, obiettò Naruto, massaggiandosi le orecchie. Accidenti, se prima aveva sonno, in seguito a quell’ululato si sentiva anche fin troppo sveglio! “Sto conducendo delle ricerche circa la veridicità di una certa ballata! Quella …”

Il viso pieno di piercing del giovane assunse lo stesso colore della cenere. “Sì, sì! Gh’ho capìo! Ho capito! Non entri nei dettagli! So ben a quale “ballata” si riferisce, savéu?”, lo interruppe e il biondo, avvertendo un certo scossone, intuì che avesse accelerato con la voga, pur di accorciare la distanza che li separava dall’Abbazia.

Silenzio.

“Gh’ha la novisa? La morosa?”

Naruto annuì. “Certo e oggi in teoria dovevamo convolare a nozze. Tuttavia, abbiamo incontrato alcuni impedimenti e non …”

“Sì, sì”, lo interruppe di nuovo il traghettatore, vogando con maggior lena. “Ed è per questo, che lei vuole andare all’Abbazia? Che spera di trovare?”

“Spero di trovare qualcuno che mi parli della Sp- …”

“Tasé là, matto!”, lo zittì il traghettatore, sputando immediatamente in mare a mo’ di scongiuro. “Non la nomini! Me vol far preçipitàr?”, gli chiese quegli severamente.

“Anche lei ha paura della … avete capito, no?”

“Tutti ne hanno, sior màmara!”, sentenziò il giovane, chiudendo definitivamente la conversazione. “Che domande da papagà!”

 

 

 

Trascorsero tre giorni dal primo incontro di Itachi e di colui che sarebbe stato la croce e la delizia della sua vita. Incontro, che notai aver in qualche modo impressionato mio fratello a giudicare dalla fronte aggrottata di chi stava rimuginando sopra un affare rognoso o dall’improvvisa quanto inspiegabile interruzione delle sue passeggiate mattutine. Alle mie incessanti richieste sulla fonte di tale singolare comportamento, Itachi replicava laconico che s’era imbattuto in un moscone piuttosto fastidioso.

Ci si poté ben immaginare la sua sorpresa quando lo rivide tre giorni dopo e sempre senza previo avviso.

Quel pomeriggio i signori Terumi, i miei cugini ed io eravamo stati invitati dai signori Haruno, anch’essi in villeggiatura a Kiri, a prendere un tea. In tutta onestà, all’epoca non rimasi molto entusiasta all’idea di dover trascorrere quasi quattro ore in compagnia della loro figlia, Sakura, che dall’alto dei miei quattordici anni trovavo assai noiosa e petulante. Ancora un anno e avrei cambiato repentinamente opinione.

In ogni modo, Itachi declinò la nostra offerta di venire con noi dagli Haruno, sostenendo di essere un poco affaticato dal caldo e che preferiva riposare qualche ora in camera, confortato dalla frescura del buio. Al contrario, i vapori bollenti provenienti dalla strada s’infiltrarono facilmente in casa, rendendogli impossibile il sonnellino ristoratore. Così, bagnatosi dietro il collo, rinfrescatosi il viso e cambiatosi gli abiti, mio fratello scese al pianterreno con un libro sottobraccio e s’immerse nella lettura, dimentico del trascorrere del tempo.

Nello stesso istante in cui la pendola suonava le sei e un quarto, un persistente battito alla porta distolse mio fratello dalla pagina del libro, persuadendolo a levare il capo e a cercare con lo sguardo un domestico, che andasse ad aprire la porta. Non trovandolo, Itachi sospirò e, appoggiato il libro, si recò lui stesso ad aprirla, spalancando sconcertato gli occhi quando il viso del suo soccorritore occupò prepotentemente la sua visuale. 

“Bondì, sior. Stavo cercando …”

“Non sono il domestico!”, gli ricordò Itachi in un sussurro, seguitando a fissare l’uomo come se si trovasse dinanzi ad una bestia rara.

“Sì, l’avevo capito”, liquidò l’altro la faccenda con un brusco svolazzo della mano. “Posso almeno entrare?”

Senza proferire alcun motto, Itachi gli cedette il passo, o meglio, lasciò la porta aperta e abbandonò l’uomo alla soglia, tacito invito ad entrare e a chiudere da sé la porta. Inoltre, la strategia di mio fratello contemplava una fuga strategica in camera sua, così da evitare imbarazzanti conversazioni; tuttavia, il nuovo arrivato lo raggiunse abbastanza velocemente da domandargli, bloccandolo:

“Sto cercando sior Terumi! Sapete se sia in casa o meno? In virtù di suo ospite, ovviamente”, aggiunse, in modo da sottolineare che aveva compreso e accettato lo status sociale di mio fratello, che, appollaiatosi dietro lo schienale di una poltrona, rispose atono:

“I signori Terumi sono ospiti dai signori Haruno.”

“Ah”, fece pensoso l’uomo. “E pressappoco non avete un’idea, verso a che ora potrebbero ritornare?”

“No”, dichiarò Itachi, trovando un grande interesse sui ricami dello schienale, invece che alla contemplazione del viso dell’ospite. “Tuttavia sono quasi le sei e mezza e certamente potrebbero rincasare da un momento all’altro.”

“Siete rimasto quindi solo in casa?”

Mio fratello strinse le labbra in una linea dura.

“Vi dispiace se lo attendo per una decina di minuti?”

Itachi non disse nulla.

“Potrei almanco sedermi?”

Mio fratello scrollò le spalle.

“Lo prendo come un sì”, sentenziò l’uomo, prendendo posto. “Ah, non siete obbligato a tenermi compagnia”, aggiunse poi, arricciando divertito la bocca, quando Itachi si sedette invece anch’egli, seppur a debita distanza da lui, ripigliando in mano il suo libro e sforzandosi a riprendere la lettura interrotta.

Nessuno dei due aprì bocca per i venti minuti che seguirono, eleggendo i ticchettii della pendola ad unico rumore presente nel salotto. L’unico scambio di battute che si concessero fu l’offerta di un bicchiere di limonata da parte di Itachi, che il nuovo arrivato rifiutò cortesemente, traendo maggior diletto a spiare di sottecchi la figura di mio fratello che, seduto ritto come un fuso, leggeva ormai per la trentesima volta la stessa riga. 

Ignoro cosa entrambi avessero potuto pensare in quegli attimi; ciononostante, posso figurarmi – considerati anche gli eventi che seguirono – il modo in cui a sua volta Itachi studiò di nascosto le fattezze dell’uomo e non con la sua consueta posa rigida e tesa, come quando lo zio Madara veniva a visitarlo, rimanendo solo con lui o in salotto o nel giardino d’inverno.

Nessun affanno o nervosismo sfigurava i lineamenti del suo viso.

Fastidio. Disagio. Sdegno. Imbarazzo, ecco cosa vi si sarebbe potuto scorgere.

Curiosità.

Interesse?

Sentimenti contrastanti, che lo spingevano a cambiare costantemente posizione sul divano, così da osservare con comodo e tuttavia discreto l’ospite, il quale di sicuro se ne accorse, ma lo lasciò fare.

E fedele alla parola data, quest’ultimo alle sette meno qualcosa si alzò dalla poltrona, prontamente imitato da Itachi. “Bene”, esordì l’ospite, ripigliando il fascicolo che aveva portato seco. “E’ evidente che sior Terumi non rincaserà troppo presto. Poco male, ripasserò un altro giorno”, annunciò più a se stesso che a mio fratello, che lo ascoltava più muto di un pesce. “Temo che dovrò prendere congedo da voi. Che sollievo, nevvero?” e se la frase voleva suonare sardonica, in realtà venne proferita con tale cortese tatto, che costrinse mio fratello ad abbassare per un istante lo sguardo, dirottandolo altrove onde celare un pizzico di vergogna per la sua sgarbatezza e un notevole rossore alle orecchie.

“Ah, stavo dimenticando! Quell’acqua di colonia non inganna nessuno: si sente, l’alcol!”, si sovvenne l’uomo all’ultimo, quando ormai aveva un piedi mezzo dentro e mezzo fuori di casa.

Piegando in basso gli angoli della bocca e assumendo un’espressione altamente irritata, Itachi gli sbatté senza tante cerimonie la porta in faccia. Resosi però conto, che all’appendiabiti ancora indugiavano sia il cappello che il bastone da passeggio dell’ospite, mio fratello li prese, riaprì la porta e li cedette di malagrazia a quell’altro che se la rideva alla grande, per poi chiuderlo nuovamente fuori casa. Dopodiché, appoggiandosi sfinito al legno, Itachi espirò tutta l’aria dai polmoni, portandosi il palmo della mano a qualche centimetro dal naso e, alitatovi contro, ne annusò l’odore. Lo scocciatore aveva ragione, appurò egli piccato, l’alcol degli spiriti sopraffaceva infido quello del profumo. Perché nessuno glielo aveva fatto notare prima? Per pietà?

Diavolo d’un satanasso intromettitore!, fumò mio fratello, afferrando violentemente il libro e dirigendosi a grandi falcati in camera sua e rimanendovi per il resto della serata.

“… uno scellerato, un tanghero, un iniquo, un ruffiano, un cialtrone, un sangue di giuda, un pendaglio da forca, un cane, un assassino, un birbo malnato, uno scimmiotto …”

Appoggiando il vassoio della cena sul tavolino, Haku fischiò impressionato. “Varé, che casi! Paron Itachi, non starete un poco esagerando? Mi sembrate paron Sasuke quando parla di quella putta, la …”

“… Sakura”, lo aiutai, rubando un pezzettino di focaccia. “E quel confetto rosa si merita ben di peggio!”, sentenziai solennemente.

“Sì, giusto lei”, convenne il domestico. “Per averlo conosciuto appena da qualche giorno, siete un po’ troppo duro ne’ suoi confronti! Manco sapete il suo nome!”

“Mi è bastata un’occhiata per capire con che razza di gaglioffo avessi a che fare!”, affermò Itachi con sufficienza e provocando ad Haku una grande, grossa e grassa risata:

“Varé, varé! Oh, poveretto mi! Che discorsi! Me maraveggio de vu, paron Itachi!”

“E parla cristiano, Haku! Non capisco niente, quando ti esprimi in turco!”

“Haku ha ragione, fratello! Chi disprezza compra! Non è che per caso …?”

“Vi siete forse messi d’accordo, voi due?”, sibilò bellicoso mio fratello, imporporandosi. “Un’altra parola, pidocchio, e scrivo agli Haruno per fissare un altro incontro con la loro tanto graziosa e adorabile figliola …”

“Perfido!”, borbottai tra i denti.

Ridacchiando compiaciuto, Itachi si allungò sulla chaise longue. “Che dovrei trovare di interessante in quel cafone? Non è affatto avvenente, né veste con gusto. Sono rimasto inoltre stupito che sapesse esprimersi a parole e non a versi …”

“Certo, certo …”, ci lanciammo Haku ed io delle occhiate complici.

“In ogni modo”, ridivenne Itachi improvvisamente serio “anche se dovessi essermi in qualche modo infatuato di codesto pezzente, ciò non cambierebbe la realtà, ovvero che sono già fidanzato con lo zio Madara …”, mormorò e la sua affermazione ottenne l’effetto di distruggere l’atmosfera di intima e giocosa confidenza, che s’era previamente creata. “E dopo quello che è successo” e lì i suoi occhi neri divennero preoccupantemente vuoti e opachi “non ho intenzione di compromettermi con nessuno!”

Nessuno di noi due ebbe cuore di replicare, limitandoci a lasciare tranquillo Itachi a consumare la sua cena.

Alas, quanto mio fratello si sbagliava! La sorte aveva appena iniziato a giocare con loro!

Il giorno seguente, infatti, mentre uscivamo dalla chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, il signor Terumi venne preso in disparte da colui che intuii essere l’oggetto delle invettive di mio fratello. Incuriosito, lo studiai per bene, concordando con Itachi circa la poca avvenenza dell’uomo, il quale tuttavia non aveva la faccia di un delinquente, solo di una persona piuttosto pragmatica e spiccia. E tanto ero immerso nella mia contemplazione, che sussultai all’arrivo di mio fratello, specie quando questi mi afferrò per la mano, tentando di trascinarmi via dal campo visivo dell’uomo.

Sennonché, il signor Terumi ci pizzicò, voltandosi verso di noi e riempiendoci di cortesi domande, prime fra tutte riguardo la salute di mio fratello, che la sera precedente aveva disertato la cena in compagnia. Di conseguenza, grazie a quel repentino cambio di interlocutore, il famoso sconosciuto si accorse della nostra presenza e nello specifico di quella di Itachi; trattenendo a forza un ghigno, egli allora allungò un poco il collo dalla spalla del signor Terumi per meglio scrutarci, inquisendo falsamente offeso:

“Ché, sior Terumi! Non mi presentate i due signorini?”

Ridacchiando un poco imbarazzato per la sua mancanza di buone maniere, il nostro anfitrione esaudì prontamente la sua richiesta. “Oh cospettaccio, avete ragione, perdonate la mia dimenticanza!”, si scusò bonariamente, schiarendosi la voce. “Sior Hoshigaki, permettetemi di presentarvi i fratelli Uchiha, figli di mia cugina Mikoto e miei ospiti per tutta l’estate.”

“Uchiha Sasuke”, allungai la mano tutto baldanzoso e con arie di grande importanza. “E’ un piacere conoscervi, signor Hoshigaki!”

“Il piacere è tutto mio, signorino”, replicò l’altro, stringendomela a mo’ di saluto. Una presa forte, decisa, eppure non brutale.

Reclutante, mio fratello gli concesse a malapena tre dita da stringere. “Uchiha Itachi”, disse tutto d’un fiato, tanto che neppure mi resi conto del movimento dalle sue labbra.

“Alla fine ci conosciamo … ufficialmente”, commentò l’uomo con tono burlone, catturando quasi la mano di mio fratello, che s’affrettò a ritirarla.

“Vi siete già incontrati?”, s’informò il nostro anfitrione, guardando incuriosito i due.

“Di sfuggita”, dichiarò conciso mio fratello, lo sguardo ben piantato contro quello del signor Hoshigaki, sfidandolo a rivelare oltre.

Guanto raccolto. “Ho intravisto di tanto in tanto il signorino Uchiha in riva al mare e ieri pomeriggio, quando sono venuto a cercarvi a casa vostra, è stato così gentile da tenermi compagnia, intrattenendomi con la conversazione più brillante ch’abbia mai udito in vita mia!”

Dovetti trattenermi dal ridere alla vista delle orecchie di Itachi divenire scarlatte dallo sdegno e dal modo in cui la sua fronte si aggrottava in una maschera assassina.

“Purtroppo il signor Hoshigaki non si è trattenuto abbastanza, da poter approfondire la nostra conoscenza”, si difese mio fratello dalla velata frecciatina dell’altro. “Spero, di avere più occasioni in futuro”, ergo alle calende greche, il giorno del mai.

“Oh Itachi, le avrete certamente!”, lo rassicurò il signor Terumi. “Il signor Hoshigaki è il miglior collaboratore nella mia ditta ed ora che è ritornato dal suo viaggio a Kumo, sono certo che non mancherete di stringere amicizia! Adesso, però, basta cicalare e raggiungiamo le nostre dame! Chi le sente, altrimenti?”

E nel frattempo che il nostro anfitrione ci precedeva, sussurrai maligno a mio fratello: “Il vecchio t’ha proprio infinocchiato, na? Adesso ti tocca sul serio sorbirtelo”, dileggio prontamente punito da Itachi che, serrandomi inclemente la mano che ancora mi stingeva, mi sibilò minaccioso:

“Taci, oca!”, per poi sciogliere la presa e spedirmi da Rin, rimanendo solo col signor Hoshigaki, fatto davvero notevole per lui, visto che senza Haku mio fratello non si muoveva da nessuna parte, neppure in casa.

“Che commuovente dimostrazione di affetto fraterno!”

Voltandosi di scatto verso l’uomo, Itachi raddrizzò la schiena, sperando di colmare la notevole differenza di altezza. “Come tratto mio fratello non è affare che vi riguardi! Inoltre, se osate spifferare a chicchessia di quanto avvenuto in spiaggia e del … dell’alcol” e qui Itachi abbassò la voce “giuro che vi affogo!”, lo avvertì con la stessa audacia di chi aveva sia la coda di paglia che le spalle al muro, brutta combinazione sì sì.

Incrociando le braccia al petto e cambiando peso da una gamba all’altra, il signor Hoshigaki asserì seriamente, ogni traccia di ilarità perduta: “Non è mio uso fare la spia, putèlo! Nondimeno, questo non significa che cesserò di tenervi sottocchio …”

Il respiro di mio fratello divenne irregolare dalla collera. “Papagà maledetto!”, gli sputò quasi in faccia.

“Ah, finalmente avete imparato qualche vocabolo della nostra lingua!”

“Sì”, convenne velenoso Itachi “a sufficienza per insultarvi!”

L’uomo scosse il capo. “Almeno vi sfogate”, puntualizzò egli grave. “E mi dimostrate di essere vivo  e non un automa …”

“Potremmo interrompere qui la nostra conversazione? Essa non è di mio gusto …”

“Per il momento, signorino Uchiha, per il momento”, gli accordò clemente il signor Hoshigaki, cedendogli il passo.

Senza rialzare lo sguardo, Itachi accettò il tacito invito, le gote in fiamme e il petto in affanno da un bizzarro languore mai prima d’allora provato, un turbamento che lo confondeva e che lo spintonava in direzioni opposte, dal desiderio matto di decollare quel furbastro dalla lingua lunga, alla voglia di indugiare ancora qualche istante in sua compagnia, anche solo per seguitare in quell’infruttuosa tenzone.

E come tutti coloro che si trovano ad affrontare aspetti di se stessi che non conoscono, scivolando nel dubbio e nella paura, Itachi sperò di non rincontrare più il signor Hoshigaki, ripromettendosi poi di evitarlo il più possibile, come la peste.

La faccenda dello zio lo tormentava a sufficienza, non aveva bisogno di sovraccaricare il suo spirito di altre spine.

 

 

Se, dopo aver attraccato alla banchina di marmo, l’essersi recato di persona a chiamare una delle suore dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara fosse corrisposto ad un atto di disinteressata generosità da parte del traghettatore, Naruto non seppe affermarlo con certezza. Fatto stava, che appena le mani del secondo rematore erano venute a contatto con le paline, subito il giovane dai capelli biondo-rossicci era balzato giù dall’imbarcazione, raggiungendo silenzioso la porta del convento e lì sparendovi per una buona mezzora, istillando nel giovane commissario la curiosità di conoscere che cosa quel teppista avesse detto su di lui, ricordandosi all’ultimo che lui non capiva un emerito niente del dialetto di Kiri.

“Così lei sarebbe il commissario Uzumaki Naruto?”, lo riportò alla realtà un’imperiosa voce femminile, appartenente alla composta e ieratica figura della suora dinanzi a lui. “Yahiko mi ha riferito, che lei sta conducendo una ricerca su di un soggetto piuttosto malvisto sia a Kiri che a Konoha.”

Uscendo non senza qualche difficoltà dal traghetto, Naruto colmò la distanza tra di loro, confermando quanto detto dalla donna.  “Esatto, reverenda madre”, disse, ringraziando il cielo che finalmente aveva trovato qualcuno che non si esprimeva in burundi. “Il mio scopo ultimo è di apprendere quanto più possibile su questo soggetto, acciocché io possa trovare il modo per neutralizzarlo una volta per tutte, impedendogli di mietere ulteriori vittime.”

“Riassumendo, ha preso di mira lei e la sua fidanzata?”

Naruto assentì col capo. “Così è, reverenda madre. Posso domandarle come …?”

Un deciso cenno della mano lo zittì. “Non qui. Non ora. Ritiriamoci in un posto dove lei per volere del castigo divino non può più entrare …”, asserì, facendogli strada.

Presi due bei respiri profondi, il biondo si apprestò a seguirla, sennonché all’ultimo si ricordò dell’onorario al traghettatore, il quale già aveva ripreso il suo posto di guida. “Ecco, prenda”, gli allungò una banconota crocchiante. “E non si preoccupi per il resto!”

Gli occhi blu di Yahiko si soffermarono a lungo sui venti ryo, per poi spostarsi sul volto stanco di Naruto.

“Nah, no li voggio!”, rifiutò infine il giovane, impugnando il remo e mulinandolo per girare il traghetto in direzione del porto antico. “Se li tenga!”, dichiarò grave. “Le saranno utili!”

“Per cosa?”, chiese scettico Naruto, rinfilando in tasca i soldi e domandandosi il motivo di quella pecuniaria rinuncia.

Forse era il chiaroscuro, ma il ghigno di Yahiko assunse una connotazione sinistra.

“Pel suo funerale, sior!”

 

 

 

 

 

 

 

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To be continued …

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[1] Guaritrice di campagna e levatrice

[2] strofa dal “Der Erlkönig” di J.W. Goethe (1782)

[3] Canocie = canocchie, cicale di mare. A Venezia c’è un detto: “A Santa Caterina megio 'na canocia de 'na galina” (A Santa Caterina (25/11) meglio una canocchia che una gallina), giacché in quel periodo le canocchie sono belle grasse, con il succulento corallo da gustare!

[3b] Moeche = in primavera i granchi sono in amore e hanno la corazza più morbida. Molto buoni fritti. 

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Capitolo 5
*** Dal Diario di Uchiha Sasuke: la Notte di San Giovanni, Annus Horribilis 1858 ***


Premetto che non la sto tirando per le lunghe: semplicemente, mi manca il tempo effettivo per scrivere capitoli più lunghi e “corposi” di eventi. Di conseguenza, preferisco che essi siano più brevi e aggiornati con maggior frequenza. Almeno così la vedo io. Siate, per favore, pazienti.

Capitolo pieno di dialoghi, poi! Mammina, mi sembra così strano scrivere poche descrizioni! XD

Le avvertenze solo le stesse! :P Ora c’è l’Mpreg. Per davvero. Siete avvertiti! Muhahahahhaha!!!!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle infaticabili Jooles, SellyLuna e Sagitta72! Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Buona lettura!

 

 

 

 

H.

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“Sono sicura che vostro fratello abbia l’amante!”

Il terzultimo atto di questo doloroso dramma ebbe inizio con questa esclamazione.

Correva l’anno 1857 e la stagione termale era stata appena inaugurata; di conseguenza, la prospettiva di interrompere di tanto in tanto la monotona routine del Liceo per delle escursioni alle terme nei Colli di Oto mi entusiasmava, anche perché potevo finalmente immergermi in un ambiente meno insulso e infantile rispetto a quello liceale. Avevo pensato, all’inizio, che terminare il Ginnasio sarebbe corrisposto ad un salto di qualità [1]: al contrario, mi ritrovai in classe circondato da un manipolo di bambinetti scialbi, noiosi e arroganti per via del loro status di nouveau riches, nel quale si crogiolano orgogliosamente, null’altro che volgari arricchiti con modi da contadino travestito da signore. E il peggio era che più di tanto non potevo prendermela con simile marmaglia, rispondendo adeguatamente alle loro continue provocazioni: il denaro conduce le danze e purtroppo la mia famiglia doveva mantenere rapporti civili coi genitori dei miei compagni di scuola, onde non crearsi nemici fastidiosi. Inoltre, con loro non potevo discutere di niente che uscisse dalla sfera del pragmatico, rendendo di conseguenza le nostre conversazioni banali e superficiali, per quanto fossero i miei compagni stessi i primi a cercarmi, forse intrigati dal mio cognome aristocratico, uno degli ultimi a Konoha. Di conseguenza, li trattavo con la medesima sufficienza di un principe nei confronti dei suoi servitori, lusingato della loro venerazione, che tuttavia celavo dietro una maschera di fastidio. Malgrado questo misero palliativo, al Liceo mi stufavo e non vedevo l’ora di ricongiungermi alla mia famiglia, in particolare a mio fratello, le cui lunghe conversazioni mi mancavano parecchio. Trascorrendo molto tempo a casa per via della sua “malattia”, Itachi possedeva un sapere eclettico, del quale lui per primo se ne lamentava, sostenendo che fosse tutta teoria e niente pratica. Insomma, che peccava di ingenuità. Dal canto mio, protestavo dicendo che la smettesse di fare il modesto, lui che con le sue letture e la sua memoria portentosa avrebbe potuto discorrere tranquillamente con un professore universitario. Allora, scuotendo il capo, mio fratello obiettava che a casa si annoiava e che, essendo lui riservato di natura, preferiva ascoltare piuttosto che parlare; ecco dunque spiegato perché poteva ricordare una nozione anche se sentita solo di sfuggita. Piccato, gli chiedevo se lui mi stesse dando del chiacchierone, visto che io impiegavo due volte per ricordarmi un concetto. Itachi mi assicurava che non lo ero, aggiungendo però che molto spesso il mio smisurato orgoglio mi rendeva sordo alle opinioni altrui. Visibilmente irritato, controargomentavo e via così fino a coinvolgere qualche altro membro della nostra famiglia, per stabilire se io fossi o meno caparbio. Dopodiché, a pace fatta, passavamo ad un altro tema.

Queste discussioni con mio fratello mi aiutarono molto nell’arte della conversazione (specie a controllarmi, quando avevo degli scatti di nervi per una replica a me non gradita), giacché le terme erano totalmente diverso dai circoli da finora da me visitati, ergo casa mia, i salotti di Madame Terumi e di Madame Haruno e ovviamente il Liceo. Dialogare era più ostico, in quanto l’ambiente vagamente ambiguo delle terme riuniva a sé gente dai più svariati trascorsi e di ogni età. Senza contare che, dati miei freschi quindici anni, dovevo faticare non poco onde ottenere prima l’attenzione e poi saperla tenere ben viva quando volevo cicalare coi miei interlocutori. Ma il tutto appariva più divertente, stimolante, una sfida.

Peccato che potevo godere di questo svago solamente due volte alla settimana, ergo durante le visite che porgevamo a nostro padre, i cui reumatismi non cessavano di tormentarlo, costringendolo ad affidarsi alle proprietà curatrici delle acque termali e magari, per allietare il cuore, di qualche donnina allegra che certamente bazzicava di lì. Nostra madre e la nonna, invece, preferivano rimanere nell’ambiente meno promiscuo di villa Nakano, insegnando la prima ad Itachi nei tempi morti come si governava la propria casa, dalla cambusa al salario della servitù, questo in vista del suo prossimo matrimonio con lo zio Madara. E stranamente, al posto dei suoi soliti tiri isterici, mio fratello la ascoltava attentissimo, bevendo quasi le sue parole. Neanche a lui piacevano le terme, però si “sacrificava” ad accompagnarmi di tanto in tanto, soprattutto quando seppi che i signori Haruno vi avrebbero trascorso la stagione, accompagnati dalla loro unica figlia, Sakura, che avevano appositamente prelevato dal convento in cui studiava.

Confesso che all’inizio non nutrivo una grande simpatia nei suoi confronti, trovandola spesso noiosa se non proprio stupida, ma era anche l’età difficile della preadolescenza, durante la quale l’egalitarismo maschio-femmina che sussisteva durante l’infanzia svaniva, vuoi per l’educazione impartita, vuoi per lo sviluppo fisico e mentale. La sola idea, quindi, di ritrovarmela in continuazione alle costole mi nauseava. Ed ecco invece, che io per primo rimasi stupito del suo cambiamento, meravigliandomi di come un solo anno dalle suore avesse trasformato quella molesta scimmietta rosa in una signorina perbene, interessante e con la quale si poteva discorrere senza scivolare nella banalità. Aveva spirito, rispondeva accoratamente e raramente perdeva la compostezza per delle improvvise arrabbiature, come al contrario soleva indulgere da piccola. Incominciò a piacermi e volli per quanto possibile passare più tempo con lei, fatto pressoché impossibile visto che sua madre sbucava fuori da ogni angolo peggio di una margherita. E ciononostante, ebbi come l’impressione che alle nostri genitrici il nostro avvicinamento andasse a genio, alle volte perfino incoraggiandoci, ad esempio a tavola, quando ci permettevano di sederci accanto.

Fu in una di quelle serate, mentre ci ritiravamo nel salottino dell’albergo per il caffè, la cioccolata o lo zabaione coi biscotti, che Sakura, prendendomi leggermente in disparte, aveva emesso quella terribile sentenza. La causa scatenante? Ultimamente le avevo raccontato entusiasta dei miglioramenti di Itachi, sulla sua salute ritrovata sia a livello fisico che mentale. Le narrai del drastico calo delle crisi isteriche, degli sbalzi di umore e del modo in cui mio fratello avesse gradualmente abbandonato tutte quelle scempiaggini sullo spiritismo per dedicarsi a passatempi più pratici, quali ad esempio l’amministrazione di villa Nakano ora che nostro padre s’era assentato per curarsi: adesso, a ricevere il nostro commercialista e a controllare i bilanci domestici e non, era appunto mio fratello. Oppure si dedicava a dirigere e a supervisionare le mansioni assegnate ai domestici. Le sue letture vertevano non più sul futuro dell’anima nell’Aldilà, bensì sulla politica e sull’economia, in particolare sui nuovi mercati, interni ed esteri. L’ultimo punto mi aveva un poco sorpreso, giacché Itachi non possedeva un’attività commerciale né aveva dato ad intendere di volerne mai incominciare una. Anche perché, per un aristocratico, lavorare è degradante, lasciamolo ai borghesi. All’inizio avevo teorizzato che volesse trovare un qualche titolo per un investimento fruttuoso, ma poi avevo scartato l’idea visto che Itachi, non essendo ancora maggiorenne [2], non poteva disporre dei suoi beni economici. Che lo facesse comunque per giovare al suo futuro sposo?

No, aveva scosso Sakura il capo alla fine del mio discorso. Il motivo del miglioramento di mio fratello era riconducibile ad una sua probabile tresca amorosa. “Sì, sono proprio sicura che vostro fratello abbia l’amante!”, dichiarò un po’ troppo audace, per una signorina della sua classe.

“Sciocchezze!”, ribattei, incredulo alla mera idea che Itachi si lasciasse andare a simili venalità. “Mio fratello è freddo come il ghiaccio!”, aggiunsi un poco irritato. “Ha orrore del contatto fisico e non l’ho visto accostarsi con nessuno, né uomo né donna!”

“Verissimo, ma il ghiaccio è destinato prima o poi a sciogliersi!”

“E di grazia, chi sarebbe il fantomatico amante di mio fratello? Non esce quasi mai di casa, né ha amici stretti. Se Haku non fosse così impegnato ad amoreggiare con quel pescatore ogniqualvolta ci rechiamo a Kiri, oserei dire che sia lui!”, scherzai, sebbene la mia voce tremasse di una lieve ansietà, derivata dalla paura che forse i sospetti di Sakura non erano del tutto infondati.

 Ma il dubbio! Il dubbio!

Sventolando civettuola il ventaglio, la ragazza indicò tramite una lieve inclinazione del capo le quattro persone sedute in un angolo della sala e intente a fumare le forti sigarette di Suna, due delle quali erano appunto mio padre e mio fratello.

Aguzzai quindi la vista, sperando di cogliere il destinatario di quell’accusa visiva. “Il signor Terumi?”, azzardai infine, un poco disorientato: certo, il nostro caro amico di famiglia e lontano parente si presentava come una persona simpatica e dabbene, ma accidenti!, a momenti poteva essere più il nonno di mio fratello, che l’amante!

“Ma no, ma no!”, si portò Sakura più vicina al gruppetto, così da cambiare angolazione. “Quell’altro. Il suo collaboratore. Il signor Hoshiqualcosa …”

All’udire ciò strabuzzai gli occhi, trattenendo a stento una grande, grossa e grassa risata. “Il signor Hoshigaki? Kisame? Con mio fratello? Ah, Sakura, suvvia! Voi sì che possedete una fervida immaginazione! Dalle suore leggete forse Catullo al posto di Cicerone?”, risi, lanciando una rapida occhiata al collaboratore del signor Terumi, il quale stava discutendo col suo datore di lavoro. A causa degli acciacchi dell’età, il nostro conoscente era ormai sul viale del tramonto, preferendo lasciare a Kisame la direzione della sua ditta, pretendendo però da lui ogni settimana un rapporto completo del suo operato, spiegando così la presenza di Hoshigaki alle terme, lui che più volte aveva affermato essergli indigeste, più che altro perché i suoi avventori lo fissavano come se si fossero trovati dinanzi al Babau.

“E perché mai, scusatemi, dovrei essermelo inventata?”, chiese Sakura piccata, arcuando le sopracciglia.

“Perché, carissima, so per certo che Itachi odia il signor Hoshigaki con tutto se stesso! Lo tratta così freddamente da rasentare a volte la maleducazione; lo evita come se avesse la peste e quelle poche volte che gli rivolge la parola è solamente per contraddirlo. Non scorgo in mio fratello alcuna affezione nei suoi confronti, solo animosità!” e di fatti, spiando mio fratello di sottecchi, trovai conferma nelle mie parole: Itachi sembrava neppure essersi accorto della presenza di Kisame, sebbene quegli gli fosse seduto pressocché dinanzi.

Le labbra tumide di Sakura si piegarono in un sorrisetto sibillino, tipico di chi padroneggiava con maggiori competenza rispetto agli altri i segreti dell’animo umano. “Il troppo stroppia, Sasuke”, asserì solenne. “E la scontrosità di vostro fratello verso il signor Hoshigaki ha un ché di sospetto: è esagerata, teatrale a volte. Perché? Semplice. Vuole la sua attenzione e siccome il decoro gli impedisce di farlo attraverso un atteggiamento amabile – i pettegolezzi non sono un’opinione – allora lo fa tramite il disprezzo! Oh, forse c’è stato un periodo in cui vostro fratello davvero mal sopportava il signor Hoshigaki! Nondimeno, l’uomo tende a disdegnare ciò che non può avere. Apertamente, ben inteso. Avete notato, che il signor Hoshigaki quasi non replica più alle provocazioni di vostro fratello? Neanche avesse intuito la loro natura fasulla!”

“Vaneggiamenti, Sakura!”, la chetai energico, incapace di ascoltare oltre quelle che io volevo autoconvincermi essere solo delle assurde malignità. “Itachi è “fidanzato”, è un ragazzo onesto, non oserebbe mai macchiarsi di simili indecenze!  Inoltre, tra lui e me non sussiste alcun segreto e se mio fratello mi ha confidato che odia quell’Hoshigaki, allora io gli credo. Non mi mentirebbe mai, ne sono certo!”

“Lo spero bene, Sasuke, anche perché non potrei tollerare la presenza di quel tanghero per più di un’ora nella stessa stanza! Avete visto in che modo si atteggia con noialtri? Neanche si stesse relazionando con dei garzoni di bottega!”, si lagnò, sperando di coinvolgermi nella sua invettiva contro il presunto amante di mio fratello. Purtroppo per lei, l’ascoltavo a malapena, troppo roso dal dubbio: per quanto non volessi credervi, le insinuazioni di Sakura già stavano germogliando feconde nell’animo mio. “Ma del resto, che volete aspettarvi da uno che lavora? Che viene dal nulla? Ovvio, che non possiede un linguaggio forbito! Ancora mi sorprendo che un uomo colto e raffinato come il signor Terumi gli permetta di stargli accanto, trattandolo a momenti come un figlio! Non ha buone maniere, del gentiluomo possiede a malapena l’abito! Il classico arrampicatore sociale, il quale, chissà, magari sperava di impalmare la signorina Mei per ereditare il patrimonio del padre, sennonché la prima ha preferito la vita monacale! Credetemi, vostro fratello sarebbe sprecato nelle mani di un simile zotico!”, terminò ieratica, chiudendo e riaprendo il ventaglio, segno che null’altro aveva da aggiungere, e guardandomi speranzosa, in cerca forse di un mio cenno o sguardo di approvazione a quanto da lei così appassionatamente esposto.

Aspettò invano, poverina, giacché da tempo avevo smesso di seguirla.

Era solo una mia sgradevole impressione, oppure Itachi ci aveva osservato per tutto il tempo?

 

 

 

Una volta ritornato a villa Nakano, mi prefissai come scopo di cogliere in flagrante i due amanti. Per quanto stimassi Sakura e rispettassi il suo “intuito femminile”, le sue sarebbero comunque rimaste delle teorie campate in aria, prive di fondamenta, almeno fino a quando non avrei trovato delle prove concrete a quanto da lei avanzato.  Solo allora le avrei creduto e ovviamente avrei preso dei seri provvedimenti.

Non avrei permesso che lo scandalo dilagasse fuori dalle mura domestiche, rovinandoci.

Rimuginando le parole di Sakura, in quegli atroci istanti potevo figurarmi il giogo dell’infamia, la derisione, gli indici puntati contro di noi, da sempre considerati dall’intera Konoha come il modello di moralità per eccellenza. Vedevo la mia reputazione infangata, la perdita del rispetto derivato dal mio status.

Vedevo come mi veniva negato il permesso di frequentare Sakura .

Vedevo mio fratello abbandonarmi per un altro. Oh, ben immaginavo che non amasse lo zio Madara ed appunto per questo gli rimanevo accanto, sostenendolo: perché sapevo che lui avrebbe continuato a non avere occhi che per me! Me! Me! Il suo fratellino!

Quel mostro di Kiri non mi avrebbe rubato l’affetto di Itachi, traviandomelo.

Anche a costo di distruggere entrambi.

Di conseguenza, mi impegnai con ardore alla ricerca di un qualsiasi indizio, di un loro passo falso.

Alas, come due complici in un assassinio, nessuno tradiva l’altro, nessuno si contraddiceva. Non riuscivo neppure ad ipotizzare l’esatto istante in cui incominciarono ad indugiare nel loro turpe peccato. Ogni loro detto, ogni loro azione mostrava solo una vicendevole freddezza, noia, fastidio: niente baci rubati, niente fazzoletti lasciati cadere accidentalmente per terra, niente languide occhiate furtive, niente discreto sfiorarsi di dita.

Nulla.

Di primo acchito parevano due completi estranei.

Le eventuali lettere d’amore? Tutte accuratamente bruciate da Itachi. Sempre che quel bruto fosse stato abbastanza intelligente da scriverle.

Pegni di innamorati? Avevo notato una collanina nel portagioie di mio fratello, una cosuccia da niente caratterizzata da una catenina e tre cerchietti d’argento, la quale Itachi ne giustificò la presenza sostenendo di averla scorta in una bancarella al mercato coperto di Konoha e che, essendogli piaciuta, aveva deciso di comprarla. Per il suo miserrimo valore, infatti, non trovai alcuna obiezione sufficiente per contraddirlo, se non che aveva un pessimo gusto in fatto di gioielleria (o bigiotteria in quel caso). 

Corrompere Haku, che di sicuro era l’intermediario tra di loro? Sarebbe stato più facile comprare l’arcivescovo di Konoha!

Rendez-vous segreti? E quali?Li tenni d’occhio, mio fratello soprattutto, vagliando ogni ipotesi, anche la più assurda: dove potevano incontrarsi? Dannato Liceo che mi impediva di sorvegliare Itachi!

Dovevo solo essere paziente, mi ripromettevo ad ogni mio fallimento. E aspettare … aspettare …

… il gennaio del 1858, anno in cui giunse infine quel momento.

Nessuno può fingere in eterno, né similmente serbare un segreto.

Tempus Veritas revelat. Il Tempo rivela la Verità.

Ma accettare quest’ultima?

Itachi aveva l’abitudine di visitare spesso il Santuario di Santa Lucia presso il fiume Naka (da cui la nostra villa prende il nome); sin da piccolo era sempre stato molto devoto alla santa cui furono strappati gli occhi e mi ricordo che molte volte s’era offerto volontario a decorare l’altare votivo o – come fece il 13 dicembre dell’anno precedente, sfidando ogni ordine del medico e la sua salute d’un tratto instabile – a trasportare la portantina processionale. In famiglia giudicavamo la devozione di Itachi come una delle sue numerose stranezze; quanto al sottoscritto, in piena fase di ribellione spirituale, mi divertivo a dileggiare bonariamente mio fratello, paragonandolo ad una vecchia beghina, rimanendo poi stupito della sua reazione: invece di ribattere col suo solito umorismo sarcastico, egli mi fissava a lungo, per poi scrollare le spalle e rivolgere altrove la sua attenzione. Del resto, nessuno di noi immaginava che quelle visite fossero finalizzate e non fini a se stesse.

In ogni modo, non fu l’apparente eccesso di zelo religioso di Itachi ad avermi spinto quel giorno invernale a seguirlo en cachette, bensì la convinzione che proprio tra i sacri vapori dell’incenso vi avrei trovato i peccaminosi miasmi dello zolfo. Quale luogo migliore, infatti, per celare una tresca amorosa? Dentro di me biasimai entrambi per la loro sacrilega ipocrisia.

Così, poco dopo aver visto mio fratello e Haku uscire di casa – per motivi di devozione o espiazione, chissà, egli non usava mai la carrozza – feci sellare il mio cavallo in gran segreto, in modo da raggiungerli senza destare alcun sospetto in mio padre e nello zio: se invero Sakura si sbagliava e le sue altro non erano che maligni pettegolezzi, sarebbe stato increscioso da parte mia imbarazzare così mio fratello.

Se fosse stato innocente.

Ovviamente, non lo era e non tardai a scoprirlo.

Dal mio osservatorio avevo un’ottima visuale del piccolo santuario, dentro il quale Itachi e Haku si trattennero all’incirca per una mezzora. E fin lì, niente fuori dall’ordinario. Lo choc giunse, seppur non troppo inatteso, quando ad uscire furono sì in due, ma del giovane domestico nessuna traccia.

Mio fratello si trovava in compagnia di Hoshigaki Kisame e avrei scommesso la mano destra che Haku era rimasto o in chiesa o in sacrestia, molto probabilmente con l’ordine preciso di trattenere il prete il più a lungo possibile occupato, così che i due avrebbero avuto tempo a sufficienza da trascorrere insieme.

Come una vera coppia.

Ché tutta l’alterigia e l’indifferenza, mostrate da Itachi durante il loro ultimo incontro “formale” alle terme, cascavano come il palcoscenico abilmente allestito dai due amanti. Non camminavano a braccetto né si tenevano per mano; tuttavia, il modo in cui passeggiavano, tanto vicini da sfiorarsi le spalle, tradì una certa intimità fra di loro. Per un pezzo nessuno dei due proferì parola, limitandosi a deambulare per il giardino dietro al santuario, là dove sorgeva il famoso “Pozzo dei Ciechi”, la sua vera fortuna giacché si narrava, che coloro che si bagnavano gli occhi con la sua acqua potevano riacquistare la vista. Fu nella sua prossimità che Itachi domandò con lo sguardo a  Kisame di fermare il loro silenzioso vagabondare, prendendo posto su di una panchina di marmo.

“Avresti dovuto telegrafarmi”, prese Itachi per primo la parola. “Avrei trovato un pretesto per mandare Haku a ritirare il tuo messaggio … Non hai idea dell’angustia in cui ho vissuto in questi giorni, senza tue notizie! Mi sono sbucciato le ginocchia a furia di pregare per il tuo ritorno, delinquente! L’inverno non è mai un buon periodo per navigare, neppure con le vostre navi a vapore! E appunto per questo, che ti avevo chiesto di telegrafarmi, perché sai che la notte non dormo quando parti per un viaggio d’affari!”, rimproverò imbronciato l’amante, che gli afferrò delicatamente la mano, mentre Itachi appoggiava la testa sulla sua spalla.

“Dov’ero diretto non sussisteva il modo per telegrafarti. Nondimeno, questo non significa che mi fossi dimenticato di te o che non volessi farti avere mie notizie.”

Mio fratello levò la testa dal suo appoggio e la reclinò sulla sinistra, segno che in parte gli aveva condonato la sua mancanza.

“In ogni modo”, riprese Kisame, leggermente in soggezione dinanzi lo sguardo poco convinto di mio fratello. Che strano vedere quel colosso, che si atteggiava tanto sicuro di sé da sfiorare l’arroganza, addolcirsi in un timido scolaretto al primo amore. “Ho parlato con la vedova Kayama: la casa è disponibile.”

La casa?, aggrottai incredulo la fronte. La sfrontatezza di quel ruffiano per davvero non conosceva limiti?

Il viso di Itachi s’illuminò di piacere. “Me ne rallegro, poiché era subito stata di mio gradimento!”

Tzé, ecco cosa faceva! Altro che passeggiate sulla promenade in riva al mare! Cercava il trogolo per potersi comodamente rivoltare con quel pezzente!

“Al mio ritorno, sarà mia cura comprarla.”

“Come? Parti di già? Adesso, che sei appena tornato?”, inquisì smarrito mio fratello.

“Sarà l’ultima volta, te lo prometto: questo carico mi frutterà abbastanza da ritirarmi, nel senso che non sarò più io quello costretto a viaggiare di persona. Inoltre, adesso che la madamoxèla Mei ha preso i voti, sior Terumi sta seriamente valutando l’ipotesi di lasciarmi le redini della ditta. Ormai è vecchio e non riesce più a sostenere la fatica di gestirla.”Sì, il signor Terumi ne aveva accennato a riguardo alle terme e Itachi aveva reagito alla notizia con un’annoiata scrollatina di spalle. Ora, invece, potevo leggere uno smisurato orgoglio nei suoi occhi neri. “Dopodiché, potrai tranquillamente indossare alla luce del sole questo …”, concluse Kisame, estraendo dalla tasca una scatoletta, posandola sulle mani di mio fratello aperte a coppa, il quale tosto incominciò a scartare il pacchettino.

“Che dirà la gente?”, ebbe Itachi un improvviso attimo di esitazione, bloccandosi nel mezzo del processo di apertura del presente. “Cosa dirà la mia famiglia? Loro danno per scontato il mio matrimonio con quell’individuo e non vorrei che per ripicca ti nuocessero!”

“Che s’azzardino, se ne hanno il fegato!”, replicò bellicoso l’altro, tingendo il tutto con una punta di gelosia alla menzione dello zio, il suo “rivale” per così dire. “Il y a des juges à Berlin, nel nostro caso a Kiri. [3] Giudici che neppure il tanto osannato nome degli Uchiha potrebbe intimidire né tantomeno comprare! Quello in cui ci stiamo per imbarcare non è nulla di criminale, che torto commettiamo dinanzi alla legge? Quanto alla gente del mio paese, dopo l’esecuzione del nostro ultimo sovrano e la proclamazione della repubblica, non si stupisce ormai più di niente!”

“E il signor Terumi? Ti vorrà ancora cedere l’attività dopo la bufera, che sicuramente si scatenerà? Non proverà rabbia e vergogna per aver “tradito” la sua fiducia?”

All’udire queste obiezioni, lo sguardo di Kisame s’indurì. “Non è che stai avendo dei ripensamenti, vero, Itachi?”

“No, per carità, non sia mai!”, s’affrettò mio fratello a dissipare i giusti dubbi dell’amante, afferrandogli con vigore la mano e impedendogli di alzarsi. “Sono disposto ad affrontare qualsiasi ritorsione da parte della mia famiglia, se questo mi permetterà di vivere con te anche solo per un giorno! Ciononostante, non potrei sopportare il saperti preso di mira da loro, di vedere gli anni di sacrifici e umiliazioni per emergere gettati alle ortiche per della merce avariata quale il sottoscritto! Non voglio essere la causa della tua rovina!”

Il loro corrispondeva davvero ad un lussurioso capriccio? Anteporre il benessere e la felicità dell’amato rispetto al proprio era il sinonimo di un libidinoso svago?

Era così?

In quell’istante volli, volli credere con tutto me stesso che sì, che altro non si trattava che dell’ennesima follia di quell’instabile di mio fratello.

“Non sei merce avariata. Avevi tredici anni, come potevi difenderti?”

“Sono e resto deforme.”

“Ai loro occhi, non ai miei.”

“Hai sempre la risposta pronta per ogni cosa, furbastro?”

“Ammetto di aver avuto un buon maestro”, si schermì giocosamente Kisame, posando una mano sulla spalla di Itachi e, attiratolo a sé, posandogli un casto bacio sulla tempia sinistra.

Mio fratello abbozzò ad un timido sorriso che si allargò quando, finito di scartare il pacchetto, trovò quel ch’io intuii essere l’anello di fidanzamento, un piccolo rubino, pegno notevole per l’estrazione sociale da cui proveniva il suo compagno.

“Starò via per tre mesi, Itachi”, gli annunciò lentamente Kisame, fissandolo intensamente dritto negli occhi. “Giurami che m’aspetterai. Giurami”, diss’egli stringendo forte al petto mio fratello. “Giurami sulla tua vita, sugli occhi tuoi belli, su Iddio e la Madonna e Santa Lucia, che per sempre mi resterai fedele.”

“Questo è facile: lo promisi già  il dì in cui ti conobbi. O quasi”, si corresse mio fratello, rigirando l’anellino tra le dita fusiformi. “Non fui allora molto cortese nei tuoi confronti e me ne rammarico …”

Un  secondo bacio sulla fronte lo distolse dai suoi mea culpa. “Ma giurami soprattutto, Itachi,  che al mio ritorno, vivi o morti, ci sposeremo.”

Che giuramento scellerato quel mostro stava obbligando il mio povero fratello a compiere? Non sarebbe stato Itachi tanto ingenuo, o stolto, da accettare, vero? Pregai ardentemente che rifiutasse, che lo schernisse, che gli intimasse di sparire per sempre dalla faccia della terra.

Pia e vana speranza.

“Lo giuro”, rispose tremendamente serio mio fratello, due dita alzate e la mano al cuore, per poi addolcire il tono di voce, aggiungendo: “E tu promettimi che tornerai presto. Anzi, che appena metterai piede sulla terraferma, verrai a prenderci e a portarci via da Konoha!”

Cosa? Avevo udito bene l’orrore contenuto in quelle parole?

“Perché parli al plurale, ora?”

Itachi non rispose, limitandosi a nascondere il viso nell’incavo della spalla di Kisame. Ciononostante, riuscii a vedere come nel frattempo si sbottonava pudicamente il cappotto, scoprendo il ventre sul quale appoggiò la mano dell’amante.

Come quel disgraziato reagì, cosa disse, non lo seppi mai.

Mi rifiutai di scoprirlo, non me ne importava.

Ero disgustato oltre ogni dire da quanto visto e udito. Da quanto in basso fosse caduto mio fratello, sostituendo il vizio alla virtù e infrangendo la promessa di matrimonio.

Lasciai dunque tubare le due colombelle nella loro peccaminosa melma, ritornandomene a villa Nakano a meditare vendetta.

Itachi doveva pagare per l’affronto che stava progettando alle nostre spalle.

 

 

 

Il gelido inverno rifiorì nella primavera, che s’infuocò nella gagliarda estate, ma dell’innamorato nessuna notizia, la sua agile nave ancora non si scorgeva all’orizzonte.

 

 

 

Affrontai mio fratello un mese dopo quell’incontro e non per carità cristiana: innanzitutto, dovevo verificare se l’abominio annunciato al suo drudo per davvero stesse crescendo nel suo ventre. Secondo, trovare l’occasione propizia per indurlo alla confessione del suo peccato e sottoporlo al giudizio della mia famiglia.

“Come! Niente vino stasera, Itachi?”

“Non sei dell’umore adatto per un giro a cavallo, fratello?”

“Accidenti, è l’ottava frittella! Rischierai di divenire un’orca assassina!”

“Hai vomitato di nuovo, fratello? Sicuro che il tuo stomaco sia a posto?”

Lo tempestavo ogni giorno di simili domande, ribollendo intimamente alla sua faccia tosta, a quel suo guardami tutto innocentino, come se non avesse la benché minima idea di quello a cui mi stessi riferendo. Tuttavia, man mano che il tempo trascorreva, incominciai a notare dei piccoli segni di cedimento in mio fratello, come ad esempio il lieve e sospetto tremolio della sua mano, quando appoggiava la tazza col decotto di camomilla sul suo piattino. O l’assenza di repliche alle mie frecciatine. In quel momento, se avessi potuto, lo avrei strangolato, tanto il furore e la vergogna per le sue azioni mi accecavano.

“Forse”, azzardai, osservando con perfido divertimento il vassoio semivuoto di frittelle, che Haku gli aveva sistemato sul tavolino nel suo boudoir, “forse dovresti mangiare di meno. Ultimamente, ti ingozzi come un maiale all’ingrasso. Non vorrai mica che ti ammazziamo per San Giovanni, spero?”

“Paron Sasuke!”, mi rimbeccò il suo domestico, prendendo la teiera ormai vuota della camomilla. “Se vostro fratello ha fame, lasciate che si nutra quanto vuole! De diana, mica lui vi rimprovera quando vi tuffate su’ pomodori!”

“Non importa, Haku”, s’intromise il diretto interessato, cedendogli la sua tazzina. “Sasuke non voleva essere offensivo nei miei confronti. Piuttosto, potresti per cortesia riempirmi la teiera con dell’ulteriore camomilla? Te ne sarei grato!”

Il servo annuì, chiedendomi se desiderassi qualcosa e ricevendo uno scocciato svolazzo della mia mano, ergo che era per lui consigliabile sparire dalla mia vista se non voleva, che mi scaldassi i palmi sulla sua faccia. Afferrato al volo che non era il caso di discutere oltre col sottoscritto, Haku uscì dalla stanza, non senza aver commentato tra i denti un rassegnato “invaxà”, invasato.

Rimanemmo infine solamente noi due, mio fratelli ed io.

“Perché sei stato così scortese nei confronti di Haku?”, ruppe il silenzio Itachi, osservandomi perplesso. “Non è facendo la voce grossa, Sasuke, che appari superiore rispetto a lui.”

Ipocrita moralista!, volli urlargli, tuttavia trattenendomi. “Quel briccone a volte si prende troppe libertà con noi! Addirittura redarguisce i suoi padroni! Se non fosse stato per il fatto che sua madre ci ha allattati, lo avrei cacciato via di casa seduta stante! Dopo averlo fatto scudisciare, ovviamente!”

Aggrottando la fronte, mio fratello argomentò piano: “Haku possiede un carattere schietto, come tutti quelli del suo paese. Dice quello che pensa e spesso mancando di diplomazia. Lo conosci ormai, sai come agisce; eppure solo ora lo biasimi?”

“Biasimo sempre coloro che mi mancano di rispetto”, sentenziai sibillino, lanciando ad Itachi un’occhiata obliqua.

Silenzio.

“Se hai qualcosa da rimproverarmi, Sasuke, parla schietto e non colpirmi tramite il domestico!”, dichiarò perentorio mio fratello, alzando gli occhi dal cuscino a cilindro su cui stava lavoricchiando. Ignorando il suo severo invito, allungai il collo verso di lui, domandandogli incuriosito:

“Ignoravo che ti piacesse ricamare … A fusilli, vero? O, come dicono a Kiri, a mazzette!”

“A metà giugno mi “sposerò” con lo zio, fratellino”, replicò affabile Itachi. “E di conseguenza, sto cercando di imparare un passatempo più pratico; non che leggere mi disturbi, però non vorrei che certi libri mi riempissero la testa d’idee bislacche. Anche perché, sappiamo entrambi benissimo che se da villa Nakano mi è concesso raramente di uscire, a casa dello zio sarò seppellito vivo. Quindi, tanto vale trovare delle distrazioni, non ti pare?”

Razza di sfrontato bugiardo!

“Concordo appieno con te, fratello. E malgrado ciò, devo confessarti che Sakura ricama di gran lunga meglio di te!”

“Ne sono contento, almeno dimostra di essere utile in qualcosa.”

Strinsi la presa sul bracciolo della poltrona. “La trovi … inutile, è questo ciò che stai insinuando?”

“Non l’ho mai detto”, ribatté prontamente Itachi, abbandonando definitivamente il suo ricamo sul tombolo. “Semplicemente non ho trovato nella signorina Haruno nulla di così straordinario da renderla l’ottava meraviglia del mondo.”

“Io, invece, la trovo molto amabile. Ma prego, continua, vorrei finalmente sapere la tua opinione su di lei, giacché sei stato finora l’unico a non averla mai menzionata in un solo tuo discorso.”

Mio fratello scosse il capo, sospirando profondamente, neanche l’argomento gli stesse costando un enorme sforzo. “Lei è carina, certamente. Molto giovane ed è questo che la rende così graziosa, quasi un cherubino. Come un’opera d’arte del Boucher, senza però il tocco idealizzato dell’Arcadia.”

“Itachi, colei di cui stai parlando è …”

“… la contessina Haruno. Sì, sì, so bene chi lei sia. E so anche che può cospargersi il viso di cipria quanto vuole, ma il rossore da contadina sulle sue guance non riuscirà mai a levarselo. Senza contare l’abbigliamento: un pavone a confronto è la modestia incarnata.”

Espirai dal naso tanta di quell’aria, che sarei tranquillamente passato per un toro nella corrida. Come si permetteva di insultare in questo modo Sakura? Rossore da contadina? E lo scalzacane che lo aveva ingravidato, allora? Chi era? Lord Brummel?

“Non ti figuravo così maligno, Itachi. Hai forse letto di recente Voltaire?”[4]

“Tu hai chiesto la mia opinione, Sasuke, non puoi pretendere che essa sia sempre di tuo gusto.”

Era giunto l’istante di terminare quel gioco. L’espressione vagamente compiaciuta di Itachi, tipica di quando mi sottoponeva al suo touché! verbale, mi risultava fastidiosa e una parte di me, oscura e perfida, agognava a strappargliela dal viso.

“Allora, lascia che condivida anch’io un mio pensiero con te”, sibilai, alzandomi dalla poltrona e avvicinandomi a lui. “Permettimi di dirti solo questo: che sei un egoista, Itachi, un insensato senza scrupoli e senza decenza!”

Gongolai alla vista dei suoi occhi neri dilatarsi, sorpresi e increduli da quanto udito. E profondamente amareggiati.

“In che modo ti ho mancato di rispetto, Sasuke, per meritarmi siffatti complimenti da parte tua?”

“E me lo chiedi, disgraziato?”, fumai, inviperito dalla sua nonchalance, ma che oh!, pian piano si stava sgretolando. “Ti ho visto, sai? Sì, al Santuario di Santa Lucia! So tutto, è inutile che lo neghi!”, lo incalzai inclemente, desiderando ardentemente assistere al crollo delle difese di mio fratello. Di vederlo terrorizzato, con le spalle al muro.

“Come tuo solito, avrai equivocato. Non …”

“Equivocato?”, ripetei ridacchiando. “Ti pare “equivocare” l’averci disonorati col tuo comportamento? Di aver osato fornicare con quel cialtrone, malgrado tu fossi già promesso allo zio? Ti pare “equivocare” l’esserti fatto da lui ingravidare, razza di mostruosa giumenta in calore?” e feci appena in tempo a terminare la domanda, che un ceffone mi flagellava la bocca, zittendomi.

“Non tollererò questo tuo modo di parlarmi, nettati la lingua!”, mormorò gelido Itachi, contraendo adirato i muscoli facciali. “Come puoi insultarmi così? Per cosa, poi? Perché ho espresso la mia opinione su quella ragazzetta?”

“Non ti sto insultando, Itachi. Né me la sono presa per via di Sakura. Sto dicendo la verità! Quella verità!”, digrignai i denti, pulendomi le labbra lievemente sporche di sangue. Diavolo, non immaginavo che quel “malaticcio” possedesse tanta forza! “O lo neghi?”

Il silenzio di mio fratello valse a tutte le conferme di questo mondo. In fin dei conti, non riuscivamo mai a mentirci vicendevolmente a lungo.

“Dunque è vero!”, sussurrai disgustato, indietreggiando sopraffatto di un passo. “Come hai potuto, Itachi?”

“Tra tutti, eri l’ultimo da cui mi sarei aspettato questa domanda!”

“Non giocare alla savia Sibilla e rispondimi una buona volta! Che ti è saltato in mente di compiere simili porcherie? Sei fidanzato, maledizione! Non hai pensato a noi, mentre aprivi le gambe a quel ruffiano? Alla vergogna, allo scandalo?”

Rosso in volto – molto probabilmente per le mie colorite parole che per la collera vera e propria, ché alterato di sicuro lo era – Itachi scattò anch’egli in piedi, fronteggiandomi. “Vergogna! Scandalo! Pah, che paroloni! Che vuoti concetti nella bocca di un moccioso, che ha appena indossato i pantaloni! [5]”, berciò sardonico. “E se proprio qualcuno in questa casa dovrebbe vergognarsi, non sono io, bensì il caro vecchio zio che, incurante dei miei tredici anni, ha osato …!”

Per un folle istante, provai un’infinita pena per mio fratello. Quel che la sua gola si rifiutava di dar voce, io lo avevo sospettato da una vita, incapace tuttavia di dare un nome al gesto dello zio, tanto era l’orrore da me provato.

Alas, il breve attimo di compassione fraterna venne ben presto divorato dalle fiamme dell’orgoglioso sdegno.

“E allora?”, obiettai crudelmente. “Lo zio era, è, il tuo “fidanzato”! Aveva ogni sacrosanto diritto di prendere ciò che gli sarebbe spettato!”

Itachi strabuzzò con tale energia gli occhi, che credetti volessero uscirgli dalle orbite. “Diritto?”, ripeté mio fratello in un roco sussurro strozzato. “Diritto? Quale diritto? Di approfittare della mia giovane età, della mia deformazione, della mia innocenza per soddisfare …? Aveva il diritto di rubarmi la pace dello spirito?”, ed ecco che dalla maschera di matura sicurezza in se stesso riemergeva il nevrotico e spaventato fanciullo della mia infanzia.

Gratificato da quello sguardo – oh! finalmente riconoscevo il mio vero fratello! – proseguii nel mio assedio.

“Melodrammatico come sempre!”, sbuffai inclemente. “E se anche fosse? Date le tue … condizioni …” e ammiccai al ventre ancora piatto, che di riflesso mio fratello coprì con una mano, proteggendolo e aggravando ulteriormente la sua già precaria situazione. “… dubito che ti sia poi così dispiaciuto! Insomma, hai conosciuto ben due uomini, mica niente …”

“E’ diverso, Sasuke, è diverso: io non volevo le attenzioni dello zio! Le aborrivo, ma lui mi costringeva!”

“Di nuovo: e allora? È il tuo promesso. Il tuo futuro “marito”. Il tuo signore e padrone. E prima o poi, ci avresti comunque dovuto giacere assieme! Nostro padre ti aveva chiaramente sottolineato l’importanza di questo matrimonio e tu gli hai disobbedito!”, lo fustigai impietoso, notando come ad ogni mia parola il rossore stesse abbandonando le guance di Itachi per un malsano pallore. “ Ah! Perché mi dovrei sorprendere? Tu hai sempre voluto fare di testa tua, sempre l’originale! Tanto, al povero, malato, indifeso Sant’Itachi tutto si perdona! Ma non questa volta! Dopo un simile impudente tiro, pensavi forse di cavartela? Di coprici di fango e poi di scappare via? Pagherai molto care le tue porcherie!”

“Porcherie? Ti rendi conto di che stai blaterando?”

“E chi ti avrebbe ingravidato, sentiamo? Lo Spirito Santo? O il tuo confessore?”

“Non essere blasfemo, Sasuke!”

“La tua ipocrisia mi riempie di ribrezzo, Itachi! Io sarei il sacrilego? Quando tu hai violato il giuramento di sposare lo zio? Un giuramento fatto con la mano sui Vangeli, per la miseria!”

“Un’unione fondata sulla costrizione e consumata tramite la violenza carnale non ha alcun significato agli occhi di Dio! Io non riconosco questa promessa di matrimonio, non appartengo a quell’amorale di tuo zio!”

“Perché, preferisci forse quel bifolco dell’Hoshigaki? Un lurido arrivista, che molto probabilmente ti vuole solo per i tuoi soldi?”

“Se speri di sminuirlo davanti a me, sprechi tempo e fiato. Conosco bene Kisame, forse meglio di tutti voi. Non sarà un campione di galateo, però è onesto, affidabile, lavoratore e soprattutto mi rispetta. Mi lascia parlare, Sasuke!”

“E finora che hai fatto?”

“No, sciocco, voi non mi avete mai lasciato parlare. Non mi avete mai dato l’occasione di esprimermi liberamente, imponendomi invece di abbassare di continuo il capo e di dire sì ad ogni cosa: sì alla mia reclusione in questa maledetta villa; sì a quelle umilianti visite del dottore; sì alla rinuncia del mio progetto di studiare all’università; sì al “fidanzamento” con lo zio! E sì anche alle sue oscene avances, perché Dio mi salvi se vi avessi rivelato alcunché! Mi avreste voi salvato? No, affatto! Anzi, mi avreste dato dell’ingrato, dello schizzinoso! E allora, ho dovuto ingoiare questa orribile onta e tenermela dentro, sempre per la pace di questa famiglia!”

“Non assumere arie da martire, Itachi! Ti stavamo solamente proteggendo da te stesso e dagli altri! Per evitare appunto che incappassi in simili cialtroni!”

“Smettila di insultare Kisame! Lui è una delle poche cose buone che mi siano capitate nella vita!”

“E’ quindi più importante lui di me? Della nostra famiglia?”

“Tu sei importante per me, Sasuke. E prima o poi ti avrei rivelato tutto, giacché nella mia stoltezza ti credevo diverso dagli altri Uchiha. Oh Dio, quanto mi sbagliavo! Sei come loro, se non peggio! Invidioso, rancoroso, ipocrita, disposto a sacrificare tutto e tutti per il tuo benessere e per un nome e una reputazione che giorno dopo giorno vale sempre di meno!”, si passò Itachi una mano sulla fronte, espirando profondamente. “Le tue parole mi spezzano il cuore, Sasuke, perché speravo di trovare in te un alleato e non un nemico.”

Dunque nei suoi affetti non mi aveva completamente rimpiazzato con quell’altro? Afferratolo delicatamente per un braccio, invitai mio fratello a sedersi sulla chaise longue, mentre io mi inginocchiavo davanti a lui, coprendogli le mani giunte sul grembo con le mie. E, guardandolo speranzoso negli occhi neri, tentai di farlo rinsavire:

“Non sono tuo nemico e non è mia intenzione abbandonarti! Voglio solo salvarti dall’errore della tua vita! Va bene, hai avuto questo momento di debolezza … Ma possiamo porvi rimedio! Vai dallo zio, digli di anticipare le nozze e giaci la sera stessa con lui! In questo modo, penserà che il bambino sia suo e in seguito diremo che hai avuto un parto prematuro!”, affermai speranzoso, pregando di ritrovare in quelle iridi pece un guizzo di lucidità.

Invece, le mani di mio fratello si sottrassero come ustionate dalle mie, nel frattempo che il loro proprietario balzava giù dalla chaise longue, indietreggiando e fissandomi inorridito.

Accecato dal mio puerile tentativo di trattenerlo a me, non mi resi conto che avevo invece provocato la prima crepa tra lui e il sottoscritto.

 “La tua proposta mi riempie di schifo e di orrore, Sasuke, e mi risulta arduo concepire che simile porcata venga da te!”, boccheggiò scandalizzato Itachi, neanche avesse dinanzi a sé il più nefando dei diavoli dell’inferno. “Il mio corpo e il mio spirito sono vincolati dalla promessa che feci a Kisame prima della sua partenza; voto che rispetterò anche a costo di subire le vostre ire, non m’importa!”

“Non ritornerai mai da quel figlio di cagna, Itachi! Anche a costo di trascinarti all’altare per i capelli!”

  “Provaci e io ti precederò, buttandomi giù dalla finestra! In fin dei conti io non ho nulla da perdere”, sorrise obliquo, provocandomi un terribile brivido freddo per la follia contenuta in quella smorfia. “Mentre tu avrai due vite sulla coscienza … ”

“Hai perduto completamente il senno?”, ansimai sconcertato. “Ti ascolti? Vuoi essere diseredato?”

“E non ti farebbe piacere?”, mi ritorse contro Itachi, crudelmente beffardo. “Oh, via quell’espressione confusa ed innocente, Sasuke! Tanto lo so che molte volte ti sei augurato che non fossi mai nato, così da avere l’attenzione dei nostri genitori esclusivamente per te! So che mi hai sempre invidiato, magari persino odiato! Ma non ti preoccupare: al suo ritorno, Kisame ha giurato di sposarmi, di portarmi via di qui! Così non dovrai più roderti il fegato per via dei paragoni tra te e me, perché non mi vedrai mai più, Sasuke, mai più! Non sei contento? Non ti piace questo mio ultimo regalo?”

“Il più grande regalo che avresti potuto farmi, sarebbe stato appunto il non essere mai nato! Un bel sollievo! Non sarebbe stata una prospettiva malvagia, no, visto che nostro padre non aveva la benché minima idea che razza di tanghero per figlio avrebbe avuto!”

Gettando il capo corvino all’indietro, Itachi si esibì in una risata gutturale, cattiva, sinistra. “Se stai facendo rifermento a te stesso, stupido fratello, mi trovi perfettamente d’accordo!”

Fu la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso. Come osava, il maledetto. Come si permetteva …! Avevo scioccamente ipotizzato, che si sarebbe vergognato del suo errore, che avrebbe cercato di fare ammenda! E invece no, no, non solo seguitava nella sua nefandezza, ma mi sfidava, ci sfidava!, criticandomi, lui così orgoglioso e intoccabile nella sua peccaminosa convinzione!

Sempre osannato, sempre protetto, sempre giustificato!

E ora pure mi giudicava, sperando di far passere me dalla parte del torto!

Compresi cosa aveva spinto Caino a levare la mano contro Abele.

E similmente, afferrai il primo oggetto che potei reperire, usandolo per colpire mio fratello, per indurlo all’obbedienza, per impedirgli di abbandonarmi, per tarpare definitivamente quelle acerbe ali che comunque aveva avuto l’ardire di sbattere, onde volare via. Perduta la mia arma, seguitai a percuotere coi pugni Itachi, il quale subiva senza alcun accenno a reagire, limitandosi a rimanere rannicchiato a uovo, le braccia incrociate sul ventre per proteggere la creatura che vi cresceva. I miei pugni colpirono, colpirono alla cieca, talvolta perfino a vuoto, mentre la mia vista si ottenebrava di lacrime di stizza e dolore, di angoscia e di vergogna, la mente sconvolta da un turbinio di sentimenti in chiara lotta tra di loro, odio e amore, ragione e cuore.

In realtà, a governarmi era la follia.

E di fatti, cessata la lapidazione di pugni e approfittando dell’attimo di confusione di mio fratello, lo afferrai per un braccio, issandolo, e lo trascinai violentemente fino in salotto, là dove nostra madre, la nonna e le zie stavano dando il benvenuto allo zio Madara, giunto a villa Nakano per la sua consueta visita. Una volta lì, spinsi di malagrazia Itachi in mezzo a loro, tanto che questi barcollò scompostamente, rischiando di cadere per terra.

“Sasuke, che modi!”, mi rimproverò mia madre, scioccata.

“Anche fin troppo cortesi, per una sgualdrina come lui!”

“Linguaggio, ragazzo!”, si levò lo zio a difesa di mio fratello, promettendomi grandi ceffoni su ambedue le guance per la mia villania. “E porta rispetto!”

“Rispetto?”, ridacchiai maligno. “Ma come zio! Proprio voi difendente a spada tratta questa meretrice? Dopo quello che vi ha combinato alle spalle?” e sogghignai compiaciuto alla vista del dubbio indugiare negli occhi dello zio. “Perché voi”, mi rivolsi a tutti i presenti, puntando il dito contro l’accusato, che quasi non pareva più respirare “sapete, vero, che cosa Itachi ha finora tramato a nostro danno?”

“Taci, Sasuke … Non mi tradire …”, m’implorò afflitto mio fratello, domandandomi con lo sguardo un briciolo di pietà nei suoi confronti.

Non ne ebbi.

Dinanzi alla giuria raccontai tutto.

Che demone mi aveva posseduto?

Uno che di sicuro mi fece godere dello spettacolo dello zio Madara che elargiva un sonoro manrovescio ad Itachi per poi andarsene via infuriato (di sicuro affatto contento dell’infedeltà di quello “schifoso scherzo della natura”) e delle donne di case che, più bellicose delle oche del Campidoglio, rincararono la dose, indirizzandosi a mio fratello coi nomi più ingiuriosi.

“Puttana!”

“Cagna!”

“Scrofa!”

“Escremento umano!”

E ovviamente, mia madre era quella che percuoteva più forte mio fratello, tirandogli i capelli e schiaffeggiandolo, nel frattempo che piangeva d’isterica rabbia. Gli conficcava le unghie nelle spalle, scuotendolo neanche avesse voluto staccargli la testa, singhiozzando che era un maledetto, un iniquo, un ingrato, un giuda iscariota, un pervertito, etc.

“Perché? Perché? Che ho fatto di male  per meritarmi un figlio così?”

Se Itachi riuscì a raggiungere integro quella sera la sua camera da letto fu solamente grazie al tempestivo intervento di Haku che, sfidando le unghie affilate della padrona e parenti, sottrasse a quelle novelle baccanti la loro vittima, mettendola in salvo, non senza essersele prese pure lui.

Ma ormai il danno era fatto e la mia famiglia aveva appena incominciato con la sua punizione.

Gli Uchiha reclamavano la loro libbra di carne.

 

 

Dolente, la nostra anima sfortunata  attendeva paziente, il suo fedele amore come unico scudo e sostegno.

 

 

Rinchiuso a chiave Itachi in camera sua, mia madre, dopo aver ingoiato due pasciuti bicchieri di cognac, scrisse tre lettere urgenti: la prima indirizzata a mio padre, pregandolo di ritornare a Konoha per un affare della massima delicatezza; la seconda al dottore che finora aveva sempre avuto in cura mio fratello e la terza allo zio Madara, supplicandolo di non essere precipitoso a ripudiare Itachi, giacché si sarebbe presto trovata una soluzione onorevole per ambedue le parti.

Il medico giunse il mattino seguente, trattenendosi nella stanza del paziente per un’oretta buona e uscendone ricoperto di morsi, lividi e graffi, prove evidenti della contrarietà di mio fratello circa il sottoporsi alla sua visita.

“Ebbene?”, s’informò mia madre, stringendo speranzosa il crocefisso al collo e augurandosi intimamente che le mie non fossero state altro che calunnie di monellaccio.

Tamponandosi un graffio sanguinante col fazzoletto, il dottore ci rivelò piuttosto a disagio: “E’ un’anomalia, madame … insomma, cose del genere non immaginavo neppure potessero … avevo sempre creduto nella sterilità di suo figlio … voglio dire, la sua deformazione non avrebbe dovuto  permettergli di …”

“Suvvia, basta farfugliare e parlate! Non ci fate morire!”, tagliò corto la nonna, sollevando il bastone in maniera molto persuasiva sotto il naso dell’uomo che, arrendendosi alle pressanti forze superiori, sentenziò:

“Sì, il ragazzo presenta tutti i sintomi di … di una …”

“Grazie mille, dottore”, gli impedì mia madre di terminare, acciocché l’abominio contro natura non insudiciasse le pareti di casa. “E ditemi … da quanto?”

“All’incirca tre mesi.”

“E’ stato il risultato di … di una sola volta?”

“No, madame. L’aveva perduta da molto tempo.”

“E … per quante … ha …?”

“Impossibile affermarlo con sicurezza, madame. In ogni caso, non era un principiante in certe … attività”, terminò il medico quella penosa conversazione, afferrando il cappotto, il cappello e il bastone da passeggio cedutigli da una nostra fantesca. “Bisognerà tenere vostro figlio sott’osservazione: sebbene la sua deformazione in questo straordinario caso lo aiuta notevolmente, la sua gestazione rimane comunque più difficoltosa rispetto a quella di una donna e il rischio di complicazioni, anche fatali per entrambi, sono alas molto alte.”

Il modo in cui mia madre strinse le labbra in una dura linea mi rivelò i sinistri pensieri, che le agitavano il petto: se la cosa fosse dipesa interamente da lei, avrebbe preferito di gran lunga che “madre” e figlio se ne andassero al Creatore, sistemando in maniera rapida e pulita la questione. Nondimeno, non poteva esternare siffatte cogitazioni, non a chi sottostava al giuramento di Ippocrate. Si congedò cordialmente gelida coll’uomo, ritornando al piano superiore, là dove Itachi ci attendeva nella sua stanza ancora steso sul letto, il telo bianco che copriva le gambe nude e lo sguardo fisso, spento, sul soffitto.

Non si mosse neppure all’ingresso della genitrice, rimanendo invece rigido e immobile nella sua statica contemplazione.

“Il dottore ci ha riferito che sbarazzarsi anzitempo del tuo bastardo potrebbe condurti alla morte. Di conseguenza, poiché errare è umano, sono dell’opinione di lasciarti … insomma, di proseguire la gravidanza fino alla fine. Ovviamente appena arriverà tuo padre sarà mia cura informarlo di quanto avvenuto”, asserì mia madre solenne e ieratica come un domenicano dell’inquisizione, ben conscia che mio padre avrebbe assecondato la sua decisione. “Tuttavia, questo non significa che vivrai come un privilegiato. Anzi, onde meglio ispirarti il sentimento di contrizione che ancora non noto in te, ho risolto di sottrarti ogni passatempo e comodità, di cui finora hai goduto. La tua piccola biblioteca verrà svuotata, il pianoforte chiuso a chiave e similmente anche il tuo scrittoio. A parte per la camicia da notte, la vestaglia e la liseuse, non avrai altro nell’armadio, così da non indurti nella tentazione di uscire, giacché rimarrai chiuso qui dentro fintanto che non ti sarai sgravato, senza poter parlare con nessuno. Inutile aggiungere, che Haku è congedato dal tuo servizio.”

Di norma, un discorso simile avrebbe indotto chiunque ad abbassare colpevole il capo, magari provocandogli perfino una lacrima traditrice; invece, mio fratello ascoltò le condizioni della sua nuova e più terribile prigionia con la medesima pacatezza di un martire cristiano dinanzi al pretore.

Che cosa gli conferiva tutta quella forza morale? Quell’ostinatezza? Non sarebbe stato meglio piegarsi e ricongiungersi a noi? Se si fosse sinceramente pentito, lo avremmo di certo perdonato!

Io lo avrei perdonato, se mi avesse dimostrato che teneva più a me che al suo drudo.

Alas, non avevo capito che mio fratello mi amava a pari merito rispetto al suo amante, di un affetto diverso, ma pur sempre forte, vincolante. E io, stolto!, forzandolo a scegliere, me lo ero alienato. Fu forse questa mia infantile e perversa costrizione ad aver esacerbato la frattura tra di noi, più che il mio tradimento vero e proprio.

 

 

 

Com’era logico figurarsi, ai servi venne severamente vietato di parlare dell’affare a chicchessia all’esterno di villa Nakano, pena il licenziamento senza credenziali. La loro rovina lavorativa, in sostanza.

Inoltre, a loro fu proibito di rivolgere la parola a mio fratello quando gli portavano da mangiare -  pezzi di pane ammorbiditi nell’uovo e immersi nel brodo – o di rifilargli una lettera, se non proprio offrirgli l’occasione di scriverne una, magari avvertendo Kisame di quanto successo.

Ché la sua mia famiglia, ormai sul piede di guerra, meditava furibonda la sua distruzione.

Tuttavia, non essendo lui di Konoha la faccenda si ingarbugliava parecchio e spesso le continue visite dell’avvocato di famiglia si concludevano infruttuose. In ogni modo, ci adoperammo ad isolare Itachi dal mondo, nella speranza di vederlo ritornare strisciando da noi.

Invano.

Malgrado la solitudine forzata, i crampi della fame, la pressione esercitata da mio padre, nel frattempo rincasato, e di mia madre, mio fratello rimaneva granitico nella sua risoluzione di non pentirsi né di cedere ad alcuna delle continue minacce avanzate dai miei genitori o di sottostare alle loro condizioni.

Passò un altro mese.

Itachi  non proferiva più parola, se ne stava in letto tutto il giorno e solo di tanto in tanto rompeva il suo catatonico incantamento per mormorare tra sé e sé degli incoraggiamenti.

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

Mi sentii un verme.

E a causa del nascente e fastidioso punzecchiare del senso di colpa, non denunciai la visita notturna di Haku nella stanza di Itachi né rivelai quanto il domestico gli regalò.

“Non dovresti rubare dalla dispensa, Haku”, lo rimproverò stancamente mio fratello, pur accettando il boccone che il ragazzo gli porgeva.

“E lasciare che ‘sti filistei v’affamino? Mai!”, protestò focosamente l’altro, sistemando in un sicuro nascondiglio il resto della refurtiva mangereccia, una volta terminato di aiutare mio fratello a mangiare. Sospirando tristemente, il giovane si accoccolò ai piedi del letto, le mani bendate in grembo. “E comunque, fazzo fagòto e me torno a Kiri. M’han licenzià. La vècia (vostra nonna ) me l’ha giurata, quando le ho morso la caviglia mentre mi menava col bastone. Paron, mi so brutto, so poveretto, so tutto quel che volé, ma anca ‘l can morde, se ‘l paron lo batte troppo! Me voleva mazzare,  ve lo giuro sulla testa de’ Sant’Erasmo!”, disse e di fatti, il modo cauto in cui Haku muoveva il tronco e il lieve zoppicare denotavano un certo accanimento nelle percosse. “Me ne vado, paron, sebbene me schioppa el cuor a lassarve qui da solo.”

“E che farai ora, Haku?”, s’informò dolcemente Itachi, che aveva ascoltato tutto in silenzio, grato della poca luce che celava l’enorme tristezza di doversi congedare forse per sempre dal suo più prezioso alleato e complice. “Tua madre è vedova, si sostiene a malapena da sé! Come te la sbroglierai?”

Un timido rossore tinse le gote del ragazzo. “Hé, paron, savé … ecco, l’ultima volta che gh’ho visitato la mia mama … ehm  … vi ricordate di Zabuza, no? El m’ha dito … m’ha dito che, se voggio, è più che disponibile a darme el segno …”

Itachi sorrise a fior di labbra, malinconicamente incoraggiante. “E  avrai accettato, mi auguro?”

“Sì ben … o me mama me mazzava …”, si giustificò debolmente Haku, quando in realtà doveva essere stato molto entusiasta all’idea. “Però, paron, se volete venire via con me doman mattina, fatelo! Non gh’ho nisùn problema ad ospitarvi!”

“No, non è mio desiderio coinvolgere altre persone”, declinò mio fratello l’offerta, scendendo piano dal letto e, portatosi alla stessa altezza del servo, gli circondò il viso con le mani. “Fai bene ad andartene via da qui, Haku e non ti angustiare per me. Presto Kisame tornerà dal suo viaggio e a Kiri potrai visitarmi quanto vorrai. In aggiunta, sarai finalmente padrone di una casa tua, avrai una tua famiglia e … e … non dovrai mai più sottostare ai miei capricci …”, la voce di Itachi tremò impercettibilmente. “Sono desolato per quanto avvenuto, Haku! Non volevo che ti punissero per causa mia!”

“Via paron, le busse de me mama fanno più male de’ bastonate d’una vècia! M’han licenzià, pasiénsa, me marìdo”, sdrammatizzò Haku. “Eppoi, la colpa xé mia: avrei dovuto prestare più attenzione al santuario, cussì paron Sasuke …”, ma per delicatezza nei confronti di Itachi non proseguì oltre, chetandosi. “Non c’è gnente che possa fare per voi, paron?”

“No, Haku. Quest’inaspettata cena è più che sufficiente.”

“Se lo volete, potrei rivolgermi al cogitore …”

“Non ti ascolterebbe in quanto straniero e domestico degli Uchiha. Penserebbe che le tue altro non siano che calunnie, biasimando te al posto loro.”

Silenzio.

“Ben, paron. M’arrendo”, sbuffò snervato Haku, frugando nella tasca della sua uniforme. “Però un ultimo presente, ve lo voggio dare …”, dichiarò convinto, estraendo quello che doveva essere un doppione della camera da letto di Itachi, i cui occhi si allargarono per la piacevole sorpresa. “La vècia Keiko non se n’è manco accorta!”, gli spiegò compiaciuto il domestico. “Gli ho rubato le chiavi, preso lo stampo su di una candela e portato da un ferramenta! Quando volete, paron, potete scappare via di qui!”, disse e lo abbracciò pieno di trasporto, incurante della differenza di classe, d’età e di qualsiasi cosa li potesse separare.

In quell’istante si consideravano solamente due  giovani pieni delle loro aspettative e progetti, ansiosi di realizzarli e beffardi contro le imposizioni della società. Niente servo e padrone. Niente. Amici. Fratelli. Compagni d’arme. Complici. Pari. Uguali.

“Vi aspetterò con ansia a Kiri, paron!”

“Prepara almeno una  decina di frittelle, mi raccomando!”

“Anca venti!”

Altro non aggiunsero.

Non ve n’era bisogno.

Il giorno dopo Haku non si presentò all’appello mattutino, l’unica sua traccia rimastaci fu un  biglietto in cui ci invitava in una scrittura sgangherata ad andare a farci squartare.

 

 

Il suo segreto, inoltre, incominciava a svelarsi agli occhi dei disgustati genitori.

 

 

Nessuno si sorprese del puntuale ripudio di Itachi da parte di zio Madara.

“Carissimo cugino – diceva il conciso biglietto recapitatoci, ché lo zio neanche s’era degnato di venire di persona a riferirci la sua decisione – otto anni addietro vi domandai il permesso di frequentare vostro figlio in vista di una nostra unione, quando egli avrebbe raggiunto la maggiore età. Ebbene, considerato l’innominabile oscenità da lui compiuta a mio danno, a voi chiesi di fare di Itachi il mio consorte e ora a voi dico che lo ripudio. Cordiali saluti, U.M.”

La risposta di mio padre non tardò a venire.

“Cugino, comprendo come voi vi possiate sentire dopo una simile offesa; tuttavia, cercate di essere un poco comprensivo: mio figlio Itachi è in sostanza un ingenuo, ignaro della malizia del mondo. Irretirlo e indurlo al peccato  non aveva avuto quel maledetto alcun problema. Accetto la vostra decisione e al contempo vi invito a mostrare clemenza nei confronti del ragazzo. Per amor della nostra famiglia, nella nostra reputazione, della vostra reputazione, fateci l’enorme favore di sostenere dinanzi al mondo intero che il motivo dell’annullamento del matrimonio si basava su di un trauma subìto da Itachi, che lo ha a tal punto scosso e portato sull’orlo della follia, da spingerlo a ricercare la quiete del monastero. È l’ultima richiesta che vi avanzo. Cordialmente, U.F.”

Lo zio accettò, più che altro per salvare la sua reputazione, giacché sono sicuro che non gli avrebbe fatto piacere essere soprannominato “il gran becco di Konoha”.

Anche Itachi ricevette, dopo ben due mesi di reclusione, una missiva. O meglio, una …

“Io, Uchiha Itachi, dichiaro solennemente che la mia gravidanza è il risultato di uno stupro subìto, il cui colpevole porta il nome di Hoshigaki Kisame – che significherebbe questo?”, interruppe mio fratello la lettura e appoggiando con schifata lentezza il foglio.

Puntando il dito sull’angolo sinistro in basso, mio padre evitò ogni spiegazione per un secco:“Firma.”

“E il bambino? Che ne sarà del mio bambino?”

“Verrà esposto alla ruota, dove crescerà coi suoi simili. Quanto a te, una volta ripresoti dal parto, entrerai in monastero e prenderai i voti, in modo da redimere la tua colpa tramite la preghiera”, gli rivelò nostro padre, intingendo il pennino nel calamaio e cedendolo ad un impietrito Itachi che, spostando lo sguardo dal foglio al genitore, replicò lapidariamente:

“No.”

Digrignando i denti e tuttavia tentando di mantenere l’autocontrollo, mio padre gli afferrò il polso, cacciandogli di malagrazia il pennino tra le dita. “Non credo tu sia nella posizione di rifiutare, Itachi”, sibilò, sbattendo snervato il foglio quasi sotto il naso di mio fratello. “Grazie a questa dichiarazione, ne uscirai in un certo qual modo pulito e nessuno avrà di che biasimarci!”

“E’ solo una questione di punti di vista”, obiettò Itachi, sciogliendosi bruscamente dalla presa paterna. “In ogni modo, mi rifiuto di firmare siffatta scelleratezza. Non solo, ci sputo pure sopra: al vostro ricatto, alla mia reputazione, al nome degli Uchiha! Se volete costringermi ad accusare il mio compagno di stupro e di separarmi da mio figlio, allora dovrete passare prima sul mio cadavere!”, gli promise fieramente, sfidando il genitore cogli occhi.

“Firma, disgraziato. Firma o giuro che ti espongo sulla pubblica piazza come meretrice, portandoti a spasso col guinzaglio per le vie di Konoha e indossando la maschera della vergogna!”

Il labbro di Itachi tremò impercettibilmente all’idea di dover subire quell’umiliazione e di portare quell’orribile maschera  che lo avrebbe reso ridicolmente grottesco, nonché incapace di parlare a causa della lingua tenuta a forza fuori dalla bocca di ferro. Nondimeno, neppure la prospettiva di camminare vestito di sacco, legato come un cane e con la maschera delle donne di malaffare o eccessivamente pettegole e impiccione lo spaventò, facendolo vacillare.

Fedele al suo giuramento, mio fratello tirò a sé il foglio e, afferratolo con ambedue le mani e levatolo in alto, lo strappò in chiaro segno di sfida davanti al livido padre.

“Spero ardentemente che la febbre puerperale ti pigli, maledetto traditore”, ringhiò offeso mio padre, uscendo furibondo dalla stanza del figlio.

“In attesa di ciò, che gli siano ridotti i pasti da tre a due volte al giorno.”

Fu un bene che l’inverno fosse ormai finito: i servi avevano ricevuto l’ordine di lasciare anche il caminetto sprovvisto di legna.

 

Amare lacrime vennero versate, nessuno poteva consolare il suo strazio.

 

 

Quinto mese.

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

Di giorno, di notte, di mattina, di pomeriggio, incessantemente, incessantemente, mentre la sedia a dondolo cigolava avanti e indietro, avanti e indietro … gnik-gnak, gnik-gnak …

Che la smettesse!

Sesto mese.

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

… gnik-gnak, gnik-gnak …

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

… gnik-gnak, gnik-gnak …

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

“Tornerà, me lo ha promesso. E quel giorno saremo felici.”

… gnik-gnik, gnik-gnak …

Lode alla pazienza ossessiva di Itachi, ché Kisame tornò veramente a prenderlo, rubandomelo definitivamente, corpo e anima.

Mi … (scarabocchio illeggibile) La mia mano trema al pensiero di quel che poté essere successo la fatidica Notte di San Giovanni, solstizio d’estate e appuntamento dei morti sulla terra dei vivi, onde sperimentare per un breve istante il piacere di riempirsi i polmoni di aria e non del consueto humus.

O acqua.

Chiedo perdono a coloro – o colui – che mi auguro stia leggendo queste mie cronache: alas, di persona e nello specifico ignoro le vicende di quella notte. Coloro che la vissero strinsero con se stessi il tacito patto di non parlarne ad anima viva, serbando in eterno i veri fatti. Le leggende e ballate sono un misto di verità e fantasia, di dolorose vicende e di ciò che alla gente piace sentire.

Ah, ironia della sorte!

Potrei certamente domandare maggiori informazioni ad Itachi, che per tutta la stesura di questo diario non mi ha abbandonato per un solo istante, tuttavia non gli darò questa soddisfazione! Il mio suicidio sarà sufficiente, ne sono certo.

Di conseguenza, lascerò che sia la Ballata della Sposa Mancata a parlare per me, dimostrando che alla fine perfino un estraneo poteva capire mio fratello meglio del sottoscritto.

Cediamo la parola ai morti.

 

Ma ecco che nella notte di San Giovanni un piccolo rumore distolse questo spirito afflitto da un sonno agitato.

Chi sarà mai?

Oh, meraviglia! Oh, somma gioia!

L’amato, il diletto, lì sorridente all’ombra degli alberi spogli l’attendeva!

“Sei tu! Finalmente!”

“Sì, mia vita. Sono io”, rispose l’amato. “Ancora mi sei fedele?”

“Fino alla morte e oltre! Ma ora raggiungimi, te ne supplico! Da troppo ti aspetto! Lasciati stringere al mio petto!”

“Non posso entrare, mia luce: invece, va’, prendi lo stretto necessario e vieni meco, ch’è giunta l’ora di sposarci!”

Quando si è innamorati non si pensa troppo alle conseguenze e nulla appare fuori luogo o bizzarro.

Né si avverte il bisogno di consultarsi con chi ha più esperienze di vita.

L’infelice obbedì e scese dalla sua torre di avorio, congiungendosi al suo promesso.

Una carrozza lì aspettava, una carrozza più nera di quella notte senza né luna né stelle.

 

 

“Hai la pelle gelida, amore mio! Il tuo mantello non ti scalda a sufficienza?”, chiese la Sposa Mancata durante il viaggio.

Sorridendole, lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti hanno sempre freddo?”

La sua metà rise di gusto allo scherzo.

“Ne vuoi un po’?”, gli offrì del panpepato: da molto erano in viaggio, il suo diletto doveva essere affamato.

Sorridendo, lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti non hanno più bisogno di mangiare?”

La Sposa Mancata rise con meno gusto allo scherzo.

“Perché il cocchiere non vuole essere pagato? Ha galoppato per quasi tutta la notte!”

Sorridendo, lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti non hanno più bisogno dei soldi?”

La luce dei suoi occhi non rise allo scherzo.

 

 

“Aspettami qui, io vado a chiamare i testimoni!”, disse lo sposo, lasciando l’amore suo sul sagrato della chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara.

Scoccò la mezzanotte.

Tutto taceva, solo l’eco del ruggito del mare si poteva udire in quella notte così silenziosa, così spettrale, avvolta da una fitta nebbia.

 

 

“Chi va là?”

“Perdonatemi, padre, sto attendendo il mio promesso: è andato a chiamare i testimoni, ché stanotte ci sposiamo!”

“Ah, e quale sarebbe il suo nome?”

La Sposa Mancata glielo disse.

Gli occhi dell’anziano sacerdote si spalancarono pieni d’orrore: Dio, del cielo, poteva essere?

 

 

Violini, flauti, cetre, cembali e tamburelli annunciavano il festoso corteo.

E che corteo! Neppure un principe ne avrebbe mai avuto uno simile!

Lo sposo arrivò infine mentre tutti i suoi compagni gli facevano festa. “La sposa tua dov’è? Abbiamo voglia di festeggiare la fortunata, che fedele e paziente ti ha atteso!”

L’infelice vide tutto questo e un terrore folle assalì il suo cuore.

Lo sposo chiamò a gran voce il suo amore: “Vieni, luce dei miei occhi! Gli invitati son giunti: cosa ti trattiene?”

“Vattene, via, anima dannata!”, ribatté invece il prete, che ben sapeva chi in realtà lo sposo fosse: aveva sentito di una nave naufragare poco distante dai loro lidi e di sicuro egli altri non poteva esserne che il capitano.

“Vattene, tu e tutti i tuoi compagni!”

 

 

Il corteo era composto da coloro che il mare non aveva più restituito alle loro famiglie.

Alcuni di loro erano padri, altri figli, altri fratelli, sposi e cugini.

Anime perdute, la cui morte neppure una Messa aveva ricordato.

“Indietro, vecchio! Siamo qui per celebrare le nostre nozze! Voglio il mio amore! Un giorno giurammo che ci saremmo sposati, vivi o morti!”

“No, non puoi! Iddio non approva siffatte unioni! Ritorna tra i morti, là dove la luce del sole non rifulge!”

“No, finché l’amore mio non manterrà la sua promessa, io non me ne andrò!”

L’acqua del mare ruggì in approvazione, risalendo su, su fino a lambire le scalinate all’entrata della chiesa.

Che fare dunque?

Il corteo di spiriti gorgogliava minaccioso e lo sposo stesso appariva più un demone dell’inferno, che il tenero amante conosciuto dalla nostra anima sfortunata.

“E sia, annegato! Ecco, prendi la tua sposa!”, disse il prete, afferrando la mano alabastrina dell’infelice e mozzandogli l’anulare con indosso l’anello di fidanzamento.

“Così nessuno l’avrà, fintanto che sarà in vita!”

E detto questo, lanciò il dito nell’acqua nera come l’inchiostro.

Il  morto, urlando di sdegno e orrore, si ritirò assieme al ringhiante corteo e al mare rabbioso.

La Sposa Mancata svenne.

 

 

 

 

 




 

 

 

 

 

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To be continued …

 

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Uhm, com’è venuto? Quest’ultima parte è stata un’improvvisazione, un esperimento quasi! Ovviamente, la “ballata” l’ho scritta io, quindi  … Spero che il litigio non abbia infastidito nessuno, anche a me piace il "fluff" tra i due fratelli, ma alas, in questa storia ci andava. E l'amore fraterno non è bello se non è litigarello ...

Alla prossima, ciao!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Sto facendo riferimento al sistema scolastico italiano dopo la Legge Casati (1859), dove l’Istruzione  Secondaria Classica (su pagamento) era divisa in Ginnasio e Liceo, il primo dai 10 ai 14 anni e il secondo dai 14/15 ai 17/18 anni. Mi sono presa, se non si è notato, una licenza storica, visto che questa riforma è entrata in vigore dopo la data nella fic (1857). Vabbé, sopravvivremo.

[2] Fin quasi alla seconda metà del Novecento, la maggiore età si raggiungeva ai 21 anni per i maschi e 18 per le femmine. Tuttavia, i maschi già a 18 anni si potevano sposare, mentre le femmine a 15.

[3] Malgrado sia in francese, è un vecchio proverbio tedesco (derivato da un aneddoto sulla vita di Federico II di Prussia ) che significa che anche contro i poteri forti la legge (i giudici in questo caso) possono dare ragione agli "svantaggiati". Lo stato ideale, insomma.

[4] Voltaire era famoso per il suo sferzante sarcasmo, facendo di lui il maligno per eccellenza.

[5] Fino ai 14-15 anni i maschi indossavano dei calzoncini corti, lasciando le ginocchia o nude o coperte da delle calze. 

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Capitolo 6
*** Dal Diario di Uchiha Sasuke: 1858- 1919, Decadenza di una Famiglia Maledetta ***


Heilà!

Dopo una pausa di quasi due mesi, rieccomi a tormentarvi con questo mio delirio! Non mi era venuto il blocco dello scrittore, solo troppe storie da aggiornare, un po’ di magagne personali e poco tempo a disposizione (che mi sa qua manca a tutti, ma vabbè …)

Una buona notizia, però: ci stiamo avvicinando alla fine di questa storia. Davvero e questa volta non è un falso allarme! Se il mio vizietto (prolissa fino al coma profondo) non ha il sopravvento sulla sottoscritta, ancora tre capitoli a partire da questo e ci siamo! Ammetto che avrei voluto una fic più breve, ma … ma alla fine Itachi ha rubato la scena più del dovuto. Per colpa di Sasuke che è un grafomane e scrive diari da far invidia a “Le Confessioni di un Italiano”! Cattivo, Sasuke, non si fa!

In ogni modi, proseguiamo con la storia!

Un sentito ringraziamento alla pazienza di tutti coloro che hanno atteso l’aggiornamento, ai miei lettori e recensori in particolare: April88; Lady_Loire; SellyLuna; Sagitta72 e Jooles. Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Vi auguro buona lettura!

 

 

 

 

 

H.

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L’interno della chiesa dell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara si presentava assai diversa da come Naruto l’aveva immaginata: una delle grandi pecche del giovane era stata di non aver mai lasciato, per un motivo o per l’altro, lo stato federato di Hi e in quel momento se ne rammaricò parecchio, giacché, dopo aver contemplato rapito il diverso stile architettonico e artistico di quel luogo sacro e della città portuale in generale, adesso comprendeva come mai durante le lezioni di storia il suo professore si era sempre dilungato sulle difficoltà e resistenze da parte di tutte le ex-nazioni al momento della riunificazione.

Si vedeva che Kiri in passato era stato un porto di una notevole importanza e soprattutto abitato da gente stufa di dover sopportare la malinconica nebbia, che ogni tanto avvolgeva la città: ciascun edificio mostrava decorazioni esotiche, bizzarre, curvilinee e al contempo rigidamente geometriche – molto simili a quelle di Suna - e non v’era una sola casa che non fosse stata affrescata con o il simbolo del mestiere di chi vi lavorava al suo interno (casa-bottega, così funzionava una volta) oppure di scene mitologiche per i più ricchi o, per i meno acculturati o indigenti, semplicemente colorate  da tinte vivaci e brillanti come blu, carminio, verde, giallo senape, arancione, etc., tanto da rendere Kiri un bell’Arlecchino. Camminando sotto i portici per raggiungere l’imbarcadero, Naruto aveva poi notato come le loro volte fossero state dipinte a mo’ di cielo stellato e che su tutte le lunette si alternavano scene della Passione (evidentemente per la Via Crucis del Venerdì Santo) e Madonne col Bambino. Eppure, considerando l’atteggiamento dei pochi abitanti coi quali s’era imbattuto, il giovane commissario aveva dedotto che tutta quella devozione sfiorava sorniona la superstizione pagana, forse sobillata in parte dall’occupazione di trequarti della popolazione di Kiri (marinai e mercanti), ergo una notevole incertezza sul ritorno dei propri uomini, almeno nei tempi che furono. Anche perché, Naruto non si sarebbe potuto spiegare altrimenti certi sacramenti che aveva udito volare con estrema nonchalance e che non solo avrebbero fatto impallidire un arcivescovo, ma che avevano coinvolto l’intera Corte Celeste e perfino i morti. Ma l’augurio peggiore, che aveva provocato un lungo brivido freddo al giovane, era stato: Che la Sposa Mancà te poxa ciapàr!

In ogni modo, nel frattempo che attendeva il ritorno della madre superiora, Naruto poté ben confermare i suoi dubbi sulla diversa concezione spirituale e quindi la conseguente mentalità dei due paesi: se la Cattedrale di San Michele Arcangelo in Foro a Konoha favoriva una severa articolazione architettonica a croce latina, così da sottolineare tramite la sua spartana monumentalità slanciata verso l’alto l’intima elevazione dell’anima verso Dio – ognora presente eppure inafferrabile, non identificabile, non circoscritto dalla ragione umana – la croce greca, la sontuosità e l’inaspettata esplosione di luce derivante dai mosaici della chiesa dell’Abbazia sottolineavano invece la celeste sovranità di Dio, l’Alpha e l’Omega, estremamente umano sul suo trono eppure ieraticamente inavvicinabile come un basileus bizantino. Abituato ai vuoti ed enigmatici occhi delle statue di pietra di Konoha, quelli incredibilmente vividi del Cristo Pantocratore sul catino absidale avevano messo il giovane in totale soggezione, rubandogli il respiro e portandolo a momenti ad inginocchiarsi sconfitto ai suoi piedi.

Era questo il motivo per il quale neanche un essere come la Sposa Mancata, o Uchiha Itachi, poteva sopportare la vista di quello sguardo così profondo, inquisitore, che pareva strappare dall’anima le colpe più recondite e presentarle al peccatore onde ispirare una sincera contrizione?

Era paura quella che si provava dinanzi a quello sguardo? O profonda vergogna?

Si vociferava che a Kiri si raffigurasse Dio così, perché la natura mercantile della popolazione la spingeva a volerseLo propiziare, istaurando un rapporto quasi a tu per tu. In realtà, il biondo comprese che un Dio così vicino e scrutatore serviva loro da monito: siate accorti nei vostri affari, non ingannate il prossimo, non imbarcatevi in niente di losco e amorale, poiché alla fine non c’è segreto che la vostra anima possa nascondere a Me.

L’artista che aveva ideato e composto quel Cristo doveva aver avuto molti peccati da espiare o uno solo ma grave, giacché soltanto chi aveva conosciuto appieno l’entità della colpa commessa poteva raffigurare con tale intensità l’Ultimo Giudice, senza però suscitare timore. Come se volesse ricordarsi per sempre del suo sbaglio. Un artista invero geniale che aveva fissato per l’eternità il pungolo alla penitenza.

“Ecco, tenga!”, la voce severa della madre superiora distolse Naruto dalla sua rapita contemplazione, salvandolo da inconsce lacrime: stress? Paura? Empatia? Pietà per i turbinosi avvenimenti che gli avevano scardinato l’esistenza? Per l’essere venuto a conoscenza di vite distrutte e accuratamente celate dall’ombra del perbenismo e buonismo?

“Che cos’è?”

Gli occhi leggermente velati dell’anziana donna si strinsero in ironica incredulità. “Lei viene a cercare risposte nella nostra abbazia, eppure non comprende che cosa possa contenere questo libricino? Ovvio, no? E’ la seconda parte del diario di Uchiha Sasuke, arricchito con le lettere dell’altro …”

“La seconda parte? Vuole dire che la storia non si conclude con l’amputazione del dito di … lei ha capito … da parte del prete?”

La madre superiora prese un profondo respiro. “No, purtroppo. Il fu Uchiha Sasuke riempì due quadernini per raccontare esaurientemente l’infelice e maledetta vicenda di suo fratello. Due tristi copioni che una misteriosa donna portò qui da noi un anno dopo la morte del signor Uchiha, così mi raccontò una mia consorella poco prima di rimettere il suo spirito nelle mani di Dio. Si trattava di una signora distinta, mi narrò, molto ricca e tuttavia provata sia dalla terribile esperienza della guerra - che le aveva sottratto tre dei suoi cinque figli e ben due nipoti- sia della spagnola, che invece aveva portato via con sé il marito. Desiderava trascorrere il resto della sua vita in contemplazione e preghiera, così da rasserenare la sua anima fortemente turbata e rosa dal dubbio, dal vacillare della fede. Ma soprattutto, voleva espiare sia i suoi peccati sia quelli di una persona che aveva cercato e trovato la morte in quest’abbazia sessantadue anni prima.”

“La Sposa …”, soffiò Naruto, abbassando lo sguardo sul secondo diario, il quale si presentava leggermente rigonfio rispetto al suo gemello, in quanto v’erano incastrate al suo interno anche delle lettere. Dunque, la madre superiora sosteneva che il fantasma di Uchiha Itachi non poteva varcare la soglia della chiesa dell’abbazia, in quanto …?

“Esatto. Come unica condizione, oltre che ad una generosa donazione all’abbazia, questa gentildonna ci chiese di seppellirla una volta morta sotto la croce che sorgeva all’incrocio del nostro piccolo cimitero. Assieme a questi due diari, ovviamente. L’allora badessa accettò, ma quando la gentildonna morì alla rimarchevole età di centotre anni, nessuno tranne la mia consorella si ricordò della promessa, o poiché deceduto o perché si sapeva chi veniva seppellito sotto quella croce. Una sepoltura disonorevole per i buoni cristiani. Così, la mia consorella nascose i due diari e tali dovevano rimanere, finché proprio un suo concittadino di Konoha, o dovrei dire concittadina, non si presentò anche lei per svolgere delle ricerche concernenti la Sposa, rubando di conseguenza uno dei due diari.”

“Sta facendo riferimento alla signora Utatane Koharu?”

“Proprio lei.”

“Beh, immagino che chiamerà allora la sua morte castigo divino. È deceduta ieri. E sua nipote Tenten con lei. Entrambe assassinate dalla Sposa.”

La priora socchiuse gli occhi, accusando stoicamente il colpo. “Dio non si impiccia nell’operato di quell’anima perduta. Essa rinunciò alla Salvazione Eterna il giorno in cui decise di ricongiungersi anzitempo al suo amante, rimettendosi negli artigli del tentatore. San Girolamo sosteneva che Dio non biasimò tanto Giuda per aver tradito Suo Figlio, bensì per essersi impiccato.”

“Il vostro giudizio è duro e impietoso”, replicò Naruto, stringendo con forza i quadernini. “Ha letto la sua storia? Avrebbe condotto chiunque alla follia!”

“Ciò che la Sposa ha sopportato è lamentabile. Nondimeno, invece di rassegnarsi e di bere l’amaro calice offertogli, ha sfidato le leggi di Dio e degli uomini pur di punire a modo suo coloro che gli resero la vita un inferno in terra. Superbia et Furor, figliolo, hanno insozzato il candore della sua anima in un sudario imbevuto di sangue.”

“E non c’è modo per aiutarlo?”

Le labbra screpolate della badessa si arricciarono in una smorfia sibillina. “Lo fa per la salvezza dell’anima della Sposa o per amore della sua fidanzata?”

“Per entrambi.”

“Non può servire due padroni, figliolo. Deve decidere”, scosse il capo la donna,  alzandosi. “Legga pure con calma, l’aspetterò nel nostro piccolo cimitero.”

“Ma, madre!”, protestò Naruto, scattando in piedi. “Non ho tutto questo tempo! Hinata potrebbe trovarsi in pericolo! Magari la Sposa l’ha già …”

Un amaro sorriso. “La sua Hinata è caduta nella gabbia della Sposa lo stesso giorno in cui mise piede a Villa Nakano. Ma finché lei rimarrà qui, finché anche lo sposo non varcherà quella soglia maledetta, la sua fidanzata non avrà nulla di cui temere.”

 Mordicchiandosi a disagio il labbro inferiore, al giovane commissario altro non restò che convenire con l’anziana badessa, risiedendosi e aprendo il consunto libricino, la testa piena zeppa di domande.

Prima fra tutte: chi era quella misteriosa gentildonna?

 

 

 

Povera anima sofferente!

Da quel giorno non si riprese mai più.

Invano i genitori vollero riportare l’infelice a casa, ma non si trovava il modo:

“Il mio promesso sarà qui da un momento all’altro e sarebbe increscioso, se non dovesse trovarmi per le nozze!”

Impietosito, il prete si offrì di ospitare la Sposa Mancata nella sua abbazia.

“Ho perso il mio anello! Ho perso il mio anello! Che errore imperdonabile da parte mia! Lo ritroverò mai?”

“Come farò? Come farò? Che dirò al mio amore, quando giungerà qui per sposarmi?Mi vorrà ancora?”

 

 

Il bambino nacque a San Michele, il 29 settembre 1858.

“Non pensavo, dolente com’era, che Itachi sarebbe arrivato alla fine della gravidanza”, fu il commento di Sakura alla notizia. Quando il corriere ci recò la notizia, ella stava cenando con noi. “Quanto al parto, poi … mi sorprendo che sia ancora vivo …”

Molte cose erano successe dall’infausta notte di San Giovanni, 24 giugno, tra cui l’esclusione di mio fratello dal testamento di nostro padre e il suo successivo ripudio come figlio; la segregazione dello stesso nell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara (giacché Itachi s’era aggrappato alla tovaglia dell’altare pur di non abbandonare quel luogo sacro) e al mio fidanzamento con Sakura, l’unico episodio sereno nella nostra infelice famiglia, tranne forse che per l’annuncio della seconda gravidanza di Rin.

In ogni  modo, ora ch’eravamo ufficialmente fidanzati, Sakura aveva il permesso di frequentare assieme a sua madre più agevolmente e spesso la nostra casa, in vista ovviamente delle prossime nozze, fra esattamente cinque anni. Geld heiratet Geld, sussurravano i maligni, i soldi sposano i soldi. Eppure, non riuscivo a godere della mia fortuna: avevo, infatti, la sgradevole certezza di essermi guadagnato la mia felicità sulle rovine di quella di Itachi. Similmente ai fratelli di Giuseppe, avevo egoisticamente venduto la vita di Itachi per assecondare i miei desideri. E fu per quel motivo, che riferii in parte l’intero contenuto della missiva giuntaci da Kiri, sperando che Sakura non intuisse il mio stato d’animo assai agitato.

“Almeno nella disgrazia v’è una consolazione”, dichiarò seccamente mio padre. “Poteva nascere un maschio. Dio sia lodato che ha partorito una femmina.”

Avvertii un certo bruciore alle gote. Significava che l’avrebbero considerata meno?

La lettera incominciava a scottarmi nella tasca e sentii l’impulso di alzarmi da tavola, scusandomi per un leggero crampo allo stomaco. E proprio mentre stavo salendo le scale della sala grande, il campanello suonò per la seconda volta; intercettando il maggiordomo, recuperai il telegrafo consegnatogli e mi ritirai nella sicurezza della mia stanza, divorandone febbrilmente i contenuti.

Il signorino Itachi presenta tutti i sintomi della febbre puerperale, stop.

È già stato chiamato il dottore, stop.

Fategli compagnia almeno sul letto di morte, stop.

Ci sono buone probabilità che non sopravviva, stop.

Cordialmente,  Suor Maria Elisabetta della Visitazione.

Un tumulto mi sorse in petto: che fare? L’istinto mi suggeriva di ingoiare finalmente il mio dannato orgoglio e di correre al capezzale di mio fratello; la parte razionale di me, al contrario, mi suggeriva di lavarmene le mani. Del resto, Itachi aveva fatto la sua scelta, no? Aveva preferito l’amante a noi! Ciononostante, non mi pareva giusto lasciarlo morire da solo. E la bambina? Mia nipote? Quale sarebbe stata la sua sorte, se l’unico genitore rimastole al mondo fosse morto?D’impeto presi la mia decisione e tramite un abile stratagemma riuscii l’indomani a partire per Kiri: bastò addurre una semplice visita a Rin, che assecondò l’inganno.

Grave errore! Sarei dovuto rimanere, così da impedire l’orrida decisione che la mia famiglia stavano ordendo nel frattempo! Una decisione che avrebbe firmato la nostra condanna terrena ed eterna, includendo indiscriminatamente tutti, perfino Sakura, colpevole  di aver taciuto a riguardo e di essere entrata nella nostra famiglia.

Ma quale altra scelta mi rimaneva? A spingermi fu l’enorme pena e il rimorso e le ceneri ancora bollenti dell’amore fraterno! Malgrado gli avessi augurato ogni male, la prospettiva di perdere definitivamente mio fratello mi terrorizzava, neanche mi avessero preannunciato la scissione della mia anima in due parti!

Dovevo visitarlo, dovevo!

E tuttavia, avrei anche voluto non essere mai entrato nella cella (così si chiamano le stanze private dei monasteri, ndr.) dove un esangue Itachi tremava sotto i numerosi strati di coperte,  malgrado le perline di sudore che gli inumidivano il viso e i capelli. Il mio malessere non derivava dall’aria mefitica, ancora pregna dei vapori ferrosi del sangue e di altri liquidi cui non osavo neppure dar nome, bensì dall’impietosa incarnazione vivente delle mie colpe. In che condizioni avevo ridotto il mio povero fratello? Il viso grigiastro e sudaticcio ancora presentava i segni delle lacrime; i capelli attaccati alle tempie s’erano striati di preoccupati ciocche bianche e aveva appena ventun anni. Le gote si presentavano scavate e gli zigomi più pronunciati, neanche la pelle si fosse tesa sullo scheletro, chiaro segno di magrezza eccessiva. Di sottecchi spiai la mano sinistra: la protesi di legno all’anulare fissata con una cinghia di cuoio confermò i miei più terrificanti sospetti.

Dunque, era tutto vero.

Gli era stato sul serio amputato l’anulare per salvarlo dal fantasma di Kisame, venuto a reclamarlo anche da morto, come s’erano giurati poco prima della partenza di quest’ultimo.

Rabbrividii impercettibilmente.

“Quando giunse alla nostra abbazia, Itachi aveva perso una pericolosa quantità di peso”, mi riferì partecipe Mei (benché avesse cambiato nome dopo i voti monacali, continuerò a chiamarla così, per abitudine, sapete. Mia pigrizia mentale) “Inoltre, il trauma di quella notte lo ha debilitato ulteriormente. È un miracolo che la piccina sia sopravvissuta a tutto questo.” Ammirai la grande apertura mentale e carità cristiana della donna, così diversa dai superstiziosi e intimoriti bisbigli delle altre consorelle, che evitavano la cella di mio fratello quasi vi emanasse gli effluvi della peste. “Tuttavia”, riprese “il suo corpo non interamente femminile ha impedito grandemente il parto per vie … normali. Mi dispiace, marchesino Sasuke, ma siamo stati costretti ad un taglio cesareo:o quello o altrimenti rischiavamo di perdere entrambi. Vostro fratello ha fatto appena in tempo a vedere la sua bambina e a conferirle il nome, che due ore dopo Haku l’ha trovato delirante dalla febbre, la quale da ieri non accenna a calare. Siate quindi pronti al peggio, marchesino Sasuke”, mi pose Mei una mano sulla spalla, mano che serrai senza accorgemene, la vista appannata da lacrime montanti. Presi dunque posto accanto ad Haku – a Kiri i segreti non esistono e sono certo che appena saputa la notizia, il ragazzo si fosse immediatamente recato dall’ex-padrone – abbozzando ad un imbarazzato saluto: non ci eravamo di certo congedati nel migliore dei modi. Inoltre, fu strano vederlo indossare gli abiti tipici di Kiri (una camicia a maniche vaporose col gilet e la fustanella), piuttosto che la divisa da servitore. Pareva anche leggermente più in carne. Il matrimonio doveva avergli notevolmente giovato, conclusi.

“Sior marchexin”, rispose incolore Haku al mio saluto, asciugandosi gli occhi cerchiati di rosso dal pianto e dalla veglia forzata. Ovvio che non mi considerasse più un suo padrone, però fui contento dell’assenza di freddezza nella sua voce.

Mi sbagliai.

“Voialtri Uchiha siete pèzo de’ quei che ziogavan a’ dadi sotto la Croxe!”, esplose il ragazzo, colpendomi il braccio con incredibile forza - vista e considerata la sua corporatura minuta. “Siete stati crudeli col poveretto del paron!” Un secondo pugno. “Per cossa, poi?” Un terzo pugno. “L’avete affamato, era magro come uno scheletro, maledetti!” Un quarto pugno. “E alla creatura, non gh’avé pensato? Era gravido, sangue de diana, per poco non mazzavate entrambi!” Quinto pugno. “Povera putela, povera putela! So pare xé morto in mare, so “mare” va morir de’ febbre! Andé a farvi impiccar quanti che sé, se’l boia non s’offende! Cani! Sassini! Barabba!”, pigolò, coprendosi la mano e singhiozzando sonoramente, attirando così l’attenzione di Itachi che, compiendo l’enorme sforzo di sollevare un poco il capo indolenzito, aprì le palpebre umide di sudore per cercare la fonte di quell’inaspettato baccano.

“Itachi …?”, mi sporsi verso si lui, sperando in un contatto visivo.

Invano.

Sopraffatto dalla fatica, mio fratello richiuse in fretta gli occhi velati dalla malattia e cadde in pieno abbandono sul cuscino, appoggiando stancamente la testa dalla parte opposta.

Tremò violentemente, quando gli scostai pudicamente la frangia dagli occhi.

 

 

Del resto, il suo segreto cresceva giorno dopo giorno fino alla nascita di una piccina bella come il sole, l’ultimo legame con lo sposo scomparso.

 

 

 

Dopo che Haku ebbe modo di sfogarsi per bene a discapito del mio braccio, mi condusse nella cella accanto, là dove le novizie circondavano rapite e ridacchianti una giovane donna dai lunghi capelli rossi e abbigliata come le popolane di Kiri, la quale stringeva al petto con estrema cura un fagotto di panni. Aveva sciolto i lacci della bianca camicia merlettata, permettendo alla mia nipotina di usufruire della gonfia e lenta poppa presentatale. Ai piedi della balia dormiva serafico in una cesta di vimini il fratello di latte della neonata.

“Ameyuri!”, la chiamò Haku, prendendo posto accanto a lei. Neanche le avessimo pizzicate in attività oscene, le novizie si scossero dal loro incantamento, abbandonando la cella una volta, forse in realtà richiamate da Mei che le contò simil can pastore. “Allora, mangia?”

“De diana, se mangia!”, esclamò la giovane madre, reclinando il capo cosicché potei osservarla meglio: non particolarmente carina; tuttavia possedeva un ché di vivace e monellesco che me la rese subito simpatica. “Per cento! Fortuna,  che’l mio putelo gh’ha già poppato! Nol me lassa gnente, sennò!”

“Almanco uno in salute l’avemo!”, si segnò Haku sollevato, prontamente imitato dalla rossa. “A proposito, xermana, ti presento il sior marchexin Uchiha Sasuke, fradelo minor del paron!”

“Lutrissimo!”

“Onorato, signora”, abbozzai ad un breve inchino, che comunque provocò un certo sgranare degli occhi della giovane donna,  non avvezza magari a simili cortesie. “Vi ringrazio dal profondo del cuore, per esservi presa cura di mia nipote. Nondimeno, vorrei chiedervi di continuare ad essere la nutrice della piccina … Verrete largamente ricompensata, statene certa, ecco …” e m’accinsi ad estrarre delle banconote, sennonché la mano di Ameyuri mi bloccò il polso.

“No li voggio”, dichiarò seria, fissandomi lungamente dritto negli occhi. E dinanzi al mio sguardo perplesso, lei mi spiegò, dopo aver preso un profondo respiro. “Me marìo si trovava in quella nave. Anca lui xé morto in mare, sensa veder la sua creatura. Donca, no voggio schei. Lo fazzo per solidarietà, perché capisso el dolore de’ quel poveraccio de’ vostro fradelo!”

Un empatico silenzio s’intromise tra di noi, durante il quale ne approfittai per accarezzare discretamente la gota paffuta e morbida della mia nipotina, che mi spiò interdetta con la coda di un occhio nero pece. I nostri occhi. I capelli, invece, dai pochi ciuffi che spuntavano di qua e di là, parevano aver ripreso il colore di quelli del padre.

Eppure, era così piccola. Uno scricciolo.

“Che Dio vi benedica, signora”, le dissi col cuore in mano, prendendo congedo sia da lei che da Haku. “Accuditemela bene, ve l’affido …”, e rimettendomi il cappello, ruppi gli indugi che ancora mi tenevano ancorato alla piccina.

“Mayra!”, mi rivelò all’improvviso Haku, quand’ero ormai sulla soglia della cella. “Pensavo che avreste dovuto saperlo.”

Non mi voltai: un Uchiha non mostra la sua debolezza piangendo di fronte agli altri. E se lo feci, fu solamente dinanzi al mare tumultuoso e coi gabbiani a miei testimoni, nella solitudine di quel mare benefattore al contempo tiranno, che forniva agli abitanti di Kiri sia la ricchezza che la morte. Il suo eterno ruggito coprì coscienziosamente i miei singhiozzi.

Mayra.

Così si chiamava la mia nipotina.

Come la principessa della fiaba, che da piccoli Mamma Haruhi soleva raccontarci nelle notti di tempesta onde tranquillizzarci.

Ma la sorte non aveva – e non avrebbe - riservato a nessuno di noi l’agognato“e vissero felici e contenti".

"Spuma splendente, onda fremente.

Gioca col mare e lui ti catturerà”

 

Qui il diario s’interrompeva: al posto della narrazione, il suo defunto proprietario vi aveva inserito delle lettere datate tra inizio e fine ottobre 1858. Leggendone le firme, Naruto capì essere state scritte da persone differenti: Haku, l’ex domestico, suor Maria Elisabetta della Visitazione (o Mei Terumi, prima di prendere i voti) e, con suo sommo orrore, da Uchiha Itachi in persona.

Calmando il visibile tremore alle mani, il giovane commissario riprese la lettura.

 

 

Kiri, 6 ottobre 1858

 

 

(Scritto per conto del signor Momochi Haku, dal signor Kuriarare Kushimaru)

 

Egregio signor marchesino Uchiha Sasuke,

mi rivolgo a voi, giacché ho fede che voi siate l’unico giusto in quella Sodoma e Gomorra quale sia la vostra iniqua famiglia. Non biasimatemi per i toni sverzanti e duri. Se li meritano tutti, credetemi.

Vi recherà piacere la notizia della scampata morte di vostro fratello: le costanti cure del dottor Ao l’hanno sottratto dalle grinfie della febbre puerperale. Che sollievo, nevvero? A mio parere, sarebbe stato meglio se il signorino Itachi fosse morto di quella febbre!

Una delle novizie è una mia amica e mi ha raccontato della loro sorpresa nel vederlo nuovamente seduto sul letto, la fronte fresca, gli occhi limpidi e le gote leggermente rosee. Ed era lì quando il signorino Itachi, terminato il brodo di pollo, dichiarò sollevato: “Per fortuna non sono più un pericolo per la mia piccina. Per favore, portatemela!”

E non le sfuggì l’occhiata imbarazzata che le due suore si scambiarono, il loro tentennamento. L’impazienza del signorino Itachi. “Ebbene? Che aspettate? Voglio vedere mia figlia! Portatemela, ho detto! Cosa sono quelle facce? Mia figlia dov’è? Dov’è?”

Una delle due si era morsa a disagio il labbro inferiore, mentre l’altra abbassava colpevole lo sguardo.

“Dov’è?”

“Nella cripta, marchesino, nella piccola bara bianca che il prete sta benedicendo …”

E mi riferì dell’urlo disumano emesso da vostro fratello, dopo essere impallidito fino al violaceo, piangendo a momenti il suo stesso sangue! Mi narrò di come balzò giù dal letto, correndo via peggio di un invasato verso la cripta, gridando che voleva vedere la sua bambina. “Lasciatemi! Lasciatemi! Voglio vedere la mia bambina! Mia figlia! Non portatemela via! Non voglio! Non voglio!”

“Itachi! A che giova disperarvi? La piccola Mayra ormai è morta, il suo corpicino già riposa nel nostro cimitero!”, lo trattenne a forza il prete, impedendogli di raggiungere l’agognata cripta. E dinanzi ai suoi incessanti singhiozzi, a quel suo strapparsi i capelli e graffiarsi il viso, egli aveva tentato di consolarlo, dicendo: “Calmatevi, Itachi! Calmatevi, figlio mio! Siete ancora giovane, avete tutta la vita davanti! Potete avere ancora dei bambini!”

“E certo!”, convenne la madre superiora. “Quale puerpera non ha perduto almeno un figlio in vita sua! Oh là là, finitela con questi piagnistei!”, e batté snervata il bastone. I singhiozzi del signorino s’abbassarono di volume, ma non cessarono, perseverando in un persistente gorgoglio sconsolato.

Sapete, marchesino, perché appresi tutto ciò da questa novizia mia amica? E non ne fui invece io medesimo testimone? Perché mi chiusero la porta in faccia tre giorni prima! E Ameyuri, congedata dal suo ruolo di balia appena due giorni addietro, ancora ha gli incubi delle urla di vostro fratello! Ad entrambi, poi, è stato proibito di metter piede nell’Abbazia!

Coincidenza?

No.

Non quando vostra madre e la vostra fidanzata vennero a visitare questo nido di vespe proprio il giorno in cui divenni un ospite indesiderato.

Che abbiano ucciso la bambina? Prego per la loro anima di sbagliarmi.

Altrimenti, siete peggio del demonio in persona. Non avete decenza, né morale, né timore di Dio.

Non rispondete a questa mia missiva. Trovate, per cortesia, il modo per potermi parlare a quattr’occhi.

Spero di ricevervi presto in casa mia,

distinti saluti,

 

Momochi Haku

 

 

 

Finché un giorno funesto, la madre e la fidanzata del fratello minore vennero all’Abbazia del dolore.

 

 

Kiri, 21 ottobre 1858

 

 

Egregio signor marchese Uchiha Sasuke,

comprendo come la recente dipartita di vostro padre possa corrispondere ad un duro colpo per voi e per la vostra famiglia; nondimeno, mi duole informarvi come le condizioni della salute mentale di vostro fratello stiano irrimediabilmente peggiorando.

La morte della sua bambina ha minato fortemente l’equilibrio e la pace del suo spirito. Temo il peggio, signor marchese. Temo per il destino della sua anima, già di suo così compromessa a causa delle previe manifestazioni del maligno.

E gradirei, se non v’incomoda, che veniste a visitare vostro fratello. Infatti, non possiamo più contare né sull’aiuto di Haku né di sua cugina Ameyuri: sia il nostro prete che la badessa hanno loro severamente proibito di entrare nell’Abbazia. Ho i miei sospetti, ma non li esternerò in questa mia missiva.

Se ancora amate vostro fratello, anche di un bene piccolino, venite e cercate di lenire un poco l’enorme sofferenza che lo sta letteralmente corrodendo. Non vi costerà niente e aiuterete un’anima in difficoltà.

Che Iddio e la Vergine vi benedicano,

 

 

 

Suor Maria Elisabetta della Visitazione

 

 

E davanti al sagrato della chiesa, di notte o di giorno, col gelo o con l’afa, col sole o con la pioggia, attendeva e  chiamava ad alta voce lo sposo e la figlia.

I fedeli, vedendola, scuotevano il capo impietositi.

 

 

 

L’ultima lettera non recava un né luogo né una data, eppure Naruto ben immaginava da dove poteva essere stata recapita e soprattutto da chi.

Un’irrequieta e tremante mano carica d’odio aveva imbrattato in un incomprensibile arabesco la carta ormai ingiallita dal tempo. La grafia era ingarbugliata, frettolosa, collerica, come se lo scrittore avesse voluto incidere le parole piuttosto che scriverle; sbavature d’inchiostro e macchie che Naruto ipotizzò essere lacrime avevano reso doppiamente illeggibile il manoscritto.

Ma il giovane commissario si sforzò.

E il gelo della paura gli attanagliò il cuore.

 

Ti avverto, Sasuke! Ti avverto!

E non solo te, ma anche quelle sciagurate di tua madre e della tua fidanzata! E tutti gli Uchiha con loro … Attenti! Non giocate con me! Non posseggo più né la pazienza né la volontà di essere nuovamente manipolato da voi!

Ladri! Vigliacchi! Assassini!

Pensavate di farla franca, vero? Di ingannarmi? Di inscenare la morte della mia Mayra? Pah! Dovevate trovare uno stratagemma migliore!

Kisame mi ha detto tutto.

Mi ha rivelato la vostra porcata.

I morti sanno tutto, nulla sfugge ai loro occhi.

Voi me l’avete sottratta con l’inganno! Avete corrotto questa spelonca di ladri chiamata abbazia per allontanare Haku, avete complottato per far sì che io fossi persuaso della morte della luce dei miei occhi! Avete perfino osato dichiararmi incapace di intendere e di volere! Kisame mi ha riferito che volevate addirittura rinchiudermi in un lercio manicomio!

Disgraziati! Lurida feccia!

Restituitemela! Ridatemi mia figlia!

Lei è MIA!!! Mia!!! Mia!!! Non vostra! Non sarà mai una di voi! Non sarà mai un’Uchiha, un’altra figlia del diavolo il cui unico scopo è quello di rovinare la vita al prossimo!

Ridatemi mia figlia o troverò il modo per farvela pagare!

Anche a costo di rinnegare tutto ciò che sono!

Troverò il modo per tormentarvi così a lungo da farvi desiderare di non essere mai nati e anche in quel frangente, quando tenterete di porre fine alle vostre sofferenze, io sarò lì per fermarvi, acciocché esse ingigantiscano fino a condurvi alla follia più nera!

Riderò della vostra prostrazione, come rideste della mia e vi farò assaggiare la punizione cui il vostro titolo e i vostri privilegi vi hanno sempre sottratto!

Sarò il vostro carnefice! Il vostro castigatore!

Non scapperete da me!

Nessuno scapperà da me!

Scegliete! O mi restituite mia figlia oppure …!

Perché se è vero che per me non v’è più alcuna salvezza, allora vi trascinerò meco nella perdizione e nell’abisso delle fiamme nere del maligno. Mi avete abbandonato, ma oh, ci faremo tosto compagnia!

Nello stridore dei denti e nell’eterna notte del grande abisso.

Vi odio tutti.

Crepate.

Marcite all’inferno.

 

 

La Vigilia degli Ognissanti, la Sposa Mancata svanì nel nulla.

 

 

Evidentemente, quelle lettere giunsero troppo tardi nelle mani di Uchiha Sasuke, quando ormai i giochi erano fatti. Infatti, nel diario del defunto non appariva nessun commento, né un qualsiasi altro indizio che denotasse lo stato d’animo del suo autore e ciò convinse definitivamente Naruto, giacché, leggendo quelle memorie, s’era costruito l’immagine di una persona molto meticolosa. Di conseguenza, quell’assenza di note convalidarono la sua teoria sull’assoluta ignoranza di Sasuke su quel che stava accadendo a Kiri nel frattempo che lui … Già, bella domanda! Dov’era stato lui nel frattempo?

Un omicidio …, cogitava il biondo, rileggendo accuratamente quelle tre missive. Dunque, si adombrava l’omicidio della piccola Mayra e alla conseguente pazzia di Itachi per quest’ennesimo lutto.

Un moto di rabbia e frustrazione agitò il cuore del giovane commissario, disgustato dalla bassezza di quel gesto: come avevano potuto? Uccidere una neonata, una creatura innocente ed estranea alla faccenda? Per che cosa poi? Onore? Reputazione? Eredità?

Pazzesco. Inconcepibile. Quei bastardi si meritavano tutte le disgrazie capitatigli.

Ma e qui il ma! La “madre” dell’infante seguitava a reclamarla, neanche nutrisse il dubbio – no, la certezza! – che la sua figliola fosse ancora viva. La suora stessa parlava di “sospetti”. Che si trattasse di una farsa per camuffare un rapimento? Oppure, la follia aveva sconvolto a tal punto la mente di Itachi, da costringerlo a vaneggiare nient’altro che collerici deliri? Sosteneva addirittura di aver parlato con l’amante annegato! Oppure, le sue lunghe e approfondite letture sullo spiritismo avevano dato infine i loro frutti? Dov’era la verità in quel torbido e penoso enigma centenario?

Sfogliando il diario, Naruto reperì una quarta lettera, la tristemente nota conclusione di quel mese terribile.

 

 

Kiri, 2 novembre 1858

 

 

Egregio signor marchese Uchiha Sasuke,

immagino che voi non abbiate ricevuto le mie lettere; forse, vi trovavate in viaggio all’estero. In ogni modo, come vi avevo preannunciato in una mia missiva datata 21 ottobre e nella quale esprimevo i miei timori riguardo la sorte di vostro fratello, vi annuncio che solo oggi, dopo due giorni di ricerche in mare, è stato ritrovato il cadavere di Itachi.

La causa della sua morte è facilmente indovinabile ed era questione di tempo: scioccamente, sia la badessa che il nostro prete avevano supposto, che il dolore della perdita della figlia sarebbe stato addolcito col passare del tempo. Al contrario, quest’ultimo ha infierito barbaramente sull’animo già martoriato di vostro fratello, portandolo a perdere la lucidità giorno dopo giorno. Infatti, oltre che a rifiutare il cibo, Itachi aveva preso l’abitudine di alzarsi di notte e di vagabondare per il monastero, cantando nenie per bambini. Di giorno, invece, aspettava sul sagrato della chiesa il suo amante, lagnandosi di continuo che aveva perduto il suo prezioso anello. Inutile dire come la gente del posto abbia incominciato a tessere strane storie su di lui, ora commiserandolo ora deridendolo. La situazione peggiorò, tuttavia, nel momento in cui, sfidando gli ordini della priora, feci entrare Haku di nascosto nel monastero: ebbene, Itachi non lo riconobbe. Lo fissò a lungo, sorridentemente stranito, ma non diede cenno a riconoscerlo, seguitando anzi a cullare tra le braccia il vuoto e a canticchiare e a parlare tra sé e sé.

Talvolta, pizzicavo vostro fratello intento ad osservare piuttosto intensamente il mare: seduto a gambe penzoloni sull’imbarcadero di marmo, si perdeva nella sua gabbia fantasmagorica per ore e ore, incurante dei lazzi rivoltigli dai bambini o delle onde che lo bagnavano fino alle cosce o di qualsiasi altro richiamo al mondo esterno. In quelle occasioni mi avvicinavo a lui, invitandolo a rientrare, poiché conoscevo anche fin troppo bene “quello” sguardo. Allora, Itachi si girava verso di me, fissandomi con odio intenso, un astio che stranamente percepivo non essere rivolto alla sottoscritta, bensì a qualcun altro. Opponeva resistenza, arrivando a graffiarmi e a momenti a trascinarmi con sé in acqua.

Perché lui aveva eletto il mare a sua tomba.

Tutto accadde il 31 ottobre. Quel giorno, dopo il Vespro, notai l’assenza di vostro fratello tra le panche dei fedeli e, preoccupata, mi misi immediatamente alla sua ricerca. Lo trovai al suo solito posto (rannicchiato sui gradini dell’imbarcadero con le ginocchia al petto) dandomi subito della sciocca per essermi affannata in sì modo; tuttavia, lo stesso avanzai verso di lui piuttosto snervata, più che altro indignata dallo spettacolino offertomi: dei monellacci di ambo i sessi, in attesa dei loro genitori, lo avevano circondato, tormentandolo con infiniti dispettucci: ora, ad esempio, gli scompigliavano e tiravano i capelli; oppure lo punzecchiavano con dei bastoncini e pizzicotti, riempiendolo poi di alghe e strattonandolo per le vesti. Il tutto, mentre canticchiavano burlescamente la seguente canzonetta:

“La Sposina è triste,

 che si può far?

Vuol marito, la miserella,

dove lo podriam trovar?

Nel mar, giù giù co’ pesci,

dove l’andrem a gettar!” 

E alla vista di quei birbi malnati che s’appropinquavano a spintonare vostro fratello giù dall’imbarcadero, accelerai il passo, rimproverandoli aspramente ed elargendo loro anche un meritato scappellotto. Invece, Itachi si voltò verso di me, guardandomi sorpreso. “Perché li hai scacciati? Mi stavano preparando per le mie nozze con Kisame!”, ridacchiò, indicando le  alghe che adornavano a mo’ di coroncina i suoi capelli divenuti, alas, bianchi come la neve. “Se solo avessi il mio anello! Allora, riavrei mia figlia e il mio caro sposo …”

“E’ ora di rientrare, Itachi”, lo afferrai per un braccio, issandolo. “E comunque non dovresti avvicinarti troppo all’acqua …”, lo rimbrottai, levandogli quello schifo dalla testa. Vostro fratello si lasciò fare, seguendomi senza proferire parola finché non raggiungemmo la sua cella.

Fu l’ultima volta che lo vidi. Poco prima della mezzanotte, una conversa venne a svegliarmi, annunciandomi trafelata della scomparsa di Itachi dalla sua stanza: lo aveva cercato ovunque, senza tuttavia evidenti risultati. Un unico particolare l’aveva colpita: il pavimento della cella si presentava completamente bagnato e di fatti, recandomi lì anch’io onde verificare il suo racconto, appurai quei due o tre centimetri abbondanti d’acqua salsa. Dov’era, però, sgorgata? Come aveva fatto ad infiltrarsi? La marea era bassa e il mare non era in tempesta! In ogni modo, mi sentii in dovere di avvertire la badessa e di informarla dell’accaduto. Il giorno seguente setacciammo alla luce del sole ogni angolo dell’Abbazia, invano: vostro fratello non si trovava in nessuno luogo. Rassegnati alla peggiore delle ipotesi, ingaggiammo dei pescatori per cercarlo in mare e purtroppo le nostre paure si rivelarono fondate: questa mattina hanno reperito il corpo e già si sta decidendo sul suo destino, ergo dove seppellirlo.

Voi, marchese Sasuke, siete l’unico parente rimastogli, l’unico cui mi possa appellare per un minimo di carità cristiana. Vi prego, vi scongiuro, venite a Kiri. Almeno per reclamare la salma di vostro fratello. Ha molto sofferto e non vedo il bisogno d’infierire ulteriormente su di lui.

Che Iddio e la Vergine vi benedicano,

 

 

Suor Maria Elisabetta della Visitazione

 

 

Il mare ne aveva inghiottito le stanche spoglie mortali.

 

 

 

Ed ecco la replica di Uchiha Sasuke:

 

Mio fratello è morto.

Mio fratello è morto.

Queste furono le uniche parole che la mia anima riuscì ad elaborare, figurarsi la mente, che pareva morta d’ogni pensiero.

Itachi era morto.

Mi venne da ridere e al contempo da singhiozzare. Non ci potevo credere. Non volevo crederci. Mio padre era deceduto da neanche un mese (ancora vestivo di nero) e mi annunciavano che mio fratello s’era suicidato, annegandosi. Era ridicolo, era grottesco.

Infatti, verso inizio ottobre mio padre Uchiha Fugaku, durante una passeggiata a cavallo, era stato disarcionato dalla bestia, la quale s’era impennata inaspettatamente, vista la sua natura da tutti ritenuta mansueta. La caduta gli aveva distrutto la colonna vertebrale, perforandogli i polmoni con le schegge delle ossa. Quando lo riportarono su di un carretto a casa, bastò un’occhiata per comprendere che era già in agonia e che l’unico sollievo che il medico poteva dargli consisteva nel chiamare un prete per l’estrema unzione e somministrargli di tanto in tanto della morfina. Sei ore dopo, mio padre esalava l’ultimo respiro. Lo seppellimmo nel camposanto di famiglia, poco distante da Villa Nakano, là dove riposavamo tutti i nostri illustri antenati. Ancora mi sovvengono le emozioni che provai in quel momento, quel senso di dolorosa accettazione del mio neo acquisito ruolo di capofamiglia: lo sperimentai dal braccio che porgevo ad una piangente genitrice pesantemente nerovestita o alla presenza di Sakura accanto a me. Le stesse riverenze, gli onorifici, quel togliersi il cappello dinanzi al sottoscritto e mormorare: “Le nostre condoglianze, signor marchese”, appesantirono quel senso di responsabile gravità che già pesava sulle mie spalle ancora acerbe, segnando definitivamente la fine della mia breve adolescenza. Giuridicamente parlando restavo minorenne e sotto la tutela di mia madre, però sapevo che d’ora in avanti le sorti della famiglia Uchiha sarebbero state riposte nelle mie mani e il primo passo consisteva nella riconciliazione di Itachi con noi. A severe condizioni, sicuro, ma lo avrei riaccolto. Invece, gli impegni scolastici s’intromisero, costringendomi ad abbandonare Villa Nakano, ignaro delle macchinazioni della mia – ora posso ben dirlo! – scellerata famiglia e della tragedia che si consumava a Kiri.

Appresi per caso della morte di Itachi. Per caso. Per rimorso. Venendomi a visitare al collegio, Sakura mi consegnò dogliosa e contrita tutte le lettere a me indirizzate – quelle di Haku, di Mei, di mio fratello stesso e un’altra della signorina Terumi – spiegandomi di averle sottratte dallo scrittoio di mia madre, poiché quest’ultima s’era rifiutata di consegnarmele. Non domandai ulteriori chiarimenti: lessi e presi subito un treno per Kiri. Durante il viaggio, Sakura si sciorinò in ogni genere di mea culpa, sostenendo di non aver compreso la gravità di quei contenuti, che sì, lei le aveva viste, ma mai lette.

Vane parole, giacché da tempo avevo smesso di ascoltarla. Anzi, da tempo avevo cessato di vivere. La mia anima si sentiva così vuota, così confusa, neanche l’avessero menomata. Itachi era morto. Pensavo di aver sparso tutte le mie lacrime sulla tomba di mio padre e invece mi ritrovai a singhiozzare senza ritegno dinanzi alla piccola bara di semplice legno di pino (altro che il lussuoso noce!) dentro cui giaceva il mio povero fratello. Pareva così fragile, così indifeso. Stanco e più vecchio dei suoi ventun anni. Haku e sua madre gli avevano cucito apposta un modesto abito bianco e un lungo e pensante velo fermato da una coroncina di crisantemi e gigli gli nascondeva i capelli divenuti precocemente bianchi. La mano destra portata al petto celava gelosa lo scempio della sinistra e dalla loro fittizia unione scendeva un rosario di legno.

Scusami tanto, Itachi! Non lo farò mai più, te lo prometto!

Non ti angustiare, sciocchino! Ti ho già perdonato!

Ah, fratello mio! Così solevamo fare da piccoli, ti ricordi? Litigavamo, ma poi ci perdonavamo tutto. E dimenticavamo. E ricominciavamo. Sempre, però, con la certezza che saremmo rimasti assieme, uno accanto all’altro, a sostenerci, a rimproverarci, a proseguire mano nella mano lungo il cammino della vita.

Invece, stavolta il nostro ultimo tremendo diverbio non ha conosciuto il balsamo della riconciliazione. Ti avevo perduto, Itachi, per sempre. Non mi hai perdonato, né l’avresti mai più fatto.

Il funerale si rivelò un affare penoso. Secondo le leggi, un suicida non meriterebbe di venir sepolto in terra consacrata, ma al primo crocevia fuoriporta: col suo gesto, infatti, aveva rinnegato il dono di Dio e di conseguenza non poteva riposare tra i “benedetti”. Dovetti far ricorso a tutta la mia dialettica sia oratoria che pecuniaria pur di convincere il prete e la badessa a tumulare Itachi perlomeno sotto la croce votiva del piccolo cimitero dell’Abbazia, là dove le stradine aiuolate si intersecavano. Ovviamente, la tomba sarebbe rimasta anonima, però mi consolava (grande parola!) di aver risparmiato ad Itachi l’ultimo ostracismo.

Così m’ero illuso, mentre osservavo prostrato quella piccola bara venir calata nell’umida terra sabbiosa. Attorno alla fossa, un misero corteo assisteva alla svogliata funzione, un vestito di Arlecchino [1] formato da Haku, suo marito e sua madre; la balia Ameyuri, che mi sorpresi dal modo estremamente possessivo e sospettoso con cui stringeva al seno il figlioletto; la signorina Mei e il prete. Una cerimonia svelta, scocciata e piovve persino, neanche il mondo stesso avesse congiurato per nascondere il prima possibile quella pietra di scandalo.

“Povero Itachi. Finalmente riposa in pace”, mormorò mestamente Sakura, cingendomi il braccio. “E adesso che è tutto finito, torniamocene a Konoha, lontano da questo posto pieno di dolore. Là dove potremo dimenticare quanto accaduto!”

 “Sì”, bisbigliai a mia volta, gli occhi ognora puntati sulla fossa ormai ricoperta di terra. Finita. Sì, era davvero finita. Mio fratello apparteneva ai vermi. La sua intelligenza, le sue passioni, i suoi rimpianti, i suoi progetti, tutto sarebbe stato annientato da quegli spazzini invertebrati. Ingoiato dall’anonimato della tomba di un miserabile. Destinato all’oblio. Un tale umiliante epilogo non l’avrei mai immaginato per lui. Mai. “Andiamo a casa, Sakura …”

Lei, però, non si mosse, fissando terrorizzata oltre le mie spalle, gli occhi sbarrati e dilatati. “Oh Dio Santissimo …”, ansimò cinerea in volto. Temendo di un eventuale suo deliquio, l’afferrai prontamente per le spalle, sorreggendola.

“Sakura! Che vi prende? Cos’è successo? State poco bene?”

La mia fidanzata non rispose, indicando tremante un punto indefinito dinanzi a sé.

Mi voltai e vidi il nulla.

“Lo vedi? Lo vedi?”, si portò ella la mano al cuore, indietreggiando verso il portico del monastero. “Lo vedi?”

Allungai il collo, aguzzando la vista: niente, solo grigie lapidi e angeli e santi di pietra. Niente. “Sakura, vi sbagliate. Siamo soli, chi dovrebbe esserci?”

“Lui! E ride! Ride! Ride di me! Di noi tutti!”, gridò infine la mia promessa, facendo un isterico dietrofront e correndo peggio di un’invasata nella salvezza del monastero, abbandonandomi lì, nel bel mezzo di un acquazzone.

Avvertii chiaramente un tocco gelido alla mia nuca.

“Chi va là? Chi va là?”, domandai imperioso, girandomi di scatto in ogni direzione. Avevo sentito qualcosa, una presenza, forse? Avevo sentito qualcosa e non si trattava soltanto del furioso tambureggiare della pioggia sulle tombe! “Chi va là?”

Una lieve pressione sul mio braccio. “Sasuke?”

E anch’io cacciai un urlo spaventato, voltandomi in direzione di quel richiamo.

“State bene?”, inquisì preoccupata Mei, arcuando perplessa il sopracciglio ramato. Boccheggiando, mi passai una mano prima sulla fronte poi sugli occhi. “Su, venite dentro, altrimenti vi buscate un malanno”, m’invitò amorevole, accompagnandomi all’asciutto.

Era davvero finita? O non era che l’inizio?

Giudicate voi, gentile lettore.

Vi dirò solo questo.

Il 31 ottobre 1859, Uchiha Rin soffocò nel sonno i suoi due figlioli, dandosi poi la morte tramite veleno. Mio cugino Obito, appresa la notizia, ne rimase talmente devastato da ricongiungersi alla famiglia perduta avvelenandosi anch’egli.

L’anno seguente, 1860, morì mia nonna. Si buttò dalla finestra. La sua cameriera personale disse che, prima del grande salto, aveva urlato: “Vade retro! Vade retro, anima dannata!”

Nel 1861 morì mia zia, la madre di Obito e Shisui. La trovarono impiccata al lampadario e le foto dei due figli deceduti nella tasca della sua vestaglia.

Nel 1862 un incendio “dalle alte fiamme nere”distrusse la casa dove viveva mia cugina Sayuri e la sua famiglia. Nessun superstite.

Nel 1863 morì lo zio Madara, anch’egli suicida. Non descriverò in quale stato il suo cadavere venne reperito. Lo vidi in foto e mi bastò per tutta la vita. Ancora oggi rabbrividisco al solo pensiero, mentre un conato di vomito m’impedisce di ragionare obiettivamente. Morì e questo sia per voi sufficiente.

Giunse infine il 1864, l’anno che in teoria avrebbe dovuto rischiararmi l’esistenza. Ah! Una vita radiosa, certo, certo, che mi fu invece avvelenata per sempre.

Ah, delitto orrendo! Lo avremmo espiato tutti! La sua anima offesa si sarebbe invero vendicata!

 

 

 

Molti anni  dopo, si celebrava il matrimonio di una bella fanciulla dagli occhi simili agli smeraldi.

 

 

Infatti, Sakura ed io avevamo eletto il 1864 ad anno del nostro matrimonio. La catena di numerosi lutti ci aveva costretti a posticipare l’evento; tuttavia, anche per dissipare le fastidiose dicerie circolanti sulla nostra famiglia, decidemmo di convolare lo stesso a nozze, così da portare un po’ di gioia in una casa sempre più vuota. Mia madre, ormai rifugiatasi nel conforto di una superstiziosa devozione, ne fu quantomeno estasiata. In effetti, un pesante senso d’oppressione gravava sempre di più sulle nostre spalle, un’orrida sensazione di avere il fiato del destino sul collo.

Un cerchio che si stringeva.

Itachi, il crudele, non aveva colpito i diretti responsabili delle sue sciagure. Non subito, almeno. Lentamente e coscienziosamente, aveva indotto al suicidio i nostri parenti più lontani, per poi avvicinarsi gradualmente a noi, acciocché ci sentissimo da lui braccati, in trappola.

Queste erano le terrorizzate convinzioni di mia madre, che speravo di dissipare con questo matrimonio. Del resto, necessitavo di placare l’inspiegabile ansia che aveva colto anche Sakura dal giorno del funerale di mio fratello: infatti, il sonno le giungeva con difficoltà e molto spesso la sorprendevo o a  fissare con timorosa insistenza i ritratti di Itachi relegati in soffitta oppure ad informarsi su affari di spiritismo, consultando i medesimi libri dai quali mio fratello a suo tempo ne aveva divorato i contenuti. Mi sentii quindi in obbligo di consolare la mia fidanzata e soprattutto di rassicurarla: fintanto che avrebbe seguitato a credere ciecamente a quelle baggianate, ovvio che ne sarebbe stata negativamente influenzata. Itachi era morto. Io stesso avevo visto la sua bara venir ricoperta di terra. Non poteva essere ritornato a perseguitarci. Non poteva, mi ripetevo.

Invece, lui era ritornato apposta per noi. Per reclamare la sua soddisfazione, per infliggerci quel colpo tremendo che segnò il vero inizio della decadenza e fine della famiglia Uchiha.

L’ultimo atto ebbe dunque luogo il giorno del mio matrimonio.

Nonostante le tristi premesse, Sakura era radiosa, come lo fu durante l’intera preparazione dell’imeneo: gli addobbi, il rinfresco, gli inviti, la scelta del vestito, etc. tutto avvenne sotto la sua supervisione e io la lasciai fare senza impicciarmi., contento di quella sua ritrovata vitalità. Non ebbi da ridire neanche quando lei ordinò da Iwa la seta per l’abito nuziale. O le perle e i merletti da Kiri. O la frutta esotica e candita da Suna. Assecondai ogni suo capriccio, purché fosse felice.

Secondo le nostre consolidate tradizioni aristocratiche, la cerimonia avrebbe avuto luogo nella cappella di famiglia, seguita poi dall’opulento ricevimento in casa che i nostri servitori già di primo mattino si stavano adoperando ad imbastire.

 

 

Ma, oh caso fortuito!, perché la sposa tardava a venire?

 

 

Attesi impaziente all’altare per una mezzora buona.

Cos’era quel ritardo?

Perché Sakura non faceva la sua comparsa?

Ansioso, scoccai una rapida occhiata a mia madre, la quale ricambiò altrettanto apprensiva, se non proprio in apnea da una sua intima – ma intuibile – inquietudine.

Perplessi e fastidiosi mormorii incominciarono a diffondersi nella cappella e per un breve istante fui colto da un lieve moto di stizza: ma come! Sakura aveva tanto insistito per il matrimonio e poi si tirava all’ultimo indietro? Non aveva mica avuto dei ripensamenti, vero?

Decisi dunque di rientrare a Villa Nakano. Forse, aveva avuto un malore.

 

 

Oh Signore, cos’era quell’urlo atroce?

 

 

Lo udii appena varcai la soglia di casa, quell’urlo atroce, disumano, come quello dell’indagato straziato dai ferri dell’inquisizione.

Dolore, sorpresa, impotenza, paura folle riconobbi nella voce innaturalmente acuta di Sakura, spronandomi a correre al piano superiore, sperando di non giungere troppo tardi.

Eppure, non senza celare un certo rossore nelle mie gote mentre scrivo questa confessione, ammetto che ebbi un attimo di esitazione prima di aprire la porta della camera della mia promessa.

Specie quando avvertii dell’acqua bagnarmi le scarpe, la quale fluiva sornionamente placida attraverso le fessure della porta, espandendosi in un’anomala pozza.

D’acqua salata. 

 

 

“Che bello!Mi avete preparato una festa nuziale!”

 

Mi parve di entrare in un mondo surreale, grottesco, là dove le leggi su cui basiamo la nostra razionalità, salda garanzia del nostro intelletto e salute mentale, si capovolgevano impazzite.

Il vivente e il morto si tenevano a braccetto secondo la più assurda delle dances macabres.

Seminascosto nella penombra stava ritto in piedi Itachi, quell’Itachi che avevo seppellito sei anni addietro.

 

 

“Ve ne ringrazio, ma alas, questo anello non va bene!”

 

 

Sembrava non accorgersi di me, mantenendo invece lo sguardo dritto alla finestra.

Parlottava, le labbra vermiglie piegate in un burlesco e inquietante ghigno ferino.

 

 

Come dei rari e vellutati petali di rosa, macchie rosse di sangue imbrattavano il virginale abito bianco.

Della Sposa Mancata …

 

 

Improvvisamente, egli si voltò e il cuore smise di battermi in petto: l’inconfondibile volto di mio fratello non dimostrava nulla di umano nel suo ultraterreno pallore, perdendo quell’aura di mesta sofferenza che gli avevo visto alla veglia del funerale. I capelli avevano riottenuto il loro naturale color carbone ed erano nascosti dal pesante velo ricamato, da quel sudario in cui lo avevano avvolto. Bianco, tanto da competere con la sua pelle, si presentava anche l’abito funebre con cui era stato seppellito, rendendo impossibile ogni abbaglio.

Era lui.

Itachi.

Mio fratello, ancora ventunenne, incorrotto sia dai vermi che dal tempo impietoso.

Mio fratello, dagli occhi rosso sangue e dalle mani sporche del medesimo colore.

Mio fratello, un demone venuto direttamente dall’inferno che mi sorrideva beffardo, scoprendo in quel ghigno malizioso i suoi denti candidissimi.

Mai in tutta la mia esistenza provai un simile terrore e non solo per me, per quella vita che Itachi già stringeva nel suo pugno castigatore, bensì per le sorti della mia stessa anima.

“Chi sei?”, osai balbettare.

Un risolino maligno. “Stupido fratello. Perché chiedi cose di cui già conosci la risposta?”

“Tu … tu sei morto!”, boccheggiai spaventato.

“Corretto.”

“Sei … sei dunque … un … fantasma?” Domanda assurda la mia; nondimeno, avevo sempre creduto che i fantasmi appartenessero all’indefinito ed ermetico mondo della notte, non alla chiara e benefica luce del sole!

“Io sono ciò che voi avete voluto che diventassi”, si presentò sardonicamente ieratico Itachi, abbozzando ad un lieve inchino e rivelando così una sinistra macchia rossa sul candore dell’abito. Inoltre, solo allora mi accorsi come lo strascico del velo-sudario fosse stranamente rigonfio ai suoi piedi, neanche avesse dovuto nascondere qualcosa …

“Sei qui … sei qui per uccidermi, Itachi? Per vendicarti su di me?”

Mio fratello reclinò falsamente sorpreso il capo. “Oh no, Sasuke! Sono venuto fin quassù per festeggiare le mie nozze. Non posso tollerare che la mia povera Mayra sia additata come una bastarda, né voglio rimanere separato un minuto di più da Kisame. L’unico problema, caro il mio fratellino, è che al momento mi trovo sfornito del mio anello. E anulare. Temo di aver perduto la mia protesi di legno in mare, che sciocco! Poco male, credo di aver trovato un degno sostituto …”, sospirò, afferrando con quelle mani lerce di sangue un lembo del velo-sudario e lo scostò teatralmente, rivelando il bozzo da me previamente notato.

 

 

… e dell’altra fanciulla.

 

 

Potrò mai trovare le parole per descrivere l’orrore nascostovi?

“Sakura! Dio Santissimo, Sakura! No!”, ruggii, scattando al suo fianco e afferrandola forte per le spalle. “Sakura, per l’amor di Dio, rispondimi! Apri gli occhi!”

 

 

Dietro la Sposa Mancata, la promessa giaceva svenuta in una pozza di sangue vermiglio.

 

 

“Non ti preoccupare per lei, Sasuke: non è morta, soltanto in deliquio. Certo, se non intervieni subito quell’emorragia potrebbe terminare il mio operato incompleto …”

Stordito, guardai con orrore il copioso rivolo scarlatto che imbrattava il latteo abito nuziale. Ne cercai in pieno affanno la sorgente, impallidendo fino al cadaverico non appena i miei occhi dilatati dalla paura s’imbatterono nell’anulare sinistro amputato. Un déjà vu che mi portò a tremare neanche avessi contratto la temibile febbre gialla.

“Come hai potuto, Itachi? Perché lei? Perché i nostri parenti? Perché l’hai fatto?”

Una fredda e sardonica risata fu la sua unica risposta.

Mi voltai verso di lui per affrontarlo, trovando invece alle mie spalle il vuoto e l’eco di quel riso demoniaco.

Fuori di me dalla collera, seguii quella traccia, non senza aver prima fermato con la mia cravatta l’emorragia di Sakura.

Un secondo atroce urlo, che riconobbi appartenere a mia madre, mi rivelò la nuova ubicazione di Itachi.

Ben presto, si aggiunsero quello dei domestici e degli ospiti che, incuriositi dalla mia lunga assenza, mi avevano raggiunto alla villa.

 

 

 “Permettetemi di invitare un po’ di amici miei …”

 

 

In un infernale valzer suonato da un’altrettanto demoniaca orchestra, si dilettavano i componenti della mia famiglia e molti altri spettri, i quali negarono il dono della vita per darsi volontariamente la morte. Epoche e abiti diversi, tutti lì riuniti in un grottesco teatrino da sberleffo, occupando arroganti e cafoni  il salone.

Mangiavano, bevevano, imbrattavano ogni cosa.

E ballavano.

Incessantemente.

Insultando e deridendo le anime piangenti dei suicidi all’interno del mio clan.

“Chapeau! Chapeau, Itachi mon cher!”, batté le mani in approvazione un uomo molto alto dal palco per i musicisti. Vestiva di nero, creando un fiero contrasto coi lunghi capelli biondo platino. Le iridi dorate simili alle aquile rifulgevano di un inestinguibile fuoco torturatore. “Che festa! Che divertimento! Hai fatto bene ad invitarmi, laggiù alla fin fine ci si annoia dopo un po’!”, giubilò quell’orrida creatura dal volto d’uom giusto (volendo citare Dante).

Mio fratello, che ritrovai in centro alla sala, abbozzò ad un soddisfatto inchino, sogghignando anch’egli ricolmo della medesima ripugnante perfidia.

E all’ennesimo latrato di quell’essere, l’arancione delle candele si tramutò in un nero bestemmia, proiettando iridescenti e vorticose ombre sulle pareti.

Gli specchi si frantumarono in un unico sincronizzato fragore.

Gli spettri si presero per mani e si esibirono in un folle girotondo, circondando i miei parenti sopravvissuti.

“Voi siete i prossimi! Voi siete i prossimi!”, cantilenavano con false voci di bambini innocenti.

Gli ospiti, terrorizzati, scapparono via urlando, sia dalla porta che dalla finestra, nel frattempo che i fantasmi li salutavano con pernacchie e gesti osceni.

I domestici non tardarono ad imitare gli invitati.

Fu troppo per me. Il buio avvolse i miei occhi e caddi per terra, pregando Dio di avere pietà di me, poiché il grande nemico era entrato nella mia casa e io ormai ero il suo prigioniero.

 

 

 “Tutti, adesso, danzerete per il matrimonio che mi negaste! In eterno!”

 

 

Da quel momento in poi sperimentai l’amaro gusto della follia.

Lo sconforto atroce derivato dall’impotenza e dall’ineluttabilità delle mie sorti mi perforava la gola di spilli forgiati da urla nate morte: la paranoia d’essere costantemente sorvegliato dagli occhi instancabili di Itachi mi spronava a scaraventare ogni oggetto e mobilio, a distruggere qualsiasi cosa reperita dalle mie mani, ad accendere forsennatamente le luci, tutto pur di reperire la forma tremendamente corporea e al contempo inumana di mio fratello, il cui opprimente silenzio tradiva la sua presenza, invece di negarla.

I miei isterici richiami – volevo sapere! Volevo sapere! – si mescolavano giorno e notte alle grida dolenti di Sakura (i suoi genitori morirono di crepacuore un mese dopo l’amputazione), alle suppliche di perdono di mia madre.

“Non ho ucciso io tua figlia! Non ho ucciso io tua figlia!”, ripeté ella fino alla morte, ovvero quando si tagliò le vene nella fontana dinanzi a Villa Nakano. Era il 1866. Quattro anni dopo, mi ritrovai l’ultimo esponente del ramo sia diretto sia cadetto sia in via femminile degli Uchiha. Itachi non aveva risparmiato nessuno; perfino le mie cugine e i loro discendenti erano stati sistematicamente condotti al suicidio, aumentando il suo chaperon infernale e lo spasso di quegli spettri immondi.

“Itachi! Itachi! Dove sei? Perché mi hai fatto questo? Qual è il tuo scopo? Avanti, anima dannata! Sono qui! Ammazzami come gli altri, se ne hai il fegato! Mostrati, demonio!”, mi sgolavo, vagabondando insonne per le stanze vuote e disordinate, strappandomi i capelli precocemente incanutitisi e graffiando sulle pareti quella che in teoria avrebbe dovuto essere la mia ombra, ma dalla cui forma riconoscevo invece la silhouette di mio fratello. 

Avevo sperato in una sua redenzione nell’ora della sua morte: al contrario, essa altro non era stata che il mezzo da lui eletto per la sua e nostra perdizione.

“Che vuoi sapere da me?”, si degnava talvolta Itachi di rispondermi. “In sostanza sono morto. E i morti non parlano. Ergo, d’ora in avanti starò zitto. Non è questo che avete sempre voluto?”

Oppure:

“Mi odi così tanto, stupido fratello, da sfregiare i miei ritratti e a tagliuzzare le mie foto? Ma sì, odiami pure! Disprezzami! Lascia che mi nutra del bollente fiele del tuo rancore! Che altro ti resta, altrimenti, in questa tua patetica non-vita?”

O il giorno in cui Sakura, oramai impazzita, morì, ingoiando il tossico colore giallo dal tubetto di colori per la pittura da lei in passato tanto amata. Era il 1879.

“Pare che alla fine tu sia l’ultimo rimasto. Non sei contento, fratellino? Finalmente non dovrai mai più temere il confronto con chicchessia. Sei unico. Sei caduco. Sei il mio protetto. Ti controllerò, Sasuke. Per sempre! E non solo te, ma anche tutti coloro che possederanno questa villa maledetta!”

Ringhiando frustrato, serravo i pugni fino a conficcarmi le unghie nei teneri palmi.

“Ed è per questo che mi ucciderai per ultimo?”, gridavo al nulla. “Per farmi soffrire? O perché non ho nulla a che fare con la morte di tua figlia?” e ridevo isterico, poiché alla sola menzione di Mayra, Itachi taceva, rintanandosi tristemente offeso nelle tenebre.

Gli anni trascorrevano, deturpandomi tra la pazzia e la solitudine: Villa Nakano decadeva, il nome onorato degli Uchiha veniva poco a poco dimenticato e il vandalismo dei tempi che cambiavano s’accanì ulteriormente su di me e sulla mia casa. Più volte venni assalito in strada, insultato e commiserato dalla gente superstiziosa e ignorante. Schifato e ostracizzato dalle altre famiglie nobili. Oggetto di invettiva dei pamphlet e feuilleton, che mi descrivevano come un orco, uno stregone, un babau. Del resto, era l’unica malagrazia che potevano farmi: nella sua crudeltà, Itachi mi proteggeva a suo modo. Tanto era il terrore che anno dopo anno stava creando nell’animo dei konohagariani, che a nessuno reggeva abbastanza il cuore da avventurarsi a Villa Nakano. Molto spesso avevo, infatti, sperato di essere ucciso da un avido e spaventato ladro o linciato dalla folla credulona. Niente di ciò. Sarei dovuto morire di mia stessa mano, quando stava tutto nel capriccio di mio fratello. In nulla trovavo conforto, né nella religione né nella lettura.

Ma ecco, che allo scoccare dei miei quarant’anni una malsana idea mi balenò in testa.

Ripresi in mano le lettere di Haku, di Mei e di mio fratello e le rilessi attentamente, sviscerandone i contenuti alla disperata ricerca di un qualsivoglia indizio per confermare una teoria, che da anni tormentava i miei pensieri.

Era forse possibile, che mia nipote Mayra non fosse morta, come invece s’era creduto per questi lunghi ventiquattro anni? Cosa volevo, però, dimostrare, nel caso l’avessi ritrovata? Che speravo di ottenere?

Per vendicarmi di Itachi tramite lei, affermò la mia lingua.

Per fare ammenda, replicò il mio cuore.

Forte di questa mia convinzione, mi recai dunque alla volta di Kiri per incominciare quella che io intuivo essere una lunga e spossante ricerca, ma poco m’importava, visto che …

 

Naruto strabuzzò gli occhi, confuso: la frase che iniziava dalla pagina accanto non completava quella a lei precedente. Inoltre, passando il polpastrello all’attaccatura delle pagine, notò una compatta linea di rimasugli di carta che assottigliavano di parecchio il quadernetto.

Delle pagine erano state strappate. Ma da chi? E perché proprio in quel punto, dove si sarebbe sciolto l’ultimo enigma concernente la Sposa Mancata? Qual era stata la fine di Mayra? Uchiha Sasuke aveva ritrovato alla fine la nipote scomparsa? Strano, giacché tutti sostenevano fosse morta, soltanto il fantasma della “madre” ne rivendicava la sua esistenza su questa valle di lacrime! Eppure, da quelle poche righe, lo zio stesso ne pareva ora anch’egli mortalmente convinto: la bambina, o giovane donna se considerate le date, era sopravvissuta al complotto del suo clan. E come?

Eppure, neanche questo twist d’eventi pareva illuminare i mille punti oscuri di quella triste vicenda: mettendo caso che Sasuke avesse ritrovato Mayra, che cosa poteva mai essere accaduto tra di loro? Di certo egli non l’aveva mai reintegrata nella famiglia, visto che tutti a Konoha affermavano convinti che Sasuke fosse senz’ombra di dubbio l’ultimo Uchiha rimasto su qualsiasi ramo, principale o cadetto o in linea femminile. La Sposa aveva fatto bene i suoi compiti per casa.

Ovviamente, sussisteva anche l’ipotesi che Sasuke non avesse mai incontrato la nipote. In tal caso, però, a che pro strappare le pagine concernenti questa ricerca?

Sfogliando e risfogliando frustrato il quadernetto menomato, Naruto si accorse che soltanto una pagina si era tuttavia salvata da quell’incomprensibile e vandalica censura: l’ultima, la conclusione di quell’amaro caso o l’inizio di una catena di sciagure …

 

L’ora è giunta.

Manca poco alla consolazione della luce diurna, quella dolce luce che i miei occhi vecchi e stanchi non contempleranno mai più. Prenderò su di me l’oscurità assoluta e tremenda che precede l’alba ed espierò fino in fondo la mia condanna.

Giusto l’altroieri ho venduto Villa Nakano all’industriale Yamanaka Inoichi. Non ho provato rimpianti: quella che fin dalla mia nascita avevo onorato come orgoglioso simbolo della famiglia Uchiha, adesso, nell’ora della mia morte, la disprezzo e la temo per il nido di vespe qual è in realtà.

A chiunque leggerà queste infelici memorie, questa vergognosa confessione, chiedo di pregare per l’anima mia peccatrice e quella di mio fratello, auspicando per entrambi quell’eterno riposo e la luce perpetua, che dubito ci verranno mai concessi.

Io per primo prego acciocché l’ira tempestosa di Itachi non estirpi mai le ultime tracce degli Uchiha. E che i nuovi proprietari di Villa Nakano possano condurre un’esistenza più felice dei loro predecessori.

L’ora è giunta.

Il Veronal! Il Veronal! Dov’è il Veronal?

Il veleno uccise Sakura. Similmente mi ricongiungerò a lei! Ma lui me lo nasconde!

È dunque questo l’ultimo tuo supplizio, fratello?

Oh, Itachi! Davanti a Dio! [2]

 

Quando Naruto chiuse definitivamente il diario di Uchiha Sasuke, suonarono le nove e mezza del mattino.

Mancavano due ore alla celebrazione del suo matrimonio con Hinata. Sempre che fosse ancora viva.

No! Lei era viva, doveva essere viva!

L’avrebbe salvata da quell’anima offesa! A qualsiasi costo!

Ora Naruto ne aveva i mezzi e le conoscenze e finalmente ogni tassello, ogni informazione di quell’intricato puzzle sembrava avere senso. La Sposa nella sua forma più vulnerabile, aveva scritto Utatane Koharu nella sua lettera di addio. Ergo, la tomba di Uchiha Itachi, là dove le sue spoglie mortali riposavano dimenticate e separate da coloro che aveva amato per ben centocinquataquattro anni. 

E frugando nella borsa a tracolla, il biondo si diresse determinato verso il piccolo cimitero dell’abbazia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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To be continued …

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I miei primi esperimenti con PhotoShop/Paint/Vattelapesca. Spero che l’immagine sia venuta bene, perché a me ha fatto un po’ d’impressione …

 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

[1] Un vestito di Arlecchino (riferito a persone) = forma antecedente  alla più recente espressione “Un’armata Brancaleone”, coniata proprio dall’omonimo film. Siccome Sasuke racconta eventi del XIX secolo e lui è morto nella prima metà del Novecento, è ovvio che non può utilizzare quest’espressione.

[2] Rielaborazione della celebre frase di Tosca “Oh Scarpia! Davanti a Dio!” - dal terzo e ultimo atto dell’omonima opera di Puccini - prima di gettarsi da Castel Sant’Angelo. Da qui si intuirà che Sasuke ha commesso suicidio gettandosi nel vuoto. E magari con Itachi che lo controllava da dietro … *risata maligna*

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Agosto 2012 - terza parte: Osud ***


Evvai! Finalmente riusciamo a pubblicare questo capitolo!

Succede sempre così, quando si arriva alla fine di una storia!

 Infatti, se il prossimo capitolo non verrà eccessivamente lungo – ovvero se riusciamo a contenerci a meno di 20 pagine – allora nel prossimo aggiornamento vi sarà sia il finale che l’epilogo. Altrimenti, dovrete attendere solo un paio di giorni per l’epilogo …

Inoltre, già da ora vi anticipo che questo finale mi ha fatta impazzire: fintanto che “giocavamo” coi personaggi, tutto era possibile ma ad un certo punto bisognava pur prendere una decisione (Happy ending? Bad ending? Open ending?) e per questo ringrazio moltissimo tutti coloro che mi hanno direttamente o indirettamente consigliata, in particolare Sagitta che s’è ascoltata mille e più finali per questa storia. Grazie carissima!

Ovviamente, siccome questo capitolo è un pieno d’avvenimenti, se non vi è chiaro qualcosa, chiedetelo pure! Anche un albero genealogico se serve!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare a: April88; Lady_Loire e Sagitta72. Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Vi auguro buona lettura!

 

 

 

 

 

H.

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Agosto 2012

 

 

 

 

A racconto terminato, Hinata abbassò il capo e si guardò le mani, incredula.

Itachi, in piedi, l’osservava impassibile. Dietro di lui, dalle grandi finestre del giardino d’inverno, il cielo incominciava ad oscurarsi, annunciando l’arrivo di un temporale.

Sarebbe stato troppo semplice per la mora affermare, che quanto udito corrispondesse al delirio di un folle, di un esaltato dal macabro senso dell’umorismo. Sarebbe stato troppo facile. Troppo rassicurante. Ché lo sguardo del giovane dinanzi a lei non tradiva alcun barlume di burlesco inganno, solo una tremenda serietà, così in netto contrasto con il danzante giubilo degli spettrali invitati, i quali, incuranti del mutismo vigente tra i due, seguitavano nel loro ultraterreno svago.

“Quante …?”, riuscì Hinata a mormorare, la mente confusa e impacciata dall’asfissiante tumulto interiore nel suo cuore, a quella tempesta di sentimenti che lentamente inghiottiva la sua ragione. Tristezza, pietà, indignazione e paura, tanta paura per quell’inflessibile giudice e carnefice che la fissava stoico, immobile. Nel loro inquieto girovagare, gli occhi della giovane si erano intanto posati sull’anulare sinistro mancante dalla flessuosa mano di Itachi, i cui occhi pece, man mano che le lancette della grande pendola procedevano nella loro salita e discesa, cangiavano nel cupo scarlatto e l’aria medesima della casa diveniva irrespirabilmente fredda, come gelida si presentava l’acqua sgorgante dal pavimento, una mostruosa marea che tutto lambiva e lentamente lo ingollava avida.

“Quante, Shu, anzi no, Itachi?”, insistette Hinata, levando infine lo sguardo.

Un annoiato sbattere di ciglia. “Quante?”, ripeté egli.

 

 

Qualcosa di strano avvenne a Villa Nakano …

 

 

“Tante”, le confessò infine Itachi, interrompendo la sua innaturale immobilità per avvicinarsi ad Hinata, la quale trattenne il fiato, appiattendosi contro lo schienale del canapè. “Forse troppe”, aggiunse poi il moro, stendendo il braccio della mano mutilata verso la giovane. “Ho perso il conto”, sussurrò amaro e gli occhi della mora si spalancarono terrorizzati al freddo luccichio della lama del coltello ben stretto nell’altra mano del fantasma. Stava forse per ucciderla?

“Stai indietro!”, gridò d’istinto Hinata, divincolandosi dalla ferrea presa al suo polso sinistro; finito ormai quel sentimento di tenera compassione, ingoiato dagli abissi del terrore antracite. Nella concitazione della lotta, la giovane reperì freneticamente il primo oggetto a portata di mano, una bajour di porcellana che scagliò contro al suo assalitore, mirando alla testa.

Ovviamente, Itachi non diede alcun segno di essere stato in qualche modo danneggiato da quel colpo, anzi, neppure si degnò di spostarsi, così da evitarlo: il delicato materiale si frantumò contro la sua persona e Hinata tremò al pensiero di quanto corporeo potesse presentarsi quel fantasma, che aveva perfino preso a sanguinare, imbrattando l’abito bianchissimo di vermigli rivoletti di sangue.

“Vattene via! Non osare avvicinarti a me!”, ribadì esasperata la mora, approfittando tuttavia della confusione generata da quell’eclatante quanto inutile gesto per scivolare via da Itachi e puntargli contro il pugnale sottrattogli.  Dio del cielo! Come pesava! E come scottava! Pareva incandescente! Ma chi era sul serio quell’essere dinanzi a lei?

“Vuoi ucciderti, Hinata?”, le chiese serissimo Itachi e la giovane per poco rivide il rassicurante nero in quelle iridi così demoniacamente vermiglie. Fu un attimo, però. Un momento di debolezza. Di stanchezza infinita. Una sorda richiesta di aiuto. “Avanti, che aspetti? Fallo! Affonda la lama nella mia gola! Sgozzami! Non è difficile, sai? Un piccolo gesto e sarà tutto finito!”, ridacchiò isterico, afferrando ambedue i polsi di Hinata, che urlò a quel freddo contatto, specie quando la punta del pugnale punse la pelle alabastrina del moro, strappandogli delle pingue gocce scarlatte. “Allora? Ti decidi? Mi uccidi? Come mi uccisero loro?”

Scuotendo il capo, Hinata protestò debolmente fra le lacrime. “Non posso ! … Non sai quel che dici! … Tu … tu sei morto!”

“Cancella la mia esistenza, Hinata!”, impresse Itachi maggior forza a quella pericolosa pressione sulla sua gola.

“No!”

“O mi elimini o riprendo là dove mi hai poco educatamente interrotto … A te la scelta!”

Era l’orrore, era la follia! Perché non s’intravedevano altre soluzioni? Una via d’uscita che non prevedesse lo spargimento d’ulteriore sangue? Non ne era già stato versato abbastanza?

“Lasciami, pazzo!”, urlò, liberandosi con un ultimo disperato strattone dal moro. Il pugnale, cadendo sul pavimento, zittì i festanti spettri che si voltarono stupefatti nella loro direzione e avrebbero perfino trattenuto il fiato, se ne avessero avuto. Solo il fievole scroscio dell’acqua montante attenuava l’infernale silenzio di tomba creatosi.

Improvvisamente, i vaghi occhi lattei degli spiriti si tinsero di carbone e la loro evanescenza assunse dei sinistri riflessi verdastri, mentre delle fiamme nere li avvolsero completamente, creando macabri chiaroscuri sui loro volti bluastri di cadavere e sul candore dei denti aguzzi, inumani, da cui faceva capolino una lunga e viscida lingua viola che sembrava possedere una vita propria, arrivando fin quasi alla base del loro collo. Ingobbiti, dalle braccia lunghe e nodose, le unghie affilate e le gambe flesse simili a quelle posteriori di un quadrupede, essi fissavano ora pieni di malevole aspettativa Hinata, pronti a saltarle addosso e a divorarla, come suggeriva la bava colante dalle bocche ansimanti di taluni. Ogni traccia d’umanità svanita in loro, solo un vago aspetto antropomorfo rimaneva e questo spaventava doppiamente la giovane, sopraffatta dalla malizia e dalla ferocia emanata da quelle bestie immonde. Dunque, in questo si erano tramutati gli Uchiha? E le vittime di Itachi? In mostri abbietti?

E sarebbe anche lei divenuta una di loro?

No!, si ribellò la sua mente, scattando in avanti e, fronteggiando il terrore paralizzante, corse alla prima porta vicina, puntando al portone d’ingresso, ad una finestra, a una qualsiasi via d’uscita da quella villa maledetta!

“Non risolverai nulla con la fuga, Hinata!”, udiva ella la voce di Itachi riecheggiare per i corridoi, la cui luce si spegneva al suo forsennato passaggio. “Nulla!”

Eccola! La porta! La porta!

Che si chiuse da sola in un unico sordo tonfo, resistendo ai vani tentativi di Hinata di riaprirla.

“Nessuno sfugge alla maledizione di Villa Nakano …!”

Provò a forzare le uscite sul retro, inutile! Parevano sigillate!

“… Né alla Sposa Mancata!”

Uno ad uno gli scuri delle ampie finestre si serrarono anch’essi sbattendo fragorosamente, sbarrando alla mora ogni via di fuga e facendo piombare progressivamente la casa nell’oscurità totale. L’acqua marina prese a sgorgare dai quadri, dal soffitto, rendendole la corsa doppiamente difficile ed estenuante, in particolare quando Hinata tentò di salire le scale, tramutatesi in scivolosi torrenti di montagna.

“E questa volta, vengo per te, Hinata!”

La giovane, rifugiatasi nell’ultima camera trovata aperta, chiuse violentemente la porta e si lasciò scivolare sfinita sul pregiato legno, le gambe che le tremavano e il cuore in affanno. Era in trappola, non ci impiegò molto per realizzarlo: Villa Nakano l’aveva isolata dal mondo, impedendo un qualsiasi aiuto esterno, neanche obbedisse ciecamente agli ordini di quell’anima infuriata.

“Naruto … dove … sei …?”, ansimò Hinata, reprimendo un doloroso singhiozzo e appoggiando sgomenta la fronte sulle ginocchia. “Dove sei?”

“Già, chissà dov’è …”

Hinata alzò il capo, annientata dalla paura. Aveva udito bene? Chi aveva parlato? L’aveva già raggiunta? No! No! Non poteva essere!

Silenzio.

Tranne che per l’ululare del vento e i tuoni lontani del temporale che s’avvicinava.

Silenzio.

Gli occhi di Hinata vagarono forsennatamente a destra e a manca, cercando di adattarsi quanto prima alla semioscurità e di scoprire cosa vi si nascondesse.

Silenzio.

Forse si era sbagliata. No, doveva certamente essersi sbagliata. Non c’era nessuno in quella stanza.

Nessuno.

Solo lei e il silenzio.

Gnik-gnik, gnik-gnak …

 

 

La bocca della giovane si deformò in un’esasperata smorfia di impotenza e frustrazione.

… gnik-gnik, gnik-gnak …

Perché? Perché a lei? Che aveva fatto di male per meritarsi questo?

… gnik-gnik, gnik-gnak …

Dal buio risuonò un risolino crudelmente compiaciuto.

“Come! Già finito di scappare?”

Il bagliore d’un lampo rivelò improvvisamente dai vetri senza scuri la siluette dei mobili di quella camera ad Hinata tristemente nota.

Un secondo, ancora più accecante, definì la cupa sagoma della sedia a dondolo davanti alla finestra.

“Au clair de la lune / Mon ami Pierrot / Prête-moi ta plume / Pour écrire un mot / Ma chandelle est morte / Je n’ai plus de feu / Ouvre-moi ta porte / Pour l’amour de Dieu …” [1]

E con essa la figura del suo proprietario, di cui Hinata vide solamente gli occhi vermigli e il candore di un sorriso nefasto.

 

 

… una ad una  tutte le promesse spose che vi abitarono …

 

 

 

 

Procedendo verso il camposanto dell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara, Naruto convenne che non aveva mai visto un simile spettacolo: il cielo si era oscurato di un denso grigio fumo, eppure la luce del sole lo accecava neanche fosse giunto il meriggio. Grassi e neri cirri battaglieri galoppavano dall’estremo orizzonte dell’inquieto mare color del vino, annunciando la loro prossima venuta tramite l’impietoso flagellare dell’umida aria salmastra. Se fosse stato inverno, l’avrebbero chiamata bora scura per i suoi refoli freddi e discontinui, violenti.

Il giovane commissario si strinse la giacca, rimpiangendo di non potersi riparare di più; in aggiunta, ricordi dolorosi collegati alla dirompente forza del mare gli appesantivano il cuore, acutizzando la compassionevole comprensione che provava nei confronti della Sposa Mancata. Rimembranze dei felici giorni dell’infanzia distrutti da un orribile incidente, che lo aveva strappato dal tenero abbraccio paterno. La madre, per sua fortuna, all’epoca già aveva raggiunto la casa dell’Ade per via di un balordo, investita e soccorsa troppo tardi. Se ne lavarono le mani. Non fu fatta alcuna giustizia. E suo padre affondato assieme alla nave, secondo la più antica tradizione della marina, la sua memoria infangata con pazzesche accuse d’irresponsabilità: meglio un onorevole suicidio, che subire l’umiliazione del processo. Invece, Naruto sapeva che suo padre era stata l’ennesima vittima di un infame giro di raccomandazioni, l’ombra oscura del tanto virtuoso quanto ipocrita stato federato di Hi. Infatti, non egli non fu l’unico ad annegare in quel triste giorno.

Sì, decisamente Naruto comprendeva il dolore di perdere delle persone amate col cuore, la mente e l’anima. Specie, se il loro trapasso appariva inspiegabilmente assurdo e inatteso.

La meta finale del biondo, il piccolo cimitero, si trovava su di una posizione leggermente rialzata rispetto all’isolotto naturale, su cui sorgeva l’abbazia, e il muretto di marmo addolciva infatti la scogliera, nascondendo il notevole salto che separava la terra dall’acqua gorgogliante. E malgrado ciò, gli schiumosi schizzi provenienti dalle onde infrante riuscirono lo stesso a bagnare Naruto, che si chiedeva quale mostro divoratore doveva essere stato il mare di Kiri durante una vera e propria tempesta. L’Apocalisse, ne dedusse, scansandosi onde evitare l’ennesimo spruzzo.

Curioso, però: più lui si allontanava e più il mare ruggiva frustrato, neanche si fosse prefissato di ghermirlo e trascinarlo via con sé …

“Cacchiate!”, scosse Naruto il capo energicamente. “Il mare non possiede alcuna volontà! È solo … solo …” e qui s’interruppe, appoggiando sfinito la fronte sul cancello di ferro imbiancato dalla salsedine e sospirando penosamente. “A chiunque mi possa ascoltare, ti supplico! Dammi la forza … dammi la forza di affrontarlo …”, mormorò prostrato, intimidito dall’aria soffocante del cimitero, così densa, irrespirabile, carica di odio e tristezza. Come ci si poteva augurare l’eterno riposo in un ambiente sì pregno di disperazione? Dov’era la consolazione della luce eterna?

“Aiutami”, s’infuse coraggio il biondo, spingendo l’inferriata e inoltrandosi all’interno del camposanto, una marcia palude di lapidi scheggiate e sbilenche, di erba alta e vasi di fiori ridotti in cocci. Delle sabbiose pozze di fango tesero numerosi agguati alle scarpe del giovane commissario, imbrattandolo fino al ginocchio. Forse, pensò Naruto, si trattava del vecchio cimitero, poiché non appariva molto capiente. E tuttavia, perché quell’incuria? Accidenti, sembrava abbandonato da secoli!

E soprattutto, dove s’era cacciata la madre superiora? Non aveva detto, che l’avrebbe atteso alla tomba di Uchiha Itachi?

Infatti, dopo un infruttuoso gironzolare per i vialetti semi-cancellati dall’erba e dal limo, Naruto era infine giunto al crocevia principale di quel triste luogo, ritrovando, similmente alle indicazioni lasciate da Sasuke, l’imponente Croce di pietra, mezza sfigurata dalle intemperie e dall’arancione della caloplaca marina e che si stagliava nel cielo misticamente ieratica. Sotto di essa, appoggiata significativamente, lo aspettava un badile.

Ma dov’era la suora?

“Bene, un messaggio più chiaro di così non poteva lasciarmelo …”, cogitò il biondo ad alta voce, afferrando energico il manico della vanga e, segnandosi velocemente, prese a scavare proprio sotto alla Croce, in particolare davanti alla scritta mezza cancellata sul dado del piedistallo: Chi non conosce il vero dolore, non pianga mai su questa tomba.

Il colmo! Il colmo! Adesso andava pure a profanare le tombe!

E dove diavolo era finita la badessa?

 

 

 

… il giorno del loro matrimonio, chissà come …

 

“Come! Già finito di scappare?”

La sedia a dondolo non aveva neppure fatto in tempo a smettere di scricchiolare, che Hinata, trattenendo il fiato e mordendosi il labbro inferiore pur di non urlare, si girò verso la porta dove s’era appoggiata, pronta a riprendere la fuga.

“E’ maleducazione non rispondere ad una domanda, lo sai, Hinata cara?”, l’apostrofò zuccheroso Itachi, sbarrandole la strada dall’agognata maniglia. Scoccando un’ansiosa occhiata dietro di sé, la giovane appurò spaventata come la sedia a dondolo stesse ancora oscillando avanti e indietro e tuttavia priva del suo proprietario, il quale la incalzava ad indietreggiare, gli occhi scarlatti luccicanti di insana delizia. “Ripeto: hai già finito di scappare?”, insistette, braccando la mora finché questa non sbatté contro la sedia, atterrandoci sopra e ipnotizzata dallo sguardo di lui.

“Ti prego … ti scongiuro … lasciami andare … devo … ritornare a casa …”

Itachi reclinò il capo corvino da un lato, fissandola con la medesima meraviglia di un bimbo allo zoo. “Ritornare, Hinata cara? Non c’è nessun ritornare, Hinata cara. I miei ospiti non tollerano chi se ne va via all’inglese …”, cinguettò, socchiudendo gli occhi in un sorriso maliziosamente innocente.

E in quell’istante, innumerevoli mani sbucarono dal pavimento, dai braccioli della sedia, dallo schienale stesso, ghermendo Hinata coi loro lerci e lunghi artigli per le caviglie, per i polsi, per la vita, impedendole in questo modo di alzarsi e fuggire via, così come suggerito dai continui e involontari spasmi del suo corpo.

Se avesse avuto le coronarie più deboli, sicuramente la mora sarebbe schiattata al mero contatto di quella carne putrescente, ustionante nella sua freddezza.

Se avesse avuto uno spirito più forte, forse non avrebbe versato l’unica lacrima che le rigò la guancia smunta dal sonno e dal terrore.

Eppure, stranamente, fu proprio quel rivoletto salato a mitigare il folle compiacimento di Itachi, il quale le si parò dinnanzi, scrutandola ossessivamente attento dritto negli occhi. “Hai paura di me, Hinata? Anche dopo averti raccontato la mia patetica vita? Nutri ancora pietà verso la mia immorale famiglia? Mi lasci perplesso, poiché speravo in un po’ di comprensione da parte tua! Non ti chiedo poi molto, solo il tuo anulare e il tuo anello di fidanzamento! Non potresti essere un poco generosa e accordarmi questa richiesta?” e man mano che le domande s’incatenavano l’una con l’altra, il suo tono di voce s’induriva in un’escalation di stridente ghiaccio.

Richiamando a sé quella misera percentuale di coraggio rimastale, Hinata boccheggiò impaurita: “Come … come hai potuto uccidere … così … della gente innocente? Come hai potuto macchiarti del sangue di persone che … che non c’entravano nulla?”

Un’infastidita ruga attraversò la fronte crucciatamente aggrottata di Itachi che, sospirando, replicò alquanto snervato dalla testardaggine della Hyuuga: “Gente innocente, dici? Non credo”, scosse il capo, nel frattempo che si portava dietro ad Hinata, appoggiandole le mani sulle spalle. Alla vista del dito monco, la mora sussultò violentemente e solo la salda presa di Itachi la tenne ferma al suo posto. Viscide anguille d’acqua salata colarono sul petto della giovane, acqua proveniente dai medesimi arti del fantasma, implacabili e umide catene.

“Ti confesserò un ulteriore segreto, Hinata cara. Io ho maledetto questa casa. Ed essa, docile alla mia ira, richiama a sé tutti coloro che – direttamente o indirettamente – hanno avuto a che fare con la mia spregevole famiglia. Capito? È stata Villa Nakano ad avervi condotti qui … chiamalo karma, destino, maledizione … Ma, uno ad uno, mi ha riportato tutti gli Uchiha che mi sono sfuggiti nel corso degli anni …”

“Cosa? … Gli Uchiha? … Io … io non ne so niente della tua famiglia! Inoltre, essa si è estinta per mano tua novantatre anni fa! In che modo mi sarei mai relazionata con essa?”

Una risatina gutturale martoriò i nervi già tesi della giovane. “Tut, tut, Hinata cara, non pecchiamo di superbia. Chi ti dice che mi stessi riferendo a te?”

 

 

 

… persero, oh sventura!, il loro anulare sinistro …

 

 

 

Merda! Merda! Merda!

E ancora merda, dattebayo!

A Naruto parve che il mondo fosse crollato addosso mentre la vanga gli cadeva per terra, avendo le sue mani mollato scoraggiate la presa sul ruvido manico.

Tutto si sarebbe aspettato, dopo aver trascorso un’infinità di tempo a mangiare terra e a spaccarsi la schiena, ma non l’atroce spettacolo paratogli innanzi.

La bara era vuota.

Vuota.

L’aveva scoperchiata pieno di disgusto e speranza, pronto a chiudere in maniera definitiva quell’infernale cerchio d’odio e tristezza che aveva mietuto vittime da centocinquantaquattro anni.

E invece il niente. La disfatta.

La tomba di Uchiha Itachi era già stata profanata e il suo corpo, chissà, trafugato e magari distrutto da un manipolo di disperati superstiziosi o una ripicca da parte dei parenti delle sue vittime.

Digrignando i denti, frustrato e abbattuto, Naruto diede d’istinto un sacrilego calcio alla bara estratta, spaccandone il legno marcio per poi lasciarsi cadere a terra, le mani sporche artigliate alla capigliatura bionda.

Aveva fallito.

Aveva fallito.

Non sussisteva più alcuna soluzione onde fermare il fantasma della Sposa Mancata. Non …

Un piccolo sacchetto di velluto blu scuro attirò l’attenzione del giovane commissario, il quale si stupì di non averlo notato prima, forse sopraffatto dalla delusione derivata dalla salma scomparsa. In ogni modo, l’afferrò prontamente, sciogliendo il nodo e frugando dentro essa, la sua curiosità a mille non appena realizzò di essersi imbattuto in una piccola collezione di fotografie. Sotto di esse, le pagine del diario di Uchiha Sasuke, i segni dentati dello strappo ben visibili.

L’ultimo tassello.

Com’erano finite lì? Chi le aveva messe? Lo stesso che aveva trafugato il cadavere … di …?

La riconobbe.

O meglio, riconobbe Itachi in lei, sebbene in una versione più femminile, più sorridente, libera e padrona della sua esistenza.

Mayra, la figlia perduta, che tutti avevano dato per morta e che invece s’era salvata dalla furia ipocrita e perbenista della sua casata.

Naruto non seppe trattenere un ghigno complice mentre scorreva le foto, eclatante testimonianza della forza della vita contro la morte dello spirito, soffocato da una moralità abietta.  La vide, oh sì, la vide circondata dai numerosi fratelli e sorelle della sua famiglia adottiva; la vide vestita di bianco alla prima comunione; la vide raggiante il giorno delle sue nozze, in posa accanto all’uomo che amava; la vide attorniata dai suoi figli e nipoti e la vide dolente e di essi privata, quando quel sanguinoso conflitto e la spagnola mieterono migliaia e migliaia di vite.

Ciò che però colpì Naruto con la potenza di un pugno furono le foto più vicine alla sua epoca, sulle quali comparivano volti a lui sinistramente noti.  

L’ultima poi, lo spiazzò completamente: lei, Mayra, ormai centenaria e vestita dell’abito monacale, stringeva con la sua piccola e fragile mano avvizzita quella più paffuta e forte del suo pro-pronipote.

Un bambino che Naruto non aveva alcuna difficoltà a identificare, giacché i suoi lineamenti li poteva in parte scorgere ogni volta che si mirava allo specchio.

 

 

 

 

… e il loro anello di fidanzamento!

 

 

 

“… Naruto? Ma perché? Che torto ti ha mai fatto?  Ti ha infastidito l’acquisto di questa villa da parte sua? Come gli altri prima di lui?”, inquisì incredula Hinata, sconcertata dalle insinuazioni di Itachi: a sentir lui, ogni loro disgrazia era stata accuratamente preparata da … secoli? … Dunque … il trasferimento del fidanzato da Uzushio a Konoha … il prezzo irrisorio della proprietà … faceva tutto parte di una secolare vendetta?

“Gli altri … Naruto … tutti avevano – hanno! – un debito da scontare nei miei confronti ...”, la voce del moro si era trasformata in un minaccioso sibilo, talmente flebile da confondersi col vento impetuoso e l’incessante picchiettare della pioggia contro i fragili vetri. “Il tempo passa, Hinata cara, le persone invecchiano, talune nascono ed altre muoiono. Generano figli che ne avranno altri.  Si allontanano dalle loro radici, talvolta le recidono, ma … ma è difficile annientare gli antichi legami di sangue, per quanto mischiatisi e annacquatisi, giacché essi si dimostrano più vincolanti di mille catene di ferro. 

E così succede che Villa Nakano, pregna del sangue della mia famiglia, richiama coloro che speravano con la fuga di sottrarsi alla loro giusta punizione o …” e qui il sorriso di Itachi s’allargò d’isterico giubilo “… o che mi furono abilmente celati da mio fratello. L’ultimo tradimento di Sasuke. Egli ha ritrovato mia figlia, ma, in un attimo di mia distrazione, ha distrutto ogni traccia della sua scoperta nella speranza che un ramo della nostra stirpe maledetta si salvasse! Che si salvassero gli ultimi portatori del germe maligno che ci ha tutti ammorbati, portandoci al vicendevole scannamento!

Loro m’impedirono in vita di sposarmi, di vivere da persona onesta. Ebbene, per sopprimere questa pula indegna, ho riservato, generazione dopo generazione, la medesima sorte a tutti coloro che hanno abitato a Villa Nakano, nella casa dei loro antenati!”

“Com’è possibile?”, obiettò energica Hinata, strattonandosi per l’ennesima volta da quei ceppi di carne e acqua. “Nessuno di coloro che hanno comprato la villa era imparentato con te, né portava il nome Uchiha!”

Roteando gli occhi, Itachi sbuffò. “Allora sei proprio densa, Hinata cara. Ti ricordo, che alla mia piccola Mayra non venne mai dato il mio cognome né tantomeno quello di Kisame. Assunse quello della sua famiglia adottiva …”

 

 

Chi sarà mai stato?

 

 

 

“… fu tutta colpa della balia, quell’Ameyuri. Se non ci avesse traditi, nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto.”

Naruto sussultò violentemente, perdendo per poco le foto che teneva in mano, in particolare l’ultima che tanto lo aveva colpito. Voltandosi bruscamente, s’imbatté nella madre superiora. Un’aura di oscuro rancore pareva circondarla, un astio che fece rizzare i capelli sulla nuca del giovane commissario.

“A-Ameyuri …?”, ripeté confuso il biondo, indietreggiando di qualche passo di sicurezza. “Che c’entra ora la balia? Perché vi avrebbe dovuto tradire? Lei è vissuta un secolo e mezzo fa, non ha a nulla a che vedere con voi!”

A meno che …

Gli occhi della religiosa rifulsero di un sinistro bagliore vermiglio. “Oh sì, povero sciocco, ha tutto a che vedere con noi! Infatti, se avesse eseguito l’ordine della marchesa Uchiha Mikoto e  se avesse somministrato il veleno a quello scherzo della natura, allora niente di tutto questo sarebbe accaduto! Invece, presentandoci il cadavere del suo figlioletto morto in fasce al posto di quella pulce bastarda, Ameyuri ci fece credere di aver portato a termine il suo compito! E quando indagammo, poiché  rosi dal dubbio, ormai la troia era fuggita con la bambina a Kumo, sposandosi e mettendo su una nuova famiglia!”

“… la balia Ameyuri, che mi sorpresi dal modo estremamente possessivo e sospettoso con cui stringeva al seno il figlioletto …”, rimembrò Naruto quel passaggio dal diario, spalancando la bocca ed emettendo un’esclamazione di pura indignazione. “Voi … eravate i loro complici … come avete potuto, dattebayo? Come avete potuto ospitare Itachi e al contempo progettare l’uccisione della figlia alle sue spalle? Non avete decenza? Non avete timore di Dio?”

Ormai non sussisteva alcun dubbio …

“Dio ci aveva condotto qui quella mostruosa meretrice, acciocché noi sopprimessimo sia lei sia la sua creatura che sfidava tutte le leggi umane e divine! Era la Provvidenza che agiva! E se noi abbiamo fallito fu per colpa dello sciocco sentimentalismo di quella stupida ignorante di Ameyuri!”

La donna dinanzi a lui non poteva essere che una di loro …

“Non bestemmiate la volontà di Nostro Signore per nascondere la nuda e cruda verità e cioè che non siete altro che un branco di ipocriti assassini!”, ruggì Naruto e per un istante gli parve che il mare, nel suo irrequieto gorgogliare, gli stesse dando ragione. “Altrimenti, non sareste stati puniti anche voi, costretti a vagare in eterno in questa abbazia corrosa e sozza delle vostre malefatte! Itachi avrà pagato per il suo suicidio, ma anche a voi fu similmente negata la consolazione dell’aldilà, in quanto suoi indiretti assassini!”

Il velo della menzogna era ormai caduto. La rabbia, la frustrazione e lo sdegno avevano finalmente liberato gli occhi del biondo dal tranello del fantasma: l’abbazia, infatti, non si presentava più maestosamente ieratica, bensì un cumolo di marce rovine ricoperte di alghe, di granchi e coquillage vario e sulle quali cresceva parassita la caloplaca marina. Solo l’immagine del Cristo Pantocratore sul catino absidale era rimasta intatta, per quanto non la si potesse vedere dal cimitero, neanche volesse ribadire l’impossibilità di redenzione per coloro che vi erano stati seppelliti.

Quanto al viso della madre superiora, esso si era inselvatichito in un’orrida maschera ghignante, un putrido e sornione teschio di malizia e sorniona cattiveria.

“Povero, povero sciocco! Ovvio che difendi quella puttana: se non avesse fornicato col diavolo, tu non apparterresti di certo a questo mondo … Ma dimmi, come hai fatto ad accorgerti del mio inganno? Non credo che tu sia un medium o comunque un essere tanto ferrato nello spiritismo …”

Questa volta fu il turno di Naruto di sorridere, trionfante. “Ignoro chi abbia nascosto qui queste foto, ma chiunque sia stato era chiaramente un mio alleato, fornendomi una prova schiacciante contro questo turpe imbroglio! Sì, è vero che in tarda età Mayra prese i voti, ma non li prese nell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara né venne mai a sapere delle sue origini! Similmente, ella non sottrasse mai il diario da Villa Nakano né Utatane Koharu venne mai qui a rubarlo! E sapete da cosa l’ho dedotto? L’abito monacale di Mayra non corrisponde al vostro ordine religioso!

Dunque, suppongo che sia stato Uchiha Sasuke stesso a strappare le pagine inerenti al ritrovamento della nipote scomparsa, a separare i due diari nell’ultimo disperato tentativo di salvare suo fratello da uno sbaglio di cui si sarebbe pentito per l’eternità!  Il primo diario rimase a Villa Nakano, mentre il secondo lui lo portò qui, assieme alle altre foto.

Perché l’obiettivo ultimo di Sasuke era di trovare qualcuno che riscattasse suo fratello, anche a costo di attendere in eterno!

Un Uchiha aveva condannato Itachi e un Uchiha lo avrebbe liberato dalla maledizione inflitta sia alla sua famiglia quanto a se stesso! L’Uroboro perfetto!

Ma qualcuno l’aveva già preceduto, voi!

Infatti, poco dopo il funerale di Itachi, voi avete profanato la sua tomba, seppellendolo altrove! Avevate sentito parlare della maledizione, vero? E dell’unica maniera per romperla! Ormai, era sulla bocca di tutti e così escogitaste questo vile trucco in modo da negargli per sempre l’eterno riposo! Non avevate però considerato che dal peccato nasce il peccato e che con le vostre malefatte vi siete attirati la collera divina! Per questo motivo, morendo, non siete finiti all’inferno, come invece avreste dovuto cadere, bensì vi siete ritrovati fantasmi come la vostra vittima!”

“Interessante, non sei poi così cretino come dai ad intendere”, lo sbeffeggiò la badessa. “Perché parli al plurale, però? Davanti a te, ci sono soltanto io!”

Senza lasciarsi minimamente abbattere da quella sardonica canzonatura, Naruto proseguì: “Tzé! Anche il prete è stato tuo complice e sono sicuro che si nasconda da qualche parte, qui, in questo luogo pregno di zolfo …”

Gettando il capo all’indietro, la donna latrò una risata perfida. “Hai ragione, stupido bamboccio, hai perfettamente ragione! Avresti dovuto vedere la faccia di quel vecchio pazzo di Sasuke, quando, scoperchiando la bara del fratello, la trovò vuota! Per poco, non mi schiattava dentro! Tant pis, mi sono rifatta col suo pro-pronipote … Quello sfortunato pittore da strapazzo, alla cui promessa sposa venne accorciato l’anulare sinistro per mano del fantasma del suo bisnonno/a …”

Naruto aggrottò la fronte, stavolta disorientato: ovvio, le foto più recenti appartenevano agli anni Cinquanta del Novecento, Sasuke non poteva essere vissuto così a lungo …

“… Il quale, col cuore a pezzi, dopo aver scoperto e letto il diario del suo antenato pensò bene di rompere la maledizione, giungendo fin qui. Peccato, che fossimo già pronti ad accoglierlo, sebbene non troppo presto da impedirgli di completare l’opera di Sasuke …” e quegli occhiacci maligni si posarono sulle fotografie tenute saldamente in mano da Naruto, che soffiò schifato:

“Lo avete dunque ammazzato?”

“Oh certo, idiota! E dopo di lui …”

 

 

 

Fate quindi attenzione, care fanciulle, il giorno delle vostre nozze!

 

 

 

“Quindi … Yamanaka Ino era una tua discendente?”

Itachi arricciò il naso, palesemente disgustato da quella prospettiva. “Per carità! La mia famiglia era troppo de haut rang per mescolarsi a simile marmaglia!”, dichiarò perfidamente ironico, imitando l’intonazione altera del padre. “Anzi, all’epoca ero rimasto piuttosto sorpreso dalla decisone di Sasuke di vendere Villa Nakano proprio a loro; se solo Papa fosse vissuto abbastanza per assistere allo spettacolo!”, e rise senza divertimento, amaro. “No, Hinata cara. Non era Ino la mia discendente, bensì il suo fidanzato, Yuhi Sai. Il mio pronipote. Non ci potevo credere la prima volta che lo vidi entrare a Villa Nakano, con la sua pelle diafana, gli occhi neri e il capelli altrettanto scuri … così Uchiha …”, digrignò i denti, scotendo il capo. “La guerra e la malattia avevano ucciso tre dei cinque figli di Mayra, lasciandone in vita due soltanto: una femmina e un maschio. I quali a loro volta si sposarono. Mia nipote Noera ebbe due figli, Sai e Shin. Il primo, in seguito al mio tête-à-tête con la sua Ino, visse altri trentatré anni in piena solitudine prima di suicidarsi e mai volle risposarsi! Non lo trovi romantico, Hinata cara?

Shin, invece, si sposò ed ebbe una sola figlia, Kurenai. E anche lei … ZAC!”, imitò Itachi lo schiocco delle forbici sotto il naso di Hinata, la quale storse il viso, apprensivamente inquieta. “Tuttavia, non avevo considerato un piccolo dettaglio, ovvero che la cara Kurenai aveva già partorito una pargoletta al momento delle nozze … Sai com’è, ai tempi di guerra … In ogni modo, la piccola Kiyora una volta divenuta grandicella convolò a nozze e in seguito mise al mondo la signorina Mitarashi, alla quale porsi una mia visitina il giorno del suo matrimonio.

E così, con Anko si chiude la discendenza in via femminile di mia figlia Mayra”, concluse giocosamente il moro il suo resoconto, la mano appoggiata sotto il mento.

“La discendenza di mio nipote Ian, invece, fu più fortunata giacché non ebbi modo di imbattermi nei suoi componenti fino ad oggi, in data 2012. Ah, che sciocco! Hinata cara, ancora non ti ho rivelato il cognome di mio genero!”

 

 

Molti anni sono ormai passati da questo amaro caso, eppure la Sposa Mancata ancora infesta la villa maledetta!

 

 

 

“E ora che sai tutto, sciocco marmocchio, levami tu una curiosità: come mai, malgrado la palese discendenza esclusivamente maschile, fai di cognome Uzumaki al posto di Namikaze?”

Ché Namikaze era il cognome dello sposo di Mayra e Namikaze Ian, il loro unico maschio sopravvissuto, ebbe  a sua volta solo discendenti maschi … fino a lui …

Naruto abbassò il capo, guardando amorevolmente l’immagine di suo padre Minato ancora bambino. Sapeva di chi era figlia quella dolce vecchietta di cui teneva la mano? Aveva mai sospettato della triste eredità che gli fluiva nelle vene? Dell’ombra nefasta che lo incalzava ogni giorno? Aveva mai immaginato che tale sorte sarebbe stata riservata anche a lui, suo figlio, reo di compartire il medesimo sangue di quella famiglia maledetta?

Il biondo oro si era sostituito al corvino; lo zaffiro all’ossidiana, ma la sostanza, la genetica, il sangue!, rimaneva lì, dormiente e paziente, pronta a manifestarsi alla prima occasione.

Era anche lui tarato, corrotto, marionetta di un destino atroce.

Tutto gli apparve ora così lineare, così logico: alla fine, prima o poi, avrebbe dovuto comunque aver luogo questo confronto finale tra l’anima offesa della Sposa Mancata e un membro del suo casato, anche se di lontana discendenza. Il debito era troppo grosso per essere ignorato in eterno.

Si doveva giungere ad una fine.

La totale estinzione degli Uchiha.

O la rottura della maledizione di Villa Nakano.

“Ti risponderò solo se tu soddisferai la mia curiosità: mio padre, Namikaze Minato, serviva come capitano nella marina di Hi e la sua nave è affondata nel golfo di Kiri esattamente vent’anni fa. Voi, non è che ne sapete qualcosa?”

 

Spuma splendente, onda fremente.

Gioca col mare e lui ti catturerà.

 

Il ghigno demoniaco della badessa sciolse ogni dubbio a riguardo. “La Sposa Mancata desidera l’annientamento del suo clan e noi, sia per motivi diversi, gli stiamo dando una mano. Altrimenti, come da te previamente affermato, l’ultimo desidero di Sasuke potrebbe anche avverarsi e tu, vero e ultimo discendente degli Uchiha, potresti sul serio liberare la sua anima dannata e riscattare quelle delle sue sfortunate vittime!”

Silenzio.

“Ora tocca a te rispondere, moccioso.”

Il viso di Naruto assunse un’espressione dolcemente amara, nel frattempo che chiudeva gli occhi, cullato dalla rassicurante sensazione che sì, aveva sempre avuto ragione su suo padre, che lui non era un irresponsabile e un incompetente nel suo lavoro. Quante volte il biondo, nella solitudine dell’orfanotrofio, era stato costretto a sopportare i crudeli dileggi dei suoi compagni? Quante volte aveva pianto sulla sua tomba, invocando una spiegazione, un perché di quella morte così ridicolmente assurda?  Quanto lo aveva perseguitato la memoria di quell’incidente, incarnata nelle continue invettive dei parenti di coloro che suo padre non era riuscito a salvare, prima di cedere all’ingordo abbraccio del mare?

 

Thàlassa, Thàlassa,

credo sia mio destino amarti e in te morire.

Osud. [2]

 

“Nutrivo una profonda vergogna per il mio cognome …”, proferì lentamente il giovane, schiudendo le palpebre e ringraziando gli spruzzi salati del mare che gli inumidivano il viso, celando il febbrile misto di gioia e angoscia, di calma e inquietudine. Avrebbe dovuto provare del profondo ribrezzo per la sua discendenza da quella famiglia perversa, eppure al contempo provava una tiepida sensazione di appartenenza, di casa, come una nave che attracca in porto in seguito ad un lungo ed estenuante viaggio.

Osud.

“All’epoca pensavo che non esistesse nulla di più infamante del mio cognome, di quel palese vincolo anagrafico che mi collegava ad un pendaglio da forca di capitano, in realtà l’ennesima vittima di questo sanguinoso carosello!”, ridacchiò istericamente Naruto. “Pah! Se avessi conosciuto meglio le mie origini, sarebbe stato per me consigliabile un bel colpo in testa!”, e rise, rise, fino alle lacrime. “Ciononostante, debbo ringraziarvi: infatti, per colpa vostra ho vissuto la mia infanzia nell’infamia più assurda e solo per questo motivo io posso comprendere appieno chi ha sperimentato come me il peso di un’immeritata ignominia! L’epitaffio lasciato da Sasuke sulla tomba d’Itachi lo conferma: Chi non conosce il vero dolore, non pianga mai su questa tomba.

Ed è per questo motivo che solo io posso mettere la parola FINE all’Amaro Caso di Villa Nakano!”

Il demoniaco fantasma, all’udire ciò, s’ingobbì minaccioso, ringhiò battagliero cupi latrati e mostrò ferino i denti aguzzi, ma, malgrado la sua reazione animalesca, fu costretto  lo stesso ad indietreggiare.

 

 

 

Una malinconica figura biancovestita erra dolente per i suoi corridoi o nel giardino, il capo chino e un coltello stretto al petto: girate subito dalla parte opposta, presto!

 

 

 

 

“Naruto non può essere un tuo discendente!”

“Ah, non può?”

“Non è malvagio come te!”

“Non lo è? E chi ti assicura, Hinata cara, che non sarebbe disposto, per amor tuo, a compromettere perfino la sua anima pur di salvarti dal sottoscritto?”

La giovane aprì la bocca per ribattere, stupendosi come la voce le mancò. Che quanto affermato da Itachi corrispondesse al vero? Lui per primo ne pareva mortalmente sicuro. Provvederò a far tacere quanto prima queste fastidiose voci, te lo prometto!, le aveva giurato il giorno prima, appena svegliati da quella notte piena d’incubi. Ma a che prezzo, però? Hinata sapeva che Naruto era un eccelso testardo, ma fin dove sarebbe giunto pur di salvarla? E lei? Avrebbe accettato la sua perdizione per cosa, poi? Per un dito?

Il destino eterno dell’anima del fidanzato valeva un anulare mozzato?

“Non oseresti spingerlo a tal punto!”, singhiozzò sconfitta la mora, la punta del mento che pugnalava il petto. “Non …” e un nuovo, sconquassante singulto la interruppe, soffocandola per poco, ogni afflato di resistenza destinato ormai a sciogliersi dinanzi a quella tremenda convinzione. Amava troppo il suo compagno per lasciare che si compromettesse a tal punto per lei; non ne era degna. Non lo meritava. Non aveva fatto nulla in vita sua per aiutare Naruto, tranne che accettare di sposarlo, ma perché? Per amore? O per pena? Per interesse?

Il dubbio! L’incertezza! Il perfido torpore della sfiducia!

Forse, non sarebbe stato poi così tragica se Itachi avesse deciso di sottrarle anche qualcos’altro, oltre che al dito e all’anello … Sparire, ecco cosa. Nell’avvolgente abisso del nulla, dell’ombra.

E Itachi, neanche fosse stato dotato di un olfatto peculiare, respirava a pieni polmoni questa pena, nutrendosi quasi di essa: mai essenza più soavemente tossica viene emanata, quando nello sconforto più atroce una persona s’appresta a congedarsi dalla vita!

“Io ho bisogno del mio anello, Hinata carissima, anello sottrattomi con la forza. E che con la forza riotterrò!”

E tuttavia, perché quelle lacrime sul suo viso? Lui, talmente persuaso di averle versate tutte!

“Se tanto mi vuoi uccidere, perché stai qui a raccontarmelo?”, gli giunse ovattato il patetico pigolio di Hinata, il cui sguardo opacamente avido lo turbava, portandolo a mordicchiarsi incerto il labbro inferiore. Non aveva avuto remore negli anni passati a recidere dita, fossero esse appartenute a ragazze di altre famiglie o della sua stessa.

Dunque, da dove proveniva quel suo tentennare? Un solo gesto, un solo attimo e sarebbe tutto finito! L’ultimo suo discendente sarebbe sprofondato nel dolore più lacerante, ponendo fine alla sua vita e congiungendosi alla sua spettrale e dannata famiglia! Non era questo, ciò cui Itachi aveva sempre anelato? No? Non s’era adoperato in ogni modo per sbarazzarsi di lui? E quel folle, perché insisteva tanto? Non aveva compreso l’antifona?

Itachi non voleva essere salvato! Non voleva! Giacché nessuno poteva salvarlo! Sulla sua anima gravavano già troppe innominabili colpe! Non c’era più nulla da fare per lui! Non …

“Io non voglio ucciderti, Hinata. Mi bastano solo il tuo anello e il tuo anulare sinistro. Una volta ottenuti, sarai libera finalmente libera di morire come meglio credi. E di tua mano, ovviamente.”

La pendola suonò le undici e mezza.

Basta lacrime, basta rimpianti!

Se per un istante il ghiaccio del rancore e della tristezza cessò di illividire il viso di Itachi, sciogliendosi nella sua prima vera espressione umana dopo quasi un secolo e mezzo di crudele solitudine e vagabondare, ecco che esso si ricompattò e il furore e lo sdegno rianimarono il suo spirito offeso e resero più salda la presa al coltello.

Bisognava agire!

“Sarò rapido, Hinata cara, così non dovrai soffrire più del dovuto”, la rassicurò, allargandole la mano serrata sul bracciolo della sedia a dondolo e levando quel poco la lama per eseguire il taglio tanto agognato. “Con te, la mia condanna si adempie in pieno …” e volle calare il coltello, bloccandosi invece all’improvviso.

Una fusiforme mano spettrale si era stretta al polso sottile di Itachi, mentre un’altra lo cingeva per la vita, allontanandolo di peso da Hinata che, ripresasi da quel sonno demoralizzante e ipnotico, approfittò di quell’attimo di sorpresa per liberarsi dalle sue catene, balzare dalla sedia e correre via dalla stanza.

L’ultima cosa che vide, prima di sbattere la porta, fu il grottesco groviglio di due fantasmi che si muovevano in scatti secchi e violenti, uno tentando di divincolarsi e l’altro che lottava come un invasato pur di trattenerlo.

“Quousque tandem abutere, frater, patientia nostra?”

 

 

Prima che si accorga di voi!

 

 

 

I due contendenti tacquero, altro da dire non avevano: gli altarini erano stati svelati, le accuse e difese proferite con partecipe convinzione e sovrannaturali sfide altezzosamente lanciate. Cos’altro poteva loro rimanere, se non guardarsi vicendevolmente in cagnesco, sperando di impressionare l’avversario?

Il vento aveva cessato definitivamente il suo sprezzante fischiare e le malevole nuvole nero carbone avevano ingollato avido il sole estivo, relegandolo vergognoso nelle oscurità del loro vaporoso stomaco. Un odore marcio, puro putridume, risalì invece sia dalla terra sabbiosa che dalle profondità marine, ammorbando l’aria di quella maleodorante cancrena muffosa. I moscerini e ad altri insetti volanti, sfruttando l’assenza del flagello naturale, ne presero il posto, frustando Naruto col loro fastidioso ronzare e cercando di infilarsi ovunque, occhi, naso, bocca. Ma nulla era il suo tormento se paragonato a quello del fantasma della badessa, la quale appariva letteralmente divorata da quei ributtanti animali, neanche si fosse trasformata nel loro nido.

Solo l’impotente borbottio del tuono riportò una parvenza di calma a quel limbo infernale e il lampo suo fratello illuminò a giorno quel buio sceso troppo presto. Il mare, eccitato dall’inquietudine della sua controparte celeste, s’agitò con maggior gusto, riflettendo il medesimo color vino e fumo del cielo.

Spiando di sottecchi quel ripugnante fantasma, Naruto pensava furiosamente sul da farsi: adesso che aveva scoperto la verità, come affrontare quella sinistra presenza? Come giungere alla vera tomba di Uchiha Itachi e rompere la maledizione?

Neanche gli avesse letto nel pensiero, quello spirito immondo congiunse i polpastrelli, dichiarando macabramente divertitio:

“La tua determinazione è lodevole, ragazzo, ma dimentichi un piccolo particolare: sei uno contro due e molto, molto, ma molto vicino al …”

Come se si fosse materializzato dalla stessa umidità presente nell’aria salmastra, un suo compagno di dannazione comparve alle spalle del biondo, il quale non ebbe neppure il tempo di realizzare che cosa gli stesse accadendo, che una mano gli serrava inclemente il collo, stringendo, stringendo, neanche si fosse prefissata di spaccargli l’osso del collo in un singolo crack!

Poco male, giacché il nuovo arrivato preferì invece issare Naruto da terra, mentre questi, afferrando i polsi putrefatti del suo assalitore, tentava di respirare ossigeno vigliaccamente negatogli. Ciononostante, una parte di sé si diede dello stupido, poiché aveva già sospettato della presenza del fantasma del prete, il complice della badessa.

Era in trappola.

 “… al mare!”

E non appena evocò il vero sposo di Kiri, il prete con forza sovrumana scaraventò Naruto oltre il muretto, lontano, simil all’innocente gioco del sassolino che spesso dilettava i bambini prima della cena.

Giù, giù, in quell’inferno acquatico.

L’impatto fu tremendo e il biondo dovette serrare a forza la bocca per non urlare il suo doloroso disappunto, quando la sua schiena forzò la superficie del mare, colpo che gli parve risuonare in tutta la sua cassa toracica. A che pro, tuttavia, quel disperato tentativo di conservare quanto più ossigeno possibile, quando la corrente impazzita lo teneva coscienziosamente sottacqua?

Avrebbe resistito? Non poteva mollare proprio ora che aveva scoperto la verità, proprio ora che era a due passi dalla soluzione!

Peccato che la sua prigione acquatica la pensasse diversamente, trascinandolo nei suoi abissi, gelosa custode degli incauti uccellini entrati loro malgrado nella sua impietosa gabbia.

“Tutto è incominciato con un annegamento e con un annegamento finirà!”, dichiarò ieratico il prete, nel frattempo che si portava accanto alla badessa.

Osservando compiaciuta il mancato riemergere di Naruto, essa rincarò la dose, beffarda: “Che ne dici, bamboccio? Morirai come tuo padre! Non lo trovi poetico?”, strillò al mare, la sua immortale arma del delitto.

Eppure, perché quella sensazione?

Perché le parve che il mare la stesse a sua volta deridendo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Next chapter, the end …

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Dum-dum, la suspense!

Come finirà?

Naruto morirà annegato?

Hinata si ritroverà un dito in meno?

Chi ha bloccato Itachi?

E quest’ultimo, ritroverà mai la pace dello spirito?

Tutte le risposte al prossimo capitolo!

Ciao!

 

Un po’ di noticine:

[1] Famosa ninnananna francese. La traduzione: “Al chiaro di luna [chiedo a] il mio amico Pierrot: “Imprestami la tua penna per scrivere una parola, la mia candela è spenta, non ho più da accendere, aprimi la tua porta, per l’amor di Dio”

[2] Thàlassa, Osud =  rispettivamente “Mare”, in greco e “Destino”, in ceco. Mi piace mischiare le lingue, ecco …

 

 

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Capitolo 8
*** Agosto 2012 - quarta parte: Thàlassa ***


E rieccoci infine con il capitolo finale di questa storia! Gosh, mi sembra un’eternità da quando l’ho incominciata, in una notte tempestosa – nel vero senso della parola – di febbraio. Ora mancano solo due altre mie storie da finire, uh-uh …

Siccome il capitolo è piuttosto lunghetto, non vi tarmerò con note introduttive; eventuali spiegazioni/giustificazioni/abbiate-pietà-di-me ci saranno nell’epilogo, che arriverà prossimamente.

Spero che questa conclusione – molto sofferta – possa piacere e che nessuno si offenda per certe considerazioni fatte nel corso della storia.

Ringrazio tutti i miei lettori e recensori, in particolare: April88; Lady_Loire, Mary Uchiha, Cucciola Blu e Sagitta72.

Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Vi auguro buona lettura!

 

 

 

H.

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Agosto 2012

 

 

Quousque tandem abutere, frater, patientia nostra?”

La stretta, dapprima brutale e asfissiante per la sua determinazione nel trattenerlo, si allentò nella disperata dolcezza di un abbraccio.

“Per favore, fratello”, furono le uniche parole dell’evanescente e deforme figura. “Basta così”, e un viso ritornato sorprendentemente umano si nascose nell’incavo di una spalla fraterna e tremante. “Basta così, Itachi. Hanno patito abbastanza, non infierire!” Eppure, malgrado la linea dura e inflessibile della bocca del fantasma, quest’ultimo non accennò a sciogliersi da quella confortevole prigione di braccia.

“Che cosa vuoi da me, Sasuke?”

Rabbia, frustrazione, angoscia nel veleno di quella domanda.

“Lasciala andare. Lasciali andare. Lasciaci andare. È abbastanza!”

“No”, giunse senza alcuna esitazione la lapidaria sentenza, che però vacillò per mitigarsi in un più conciliante: “Non sarà mai abbastanza! Mai! Devono essere castigati! Tutti devono essere castigati!”

Litania centenaria, convinzione suprema e alfa e omega di quell’esistenza innaturale.

“La malvagità risiede nella nostra famiglia, è radicata in essa! Non permetterò che compia altri danni!”

“Come puoi saperlo? Non sei il custode delle loro vite! Vero, ti recammo in vita un grave oltraggio, ma abbiamo anche pagato il fio col nostro sangue! Nella nostra epoca! Non in quella altrui! Non col sangue altrui! Itachi … fratello … Neanche tu puoi ignorarlo in eterno: non attraverso l’annientamento potrà la nostra famiglia redimersi, bensì vivendo e sbagliando e pentendosi e facendo ammenda dei loro errori!”, un timido sorriso complice arricciò le labbra violacee del secondo fantasma. “Qualsiasi cammino li abbia riservato la vita, devono essere loro stessi a percorrerlo. Anche se li conducesse alla perdizione … Tu lo sai … tu lo sai … Questo non è da te … Non divenire il mostro che in vita ti ha divorato … ”

Itachi scosse ostinato il capo, irremovibile. “Il karma degli Uchiha verte alla malvagità e neppure i discendenti di mia figlia ne sono stati esenti, tu medesimo ne sei testimone!”

Vero, tutto vero.

Non a caso si era sempre vociferato come gli Uchiha venissero dall’inferno e come all’inferno tutti sarebbero un giorno ritornati, nessuno escluso.

“Allora”, replicò altrettanto cocciuto il minore, guardando fissamente il fratello dritto negli occhi vermigli “elencami le nefandezze di Naruto, l’ultimo tuo discendente! Rivelamele e io tacerò fino al Giudizio Universale!”, fu l’ultima disperata richiesta di Sasuke e il silenzio da essa generato ridestò, seppur debolmente, la timida fiammella della speranza.

Zoppicante barlume che addolcì  lo scarlatto di quelle iridi incandescenti nella mite ossidiana da Sasuke tanto amata, la quale ancora tremò, inumidendosi, tentennando, rosa dal dubbio e dalla fatica e dall’esasperazione dell’anima intrappolata nel cieco labirinto del furore e della sua creatura più crudele, il senso di colpa.

Si trattò di un attimo, però, una minuscola crepa di spossatezza e confusione: una volta rimesso il proprio destino eterno negli artigli del grande nemico, da soli non è mai facile sottrarsi alle sue invisibili catene, non se la paura di chiedere aiuto e perdono risulta maggiore alla prospettiva di venire per l’eternità consumati dal fuoco nero dell’abisso.  

“Che importa ormai?”, ridacchiò cupamente rassegnato Itachi, sollevando di peso l’incorporea figura di Sasuke e stritolandola fino ad assorbirla dentro di sé. “La fine è vicina. Villa Nakano adora la sua promessa sposa e non desidera per nulla al mondo lasciarla …”

E quando il viso del fratello, scomparendo, non gli ricordò più il benefico balsamo del perdono, ecco che Itachi si portò alla finestra, contemplando con freddo compiacimento – a lui così estraneo, così lontano dalla sua vera natura –  le piante del giardino della casa maledetta, le quali, anch’esse animate da una volontà scellerata e feroce, avevano tramutato la loro estiva bellezza in un lercio manto di putrido rancore, ghermendo Hinata e trascinandola seco dalla loro “madre”, Villa Nakano, che la attendeva piena di impaziente godimento, la porta tramutatasi in fauci ingorde e le numerose finestre in occhi febbrili e insonni,  novella Argo Panoptes [1].

Volevi essere la mia padrona, pareva schernirla l’imponente edificio e il fantasma con esso, e invece sarai tu in mio potere!

Come fu per le giovani spose che ti precedettero.

Come fu per gli Uchiha.

Come fu per Itachi.

Come è ancora per lui. In fin dei conti, non è mai stato libero dalla sua famiglia.

Da me.

Tanto è l’odio di voi uomini, da trasformare il rifugio in una prigione. Da insozzarlo con le vostre faide, con la vostra ipocrisia. Mi nutrite. Mi rendente forte, invincibile.

Non lamentatevi poi se ne dovrete pagare le conseguenze.

 Così parlò arrogantemente trionfante il grande nemico per bocca di Itachi - dietro di lui, dentro di lui -  in quel momento Hinata poté distinguerlo bene.

Era sempre lui.

L’approfittatore per eccellenza delle debolezze dell’uomini.

E dei loro sbagli.

 

 

 

 

È l’alma maledetta della suicida Sposa Mancata, costretta come punizione a vagare sulla terra.

 

 

 

 

L’ultima cosa che gli occhi di Naruto videro, riemergendo a stento a galla dopo il tuffo,  fu la gigantesca onda abbattersi contro di lui, simile alle fauci di un mostro che azzannavano una preda moribonda.

Poi, fu solo l’oscurità del mare color del vino.

Morire annegati era una fine davvero atroce: i polmoni inadatti all’ambiente marino reclamavano ruggendo aria, nonostante la consapevolezza che non avrebbero ricevuto nient’altro che acqua. Insistevano, premevano dolorosamente per aprire solo per un istante la bocca, onde respirare un poco e presto tutto il corpo incominciò anch’esso a tendersi per lo spasimo, mentre il cuore batteva all’impazzata, protestando la sua impellente necessità di ossigeno.

Non v’era scampo all’imminente incontro con la morte: quattro minuti al massimo si poteva restare senz’aria; d’altro canto, tuttavia, dischiudere la bocca significava ingurgitare salata e mortifera acqua marina e  il tutto mentre la vista si affievoliva, fissando impotente l’agognata superficie del mare allontanarsi sempre di più, sprofondando nell’incoscienza …

“Sono morto?”, si domandò ad un tratto il biondo, quando si riprese dallo svenimento, sorpreso di non sentirsi più addosso la pressione dell’acqua.

Una voce profonda e divertita gli rispose: “No, per il momento. Ma se ci tieni tanto, posso sempre rimediare  a questo piccolo inconveniente …” e un sardonico sogghignare fece eco alle sue parole.

Naruto aprì gli occhi, guardandosi intorno spaventato e incuriosito allo stesso tempo: il posto in cui si era risvegliato era il più insolito che avesse mai visto, caratterizzato, infatti, da una spiaggia senza alcun tipo di vegetazione e che si slungava all’infinito, stagliandosi dal cielo plumbeo in una perfetta linea retta. Inoltre, davanti al giovane si ergeva imponente una porta di legno dipinta di rosso scarlatto e dalla maniglia nero carbone; tuttavia, ciò che colpì in particolar modo Naruto, fu che codesta entrata non era circondata da alcun muro: attorno a lei, c’era il nulla, se ne stava in piedi così, isolata da quel paesaggio uscito da un dipinto di Dalì.

Il biondo rimase interdetto: a che cosa serviva una porta, se non c’era un edificio chiuso dietro ad essa? A che pro tenerla, poi?

“Curiosa quella soglia, eh?”, gli chiese l’uomo alle sue spalle e Naruto sobbalzò per la sorpresa. “Tutti coloro che sono entrati non sono mai più tornati indietro a raccontarlo, eppure, nonostante ciò, la gente muore lo stesso dalla voglia di passare per di qui! Ah, per la cronaca: anche tuo padre e tua madre l’hanno già varcata”, gli comunicò con tono rilassato, quasi fosse la cosa più normale del mondo.

“Papà e Mamma?”, ripeté confuso Naruto, che non riusciva bene a capire a che cosa l’uomo si stesse riferendo.

L’individuo annuì, arruffandosi i capelli già di loro spettinati. “Uh - uh, sicuro! E le Parche avrebbero deciso che tu dovresti raggiungerli fra …”e controllò pensieroso l’orologio da taschino “fra due minuti e tredici secondi esatti. Tuttavia, poiché sono un bastardo rompiscatole di natura, credo che sarà assai divertente rovinare i piani delle tre megere, non trovi?” e sorrise complice, mettendo bene in vista tutti e trentadue i denti lievemente appuntiti. “Insomma, chi vuole morire al giorno d’oggi?”

“M-morire?”, balbettò Naruto, capendo solo ora il significato della porta, mentre fissava come ipnotizzato la maniglia nera stagliarsi dal rosso della porta. Ora si spiegava l’insolita voglia di aprirla …

“Oh sì: morire, perire, crepare, tirare le cuoia, decedere … scegli tu il verbo che più ti aggrada, il significato è lo stesso, non cambia nulla”, puntualizzò ineffabile l’uomo, scrutando attento il biondo.

“Quindi … quindi chi oltrepassa quella porta è …  morto?”, volle accertarsi Naruto, gli occhi che gli si inumidivano dalla frustrazione e impotenza: maledizione, non voleva morire! Aveva ancora mille progetti da portare a termine prima di presentarsi davanti a San Pietro!

E ciononostante, una piccola ma insistente parte di lui premeva per aprire quella solenne porta e godere del più pacifico dei riposi.

“Esatto, ” fu la risposta incolore che ricevette.

“Senza speranza?”, continuò il giovane.

“Alcuna.”

“Ed io?”

“Oh tu! Non mi hai ascoltato prima? Dovresti subire lo stesso fato, ma …” e fissò Naruto dritto negli occhi, inchiodandolo con uno sguardo birbante  e il suo sorriso s’allargò compassionevole, quando l’altro lo invitò disorientato a proseguire.

“ … ma tu ed io potremmo giungere ad un accordo, come tra due gentiluomini, no?” e l’uomo cinse Naruto per le spalle con un braccio. “Sai, ne ho vista tanta di gente schiattare, anche fin troppa per la verità,  però ti confesso che i decessi dei bambini …” e qui Naruto socchiuse indispettito gli occhi “… non li ho mai digeriti più di tanto e quello tuo prossimo non è da meno”, disse, inginocchiandosi per terra, e si mise a spianare la sabbia quasi volesse pulire il suolo sottostante, il che avvenne incredibilmente, poiché l’ocra venne sostituito da una superficie liscia e trasparente, attraverso la quale era possibile osservare il fondale marino e appoggiato ad esso un corpo che Naruto conosceva molto bene.

“Ti sei visto, eh? Questo sei tu, o meglio, tu da vivo, per quel poco che ti rimane. Così quello là avrebbe deciso!” e pronunciò l’ultima frase con grande disprezzo, o almeno fu  quel che parve al biondo, che boccheggiò sinceramente preoccupato:

“Non mi puoi aiutare in qualche modo, dattebayo?”

“Dovrei? E che ci ricavo in cambio?”

“In cambio?”, ripeté indignato Naruto, reprimendo una voglia matta di strangolare quel gran furbastro.  “Riceverai la mia riconoscenza, che altro pretenderesti, dattebayo?”, berciò, rimanendo subito dopo urtato dalla fragorosa risata di scherno che la sua frase provocò nell’individuo.

“La  tua riconoscenza? Carino, io sono morto. Che me ne faccio della riconoscenza di un vivo e per di più di un vivo che neppure mi conosce? No, no, non spreco i miei servigi per ricompense così … intangibili! Che c’è, ora non vuoi più il mio aiuto?”, arcuò egli il sopracciglio, arricciando maligno l’angolo della bocca dinanzi al palese sospettoso tentennamento di Naruto, il quale aveva nuovamente stretto gli occhi in una linea sottile, cercando la fregatura in quell’affare. “Non ti preme più vivere solo perché non mi atteggio da bonaccione generoso?”, rise sarcastico l’uomo, davanti al conflitto interiore che si consumava nell’animo del biondo: accettare o non accettare? Si poteva fidare di un … fantasma? Specie dopo tutto quello aveva patito per mano dei suoi simili? E soprattutto, che cosa poteva offrire in cambio ad uno che in teoria non avrebbe mai più avuto bisogno di guadagni terreni?

“Vedi di sbrigarti: il tempo per me è denaro, per te è ossigeno …”, lo incalzò impaziente e sbadigliando l’uomo, imitando con la lingua il ticchettio delle lancette dell’orologio, suono che rese Naruto ancora più nervoso, ma allo stesso tempo rassicurato che una qualche speranza di salvezza gli era stata offerta e lo sconosciuto ghignò soddisfatto nell’osservare tale nuovo sentimento manifestarsi timidamente negli occhi azzurri del giovane: dinanzi al grande abisso, ogni ancora di salvezza per salvarsi era buona, in barba alla morale.

“Che ti dovrei dare in cambio? Non ho nulla da offrirti!”, allargò esasperato Naruto le braccia.

“Oh no, al contrario, hai molto da concedermi e più di quanto tu possa immaginare … Facciamo così: io ti salvo la vita e tu mi prometti che esaudirai un mio desiderio, di qualsiasi natura esso sia!”

“Anche cattivo?”

“Certo!  Soprattutto se è cattivo: dov’è sennò il divertimento?”

“Eh no!”, protestò Naruto: lo sapeva che non doveva fidarsi di quello strano individuo! “Non ci sto a queste condizioni!”

“Non credo che tu sia nella posizione più favorevole per dettarne, ma se ci tieni … un minuto e quarantacinque secondi …” e lo sconosciuto si alzò, accingendosi ad andarsene.

Fissando ora l’uomo, ora il se stesso morente sul fondale marino, il biondo si torse le mani, mordicchiandosi incerto le labbra.

“Non voglio commettere nulla di malvagio …”, si lagnò con voce flebile, pigolando quasi.

“Un minuto e trentasei secondi …”, fu l’implacabile replica dell’uomo, sempre dando le spalle al giovane.

“Se almeno mi dicessi in modo più specifico che  cosa dovrei fare …”

“ … Un minuto e ventinove secondi …”

“Sei uno stronzo!”, ruggì offeso Naruto, il volto rosso dalla frustrazione.

“Ne prenderò atto. Intanto, fra un minuto e diciassette secondi tu sarai un bel nulla!”, ribatté cinicamente lo sconosciuto, per niente toccato dall’ingiuria del biondo.

“Ma …”

“Un minuto e dieci secondi!”

“Non potremmo …”

“Un minuto e due secondi !”

“Magari …”

“Cinquantanove secondi!”

“Per favore …”

“Quarantotto! Testardi fino alla fine, eh? Che t’importa del male o del bene che compirai in futuro, quando da morto non potrai far altro che marcire, me lo spieghi? Addio, sempliciotto!”

Naruto ringhiò sconfitto: per quanto lui per primo detestasse ammetterlo, quel sillogismo era invero intaccabile.

“Aspetta! Se accetto, mi aiuterai sul serio?”, fermò egli lo sconosciuto, afferrandolo per un braccio e costringendolo a voltarsi.

Il ghigno dell’uomo si allargò soddisfatto e tuttavia sinceramente rincuorato, come se Naruto lo avesse sollevato da un enorme macigno . “Ci puoi scommettere. Andata?” e gli porse la mano, che Naruto guardò dubbioso, prima di serrargliela con forza e che, facendo perno su di una gamba, usò per scaraventarlo a terra, sventolandogli sotto il naso leggermente grifagno il crocefisso che teneva sotto la camicia.

“Pensavi sul serio di fregarmi coi tuoi tranelli, eh?”, berciò battagliero il biondo, piccato dall’espressione assolutamente scioccata dell’altro, che lo fissava come una bestia rara dello zoo.

“Cosa?”, aggrottò la fronte l’uomo, puntellandosi confuso sui gomiti e per nulla impaurito dal simbolo religioso, anzi, solo leggermente perplesso.

“Inutile che giochi al nesci, dattebayo! So chi sei! Sei il diavolo e speravi di corrompere la mia anima, approfittandone della mia delicata situazione!”

“Oh, cielo!”, roteò lo sconosciuto gli occhi, schiaffeggiando via annoiato la mano di Naruto – quella che brandiva il crocefisso – e rialzandosi in piedi, nel frattempo che si spolverava via la sabbia dai pantaloni. “Mi domando da quale ramo dei tuoi antenati tu abbia ereditato la tua cretineria! Spero non da me, perché mi sentirei abbondantemente umiliato …”

Puntandogli offeso il dito contro, Naruto berciò: “Non sono cretino, dattebayo! Sono un povero disgraziato che è stato buttato in mare dai fantasmi! E che ha vissuto in una casa maledetta per un anno! E che l’ex-inquilino di detta casa ha tentato più volte di farmi la festa! E che sta per morire affogato! E la cui fidanzata sta per ritrovarsi un dito in meno! E che … e che … Dattebayo! Non sono un cretino! E tu comunque sei e resti il diavolo!”

Incrociando le braccia, l’uomo si sentì in dovere di dissentire a riguardo. “Non sono il diavolo, signor disgraziato. Sono – ero – un mercante il che, da un certo punto di vista, potrebbe anche corrispondere al vero …”

Siccome Naruto, in fin dei conti, non era poi così denso come la gente si divertiva a descriverlo, quella piccola informazione lo chetò immediatamente, slogandogli la mascella dall’incredulità.

“Kisame?”

Il sopracitato batté spassionatamente le mani. “Bravo. Vuoi un bonbon?”

“No, del ramen”, replicò a tono Naruto, pur tuttavia seguitando a sbattere incredulo le palpebre: accidenti, già dal racconto di Uchiha Sasuke, il biondo aveva intuito che l’amante del fratello di questi non gli arrivava in fatto di bellezza neppure alle caviglie, ma ora che lo vedeva dal “vivo”, sinceramente il giovane si chiese come fece Itachi a perdere la testa per un uomo sì poco piacevole all’occhio.

Bah, de gustibus.

“E così, tu saresti l’amante della Sposa Mancata?”

Forse, fu il pronto e appassionato scatto in sua difesa ad aver dolcemente irretito Itachi. “Non chiamarlo così, è offensivo e immeritato”, ringhiò Kisame, nascondendo il pugno stretto in tasca per non sfogarne la sua aggressività sul naso di Naruto. “E comunque, putèlo, smettila di fissarmi neanche fossi una foca ammaestrata, è maleducazione!”, aggiunse poi, risiedendosi  poco distante dalla porta e fissando un punto indefinito davanti a sé. Il biondo lo imitò subito dopo.

“Perdonami, ma la Ballata …”

“Tutte baggianate!”, replicò seccamente l’uomo, scrollando le spalle. “Tali fiabe da balia non sono altro che un mucchio di cavolate, atte a mettere a nanna i bambini!”

“Su questo punto, si potrebbe molto discutere”, obiettò Naruto. “Capisco che nei confronti di Itachi tu sia estremamente partigiano, ma neppure tu puoi negare né giustificare il suo operato!”

“Cosa ne sai tu?”

“Più di quanto tu possa immaginare!”

Kisame rise senza divertimento. “Pah! Come fai a dire di conoscere Itachi, se non lo hai mai conosciuto di persona?” e  il suo sguardo s’addolcì per un attimo al pensiero, per poi rindurirsi. “Certo, avrai letto il diario del mio “cognato”, ma anche quello è di parte. Nessuno a questo mondo è oggettivo, si finisce sempre per giustificarsi sia direttamente che indirettamente.”

“Dunque”, gli chiese il biondo “come spieghi la tua comparsa nella Notte di San Giovanni, nel 1858? Non ti sei reso conto di aver peggiorato la situazione? Se non avessi costretto Itachi a seguirti fino a Kiri, forse …”

Una brutale stretta alla gola lo interruppe bruscamente.

“Mi biasimi forse?! Non avresti fatto lo stesso?!”, incontrò Naruto lo sguardo furibondo di Kisame, i cui occhi dorati rifulsero di rabbia e sdegno tanto da competere con la lava incandescente e la sua voce, dapprima profonda eppure rassicurante, assunse la medesima inquietante connotazione del mare in tempesta. “Non saresti forse intervenuto, se avessi saputo che ti stavano uccidendo l’amante e la figlia?!”, ruggì e il biondo si ritrovò ad abbassare vergognoso gli occhi: sì, se i ruoli fossero stati invertiti, se lui fosse morto e avesse saputo che la sua Hinata, incinta della loro creatura, rischiava la morte per i maltrattamenti subìti, certamente Naruto sarebbe intervenuto anche a costo di sbucare dalla terra come una margherita e in piena fase di decomposizione.

Notando quell’attimo di colpa e imbarazzo, Kisame si calmò, liberandolo dalla presa e stringendo le mani tra di loro.  “Perdonami, non era mia intenzione colpirti”, dichiarò più controllato. “Ammetto, però, di aver lo stesso sbagliato: i morti non si devono curare degli affari dei vivi, è vietato! E coloro che infrangono questo tabù, per quanto le loro intenzioni siano buone e sincere, otterranno come unico risultato il complicare le vite dei loro cari di male in peggio. Fui uno stolto a pensare di poter soccorrere il mio amato. In questo modo, ho esacerbato il folle dolore che s’era annidato in lui, dandogli una ghiotta scusante per prosperare e prendere il controllo sulla sua mente. Se Itachi s’è consegnato nelle sue grinfie, la colpa è imputabile anche al sottoscritto.”

Naruto deglutì penosamente, reso muto dall’improvviso groppo in gola. Si limitò, quindi, a trasmettere la sua comprensione a Kisame appoggiandogli una mano sulla spalla. Al diavolo l’aspetto fisico! Il biondo sapeva che non fu la – poca – avvenenza dell’uomo, né lo status sociale, né tantomeno l’attrazione fisica ad aver avvicinato i due amanti.

Era stata la disarmante schiettezza del suo amore forte e battagliero e sicuro, quello sfacciato sacripante che andava a testa alta incontro al suo diletto, comunicandogli con un semplice sguardo: Olà, io sono qui! Puoi fidarti di me! Se cadi, sarò lì a prenderti! Io ti appartengo, altero stupidotto, come tu appartieni a me, anche se sei così poco furbo da non averlo capito! 

Naruto conosceva bene quel genere di amore: del resto, gli era capitata la medesima sensazione quando si era innamorato di Hinata, per quanto la parte dell’ignaro tonto l’avesse fatta lui.

“Non c’è modo, dunque, per salvarlo?”, inquisì infine il biondo, sentendosi così impotente dinanzi alle insidie di quella mente perfida e piena di malizia.

“C’è, ma ho bisogno del tuo aiuto.”

“E dopo? Che ne sarà di lui? Insomma, è un suicida … Lui stesso ha ucciso! Non …”

“Naruto, per quanto vi sforziate, voi viventi non riuscirete mai a comprendere quanto la misericordia di Dio sia più grande di qualsiasi peccato si possa commettere. E non è buonismo, ciò che intendo. Lui vede al di là di ogni cosa.”

“Allora, perché non …?”

“Perché ci vuole liberi nelle nostre scelte, tanto è il Suo amore, non come l’altro che basa i suoi sacrileghi traffici sull’infida legge del do ut des. Molte volte ha steso la mano per aiutare il mio amato, anche quando quest’ultimo si rifiutava di prenderla. Sì, Naruto, non lo ha mai abbandonato, è stato il contrario.  Itachi quella notte voleva morire. L’ho sentito. Non voleva essere salvato, sebbene sotto la coltre di orgogliosa follia egli stia ancora urlando al soccorso.

Ho pianto di rabbia e impotenza mentre assistevo alla sua caduta, guardandolo trasformarsi lentamente nel mostro che non era mai stato, che non è.

E ho digrignato i denti alla vista di quello che lo accecava con false promesse di giustizia, portandolo a levare la mano sui suoi stessi discendenti, i figli della nostra creatura per la quale in vita aveva molto sacrificato pur di proteggerla.

Non ho potuto fare niente, questo mi addolora immensamente. Il suo odio e la sua tristezza respingono ogni tentativo di conciliazione e perdono, arrivando a renderlo inaccessibile a chiunque, perfino a me. Tu, invece, apparentemente sei immune alle subdole macchinazioni dell’altro.”

Naruto emise un ibrido da uno sbuffo scettico e una risatina rassegnata. “E perché mai? Sono ben lungi dal giocare al buon samaritano o all’eletto! Da quando le nostre strade si sono scontrare, provo per il tuo amante pena e al contempo rancore, l’ho giudicato senza pormi tanti problemi e talvolta vorrei …!”, ma per rispetto al suo interlocutore, il biondo s’interruppe in tempo, evitando di estraniargli pittoreschi progetti di vendetta.  “La mia morale m’impone di perdonarlo, eppure non ci riesco. Ha fatto del male ad Hinata, ha rubato la mia vita, ha ucciso dei miei lontani parenti e … e …! Perché dovrei fare la differenza rispetto agli altri, dattebayo?!”

“Anche tu ti eri perduto e disperavi in un aiuto negatoti, sguazzando nel frattempo nell’afflizione e nell’aggressività verso Dio e il mondo intero.”

Intuendo immediatamente a quale episodio della sua vita Kisame stesse facendo riferimento, il biondo arrossì fino al violaceo, protestando vivacemente: “Che! Come fai a saperlo, dattebayo? Mi hai spiato, razza di pervertito?”

“Varé là, vuoi che ti meni? Sono morto, ma posso ancora offendermi, sior mamara!”, ribatté scocciato l’uomo, elargendogli comunque un bello scappellotto. “No, non ti ho spiato. Ho solo tentato di impedire a tuo padre di riverniciare quella porta col suo cervello, visto che, a furia di dar prova della tua caparbia idiozia, lo hai costretto a sbatterci continuamente la testa!”

“Papà ti ha fatto compagnia?”

“Sì, finché non hai accantonato il tuo stupido orgoglio e non hai afferrato la mano tesati dalla tua dievòtchka!”

Naruto ridacchiò, massaggiandosi il capo leggermente dolorante dalla scoppola. Effettivamente, aveva esorcizzato tutti i suoi demoni interiori e si era riconciliato con Dio e gli uomini soltanto nel momento in cui Hinata era entrata timidamente nella sua vita, accettandolo così com’era – cioè poca cosa, o almeno così lui si considerava – senza chiedere nulla in cambio. Oh, non che lei si fosse comportata sempre da santa crocerossina, anzi!, ma … ma lo aveva soccorso, senza sperare di cambiarlo come persona, solo di aiutarlo a capire se stesso e a riconoscere quanto futile fosse stata la sua ribellione spirituale e morale. E comportamentale.

Un balsamo che tutti avrebbero il diritto di avere.

“Capisco”, sospirò Naruto, rimettendosi in piedi. “Mi sarebbe davvero piaciuto aiutarvi, ma temo che ormai sia impossibile. Hanno vinto, Kisame!”

Reclinando il capo, l’uomo inquisì: “Di che accidenti stai blaterando?”

Allargando le braccia, Naruto gli rivelò rassegnato: “Ormai sono morto! I quattro minuti sono passati! La vostra discendenza è finita. Hanno vinto!” e gli sarebbe venuto pure da ridere, se la situazione non fosse stata talmente tragica. E stranamente, sentiva un’anomala sensazione di benessere percorrergli le ossa, l’ombra del rimpianto bandita da ogni suo pensiero come se tutto si fosse compiuto nel migliore dei modi.

“A te l’acqua salsa fa davvero un brutto effetto”, commentò incredulo Kisame, alzandosi. “Ma va bene così. Del resto, al mato e al paron, darghe sempre raxon!”, citò, dirigendosi verso la porta. “Andiamo, allora?”

Andare?, rifletté Naruto. E perché no? Ora che la guardava meglio, quella porta non gli appariva più così tanto minacciosa …

“Dunque … questo è un addio, Kisame?”, si voltò all’ultimo il biondo verso l’uomo, bloccando a mezz’aria il gesto di girare la maniglia.

Scuotendo rassegnato il capo, l’altro lo corresse paziente: “Un arrivederci, strambazzo!”

“Non vieni?”

“Da solo, no. Lo aspetto.”

Naruto annuì. “Grazie di tutto, davvero. Sebbene avrei preferito di gran lunga trovare mio padre al posto tuo … Non sei molto paterno, forse a Mayra è andata infondo piuttosto bene.”

“Neppure io mi sono tanto divertito a parlare con te, credimi. La tua stupidità è urticante e di fatti ho deciso di apparire in sogno al Papa per persuaderlo ad aprire il processo di beatificazione per tuo padre, che non ti ha soffocato nel sonno!”

“Sei proprio uno stronzo, Kisame!”

“Tratto che tu non hai proprio ereditato”, sentenziò spassionatamente l’uomo, sorridendo tuttavia. “E manco male.”

Silenzio.

“Quindi, li rivedrò? Dietro questa porta, rivedrò Mamma e Papà?”

“Sicuro, che li rincontrerai! Voi viventi siete estremamente effimeri, siete lo sbadiglio dell’universo! Il tempo di chiudere la bocca e intasate i cancelli di San Pietro!”

“Dall’immagine che avevo di loro, mi sa che questa assomiglia più ad una porta di servizio!”, scherzò Naruto, aspettandosi l’ennesima sagace risposta come: Credi che l’aldilà sia la reggia di Versailles? oppure Per gli scemi è troppo difficile riconoscere un cancello da una porta o Crepa e non tarmarmi oltre!

Non considerò, invece, l’attimo di pausa dietro in cui Kisame indugiò, né quel suo indicare la sabbia. “Prima di andartene, Naruto, non potresti accordarmi un piccolo favore? Temo che mi sia caduto qualcosa, me lo raccoglieresti, per cortesia?”

Quando, come e cosa aveva perduto fu l’istintiva triade di domande che riempì il cervello già sconvolto di Naruto, il quale, per preservare la sua sanità mentale in quel sovrannaturale vaudeville dove lui era lo sfortunato protagonista, aveva da tempo rinunciato a contestare i fatti per accettarli e adattarsi di conseguenza. Ciononostante, quella richiesta lo aveva lo stesso lasciato perplesso. Ma chi era poi lui per negare un favore sì piccolo e innocuo?

Di conseguenza, abbandonata l’allettante porta per l’Aldilà, il biondo si spostò su quello che assomigliava al bagnasciuga, là dove il mare latteo s’incontrava con la rena ocra,  chinandosi e frugando con gli occhi e le mani alla ricerca dell’oggetto smarrito. “Non vedo niente!”, esclamò leggermente contrariato e notevolmente spazientito: vero che i morti non avevano mai fretta, ma quel limbo gli stava dando sinceramente i nervi!

“Piegati di più.”

“Così?”

“Sì … Un poco più avanti … perfetto …”

Sbuffando, Naruto prese a rivoltare la sabbia, imitando alla perfezione un eccitato cagnolino che seppellisce il suo osso preferito. Che Kisame, a furia di sniffarsela, non si fosse nel corso dei secoli rincretinito? Non v’era nulla sulla sabbia! Nulla!

O quasi …

Ché infatti i capelli sulla nuca del biondo si rizzarono in allarme, mentre lo stomaco si contorceva a disagio, conscio della palpabile presenza di un brutto presentimento. Molto brutto. E l’inquietante risatina di Kisame alle sue spalle gli confermò ogni sospetto:

“Sai, putèlo, che cos’è la Spinta di Diomede?”

Avesse compiuto studi classici, forse Naruto l’avrebbe certamente saputo. Perché la teoria salva dalla pratica, è risaputo. Come i classici descrivono i vizi ben ancorati negli uomini, di qualsiasi epoca essi siano.

Tutto questo il giovane commissario lo imparò a sue spese, maledicendo gli dèi per il dolore incommensurabile al deretano, nel frattempo che sprofondava negli abissi lattei di quel mare ultraterreno per ricongiungersi in un folle precipitare alla sua metà corporea con l’ammonimento del suo antenato ancora ridondante nelle sue orecchie: Adesso andiamo a ripigliare il mio consorte! Fallisci e un trattamento simile ti aspetta per l’eternità! Magra consolazione per uno che aveva appena fatto un dietrofront last minute a qualche passo dalla soglia della casa dell’Ade.

Quando finalmente il mondo cessò di ruzzolare e Naruto poté focalizzare il suo sguardo sul paesaggio più stabile dell’Aldiqua, si rese conto di trovarsi aggrappato simil sirena – o nel suo caso, tritone – ad uno scoglio, il suo corpo esausto e pieno di escoriazioni e tagli martoriato dai salmastri schiaffi delle onde, mandando così in cortocircuito i suoi sensori del dolore, eccitati allo spasimo dal pizzicore di carne, sangue e sale e soprattutto dai brividi provocati dal vento sverzante, il quale oltre che a schiaffargli i capelli arruffati sulle gote graffiate, acuiva la sensibilità della sua pelle raffreddatasi a causa dell’acqua.

Eppure, a Naruto in quel momento venne da ridere, sogghignando di pura trionfante liberazione: non si era mai sentito così vivo, così in armonia col suo corpo e la natura! Certo, adesso era un patetico ammasso di carne dolorante e ciononostante, egli gioiva di quelle fitte che tradivano la sua appartenenza al mondo dei vivi. Respirava avido e sghignazzante l’irruente raffica proveniente dal mare irrequieto, dando il benvenuto al sentore elettrico della tempesta, al suo ruggito. Urlò la sua contentezza e la stanca esitazione che aveva avuto dinanzi alla porta per l’aldilà svanì completamente.

Guardandosi febbrilmente attorno in cerca di indizi riguardanti la sua attuale ubicazione, il biondo constatò di trovarsi sempre nell’isola dell’Abbazia, nella punta che dava sul mare aperto e non sul golfo. Inoltre, lo scoglio sul quale penzolava era l’ultimo di una serie di piccoli faraglioni che portavano su di una baia altrettanto piccola e nascosta da una grotta naturale.

Doveva raggiungerla.

Se solo le gambe gli avessero obbedito!

Se solo le sue mani dalle nocche sbucciate e le unghie spezzate si fossero degnate di lasciare la loro presa dalla ruvida e viscida roccia!

Lo sconforto si rimpossessò del suo cuore, i muscoli tesi dallo sforzo di resistere all’andirivieni delle onde e all’alzarsi della marea. Naruto strinse i denti, tentò di far leva, borbottando rancoroso nel frattempo: “Stupido d’un antenato! Credevo che avessi bisogno del mio aiuto, non che avrei dovuto far io l’intero lavoro sporco!”, imprecò vivacemente, muovendo frenetico gli arti inferiori.

Un inaspettato ceffone in pieno viso d’acqua salsa rispose al suo malessere.

“Ahia! Brutto cesso bipede, quello faceva male!”, protestò indignato il giovane, sputacchiando contrariato l’acqua entratagli a tradimento dal naso e dalla bocca. Un secondo manrovescio acquatico lo rimise al suo posto. “Morte e dannazione, basta! Ho compreso, dattebayo!”, berciò Naruto, azzardando a scostarsi la frangia bagnata via dagli occhi e rendendosi conto solo in quell’istante d’aver avuto il pugno sinistro sempre chiuso, come se stesse serrando possessivamente un immenso tesoro.

 

 

 

Disperata, invoca indietro il suo dito e il suo anello di fidanzamento: senza non può entrare in chiesa e lì sposarsi con il suo amato.

 

 

“Sei davvero un farabutto”, ghignò complice Naruto, richiudendo il pugno sul suo bottino. “Ma per stavolta potrei anche fidarmi di te!”, disse, allentando la presa sullo scoglio e permettendo che l’acqua lo sollevasse prima e che tramite la corrente lo portasse a riva, là dove aveva una certa commissione da portare a termine.

Una volta per tutte.

 

 

Allora, per ripicca, reciderà gli anulari e ruberà gli anelli delle altre spose, perché se il suo spirito offeso non potrà trovare la pace nelle nozze agognate, allora neanche loro l’avranno!

 

 

 

Malgrado la fine barriera della stoffa,  le spine tormentavano la tenera pelle alabastrina di Hinata, spillandone languide e pasciute gocce di sangue, che lentamente s’agglomeravano in dense pozze, macchiandole la camicia da notte. Il ciottolato del vialetto e la ruvidezza degli scalini di pietra, poi, le avevano raschiato la pelle della schiena, graffiandola, mentre i lunghi capelli neri avevano raccolto ogni sorta di sporcizia sul terreno, dalla semplice polvere a delle foglie cadute per via del temporale. Quanto ai danni di quest’ultimo, Hinata si reputò fortunata per la sua attuale condizione di bagnata fradicia, poiché quando la sua orrorifica marcia terminò nel foyer di Villa Nakano, ella aveva spento ogni lacrima secreta dalle sue ghiandole lacrimali ed era ricoperta da un fine velo di sudore provocato sia per la corsa folle verso l’uscita da quel luogo maledetto sia per la genuina paura, realizzando che adesso sul serio non sussistevano altre vie di salvezza. L’unica consolazione era che, indifesa ai piedi di Itachi, avrebbe affrontato con dignità il prossimo calvario grazie alla scusante della pioggia battente.

“Bene, bene”, schioccò deliziato la lingua il fantasma. “Guarda un po’ chi è ritornato all’ovile!” e piegò la bocca per i suoi malevoli risolini, trapanando con essi le orecchie di una sfinita Hinata, la quale nascose il capo tra i suoi capelli scarmigliati, sperando di sottrarsi a quella vista terribile. “Che fai? Piangi? Su, fammi vedere come piangi! Debole. Frignona. Inutile Hinata”, la schernì quella voce roca e sibilante, conficcandosi perfida nel suo cervello e facendola raggomitolare su se stessa.

Ma ecco, che una al contrario vellutata e carezzevole nella sua dolcezza riaffiorava dai suoi ricordi, mischiandosi e sopraffacendo la sua gemella aspra e velenosa: Non mi devi assolutamente domandare scusa, mia cara, né tantomeno auto-flagellarti per colpe, che non ti concernono …  Adesso smettila sul serio di piangere, Hinata, altrimenti incomincio anch’io  … Mi prometti di non frignottare mai più per certe sciocchezze? … E che mi farai ora un bel sorrisone?

Era possibile che tale miele fosse scaturito dalle medesime labbra?

Quali di queste parole corrispondeva al vero? Chi delle due affermava la vera natura del loro creatore?

“Maledetto …”, ansimò Hinata, levando infine lo sguardo e fronteggiando determinata l’essere chino dinanzi a sé, il quale reclinò interrogativamente il capo, sorpreso e alquanto inquieto dal modo in cui la mora lo fissava, come se potesse vedere oltre le sue fattezze ultraterrene. “Come hai potuto? Con che coraggio ti sei servito di lui, approfittando della sua disperazione? Vigliacco! Assassino! Lo hai costretto a vedere! Ad assistere! Che orrida vendetta gli hai proposto!”

La creatura con le fattezze di Itachi rizzò la schiena, indietreggiando di qualche passo e rivelando man mano il suo vero volto, ovvero la infida illusione di bontà dietro lineamenti deturpati dalla malizia e dall’inganno e dalla cieca alterigia di chi si credeva onnipotente, pascendosi dell’angoscia umana e instillandola e spronandola ai più turpi istinti. A tale viste Hinata rabbrividì, rimanendo tuttavia salda nella sua decisione di non abbassare mai più lo sguardo.

“Itachi è venuto da me di sua spontanea iniziativa. Si è suicidato. Col suo gesto ha voltato le spalle a Colui-che-osai-sfidare e mi ha consegnato la sua anima. Voleva vendetta, l’ha ottenuta. Voleva la fine della famiglia Uchiha …” e sogghignò, mostrando una fila di appuntiti denti macchiati di sangue e viscere umane, una bocca troppo animalesca per essere quella d’un uomo.

“Lui voleva solo farla pagare ai suoi aguzzini, non sterminare anche la sua discendenza!”, gridò Hinata, trafficando segretamente dietro la schiena per liberarsi dalle costringenti piante. “Sei solo un bugiardo truffatore!”

Lo spirito demoniaco scrollò le spalle di Itachi. “Oh, poverina! Vai a piangere dalla mamma …”, la sbeffeggiò, piantandole un piede sul petto e spingendola giù sul duro pavimento. “Avanti, Hinata!”, la sfidò, estraendo il pugnale e fissandola con occhi esagitati, folli, spalancati, pregni di sanguinolento vermiglio. “Urla! Dimenati! Mostrami la tua paura! Sai, questo corpo è fatto di odio e tristezza: il primo, l’hanno provato tutte le vittime-carnefici di Itachi! Sì, come lo odiarono da vivo, lo odiarono ancor più da morto per il suo operato! E la seconda, la provò lui stesso per le ingiustizie subite e soprattutto per aver capito troppo tardi che da me non si scappa!”, gridò eccitato, afferrando il polso di Hinata. “Odialo, ragazza, odialo con tutta te stessa! Odia Itachi e tutto ciò che rappresenta! Più lo odierai, più renderai tangibile questo corpo! Più lo odierai, prima giungerà la tua fine! Più lo odierai, più la anima d’Itachi verrà consumata dalle fiamme nere dell’inferno … Il mio regno … Nel quale, Hinata, presto sarai anche tu la benvenuta!”

Afferrando l’arto dell’avversario e digrignando i denti per l’ustione che quel contatto le provocava, Hinata replicò a tono alla sfida: “Io non odio lui, ma te! Tu, la causa di tutto! Bestia annoiata, volevi divertiti per l’ennesima volta con le vite degli altri, vero?”

La stretta si fece brutale, incrinando pericolosamente le delicate ossa del polso. “Sei tu che mi annoi, sgualdrina …”, ribatté gelido, offeso, eppure gustando l’attimo in cui il patto sarebbe stato definitivamente onorato, conferendogli il dominio su quelle tanto succulente anime sui cui aveva posato gli occhi quasi due secoli fa. Oh, ne aveva molte altre da catturare sgranocchiare, ma nessuna caccia s’era rivelata alla fine essere un gioco così spassoso … “Au revoir, ma chère et stupide Hinata …”

E calò la lama.

Sul suo petto.

“Tu … traditore … ingannatore … per questo ti eri … ritirato così subitaneamente? Per … per attendere un mio attimo di distrazione …?”, boccheggiò furioso l’essere immondo, guardando stupito il pugnale conficcato nelle carni di Itachi, mentre sempre più copiosi rivoli d’acqua salsa scendevano possenti, ultraterreno sostituto del sangue.

Hinata … amica cara …”, ansimò invece quella voce, che la mora conosceva molto bene e un sorriso le illuminò il volto stanco alla vista dell’occhio nero rifare capolino dallo scarlatto delle iridi infernali.

“Itachi!”, si liberò ella dalle costrizioni delle piante, correndo al suo fianco, sennonché questi indietreggiò bruscamente, allontanandosi da lei.

Vai via … scappa lontano … Non permettere che ti prenda … Fui uno sciocco … Non merito il perdono di nessuno …”, pianse l’occhi nero, mentre quello scarlatto s’illuminò di crudele gusto. “Ah! Adesso ti penti per quel che hai fatto?  Troppo tardi, mio caro, troppo tardi! … Taci! Mi hai tormentato a sufficienza! … Tormentarti? È solo l’inizio, stolto! Per il tuo tanto caritatevole – puah! – gesto, mi diletterò a straziare la tua lurida pellaccia per l’eternità! … Fallo, me lo merito! … Ma non avrai lei! … Non l’avrai! … Scappa, Hinata! … Vai da Naruto! … Lui ti aspetta … Lui ti ama … La tua anima per il giusto castigo, questo ti promisi! Questo pattuimmo! Io ho rispettato il patto! Io ho fatto la mia parte! Ora tocca a te! Insieme, come abbiamo fatto per questi due secoli! Avanti! Amputale il dito così da condannare alla follia e alla morte anche l’ultimo tuo discendente! E la tua vendetta sarà finalmente compiuta!  … No, basta! … Basta col sangue! … Basta con la vendetta! … Non voglio! ... Hinata … Ti prego! Ti supplico! … Vattene via, ora!!!”, ruggì di dolore, ghermendosi le braccia e conficcandosi le unghie nelle carni, tutto pur di impedire di avanzare verso l’atterrita e confusa giovane, la quale in verità aveva invece allungato un braccio per soccorrerlo. Braccio che le fu prontamente afferrato da una figura alle sue spalle.

“Non hai sentito, stupida? Mettiti in piedi e inizia a correre, disgraziata!”

“Ma … Itachi …”

“Lo aiuteremo, stanne certa,  incominciando dall’abbandonare Villa Nakano!”, replicò spazientito Sasuke, trascinandola via di peso dal foyer verso il portone d’ingresso, che si ricordò di spalancare visto la condizione molto corporea di Hinata. “Non  guardarti alle spalle, corri e basta!”

La giovane Hyuuga annuì e si sforzò a non imitare la sua più incauta controparte mitologica, Orfeo, per quanto la curiosità – dettata dal terrore - di sapere che cosa mai potesse esserci alle loro spalle la divorasse. E la sua fu un’ottima scelta, quella di dar retta a Sasuke, giacché, soppressa completamente la coscienza di Itachi, lo sgradevole ospite del suo corpo lanciò un ringhio gutturale che avrebbe fatto accapponare la criniera del più feroce dei leoni.

“Prendeteli!”, ruggì, battendo frustrato i pugni per terra. “Prendeteli e fateli a pezzi! Sviscerateli! Squartateli! Strappate loro il cuore! In questo modo avrò il suo dito anche senza doverglielo tagliare!”

Dalle pareti, dal pavimento, dall’aree stesso si raggruppò la sua schiera infernale, mettendosi subito alle calcagna dei fuggitivi come una nervosa muta di cani da caccia.

 

 

 

D’oro, d’argento, col diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, il rubino, il topazio, l’acquamarina, …

Che importa?

Li avrà tutti!

 

 

 

“E adesso, bis? Da che parte dovrei andare?”, riecheggiò la domanda di Naruto nella grotta, il naso all’aria e le mani portate sui fianchi. Da quindici minuti buoni girava per l’angusto e buio ambiente, avanzando circolarmente con l’acqua fino alle ginocchia.

Contro ogni logica della corrente marina, le onde si focalizzarono su di un punto oscuro della caverna, sbattendoci contro il biondo, il quale rischiò più volte il tuffo a causa della perdita d’equilibrio. Una in particolare lo gettò su di un masso e fu aggrappandosi ad esso per non finire sottacqua, che le dita scorticate di Naruto percepirono la famigliare regolarità di un grandino.

“Scale?”, cogitò il giovane commissario ad alta voce, avanzando per un tratto a gattoni. “E dove portano?”

Alle catacombe dell’Abbazia, rispose tra uno sciabordio e l’altro l’eco della voce di Kisame. Prima di divenire un luogo di culto, l’isola  fungeva da rifugio contro eventuali invasioni dalla terraferma. Taluni ipotizzano che il primo nucleo cittadino di Kiri si sia formato qui. Chissà. In ogni caso, dalle antiche catacombe era stato costruita una via di fuga che, in caso di conquista dell’isola dal golfo, permetteva alla popolazione di sgattaiolare via per il mare: in  questa grotta, infatti, solevano essere attraccate le navi della salvezza.

“Ingegnoso”, sputacchiò Naruto l’acqua occasionalmente ingoiata, seguitando la sua difficoltosa salita: il tempo e le maree avevano tappezzato gli scalini naturali di alghe, patelle, qualche sporadica colonia di cozze legate dalle loro barbe e, mettendo una mano nell’angolino sbagliato, il biondo s’accorse da un offeso pizzicotto che pure i granchi vi avevano reclamano domicilio. “E dimmi”, riprese ansimando dallo sforzo, i muscoli delle braccia che gli tremavano. “Come mai questo stato d’abbandono? Dai diari del tuo cognato, mi immaginavo l’Abbazia come un’ottava meraviglia del mondo, non un ammasso di rovine!”

All’inizio del Novecento ci fu un terribile maremoto, che distrusse la chiesa e il monastero con essa. Si salvò soltanto l’abside col mosaico raffigurante il Cristo Pantocratore, come hai potuto tu stesso appurare.

“E tu non ne sai niente a riguardo?”, inquisì Naruto, che apparentemente s’era abituato a parlare coi morti o col mare o con entrambi con la medesima naturalezza di coloro che s’accorgono di trovarsi nel bel mezzo di un sogno e che quindi niente delle loro oniriche vicende potesse lontanamente corrispondere alla meno possibilista realtà.

Non sono affari che ti riguardano. Ora procedi dritto e, quando ti imbatterai nella botola, vedi di aprila senza …

Stremato dall’estenuante scalata, i nervi a mille e le labbra bluastre raschiate dalla salsedine, Naruto, incontrando la debole opposizione del legno gonfio e marcio della botola, si girò sul fianco e, tramite un violento calcio, la fece volare di qualche metro abbondante.

… distruggerla.

 “Troppo tardi, sorry”, bofonchiò il biondo, ignorando certi inquietanti movimenti all’interno del suo ventre dovuti all’acqua effettivamente gelida del mare. Allungando il braccio e infilandolo alla cieca tra i resti di legno, vagò alla ricerca di un appiglio abbastanza saldo da permettere di issarsi e sgattaiolare dentro l’ambiente più buio e putente dentro cui il giovane uomo avesse mai messo piede. A mo’ d’accoglienza, infatti, gli venne incontro una zaffata fetente di muffa, di umido, di alghe in decomposizione e di escrementi e di urina alla cui specie di appartenenza Naruto non osò neppure immaginare, reprimendo invece un sempre più insistente conato di vomito. Ingollando saliva, frugò nella borsa a tracolla rimastagli miracolosamente addosso e pregò che la torcia non fosse andata a remengo. Per una volta la dea bendata parve volersi alleare con lui, persuadendo la torcia dopo una serie di ceffoni alla pila ad assecondarlo e ad illuminare quel labirinto di morte e di puzzo col suo flebile seguipersone in miniatura.  “Un posticino molto pittoresco”, scherzò il giovane commissario con una vocina flebile flebile, atta più che altro ad infondersi coraggio e a cessare l’insistente tremito alle gambe e i rivoltamenti dello stomaco. Pensò ad Hinata, ai suoi capelli neri, al suo collo sottile, alle sfumature viola dei suoi occhi illuminate di ridente gioia il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo, sovrapponendole con veemente tenacia alla sconfortante vista delle innumerevoli bare ammucchiate in pericolanti pile come delle valigie vecchie dimenticate in un’assai disordinata cambusa o soffitta. Distolse lo sguardo là dove gli scossoni e l’equilibrio precario aveva fatto ruzzolare alcune di queste lerce casse, riversandone scompostamente i loro macabri contenuti sul pavimento unto.

“E adesso? Da dove incomincio, dattebayo?”, esclamò sfibrato Naruto, l’eco della sua perplessità che si burlava di lui maligno, ricordandogli la sua impotenza dinanzi a simile fatica d’ercole. “Ci saranno almeno centinaio di casse, senza contare le urne nei colombari! Sarebbe come cercare un ago in un pagliaio!”

Certo, convenne la voce di Kisame da basso, ma noi cerchiamo un ago prezioso, che perfino nel mucchio sarebbe troppo impudente lasciarlo incustodito nella massa.

“E grazie tante, savia sibilla! Parla schietto che … non … ti … capis-…”, rallentò il biondo la sua protesta, scorrendo i suoi polpastrelli macerati dall’acqua sui ruvidi stipiti delle piccole celle, nel frattanto che la sua mente rielaborava le istruzioni offertegli.

Dopodiché, sorridendo peggio del Cheshire Cat, elargì un possente calcione alla prima inferriata, la quale cadde all’indietro in un sordo tonfo, schiacciando le bare più vicine e sollevando un gran polverone. “Fuori una!”, gridò battagliero Naruto, passando velocemente alla sua vicina e ben presto il vecchio cimitero sotterraneo si rianimò in una rumorosa sequela di ferrose percussioni, finché il giovane raggiunse l’ultima rimasta, massaggiandosi le gambe indolenzite e battendo per terra i piedi doloranti da quei violenti impatti. Prendendo una piccola rincorsa, Naruto colpì la grata, lanciando un colorito improperio quando essa resistette al suo assalto, restituendogli la forza del colpo che risalì dolorosamente dal piede fino al suo cervello, facendolo trillare come i campanelli suonati nei match della box.

“Brutta vacca d’un’inferriata, dattebayo!”, grugnì a denti stretti l’uomo, zoppicando leggermente verso le bare sfracellate e, selezionando i pezzi più grossi e robusti, li sistemò sulla sua ostinata opponente. Aveva studiato, che quelle antiche tendevano ad essere costruite con una struttura a cerniera, quindi …  “E adesso vediamo, se fai ancora la stronza! … Tre … Due … Uno … ‘Fanculo agli Uchiha, che il diavolo se li porti viaaaahhh!!”, urlò dallo sforzo e dalla sorpresa di essere trascinato dalla grata che, cedendo ai suoi metodi da evaso, lo scaraventò in mezzo a delle bare semi-ammuffite e ricoperte da fitte ragnatele, le quali Naruto scoprì essere tutte ricolme di sassi, tranne una, celata vergognosa nell’angolino più buio dell’umida cella.

“Finalmente … ti ho trovato …”, si permise egli il piccolo lusso di un sorriso liberatore, per poi ritornare assurdamente serio e rimettersi al lavoro. Spaccò senza tante cortesie le chiusure arrugginite che tenevano fissato il coperchio, infilando l’ennesimo pezzo di legno tra la piccola fessura concessagli dai chiodi ormai neri, che non tardarono a volar via alla minima leva. Infine, asciugandosi con la manica la fronde madida di acqua salsa e di sudore, Naruto afferrò con ambedue le mani il coperchio per rimuoverlo definitivamente, il cuore che gli stava per uscire dalla gola. Trattenne il fiato e lo rilasciò in un’esclamazione sorpresa non appena vide ciò che si celava dietro quel pezzo di legno scuro e dilatato dall’umidità.

Nulla aveva scalfito il corpo di Itachi, né i vermi né il tempo né l’odio e la tristezza che gli avevano conferito quel suo aspetto inorganicamente splendido e soggiogante. Come una modesta Bella Addormentata nel Bosco, appariva al contrario estremamente spossato, fragile e indifeso nella sua immacolata tunica bianca, con le sue mani cingenti timidamente il rosario,  con i suoi capelli bianchi seminascosti dal velo-sudario e con le sue occhiaie bluastre sullo sfondo esangue della sua pelle lattea, occhiaie di chi s’era cavato gli occhi a furia di piangere.

Era dunque questa mater dolorosa la fonte di tutte le sue disgrazie, cogitò disorientato Naruto, fissando incerto e confuso quella salma sorprendentemente incorrotta. Era lui la persona su cui avrebbe potuto sfogare il suo rancore? Oh, la tentazione era invero così forte e molesta! Insistente!

Aveva la Sposa – l’incubo di Konoha e di Kiri -  alla sua mercé!

In suo potere!

Avrebbe potuto infierire su quel corpo in qualsiasi modo gli sarebbe più garbato, magari squartandolo come un pollo, o tagliuzzandogli la lingua, o sfregiandogli i lineamenti aristocratici, o conficcandogli dei paletti nel cuore e spilli negli occhi, o spezzandogli le ossa, o strappandogli i capelli e i denti, o sputandoci o addirittura pisciandoci sopra, o ficcandogli fango in ogni orifizio o … o … o tutto, tutto pur di sfogare l’enorme rabbia e paura e frustrazione provocatogli dal suo progenitore. Per colpa sua, degli innocenti erano morti, lui stesso aveva quasi varcato la soglia dell’Aldilà! Avrebbe pagato per i suoi crimini!

Eppure … eppure …

Che ne avrebbe guadagnato?

Si sarebbe forse sentito meglio?

E soprattutto, aveva lui diritto di giudicare?

Ma la sete di vendetta! Quell’agrodolce, allettante, brama di schiacciare e godere dell’angustia del suo antico tormentatore … Anzi no! Sfruttando Itachi, si sarebbe vendicato di tutti e a tal pensiero la bocca di Naruto si piegò in un sadico mostruoso ghigno alla vista di coloro che gli rovinarono l’infanzia strisciargli ai piedi come vermi, raggomitolandosi peggio di ossuti cane rognosi bastonati e supplicandolo di avere pietà di loro! Che vista! Che goduria! La vendetta! La vendetta!

Gli tremarono le mani dall’eccitazione.

Sì, mio caro …”, gli insidiò le orecchie una melliflua voce da tenore di grazia “Vendicati di Itachi … Distruggi il mostro … Annientalo e ghermisci le sue facoltà e così … così … la farai pagare a quei porci che ti fecero soffrire … che ti umiliarono … io conosco il tuo cuore, Naruto … io ti comprendo … io so a cosa tu aneli e te lo posso offrire … perché io sono generoso … si prostreranno dinanzi a te … ti ameranno … non ti abbandoneranno mai né ti tradiranno … non sarebbe meraviglioso? Ma prima … prima dovrai dividere il corpo di Itachi in sei parti e bruciarli in cinque specifici punti dell’isola, pronunciando poi …” e si fermò astutamente burlona.

Preso dall’impazienza, il biondo la spronò bruscamente a continuare, inumidendosi le labbra screpolate e piene di sale. “Cosa …? Cosa?!”

Ghermendolo con le sue filiformi dita d’ombra e fumo, essa increspò vittoriosa le labbra, sussurrandogli all’orecchio la formula per la sua rovina.

Avanti … distruggilo, Naruto … Distruggi la Sposa e vendicati!”, lo incitò la voce, mettendogli nelle mani un’ascia che il giovane uomo neppure sapeva da dove fosse sbucata, ma poco gli importava giacché, dopo averne saggiato il ligneo manico, la levò in alto contro la salma di Itachi, gli occhi puntati verso il basso.

“Distruggilo!”

E il sibilo del metallo fendette l’aria putrida e densa della cripta in un fischio blasfemo …

 

 

 

Questo matrimonio non s’ha da fare!

 

 

 

“Da qui in poi proseguirai da sola”, le comunicò perentorio Sasuke, bloccandosi al cancello di Villa Nakano e facendo cenno con la testa ad Hinata di varcarlo. “Ho una piccola incombenza da portare a termine e, onestamente parlando, mi saresti solo d’intralcio.”

Non sapendo se considerarsi fortunata per la possibilità di salvarsi definitivamente da quella follia ultraterrena o se offendersi per il poco lusinghiero commento, la mora negò col capo, sottolineando la sua risoluzione di non abbandonare quel luogo orrendo né il suo compagno di sventura. “Quello ti catturerà e … potrebbe farti del male così da far soffrire ulteriormente tuo fratello e … non ti posso disertare in questo modo senza aiutarti …”

“Non darti grandi arie da eroina tragica, pupattola, la mia non era una richiesta”, tagliò corto e alquanto snervato il fantasma dinanzi alla reazione dell’altra. Già i suoi sensi percepivano gli altri spettri avvicinarsi sempre di più a loro, non bisognava perdere un ulteriore secondo di quel tempo così prezioso appunto perché esiguo. Né voleva rendere vano l’atto di ribellione di Itachi. “Piuttosto, non senti che tuo cugino e tua sorella ti stanno cercando? Che razza di screanzata sei, che li fai impensierire così?”

Di riflesso Hinata si girò in direzione del vialetto che conduceva al centro storico di Konoha, da dove effettivamente aveva intravisto appropinquarsi alla villa delle luci meno spettrali, molto probabilmente i fari dell’automobile di Neji.

Quell’unico appiglio alla terrena realtà destò Hinata dalla sua trance, riportandola a riconsiderare la data e l’ora e le circostanze che avevano spinto Hanabi e Neji a guidare fin lì: ovvio, quel giorno lei avrebbe dovuto sposarsi e la sera prima aveva dormito a casa dei suoi, naturale che, non trovandola nel proprio letto, i suoi parenti si fossero preoccupati, presagendo alas il peggio. Fu tentata di andar loro incontro e, in effetti, avanzò inconsciamente di qualche passo.

“Sasuke! Come facevi a …?”, inquisì stupefatta la mora, sobbalzando all’indietro quando, voltatasi distrattamente, si ritrovò le sbarre del cancello a qualche centimetro dal suo naso. Approfittando di quell’attimo di distrazione, Sasuke l’aveva spinta discretamente fuori da Villa Nakano, chiudendo a chiave il cancello, sulle cui aste di ferro battuto incominciavano ad avvinghiarsi dei letali serpenti d’edera, nascondendo gradualmente il corpo del fantasma alla giovane.

“Sei davvero un pazzo, un insolente, un cocciuto!”, protestò furiosamente sconvolta Hinata, afferrando le sbarre e tentando di spezzare quei verdi rami. “Perché hai usato mia sorella e mio cugino per ingannarmi?”

“Ah! E che ti aspettavi da uno che sta marcendo all’inferno?”, la schernì sardonico Sasuke, gettando il capo all’indietro e ridendosela alla grossa senza però con apparente gusto. “Ho già perso una volta mio fratello, non lo lascerò affrontare quest’ennesima prova da solo. Qualunque destino m’attenda, lo accetterò”, le confidò, addolcendo lo sguardo.

Hinata avvertì un famigliare pizzicore agli occhi, guardando impotente la coltre di edere mangiarsi il viso del fantasma.

“Via quelle lacrime, frignona! Mica sei al mio funerale!”, la consolò Sasuke, allungando attraverso l’inferriata il braccio ed elargendole un paternalistico buffetto sulla guancia.  “E à propos di funerale, riferisci al dobe che mi deve una Messa di suffragio: salvargli costantemente le chiappe da colui che s’è approfittato di mio fratello è stato uno sforzo notevole, sono stato costretto a venir a patti perfino con mio cognato! Ergo, se si dimentica di me, appena lo rivedo nell’Aldilà gli cambio i connotati a furia di pugni!”

“Ma …”

“Adieu, Hinata. Stammi bene!”, la spinse via il moro, indietreggiando e permettendo così che l’edera gli nascondesse la visuale, fungendo da impenetrabile barriera che Hinata tentò ripetutamente di distruggere, sennonché più ella strappava più essa ricresceva e molto più rigogliosa di prima.

“Sasuke!”, urlò Hinata dall’altra parte. “Sasuke!”, strillò, abbassando sconfitta il capo e serrando le labbra per non piangere. Si riebbe soltanto quando avvertì le braccia della sorella che la cingevano, forzandola ad incrociare i rispettivi sguardi.

“Sorella!”, esclamò apprensiva Hanabi, che a momenti s’era gettata dalla macchina ancora in corsa. “Che ci fai qui? Come mai non eri in camera tua? Ti abbiamo cercata dappertutto! Cos’è successo? Questi graffi! Questi strappi! Rispondimi, Hinata!”

“Hanabi, lasciala respirare, la stai soffocando!”, sciolse Neji la cugina maggiore dall’abbraccio febbrile della minore. Poi, rivolgendosi alla parente: “Hinata, che t’è saltato in testa di sparire così, senza avvertire nessuno? Ci hai fatto prendere un colpo! La gente già vociferava di maledizioni e ballate e spose-fantasma e … Che accidenti è accaduto al cancello?!”, gridò sconcertato, fissando inebetito dallo stupore la monumentale entrata di Villa Nakano, che ora ricordava più che altro la siepe di un labirinto.

“Niente!”, dichiarò decisa Hinata, riprendendosi dal suo incantamento. “Assolutamente niente di cui preoccuparsi! Ma andiamocene via! Ritorneremo forse più tardi!”

“Ma …”, tentarono i due parenti di obiettare, tuttavia la mora li interruppe con fare determinato, posando le mani sulle loro spalle.

“Un giorno vi spiegherò tutto, per quanto sono certa che difficilmente mi crederete. Non so. Ora come ora, però, fidatevi di me: andiamocene e non ci accadrà nulla di male!”, disse, correndo lei per prima alla macchina e ben presto seguita dagli interdetti congiunti.

“Spero che tu sappia quel che stai facendo”, condivise Neji i suoi pensieri con la cugina. “E soprattutto, che tu sappia spiegarci la scomparsa di Naruto dall’ospedale!”

Hinata annuì stancamente, senza però degnarlo di una pronta risposta, gli occhi puntati sulla minacciosa silhouette di Villa Nakano che si rimpiccioliva man mano che procedevano verso la loro casa natale.   Rigirando piena d’angoscia l’anello di fidanzamento sul dito graziato dalla furia della Sposa, ella lo portò alle labbra, mormorando tra sé e sé: “Ritorna presto, amore mio, ti prego, ritorna presto …” e, nascondendo il viso tra le mani tremanti, biascicò un singhiozzante Requiem aeternam per le anime ingannate e prigioniere che ancora vagavano inquiete in quella dimora di morte e di odio.

Irruppe infine in un pianto liberatorio tra le braccia compassionevoli di Hanabi, domandandole d’impeto perdono per tutte le malegrazie compiute durante l’infanzia e ripromettendosi di essere una sorella migliore.

Confusa e un poco imbarazzata da tale crollo di nervi, Hanabi si limitò ad assecondarla convenendo, accarezzandole la testa sotto lo sguardo meditabondo di Neji.

Dalle piccole fessure lasciate dalle pianti rampicanti, Uchiha Sasuke aveva assistito in silenzio alla fuga di Hinata e della sua famiglia, sospirando di sollievo per aver evitato il compimento della maledizione e la dannazione eterna sua, del fratello e del suo casato. Rimanendo ritto davanti al cancello, ascoltava attento ogni singolo rumore, valutandolo e decidendo la strategia da adottare. Ciononostante, si stupì dell’improvviso gelo che gli serrava letteralmente le caviglie, immobilizzandolo e impedendogli ogni tentativo di fuga.

E se avesse potuto respirare avrebbe trattenuto il fiato per il terrore, non appena un famigliare braccio gli pesò sulla spalla, circondandolo a mo’ di grottesco affetto.

“Cesserai mai d’intrometterti negli affari che non ti riguardano, stupido fratello?”

 

 

 

Per l’eternità!

 

 

 

… fischio che terminò in uno strido liberatore di ferro cozzante contro pietra e mattoni, ben presto accompagnato da un grido tanto indignato quanto sorpreso.

“Lurida bagascia …”, fischiò Naruto in tono di sfida, voltandosi verso il soffiante spirito maligno che aveva assunto le fattezze della madre superiora. “Pensavi di fregarmi una seconda volta? Prima tenti di affogarmi e poi mi proponi di prendere il posto di Itachi? Ho scritto forse giocondo sulla fronte?”, strillò istericamente incavolato, indicando con un indice accusatore l’ascia che giaceva innocua per terra, lanciata da un furibondo commissario contro il fantasma sul cui stomaco ancora faticava a ricucirsi il foro lasciatovi dalla mannaia volante.

“Tu … maledetto … infame … figlio di …!”, schiumò l’orrida fiera antropomorfa, passandosi la sua putrida lingua verdognola sulle zanne giallastre. “Tu non potevi sapere! … Non dovevi discernere! Come …! Come …?!” e i suoi occhiacci d’iguana si strinsero di arcano terrore alla vista dell’acqua del mare lambente pigramente dolce le caviglie di Naruto e la bara di Itachi. “Thàlassa!”, urlò essa, strappandosi i capelli di corda e stoppa. Credendosi seducentemente informe, s’era illusa di avvelenare la mente di Naruto con false promesse, inconsapevole invece del suo riflesso svelato dalla scura superficie acquatica, lo stesso che il biondo aveva scorto prima di lanciare l’ascia. “Il mare! … Thàlassa! … Ecco perché ridevi! … Ridevi di noi, perfido voltagabbana! Thàlassa!”

“Osud!”, replicò il biondo, sogghignando trionfante. “Sì, il mare si sta sganasciando dalle risate, poiché stasera la Sposa si ricongiunge al suo consorte!”, ruggì battagliero, chiudendo in fretta il coperchio della bara e, afferrata quest’ultima, si accinse ad uscire dalla cella.

“No!”, gli bloccò la strada lo spirito, gli occhiacci di bragia. “Tu non oserai!”

“Io oserò quanto mi pare, dattebayo!”, iniziò Naruto a spingere la bara contro il fantasma stesso, che inorridì alla vista del legno che transitava tranquillamente attraverso le sue viscere, invece di essere da esse respinto. “E sarai tu stavolta a cedere il passo!”, gli assicurò, passando anche lui e rabbrividendo al gelo bollente che caratterizzava l’essenza di quella presenza demoniaca.

“Chi ti credi di essere … Naruto-moccoloso?”

 “Naruto-cagasotto-piscialetto?”

“Naruto-testa-quadra?”

“Chi, spazzatura vivente?”

Il cuore del biondo ebbe un sobbalzo e le sue iridi celesti si dilatarono e represse a malapena un brivido freddo alla vista dei suoi ex-bulli degli anni scolastici che lo circondavano, scuotendo minacciosi i piccoli pugni e i bastoni e i sassi con cui solevano percuoterlo fino a stordirlo, per poi finire l’opera maestra trascinandolo nelle toilette e lì tentandolo di affogare, uno che gli teneva la testa ben ferma dentro il cesso e l’altro che tirava lo sciacquone.

Naruto inalò ed espirò febbrilmente l’aria, ingoiandosi a momenti le sue medesime labbra tanto serrava la bocca.

“Ho trentun anni, ormai”, sibilò feroce. “E certe merdacce le ho già da tempo esorcizzate!”, ringhiò, scostando via infastidito col braccio quelle proiezioni, le quali evaporarono, permettendogli di avanzare di qualche passo col suo pesante fardello.

Essendo la botola troppo stretta per la bara, purtroppo non gli restava che risalire fino ai ruderi della chiesa. Il suo opponente lo sapeva e per questo aveva deciso di approfittarne spudoratamente.

“Naruto …”, lo appellò una vocina a lui tremendamente nota. L’interpellato in questione strinse le palpebre, assordandosi da sé. “Perché non corri da me? Perché non mi salvi? La Sposa mi ha fatto prigioniera, vuole il mio dito e il mio anello! Salvami da Itachi! Distruggilo! O conto così poco per te?”, disse, appoggiando le sue delicate manine candide sulle sue più robuste e brune.

“Hinata …”, gemette Naruto, scuotendo il capo. “Se fossi la mia Hinata, non mi chiederesti mai di fare del male  a chicchessia …” e alzò lo sguardo. “Ergo, vattene via, anima dannata! Chetati e lasciami passare!”, esclamò, conquistando altri preziosi centimetri, mentre la figura della fidanzata si disgiungeva e si ricomponeva in un confuso arabesco di fumo.

“Anche se mi ha ucciso?”

“Sono addolorato per la sua morte, signora Koharu, ma è anche vero che lei non ha mosso un dito per aiutare Itachi o le sue vittime, s’è limitata a guardare e basta!”

Ancora qualche passo …

“E io? Che colpa ne avevo io?”

Le scale che s’avvicinavano …

“Pregherò per la tua anima, Tenten, altro non posso fare per te.”

La punta della bara toccò il primo gradino …

“Ci restituirai tu le dita che ci ha mozzato?”

Sollevare … trascinare …

“Andatevi  a lamentare dal vero architetto di questa schifosa messinscena!”

Un gradino … e un altro … e un altro ancora …

“Che razza di garante della giustizia sei, allora? Che non punisce chi ti sottrasse la tua famiglia, i tuoi diritti, la tua fortuna!  Se non fosse stato per Itachi, altro che il povero, maltrattato, emarginato Uzumaki Naruto! Saresti stato uno di noi! Il vanto di Konoha, il fior fiore dell’aristocrazia!”

Rabbia e sdegno.

“Voi tra tutti dovreste stare nel silenzio più assoluto! Voi avete spinto il sangue del vostro sangue a divenire il vostro carnefice, a trasformarsi nella vindice Sposa! E se fosse stato per voi, Uchiha, la mia antenata poteva morire in fasce avvelenata e di certo non sarei qui a darvi il benservito!”

Inoltre, lui aveva conquistato tutto ciò che gli serviva, la sua dignità, il suo nome, una nuova famiglia. Con le sue forze, con la sua tenacia e non aveva bisogno di lordarsi l’anima per un palliativo di vero amore.

“Non lo farai neppure per me, tesoro mio?”

Un sospiro penoso.

“Sei morta prima ancora che imparassi a seguire seriamente i tuoi consigli, mamma … E’ troppo tardi, ormai.”

Ma non abbastanza da vedere i primi bagliori della luce del meriggio infiltrarsi dall’uscita.

“Quindi sei proprio il figlio di un vigliacco, vero Naruto?”, sennonché l’ultima prova gli sbarrò il passaggio, stagliandosi contro quel fascio luminoso come una minacciosa nuvola nera foriera del temporale. “Come me.”

Appoggiando finalmente la bara sulla soglia della porta, il biondo si stiracchiò in una postura più eretta, fissando amorevolmente il volto deluso di suo padre. Dopodiché, inaspettatamente, cadde in ginocchio, trattenendo le lacrime.

 

 

 

Amore mio, amore mio!

 

 

 

Plick. Plick.

Macchiava e colava il denso e vischioso liquido nero dal petto di Sasuke, là dove un tempo batteva il suo cuore e dove ora beveva avida la spada infernale del grande nemico. Si sentì vacillare le gambe ed annebbiare la vista, conscio si essere stato trafitto con l’unica arma in grado di ferire gli spettri, un ferro diabolico per il suo altrettanto demoniaco padrone.

“Devo ammettere che la vostra patetica ribellione aveva un che di commuovente, pareva la trama di un romanzetto d’appendice: i due fratelli, divisi per secoli da grande odio, si perdonano a vicenda e insieme combattono il drago per salvare la pulzella di turno!”, gli rivelò velenosamente scherzoso lo spirito maligno, la cui espressione dimostrava però tutto meno che giocosità, al contrario, a malapena aveva mantenuto le fattezze di Itachi per mescolarle alla sua più spigolosa e satiresca figura, il suo vero volto. “Quasi quasi avrei applaudito, se le vostre scemenze non incominciassero a darmi leggermente sui nervi!”, gli sibilò all’orecchio.

“Sei un pessimo perdente”, dichiarò Sasuke con voce flebile, simulando un coraggio che gli riusciva sempre più difficile da mantenere, poiché aveva ben afferrato le intenzioni del suo aguzzino e la prospettiva di finire torturato all’inferno per l’eternità avrebbe spaventato chiunque. “Non riesci ad accettare che lei ti sia sfuggita!”

“Che ingenui che siete, tu e tuo fratello!”, rise il demonio senza gusto. “Pensavate che salvando Hinata avreste risoluto la situazione? No, se non è lei, sarà un’altra, avete guadagnato solo un po’ di tempo. Ma a che prezzo? Varrà davvero la pena per lei essere scuoiati a testa in giù dai miei sudditi, dopo avervi strappato lingua, naso, orecchie, aperto e srotolato gli intestini e messo a rosolare come un pollo allo spiego per l’eternità? Ora che so dell’esistenza del vostro ultimo discendente, realizzerete ben presto di esservi sacrificati per niente …”, sogghignò, afferrando la mandibola del moro e premendo così forte che questi temette volesse frantumargliela.

Silenzio.

“Avanti, dimmi, che farai ora, Sasuke?”, gli lanciò il guanto di sfida, abbandonando la presa.

“Che cosa farò?”, ansimò il fantasma, gradualmente stanco e pesante e avvertendo il gelo delle fiamme infernali attanagliargli le viscere. Lentamente, fece risalire le dita nodose verso l’alto e in seguito lungo il braccio di Itachi, afferrandogli la mano che stringeva l’elsa della spada. Sentì il pollice del fratello avvinghiarsi al suo, l’ultimo suo gesto di  libero arbitrio,  e in quel momento il minore dei due seppe ch’era giunta la loro unica occasione di riscatto. “Che cosa faremo noi, Itachi!”, gridò, spingendo la lama in profondità, acciocché essa penetrasse oltre il suo corpo di spettro e si conficcasse nel petto del fratello, che sputò a sua volta quel nauseabondo liquido nero.

“Tzé, odiavi così tanto Itachi da arrivare a ferirlo per l’ennesima volta?”, lo derise lo spirito maligno, estraendo con nonchalance la lama da ambedue i petti e osservando compiaciuto il modo in cui Sasuke gli cadeva i piedi, più evanescente di prima. “Ti diverte così tanto spezzargli il cuore?”, inquisì, accennando alla profonda ferita sanguinante. E chinandosi davanti a lui: “Intanto, tu te ne andrai per primo; poi, quando avrò terminato con Naruto, ti rispedirò tuo fratello per soffrire insieme la giusta punizione. Dimmi, non sei contento? La maledizione durerà ancora per molto, mio caro!”

Un sorprendente ghigno di risposta.

“Molto contento”, ammise Sasuke rialzandosi, perdendo ad ogni movimento il suo aspetto mostruoso per riprendere l’antico suo sembiante d’uomo e similmente a lui, anche i suoi compagni di sventura si guardavano sconcertati le mani, non più zampe e artigli, bensì abili falangi umane.

Indietreggiando confuso da quell’inspiegabile metamorfosi, il demonio fissò pieno di collerica frustrazione i suoi prigionieri assumere la loro previa forma e ricambiare il suo sguardo non col loro solito tremante servilismo, bensì con sdegnato disgusto.

“Se davvero la maledizione di Villa Nakano è destinata a durare nel tempo”, fu il turno di Sasuke ad inquisire beffardo. “Come mai non possiedi più le fattezze di Itachi?”

Bastò appoggiare appena la mano sulla sua irsuta guancia per realizzare, che il suo schiavo aveva ragione.

La maschera era caduta.

L’anima di Itachi lo aveva abbandonato.

C’era un’unica spiegazione possibile.

“Il suo corpo!”, ruggì il grande nemico, provocando un possente turbine di vento e facendo tremare la terra fino a spaccarla. “Lo ucciderò! Lo ucciderò con le mie stesse mani!”, sputò egli veleno, sennonché si ritrovò dozzine di braccia che lo trattenevano, impedendogli di attuare la sua minaccia.

“Come osate mettermi le mani addosso, lurida feccia merdosa? Lasciatemi passare o vi divorerò tutti!”

Per tutta risposta, gli spettri lo strinsero ancora più forte.

 

“Tu non puoi più comandarci un bel niente, perché siamo liberi! Liberi!”

Un sordo boato riecheggiò per tutta l’antica proprietà, scuotendola dalle fondamenta al segnavento, che girò impazzito fin quasi a svitarsi e piegarsi dinanzi a quell’ondata d’aria che parve voler radere ogni cosa al suolo e far sprofondare la villa negli abissi stessi della terra.

Fu un attimo, però.

Gli abitanti di Konoha fecero appena in tempo ad accorgersi di quell’inusuale rombo e di un urlo ingolato d’inferno, che, affacciandosi alla finestra in direzione di Villa Nakano, altro non videro che un signorile edificio circondato da un incantevole giardino paradisiaco, illuminato dal ridente sole del meriggio.

Infatti, il temporale era nel frattempo cessato.

 

 

 

 

 

Guarda l’oltraggio recato alla tua sposa e dimmi: …

 

 

 

“Ti domando perdono, papà, per aver dubitato di te e spero che il giorno in cui ci rincontreremo, tu vorrai ancora essere così buono da riconoscermi come tuo figlio, io che ti rinnegai con stupida ferocia. Scusami tanto, papà, scusami tanto!” e tali supplichevoli richieste di perdono ancora fluivano dalle labbra di Naruto nella loro disperata litania, che i lineamenti di Minato si deformarono in una massa indistinta di bolle simili a del pus, che ribollendo gli ingrossarono la faccia e il corpo fino a scoppiare in un ruggito di pura sconfitta, svanendo definitivamente in vomitevoli effluvi, lasciando spazio alla fresca brezza marina che segue la tempesta.

Solo allora il giovane uomo levò gli occhi da terra, accogliendo per quanto abbagliante la luce del meriggio, che da dietro al catino absidale raffigurante il Cristo Pantocratore pareva dividersi in diversi raggi, luminosi fiumi terminanti in un unico grande mare di gioia e speranza. 

“Ci siamo quasi …”, s’incoraggiò il biondo, riprendendo a spingere la bara verso il mosaico. “Non manca molto …” e il tragitto gli risultò più facile quando s’imbatté nel poco marmo rimasto per pavimento, permettendogli di scivolare sotto quello sguardo così scrutatore e al contempo comprensivo.

“Non sono uno del mestiere, però … Che dire … E’ ora di andare, Itachi”, mormorò infine Naruto, sospirando a fondo ed estraendo il tesoro cedutogli da Kisame, la cui impazienza il giovane la poteva percepire dall’insistente infrangersi delle onde sugli scogli e dai saltuari spruzzi che oltrepassavano la linea tra terra e acqua, bagnando la salma del moro, che ancora pareva dormiente. “E allora andiamo …”, gli sorrise dolcemente, riponendo sulla mano monca il suo anulare ingioiellato dal piccolo anello di fidanzamento e nel cui palmo raccolto introdusse una piccola saccoccia di velluto contenente le fedi nuziali comprate in viaggio da Kisame e che il naufragio li aveva impedito di assolvere il loro compito.

“Avete aspettato abbastanza.”

E in quel momento, l’incanto scomparve e il corpo d’Itachi ritornò ad essere un umile scheletro nudo, a malapena coperto da qualche brandello di pelle rimastogli e un filo di capelli unti sul teschio ghignante e dalle orbite vuote, segno che l’anima d’Itachi era stata liberata dal contratto col male, ma libera soprattutto di recidere gli ultimi vincoli terreni per intraprendere il viaggio verso la porta dell’Aldilà e lì terminare la sua ammenda per poi dedicarsi completamente all’eterna contemplazione.

Bonne chance”, gli augurò Naruto, chiudendo la bara e riempiendola di pietre e, portatala al limitare della scogliera, raccolse le ultime forze e la spinse giù, osservando come il mare, levandosi nella sua onda più alta,  l’avesse ghermita avido e impaziente a metà strada, prima ancora che essa potesse sfiorarne la superficie, trascinandola nei suoi profondi recessi in un voluttuoso tenero abbraccio, per poi chetarsi in un’accarezzante nenia, come se stesse ninnando il nuovo arrivato, consolandolo e sussurrandogli segrete parole comprensibili solo ad anime affini e indissolubilmente legate.

Dove sono? Nessuno ti ha condannato?

Si sovvenne Naruto di quel passo del Vangelo mentre seguitava a cercare con gli occhi eventuali segni della cassa, passo ascoltato svogliatamente se  non proprio infastidito, giacché solo ora afferrava del tutto il significato di quelle parole all’epoca così strane e da lui considerate troppo buoniste, da mollaccioni quasi.

Nessuno, Signore.

Accusare è facile, domandare perdono un po’ meno. Perdonare dal profondo del cuore è impossibile, perché essere creditore nei confronti di qualcuno appaga assai il proprio ego e la propria meschinità morale, l’angolo buio e vendicativo da sempre in agguato, pronto a manifestarsi alla prima occasione.  

Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.

La bara doveva ormai essere affondata interamente, visto che Naruto non percepì più i sospirati Grazie! provenienti dal mare. Rialzandosi a fatica, barcollò fino ai resti dell’antico imbarcadero di marmo, cadendo in avanti a bocconi, la gola insidiata dalla nausea montante e le gambe trasformatesi in ricotta dallo sforzo e lo sfinimento.

Rigirandosi supino, il biondo contemplò il cielo che si liberava man mano dagli ultimi rimasugli del temporale, visuale timidamente celatagli da un viso un poco rosa di colpevole verecondia.

Potrete mai perdonarmi per quel che vi ho costretto a patire?

“Potrai mai perdonarmi per averti odiato senza conoscerti?”, replicò Naruto prima di serrare definitivamente le palpebre e lasciarsi catturare da una meritata incoscienza, non senza aver tuttavia catturato un tremulo, grato e sincero sorriso che abbellì quella bocca a lungo costretta in un’immeritata e sofferta linea dura.

Rincontrò inoltre un altro viso da poco conosciuto, le cui fattezze però mai le avrebbe dimenticate.

“Insomma, tu, chi accidenti sei?”

“Già”, rispose quello scuotendo la zazzera biondo-rossiccia. “Chi, infatti?”

E il buio avvolse nel suo morbido manto Naruto, cullandolo verso un dolce limbo senza affanni e dolori.

 

 

 

… Quando potremmo darci il segno?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Next chapter, the epilogue …

 

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Fiuh, che parto! Allora, piaciuto il finale? Sì? No?

Fatecelo sapere!

Ci vediamo all’epilogo e pronti con lo champagne per festeggiare la fine!

Ciao!

Un po’ di noticine:

[1] Argo Panoptes (Argo “che tutto vede”), era un gigante interamente coperto di occhi e che Hera aveva messo a guarda di Io, una delle innumerevoli amanti di Zeus, trasformata in una mucca, acciocché lo sposo fedifrago non se la riprendesse. Grazie ad un inganno di Hermes, che addormentò Argo e gli tagliò la testa, Zeus si riprese la sua mucca. Tuttavia, per ricompensare il gigante per la sua devozione, Hera gli strappò gli occhi e li piazzò sulla coda del pavone, animale a lei sacro. Questo mito serve a spiegare le formi “ovali” sulla coda del pavone. 

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Capitolo 9
*** Epilogo: 2037 ***


Rieccoci qua!

Iniziata in Germania e terminata a Venezia, mi sento molto in sintonia coi personaggi di questa storia, che pure loro si sono fatti un bel viaggetto e, nel caso di Naruto, pure un bel bagnetto (come la sottoscritta di tanto in tanto).

Mi scuso per l’abnorme ritardo con cui questo epilogo arriva, ma la sintesi non è mai stata la mia specialità e poi si sono messe di mezzo le vacanze, fornendomi la pausa necessaria per trovare finalmente il modo di concludere questa storia. Teniamo incrociate le dita! XD

Ora che siamo arrivati alla fine, vi confesserò che avevo in mente un finale molto più drammatico, ma … che volete, già mi ero sfogata con le terrible endings in un’altra mia storia, non me la sentivo di fare un immediato bis … Inoltre, la mia consulente personale sa essere mooolto persuasiva … ;-)

Mi dispiace battere la parola The End, un po’ perché mi accomiato dai personaggi – mi ci affeziono, alas – un po’ perché mi mancheranno i bellissimi commenti che mi hanno sempre spronato a migliorare capitolo dopo capitolo.

Ringrazio quindi tutti i miei lettori e recensori, in particolare: Cucciola Blu; April88; Mary Uchiha, Lady_Loire e Sagitta72. Le cui recensioni risponderò a breve, in quanto di recente non ho avuto molto accesso al mio computer. Sappiate però che le ho sempre apprezzate!

Ringrazio poi: Sagitta72, Arya; Selly_Luna; MalandrinaElly; e Holy96 per aver messo questa storia tra le preferite.

Ringrazio: 11 Novembre, Babel, Arya e ShoKei89 per aver messo questa storia tra le ricordate.

Ed infine, ringrazio: 11 Novembre; Itanuno; Angel_Dark_Light; April88; Black_Thunder; Cucciola Blu; Iris1996, LaDyDeBbs, Lady_Loire, Mary Uchiha, Phoenix17, Serenere98, Sophie Charlotte e Titticullen4ever per averla messa tra le seguite.

Se qualcuno avesse voglia di lasciare una piccola recensione di commiato, faccia pure, siamo aperti 24/7! XD

 

 

 

 

 

 

H.

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24 Giugno 2037

 

 

Uzumaki Tadja si contemplava estasiata davanti allo specchio, lisciando le pieghe del suo abito da sposa e assaporando coi polpastrelli la morbidezza della seta e i ghirigori dei merletti del pizzo chantilly. Si sistemò vezzosamente infastidita una ciocca ribelle dietro l’orecchio, ammiccando al riflesso ridente di una sposa pronta ad unirsi all’uomo che ama.

Ce n’era voluto di tempo, accidenti accidenti!, per persuaderlo, ma alla fine Sabaku Gaara si era deciso a parlare con suo padre e, in seguito alla conversazione più ostica che i due giovani avessero mai sostenuto in vita loro, finalmente avevano ottenuto la benedizione paterna e Gaara, tra la commozione generale, aveva estratto dalla tasca il prezioso pegno preparato per Tadja - un anellino d’oro bianco con annesso un diamante – assieme alla solenne promessa di convolare a nozze e di appartenersi per tutta la vita, finché morte non li avrebbe separati.

A quel pensiero, di solito così scontato da sorvolarci allegramente sopra, un piccolo brivido freddo smorzò il sorriso altrimenti raggiante della fanciulla, la quale si voltò, certa di aver avvertito una presenza alle sue spalle.

“Porta male vedere la sposa prima delle nozze!”, esclamò ad alta voce la giovane, voltandosi di scatto.

Niente.

Nessuno.

Era completamente sola nella sua cameretta.

Eppure, eppure …

La finestra era sempre stata aperta?

Beh, era il caso di chiuderla, nevvero?

“Ah! Sei tu! Santo cielo, mi hai spaventata!”, sospirò Tadja assai sollevata, mentre stendeva le braccia e si apprestava a serrare la finestra – aveva sempre fatto così freddo? - sennonché la voce alle sue spalle, soave come un dolce zefiro primaverile e al contempo più gelida della bora invernale, le sussurrò malinconica l’orecchio:

 

Posso raccontarti una storia?

 

 

“Tadja? Sei pronta? Su, bambina mia, ti stiamo tutti aspettando! Non vorrai mica far attendere Gaara più del dovuto, spero? Dai, che sennò scappa!”, la richiamò scherzando sua madre, Uzumaki Hinata, bussando alla porta ben serrata. Non ricevendo risposta, la donna si risolse ad entrare forzatamente nella stanza della figlia, preoccupata per quell’insano silenzio, foriero di tristi ricordi. Solo per amore di suo marito aveva acconsentito, quasi cinque lustri fa, di tornare a vivere a Villa Nakano, sebbene la notte ancora giurasse di scorgere, nei lunghi corridoi ovattati dai tappeti, sinistre ombre, leggiadre come il vento che ingravidava le tende.

“Tadja, tesoro, ti senti bene? Tadja, che succ- … Oh mio Dio, no!”, gridò Hinata, tappandosi la mano e barcollando all’indietro alla terribile vista offertale, non appena mise piede nella camera da letto della sposa. “Naruto! Tadja! Oh mio Dio! Ma perché? Me lo avevate promesso!”, prese a ridere, attirando di conseguenza l’attenzione degli ospiti al pianoterra, in particolare lo sposo, il quale corse istintivamente verso la fonte di quella risata sconquassante.

Giuntovi infine, Gaara rimase dapprincipio pietrificato sul posto, per poi sciogliersi anch’egli in una calda risata. “Il lupo perde il pelo ma non il vizio, signora Hinata, si rassegni!”, la consolò, proteggendo col palmo della mano gli occhi alla vista della sua futura moglie in abito da sposa e del suocero che, seduti sul canapè, si stavano scodellando una ciotola di ramen a mo’ di segno di buon augurio.  

“E dai, Hinata!” , protestò Naruto a bocca piena. “Non vorrai mica negare ad un povero papà l’ultimo ramen con sua figlia, spero?”

“E raccontarmi la storia dietro la Ballada della Sposa Mancata”, aggiunse la loro figlia, addolcendo le ultime parole al ricordo di quella favola della buonanotte, che suo padre, in barba a quelle tradizionali, soleva narrarle prima di spegnere la luce, sistemarle il suo corvetto di peluche e rimboccarle le coperte. Niente di male, quindi, l’estremo congedo dall’infanzia. Peccato che Hinata, a giudicare dall’occhiata sulfurea che lanciò al consorte, non la pensava ugualmente, anzi, lo pigliò per un orecchio e lo trascinò fuori dalla stanza di Tadja.

“Naruto, razza di delinquente”, borbottava, “Quante volte ti ho ripetuto che non voglio mai più sentire quella ballata? Specie in questo giorno? Sei proprio uno scemo, un beota, una testa quadra, un cervello da gallina in gelatina …” e via così, fino al pianoterra.

Tadja si sposò il giorno del solstizio d’estate, perché secondo la saggezza popolare di Suna, la città natale di Gaara, chi si sposava a giugno festeggiava come minimo le nozze d’oro.

Quando a marzo aveva comunicato questa sua decisione ai genitori, i signori Uzumaki Naruto e Hinata, per poco quest’ultimi si erano visti  sfumare la prospettiva di festeggiare il loro di cinquantesimo anniversario di matrimonio, poiché la data prescelta dalla coppia – il 24 del mese – aveva risvegliato nel nuovo patriarca della famiglia ricordi non propriamente allegri e un doloroso batticuore. Si era limitato quindi a lanciare alla consorte una breve occhiata, quei segreti lampi d’intesa visiva in cui solgono indugiare madre e padre quando certi argomenti tabù vengono inconsapevolmente menzionati dagli ignari figli.

“Non è un po’ presto? Perché non vi sposate in primavera? Magari ad aprile o a maggio del prossimo anno! Come sapete, qui nel giardino fioriscono certe magnifiche rose …”, aveva tentato Hinata di temporeggiare, servendo un tea che non venne accettato da nessuno e che fu costretta a riappoggiare sul tavolino.

“Perché non vi sposate affatto?”, aveva al contrario decretato Naruto, assottigliando gli occhi e fulminando il suo futuro genero, Sabaku Gaara, il quale dal canto suo non gli diede neppure la soddisfazione di una replica, reclinando solamente il capo e fissandolo con la medesima imperturbabile sufficienza di chi si trova dinnanzi ad un babbuino danzante col tutù.

Questa conversazione era avvenuta nel gazebo del giardino di Villa Nakano, nel primo soleggiato pomeriggio dopo settimane di pioggia incessante.

L’edificio appariva totalmente trasfigurato nel suo ritorno agli antichi fasti, grazie alla cura certosina di Naruto, non appena vi rimise piede in un nebbioso settembre di venticinque anni addietro. Affari urgenti lo avevano trattenuto a Kiri fino ad allora, i quali coincidevano col suo ritrovamento mezzo morto sulla spiaggia e un ricovero coatto, visto che il giovane commissario, una volta ripresosi a furia di respirazioni bocca a bocca di una procace bagnina e stufo di ripeterle che stava assolutamente bene, non venne da quest’ultima rincorso per tutto il bagnasciuga, da essa stordito e trascinato all’antico ospedale nel centro storico in camicia di forza, dove venne sottoposto ad un infernale giro di controlli che portarono alla rimozione delle tonsille e della sua appendice infiammata, giusto perché, come affermato dallo stesso Naruto, se il trenta era fatto, bisognava fare pure il trentuno. Saputo per caso della sua ubicazione in seguito alla clamorosa fuga, la dottoressa Tsunade si era chiesta, nel frattempo che chiamava Hinata per informarla della novità, quale motivo avesse spinto il commissario Uzumaki a scappare dall’ospedale di Konoha per finire in  quello di Kiri, famoso per la sua magnifica vista sul mare e i tentavi poco ortodossi di farlo fallire per utilizzare lo stabilimento come hotel di lusso. Arrivata al capezzale del fidanzato insieme alla sorella minore e al cugino, Hinata s’era molto presa cura di Naruto, vezzeggiandolo quando si rifiutava di sottoporsi alle analisi e intimandogli di non infastidire con la sua testardaggine i medici e gli infermieri, ma mai accennando agli eventi che li avevano separati e spinti a ritrovarsi in tutt’altro posto che il loro nido d’amore e ciò infastidiva non poco il biondo, il quale avrebbe preferito di gran lunga sfogarsi con la sua fidanzata e conoscere la sua versione dei fatti. Hinata, ogniqualvolta egli accennava alla villa e ai suoi previi abitanti, si limitava a scuotere il capo, sussurrando un: Non ora, caro e ficcandogli in bocca un pezzo di mela, frutto assolutamente detestato da Naruto che lo ingoiava schifato, neanche fosse stato un rospo a scivolargli giù per l’esofago. Finché un giorno, davanti alle insistenze del giovane, la mora, sospirando a lungo, gli aveva rivelato il suo intimo cruccio:

“Non possiamo sposarci, Naruto. Non subito, almeno.”

Chissà perché, il biondo se l’era quasi aspettata.

“Io …”, aveva ripreso Hinata, guardandosi vergognosa le unghie laccate di fresco. “Ho bisogno di tempo. Per dimenticare. Non riesco a …”

“Ti aspetterò”, l’aveva interrotta allora Naruto, fissandola dolcemente e pur tuttavia non osando sfiorarla, poiché la vedeva così fragile, di cristallo e poi ben sapeva quanto quello non corrispondesse ad un addio, bensì ad un arrivederci. “Prenditi tutto il tempo che ti occorre. Sarò sempre lì ad aspettarti”, l’aveva rassicurata, ridendo ironico per il modo in cui i giochi s’erano capovolti rispetto al passato, lui ad attendere lei e non l’incontrario com’era avvenuto ai tempi del loro innamoramento.

Hinata gli diede un bacio e da quel momento non si rividero per i successivi due anni.

Periodo di tempo che non fu assolutamente sprecato dal giovane a piangersi addosso: dimesso da Kiri in ottima salute, con qualche organo in meno e con una perfetta padronanza del dialetto locale, Naruto aveva ripreso il suo posto nel suo ufficio, riaccolto da amici e colleghi col medesimo stupore che riservarono Marta e Maria alla vista di Lazzaro fuoriuscito dalla tomba col suo putente sudario addosso.  E il colpo di grazia avvenne nell’udirlo blaterare di ritornare a Villa Nakano e riprendere i lavori di restauro.

“Sei un demente”, aveva soffiato Kiba, gli occhi fuori dalle orbite.

Naruto, per tutta risposta, aveva scrollato indifferente le spalle, oramai abituato a simili complimenti.

La ristrutturazione di Villa Nakano lo aveva sollevato dal peso della solitudine, giacché ogni giorno, terminato il suo turno lavorativo, v’era sempre un angolo da risistemare, un mobile da disinfestare dai tarli, una siepe da rimodellare, una lapide da rinominare e ciò lo aiutava a non pensare ad Hinata, la quale, prima di partire per la sua terapia spirituale, gli aveva recapitato una dolce e-mail di commiato. Naruto neppure la lesse, cestinandola e bofonchiando: “Spero che non mi ritorni pelata e vegetariana a furia di ritrovare se stessa.” Nondimeno, aveva onorato per i primi due mesi i gentili inviti dei suoi quasi-suoceri e quasi-cognata, venendo a pranzare da loro la domenica. Dopodiché, smise di visitare gli Hyuuga e si dedicò anima e corpo a Villa Nakano, la quale rifioriva lentamente, come un ammalato sopravvissuto ad un delicato intervento chirurgico. Si scoprì in seguito, che il biondo aveva perfino cancellato i numeri telefonici della famiglia di Hinata e quando Neji, incontrandolo per caso in piazza la Vigilia di Natale, gliene chiese il motivo, Naruto replicò serafico: “Se tua cugina vuole ricominciare daccapo, padrona lei. Quindi, da adesso noi non ci conosciamo più.” Neji spalancò la bocca sconcertato e la diceria che il commissario Uzumaki Naruto non solo fosse scemo, ma addirittura pazzo furioso si disperse per tutta Konoha, tant’è che i criminali pensarono subito di festeggiare gozzovigliando impunemente, per essere poi prontamente arrestati da Naruto e la sua squadra, il primo che si chiedeva che accidenti avesse preso alla gente per blaterare simili cacche di piccione nei suoi confronti. “Tanto scoglionarsi”, grugniva al Ramen Ichiraku. “Tanto scoglionarsi per la loro sicurezza ed ecco come vieni ripagato: dandoti del beota demente! Che fottitura, averlo saputo mi sarei dedicato ad un allevamento di porcellini d’india!” Poi, però, con la flemma olimpica di chi aveva compiuto il viaggio dall’Aldilà all’Aldiqua, si risolse che decisamente i konohagakuriani erano dei gran rompipalle pettegoli e che trascorrere il suo tempo libero a contemplare il fiorente giardino di Villa Nakano lo rilassava di più, appagandolo.

Nessuno aveva mai osato ventilargli l’ipotesi di dimettersi dal suo posto di commissario, ma ciò non gli impedì, da scemo e pazzo furioso, di beccarsi l’ulteriore onorificenza di scemo pazzo furioso e eremita. Questo finché tornò Hinata, la quale, ripresasi dallo choc che l’aveva per poco spedita nel reparto rianimazione per triplo infarto, accettò di buon grado l’idea di sposarsi col suo Naruto, un po’ meno di tornare a vivere a Villa Nakano. Cupi pensieri che si sciolsero come neve al sole il giorno in cui nacque Tadja, la loro, a causa di tristi circostanze, unigenita figlia, ma non per questo i due ebbero mai di che dolersi.  E di fatti, nonostante la giustificata ostilità iniziale, Naruto fu costretto a far buon viso a cattivo gioco e cedere la sua preziosa figliola a “quel sozzo bifolco d’un sunagacino!”

Il quale, ironia dalla sorte, lo stava salvando dalle pinze vendicatrici di sua moglie.

“Mamma! Dai …”

“Signora Hinata! Non ce lo ammazzi … Non oggi, almeno! Chi porterà, altrimenti, Tadja all’altare?”

“Aiuto, m’accoppa! Gaara, levamela di dosso! Perché ti vuoi sposare? Sei così ansioso di rovinarti la vita?”

“Ah, canaglia! Dunque ti ho rovinato la vita, eh? Vieni un po’ qua, che ti concio per le feste, caprone!”

“Basta voi due! Finitela!”

Ma non si cessava di ridere in quella soleggiata mattina del 24 giugno 2037, il cui vento ancora fresco s’intrufolava giocoso nelle finestre spalancate, vagando incuriosito per le stanze ora luminose e decorate con delicata leggiadria, accarezzando il mobilio e scostando, dispettoso, gli oggetti la cui lieve consistenza li rendeva assai propensi a lasciarsi da lui spostare. Giunse per ultimo nella camera abbandonata dal festante gruppetto, alitando il suo augurio di fortuna tra le coperte sfatte, la vestaglia abbandonata frettolosamente sulla sedia e scompigliando le pagine di due diari dalle fragili pagine avvizzite e pacchi di foto legati coscienziosamente con uno spago, un piccolo regalo che Naruto ci teneva a cedere alla figlia.  

 “Avete perfettamente ragione, signor Sasuke”, cadde una pagina strappata da uno dei due diari. “Chiunque, nella sua vita deve affrontare il mostro dell’Odio, quel pauroso cavaliere che avanza brandendo lo scudo del Rancore e la spada della Disperazione. Anch’io l’ho provato, sapete, quando la varicella si portò via il mio bambino.”

“Un’immagine molto poetica, signora Namikaze.”

“Chiamatemi pure Mayra, signor Sasuke. E no, non è poetica. È realistica. Chi non ha mai odiato i nostri cari per averci abbandonato? Per aver tradito il nostro affetto? E quanto soffriamo quando ci lasciano definitivamente, per sempre, scomparendo coi nostri sogni? Le nostre aspettative? Ebbene, è in questo momento buio che il nostro tiranno viene sfidato a duello dal suo nemico più temuto, colui che soccorre chi rimane, chi non è potuto partire, che deve ancora vivere in questo mondo e fronteggiare l’Odio: è Amore. Non, però, quell’amore sciocco e carnale e romantico e mellifluo, che si nutre di superficiale sensualità. No, è l’Amore armato che para i fendenti della Disperazione con lo scudo della Speranza e penetra nello scudo del Rancore con la spada della Gioia, le sue armi sono esse. Perché noi siamo stati amati dai nostri cari defunti e anche se li abbiamo odiati, non possiamo negare, neppure dal profondo del cuore, che per un attimo, seppur fuggevole, li abbiamo a nostra volta tanto amati.”

E sopra il caminetto della stanza ora di Tadja ma appartenuta in passato ad Itachi stava appeso il suo ritratto assieme al fratello Sasuke, non più mutilato dal profondo squarcio sulla tela che li aveva divisi, bensì adesso un tutt’uno, bello e vivido come doveva essere stato il giorno in cui il pittore aveva appoggiato il pennello, esclamando: Voilà, terminato!

Si era rotta finalmente la maledizione di Villa Nakano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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"L'Amaro Caso di Villa Nakano"


The End 

 

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Se non ci si è accorti, ve lo dico io: il Prologo e l’Epilogo sono uguali in certi punti, poiché volevo dare l’idea di un cerchio che si chiude, un cammino di accettazione e redenzione che ha potuto oltrepassare la cecità dell’odio e della vendetta.  Spero di non avervi dato la sbagliata impressione d’essere una bacchettona moralista, ma sono dell’idea che nella vita se si accettano i momenti belli, bisogna saper fronteggiare anche quelli brutti e che non è mai tardi per chiedere sia aiuto che perdono.

In ogni modo, adesso possiamo stappare la bottiglia di champagne per festeggiare la fine, tenendone da parte un po’ per la nascita di altre storie in questo fandom!

Grazie a tutti che voi che mi avete seguito!

Alla prossima, ciao!

 

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