L'Amaro Caso di Villa Nakano di Hoel (/viewuser.php?uid=86957)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: 1925 ***
Capitolo 2: *** Agosto 2012 - prima parte ***
Capitolo 3: *** Agosto 2012 - seconda parte ***
Capitolo 4: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: gli Eventi dal 1850 al 1856 ***
Capitolo 5: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: la Notte di San Giovanni, Annus Horribilis 1858 ***
Capitolo 6: *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: 1858- 1919, Decadenza di una Famiglia Maledetta ***
Capitolo 7: *** Agosto 2012 - terza parte: Osud ***
Capitolo 8: *** Agosto 2012 - quarta parte: Thàlassa ***
Capitolo 9: *** Epilogo: 2037 ***
Capitolo 1 *** Prologo: 1925 ***
Lo so.
Dovrei aggiornare
sia “The Akatsuki Program” che “Blood Brothers.” Ma credetemi se vi dico, che
questa storia è il prodotto di una settimana chiusa in casa per a) virosi infida,
b) pioggia torrenziale che in questo esatto istante si è trasformata in neve c) vicini cretini che sparano nel cuore della notte i petardi, facendomi venire un infarto! Allora,
il mio cervello va in panne e si inventa nuove storie; ciononostante, non
temete: entrambe le fic sono in fase di scrittura, specie A.P.
Dunque,
partendo con qualche nota introduttiva:
Punto
primo. Mpreg.
Signori, cercate di capire. Ho da poco compiuto gli anni e volevo farmi un
regalo. Con la mia coppia preferita! Ormai avete capito chi è: Kisaita! Kisame
è troppo brutto per essere papà? Eh? Eh? Eppoi, dai, l’Mpreg è talmente
accennato che neanche ve ne accorgerete! *fidatevi!* In ogni caso, ormai ho
deciso: facciamolo strano! XD Se Sakura ha i capelli rosa, non vedo perché Itachi
non possa rimanere incinto. *che razza di logica!* Sul serio, solo perché non è
una Mpreg Sasunaru (o viceversa) non significa che la storia non abbia
potenzialità, o mi sbaglio?
Punto
secondo. Appunto
per le piogge torrenziali ora trasformatasi in un bufera di neve, dannato clima
del pippio, e la febbriciattola mi è venuta la smara (= malinconia) di casa. Di conseguenza, ho voluto scrivere
una storia dell’orrore, scegliendo come base una leggenda veneziana, la mia
preferita. Mi manca il Carnevale! T^T Siccome la leggenda è in “prosa”, l’ho
voluta rendere simile ad una ballata. La riconoscerete dallo stile song-fic. Epic
fail? Speriamo di no!
Punto
terzo. Chi mi
conosce bene, sa che sono una patita alla die hard della Sasunarusasu (dopo
Kisaita, of course!) Ma in questa storia li ho fatti riscoprire etero. Perché? Ihihihih
… lo rivelerò all’ultimo capitolo! (se non si sarà già capito leggendo la
storia)
Punto
quarto. Anche se
ho i capitoli pressoché pronti, non voglio sacrificare A.P. e B.B. Ergo, gli
aggiornamenti saranno settimanali. Poco male, la storia si compone solamente
di: prologo, primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo/epilogo.
Punto
quinto. Non si
accettano minacce di morte per eventuali OOC. E credetemi, ce ne sono! Ci sono
andata anche leggera stavolta! Lo sportello è chiuso!
Che altro
dire? Buona lettura?
H.
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Fedelmente guardati, qui rimanete,
Dove vi protegga la benedizione d’amore!
Vittorioso coraggio, amore e felicità
Vi uniscono con fede in felicissima coppia!
(Canto
Nuziale, “Lohengrin”, R. Wagner)
1925
Yamanaka
Ino si contemplava estasiata davanti allo specchio, lisciando le pieghe del suo
abito da sposa e assaporando coi polpastrelli la morbidezza della seta e i
ghirigori dei merletti. Si sistemò vezzosamente infastidita una ciocca ribelle
dietro l’orecchio, ammiccando al riflesso ridente di una sposa pronta ad unirsi
all’uomo che ama.
Ce n’era
voluto di tempo, accidenti accidenti!, per irretirlo, ma alla fine Sai si era
deciso a parlare con suo padre e, in seguito alla conversazione più ostica che
il giovane avesse mai sostenuto in vita sua, finalmente egli aveva ottenuto il
permesso di inginocchiarsi dinanzi ad Ino, offrendole il prezioso pegno - un anellino d’oro bianco con annesso un
diamante – assieme alla solenne promessa di convolare a nozze e di appartenersi
per tutta la vita, finché morte non li avrebbe separati.
A quel
pensiero, di solito così scontato da sorvolarci allegramente sopra, un piccolo
brivido freddo smorzò il sorriso altrimenti raggiante della fanciulla, la quale
si voltò, certa di aver avvertito una presenza alle sue spalle.
“Porta
male vedere la sposa prima delle nozze!”, esclamò ad alta voce la giovane,
voltandosi di scatto.
Niente.
Nessuno.
Era
completamente sola nella sua cameretta.
Eppure,
eppure …
La
finestra era sempre stata aperta?
Beh, era
il caso di chiuderla, nevvero?
“Ah! Sei
tu! Santo cielo, mi hai spaventata!”, sospirò Ino assai sollevata, mentre stendeva
le braccia e si apprestava a serrare la finestra – aveva sempre fatto così
freddo? - sennonché la voce alle sue spalle, soave come un dolce zefiro
primaverile e al contempo più gelida della bora invernale, le sussurrò
malinconica l’orecchio:
Posso
raccontarti una storia?
“Ino?
Sei pronta? Su, colombella mia, ti stiamo tutti aspettando! Non vorrai mica far
attendere lo sposo più del dovuto, spero? Dai, che sennò scappa!”, la richiamò
scherzando sua madre, Yamanaka Noriko, bussando alla porta ben serrata. Non
ricevendo risposta, la donna si risolse ad entrare forzatamente nella stanza
della figlia, preoccupata per quell’insano silenzio.
“Ino,
tesoro, ti senti bene? Ino, che succ- … Oh mio Dio, no!”, gridò Noriko,
tappandosi la bocca e barcollando all’indietro alla terribile vista offertale,
non appena mise piede nella camera da letto della sposa. “Ino! Ino! Oh mio Dio!
Bambina mia! Perché? Perché?”, prese a singhiozzare istericamente, attirando di
conseguenza l’attenzione degli ospiti al pianoterra, in particolare del padre e
dello sposo, i quali corsero istintivamente verso la fonte di quel pianto
disperato.
Giuntivi
infine, sia Inoichi che Sai rimasero pietrificati sul posto, increduli e
terrorizzati.
Seduta
scompostamente sul morbido tappeto completamente inzuppato di acqua salsa, Ino
fissava assente il vuoto davanti a sé, la mano destra che reggeva il polso
della sinistra, dalla quale cadevano leziosi rivoletti di sangue vermiglio.
“Oh,
tesoro mio! Perché proprio te? Perché? Che male avevi fatto, bambina mia?”,
abbraccio la madre la figlia in stato palesemente catatonico.
Dalla
mano sinistra di Yamanaka Ino mancavano sia l’anulare che l’anello di
fidanzamento.
La
maledizione di villa Nakano aveva mietuto l’ennesima vittima.
To be
continued …
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Ovviamente,
la Marcia Nuziale del “Lohengrin” deve essere letta in chiave ironica … |
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Capitolo 2 *** Agosto 2012 - prima parte ***
Jetzt geht’s weiter!
Malgrado
l’epidemia che sta spedendo a casa amici e colleghi (e la sottoscritta con
loro), siamo riuscite a pubblicare questo capitolo!
Confesso
che è da un po’ che non scrivo una horror “classica” (a buon intenditor poche
parole! ;-P) e mi sento di conseguenza un po’ arrugginita: questo è per
chiedere venia se il capitolo vi farà – traduco letteralmente dal tedesco – mangiare
all’incontrario!
Ah, mi
ero dimenticata di dirvi!
L’ubicazione
di questa fic – similmente a “Blood Brothers” – è vaga e soprattutto in un
paese di fantasia (non mia del signor Kishimoto). Le date e gli stili artistici
e architettonici servono solo per dare un’idea al lettore del periodo, in cui
questa storia potrebbe aver avuto luogo e per aiutarlo a seguire il filo cronologico
degli eventi. In ogni modo, possiamo dire che Konoha poteva corrispondere in un
ipotetico Ottocento all’Inghilterra vittoriana: prospera, bigotta e ipocrita.
Mentre Kiri, l’altra città qui menzionata, alla più liberale e tollerante
Francia del Secondo Impero / Terza Repubblica (il regno della regina Vittoria
copre entrambe le forme di governo sopracitate). Infatti, contrariamente ai
rigidissimi provvedimenti vittoriani contro gli omosessuali, secondo il codice
napoleonico le coppie gay non dovevano essere in alcun modo perseguite come
criminali dalla legge, a condizione che i soggetti fossero entrambi maggiorenni
(ergo aventi 21 anni) e consenzienti. Ovviamente, il matrimonio era fuori
questione, ma questa è una fic di fantasia e quindi mi sono presa qualche
licenza poetica.
Ricapitolando:
Konoha = no matrimonio; Kiri = sì matrimonio tra omosessuali. Capish? Bien,
perché vi servirà per i prossimi capitoli.
Un’ultima
cosa: ho leggermente diluito il brodo di questa fic, nel senso che sono stata
costretta a tagliare a metà il primo capitolo, giacché stava venendo troppo
lungo. Ad alcuni magari non importa, ma per meglio focalizzare gli indizi e i
dettagli di questa storia, forse è meglio propinarla a piccola dosi.
Le età dei
personaggi sono assolutamente sfasate e pure i lavori. Siamo in un’AU, yes sir!
Uhm …
vediamo, cos’ho dimenticato? Il fatto che stamattina pioveva a dirotto,
dopodiché s’è messo a nevicare fino a seppellirci tutti vivi? No?
Giusto!
Ringrazio
i miei lettori e recensori, in particolare: Jooles, Nirvana96 e Sagitta72. Un sentito
ringraziamento anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite,
seguite e ricordate!
Vi auguro
una buona lettura,
H.
(più in
là, che di qua)
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Agosto 2012
“Entrate,
miei curiosi amici! Forse non ci crederete, ma una bellezza senza pari abitava
in queste stanze … e ancora vi abita! Su, dolcezza, perché non ti mostri?!
Ah-ha! Eccoti qua, trovata! Bella, eh?”, scherzò il padrone di casa, balzando
in un birbante agguato da dietro la pesante tenta scarlatta e catturando la sua
fidanzata, la quale lanciò un gridolino spaventato, divincolandosi
immediatamente.
“Naruto!”,
esclamò ella rossa come un pomodoro, portandosi una mano là dove il suo
cuoricino batteva impazzito. “Certi scherzi!”, protestò, sedendosi velocemente
accanto al cugino, che se la rideva invece alla grossa assieme al futuro
“cognato”, se così si poteva chiamare, e ad un altro loro amico, Inuzuka Kiba.
“Eddai,
Hinata! Non hai proprio alcun senso dell’umorismo, dattebayo! Si trattava solo di
un innocuo scherzetto!”, si giustificò gioviale il giovanotto biondo,
esibendosi in una smorfia giocosamente contrita e cercando di abbracciare la
mora, che di riflesso si strinse al braccio di Neji.
“Come
no!”, mormorò ella in un filo di voce. “Lo sai che non mi garbano simili
birbonate! Soprattutto in questa casa!”, aggiunse Hinata, tremando leggermente
e lanciando delle ansiose occhiate intorno al salotto arredato in stile
pomposamente vittoriano. “Potrebbe sentirci e arrabbiarsi con noi …”
All’udire
ciò, Kiba arcuò un sopracciglio castano. “Come sarebbe a dire? Chi potrebbe
infastidirsi?”, inquisì intrigato.
“E chi
lo sa! Dattebayo!”, sbuffò Naruto, alzando le braccia in segno di resa e
lasciandosi cadere pesantemente sul canapè. “Secondo lei, la casa è infestata
dai fantasmi! Anzi, dal fantasma della Sposa
Mancata!”, sentenziò grave il giovane, ridendo subito dopo e scuotendo la
zazzera dorata. “Un anno che vivo in questo posto e, in fede mia, ancora non ho
avuto il piacere di conoscerla di persona … o di spirito!”
“Non
deridermi, Naruto! Non sto vaneggiando, né sono la sola a crederlo! Anche …
anche l’agente immobiliare la pensava così!”
“Sicuro,
sicuro …”
“Naruto!
…”
“In ogni
modo”, s’intromise Hyuuga Neji nella speranza di evitare una lite tra i due
fidanzati. “Spiriti e spiritelli a parte, deve esserci qualcosa di più concreto
sotto. Insomma Naruto, non per giocare al pignolo rompiscatole, ma hai ottenuto
questa signora villa più giardino romantico ad un prezzo davvero irrisorio per
il suo valore effettivo!”
In
effetti, i dubbi del cugino non apparivano completamente infondati. Non che la
coppia patisse la fame, anzi, il signor Uzumaki aveva ottenuto un vantaggioso
trasferimento da Uzushio a Konoha, avanzando di grado da vice a commissario.
Quanto alla signorina Hyuuga, ella lavorava da tempo presso lo studio di suo
padre, noto commercialista di Konoha. Tuttavia, in circostanze normali, neanche
due salari come i loro sarebbero stati abbastanza per l’acquisto di siffatta
proprietà. Quel che Neji ignorava, era che in realtà sia i proprietari
effettivi che l’agenzia immobiliare stavano letteralmente morendo dalla voglia di trovare un acquirente, sbarazzandosi così
di quel peso morto di villa, la quale non faceva neanche buona pubblicità al
loro negozio.
Passandosi
una mano tra i capelli biondo oro, il giovane sospirò snervato. “E’ vero, me
l’hanno praticamente regalata! Già … sai però in che condizioni era? Per un
anno intero altro non ho fatto, che ripulire stanze che parevano catacombe, cambiare
tutte le serrature e i vetri delle finestre, sradicare erbacce, risanare
fontane talmente melmose, che vi poteva abitare tranquillamente lo stesso
Mostro della Laguna Blu! Ah, e rivendere a tutti gli antiquariati di Konoha un infinito
ammasso di cianfrusaglie, che continuavano a sbucarmi fuori da ogni angolo,
dattebayo! A momenti mi accoppavo con le alabarde delle armature, dattebayo!”
“Ti ho
aiutato anch’io, Naruto, a mettere un po’ di ordine!”, gli ricordò dolcemente
Hinata, allentando la presa al braccio del cugino e azzardando ad avvicinarsi
di più al fidanzato.
“Ma
certo, dolcezza mia! Non l’ho dimenticato!”, le sorrise l’altro, provocando
l’ennesimo feroce rossore nelle gote della ragazza. “E una volta sposati,
ridecoreremo questa villa con uno stile più moderno e meno triste, va bene?
Così potrai organizzare tutti i tea pomeridiani che vorrai! Non sei contenta?”
“Tu che
ne dici, cugino?”
Arricciando
le labbra in un sorriso sornione, Neji dichiarò: “Non sono io quello che si
sposa con Naruto fra due settimane, cuginetta!”
I quattro
risero di cuore alla battuta, alleggerendo l’atmosfera dapprima opprimente.
Nascosta
negli angoli bui del salottino, là dove né la luce elettrica né le guizzanti
fiamme del caminetto potevano raggiungerli, un’ombra si unì a loro, osservandoli
divertita.
In
una villa a Konoha, molto tempo fa, viveva una sposa mancata.
Quest’anima
sfortunata possedeva molte virtù e l’intera città ne invidiava la bellezza e
l’intelligenza vivace.
“Hinata!
Esco un secondo a fare la spesa!”, le giunse la voce di Naruto dal pianoterra.
Prima che l’interpellata in questione avesse modo di abbandonare il manico
dell’aspirapolvere e di correre dabbasso, ecco che il portone d’ingresso si
chiudeva in un sordo schiocco, che alla giovane parve riecheggiare per tutte le
pareti dell’antica villa.
Era
rimasta sola.
L’improvvisa
consapevolezza le provocò un violento tremore e Hinata rimase paralizzata da
una sinistra ansia per una buona manciata di minuti, stringendo di riflesso le
spalle e fissando spaurita il vuoto, neanche temesse in un improvviso attacco
da chissà quale angolo di quella casa che, a discapito di quanto affermasse
Naruto, non le era mai piaciuta fin dal primo istante in cui vi mise piede
dentro, nello specifico una settimana fa.
La
trovava cupa, soffocante, con quelle enormi finestre, le linee severe e
l’arredamento troppo legato a tempi perduti e al gusto di coloro, che vi avevano
un tempo abitato. Per questo preferiva le case nuove a quelle già “vissute”: infatti,
la ragazza credeva fermamente che lo spirito dei previi inquilini continuasse
ad aleggiare nella loro dimora, la quale non doveva essere per forza vecchia di
un secolo e passa, tutt’altro! Hinata ne avvertiva la presenza anche se la casa
era stata abitata per neanche due anni! Figurarsi, quindi, come si sentì non
appena quell’ambiente polveroso e putente di chiuso l’aveva avvolta,
sussurrandole quei segreti che le sue mura avevano gelosamente conservato fino
a quel momento. Beh, non che lei avesse udito esplicitamente delle parole – pazza non era né si dilettava
nello spiritismo – tuttavia poteva percepire, ecco, un qualcosa di ancora vivo in essa … a volte così palpabile … e in certe occasioni,
la mora si sentiva addirittura spiata
con insistente intensità … Lo zenit di quel suo malessere l’aveva raggiunto
alla sua prima notte nella camera da letto padronale, tanto grande quanta piena
di ombre.
Inoltre,
sbarazzarsi di quelle che Naruto appellava “cianfrusaglie” si era rivelata
un’impresa non da poco, come nel caso dei ritratti di famiglia dei precedenti
padroni: il fidanzato voleva assolutamente darli via – avevano delle facce
talmente antipatiche, sosteneva - ma
Hinata aveva avuto la certezza (come poi mistero) che qualcuno, o qualcosa,
all’interno della villa se ne sarebbe rammaricato non poco. Di conseguenza, la
ragazza era riuscita a persuadere il fidanzato a sistemarli in soffitta e di
lasciarli lì ad ammuffire. Incredibile ma vero, in seguito a quella decisione l’atmosfera
dell’intera casa le era parsa essersi d’un colpo rilassata e di certo non per
un qualsivoglia litigio tra i due giovani. Senza contare, che le mani avevano
preso a sudarle, quando, coprendo i ritratti con un panno, la mora si era
accorta che la maggior parte di loro era stata o sfregiata da sottili e
profondi tagli oppure vi erano incise frasi piene di crudeli oscenità.
Ed ora,
eccola lì di nuovo sola in quella orribile villa. Come aveva fatto a non
impazzire fino a quel momento? Forse la presenza ognora allegra e rassicurante
di Naruto? Probabile. Anzi, probabilissimo, giacché non appena la sua aura
solare s’era allontanata, le ombre di una notte eterna avevano righermito la
casa, facendola sprofondare ancora nella sua malinconica cupezza. Il suo
fidanzato stesso vi aveva vissuto per un anno intero, eppure non sembrava
costantemente teso e ansioso come al contrario la giovane Hyuuga.
“Basta
così, Hinata!”, si rimproverò ella a voce alta, sperando che chiunque si
ostinasse a celarsi nell’ombra l’ascoltasse per bene. “Adesso è la tua casa! Non devi averne paura! Fra due
settimane ti sposerai e, similmente a quanto ha detto Naruto, la ridecoreremo
in modo tale, che nessuno la indicherà più come un nido di spiritelli
invasati!” e detto questo, fece due bei grossi e profondi respiri e si diresse
al primo piano. “Devo piuttosto pensare
a terminare i preparativi per le nozze: c’è ancora così tanto lavoro arretrato!
Le decorazioni … il rinfresco … i fiori
… l’abito e …”
Le
parole le morirono improvvisamente in gola.
Fu un
attimo soltanto, ma dall’enorme finestra, la giovane aveva scorto chiaramente
una figura seduta ai bordi della vasca della fontana delle Nereidi. Accostò di
riflesso le pesanti tende rosse, quando la stessa si voltò nella sua direzione,
quasi sapesse di essere osservata,
sorridendo a fior di labbra e ritornando al suo passatempo, ergo lasciar
vagabondare una mano guantata tra la frescura cristallina dell’acqua.
“Può
anche uscire, signora”, gridò quella, acciocché Hinata la sentisse oltre i
vetri della finestra e i muri della villa. “Sono il nuovo giardiniere. O
meglio”, si corresse “il solito giardiniere, prima che gli ex-proprietari mettessero
in vendita la villa. È suo marito che mi manda. Non le ha parlato di me?”
Affacciandosi
al balcone, Hinata, fattasi coraggio, replicò domandando: “Mi scusi, temo di
non conoscerla: qual è il suo nome?”
“Shu è
il mio nome … ”, rispose l’altro, osservando le gocce che, una ad una, gli
scivolavano giù dalle dita guantate “… e Taka è il mio cognome”, terminò,
scuotendo energicamente la mano, asciugandola e portandola al grembo quando la
mora, seppur un poco titubante, si risolse a raggiungerlo. “E mi dica, ho forse
l’onore di parlare con la nuova padrona di villa Nakano? Con la signora
Uzumaki?”, disse, voltandosi.
Hinata
dovette sforzarsi notevolmente a mantenere serrata la bocca: dire che il
giovane dinanzi a lei era “bello”sarebbe stato un eufemismo: egli possedeva un
fascino quasi inorganico, non associabile a quello della gente in carne ed
ossa. I lineamenti eccessivamente perfetti e una serica pelle che poteva competere
con la medesima madreperla lo rendevano non dissimile ad un’opera d’arte, un
essere artificiale creato ad hoc e appositamente privo di ogni umano difetto
fisico.
“Sì …
No! … Insomma, non sono ancora la signora Uzumaki … Per quanto … ecco … un po’
abbiamo convissuto … ma non tanto …”, s’ingarbugliò la ragazza, scuotendosi
dalla sua poco ortodossa contemplazione del giardiniere, il quale gettò
indietro il capo e si sciolse in una risata più cristallina e vivace dell’acqua
della fontana, intanto che il suo viso si riempiva di squisite fossette, che lo
rendevano ancora più attraente. Arrossendo furiosamente – diamine, era a due
passi dall’altare e si metteva a fantasticare su altri uomini! – la mora si
sentì in dovere di rettificare: “Naruto
ed io ci sposeremo fra due settimane”, gli spiegò, schiarendosi la voce. “Per
il momento, siamo soltanto ufficialmente fidanzati!”
“Ah,
capisco …”, mormorò pensieroso il giovane uomo, abbassando lo sguardo sulle
mani di Hinata. “E immagino che il suo fidanzato le abbia già regalato l’anello
… quell’anello …”
“Certo”,
confermò la ragazza un poco disorientata, chiedendosi dove volesse andare a
parare.
Il
giardiniere si inumidì le labbra, mordicchiandole incerto. “Potrei … potrei
vederlo per cortesia?”, le chiese in un filo di voce, neanche le stesse
domandando di compiere chissà quale sconceria.
Per tutta
risposta, Hinata allungò la mano sinistra, tremando impercettibilmente al
contatto della sua pelle con la stoffa bagnata dei guanti del giovane: l’acqua
della fontana doveva, infatti, essere stata ghiacciata, altrimenti la mora non
si spiegava il gelo che aveva avviluppato il suo arto. E sempre parlando
dell’acqua, la luce riflessavi aveva donato agli scuri del giardiniere
un’inquietante sfumatura cremisi, rendendo giustizia al suo nome di battesimo.
“E’
davvero molto bello”, sospirò egli mestamente, abbandonato a malincuore la mano
di Hinata, che subito la ficcò in tasca, onde riscaldarla. “Lei, signorina, è
molto fortunata ad avere un fidanzato così generoso. E innamorato, suppongo.
Non molti si spingerebbero a comprarle una villa così lussuosa, con un giardino
che assomiglia ad un parco!”, disse, indicando l’insieme con un ampio gesto del
braccio. “Si preoccupa per lei, signorina, desidera darle il meglio e senza
chiedere molto in cambio, se non la sua serenità. Coi tempi che corrono,
talmente pregni di cieco egoismo e del mero appagamento dei sensi, l’atteggiamento
del suo promesso è davvero notevole …”
Nelle
sue parole Hinata vi scovò una nota di infinita, bellicosa tristezza,
spingendola ad inquisire timidamente: “Lei … lei è stato … fidanzato?”
“Oh, sì
…” Un sorriso di dolce rimembranza illuminò quel volto malsanamente pallido.
“Molto tempo fa …”, le rivelò, mentre sfiorava coi polpastrelli la sua mano
sinistra. Quand’ecco, che il tiepido sorriso si mutò in una smorfia. “Alas, vi
furono delle complicazioni assai fastidiose … e lui mi fu portato via!” e le
dita della destra si strinsero così forte al polso della sinistra, che ad
Hinata sembrò per un istante che volesse spezzarlo “Ma è acqua passata: ormai
non ci penso più!”
Silenzio
eloquente.
“Le
disturba apprendere che amavo un uomo, signorina Hyuuga?”
Sbattendo
confusa le ciglia, la mora balbettò: “Come … come fa a sapere il mio … cognome?
Sì è … informato su di … ?”
“No, no,
non sono un pettegolo. Semplicemente, la gente parla …”
Il cuore
di Hinata riprese a battere normalmente. “Ah, meno male! E comunque no, non mi
disturba affatto. A questo mondo esiste tanto di quell’odio, che a mio avviso
qualsiasi forma di amore è benaccetta! Ovviamente, sempre nel rispetto
dell’altro”, affermò convinta. “A proposito, mi può dare del tu e chiamarmi
Hinata! Signorina Hyuuga mi ricorda
troppo i tempi del collegio dalle suore!”
Il
sorriso del giardiniere si allargò ferinamente, mostrando bene i denti
candidissimi.
“Allora,
che fiori desideri come decorazione e soprattutto per il tuo bouquet, Hinata?”
Ma
l’infelice non ascoltava il gracidare delle malelingue, poiché aveva un unico
cruccio:
come
sposare l’amore della sua vita, senza l’approvazione dei genitori?
Shu
aveva la strana abitudine di comparire proprio quando Naruto non si trovava in
casa: sbucava quasi dal nulla, la salutava cortesemente e poi si dedicava con instancabile
dedizione al lavoro assegnatogli.
Non che
Hinata trovasse nulla di strano nell’intera faccenda – con il matrimonio alle
porte, il fidanzato era più fuori che dentro e per di più tanta di quella
gente entrava e usciva, neanche avessero
scambiato casa sua per un bar – ma alla mora avrebbe fatto comunque piacere
presentargli quel giovane molto volenteroso e lavoratore, che la stava
notevolmente aiutando a trasformare villa Nakano in un luogo assai meno lugubre
e malinconico. Inoltre, il fatto che il giardiniere le avesse rivelato il suo
orientamento sessuale, l’aveva notevolmente rassicurata da eventuali scenari di
infamanti pettegolezzi da parte del vicinato. L’ultima cosa che desiderava era
avvelenarsi la vita per colpa delle chiacchiere di linguacce lunghe, che non
sapevano come ammazzare il tempo se non insudiciando con bugie le esistenze
altrui.
In ogni
modo, Shu era una fonte continua di sorprese: oltre che ad aver aiutato il
giardino a rifiorire in un paio di giorni – neanche lo avesse atteso per svegliarsi dal suo sonno
ostinato – egli si muoveva con tale naturalezza all’interno della casa, che
spesso Hinata si domandava se il suo ruolo si fosse limitato a quello di
semplice giardiniere. Tanto per intenderci: la ragazza non sapeva dove si
trovava l’oggetto tal dei tali? Ecco che Shu glielo portava in un battibaleno.
Aveva smarrito la chiave di una delle innumerevoli porte? Voilà che spuntava un
doppione! L’abito da sposa doveva essere modificato? Il tempo di girarsi e Shu
glielo ripresentava risistemato esattamente nei punti dolenti, senza neppure
aver preso le misure, secondo la prassi
sartoriale. Aveva dei dubbi su come decorare una sala? Da angoli impensabili
lui estraeva pezzi di arredamento, quadri e oggettistica assolutamente adeguata
e di buon gusto. Le stanze da arieggiare e da preparare per gli ospiti erano
troppe? Nessun problema, entro sera ci si poteva dormire tranquillamente.
“C’è
qualcosa che non puoi fare, Shu?”, gli rivelò Hinata in un tardo pomeriggio a cinque
giorni dalle nozze, nel frattempo che tentava di non essere seppellita viva
dalle scatole contenenti tutto l’ambaradam necessario al rinfresco post-cerimonia
nuziale. Sfinita da tanto trafficare, si sedette, afferrando cupida la caraffa
di limonata fresca, riempiendo tosto due bicchieri, uno per lei e uno per Shu.
“Sei la
padrona, pardon, il padrone di casa perfetto! A volte non posso trattenermi
dall’invidiarti per la tua bravura … nel senso buono, eh! Per carità, io non …”
e si impappinò di nuovo, temendo di aver in qualche modo offeso il giardiniere,
specie quando lui, bloccandosi, la fissò con tale intensità, che la ragazza
giurò di aver visto nuovamente le sue iridi tingersi di rosso.
Nah,
doveva trattarsi della luce del tramonto!
“Non
posso sposarmi, Hinata. Né ora né mai. Oh, non a certe condizioni, ben inteso
…”, disse egli lentamente, lo sguardo ben incatenato al suo. “Nondimeno, la mia
esistenza non ha nulla per cui valga la pena di essere invidiata … Al
contrario, sono io colui che ne prova nei tuoi confronti …”, sussurrò,
spostando gli occhi sulla mano sinistra, che la ragazza aveva distrattamente
appoggiato sul tavolo di malachite. “Non immagini quanto …”, sospirò,
allungando le dita guantate sopra l’anulare e sfiorando in una rapida carezza
l’anellino, che rifulgeva timido alla calda luce del crepuscolo.
Discreto
contatto che venne involontariamente interrotto da Hinata, la quale, ormai
porpora, si era portata la medesima mano alla guancia surriscaldata
dall’imbarazzo. “Certo, certo … Hai perfettamente ragione, scusa … io …”,
sbrodolò, asciugandosi col dorso gli occhi nel frattanto inumiditisi di lacrime
generate dalla vergogna. “Oh Dio, che … non volevo essere così … ecco io … ti
sarai offeso, non …? Sono così sciocca a volte! Parlo senza riflettere!” e vuoi
per la situazione incomoda, vuoi per lo stress pre-imeneo, Hinata si coprì il
volto con ambedue le mani, sfogandosi in sconquassanti singhiozzi. “Perché non
riesco mai a combinare nulla di buono? Ti chiedo perdono, Shu, io non …”, ma il lieve tocco di un dito sulle sue
labbra la zittì, interrompendo quel flusso continuo di mea culpa.
“Sh, non
una parola oltre, Hinata!”
Quando
esattamente Shu aveva abbandonato il suo posto, aggirato il tavolo e sistematosi
accanto a lei? Un istante prima l’aveva visto seduto dinanzi a lei e ora la
stringeva al petto, intanto che le accarezza i lunghi capelli neri col medesimo
trasporto che una madre avrebbe riservato alla propria creatura.
“Non mi
devi assolutamente domandare scusa, mia cara, né tantomeno auto-flagellarti con
colpe, che non ti concernono”, la consolò, cullandola impercettibilmente. “Non
ti biasimo se hai supposto, che la mia vita scorresse meglio della tua: l’erba
del vicino è sempre più verde. Sai, ho come il sospetto che sia stato lo stress
da aspettative ad averti spinta a parlare così. Ti conosco da poco, eppure ho come
la certezza che tu non sia una persona invidiosa di natura!”
La
ragazza tirò su col naso. “Lo pensi davvero?”
“Mai
stato così serio, Hinata”, la rassicurò grave Shu, frugando all’interno della
tasca – perché si ostinava ad indossare dei guanti in piena estate? – e
reperendo un fazzoletto, lo usò per tamponare delicatamente gli occhi arrossati
della mora. “Su, su! Via queste lacrime, non si addicono ad una futura sposa!
Le uniche che devono scorrere sono quelle di gioia …”
Seppur
ancora poco convinta, la giovane annuì, lasciando che i suoi lunghi capelli
neri le coprissero il volto. Sennonché, afferratole delicatamente il mento, Shu
la costrinse a guardarlo dritto negli occhi. “Adesso smettila sul serio di
piangere, Hinata. Un banale malinteso non merita un siffatto spreco di energie.
Se devi per forza piangere, che sia per ragioni più gravi di questa, intensi?”,
disse, avvicinando così tanto il suo viso a quello di lei, che quest’ultima
poté discernere ogni venatura delle sue iridi scure e profonde, simili al mare
in tempesta. “Mi prometti di non frignottare mai più per certe sciocchezze,
Hinata?”
“S-sì”,
convenne l’altra, afferrando il morbido fazzoletto – addirittura di seta? – e
terminando il lavoro incominciato dal giardiniere.
“E che
mi farai ora un bel sorrisone?”, la incoraggiò quegli sollecito, scostando una
ciocca umida dietro l’orecchio di lei. Per tutta risposta, la ragazza abbozzò
ad un impacciato sorriso.
“Brava
bambina”, mormorò il giovane in approvazione, posando delicatamente le sue
labbra sulla fronte di Hinata, che rabbrividì dal gelo emanatovi e si imporporò
per l’intimità di quel gesto, per quanto casto esso potesse apparire. “E ora,
al lavoro: Naruto tornerà fra poco! E noi vogliamo fargli trovare tutto pronto,
no?”, esclamò ad un tratto il giardiniere inaspettatamente più vivace,
staccandosi in fretta dalla ragazza e battendo le mani a mo’ di esortazione.
Hinata si
ritrovò d’accordo con lui: ingollato in un sol sorso la limonata, anch’ella si
rialzò, rimboccandosi le maniche. “A proposito, Shu”, si sovvenne “non ti piace
la mia limonata? Non ne hai bevuto neppure un sorso e oggi si bolle!”, ed in
effetti, il bicchiere del giovane giaceva pieno fino all’orlo sul tavolino di
malachite.
Osservando
distrattamente la bevanda, Shu scrollò le spalle, annoiato. “Sono sicuro che è
deliziosa. Tuttavia, non ho sete; berrò più tardi”, l’assicurò, ritornando alle
sue incombenze.
Silenzio
indaffarato.
“Ehm …
Shu?”
“Sì,
Hinata?”
“Posso …
insomma, non vorrei passare per la ficcanaso di turno, però … posso porti
un’altra domanda o …?”
Un
sorriso affabile – l’ennesimo - onorò le labbra vermiglie del giardiniere. “Le
domande non sono mai indiscrete, Hinata, talvolta le risposte lo sono …”,[1] fu
il suo velato invito a proseguire, senza tuttavia distrarsi eccessivamente
dalla sua occupazione.
“Ecco,
non ho potuto fare a meno di notare la tua incredibile famigliarità con questa
casa. Per quanto tempo hai lavorato presso i suoi precedenti proprietari?”
A quel
quesito Shu esitò un istante prima di rispondere, seguitando ad appoggiare
meccanicamente le bomboniere su di una scrivania in stile Biedermeier. “Conosco
villa Nakano da una vita, Hinata”, le confessò infine, lo sguardo assente. “E
certamente meglio dei suoi indegni abitanti …”, sibilò minaccioso, aggrottando
in tal guisa la fronte e le sopracciglia, che ogni tratto gradevole del suo
viso si era subitaneamente mutato in una maschera di demoniaca ferinità, tanto
che la mora indietreggiò inconsciamente di qualche passo, giusto per portarsi a
una distanza di sicurezza, giacché dall’espressione notevolmente adirata
dell’altro ella non escludeva un eventuale lancio di un oggetto. Fortunatamente,
esso non avvenne, anzi! Quel volto alabastrino si rilassò tanto velocemente
quanto si era alterato, ritornando gentile e amabile.
“Allora”,
vinse la ragazza ogni sua ritrosia, avanzando verso il giardiniere “allora di
sicuro sarai al corrente della maledizione, che la gente di Konoha sussurra
aleggiare su questa casa!” Ecco, glielo aveva detto! E stranamente, la mora si
sentì d’un colpo estremamente sollevata, quasi si fosse tolta un enorme peso
dallo stomaco.
Una
risata sarcastica commentò la sua domanda, riecheggiando sonoramente per
l’intero pianoterra. “Che assurdità! Una maledizione?! È dunque questa la
panzana, che ti hanno rifilato? Pah, follie di beghine senza cervello!”, rise
di gusto il giardiniere, scuotendo incredulo il capo corvino. “Vuoi apprendere
il vero motivo, per cui i precedenti possessori di villa Nakano l’hanno
venduta? Perché erano sull’orlo della bancarotta e avevano bisogno di denaro
liquido e pure in fretta!”, le spiegò gioviale, apprestandosi ad aprire un
altro scatolone. Quand’ecco, che il cutter si fermò a metà strada. “A onor del
vero, ora che mi ci fai ripensare, mio padre mi aveva accennato ad un evento
piuttosto … tragico … che si è
consumato tra queste mura …”, affermò lentamente il giovane, socchiudendo gli
occhi verso l’alto, come se si stesse sforzando di riescumare una reminescenza
particolarmente ostica e nebulosa dagli abissi della memoria. “Ma è roba di
quasi centocinquant’anni fa! A chi importa, ormai?”
A me!, avrebbe voluto ribattere
energicamente Hinata, sennonché le buone maniere le suggerirono di attendere
paziente la prossima mossa del giardiniere, magari invitandolo tramite discrete
e cortesi domande a seguitare col suo racconto. “A chi … a chi apparteneva
villa Nakano?”
“Alla
famiglia Mitarashi”, rispose prontamente Shu, arcuando perplesso il
sopracciglio scuro.
Hinata
negò col capo. “No, non loro. Li conosco, sono stati i Mitarashi a vendere al
mio fidanzato la villa. Io intendevo i veri
proprietari!”
“Questo
posto ne ha avuti così tanti, che ne ho ormai perso il conto …”, le ricordò
zelante il giovane, svuotando il contenuto dello scatolone. “Ma se proprio lo
vuoi sapere, ebbene villa Nakano fu costruita dalla famiglia Uchiha alla fine
del diciottesimo secolo. Un clan molto ricco e potente, il pettegolezzo
preferito dalla gente di Konoha!”
“E … che
fine ha fatto questa famiglia?”
“Estinta”,
riassunse laconicamente conciso il giardiniere, appoggiando pigro la schiena su
di un mobile, le braccia incrociate al petto. “Come tutte le famiglie: vanno,
vengono … Nessuno è eterno … Solo il castigo divino …”
Risolino.
“Dunque,
l’episodio tragico cui facevi riferimento riguardava la famiglia Uchiha?”,
giunse Hinata alla conclusione, tormentandosi le dita dalla curiosità: la sua
parte razionale le stava suggerendo di piantarla con quella sua indiscrezione e
di seguitare coi preparativi; l’altra, invece, bramava maggiori informazioni.
“Esatto.”
“Me lo …
me lo potresti raccontare, per favore?”
“No.”
Il
rifiuto di Shu era stato talmente secco e perentorio, che la ragazza sobbalzò
visibilmente. “Farò di più”, proseguì il moro, esibendosi in un’espressione
altamente birbante e complice. “Ti porterò nel luogo dove avvenne il … fatto!”, le sussurrò all’orecchio.
Dopodiché, allontanandosi con fare giocoso, ridacchiò furbescamente: “Ma non
oggi! Non con Naruto che sta per suonare al campanello!”
“E
quando allora?”
“Presto!”
Sbuffando,
Hinata fece per rincorrere un Shu in piena fase monellaccio, sennonché uno
stridulo gargarismo elettrico la distolse dalla sua impresa. “Uffa, Shu! Perché
devi comportarti come un …?”
“Hinata!
Oye, sei in casa? Ho dimenticato le chiavi! Hinata?”
Abbandonando
un ridente giardiniere nell’angolo più remoto del salotto, una snervata mora – con te faccio i conti dopo! - si diresse
nel foyer, là dove l’attendeva un Naruto più carico di pacchi di uno sherpa.
“Finalmente,
dattebayo!”, si lasciò il biondo avvolgere dalla frescura dell’ombra,
appoggiando sfinito il suo malloppo. “Scusami, Hinata, se sono stato via per
tutto il pomeriggio! Non riuscivo proprio a trovare le stoviglie che volevi,
sono stato costretto a guidare fino a Suna per comprarle!”, si giustificò
Naruto, asciugandosi la fronte madida di sudore con l’avambraccio. “Spero che
nel frattempo non ti sia annoiata!”
“Oh no,
tesoro!”, lo tranquillizzò la mora, aiutandolo a sistemare gli scatoloni,
acciocché non intrigassero il passaggio. “Shu mi ha fatto un’eccellente
compagnia! Vedessi, poi, come mi ha aiutato a sistemare la casa! Vieni, devi
assolutamente conoscerlo!”, gli narrò entusiasta, pigliandolo per il braccio e
conducendolo in salotto. Infine si presentava l’occasione propizia per
presentarlo al fidanzato. “Shu! Ecco qua il mio …!”
Silenzio.
“Già,
Shu … Il caro, buon vecchio Shu …”, s’allargò oscenamente il sogghigno di
Naruto, incrociando le braccia al petto. “Hinata, sono commosso come, dopo tre
anni che stiamo insieme, tu ti sia finalmente decisa di presentarmi al tuo amico immaginario …”
In
effetti, a discolpa del palese sardonico scetticismo dimostrato dal biondo, il
salotto si presentava completamente vuoto, ad eccezione dell’ordine perfetto
che vi regnava e che Hinata era sicura di non ricordarsene per niente, giacché
aveva lasciato l’ambiente in un chaos totale.
La
giovane donna vide rosso. “A volte sei così …
così … insopportabile, Naruto!”, fumò ella simil teiera, salendo le
scale a due a due e precipitandosi peggio delle Erinni infernali nel suo
boudoir.
“Ma che
ho detto?”, ribatté confuso l’altro, seguendola prontamente. “Sei stata
bravissima! … Il salotto è una meraviglia! … Suvvia, Hinata! … Non fare così …
Ti chiedo scusa! … Hinata! … Hinata! …”
“Va’ in
malora!”
“Hinata!
Ti prego! Scusaaaahh!!!”
Sul
tavolino di malachite, il bicchiere di limonata era rimasto perfettamente
intatto, ricolmo fino all’orlo.
Egli
non era che il figlio di un mercante caduto in disgrazia, mentre la luce dei
suoi occhi apparteneva al fior fiore dell’aristocrazia.
No,
quest’unione violava ogni legge!
Naruto
non aveva la benché minima idea su che cosa stesse accadendo ad Hinata. Oh, non
che il futuro sposo brillasse in quanto a spirito deduttivo quando il gentil sesso veniva tirato in ballo, ciononostante
beota completo non era e perfino uno, che s’era accorto della cotta della
ragazza nei suoi confronti tramite sentito
dire, poteva affermare con assoluta certezza che la sua fidanzata stesse
attraversando un periodo no. Altrimenti, un’anima volenterosa doveva spiegare
al signor Uzumaki il motivo per il quale, a due giorni dalle sue nozze, Hinata
gli aveva per l’ennesima volta sbattuto la porta in faccia, rifiutandosi di
parlare con lui.
I due –
quasi – sposini avevano litigato.
La colpa è solo tua!, gli aveva urlato Hinata nel
gazebo, rovesciando in uno scatto di
nervi la caraffa contenente il tea ghiacciato. Tu e le tue battute del pippio! Un orangutango possiede più tatto di
te! E io che ti difendevo, quando la gente ti chiamava idiota ! Beh, aveva
ragione: tu sei un idiota! Point final!, e, sgolatasi a sufficienza e
spaccati per la parcondicio anche i bicchieri, se n’era andata via a passo
indiavolato, abbandonando un Naruto al limite dello sconcerto.
“Hey,
hey volpino! Su con la vita e giù quella bottiglia di birra!”, lo scosse Kiba –
un suo amico, collega di lavoro e testimone – dal torpore in cui si era chiuso,
nello specifico sul bancone del Ramen
Ichiraku, un piccolo ristorante dove servivano appunto ramen in ogni salsa
e i cui gestori, Teuchi e Ayame, erano stati i primi cittadini di Konoha coi quali Naruto aveva stretto amicizia un
anno addietro durante i primi mesi del suo trasferimento dalla natale Uzushio.
“Lasciami
stare, strambazzo!”, borbottò
scontento il biondo, scrollandosi la mano dell’amico di dosso e proseguendo ad
affogare i suoi dolori sia nella quinta porzione di ramen, che nel terzo
boccale di birra da Oktoberfest.
“Oye,
Naruto!”, ridacchiò partecipe Ayame, mentre asciugava una scodella,
rimettendola poi al suo posto. “Sei stato ultimamente a Kiri, ché incominci a
parlare nel loro dialetto?”
“Nah,
non starlo a badare! Il nostro sposino ha la smara stasera!”
“E via!
Basta sfottermi! Non è proprio il caso stasera, dattebayo!”, tentò il giovane
di accecare Kiba con le sue bacchette, i capelli arricciati di genuina rabbia.
“Invece
di giocare all’oculista pazzo”, lo trattenne Neji, sottraendogli il bisturi di
fortuna “raccontaci cos’è successo? C’entra mia cugina, vero? L’ho sentita
giusto oggi al telefono, mi è sembrata piuttosto depressa …”
“Depressa?
Hinata .. depressa?”, si strangolò
Naruto per poco con la sua medesima saliva. “Per i rotoli di ciccia del Buddha,
ancora un secondo in quella casa e mi sbranava vivo, peggio di una tigre del
Bengala, dattebayo!”
“Ma che
è successo?”
“E che
ne so, dattebayo!”, si strappò Naruto a momenti i capelli, tanto sguazzava
nello sconforto. “Da tre giorni Hinata altro non fa, che rimproverarmi per
essermi comportato come uno zotico nei confronti di tale Shu!”
“Shu?”
Occhiatine maliziose. “E chi è costui? L’amante? Come, come? Non sei ancora
sposato e già ti prude la testa?” e via con delle innocue risatine sfottitrici.
“Nah,
smettetela, banda di ruffiani! Shu è il suo amichetto immaginario! Insomma,
ogni volta che me lo vuole presentare, chissà perché lui sparisce
misteriosamente …” e se lo scopo di Naruto era stato di aggiungere un’aura
sinistra a quella vicenda di per sé assurda, hé, di certo col suo atteggiamento
eccessivamente melodrammatico il giovane aveva ottenuto semmai l’effetto
opposto: cognato e amico, infatti, si dovettero trattenere la pancia dal
ridere.
“Sicuro!
E magari per nascondersi sotto il letto!”
“E
dagli, dattebayo! Volete che vi impicchi alla porta?”, sventolò il giovanotto
il pugno sotto al naso dei due, minaccia non molto sottile di cambiarli i
connotati, in caso avessero insistito nel loro proposito dileggiatore.
E difatti,
Neji, ritornando improvvisamente serio, pose in avanti le mani. “Naruto,
calmati! Si diceva così, tanto per scherzare!”
“Ovvio,
che Hinata non ti decorerebbe mai la testa!”, rincarò la dose Kiba, anch’egli
rinsavito da ogni afflato istrionico.
“La mia
fidanzata mi ritiene responsabile di aver fatto scappar via il suo amico
immaginario e voi, razza di befane in calore, ci ridete sopra? Beh, io non lo
trovo affatto divertente, dattebayo!”
“Naruto
… ascolta …”
“Il signor
commissario ha ragione”, convenne un’anziana signora seduta poco distante da
loro. “Non c’è niente da ridere, non quando c’è villa Nakano di mezzo! Quel
postaccio avrebbero dovuto demolirlo già dal secolo scorso! Invece, qualcuno lo ha impedito …”
“Koharu”,
l’ammansì Teuchi con tono conciliante, sperando di dirottare la conversazione
altrove: perfetto, oltre che alla paventata rissa gli mancava pure la vecchia
matta del villaggio, che si metteva a raccontare storie di fantasmi al posto di
servire l’ammazza caffè! “Non mi dica, che anche lei crede a quelle stupide
scempiaggini di beghine annoiate!”
Utatane
Koharu, ex-membro del consiglio cittadino di Konoha, si alzò dal suo posto e,
posizionatasi davanti al gestore del ristorante, gli mostrò a distanza
ravvicinata il pomello del suo bastone da passeggio. “Taci, anatra ripiena! È
facile per te parlare: tu non hai vissuto, quel che io ho invece sperimentato
in quell’infernale villa!”, berciò la donna, gonfiandosi come un tacchino e
sminuendo con la sua aria autoritaria il povero Teuchi, che si rimpicciolì,
sopraffatto.
Al
contrario, la gioventù si spostò con le sedie più vicino a lei, le orecchie ben
tese.
“Tu,
ocone infarcito, non eri lì, quando trovarono nel boudoir la figlia
dell’industriale Yamanaka con la mano sinistra mutilata!”
Uno
scioccato silenzio ammutolì tutti gli astanti del Ramen Ichiraku; l’unico rumore rimasto era il ritmico bollore della
zuppa di miso.
“La … la
mano sinistra mutilata?”, ripeté Naruto incredulo, respirando appena. “E chi
…?”
Una
risata sardonica sfuggì dalla bocca sottile della donna. “Chi, chiede lui! Povero signor commissario, non conosce la Ballata della Sposa Mancata di Konoha?”,
inquisì beffardamente perplessa, puntando i suoi occhi scuri contro quelli
azzurri del biondo. “Fate quindi
attenzione, care fanciulle, il giorno delle vostre nozze!”, recitò Koharu
un verso, afferrando il suo bicchiere di liquore e tracannandolo in un sorso.
Di nuovo
silenzio.
“Signora
Utatane, io non sono di queste parti: di conseguenza, non ho la più pallida
idea di chi possa essere questa Sposa Mancata,
sebbene non si faccia altro che sussurrarmelo alle spalle, ogniqualvolta
passeggio per il centro di Konoha. La gente sostiene essere un fantasma, però,
in tutta onestà, mi risulta assai arduo crederci!”
Koharu
sogghignò perfida. “Le stesse parole, che il padre di mia zia Ino pronunciò il
giorno in cui decise di comprare villa Nakano dall’ultimo degli Uchiha. Un
vecchio pazzo, come pazza era sua moglie e come pazzi erano tutti lì dentro!
Colpa della Sposa: uno ad uno li ha condotti alla follia, non se n’è salvato
nessuno! Tranne la sua bastarda, ovviamente, ma perché era la figlia del
diavolo!”
I tre
giovani deglutirono penosamente, pendendo oramai dalle labbra dell’anziana
signora, che proseguì: “All’epoca ero una bambinetta e neppure io badai più di
tanto a simili dicerie. Infatti, a quei tempi la tragica decadenza della
famiglia Uchiha venne accreditata ad una serie di infelici coincidenze. Tzé!”,
scosse la donna energicamente il capo, estraendo dalla borsetta un lungo
bocchino nero, infilandovi dentro una sigaretta.
Accesala,
Koharu ne aspirò il forte fumo, nel frattempo che si massaggiava la tempia
sinistra. Infine, rivelò in un grave sussurro: “Io ho visto la Sposa.”
I suoi
ascoltatori smisero di respirare; similmente i loro cuori ebbero un tuffo.
“Non
fissatemi come la controfigura di un pesce palla! Sì, l’ho vista e no, non
avevo bevuto quel giorno! Né è l’Alzheimer che parla per me! Io ho visto come
la Sposa si è presentata a mia zia, come l’ha avvicinata con quel suo viso
d’angelo, la voce soave di chi non farebbe del male ad una mosca!” Altra nuvola
di fumo. “E ho visto con che occhi
fissava l’anulare portante l’anello! Come un lupo affamato!” Lungo sospiro. “Lo
stesso anulare, che venne reciso alla mia povera zia il giorno delle sue
nozze!”, terminò ieratica, spegnendo nervosa la sigaretta nel posacenere. “Scusami,
Teuchi: mi ero dimenticata, che è proibito fumare qui dentro!”
“Impossibile!”,
replicò invece Kiba, alzandosi di scatto. “Ci sta forse dicendo, che un
fantasma avrebbe per davvero tagliato un dito a sua zia?”
“Non un
dito, ignorante, il dito; stiamo pur
sempre parlando di una “sposa”! E comunque, non tutti i fantasmi sono eterei;
alcuni di loro si presentano dannatamente corporei …”
“Sì,
però, che fine ha fatto l’anulare? E l’anello?”, s’informò Neji.
“Spariti.”
Tre
labbra inferiori tremarono impercettibilmente. “Spariti?”
“La
Sposa ne aveva bisogno”, fu la sibillina spiegazione di Koharu, prima di
scendere dalla sua sedia e di pagare il dovuto al gestore, scusandosi
nuovamente per la sua irruenza di poco fa. “In ogni modo, signor commissario”,
disse la donna a Naruto, fermandosi all’uscita “a casa ho una foto della Sposa:
gliela scattai a tradimento, a qualche giorno dalle nozze amare e mai più
avvenute. Se dovesse avere ancora dei dubbi, non esiti a porgermi una visita;
possiedo altre cosucce interessanti su quest’anima dannata. Tuttavia, fossi in lei,
mi preoccuperei piuttosto di raccogliere baracca e burattini e di ritornartene
a Uzushio il prima possibile, rinviando le nozze come minimo fra cinque anni:
quando la Sposa ha designato il suo obiettivo, non c’è angolo in tutta Konoha,
in cui vi possiate nascondere dai suoi occhi maledetti!”
Detto
questo, uscì.
Quella
notte, Naruto non riuscì ad addormentarsi: l’afa estiva aveva raggiunto livelli
insopportabili e il giovane, stufo di rigirarsi simil braciola sulle lenzuola
disfatte e madide di sudore, decise di schiarirsi le idee e di rinfrescarsi
uscendo in giardino.
Aveva
bisogno di riflettere.
Tutto
stava prendendo una piega assurda e disastrosa; infatti, due settimane
addietro, il giovane commissario si era figurato l’antivigilia del suo
matrimonio come un momento certamente carico di stress e di ansie, ma felice,
spensierato e soprattutto in compagnia
di Hinata.
Invece,
contrariamente alle sue aspettative, aveva trascorso l’antivigilia a tentare il
suicidio mangereccio da Ramen Ichiraku e
a farsi riempire la testa di grottesche stramberie ultraterrene da una signora,
ch’era meglio andasse in casa di riposo. Naturalmente, dopo essere stato
informalmente cacciato via di casa dalla sua futura moglie.
Concentrandosi
sullo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi sandali, Naruto si fermò per un
istante, voltandosi in direzione di villa Nakano e contemplandone l’elegante e
distinta silhouette stagliarsi alla torrida luce di una luna rossa e calante.
Pensare, che il biondo vi aveva investito tante speranze! Sin dal giorno in cui
l’anziana Anko Mitarashi gli aveva ceduto le chiavi, egli già s’era immaginato
al suo interno una vita serena, costellata di piccole gioie e dal calore di una
famiglia finalmente tutta sua. L’infanzia del giovane commissario non si poteva
annoverare tra le più felici ed era per questo suo atteggiamento disincantato e
pragmatico, che non aveva minimamente dato credito alle inquietanti storie
riguardanti la casa. Diamine, vi aveva perfino vissuto da solo per un anno! No,
l’intero bedlam era incominciato dall’arrivo di Hinata …
Perché soltanto la mano sinistra
della signorina Anko indossava un guanto?, si ritrovò un perplesso Naruto a riconsiderare
quel piccolo dettaglio, che all’epoca non vi aveva dato alcun peso.
Inutile
negarlo, le parole di Utatane Koharu non cessavano di ronzargli moleste per il
cranio, tormentandolo. Era forse possibile, che sotto quelle fiabe da balia si
celasse un fondo di verità? Che una presenza maligna avesse trovato il modo di
divenire abbastanza corporea appositamente con lo scopo di mutilare una sposa?
E perché? Che cosa ne avrebbe guadagnato?
L’anulare
… l’anello di fidanzamento … La Sposa ne
aveva bisogno …
Inconsciamente,
Naruto contemplò il suo quarto dito sinistro: fra poco più di un giorno, una
fede nuziale vi avrebbe brillato. Una vera …
E se …?
Quale oltraggio maggiore …? Quale impedimento …? Quale, oh Dio santissimo!, quale
ripicca migliore! …
Fantasma?
Pah, doveva essere l’operato di un pazzo, di un criminale, di un essere in
carne ed ossa che aveva osato compiere il più ingiurioso degli atti a danno di una
futura sposa! E qui di nuovo: ma perché? Cosa potevo averlo spinto? O averla spinta: nella mente del biondo
commissario, incominciava in effetti a sorgere il sospetto, che simile
carognata poteva essere stata compiuta sia da un uomo – un innamorato respinto?
– che da una donna – una rivale! Un pendaglio da forca che, sfruttando le
leggende popolari, aveva inscenato quella grandguignolesca vendetta.
Eppure,
leggendo tra le righe, l’episodio di Yamanaka Ino non pareva essere il solo …
Aspetta! Significava forse, che ve n’erano stati degli altri? Assurdo! Insomma,
l’amputazione dell’anulare della ragazza, come caso a sé stante, aveva senso …
Ma collegato ad altri? Dov’era, dunque, il file rouge?
… Ding- Dong!
Naruto
sussultò, bloccandosi guardingo simil gatto in piena caccia notturna,
rilassandosi subito dopo. Che sciocco, si trattava soltanto della solitaria
campana della cappella di villa Nakano, che annunciava la mezzanotte.
La
mezzanotte!
“Cavolo!”,
realizzò il biondo con impacciata meraviglia. “Domani mi sposo …”
Un
brivido freddo gli scese per tutta la lunghezza della spina dorsale e non di
certo per il felice nervosismo. O per il freddo. I vapori dell’afa si erano nel
frattempo raccolti e vivacizzati in un vento man mano sempre più gagliardo,
sollevando aria bollente da terra, che scuoteva le fitte fronte degli alberi
per poi ricongiungersi alla luna, la quale venne prontamente inghiottita da grassi
e bellicosi cirri nero inchiostro, rabbiosi annunciatori di un temporale.
Decisamente
era il caso di rientrare e anche in fretta: se nel suo cogitare, Naruto aveva
raggiunto la cappella – e il camposanto di famiglia annesso – doveva essersi
conseguentemente allontanato parecchio dalla villa. E ciononostante,
un’inspiegabile curiosità aveva ghermito il cuore del giovane, portandolo ad
indugiare a metà strada. Che fare? Ritornare oppure ..?
Quale
arcano desiderio stava guidando i suoi piedi verso il piccolo cimitero della
proprietà?
… in cui decise di comprare villa
Nakano dall’ultimo degli Uchiha …
Gli
Uchiha … coloro che avevano costruito villa Nakano …
Che
fossero ancora lì seppelliti?
Elargendo
un energico colpetto alla torcia e presi due bei respiri profondi, Naruto si
avventurò in direzione della chiesetta, aggirandola e proseguendo per il retro,
là dove il sentiero si’infoltiva di erbacce, le quali, straripando dalle loro
recinzioni artificiali, lo occupavano e lo rendevano pressoché inagibile, a
volte perfino cancellandolo. Testardo, il giovane commissario non si lasciò di
certo scoraggiare da queste quisquiglie e per l’appunto proseguì tra un balzo e
l’altro, sperando di non incappare in alcuna spiacevole sorpresa, poiché l’erba
in certi punti cresceva così alta da imitare la placida superficie del mare,
adesso tuttavia scossa in tumultuose onde a causa del vento, infrangendosi
sulle bricole e paline ch’erano divenute le lapidi.
… Un vecchio pazzo, come pazza
era sua moglie e come pazzi erano tutti lì dentro! …
Muschio,
edere, l’azione corrosiva degli agenti atmosferici e ovviamente il tempo
avevano reso la lettura degli epitaffi piuttosto difficoltosa; nondimeno,
gettandovi un’occhiata distratta, Naruto intuì che le tombe più antiche erano
databili verso la fine del Settecento e che non doveva essere rimasto al mondo
alcun tipo di erede, poiché il camposanto giaceva nell’abbandono totale, anche
fin troppo nel caso vi fosse stato seppellito un lontano parente da poco deceduto.
Che triste! Una famiglia così importante, che aveva edificato uno splendore di
villa, relegata ora in un pezzetto di terra incolta, dimenticata da tutto e
tutti!
… Colpa della Sposa: uno ad uno
li ha condotti alla follia, non se n’è salvato nessuno! …
E in
effetti, Naruto appurò che le date del decesso degli Uchiha più “recenti” si
susseguivano una dietro l’altra: 1861,1862, 1863 … e avanti così per dieci anni
di fila, ordinate e pulite.
“Marcite
all’inferno”, leggeva incredulo il biondo in un filo di voce le colleriche e disordinate
incisioni, che deturpavano l’epitaffio di ciascuna lapide, come se qualcuno
avesse in uno scatto di nervi afferrato una pietra tagliente e vi avesse
sfogato tutto il suo rancore. “Marcite all’inferno, figli di cagna, marcite
all’inferno assieme a me …”
Deglutendo
per inumidire la gola divenutagli d’un colpo secca, il giovane commissario
proseguì il suo studio, notando come la serie di morti giungesse al suo termine
nell’anno 1870. Evidentemente, al triste appello mancavano solamente uno o due
Uchiha e Naruto non faticò molto a scovare le loro tombe.
R.I.P.
HARUNO SAKURA
(1843-1879)
Un dolce fiore di ciliegio
Che il diavolo avvizzì anzitempo
La follia la condusse qui.
Doveva essere la moglie di uno di
loro; strano però che non sia stato aggiunto il cognome del marito, meditò un Naruto leggermente interdetto, passando i
polpastrelli sugli scarabocchi, tentando di decifrarli: anche quella lapida
aveva subito il medesimo atto di vandalismo. Come … come se non avesse fatto in tempo a sposarsi … come se fosse
morta prima … però … trentasei anni … a quell’epoca era già troppo “vecchia”
per le nozze … non ha alcun senso … a meno che “Haruno” non fosse stato il
cognome del primo marito, però lo stesso non … Hey! Ma tu guarda che figlio di
…!
Puttana.
Scrofa.
Ladra.
Me la
pagherai.
Voilà le
parole che s’accompagnavano al mesto epitaffio, insulti che molto probabilmente
il fidanzato o il marito o chiunque avesse avuto a cuore codesta Sakura s’era
premurato più volte di cancellare e con scarsi risultati a giudicare dalla
profondità delle incisioni.
Inumidendosi
nuovamente le labbra, il biondo passò alla tomba lì accanto, l’ultima.
Qui giace:
UCHIHA SASUKE
(1842-1919)
Finalmente libero.
“Leggi qua, leggi qua Hinata!
Chiunque ha scritto questa roba, doveva essersi fumato un bel po’ di erba!”
“ Naruto, non essere
irrispettoso!” Piccola pausa incuriosita. “Che c’è scritto?”
“ Oh, delle cosette molto allegri
e rassicuranti tipo: Tornatene all’inferno, maledetto!”
Mai.
“Oppure: Lasciami in pace! …”
Non
sarai mai libero da me!
“… Dio mio, proteggimi da lui!”
Ti
aspetto nell’eterno abisso …
“Oh, questa è la migliore: Ha preso mio padre.
Ha preso mia madre. Ha preso tutti i miei parenti. Ha preso Sakura. E ora …?
Perché non prende anche me? Perché continua a tormentarmi? Vattene via,
demonio!”
... stupido
fratello!
“Chi va
là?”, gridò Naruto a pieni polmoni, girandosi di scatto e puntando la torcia contro
il fitto buio. Dio del cielo! Aveva davvero udito delle … risate? Un
gracchiante gorgoglio che lo dileggiava beffardo?
Un
insistente battito d’ali. Sfregamento di lucenti penne nere.
“Pah …
corvi …”, si rilassò il biondo, sospirando di sollievo e tuttavia avviandosi a
passo spedito verso la villa: che gli Uchiha e i loro segreti se ne andassero
tutti allegramente in malora, nulla a questo mondo avrebbe persuaso il giovane
a rimanere in quel lugubre cimitero per un secondo di più!
“Ma te guarda in che razza di situazioni mi
vado ogni volta a ficcare! Come se non mi bastassero le rogne del lavoro! A
quest’ora dovrei essere tranquillo e beato a casa mia, nella mia stanza,
nel mio letto, con la mia Hinata e non in giro per cimiteri a
frugare tra i croccanetti di una qualche famiglia di svitati vissuta secoli fa,
dattebayo!” , si lagnava sottovoce tra sé e sé, abile escamotage per rilassare
i nervi tesi ed infondersi al contempo una sana dose di coraggio.
L’intero
suo corpo non cessava, infatti, di tremare e la maglietta a causa del sudore
gli si era attaccata alla pelle umida, delineando le linee del torace e della
schiena. Stancamente, il biondo si passò una mano sugli occhi, percependo un
malsano torpore, un continuo vorticare , nonché una bizzarra pesantezza alle
gambe. Avanzava barcollando, senza rendersi conto della direzione intrapresa o
in che ordine avesse dovuto muovere dei piedi divenuti pericolosamente autonomi,
inciampato per poco sul bordo della vasca della fontana, sbucata chissà dove da
quel buio schifosamente pesto.
Ripigliando
tosto l’equilibrio compromesso, Naruto immerse nell’acqua deliziosamente fresca
le mani, rinfrescandosi il viso e il collo. Godimento puro. E per magia, ogni
cruccio e timore sembravano essersi dissolti, apparendogli infantili e stupidi.
Che idiota! Come aveva potuto lasciarsi spaventare da un paio di pennuti? Da
degli ossetti vecchi come il cucco? L’afa gli stava davvero giocando un brutto
scherzo, friggendogli impietosa il cervello!
Non
c’era niente di cui aver paura! Niente!
Adesso
sarebbe rientrato a casa, rinfilato sotto le coperte e …
“Amico immaginario, eh?”
La
frescura piacevole dell’acqua divenne improvvisamente una gelida maschera, che
qualcuno alle sue spalle lo costrinse ad
indossare, spingendolo con inaudita forza sottoacqua.
Terrorizzato
dalla mancanza di ossigeno e dall’impellente bisogno di respirare, che gli bruciava
i polmoni ad ogni asfissiante secondo, Naruto si contorse di riflesso,
scuotendo il capo, mulinando invasato le braccia e cercando affannosamente ogni
tipo di leva onde potersi sollevare e quindi riemergere con la testa
dall’acqua, la quale si stava infilando maligna su per il naso, nella sua bocca,
nelle orecchie. Invano: imperturbabile a
quei tentativi di liberarsi, il suo misterioso aggressore seguitava serafico ad
esercitare una ferrea quanto mortifera pressione, tenendolo di conseguenza
fermo e impedendogli di riaffiorare da quello che aveva designato essere
l’ultimo giaciglio mortale del giovane.
Ben
presto, complice anche il razionamento non molto savio dell’aria, Naruto cessò
di dimenarsi, percependo ogni suo senso ovattarsi assieme ad un fastidioso
ronzio alle orecchie e una grande voglia di chiudere gli occhi, fatale
desiderio gentilmente offertogli dal suo cervello privato del prezioso ossigeno
per quasi due minuti.
Una
volta raddoppiati, esso avrebbe dato infine forfè e allora …
La presa
d’acciaio si ingentilì in una più leggera e delicata, la quale al posto di
costringerlo là dove solamente i pesci sopravvivevano, lo issò di peso e lo
ricondusse tra i suoi simili. La bocca del giovane commissario si spalancò in
automatica in un rauco e rospesco gasp!,
ingollando avido tutta l’aria disponibile in gracidanti singulti e,similmente ai bifolchi della Licia
rappresentati nella fontana di Latona a Versailles, anche il biondo cadde a
carponi sopraffatto da tale esperienza, rigettando in un unico abbondante
flusso l’acqua tracannata controvoglia e quel che non aveva digerito della
cena, tossendo nel frattempo scompostamente e ingolato.
“Naruto?”,
lo chiamava una vocina titubante, alternandosi ora a delle carezze circolari
sulla sua nuca dei discreti ma decisi colpetti alla schiena, aiutandolo a
liberarsi completamente dell’acqua ingoiata.
Ripulendosi
gli angoli della bocca, il biondo si voltò verso la fonte di quel richiamo,
stupendosi grandemente di vedere Hinata scalza, con indosso soltanto una
leggera camiciola da notte e
inginocchiata accanto a lui. E perché poi si doveva stupire? La ragazza
abitava con lui; di conseguenza, era assolutamente logico che fosse stata lei la prima a
prestargli soccorso …
E
allora, come mai quell’attimo di esitazione da parte sua? Perché Naruto
seguitava a fissare stranito e dubbioso la sua fidanzata? E soprattutto,
cos’era quella molesta sensazione di sbagliato
quando un’apprensiva Hinata lo abbracciò con trasporto, sussurrandogli
all’orecchio paroline di conforto?
“Hai
visto?”, si staccò Naruto da lei, afferrandola saldamente per le spalle e
puntandole contro gli occhi cerulei.
La mora
sbatté disorientata le ciglia. “Cosa? Cosa avrei dovuto vedere, tesoro?”,
disse, alterandosi in seguito un poco. “Come mi lasciavi vedova prima ancora di
sposarci?”
Snervato
e poco incline alle battute di spirito – argh! Quella parola! – il giovane
commissario scosse il capo. “Hai visto chi era alle mie spalle? Chi mi ha messo
la testa sottacqua? Hinata, se sei accorsa da casa, devi per forza aver notato
qualcuno, dattebayo!”
“Ma …
con questo buio … non saprei …”
Mentiva,
oh era così evidente! E non per il suo tipico balbettare, no: a tradirla era
quel suo ostinarsi a non volerlo guardare in faccia mentre gli stava
raccontando quella frottola!
“Hinata!”,
l’ammonì perentorio il fidanzato, stringendo gli occhi in una linea severa.
“Non mi rifilare certe panzane: come mi avresti allora trovato a colpo sicuro,
se non riuscivi a muoverti per via del buio?”
V’era in
lei qualcosa che gli suonava un po’ strano.
Solo qualcosa? Ma era
un’intera sinfonia sbagliata!
Hinata,
la sua Hinata, che dinanzi ad
un’occhiata simile si sarebbe contorta come Bretzel, stava sul serio
ricambiando con placida indifferenza il suo sguardo, il capo leggermente
reclinato? E sempre con quella annoiata flemma, ella gli rispose:
“ Non
c’era nessuno dietro di te, Naruto! Nessuno!”
Fu il
turno del biondo di protestare la sua incredulità, esibendosi subito in una
serie di ma. “Nessuno? E secondo te,
avrei tentato di annegarmi? Da solo? Alla vigilia delle nostre noz- … umphf!”,
non gli venne concesso di terminare, giacché Hinata, afferratogli il viso,
l’aveva zittito con un bacio imperioso.
“Sarà
stato un incidente, amore. Eri stanco, accaldato e magari ti eri sporto troppo
dai bordi della vasca, scivolando di conseguenza … Non ti fissare con questa
solfa della “teoria del complotto”! In tutta onestà, chi mai avrebbe voluto la
tua morte?” e rise di cuore, mostrando i denti perfetti. “Suvvia, tesoro,
andiamo a dormire! Non dobbiamo affaticarci troppo: domani sarà un grande
giorno … per entrambi …”, gli
sussurrò all’orecchio, schioccandogli in seguito un bacio sulla tempia. “Non
credi?”
“Hinata
… io …”, provò ad argomentare Naruto, preso di contropiede dall’atteggiamento
eccessivamente intraprendente della fidanzata.
Perché alla mattina mi caccia e
alla sera mi rivuole nel suo letto?
Ma,
oh-oh, mica così spiacevole!
Sennonché
…
“Naruto!
… Naruto, dove sei? … Naruto! … Naruto,
ti chiedo scusa, mi sono comportata male, però per favore non giocarmi certi
scherzi! … Vieni fuori per favore! … Naruto! …”
Un paio
di occhi celesti si spalancarono, fuori di sé dal terrore.
“Sentito?
È ora di fare la nanna, tesoro!”
L’unica
cosa che Uzumaki Naruto contemplò, prima di venire inghiottito dall’oscurità
dell’incoscienza, furono due ferini e compiaciuti occhiacci cremisi …
Poi, il
nulla.
Spiegatelo
voi, però, a due anime innamorate! Un unico cuore, un unico pensiero.
Teneri
baci, impudiche carezze e la promessa di appartenersi l’un l’altro, ora e per
sempre.
To be continued …
****************************************************************************************************
[1] = citazione da Oscar Wilde
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Capitolo 3 *** Agosto 2012 - seconda parte ***
Jetzt geht’s weiter!
Malgrado
la peste germanica mi abbia colpita e affondata e ora stia imitando alla
perfezione Violetta Valéry, tra un giro di medicine e l’altro ho scritto il
capitolo. Sorry per coloro che attendevano altri aggiornamenti – questa storia
non sembra molto gradita, pazienza – ma nelle mie condizioni questa era l’unica
che mi sentivo di scrivere. Le altre sono troppe articolate per il mio povero
cuoricino ammalato T^T. Ergo, pazientare per i prossimi! ^^ Inoltre, appunto
perché sono ammalata, non si accettano flames se questo capitolo è venuto …
bizzarro?! I deliri dei tossicolosi sono moooolto pericolosi (rima inclusa)!
In ogni
modo, gioite! Con questo capitolo siamo a metà storia! Dal prossimo ci avviamo
già alla conclusione! Yup, le storie dell’orrore non durano mai troppo!
Un sentito
ringraziamento ai miei lettori, a coloro che hanno messo questa storia tra le
preferite, tra le seguite e tra le ricordate! Uno speciale ringraziamento ai
miei due recensori preferiti, Jooles e Sagitta72, miei sostegni e stimolo a
continuare la storia!
Bien,
altro da aggiungere non ho, tranne l’augurarvi una buona lettura!
H.
*****************************************************************************************************************
Agosto 2012, segue.
Tutto
appariva così strano alla luce del sole: sparita l’ambiguità delle tenebre, una
volta che il sole aveva preso il posto della luna sulla volta celeste, ecco che
le esperienze vissute la notte scorsa sembrano null’altro che il prodotto di un
incubo generato dalla febbre. Terrifici ghirigori di una mente accaldata e
spaventata.
Schiudendo
lentamente le palpebre, Naruto si guardò attorno, disorientato dal ritrovarsi
disteso nel suo letto, nella sua stanza appena appena illuminata dal sole
filtrante dalle veneziane e rinfrescata dal venticello, che ingrossava le
tende. Accanto a lui, rannicchiata in posizione fetale, Hinata dormiva.
A quella
vista, il giovane commissario balzò d’istinto giù dal letto, i ricordi della
notte trascorsa subito riaffiorati con orrida nitidezza nella sua mente.
Puliti, precisi. Neppure il privilegio del dubbio.
“N-Naruto
…?”, sgranò la ragazza i suoi occhioni, svegliata dal tonfo di uno che fuggiva
precipitosamente dal proprio letto. Puntellatasi sui gomiti, la mora lo fissò a
lungo, interdetta dallo spettacolo del suo fidanzato appiccicato al muro come
una zanzara dall’altra parte della camera. “Come … come ti senti?”, gli domandò
poi assai preoccupata.
“Come mi
sento?”, ripeté stupito il biondo, chiedendosi se il mondo avesse preso a
girare all’incontrario.
“Ieri
notte mi hai parecchio spaventata”, proseguì Hinata, ignorando la replica del
fidanzato e avanzando verso di lui. “Uscire con quel temporale … lasciarmi qui
da sola … e poi … quando ti ho ritrovato … Dio mio … giacevi per terra, ti
stavi coprendo gli occhi con le mani e … ti contorcervi, urlavi … Non ti ho mai
visto così, Naruto, io … io ho avuto paura che … oh, Dio mio!”, guaì la
ragazza, nascondendo il viso sul petto dell’altro. “Che cosa ci sta succedendo?
Prima litighiamo, poi … poi vieni colto da queste crisi … e domani ci sposiamo!
Naruto!”, alzò ella di scatto la testa, guardandolo dritto negli occhi celesti.
“Ho la netta sensazione, che qualcuno voglia
impedirci di celebrare le nostre nozze! È assurdo, eppure ogni angolo di questa
maledetta villa parve volermi urlare: Non
ti sposerai mai! Mai! Non sarai mai felice con lui! Mai! Oh, Naruto, che
stia impazzendo?”
Sì,
decisamente era la sua Hinata la giovane piangente e aggrappata a lui. Nei suoi
occhi chiari mancava la malizia intravista ieri notte dal giovane commissario,
mancava la demoniaca tristezza, mancava l’odio
profondo … Non v’era inganno in essi. Era lei. L’incubo non sussisteva più.
Naruto
l’abbracciò fortemente, stringendola a sé.
“Va
tutto bene, tesoro”, mormorò egli, cercando di infondere ad entrambi coraggio. Per
la pace della ragazza, decise di non raccontarle niente sulla sua scampagnata
nel piccolo camposanto della villa, né del tentato omicidio a suo danno. “Sarà
stata la stanchezza dettata dai preparativi e da quest’afa atroce. Non ti
preoccupare, non ti succederà nulla”, la consolò, sollevandole piano il viso ed
elargendole un dolce sorriso incoraggiatore, dopo averla baciata. “Provvederò a
far tacere quanto prima queste fastidiose voci, te lo prometto!”
Ancora
un giorno.
Dopodiché,
sarebbe finito tutto.
Forse.
… Se dovesse avere ancora dei
dubbi, non esiti a porgermi una visita; possiedo altre cosucce interessanti su
quest’anima dannata …
Prima
ancora di rendersi conto delle sue azioni, Naruto si trovava davanti al
cancello d’ingresso della villetta dove viveva Utatane Koharu, una casetta molto
coccola circondata da un giardinetto curatissimo, senza scivolare nei
kitschissimi e orripilanti nanetti o strane decorazioni animali e/o vegetali. Un
posto vezzoso e al contempo elegante, che rispecchiava alla perfezione la
personalità della padrona. Eppure, per quanto graziosa essa potesse essere - non
riuscì il biondo a trattenersi dal paragonare mentalmente - la casa della signora
Utatane pareva una catapecchia a confronto di villa Nakano.
In ogni
modo, dopo aver suonato per ben tre volte il citofono senza aver ottenuto
alcuna risposta, il giovane commissario ponderò a fondo l’opzione di lasciar
perdere quella balzana visita e di ritornare da Hinata, che aveva nel frattempo
lasciato a casa dei genitori con la scusa di concordare gli ultimi preparativi
per l’indomani e più tardi di festeggiare con le sue amiche l’addio al
nubilato. Ora che Naruto ci ripensava, con la scusa di aver rimuginato per
tutto il giorno la proposta dell’anziana signora e di essersi deciso ad
onorarla solamente nel bel mezzo della visita ai futuri suoceri, stava facendo
tardi al suo addio al celibato. Tzé,
come se ne avesse avuto voglia! Magari la settimana scorsa si sarebbe fiondato
a quella festa senza pensarci due volte; al contrario, adesso non aveva alcuna
intenzione di festeggiare, non con ancora in mente il viso di Hinata rigato di
lacrime e decisamente non con l’immagine di quegli occhiacci malevoli marchiata
a fuoco nella sua memoria.
Aveva
altre priorità e non poteva per ora
permettersi il lusso di lasciarsi coinvolgere in lazzi osé.
Dannazione,
perché quella vecchia bacucca non gli apriva il cancello? Lo invitava per poi
farlo ammuffire alla soglia di casa sua? Che poca creanza!
Sbuffando,
Naruto optò per una ritirata strategica – sarebbe ritornato più tardi –
sennonché lo stridulo nasale del comando a distanza, lo schiocco della
serratura e il cigolio del cancello che si apriva in una minuscola fessura lo
bloccò, persuadendolo a fare dietrofront. Che la signora Utatane non l’avesse
udito? Accidenti, se non era sorda!
Rincuorato
dalla prospettiva di poter infine conversare con la donna e così dissipare una
volta per tutte quegli atroci dubbi, che stavano corrodendo sia Hinata che lui,
il giovane accelerò il passo, volando quasi sul piccolo selciato di ghiaia e
presentandosi impaziente davanti alla porta di casa.
“Buonasera,
signora Utatane, sono il commissario Uzumaki Naruto. Ieri mi aveva detto che
…”, s’interruppe all’improvviso il biondo, essendogli le parole letteralmente
morte in gola non appena la porta si aprì, rivelando non l’anziano viso pieno
di macchie e rughe della signora, bensì uno assai più giovane e piacente.
E
terribilmente nervoso.
“B-buonasera
commissario … come sta? Cercava … cercava forse mia nonna? Ah, mi scusi, non mi
sono presentata: sono Tenten, sua nipote …”, asserì inquieta la giovane donna
dinanzi a lui, i cui occhi vagavano ovunque tranne che sul viso di Naruto che,
ammorbidendo il tono, tentò un approccio più rassicurante (attendere troppo non
rende mai le persone affabili):
“Sì,
signorina Tenten, ieri sera sua nonna mi aveva invitato a casa sua per discutere
su delle questioni assai pressanti. Chiedo venia per l’ora tarda, ma oggi mi è
stato pressoché impossibile trovare un solo attimo di tranquillità. State forse
cenando? Giuro che non è mia intenzione disturbare sua nonna più del dovuto,
bastano solo cinque minuti e …”
“Signor
commissario”, pose fine la ragazza ai vari mea culpa del biondo, zittendolo
bruscamente. “Temo che mia nonna non si trovi nelle condizioni di poter parlare
con lei”, disse con un filo di voce, tirando su col naso.
Un
orrido sospetto s’insinuò nella mente di Naruto e quest’ultimo sperò di essersi
sbagliato grandemente.
“Comprendo.
Forse non si sente molto bene”, esordì lentamente, studiando accorto le
reazioni della sua interlocutrice. “Vorrà dire che passerò un’altra volta. I
miei auguri per una pronta guarigione.”
Tenten
scosse il capo bruno. “Non ci sarà una prossima volta, signor commissario.
Vede”, e dovette fermarsi per un attimo, respirando a fondo “mia nonna …”,
altro sospiro spezzato “… è morta.”
Il mondo
crollò addosso sulle spalle del biondo, mentre ogni suono parve giungergli
ovattato, distante. Forse, il suo cuore manco più gli batteva in petto. Rimase
dunque così, gelato dalla notizia, a fissare stranito la bocca della giovane
che si muoveva freneticamente, raccontandogli tra veri singhiozzi trattenuti le
dinamiche generali di quell’inaspettato decesso.
“Stamattina,
verso le nove, sono venuta a trovarla come mio solito. Siccome non rispondeva e
lei sorda non era, ho usato le mie chiavi, un doppione”, gli narrò Tenten,
frugando nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto. In automatico, Naruto le
offrì uno dei suoi. “Grazie. Dunque, entro in casa e la chiamo, ma non risponde
nessuno. Allora mi reco in camera sua e … ed è lì che … oh Dio … che l’ho
trovata, così rigida e fredda … era morta”, si portò ella una mano alla bocca. “Io
l’avevo avvertita, signor commissario … l’avevo avvertita che stava giocando
col fuoco e …”
Scuotendosi
dal torpore indottogli dalla sorpresa, Naruto strinse gli occhi, sospettoso e
incuriosito dalle ultime parole pronunciate dall’agitata ragazza. “Che intende
con l’avevo avvertita che stava giocando
col fuoco? Crede che sua nonna non sia morta per cause naturali?”
Tenten
impallidì fino al verdognolo, gli occhi dilatati dalla paura. “Eh? Io non …
temo che abbia equivocato, signor commissario, lei … la nonna è deceduta a
causa di un infarto cardiaco. Deve essersi affaticata inutilmente, ecco perché
le ho detto quella frase … non c’è nulla di strano, no?”
“Signorina
Tenten”, la incalzò invece Naruto, avanzando di un passo e impedendo col piede
che la giovane gli sbattesse la porta in faccia. “Dal suo atteggiamento e dalle
circostanze del decesso di sua nonna, ho molte difficoltà ad attribuire un
significato diverso a quella frase. Un semplice infarto non dovrebbe provocarle
tutta quest’ansia e timore! Avanti, sia onesta con se stessa e con me! Lei è
terrorizzata! Da cosa? Da chi? Perché lei asserisce che ha giocato col fuoco? Sospetta forse che sua nonna sia stata uccisa?”
“NO!”,
gridò la ragazza fuori di sé dal terrore, confermando così ogni parola del
giovane commissario. “No! Che accidenti sta dicendo? Si sta sbagliando di
grosso! Mia nonna è morta di infarto, comprende? Di. Un. Dannatissimo. Infarto!
Ormai l’hanno portata all’obitorio! È finita! The end! Mi lasci in pace! Vada a
porre le sue indiscrete domande a qualcun altro! In troppi me ne hanno già
poste a sufficienza!”
“Signorina
Tenten, la prego, si calmi!”, digrignò i denti Naruto, dolendogli infatti il
piede per il tentativo della bruna di chiudere la porta per l’ennesima volta.
“Non la sto accusando di niente! Vorrei solamente capire alcuni dettagli, che
mi sfuggono! Vede, sua nonna mi aveva invitato qui per discutere riguardo agli
eventi legati a villa Nakano e …”
“Non
nomini quella villa apportatrice di sventura!”, strillò isterica la giovane. “E
se ne vada via da lì! Da Konoha! Abbandoni questi luoghi per sempre! O sarà per
lei la fine, come lo è stato per mia nonna!”
“Sua
nonna, dunque, sapeva qualcosa di importante? Di pericoloso?”, proseguì invece
testardo il giovane commissario, afferrando Tenten per le spalle e cercando di
immobilizzarla. “E così, vero? Qualcuno l’ha uccisa per farla tacere! E chi è
stato, sentiamo? La Sposa?”
“NO!!!”,
ruggì la giovane, tappando violentemente la bocca a Naruto, gli occhi fuori
dalle orbite. “Zitto! Zitto! Non dica il suo nome! Non la menzioni! Altrimenti
…”
“… cosa?
Altrimenti cosa, signorina Tenten?”, la spronò il biondo a proseguire,
addirittura scuotendola leggermente. Niente. Gli occhi scuri della ragazza
erano divenuti d’un colpo opachi, inespressivi. Il suo stesso corpo aveva
assunto un’innaturale rilassatezza da marionetta senza fili. “Signorina Tenten,
mi risponda! Che dovrebbe succedere, in caso la … lei dovesse essere nominata?”, la esortò Naruto. “Signorina Tenten!
Se sa qualcosa, per l’amor di Dio, me lo dica! Signorina Tenten! È stata lei ad aver assassinato sua nonna, non è
così?”
Inutile.
La
giovane pareva non ascoltarlo più: si limitava a tenere lo sguardo fisso
dinanzi a sé, quasi stesse attendendo con ansia l’arrivo di qualcuno.
“Fate quindi attenzione, care fanciulle, il
giorno delle vostre nozze! …” ,
mormorò infine la bruna, la voce impastata e monocorde di chi stava parlando
nel sonno.
“Cosa?”
Sciogliendosi
dolcemente dalla sua presa, Tenten proseguì in uno stato sonnambolico verso il
cancello della villetta, incurante di camminare scalza sulla ghiaia. “Molti anni sono ormai passati da questo
amaro caso, eppure la Sposa Mancata ancora infesta la villa maledetta! ...”,
seguitò, ignara degli incessanti richiami di Naruto e sottraendosi di continuo
ai suoi tentativi di bloccare la sua bizzarra marcia.
“… Una malinconica figura biancovestita erra
dolente per i suoi corridoi o nel giardino, il capo chino e coperto da un fitto
velo che par un sudario; un lungo coltello string’ella al petto …”
“Signorina
Tenten, mi ascolti! Si fermi per un istante! La supplico!”
“… E’
lei! Girate subito dalla parte opposta, presto! …”
“Signorina
Tenten!”
Solo
allora la giovane si fermò, voltandosi verso Naruto.
I loro sguardi
si incrociarono, uno rassegnato, l’altro interdetto.
“Signorina
…!”
La
nipote della signora Utatane sorrise mestamente.
“… Prima che si accorga di voi!”, finì in
un giocoso sussurro.
Poi, fu
solo lo stridore dei freni pigiati all’ultimo momento.
L’inutile
corsa in avanti.
L’inutile
tentativo di spintonarla via.
Di
salvarle la vita.
“Tenten!!!”
Un
violento tonfo.
Un
sinistro crack! di ossa.
“NO!!!”
Liquido
scarlatto che scivolava languido sul cemento.
Occhi
del medesimo colore che assistevano soddisfatti all’opera compiuta, al corpo
inanimato giacente sulla strada, allo sconcerto del conducente della vettura,
alla disperazione dell’unico testimone.
Parfait.
“Naruto
…?”
Il
diretto interessato abbandonò il confortevole scudo delle sue mani, alzando lo
sguardo in direzione del suo interlocutore. Dal rosso era passato al bianco? E
questo quando? Dio, gli occhi gli dolevano da impazzire!
“Hey,
Uzumaki!”, gli posò Kiba una mano sulla spalla, stringendola a mo’ di risveglio
dalla trance, in cui Naruto era caduto da quando i paramedici lo avevano pigliato
dal luogo dell’incidente e portato all’ospedale. “Ti stavamo tutti aspettando
al bar per la tua festa e poi ci arriva questa chiamata dall’ospedale! Che cosa
ti è successo, furbastro?”
“Niente
che abbia potuto rapircelo da questo mondo”, s’intromise la voce decisa del
medico alle loro spalle, una donna incredibilmente prosperosa e dall’aspetto
ancora giovanile. “Le condizioni del paziente, Shizune?”, s’informò.
L’infermiera che fino a quel momento aveva vegliato in silenzio sul biondo si
alzò dalla sedia, cedendo la cartella clinica alla sua superiore. “Stabili,
dottoressa Tsunade. Ha dormito come un ghiro fino a dieci minuti fa, ovvero fino
all’arrivo del signor Inuzuka.”
“Da
quanto tempo sono qui?”, inquisì Naruto, lanciando un’occhiata ansiosa fuori dalla
finestra: ormai era completamente buio, dovevano essere passate da un pezzo le
otto di sera.
“Tranquillo,
Naruto!”, lo rassicurò Kiba. “Ho già avvertito Neji e lui mi ha assicurato, che
stanotte sia lui che Hinata rimarranno a dormire dai loro vecchi!”
“E la
mia fidanzata? L’hai sentita? Che ha detto? Dio mio, spero che non le sia
partito un embolo …”
“Ehm,
non per interrompere questa romantica conversazione, ma vorrei precisare che il
signor Uzumaki si è ritrovato suo malgrado coinvolto in un drammatico incidente
stradale. Vorrei quindi pregarla, signor Inuzuka, di lasciar riposare il
paziente!”
“Non se
ne parla nemmeno, dottoressa Senju!”, ribatté snervato Naruto, balzando giù dal
letto. “Sto benissimo! Non ho alcuna intenzione di trascorrere la vigilia delle
mie nozze in un ospedale! Oh beh, anche se le infermiere sexy ci sono comunque
…”
Una
randellata in testa riportò il biondo a più miti consigli. “Porco!”, berciò
Tsunade, facendo balzare sia l’infermiera Shizune che Kiba per lo spavento da
cotanta forza esibita. “Invece di blaterare cacche di piccione, ringrazia Iddio
di essere ancora vivo, vegeto e in un unico pezzo! Sennò altro che matrimonio!
Un funerale si celebrava!”
“Sono
sopravvissuto all’incidente”, argomentò piccato Naruto, massaggiandosi lo
scalpo martoriato “perché non ero io la vittima designata! Lei voleva la signorina Tenten! Non me! Ha voluto farmi assistere,
certo, ma non aveva in progetto la mia morte! Non ora, almeno!”
“Assurdità!”,
liquidò Tsunade la faccenda con un deciso svolazzo della mano. “E sentiamo, chi
sarebbe costei? La povera signorina Mitokado
ha attraversato la strada senza prestare la benché minima attenzione! Ovvio,
che è stata investita!”
“Un
corno! La strada era vuota! Quella macchina è comparsa all’improvviso! Senza
contare … senza contare che lei l’ha
spinta a compiere quel gesto! Tenten sembrava quasi ipnotizzata, non era
padrona delle sue azioni!”
“Via,
questa sì che è bella! Devo ammettere, che il suo stato di shock è davvero
notevole, forse il più assurdo cui io abbia mai assistito!”
“Sua
nonna pirata sarà in stato di shock!”, ululò Naruto, paonazzo. “Vedo abbastanza
gente morta per via del mio lavoro, che non è stato di certo un cadavere mezzo
spiaccicato e spalmato sul cemento ad avermi impressionato! No, è stata la
certezza, che Tenten sia stata indotta dalla
Sposa a suicidarsi!”
Un
silenzio tombale gelò la stanza.
“Non
vorrà mica … che anche lei abbia visto … Bah, scempiaggini!”, contestò
flebilmente Tsunade, mentre il rosa delle sue guance fluiva via più rapido di
un torrente. “Non esiste alcuna “sposa”, non esiste alcuna maledizione! Noto
che la signora Utatane l’ha ben irretita, o mi sbaglio, signor Uzumaki? Beh, se
lo lasci dire: quella era una vecchia matta e di sicuro ha influenzato in
maniera nefasta anche la nipote, che poi tanto sana di menocca non lo era neppure
lei, non dopo l’incidente stradale in cui morirono i suoi genitori. Il decesso
improvviso della nonna deve averle elargito il colpo di grazia, non può
sussistere altra spiegazione logica! Ergo, la smetta di sparare baggianate a
gogò o la farò sedare!”, sbraitò d’un tratto inferocita, sputando saliva.
Per una
che non credeva nel mortifero potere della maledizione di villa Nakano, la
dottoressa Senju lo dimostrava davvero male: infatti, sembrava parecchio
agitata a riguardo, impallidendo più del dovuto. Tuttavia, onde risparmiarsi
una dose di tranquillanti non proprio agognati, Naruto si morse l’interno della
sua guancia, scegliendo una soluzione più diplomatica, altresì nota come: annuire per poi agire differentemente appena
l’avversario dà le spalle.
“Quando
potrò uscire di qui?”, chiese quindi il giovane, sperando che la sua voce
suonasse sufficientemente calma e padrona di sé.
“Domani
mattina”, rispose lentamente la dottoressa, insospettita da quel brusco cambio
di atteggiamento, da satanasso ribelle a docile agnellino. Dinanzi allo scambio
di occhiate apprensive tra il suo paziente e Kiba, la donna fugò ogni
perplessità: “No, farà in tempo a presentarsi alla cerimonia. La rilasceremo
verso le otto, contento?”
No,
Naruto era ben lungi dall’essere soddisfatto. E non solo per la stupida
quisquiglia, che nessuno lo credeva, anzi che per poco non gli davano pure
dell’esagitato e isterico (se non proprio del pazzo); piuttosto, si trattava
della consapevolezza che la Sposa lo
aveva preceduto, tappando per sempre la bocca delle uniche due persone che
avrebbero potuto indicargli la strada per esorcizzare quella presenza maligna,
il cui unico scopo della sua dannata esistenza era quello di rendere amara la
vita alla fidanzata e a lui. Oh, oramai Naruto non nutriva più alcun dubbio
sulla veridicità della leggenda, della maledizione che appestava villa Nakano!
Per ben due volte aveva giocato il ruolo di inconsapevole vittima/testimone!
Per davvero qualcosa di malvagio si stava divertendo con le loro vite,
spazzando via chiunque osasse interferire nel suo diletto! Per fortuna, che
Hinata in quel momento si trovava a casa dei suoi genitori, altrimenti …
Se solo
avesse parlato la sera precedente con la signora Utatane! Se soltanto le avesse
creduto prima, così da poter subito affrontare e neutralizzare la Sposa! Ecco, dove l’aveva portato lo
scetticismo!
“Signor
commissario … Uzumaki?”
La
chiara e squillante voce dell’infermiera Shizune lo distolse dalle sue cupissime
elucubrazioni, riportandolo alla dura realtà. “Ehm, volevo dirle … ehm … non
sarebbe molto corretto, però …”, la giovane donna scosse il capo scuro,
porgendo un pacchetto insanguinato al giovane biondo su cui troneggiava il suo
nome scritto in stampatello maiuscolo. “Quando sono venuti i soccorsi, hanno
reperito questo pacco poco distante dalla vittima. So che dovrebbe essere
consegnato alla polizia, tuttavia … insomma, lei è il massimo rappresentate
della polizia qui a Konoha e allora … forse potrà scoprire qualcosa di
interessante su di …”e inghiottì penosamente della saliva “… lei.”
Il viso
di Naruto si illuminò raggiante di speranza. “Dunque, lei mi crede?”
Shizune
si morse a disagio il labbro inferiore. “Sì e anche la dottoressa Tsunade le
crede. Ecco, deve sapere che la
signorina Mitarashi Anko, colei che le ha venduto la villa, e la dottoressa
erano in gioventù molto amiche. Sennonché, anche la povera Anko cadde vittima
della maledizione e Tsunade, che aveva tentato di salvarla da tale triste
sorte, venne conseguentemente punita da lei.”
“Dalla Sposa …”
“Sì”,
convenne l’infermiera, rabbrividendo impercettibilmente al sentir quel nome
tabù pronunciato. “Nel più orribile dei modi.” Silenzio. “Il giorno del suo
matrimonio scoppiò un incendio, nel quale perirono il suo sposo – mio zio – e
il suo fratellino minore.”
“No!”
“Sì,
invece. Nessuno riuscì mai a spiegare le dinamiche del rogo, dove e come fossero scaturire quelle
fiamme. Si pensò trattarsi di un incidente, ma io so che è stata lei! Vede, quel fuoco non aveva nulla di
normale! Non era rosso-arancione! Era nero! Nero e inestinguibile, come quello
dell’inferno!”
Marcite all’inferno, figli di
cagna, marcite all’inferno assieme a me …
Ti aspetto nell’eterno abisso,
stupido fratello …
“Infermiera Shizune …”
“No!”,
lo bloccò la giovane donna, cedendogli il pacco e allontanandosi in fretta
verso la porta della stanza. “Ho già rivelato troppo! Non parlerò oltre! Non mi
costringa!”, guaì d’un colpo terrorizzata, uscendo di corsa e lasciando solo un
Naruto al limite di un crollo di nervi.
Ciononostante,
il biondo mantenne abbastanza autocontrollo e fermezza per sedersi sul suo
letto e strappare la carta, che avvolgeva un bel pacco pasciuto di fogli,
fotografie e un quadernetto, come appurò il giovane commissario una volta che
ne ebbe svuotato il contenuto.
E così,
queste erano le cosucce interessanti,
cui la defunta Utatane Koharu aveva fatto riferimento? Maneggiando
delicatamente la fragile carta ingiallita, Naruto esaminò uno ad uno i
documenti, mettendoli in ordine cronologico o comunque l’ordine in cui Koharu
li aveva preparati. Di conseguenza, l’unico scritto non sbiadito né ingiallito
dal tempo catturò la sua attenzione, invitandolo a prenderlo e a leggerlo.
Così
fece Naruto.
All’attenzione del signor
commissario Uzumaki Naruto –
incominciava la lettera.
Comprendo che possa suonare
assolutamente cliché, tuttavia non scherzo nell’affermare che se lei in questo
momento sta leggendo la mia missiva, significa che sono già morta e forse mia
nipote Tenten con me.
Il motivo? Ormai, sono sicura che
anche lei l’avrà capito. La Sposa sa del nostro incontro ieri sera al
Ramen Ichiraku; sa quel che le ho detto. Nulla sfugge ai suoi occhi di fuoco,
non quando è a caccia. Oh, non spalanchi
incredulo la mascella! Non conosce la Ballata? Quando a villa Nakano sta per
celebrarsi un matrimonio, la Sposa esce dal suo torpore, fiuta la sua preda, la
punta, la segue e poi … l’attacca! Sì, lei è proprio a caccia e la preda,
signor commissario, altri non è che la signorina Hyuuga, la sua fidanzata!
Perché la sto avvertendo, mi
chiederà.
Perché ho paura del Giudizio.
Anch’io ho i miei peccati da
scontare, signor commissario. Il primo? L’aver scattato una foto alla Sposa e
averne taciuto l’esistenza fino ad adesso. Che male c’è in questo, obietterà.
Ce n’è, signor commissario. C’è
tutto il male del mondo.
Lei non ha idea di quante spose
siano state colpite dalla maledizione di villa Nakano. La gente parla, ne
ricama sopra delle macabre leggende, ma in pochi le prendono poi sul serio. E
chi lo fa, tace come me in quanto assolutamente terrorizzato dalla
vendicatività di questa Sposa Mancata. La signorina Anko – un’altra vittima
della Sposa – non le ha mai parlato dell’incendio, che uccise il fidanzato e il
fratellino della sua migliore amica, rea di aver tentato di porre fine alla
maledizione?
Come avrà certamente realizzato,
la Sposa non conosce il perdono. Glielo hanno negato in vita. Ora, da morta,
lei lo nega a noi.
Ecco, io avevo la paura folle di
dover affrontare un siffatto destino, di dover perdere coloro che amo,
similmente a quei temerari che osarono sfidare la Sposa.
Ma a che pro?
Alla fine, il mio silenzio non ha
salvato né me né tantomeno i miei cari.
Infatti, finché non la intralciavo, lei m’ha
concesso di vivere. Oh, non che mi avesse esentato da un piccolo avvertimento!
Non è un caso, se mia nipote Tenten sia rimasta orfana di ambedue i genitori! Ora
però che ho suggerito a lei, signor
commissario, un modo per sottrarre a quest’anima dannata la sua prossima
vittima, ecco che la Sposa verrà a
chiedermi il conto. E lo farà, puntuale come suo solito.
Ma io rischio lo stesso, la
prendo come espiazione per tutte le volte che ho taciuto, rendendomi in un
certo qual modo sua complice.
In questo pacco ho messo degli
articoli di giornale sulle misteriose “amputazioni degli anulari” e sui “roghi
nero inchiostro”; in aggiunta, troverà la foto da me scattata nel 1925, più una
risalente al 1858. Le altre foto mostrano i volti di tutte le vittime della
Sposa.
Infine, il diario di suo fratello
minore: lo legga, spero che così lei potrà trovare la soluzione per salvarsi da questa perpetua
maledizione. Pregherò per lei, ovunque la mia anima sia stata spedita dal
Giudice Eterno.
Un ultimo consiglio.
Dopo aver letto questo diario, si
diriga a Kiri e chieda informazioni all’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara che
dà sul mare. [1] Lì potrà incontrare la Sposa nella sua forma più vulnerabile.
Sento delle gocce d’acqua cadere
dal soffitto.
Sono salate.
La Sposa è arrivata.
Che Iddio possa avere pietà del
mio corpo e della mia anima, perché Uchiha Itachi non ne avrà per me.
U.K.
A Naruto
tremavano le mani.
Aveva
letto bene? Aveva tra le mani una lettera scritta da una persona sana di mente?
O il delirio di una pazza?
Oppure
il pazzo era lui, che impallidiva ad ogni parola, trovando in esse la conferma
che cercava?
Lo
stesso volto dai freschi tratti della giovinezza eppure comparente in foto di due
epoche diverse.
Così,
per poter impalmare la ragione del suo vivere, il giovane decise di tentare la
sorte:
raccolti
gli ultimi averi lasciategli dal padre, rifornite le navi e assunto abili
marinai
volle
dirigersi là dove si compravano e vendevano spezie più preziose dell’oro.
Hinata
si rigirò inquieta nel letto, il sonno disturbato da una musica che ben si
ricordava di non aver mai udito riecheggiare in casa dei genitori. Per quanto i
signori Hyuuga appartenessero alla categoria frou frou- jou jou, la loro unica
figlia non si sovveniva di una loro qualche passione melomane: concerti e opere
liriche fungevano da scusa per recarsi a teatro e lì sfoggiare l’argenteria di
casa. Dunque, perché quel …
“Bisogna aver coraggio, / oh cari amici miei
/ e i suoi misfatti rei / scoprir potremo allor.”
Spalancando
stupita gli occhi, la giovane si puntellò sui gomiti, studiando interdetta la
stanza in cui si era risvegliata e che non assomigliava per niente alla sua
cameretta: essa, dal soffitto alto e dalle pareti immacolate tappezzate di
quadri, possedeva il tipico aspetto di chi l’aveva abbandonata in fretta e
furia, senza premurarsi di riordinarla. Eppure, aveva conservato la presenza
del proprio possessore, quasi lo stesse aspettando in quella sospesa immobilità
da fotografia. Come ad esempio, i libri aperti o chiusi e lasciati nei posti
più svariati, dal comodino al pavimento, o le ante dell’armadio spalancate coi
vestiti penzolanti a metà sulle stampelle e alcuni caduti per terra in un
confuso miscuglio di stoffe e colori. O il letto a bateau sfatto e non di certo
perché vi aveva dormito Hinata.
“L’amica dice bene / coraggio aver conviene /
discaccia, oh vita mia, / l’affanno e il timor.”
In
seguito ad una solenne pulizia e alla luce del sole, quella camera sarebbe
apparsa davvero molto graziosa: le finestre ampie promettevano una vista
maestosa – su che cosa, poi?, si chiese la ragazza – e l’ampiezza raggiungeva
livelli tali, che avrebbe potuto contenere ben tre stanze della casa natale di
Hinata. Un ottimo posto per leggere – come dimostrava la ben fornita libreria
alle pareti – per scrivere – il vezzoso scrittoio in stile settecentesco - per suonare – ad esempio, il pianoforte a
mezza coda - e rilassarsi e giocare e …
“Il passo è periglioso, / può nascere qualche
imbroglio. / Temo pel caro sposo / e per voi temo ancor.”
“Ti
piace, Hinata, questa camera?”
Al
sentir pronunciato il suo nome, l’interpellata in questione sobbalzò sul posto,
riscuotendosi definitivamente dal torpore in cui si indugia quando ci si è
appena svegliati. Disorientata da quel luogo a lei alieno e timorosa per la
propria incolumità, la mora si rannicchiò contro il muro, portando al petto le
ginocchia a mo’ di difesa.
“Ah …
Shu … sei tu … che spavento, non …”, balbettò la ragazza, guardandosi
nervosamente attorno. “E’ … è per caso la tua stanza?”, chiese, azzardando a
rilassare le gambe stendendole sul materasso.
Shu le
sorrise amabilmente. “Questa era la mia prigione”, le spiegò, tornando ad
armeggiare con le leve di un teatrino di carta sul cui palcoscenico comparivano
i personaggi del Don Giovanni di Mozart, che il giovane muoveva a ritmo della musica
dell’omonima opera, riprodotta da un vecchio grammofono. “Fino ai tredici anni,
non ho conosciuto altri luoghi all’infuori di questa stanza. Sebbene i miei
genitori si prodigassero a riempirmi di balocchi, a tenere la mia mente
occupata tramite le lezioni private impartitemi dal precettore, o attraverso i
libri o suonando, alla fine sono giunto ad odiare con tutto me stesso questo
posto”, le confessò un poco impacciato, alzando di tanto in tanto gli occhi
inumiditi dalle lacrime. Stava piangendo? E perché mai? “E’ un vero peccato,
che questo portentoso grammofono sia stato inventato molti anni dopo la mia
nascita [2]: avrei trascorso le ore in maggior letizia ascoltando le mie opere
preferite. Non mi ricordo se te l’ho già detto, ma adoro l’opera lirica. Piace
anche a te, Hinata?”
V’era
qualcosa di strano in Shu, notò apprensiva la ragazza, corrugando incerta la
fronte. Un’aria di infinita tristezza lo avvolgeva, sentimento sottolineato da
quel suo starsene seduto all’indiana sul morbido tappeto color pastello e dal
giocare con piglio infantile con quel teatrino. In aggiunta, il giovane non
indossava più gli abiti coi quali aveva l’abitudine di presentarsi a lei, ergo una
maglietta scura, un paio pantaloni grigi alla pescatora e i sandali. Al
contrario, in quel momento Shu portava una lunga tunica bianca, simile a quella
dei comunicandi il giorno della Prima Comunione, ed era scalzo. Tenuto fermo da
una stretta corona di gigli e crisantemi [3] gli scendeva morbido e pesante un
velo bianco, che lo avvolgeva in un soffocante abbraccio di stoffa. Di primo
acchito sarebbe potuto passare per una sposa, sennonché le linee spartane
dell’abito e la consistenza fitta del velo, così diversi dalla tradizionale
civetteria degli altri, gli conferivano un’aura più solenne, mesta. Mortuaria,
quasi.
Perché
era vestito in quel modo?
“Shu”,
ruppe Hinata il silenzio creatosi, scivolando giù dal letto a bateau e
avvicinandosi al giovane. “Questo posto … questa camera … siamo a villa Nakano,
vero? Mi hai riportata qui?” Nonostante la giovane non avesse mai visto
quell’ambiente, lo stile e il gusto nell’arredamento corrispondevano
esattamente a quello della casa del fidanzato.
“Ci sei ritornata
da sola, dolcezza mia”, replicò ineffabile Shu, seguitando il suo divertimento
coi personaggi di carta. “E’ stata la tua curiosità ad averti condotto in
questa stanza.”
“No, non
credo proprio”, lo contestò la mora, accovacciandosi dinanzi al teatrino. Come
mai stava conversando così serenamente con lui? In altre circostanze,
risvegliarsi in un altro posto, lontano dalla famiglia e dal fidanzato, avrebbe
dovuto mandare in tilt chiunque dalla paura. Invece, Hinata non ne aveva, si
sentiva stranamente rassicurata dalla presenza di Shu accanto a lei, per quanto
il suo lato razionale le stesse urlando che era proprio da lui, che doveva
guardarsi le spalle.
“Mi
dispiace, ma devo contraddirti, Hinata”, ribatté testardo il moro. “Tempo
addietro, avevi espresso il desiderio di conoscere maggiori dettagli
riguardanti il tragico incidente avvenuto a villa Nakano. Dal canto mio, avevo
promesso che ti avrei portato là dove avvenne questo spiacevole evento. Come puoi ben vedere, ho mantenuto la parola
data e sarebbe una grande scortesia da parte tua tirarti indietro all’ultimo;
mi sono tanto prodigato per organizzare al meglio questo nostro ultimo
incontro, così da non essere disturbati da chicchessia. Senza contare, che
abbiamo tutta la notte a nostra disposizione: in attesa che giunga l’alba, ti racconterò una storia. La storia che condusse la famiglia Uchiha e villa Nakano alla
rovina. Non è di gran lunga meglio questo passatempo che un’insipida nottata
brava tra amiche, o mi sbaglio?”
Hinata si
inumidì a disagio le labbra, tamburellando le dita sulle ginocchia. Sì, era
vero che lei gli aveva chiesto di
narrargli il misterioso aneddoto di villa Nakano: tuttavia, il suo sesto
senso gli suggeriva di sviare il discorso, di non accettare, giacché proprio era
quello la causa delle sventure dei precedenti abitanti della villa. “Non
saprei, Shu”, temporeggiò, fissandosi colpevole le unghie. “Magari, non
trovandomi in letto, in questo momento i miei genitori e mio cugino si staranno
preoccupando per me e anche il mio fidanzato potrebbe essere in pensiero. Eppoi,
domani mi sposo, devo riposare … forse un’altra volta …”
Un
sorriso amaro graziò le labbra fini di Shu, mentre l’atmosfera, da tiepida e
malinconica, si mutò in una sinistramente gelida, tagliente come la lama di un
coltello. “Proprio come pensavo. Non sei diversa dagli altri: sempre pronta a
chiedere, ma quando sono io che ti domando un favore, ecco che mi rifili una
scusa dietro l’altra!”, scattò in piedi il moro, sovrastando severo e impietoso
con la sua altezza la ragazza, cui sembrò di ritrovarsi dinanzi al Christus
Iudex della cappella privata di villa Nakano.
Svanite
la dolcezza, la pietosa tristezza, ingoiate dalle fredde fiamme di una composta
e inestinguibile collera.
E
Hinata, più che esserne atterrita, si sentì in essa avviluppata, consumata, fin
quasi a compartirla.
Doveva
scappar via da quel luogo, prima di esserne divorata!
“Io ho
mantenuto la mia promessa. Ho esaudito la tua richiesta. Ora, rispondimi,
vorrai essere così riconoscente da premiare la mia disponibilità?”
Digli di
no!, gridava la mente della giovane. Digli di no!
“Troppo dolce comincia la scena / In amaro
potrìa terminar.”
“Ebbene,
Hinata?”
L’interpellata
aprì la bocca per rispondere, chiudendola invece subito dopo. Si stava comportando da ingrata e vigliacca e
ciononostante, non riusciva a fidarsi abbastanza da elargire all’altro un cenno
affermativo.
“Deciditi,
Hinata. Sto aspettando …”
Se
soltanto avesse avuto un argomento con cui ribattere! O poter rifiutare
l’offerta! Perché, si diede lei della sciocca, aveva insistito a voler sapere
dei fatti degli Uchiha?
L’inatteso
tintinnio di posate e lo strimpellare di strumenti, che si stavano riscaldando
prima di suonare, attirò l’attenzione di Hinata, la quale colse la palla al
balzo e, rimettendosi in piedi, si diresse verso la porta della stanza. “Shu,
non senti anche tu questi rumori? Da dove provengono? Spero ardentemente che
non siano dei ladri …”, addusse ella come scusa per poter uscire, sorpresa che
il giovane glielo avesse permesso senza opporre alcun tipo di resistenza, come invece lei si
aspettava.
Non che
ne avesse poi avuto così bisogno: fu Hinata stessa a fermarsi, aggrappandosi
ora serialmente turbata al poggiamano delle scale. I lunghi specchi appesi alle pareti dell’ampio
salone riflettevano la luce di lunghe candele
dalle fiamme azzurrine, verdi o viola, similmente agli innumerevoli candelabri
lì accesi. La loro luce fioca e fredda, quasi psichedelica nella sua
fosforescenza, si riverberava nell’ambiente, enfatizzando i colori
fantasmagorici del tourbillon accecante degli abiti degli astanti – sì, ospiti!
- dagli accostamenti più strani; dal
grande candelabro di vetro soffiato pendevano ghirlande e scendevano coriandoli
e fili di vari colori e lucentezza, accentuando quell’aria di decadenza, che
permeava quel salotto che ad Hinata era sempre sembrato così smorto e
asfittico.
E proprio in quel posto si stava celebrando
una festa, magari in maschera a giudicare dai vestiti assolutamente fuori moda,
appartenenti ad epoche diverse: tra di essi, Hinata riconobbe le gonne vaporose
dell’Ottocento, i frac della Fin du Siècle, le linee vezzose della Belle Époque
e quelle più dritte e geometriche del Primo Dopoguerra. Con suo sommo orrore,
la giovane scovò anche abiti più recenti, molto più recenti, come quelli
indossati da Mitokado Tenten e Utatane Koharu, che Hinata credeva vive fino a
ieri!
Come … com’era possibile?
“Hai già legato con gli ospiti?” , le giunse
inattesa la voce di Shu alle spalle, facendola sobbalzare violentemente e
cozzare contro il suo petto. Quando l’aveva raggiunta?
E … e … quel silenzio nel torace …
“Shu, chi … chi sono costoro?”, chiese
Hinata in un filo di voce, tentando di scivolare via dal giovane, il quale,
sfortunatamente per lei, le aveva cinto il braccio alla vita, serrandola
inclemente a sé. “Che cosa vogliono da me?”
Che cosa vuoi
tu da me?
Di nuovo, il moro le mostrò l’innaturale
candore dei suoi denti. “Suvvia, Hinata! Via quell’aria sgomenta! E che domande
mi poni, poi! Chi sono? Gli ospiti per il tuo matrimonio, sciocchina! Chi vuoi
che siano?”, ridacchiò incoraggiante Shu, sottoponendo la fronte della ragazza
ad un leggero buffetto.
Neanche fosse stato quello il previamente
concordato segnale d’inizio, gli astanti si girarono e, levati in alto i
calici, esclamarono in coro: “Viva la sposa! Viva la sposa! Un brindisi per
Hinata!”
“Mi stanno chiamando …”, gemette ora
seriamente impaurita la giovane, divincolandosi in violenti strattoni. Invano:
il braccio di Shu poteva competere quanto a forza ad un cerchio di ferro.
“Ovvio”, convenne serafico l’altro,
apprestandosi a scendere le scale. “Stanno morendo dalla voglia di
conoscerti, Hinata. Ho tanto parlato a loro di te e adesso sono eccitati alla
mera idea di poter finalmente conversare con te!”, disse, trascinando seco una
recalcitrante mora, che cercava di rallentare la discesa al pianterreno
aggrappandosi a qualsiasi cosa le capitasse sottomano.
“Anche perché, la mia storia non avrebbe
senso, se tu non incontrassi gli attori principali di questo doloroso dramma
…”, proseguì affabile, sciogliendosi in un sorriso ferino, che provocò un mezzo
svenimento alla ragazza.
“E sono loro gli …?”
“… attori? Sì, sì, esattamente!”, annuì Shu
entusiasta e compiaciuto della dubbia partecipazione della giovane, che si
strinse inconsciamente a lui, quando giunsero infine al centro dell’ampio
salone. “Le marionette di questo patetico melodramma, i miei ospiti eterni, il
mio infernale chaperon … tutti a tua disposizione, Hinata carissima, per questa
notte fino a domani, prima della cerimonia”, li presentò egli tramite un ampio
e teatrale gesto del braccio.
Hinata temette di aver smesso da un pezzo di
respirare.
La
notte prima della partenza, molte lacrime vennero versate e molti baci
scambiati.
Ma
ciò non bastava all’innamorato.
“La mia famiglia, dolce amica mia …”, indicò
Shu un gruppetto di persone vestite alla guisa ottocentesca e dai capelli e gli
occhi neri come quelli del suo accompagnatore. “La quale mi ama a tal punto, da
volermi seguire ovunque e da soddisfare ogni mio singolo capriccio …”, le
confessò, sorridendole complice.
I parenti di Shu assentirono col capo,
brindando in apparenza gioiosi alla salute di Hinata: in realtà, ella poté
scorgere nei loro volti una smorfia di sofferenza atroce, teoria supportata
dalle calde lacrime di sangue che colavano sul loro viso pallidissimo.
“Giurami”, diss’egli stringendo forte al petto
l’altra metà della sua anima. “Giurami sulla tua vita, sugli occhi tuoi belli,
su Iddio e la Madonna, che a me fedele per sempre rimarrai.”
“Et bien, mia cara, ora che ti ho presentato
tutti i miei ospiti, che ne dici di sederci qui, su questo morbido canapè, cosicché
io ti possa raccontare l’amaro caso di villa Nakano? Uhm, che ne dici? Magari sorbendoci
nel frattempo dell’ottimo Marzemino!”, gli propose Shu, o meglio, la costrinse
a sedersi, cedendole un bicchierino di cristallo portogli da uno zelante
cameriere.
Con mani tremanti, neanche avesse buscato le
febbri tropicali, Hinata accettò, per poi farlo cadere in seguito all’improvviso
ruggito di Shu, che richiamò una sorta di vento di tramonta, il quale spense in
un battito di ciglia tutte le candele, facendo conseguentemente piombare il
salone nel buio assoluto.
“Questo è facile: lo promisi già il dì in cui ti conobbi.”
“Fratello!”, ringhiò egli in un cupo
latrato. “Convinci quella meretrice sifilitica della tua promessa a cessare una buona volta
di piangere! Disturba l’atmosfera! Non voglio scenate isteriche alla festa in
onore di Hinata! Provvedi a farla tacere o troverò io il rimedio e credimi,
allora sì che la tua sgualdrina avrà di che lamentarsi!”, inveì così
pesantemente, che Hinata si reputò fortunata che mancasse la luce: quella poc’anzi
udita non era una voce umana, era il gorgoglio del mare in tempesta, il latrare
di un mostro!
Ma ecco, ritornata la luce tanto velocemente
quanto era sparita, che il tono di Shu aveva riassunto le precedenti sfumature
delicate e melodiche di prima.
“Ah, le cognate!”, piegò egli le labbra in
un sorrisetto birbante. “A volte sembrano essere state concepite solamente per
farti dannare l’anima!”
e rise alla battuta, cui prontamente seguì l’eco degli altri invitati, i quali poi
ripresero serafici gli svaghi e il cicaleggio interrotti dal furioso sfogo del
giovane.
“Dunque, dove eravamo rimasti?”, fece Shu
distendere la mora in una posizione più comoda, in modo che la tua testa
riposasse sul suo petto. “Allora, Hinata, posso raccontarti una storia?”
Quel silenzio nel torace …
… l’assenza del battito cardiaco …
… il gelo …
… il corpo di un morto.
“E che al mio ritorno, vivi o morti, ci
sposeremo.”
Respirando
a fondo per infondersi coraggio, Naruto aprì il piccolo diario di Uchiha Sasuke,
sfogliando delicatamente le fragili e ingiallite pagine riempite dalla fitta e
minuziosa calligrafia in voga nel secolo precedente.
16 febbraio 1919
Il Veronal è pronto. [4]
Dies irae, dies
illa. Solvet
saeclum in favilla. Quando verrà il giorno del
Signore, la Sua Croce risplenderà nel cielo e il mondo cadrà in rovina.
Judex ergo cum
sedebit quidquid latet apparebit, nil inultum remanebit. Il Giudice prenderà il suo seggio e ogni
sotterfugio verrà svelato; niente rimarrà impunito.
Quid sum miser tunc dicturus? Quem
patronum rogaturus, cum vix iustus sit securus? Cosa dirò, allora, al Signore?
In chi troverò protezione? Quando l’innocente non deve aver paura?
Voca me cum
benedictis! [5]
No, non posso implorare
di essere chiamato tra i benedetti, non col Veronal preparato apposta per
riunirmi anzitempo con la mia famiglia, con la mia fidanzata. Sto per compiere
lo stesso suo peccato, lo stesso peccato che lui ci ha costretto, uno dietro l’altro, a
macchiarci, così da adempiere fino alla fine al terribile castigo inflittoci quasi
cinquantotto anni fa.
Non vendetta, no.
Castigo. Punizione.
Divideremo con lui le sue lacrime, sopporteremo l’atroce dolore dei pugni al petto, i
rimorsi, la solitudine, l’angoscia eterna, la gelida lontananza dall’avvolgente
e calda misericordia divina.
Addio, dolci notti
innamorate!
Addio, giorni pieni
di letizia!
A me la sventura!
A me l’inferno!
Più volte ho
tentato di raggiungerlo, affatto spaventato dalle poco allettanti promesse di
quelle inestinguibili fiamme nero pece: lui me lo ha
impedito. Per pietà dell’anima mia? No, perché fui io la causa principale delle
sue sofferenze e dunque io meritavo di essere castigato più a lungo rispetto
agli altri.
Mi ha sottratto
tutto.
Tutto.
Non ho più nulla
che mi leghi a questo mondo.
Né padre, né madre,
né parenti, né fidanzata.
Non ho vissuto, non
ho concluso niente nella mia vita.
Non ho creato una
famiglia mia. Non ho realizzato alcun progetto, che mi distinguesse dalla massa
anonima.
Nessuno si
ricorderà del mio nome.
Sono meno di
niente, una scultura lasciata a metà.
Può essere l’inferno
peggiore di questa non-vita? Ne dubito
altamente.
Dunque, vada per il
Veronal.
Ora lui me lo permette. È qui seduto davanti a me, col suo eterno volto di
giovane uomo, con quell’abito bianco pregno di sangue e acqua salsa, e mi
fissa, non mi perde per un istante di vista, mi concede di scrivere questo
diario, l’ultima traccia della mia esistenza sprecata o, come sostiene lui, finalizzata all’espiazione dei miei
peccati.
Che poi a nulla è
servita, giacché sto per compiere quello più grande, quello più difficilmente
condonabile.
Stasera prenderò
una dose eccessiva di Veronal e morirò.
Non prima, però, di
aver steso questa mia confessione (sempre sotto la sua supervisione), cosicché chiunque dovesse trovare un giorno questo mio
ultimo scritto, abbia in seguito la bontà di pregare per le nostre anime, per
la sua anima e di porre fine alla
maledizione che la nostra intransigenza ha attirato sulla nostra orgogliosa
cervice.
Io, Uchiha Sasuke, confesso
dinanzi a Dio e agli uomini di aver dato il mio contributo alla nascita di colei
che la gente di Kiri, e pian piano anche quella di Konoha, chiama la Sposa Mancata, in vita
conosciuta sotto il nome di Uchiha Itachi.
Mio fratello.
Seduto davanti a me, mi sorride,
incoraggiandomi a proseguire.
Devo sul serio continuare a
scrivere, fratello?
Perché mi sottrai il Veronal? Restituiscimelo!
Perché …?
“Lo
giuro”, rispose il suo amore, due dita alzate e la mano al cuore.
To be
continued …
**************************************************************************************************************
[1] =
Sant’Erasmo Martire è il santo invocato dai marinai nelle tempeste, mentre
Santa Barbara Vergine e Martire è la santa protettrice della Marina Italiana.
[2] Il
grammofono incominciò a venir usato nel 1870.
[3]
Rispettivamente i fiori dei morti, i crisantemi per l’Europa “continentale”,
mentre i gigli per l’Inghilterra e i paesi anglofoni.
[4]
Marca di sonnifero, letale se assunto in dosi eccessive.
[5]
Requiem |
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Capitolo 4 *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: gli Eventi dal 1850 al 1856 ***
Jetzt
geht’s weiter!
Lo avevo
accennato alla mia consulente privata, lo avevo minacciato nei tag, lo avevo
ribadito nell’intro al prologo, me l’ero ripromesso come regalo tardivo di
compleanno ed eccolo qua finalmente! Mpreg, ahoy! Oh beh, non esattamente in
questo capitolo, ma se leggete tra le righe, troverete certamente le basi per
la mia prima Mpreg! Muhahhahaha!!! Sono così emozionata! ^////^ Senza andare
troppo nei dettagli “anatomici” ho cercato di dare una spiegazione “logica” a
quest’evento, pur prendendomi tuttavia numerose licenze poetiche.
Questo
capitolo è stato davvero tosto da scrivere: così tanti eventi da compattare,
epoche differenti da ben descrivere, uff, uff … Di conseguenza, purtroppo per voi, è venuto
piuttosto lungo! XD Confesso che volevo essere più concisa, ma poi mi sono
lasciata andare: in fin dei conti, siamo nel cuore della storia! :P E dobbiamo poi onorare il tag “sentimentale” di
un poco, no? Lasciamoci alle spalle per un breve istante l’horror!
E a
proposito di epoche diverse! Leggere gli
avvisi, s’il-vous plaît!
Punto
primo: L’ambientazione
è assolutamente di fantasia, però, come detto nel primo capitolo, mi rifaccio
al “nostro” Ottocento, con tutti i suoi pregi e difetti. Questo significa che
se sentirete delle frasi un po’ scioviniste, sessiste, classiste e quant’altro,
non è l’autrice che lo pensa, bensì i personaggi calati in quel contesto. Lo stesso vale per la medicina dell’epoca: in
questo capitolo si parlerà molto di isteria
e non per indicare uno che piange a dirotto, ma per giustificare sbalzi di
umore, attacchi nevrotici, pianti improvvisi, convulsioni quasi da epilessia,
insonnia, etc. L’isteria – soprattutto femminile – serviva ai signori uomini
come spiegazione all’enorme carico di stress, che le donne (specie quelle
sposate) non avevano modo di sfogare, se non facendosi passare appunto per
“isteriche”. I medici sostenevano che fosse dovuta agli umori maligni derivati
dal malfunzionamento dell’utero e che quindi l’unica soluzione all’isteria
fosse l’orgasmo. Yes, avete capito bene, l’orgasmo! Adesso comprendete, quando,
notando una donna particolarmente nervosa, si scherza dicendo: “Ah, ieri notte
il marito non l’ha soddisfatta?” E’ il retaggio di queste teorie mediche
ottocentesche!
Punto
secondo. In
maniera assolutamente discreta – anche perché, lo veniamo a sapere da una terza
persona, che comunque ha un certo pudore nel scriverlo – ci sono degli accenni
a relazioni incestuose. Ora! Prima che mi chiudiate la pagina, sappiate che NON
è tra Itachi e Sasuke. Fiuh! Preso un bel respiro? Okiz, proseguiamo. I
matrimoni tra parenti – anche molto stretti – non erano una novità all’epoca:
più che per il cognome, servivano a mantenere quanto più possibile unito e
intero il capitale di famiglia o le terre, in caso i soggetti in questione
fossero anche stati dei proprietari terrieri. Matrimoni tra cugini – perfino
primi – o addirittura tra zii e nipoti erano cose che succedevano e il secondo
caso aveva luogo se la “sposa” non riusciva a trovare marito entro la “giusta
età”. Ergo, si ritrovava spesso a fare da badante ad un vecchio bavoso.
Inoltre, all’epoca era molto raro il concetto moderno di famiglia mononucleare;
al contrario, quella patriarcale era più diffusa. Magari non si aveva l’intero
clan in casa, ma minimo i genitori del marito sì. Di conseguenza, spesso e
volentieri si scivolava in relazioni ambigue a discapito, purtroppo, delle
donne e dei bambini.
Punto
terzo. I
bambini. Se avete letto una qualche opera di Charles Dickens, sapete cosa
aspettarvi in quanto a metodi educativi. Il metodo Montessori ancora non
esisteva e tutti convenivano dicendo, che le punizioni corporali – sia a scuola
che a casa - fossero assolutamente necessarie per lo sviluppo del bambino.
Sculaccioni sul sedere? Troppa grazia Sant’Antonio! Cintura, canna di bambù,
bastone da passeggio, inginocchiarsi sui sassolini ... brrrrr …
Punto
quarto. Per
sottolineare il sermo diverso delle varie classe sociali e soprattutto la
diversa cittadinanza (Konoha vs. Kiri) ho messo delle parole in dialetto veneziano.
Spero di non offendere nessuno, ma mi sono divertita a scriverle! Anche perché
la storia si basa su di una leggenda veneziana, quindi mi pareva giusto darle
un minimo di credito, no? XD Siamo in Giappone solo per sentito dire! XD Vabbé,
non che nei manga giapponesi che trattano di storia europea, loro siano più
accurati! Vendetta, vendetta, muhahhaha ;-)
Voilà i
punti salienti, spero ardentemente che li abbiate letti, non vorrei fare copia
in colla in caso dovessi trovare una critica, che mi chiede conto di quanto
appena spiegato sopra!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle
infaticabili Jooles e Sagitta72! Grazie anche a coloro che
hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Buona
lettura!
H.
P.S
Adesso che ho capito come si fa, ho caricato delle immagini su ciascun
capitolo! Ganzo, eh?
*******************************************************************************************************
Fuggire
dall’ospedale non era stato un problema per Naruto: grazie all’esperienza
acquisita nel suo lavoro, aveva ben imparato ad intrufolarsi e a sgattaiolare
via dai posti più disparati e in situazioni ben più assurde. Del resto, gli era
bastato leggere una sola pagina del piccolo diario, che aveva portato seco, per
convincersi a partire alla volta di Kiri anche senza averlo terminato. Per una
volta la fortuna l’aveva assistito e l’evasione del giovane commissario era
stata un successo, così come l’aver trovato la coincidenza perfetta per il
treno.
Fu
dunque lì, nella solitudine di uno scompartimento vuoto, che Naruto proseguì
nella lettura.
All’inizio, Itachi ed io eravamo
inseparabili.
Lo amavo e al contempo lo
invidiavo profondamente.
Mio fratello sin dalla nascita
non era stato benedetto da una salute di ferro: al contrario, era più il tempo
che trascorreva nella sua stanza sterilizzata dai vapori di acqua e aceto, che
altrove. Il medico sosteneva che fosse debole di polmoni ed in effetti ancora
mi sembra di poter annusare nell’aria il profumo dei continui decotti di salvia
ed eucalipto finalizzati a placare la tosse e il mal di gola, che spesso lo
affliggevano. Lui stesso emanava siffatto odore.
Nondimeno, non era questo il
cruccio principale della mia famiglia. Certo, un figlio malaticcio non
corrispondeva esattamente ad una goduria, però non era nulla che non si potesse
risolvere, magari mandandolo o in montagna o al mare a respirare aria buona e
pulita.
No.
L’essere tossicoloso era solo la
ciliegina sulla torta: mio fratello – e noi con lui – nascondevamo un segreto
ben peggiore.
Una deformazione fisica. Un
motivo di vergogna e timore per la nostra famiglia e la condanna di Itachi a
rimanere segregato in casa, anche se avesse sprizzato salute da ogni poro.
All’epoca non comprendevo niente
di tutto ciò: reputazione, deformazione, malattie … non erano altro che vuoti
paroloni alle mie orecchie di bambino. Quel che ai miei occhi appariva invece
importante, era che grazie all’infermità di Itachi io avevo guadagnato un
compagno di giochi esclusivamente per me. Per ordine di nostro padre, mio
fratello non doveva assolutamente varcare i confini di villa Nakano né entrare
in eccessiva confidenza con gli ospiti che ogni tanto ci onoravano di una
visita. Nella sua mitezza, Itachi non aveva mai messo in discussione gli ordini
paterni e aveva obbedito ciecamente ad ogni sua istruzione; forse per questo
motivo i miei genitori, sentendosi talvolta in colpa nei suoi confronti,
preferivano compensare quell’isolamento forzato tramite balocchi, dolciumi ed esaudendo
ogni sghiribizzo che fosse saltato in mente a mio fratello, i quali non erano
poi molti. Ciononostante, io, il figlio sano, me ne rammaricavo amaramente:
nella mia ingenuità infantile, non comprendevo che io possedevo doni di maggior
valore – salute e libertà – mentre Itachi doveva accontentarsi di miseri
surrogati. Per questa cagione, incominciai ad invidiare il pianoforte a mezza
coda nella sua camera da letto, il gatto rosso,
i trenini, l’intero reggimento di soldatini di piombo, le navi e i battelli,
gli aquiloni … Oh, non che io non ne avessi mai avuti! Semplicemente, non
trovavo giusto che Itachi dovesse riceverne più di me. E mi infastidiva quando
mio fratello, perspicace come d’abitudine, me li cedesse più che volentieri:
allora la prendevo sul personale, adducendo che non desideravo la sua carità e
che io, un Uchiha, non avrei mendicato niente da nessuno. Di conseguenza, il
mio più grande diletto consisteva nell’intrufolarmi nella sua stanza, rubargli
i giocattoli, distruggerli a volte. Così come gli strappavo le pagine dei suoi
libri preferiti oppure li bruciavo
direttamente nel caminetto. Poco mi importava se dopo nostro padre mi
trascinava per le orecchie dalla mia camera al suo studio, calandomi i
calzoncini e scudisciandomi con la ferula: la vista degli occhi neri di Itachi
inumidirsi dal dispiacere attutiva il bruciore al fondoschiena. Eppure, dopo
neanche due giorni di punizione, nostra madre mi apriva la porta dello
sgabuzzino dove mi rinchiudevano, tacito invito a porgere le mie scuse a mio
fratello. E lo facevo. Piangendo lacrime sincere lo abbracciavo, promettendogli
di non macchiarmi mai più del peccato di invidia e auspicandomi il suo perdono.
Lui, ricambiando il mio abbraccio, sosteneva che già mi aveva perdonato e che
non mi serbava rancore. Una settimana dopo, eravamo daccapo. Però lo amavo, sul
serio.
Tutto cambiò quando Itachi compì
tredici anni.
Vorrei affermare a gran voce, che
fu quell’episodio ad aver trasformato Itachi nella famigerata
Sposa Mancata. Alas, non è così. Innumerevoli
fattori lo hanno portato all’orlo del precipizio, punzecchiandolo,
spintonandolo, costringendolo ad arretrare finché altra scelta non gli è
rimasta che gettarsi da solo nell’abisso.
Ma tornando a noi.
Era il 31 marzo 1850 e come ad
ogni Pasqua, la mia famiglia aveva invitato amici e parenti lontani (coloro che
non vivevano con noi) per il pranzo. Per noi bambini era la manna, giacché gli
adulti erano talmente impegnati a cicalare dei fatti loro, che manco si
premuravano di rimbrottarci o di inquisire sul nostro operato. Quel pomeriggio
di primavera non si sottrasse di certo ai suoi predecessori: ben nascosti
nell’angolo più remoto del nostro giardino, Itachi ed io, assieme ai nostri
cugini Shisui e Obito, giocavamo a mosca cieca, mentre gli adulti si
crogiolavano al sole, sorbendosi il caffè. Quand’ecco, che Sayuri e Noriko, le
nostre cugine prime e più grandi noi, ci raggiungessero, ridacchiando
sonoramente e lanciandoci occhiate birbanti.
“Che volete, oche?”, le apostrofò
Obito, raffinato come suo solito. O meglio, nel pieno della fase di crescita in
cui le femmine erano il nemico, dopo l’acqua, ovviamente.
“Niente da te, sgorbio!”, gli
rispose Noriko per le rime, nel frattempo che l’altra cugina nascondeva un
perfido risolino dietro il ventaglio. “Siamo qui per Itachi!”, disse.
Levatosi la benda dagli occhi –
era toccato a lui fare la mosca cieca – mio fratello domandò loro incuriosito:
“Per me? E che desiderate riferirmi?”
“Solo questo: complimenti,
cugino!”, gli risposero beffarde le due ragazze, schioccandogli un bacio sulle
guance e sgonnellandosene via in un gran fruscio di stoffa inamidata,
lasciandoci tutti assai interdetti.
L’arcano venne svelato il giorno
dopo, il 1 aprile e Lunedì dell’Angelo, a colazione.
Ci trovavamo tutti riuniti nel
gazebo, poiché il caldo rendeva la sala da pranzo pressoché asfissiante. Tanto
eravamo presi dalla prospettiva di alzarci da tavola e di poter giocare in
giardino, da non accorgerci degli strani sguardi che gli adulti ci lanciavano,
nello specifico ad Itachi, né tantomeno
di quel loro affrettato e poco credibile congedo, finché, tra una scusa e
l’altra, a tavola rimasero seduti solamente mio fratello e le donne di casa.
“Nipote carissimo”, gli annunciò
la nonna “ieri pomeriggio, tuo zio Madara ha chiesto a tuo padre il permesso per
poterti parlare.”
A onor del vero, Uchiha Madara
era il cugino di nostro padre ma noi, per semplificarci la vita, lo chiamavamo
zio.
“Con me?”, inquisì interdetto mio
fratello, appoggiando la chicchera di latte fresco sul tavolo.
“Sì, tesoro”, convenne nostra
madre “con te.”
A volte l’intelligenza non paga,
fa dannare solamente: Itachi aveva purtroppo subito afferrato il vero
significato dietro a quel verbo in apparenza innocuo.
“Ma … ma è vec- sono troppo
giovane per lui!”, protestò debolmente mio fratello, lanciando delle occhiate
ansiose fuori dal gazebo, sperando in una pronta fuga. “Inoltre, lui è già
stato sposato … Ha pure avuto dei figli e …”
“Itachi, Itachi”, lo riprese
giocosamente una nostra zia “non dovete mica sposarlo subito! Quando avrete
ventuno anni!”
“Nel frattempo, sarà vostra cura
conoscervi meglio!”, rincarò la dose un’altra nostra parente. “Per questo,
vostro padre ha acconsentito a lasciarvi parlare!”
“Sì, è vero che è stato sposato.
Nondimeno, ora è vedovo e non ha bisogno di una moglie che gli produca eredi,
bensì di qualcuno che lo assista e gli faccia compagnia.”
“Ciononostante”, boccheggiò mio
fratello, in cerca di una scappatoia “siamo … intendo dire, nel nostro paese il
matrimonio tra persone dello stesso … sesso … non è contemplato! Quindi …”
“Hai perfettamente ragione,
tesoro”, affermò nostra madre “ed è appunto per questo che le nozze saranno,
come dire, informali.”
“Non voglio essere la sua
concubina!”
All’udire il disperato sfogo di
mio fratello, le donne risero assai divertite.
“Oh, povero tesoro! Quanto è
innocente!”
“No, non sarai la sua
“concubina”! Esiste una clausola che permette matrimoni dello stesso sesso,
sebbene essi siano di seconda categoria rispetto a quelli normali e di sicuro
meno vincolanti.”
“Pensate a tutti i benefici che
otterrete da quest’unione: vostro zio ormai non ha più la pressione di generare
un erede ed è poi molto ricco. Vivrete come un principe con lui, non vi farà
mancare niente!”
“Ne abbiamo discusso giusto ieri
e anche lui sembrava molto interessato a voi, senza contare che nutre nei
vostri confronti un’altissima stima!”
“Concedetegli in questi anni di
approfondire la vostra conoscenza! Magari, col tempo potreste affezionarvi a
lui!”
“Chiedo alle signore il permesso
di alzarmi: temo che la colazione mi sia andata in veleno”, mormorò flebilmente
Itachi, mettendosi in piedi e abbandonando quelle ridenti pettegole, che
avevano interpretato il suo malessere come naturale ritrosia di futura sposa.
Fedele agli annunci delle comari,
lo zio Madara venne a visitare la settimana seguente villa Nakano e la palese
contrarietà di Itachi a simili incontri non tardò a mostrarsi, seppur in
maniera discreta e con l’ausilio di infiniti stratagemmi, primo fra tutti
quello di non rimanere mai da solo in presenza dello zio. Certo, neanche due
comuni fidanzati lo erano mai – c’era sempre un parente nascosto da qualche
parte, che controllava che i due non combinassero nulla di disdicevole –
nondimeno, lo zio stesso era riuscito a persuadere nostro padre ad avere Itachi
tutto per sé, in barba alla tradizione. Di conseguenza, allo zio non piacque
come mio fratello si prodigava a trattenere le persone accanto, impedendogli
così di discorrere liberamente col nipote e la sua controffensiva non tardò a
giungere: tramite cortesi richieste, qualche lagna a nostro padre e piccoli
atti di corruzione (specie a noi bambini), lo zio Madara fu capace di creare
pian piano terra bruciata intorno ad Itachi, isolandolo. A difesa di mio
fratello erano rimasti solamente nostro cugino Shisui – che zio Madara non
tardò a persuadere sua madre a spedirlo in collegio – e Haku, il domestico
personale di Itachi e che lo zio non riusciva a comprare in alcun modo. Infatti,
sebbene il ragazzo apparisse molto mite e servizievole, come tutti gli abitanti
di Kiri e di dintorni, Haku ne aveva ereditato lo spirito altamente polemico e volitivo,
tipico di chi non si fa comandare neanche quando deve servire. Tranne che per
gli ordini di Itachi, lui faceva orecchie da mercante con gli altri della
famiglia, anche a costo di subire tremende punizioni da parte di nostro padre. Lo zio Madara non lo poteva soffrire e non
mancò più volte di farlo allontanare da villa Nakano.
Trascorse un anno, durante il
quale incominciò la metamorfosi di Itachi.
Prima di allora, mio fratello
aveva posseduto un carattere sostanzialmente tranquillo, prono al compromesso e
gentile. Col passare del tempo, esso veniva gradualmente sostituito da uno più
inquieto, introverso e lunatico. Osservavo incredulo e al contempo turbato come
il suo sguardo, solitamente così sereno, avesse assunto un’insana ansietà,
spostando in continuazione da un posto all’altro quelle dilatate iridi nero
pece con la stessa agitazione di un animale braccato. Si chiuse in un inspiegabile
mutismo e quando veniva costretto a parlare, balbettava. Scattava ad ogni
parola, s’offendeva per un niente, implorando subito perdono con una vocina
straziante e infantile. Non volle più giocare con me e smise di suonare il
pianoforte, preferendo invece chiudersi in camera sua a scrivere infinite
lettere a Shisui. Quando non scriveva, rompeva tutto ciò che poteva reperire:
vasellame, specchi, giocattoli, libri, quadri, etc., nulla si salvava alla sua
nevrotica furia. In famiglia avevamo preso a chiamarlo “matto”, “isterico”,
“posseduto”, senza tuttavia domandarci il perché di quell’atteggiamento.
Sì, non ci si doveva porre
domande pericolose. Il “perché …?” non doveva sussistere. Forse, noi ignoravamo
genuinamente quel che stava sopportando mio fratello. Forse, lo ignorammo
convenientemente.
Infatti, non ci chiedemmo mai
perché ogniqualvolta che lo zio Madara entrava in una stanza, Itachi, pallido
come un morto, si affrettasse ad abbandonare la sua occupazione, adducendo una
scusa per ritirarsi in camera sua? E che quando lo zio lo raggiungeva per
“conferire” con lui, mio fratello scendesse a cena col volto di chi ha subito
l’asportazione della sua anima?
Non ci chiedemmo mai perché
Itachi avesse smesso di presentarsi ai pasti, rispedendo intatto il vassoio che
Haku gli portava in camera sua?
Non ci chiedemmo mai perché le
bottiglie di spiriti si stessero lentamente svuotando, accusando invece la
servitù?
Non ci chiedemmo mai delle profonde
e scure occhiaie sotto gli occhi di mio fratello? Non mi chiesi mai perché una
notte, in cui nostro zio si fermò a casa nostra per via di un brutto
acquazzone, vidi Itachi irrompere in camera mia, chiudendo a chiave la porta e
supplicandomi in ginocchio di non dire a nessuno che mi trovavo lì. “Ti darò
tutti i miei giocattoli, Sasuke!”, mi ripeteva in un mantra, guardandomi
speranzoso, gli occhi neri arrossati. “Ti darò tutto quello che vorrai! Solo,
non dire a lui che sono qui! Non rivelarlo a Maman e a Papa! Ti scongiuro,
Sasuke! Abbi pietà di me! Aiutami!”, prese a singhiozzare istericamente e altro
non potei fare che abbracciarlo di riflesso e di coricarlo accanto a me, sotto
le coperte, similmente a quelle volte in cui mi intrufolavo nel suo letto,
giacché spaventato dalla prospettiva di essere rapito dal malvagio Re degli
Elfi.
Non ci chiedemmo mai perché
Itachi, incurante dei pettegolezzi, in seguito a quell’episodio avesse ordinato
espressamente a Haku di dormire con lui la notte?
Non mi chiesi mai che sorta di
liquido contenesse quella boccetta che Itachi aveva comandato a Haku di
comprare da una curandera [1]
e che il giovane domestico gli aveva
ceduto in gran segreto, in cucina?
E, infine, non ci chiedemmo mai
il perché di ciò che avvenne il giorno del sedicesimo compleanno di Itachi? Del
motivo per il quale nostra madre dovette
quasi tenerlo fermo, quando disse a nostro zio: “E sia, Madara caro. Vi
permetto di baciare mio figlio. Qui”, dichiarò scherzosa, indicando la fronte
di mio fratello, che assunse un’espressione da suppliziato, svenendo a momenti.
O trovammo mai una spiegazione al
gesto da lui compiuto la notte stessa? Ancora mi rimbomba nelle orecchie l’urlo
terrorizzato di Haku: “Oh, Sant’Erasmo de marinèri agiùto! Paron Itachi,
fermève! No fé! No fé!”
Grido d’allarme che subito
svegliò nostro cugino Shisui – che dormiva nella stanza in fondo al corridoio.
“Parla cristiano, Haku! E dimmi
che succede!”, lo sentii berciare di rimando, mentre l’eco della sua corsa
forsennata si riverberava per il piano. Tanto era stato lo spavento del giovane
domestico, che s’era espresso nel suo dialetto.
“Paron Shisui! El se vol mazzare!
Se vol mazzare!”
Presto, all’esclamazione di
orrore di Haku si aggiunse anche quella di nostro cugino, seguita da strilli
non dissimili a quelli di un agnello sgozzato.
“Lasciatemi! Lasciatemi stare!”
“Haku, tienilo fermo!”
“Mollatemi, ho detto! Faccio
quello che voglio!”
“Paron Itachi, metta zò quel
cortelo!”
“Lasciatemi! Lasciatemi!”
“Invece di parlare aramaico,
dammi la medicina! Ora!”
“Non ne avete il diritto!”
“Sbrigati, pantegana di Kiri!”
“Sior màmara …”
“Ohé, ti ho sentito!”
“Oh no, paron Sasuke! Via, via!
Drento in cànbera! Ehm, volevo dire: ritornate in camera vostra!”
“Non ci voglio tornare!”
“E voi ci dovete invece andare!”
“Voglio vedere mio fratello!”
“Ma sparisci, nano! Non renderci
le cose difficili!”
“Lo dirò a Maman, Shisui, che
m’hai insultato!”
“Bravo! Vai a far la spia e
lasciaci soli!”
Quando lo scompiglio generale
provocato da Itachi riuscì a svegliare tutti gli abitanti di villa Nakano e
quando questi, ripresisi dallo choc iniziale, raggiunsero la fonte di tal
baccano, trovarono mio fratello sfinito e ubriaco delle sue stesse lacrime in
braccio ad uno Shisui pieno di graffi sul volto, sulle braccia e sulle mani e
Haku che mi stava trascinando di peso in camera via, impedendomi di assistere a
quel triste spettacolo.
Nessuno commentò. Nessuno fece
niente.
«Ich liebe dich, mich reizt deine schöne
Gestalt;
Und bist du nicht willig, so brauch ich
Gewalt.» [2]
(Ti amo, sono incantato dalla
tua bella figura / e se non sarai consenziente, allora userò la forza, ndr.)
Quando
Naruto giunse al porto antico di Kiri, quello sul centro storico, le prime luci
dell’alba stavano accarezzando languidamente la vellutata superficie del mare
blu cobalto, tingendolo di un rosa a tratti vermiglio e sostituendo la
sonnolenta luce grigio-azzurra delle ore appena precedenti al sorgere del sole.
Era grato di essere uscito dal treno e di respirare a pieni polmoni l’aria
frizzante proveniente dal mare placido: dopo ciò che aveva letto, si sentiva
l’animo appesantito dai mefitici vapori dettati dal disgusto e dalla rabbia
generata dall’impotenza. Non doveva stupirsi, erano cose anche fin troppo
frequenti nell’Ottocento, eppure la sua mente non voleva accettare quel che i
due fratelli erano stati costretti a patire, uno come vittima e uno come
involontario testimone.
Quel
diario non era il classico fascicolo che il giovane commissario leggeva,
trovandoci spesso storie tristemente simili. Quelle, per quanto lamentevoli,
mostravano situazioni che si potevano migliorare. La storia raccontata dal
fratello della Sposa, invece, non
suggeriva alcuna soluzione. Fatto. Finito. Quel che era stato era stato.
Sospirando
pesantemente, si passò una mano tremante tra i capelli biondi e si sedette su
di una panchina, in attesa che il traghetto raggiungesse l’imbarcadero e che in
seguito lo portasse all’Abbazia di
Sant’Erasmo e Santa Barbara, la cui silhouette si stagliava in controluce
sull’isolotto poco distante dal porto.
Ingollando
una grossa sorsata di caffè, Naruto riprese là dove si era interrotto.
Una prima significativa svolta
avvenne a partire dal maggio del 1855 e incominciò dalla seguente conversazione
tra nostra madre, la nonna e mio fratello.
“Tesoro, se non t’incomoda,
potrei porti una domanda?”
Itachi, ormai diciottenne, sgranò
dapprima gli occhi neri, come se non avesse udito la voce di nostra madre, per
poi annuire stancamente, finendo con aria avvilita la sua cioccolata calda.
“Ebbene, Itachi, è successo
qualcosa tra te e lo zio Madara?”
La tazza di cioccolata incontrò
troppo bruscamente il suo piattino, macchiandolo del dolce liquido scuro.
“Perché mi domandate questo,
madre? S’è forse lamentato di me? Vuole rompere il fidanzamento?”, inquisì
ansioso mio fratello, lo sguardo per un istante illuminato di folle speranza.
La quale venne prontamente
soppressa dalle rassicurazioni di nostra madre. “Oh no, niente di tutto ciò.
Ecco, forse sì, un poco si è lamentato di te. Sostiene che in questi cinque
anni lo hai spesso trattato con estrema freddezza, evitando ogni suo tentativo
di conversazione e soprattutto restituendogli ogni suo regalo. Certo, la modestia
è raccomandabile, però … concedere di tanto in tanto un sorriso … una qualche parolina
gentile … una confidenza … altrimenti, tesoro, darai la falsa impressione di
non volerlo sposare!”
“E se”, azzardò Itachi,
sporgendosi verso nostra madre “e se fosse proprio questo ciò che desidero? Se
non volessi sposare lo zio?”
“Oh, beata schiera angelica! Che
barbarità stai dicendo, Itachi?”, lo rimbrottò dolcemente la nonna, scuotendo
il capo. “Non ti rendi conto che è l’occasione della tua vita? Onestamente,
devi pensare al tuo futuro. Vuoi rimanere solo per il resto dei tuoi giorni e
accontentarti di giocare allo zietto coi figli di tuo fratello? Non desideri
una casa tua? Itachi, ormai sai cosa implica la tua, ehm, deformazione, no? Non
puoi pretendere di menare la medesima vita di Sasuke! Nessuna donna ti vorrebbe
e molto probabilmente disgusteresti anche gli uomini. Di conseguenza, oltre allo
zio, chi ti piglia?”
All’udire ciò, il labbro
inferiore di mio fratello prese a tremare. “Già … chi mi piglia …”, ripeté come
in trance, tappandosi la bocca per soffocare degli improvvisi e acuti risolini,
i quali crebbero di volume e intensità, fino a portare Itachi a piegarsi dalle
risate, la fronte appoggiata sul tavolo. Prima, però, che la nonna e nostra
madre avessero avuto modo di invitarlo a ricomporsi, ecco che il riso si
tramutava in un disperato pianto e le risate in singhiozzi.
“Itachi, per favore, controllati!
Non è il caso di … oh, Vergine Santissima!”, esclamò spaventata nostra madre,
alla vista di mio fratello lanciare un ultimo stridulo guaito di dolore, per
poi cadere dalla sedia e, una volta sul pavimento, a contorcersi
forsennatamente, neanche fosse stato percorso da continue scariche elettriche.
Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er
mich an!
Erlkönig hat mir ein Leids getan! –
(Padre mio, padre mio, adesso
egli mi ha afferrato! / Il Re degli Elfi
mi ha fatto del male!, ndr. )
In quel momento, io mi trovavo in
cucina: Uzuki Yuugao, la mia governante, si stava prodigando a ricucirmi uno
strappo ai calzoncini provocato da un solenne ruzzolone. Osservando l’abile
andirivieni dell’ago nella stoffa, sorseggiavo serafico la mia acqua e menta,
chiedendo di tanto intanto alla ragazza quanto le mancasse. Non che avessi un
bisogno immediato dei miei calzoncini, però quello era il paio che più
prediligevo.
Il trillo del campanello scosse
tutti i domestici lì presenti dalle loro occupazioni, spronando uno a recarsi
nella sala da pranzo. Venne e tornò, domandando di Haku, il quale abbandonò in
tutta fretta il suo pane e latte, sparendo per due ore buone.
“Cos’è successo, Haku?”, gli
domandò Keiko, un’altra nostra fantesca, al suo ritorno.
“Paron Itachi ha sofferto di una
delle sue solite crisi”, replicò laconico il ragazzo, massaggiandosi
stancamente la tempia destra. Parlare “cristiano”, come a Konoha tutti parevano
essere assai zelanti a ricordargli, lo stancava grandemente.
“Mio fratello?”, m’informai
preoccupato. “Una crisi? E quale? Sta bene? Posso vederlo?”, lo tempestai di
domande, tirandolo per una manica.
“Sì, alla prima, paron Sasuke.
Sì, pure alla seconda. Attacco nevrotico, alla terza. Adesso megio alla quarta
e no, alla quinta. Non potete visitarlo per il momento. Ordini del medico”,
soddisfò Haku paziente eppure conciso la mia curiosità. Dopodiché, si rivolse alla
vecchia Ryoka, la nostra cuoca. “La parona Mikoto si chiedeva, se potevi
intanto preparar pel paron Itachi un decotto di melissa. Per calmargli i nervi,
dice lei.”
“Ché! Di nuovo? Pah!”, scrollò le
spalle la donna, accingendosi ad eseguire la richiesta del giovane domestico.
“Altro che melissa! Quello là ha bisogno di un esorcismo!”, dichiarò,
segnandosi più volte. Alcuni dei servi lì presenti la imitarono tosto.
“Che sia posseduto?”, chiesi
conferma a Yuugao, portandola a segnarsi anch’ella.
“Spero di no, padroncino!”
“Made!”, esclamò stupito Haku,
incrociando le braccia al petto. “A che razza di stramberie state dando aria?
Posseduto? Via digo, non vi fate sentire, per carità! Paron Itachi sta male,
ecco tutto.”
“Ma che ha?”
“Lo sai forse, Haku?”
“Trascorri molto tempo con lui!”
Incrociando due dita alla bocca,
Haku sentenziò solenne: “I servi ch’hanno giudizio, non vanno a parlare de’
fatti de’ loro paroni!” e detto questo, presa la tisana e si recò in camera di
mio fratello.
Perché la parola di un servitore
non valle nulla, anche contro le malefatte del suo padrone. Anzi, alla fine è
proprio il domestico che paga la sua audacia, accusato di infondata
vituperazione e calunnia.
“Ti ringrazio infinitamente,
cugino, per aver esaudito la mia richiesta”, esordì Itachi il suo discorso, osservando
Haku di sottecchi mentre questi, servito il tea e la Victorian Cake, si
sistemava nell’angolo più remoto della stanza, assumendo l’espressione vacua di
chi fingeva di non sentire.
Cinque giorni dopo l’attacco
isterico, mio fratello aveva potuto lasciare il letto, senza tuttavia uscire
dalla camera da letto: il dottore gli aveva sconsigliato ogni sforzo inutile,
sollecitandolo piuttosto a riposarsi. Così, lui ed io trascorrevamo la maggior
parte del tempo nel suo boudoir, mio fratello in vestaglia e allungato sulla
chaise longue e io sulla poltrona accanto, leggendogli ad alta voce di tanto in
tanto un libro. Passatempo che io trovavo assolutamente barboso, ma che
tuttavia giovava assai ad Itachi, giacché, anch’egli annoiato, si addormentava,
cullato dal mio orrido francese.
Quel pomeriggio, però, nostro
cugino Shisui venne a trovarci, certamente su invito di Itachi. Preso posto
scandalosamente ai piedi della sua chaise longue, invece che sulla poltrona (il
cugino aveva sempre tratto un perverso gusto a sfidare le buone maniere), egli
s’informò dapprincipio sulle condizioni di salute di mio fratello, il quale lo
ringraziò per l’interessamento, sostenendo che stava migliorando per quanto
fosse tormentato all’occasione da delle fastidiose vertigini.
“Bagni di mare, cugino caro”, gli
consigliò Shisui, dopo aver ascoltato attentamente il resoconto di mio
fratello. “Sono un ottimo rimedio per le vertigini. O almeno così affermano i
medici. A mio avviso, ti saranno utili come scusa per allontanarti da qui per
un po’ di tempo.”
Mio fratello sospirò,
accarezzando pensoso il gatto rosso sul suo grembo. “L’idea non mi
dispiacerebbe, Shisui. Purtroppo, però, sia mio padre che lo …”, deglutì “zio
convengono quanto sia meglio tenermi in casa, così da evitare ogni possibile
ricaduta.”
“Oh, una scusa convincente la si
trova sempre, Itachi!”, sogghignò nostro cugino, così come soleva fare da
bambino, quando aveva ideato una marachella ai danni degli adulti. “Ti ricordi,
cugino, della signorina Nohara Rin?”
Sia mio fratello che io arcuammo
intrigati il sopracciglio. Cos’era quel repentino cambio di argomento?
“Sì … che mi dici di lei?”
“Ebbene, mio fratello Obito nutre
un certo interesse nei suoi confronti e i genitori di lei sembrerebbero
approvare siffatte attenzioni. Nondimeno, prima di annunciare ufficialmente il
loro fidanzamento, a Obito piacerebbe conoscere meglio la ragazza, poterle
parlare liberamente a tu per tu, senza tuttavia creare infamanti dicerie. I
signori Nohara tengo estremamente al decoro. Mi segui?”
“Sì …”
“Bene, perché avremo bisogno dell’aiuto
tuo e dalla piccola pulce”, gli rivelò con fare cospiratore, accennando a me
con un lieve cenno del capo.
Aggrottai indispettito la fronte:
Shisui aveva un modo tutto suo per dileggiarmi, appellandomi nei più disparati
modi. E ciò che mi irritava maggiormente, era il fatto che Itachi trovasse i suoi
lazzi divertenti.
“Del mio aiuto? Di Sasuke? Come?”
“Ti ricordi della nostra lontana
parente, la signorina Terumi?”
“Mei? Certo, seppur vagamente.”
“Ecco, ha deciso di prendere i
voti.”
All’udir ciò non riuscii a
trattenermi dall’esclamare: “Si fa suora? Non l’avrei mai detto! Mi era sempre
parsa assai volitiva e energica per chiudersi in un convento!”
Mi sovvenivo molto bene di quella
giovane rossa, che si diceva possedere in corpo tutti i sette diavoli di Maria
Maddalena. Figurarsi: figlia unica, figlia per di più della vecchiaia, ovvio
che non le facesse paura manco il demonio in persona e che fosse abituata a
comandare gli altri a bacchetta! Ne sarebbe venuta fuori una portentosa
badessa, altroché!
“Eppure così va il mondo e per
quel che mi riguarda, lei può anche andare al diavolo!”
“Shisui!”, lo riprese Itachi,
elargendogli a mo’ di punizione un colpetto alla coscia col piede.
“ Perdono cugino. In ogni modo,
importa il fatto che Mei sia la migliore amica di Rin: da piccole entrambe
hanno infatti studiato nello stesso convento dalle suore. E quale miglior
occasione, se non questa, per avvicinare Rin? Di sicuro parteciperà all’entrata
ufficiale dell’amica in monastero!”
“Sì, ma cosa centriamo noi?”
Shisui roteò gli occhi
melodrammaticamente. “Se Obito dovesse recarsi a Kiri da solo, la gente capirà
subito che si reca a corteggiare Rin. Se ci andassimo solo mio fratello ed io,
sarà palese che uno dei due gioca alla donna – o nel nostro caso, uomo – dello
schermo. Invece, se ci recassimo tutti a Kiri, sembrerà una semplice gita di
famiglia. Che te ne pare? Non l’abbiamo azzeccata? Inoltre, Itachi, considerala
anche come un’occasione per respirare un po’ d’aria buona e soprattutto per
scrollarti di dosso certe … patelle!”, gli annunciò trionfante il ragazzo e
attendendo una nostra risposta.
Dal canto mio, ero più che
entusiasta di partire alla volta di Kiri, di cui avevo dei bellissimi ricordi.
Mi mancavano molto le lunghe passeggiate sulla spiaggia, l’aria salmastra,
l’incessante canto dei gabbiani, i bagni e soprattutto le frittelle della
signora Yuki – o Mamma Haruhi – un tempo
nostra balia e madre di Haku.
Anche Itachi condivideva le mie
medesime aspettative e il luccichio nei suoi occhi tradiva palesemente l’enorme
voglia di poter trascorrere l’estate lontano da villa Nakano.
“Dovrò chiedere il permesso a mio
padre …”
“Non ti preoccupare: penserò io a
tutto! Sai quanto lo zio Fugaku mi ami alla follia!”, scherzò Shisui, le cui
orecchie in realtà ancora bruciavano da tutte le volte, che nostro padre lo
aveva rimproverato e punito per le sue infinite monellerie, lamentandosi poi
con sua madre per non essersi risposata dopo la morte di zio Kagami, così da
fornire sia Obito che Shisui di una figura paterna e autoritaria, che li
avrebbe messi finalmente in riga, al posto di crescere allo stato brado,
com’era solito nostro padre descrivere l’educazione impartitali dalla madre.
In ogni modo, la proposta del
cugino parve aver sortito il suo effetto: per la prima volta dopo molto tempo,
vidi Itachi sorridere genuinamente spensierato, rallegrandomene anch’io.
Alas, la sorte congiurò di nuovo contro
di noi.
Due mesi dopo quel discorso, il
colera scoppiato nel frattempo a Kumo e ad Iwa raggiunse anche Konoha, mietendo
molte vittime.
Tra cui anche Shisui.
Per un anno Itachi smise di
parlare, entrando in una depressione nera.
“Sior!”
Codesto
richiamo giunse tanto inaspettato, che il diario per poco non cadde di mano a
Naruto, finendo così in mare. Ricompostosi fretta, il bionde mise nella borsa a
tracolla il suo prezioso quadernino, balzando giù dalla panchina e raggiungendo
il traghettatore, il quale l’aspettava all’imbarcadero tra il divertito e lo
spazientito.
Erano le
sette e un quarto del mattino e l’alba ormai aveva ceduto il posto alla mattina
vera e propria.
“Mi
scusi”, si cosparse Naruto il capo di cenere, osservando preoccupato l’acqua
profonda e inquieta a qualche centimetro dal suo piede. “Ero sovrappensiero …”
“E bondì
anche a lei, sior”, lo salutò il giovane dai capelli biondo-rossicci,
arricciando le labbra in un mezzo sorriso birbante. Con tutti quei piercing in
faccia, poi, sembrava un teppista, se non proprio un galeotto.“Dormito male?”,
s’informò, tendendo la mano a Naruto, che questi afferrò saldamente per entrare
nella snella imbarcazione, la quale oscillò un poco, provocando una piccola
vertigine nel commissario. “Si sieda ai lati, accanto ai siori e non si
preoccupi: la nostra putèla non si capovolge! Non sempre, almanco!”, scherzò,
mescolando alla lingua standard parole di dialetto.
Sedutosi
rigidamente accanto agli altri quattro passeggeri, Naruto si sentì molto
stupido per aver esternato sì platealmente il suo timore.
“E dov’è
diretto?”
“All’Abbazia
di Sant’Erasmo e Santa Barbara!”
“Ma a
quest’ora xè chiusa alle visite!”, obiettò il traghettatore.
“Non mi
reco lì per scopi turistici”, replicò sibillino Naruto. “Bensì per … una
ricerca.”
Gli
occhi azzurri del giovane squadrarono a lungo il biondo, chiaro segno che non
gli credeva interamente. Nondimeno, fischiò al suo collega l’ordine di incominciare
a remare, mentre lui aiutava l’imbarcazione a scivolare via dalla banchina appoggiandosi
alle paline.
Estraendo
lentamente il diario, il giovane commissario ingollò l’aria salmastra –
diamine, adesso scopriva che soffriva di mal di mare? – e riprese a leggere.
In seguito alla morte del suo
cugino preferito, gli attacchi nevrotici di Itachi mutarono in apatia e se già all’inizio
egli si esprimeva a monosillabi, adesso ci sembrò che la lingua gli si fosse
seccata in bocca e che mio fratello avesse assunto la medesima vitalità di un automa.
Non si sottraeva più alle visite dello zio, onorandole in silenzio e con lo
sguardo vuoto di chi era altrove con la testa. Mantenne poi il lutto completo
anche dopo i tre mesi di prassi per gli uomini, invece di sostituire l’abito scuro
con la più comoda fascia nera al braccio per i restanti nove mesi.
Le letture di Itachi subirono
inoltre un inquietante dirottamento: curiosando nella sua libreria personale,
scoprii che mio fratello aveva sviluppato un morboso interesse nei confronti
dello spiritismo e di pratiche esoteriche e sfogliando i numerosi libri e
articoli di giornale, notai che si stava concentrando prevalentemente sul
richiamo degli spiriti dall’Aldilà, come evocarli e parlare con loro. Alla
lettura dei contenuti di quegli scritti mi vennero i sudori freddi e per la
prima volta realizzai, che un qualcosa di sinistro si stesse insinuando
nell’animo di mio fratello, lui di solito così calmo e razionale. Così, pieno
d’ardore preadolescenziale, mi prefissai di sottrarre Itachi a quelle idee
perniciose, esaudendo l’ultimo favore che Shisui aveva intenzione di fargli,
ergo portarlo a Kiri. Del resto, il colera aveva sconvolto anche le nostre
esistenze, sospendendo ogni attività e solo dopo un anno potemmo lentamente
riprendere il normale corso delle nostre vite.
Trovai un’ottima alleata in Rin,
ora fidanzata ufficiale di nostro cugino Obito. Quest’ultimo si era fatto
avanti solamente al termine del periodo di lutto contemplato per la morte del
fratello e sempre con qualche ritrosia. Rin, con abile civetteria, convinse il
fidanzato ad accompagnarla per qualche tempo a Kiri, affermando che le mancava
terribilmente la sua migliore amica e i parenti lontani. Gli stessi signori
Terumi si dimostravano più che disponibili ad ospitarci per l’estate. Fu un
lungo lavoro di persuasione, ma alla fine nostro padre cedette e la mattina di
Pentecoste del 13 maggio 1856 la carrozza per Kiri ci aspettava impaziente,
carica fino a scoppiare dei nostri bagagli.
L’accoglienza dei signori Terumi
fu grandiosa, degna del loro status della famiglia più altolocata di Kiri (e
non a caso erano lontanamente imparentati con noi). Non trascorreva giorno, che
Madame Yurika, la madre di Mei, non ci organizzasse un tea con dei suoi conoscenti;
una serata concertistica in casa sua (addirittura una volta un ballo privato); una
gita fuoriporta, ad esempio ad Ame, o una gita in barca. Di tanto in tanto Mei
ci onorava della sua presenza, ottenendo da brava capricciosa e testarda il
permesso dalla madre superiora di uscire dal convento. Mi faceva uno strano
effetto vedere quella che chiamavano la Basilissa di Kiri, sempre così elegante
e raffinata, vestire di un umile saio nero e il lungo velo bianco da novizia;
all’inizio molti avevano creduto che il suo gesto fosse stato dettato dalla
noia o dalla sua perenne volontà di stupire. Invece, notando una certa
pacatezza nel parlare e nell’atteggiarsi ora più dolce, compresi che la sua
vocazione era sincera, sebbene seguitasse ad essere comunque spaventosa, quando
s’arrabbiava, e regina indiscussa del “voglio e posso”.
Malgrado i notevoli sforzi dei
nostri anfitrioni, mio fratello non prese parte a nessuno degli svaghi da loro
proposti e del resto, per una persona che aveva trascorso gran parte della sua
vita in casa, confrontarsi con così tanta gente ed essere sballottato di qua e
di là gli risultava piuttosto difficile da sopportare, stancandosi
conseguentemente. Eppure, il sollievo di vedere rifiorire il rosato sulle sue
guance smunte e di sentirlo nuovamente conversare con gli altri non me lo levò
nessuno e non mancai di scriverlo a Maman nelle nostre lettere, essendosi la
genitrice molto raccomandata con me di tener d’occhio mio fratello. Inutile
dire quanto ne gongolassi, orgoglioso di quell’importante incarico. Mi sentii
d’un colpo più maturo e responsabile.
Sfortunatamente per le mie
velleità di crocerossina, mio fratello conosceva bene l’arte di scapparmi via
da sotto il naso.
Itachi coltivava, infatti,
l’abitudine di alzarsi molto presto la mattina e di pigliare con sé Haku (da
solo non usciva mai) per delle lunghe passeggiate lungo la promenade principale
in riva al mare e talvolta sulla spiaggia stessa. Dopodiché, al ritorno i due
viravano nel centro cittadino, porgendo una visita a Mamma Haruhi, la quale li
tratteneva per ore e ore, riempiendo Itachi di frittelle – che prontamente
divideva con me – e di raccomandazioni circa il nutrirsi adeguatamente. Infine,
rientrati a casa, mio fratello si rinchiudeva in camera sua, magari sul
balcone, ripresentandosi solo ai pasti. Avendo difficoltà a dormire – così lui
si giustificava – soffriva di frequenti emicranie e preferiva rimanere al buio.
A noi dispiaceva questa suo essere scostante, tuttavia non potevamo di certo
obbligarlo a prender parte alle nostre attività. Tranne che le serate
all’opera, oh, allora sì che Itachi veniva! Peccato, che l’opera e il teatro
fossero proprio gli unici svaghi in cui mi annoiassi grandemente.
Seguimmo questa tabella di marcia
per settimane, senza particolari variazioni.
Fino a quel giorno.
Era il 9 giugno 1856 e mio
fratello festeggiava i suoi diciannove anni; ciononostante, come tutte le
mattine, si levò molto presto, indossò i suoi abiti neri da lutto, chiamò Haku
e, con i corpo solo una tazzina di cioccolata, uscì di casa per la sua abituale
passeggiata mattutina, in barba ai piccoli peccatucci e licenze che si concede,
quando si compiono gli anni. Più rigido di un maresciallo prussiano, Itachi
seguì inflessibile l’ormai consolidato programma.
Quand’ecco che, sulla via del
ritorno, passando per la pescheria uno degli affaccendati pescatori si accorse
tra la folla di loro due, chiamando di conseguenza a gran voce Haku, finché
questi, accortosi, ricambiò il saluto assordando per poco mio fratello.
Rumorosa abitudine di Kiri! Alla domanda di Itachi circa l’identità del
pescatore, il giovane domestico gli rivelò tutto d’un fiato che si trattava di
Momochi Zabuza, uno che da un po’ di tempo gli faceva la corte.
“E se lui dovesse chiederti di
sposarlo, accetteresti?”, gli chiese lentamente mio fratello, fissando a lungo
il ragazzo, che replicò pragmatico:
“E perché no, paron Itachi? De
diana, mica m’attacco con un battellaio! Zabuza possiede una casa sua, due
tartane e ha gente che lavora per lui. Sa leggere e scrivere e ci conosciamo da
quando io ero una creatura! Pensate, paron, che a Santa Caterina c’ha regalato
una cesta piena di canocie e in primavera di moeche! [3] La mia mama m’ha
detto, che se non fosse tanto vècia, lo sposerebbe lei!”
“Solo per questo saresti disposto
a divenire, ehm, il suo consorte?” Per
uno appartenente all’aristocrazia, trovare appetibile un soggetto come Momochi
Zabuza gli risultava assai arduo, se non proprio inconcepibile. Nondimeno,
Itachi dedusse che per Haku, per il suo strato sociale, la sua educazione e il
paese d’origine, egli corrispondesse ad un buon partito. Si aggiunga poi che a
Kiri il matrimonio tra le persone dello stesso sesso valeva tanto quanto quello
eterosessuale e il gioco valeva la candela.
“No, paron, non solo. Ammetto che
mi piaccia e anca molto”, arrossì il ragazzo. “Sennò, mica gli permettevo di
baciarmi, la domenica dopo la funzione!”
Le orecchie di Itachi divennero
rosse. “Tu … tu l’hai baciato?”
“Sì ben, paron, e più volte! Oh,
viva diana! Altrimenti, me lo prendeva ’n altro! Come faceva a capire, che
m’interessava? Non vi baciate, voialtri siori?”, si giustificò Haku, interdetto
dalla moralistica incredulità di mio fratello. “Però v’assicuro, che le chele
le ha ben tenute in tasca, veh! Sono un putèlo onorato, io!”, lo rassicurò così
solennemente, che sulle labbra fini di Itachi si curvarono in un malinconico
sorriso.
“Allora, non farlo aspettare”, lo
incalzò mio fratello, accennando all’uomo con un discreto cenno del capo. “Vai
a parlare con lui!”
Il viso di Haku s’illuminò. “Daséno?
Posso?”, disse, per poi mordicchiarsi a disagi il labbro inferiore. “Ma voi?”
“Tornerò a casa da solo, ormai
conosco la strada. Prenditi la giornata libera”, gli offrì generosamente
Itachi, osservando mesto come Haku si era lisciato i capelli e i vestiti prima
di raggiungere Zabuza e di come il suo viso si fosse tramutato in un bocciolo
di rosa, tanto le guance imberbi del ragazzo s’imporporavano di lusinga e
affetto mentre cicalava con l’uomo, il quale, malgrado la grossa stazza e le
forti mani ruvide, rosse e callose, trattava il giovinetto con tale garbo, che pareva
avere tra le mani un cristallo di Boemia.
Chissà, magari in quel momento
Itachi, osservando in disparte la scena, dovette aver provato una grande
invidia nei confronti del suo domestico, così felice e spensierato nel suo
amore e corteggiato da un uomo sì di umili origini, ma che lo rispettava.
E forse fu proprio con l’immagine
dei due sorridenti e complici, che mio fratello deviò dal consueto percorso,
dirigendosi invece verso e la spiaggia e, una volta lì, sedendosi sulla morbida
sabbia ancora fresca e catturando distrattamente i granchietti che si
nascondevano sotto di essa, per poi liberarli subito dopo.
In quello stato di incantamento
dovette mio fratello essere rimasto piuttosto a lungo, giacché non s’accorse
della marea che ingoiava avida la spiaggia man mano che il sole si alzava, né
avvertì egli l’acqua lambirgli le scarpe e i vestiti. Continuava a rimanere
rigidamente seduto in quella posizione, le ginocchia al petto e lo sguardo
fisso davanti a sé, incurante di ciò che lo circondava, immerso nella
solitudine del meriggio.
Fu quando l’acqua gli sfiorò il
naso, che una forte presa per le ascelle lo issò in piedi, trascinandolo in un
rumoroso scroscio a riva, o almeno così sperava di fare il soccorritore, poiché
Itachi, ripresosi dall’attimo di confusione, si divincolò prontamente
dall’altro, indietreggiando scompostamente e perdendo l’equilibrio, fino a
cadere di nuovo in acqua in un sonoro tonfo.
“Varé là, non fate storie!”, gli
offrì lo sconosciuto la mano, onde rialzarsi. “A mollo non si sta bene!”
Per tutta risposta, mio fratello
con un brusco e ampio movimento del braccio creò una piccola onda, che lavò
completamente il viso dell’uomo.
“Rinfrescante!”, commentò quegli sarcastico,
asciugandosi il volto gocciolante. “Via matto, datemi la mano!”, disse
gentilmente, sporgendosi per afferrare quella di Itachi, che invece schiaffò
via la sua, allontanandosi da lui come un’aragosta. “Se siete duro di testa,
strambazzo!”
“Non mi toccate!”, berciò mio
fratello, distanziandosi ulteriormente dallo sconosciuto, il quale levò in alto
le mani, senza tuttavia accennarsi a lasciarlo da solo.
“Sta ben. Non vi tocco”, replicò cauto
l’uomo. “Tuttavia, vogliate avere l’amabilità di rialzarvi e di tornare a
riva!”
“Posso farlo benissimo anche
senza la vostra supervisione! O dovete per forza controllarmi?”
“Nel vostro caso, temo di sì.”
“Aria, non siete né la mia balia
né tantomeno mio padre! Non accetto ordini dagli estranei!”
“Nessun ordine, ve l’assicuro”,
lo tranquillizzò serafico lo sconosciuto. “Solo un consiglio: essere mangiato
vivo dai granchi non è una bella morte!”
Gli occhi di mio fratello si
ingrandirono, sorpresi. “Come, prego?”
“Non lo sapete? In tempi antichi,
una punizione molto frequente qui a Kiri consisteva nel legare il condannato ad
un palo, fargli un piccolo taglio e lasciarlo lì, in attesa dell’alta marea e
in balìa dei granchi. Macabro, nevvero?”
Evidentemente sì, poiché Itachi
scattò in piedi e, crocifiggendo con lo sguardo il suo soccorritore, si diresse
piccato sul bagnasciuga, borbottando tra i denti: “Siete un individuo
ripugnante …”
L’uomo aprì la bocca per
replicare, per poi chiuderla all’ultimo momento, limitandosi a scuotere il capo
e a ridacchiare tra sé e sé. “Lustrissimo!”, salutò mio fratello, abbozzando ad
un inchino.
Itachi non lo degnò di una
parola, proseguendo inviperito e bagnato fradicio verso casa.
Fu la prima espressione “viva”
che gli lessi in volto dopo un anno.
“E mi
dica, di dove xéla?”
Sull’imbarcazione
erano rimasti solamente Naruto e il traghettatore, il primo in un lieve stato
di dormiveglia: complice la notte trascorsa in bianco e l’ora piacevole
dondolio delle onde, gli occhi celesti del biondo si erano gradualmente chiusi
e fu forse per questo motivo, onde evitare che cadesse all’indietro in acqua,
che il rematore aveva attaccato bottone con lui, svegliandolo di conseguenza.
“Eh?
Scusi? Che ha detto?”
Sbuffando
sonoramente, il giovane ripeté snervato: “Di dove xéla?”
“Potrebbe
parlare cristiano, per favore?”, lo pregò Naruto, sinceramente disorientato da
quel dialetto cantilenante e sibilante e stufo di capire trequarti di quel che
il traghettatore gli stava dicendo.
Peccato
che la sua richiesta tinse di rosso le gote dell’altro e non ti imbarazzo.
“Debòto le dago un “parlare cristiano” su la copa!”, lo minacciò neanche troppo
velatamente.
E io pensavo che la gente
scherzasse, quando affermava che quelli di Kiri e di Ame fossero permalosi!, cogitò apprensivo Naruto,
indovinando cosa “copa” potesse significare e, giudicando i pochi centimetri di
legno che lo separavano dall’acqua, era meglio non contrariare eccessivamente
il giovane pel di carota.
“Ehm, vengo
da Konoha!”
“Daséno?”,
strinse gli occhi il traghettatore, sospettoso. “E che è venuto a fare qui?
Quale ricerca? È uno storico?”, si sforzò di conversare nella lingua standard.
Evidentemente, teorizzò il biondo, voleva una risposta certa a quelle sue
domande. “Un giornalista?”
“Sono un
commissario!”
“Ah”,
fece il giovane pensieroso. “Nisùn cuà xé sta copà!”
“Eh?”
“Ammazzato!
Nessuno. È . Stato. Qui. Ammazzato!”
“Non
sono sordo! E comunque, non sto indagando su di un omicidio!”, obiettò Naruto,
massaggiandosi le orecchie. Accidenti, se prima aveva sonno, in seguito a
quell’ululato si sentiva anche fin troppo sveglio! “Sto conducendo delle
ricerche circa la veridicità di una certa ballata!
Quella …”
Il viso
pieno di piercing del giovane assunse lo stesso colore della cenere. “Sì, sì! Gh’ho
capìo! Ho capito! Non entri nei dettagli! So ben a quale “ballata” si
riferisce, savéu?”, lo interruppe e il biondo, avvertendo un certo scossone,
intuì che avesse accelerato con la voga, pur di accorciare la distanza che li
separava dall’Abbazia.
Silenzio.
“Gh’ha
la novisa? La morosa?”
Naruto
annuì. “Certo e oggi in teoria dovevamo convolare a nozze. Tuttavia, abbiamo
incontrato alcuni impedimenti e non …”
“Sì,
sì”, lo interruppe di nuovo il traghettatore, vogando con maggior lena. “Ed è
per questo, che lei vuole andare all’Abbazia? Che spera di trovare?”
“Spero
di trovare qualcuno che mi parli della Sp-
…”
“Tasé
là, matto!”, lo zittì il traghettatore, sputando immediatamente in mare a mo’
di scongiuro. “Non la nomini! Me vol far preçipitàr?”, gli chiese quegli
severamente.
“Anche
lei ha paura della … avete capito, no?”
“Tutti
ne hanno, sior màmara!”, sentenziò il giovane, chiudendo definitivamente la
conversazione. “Che domande da papagà!”
Trascorsero tre giorni dal primo
incontro di Itachi e di colui che sarebbe stato la croce e la delizia della sua
vita. Incontro, che notai aver in qualche modo impressionato mio fratello a
giudicare dalla fronte aggrottata di chi stava rimuginando sopra un affare
rognoso o dall’improvvisa quanto inspiegabile interruzione delle sue
passeggiate mattutine. Alle mie incessanti richieste sulla fonte di tale
singolare comportamento, Itachi replicava laconico che s’era imbattuto in un
moscone piuttosto fastidioso.
Ci si poté ben immaginare la sua
sorpresa quando lo rivide tre giorni dopo e sempre senza previo avviso.
Quel pomeriggio i signori Terumi,
i miei cugini ed io eravamo stati invitati dai signori Haruno, anch’essi in
villeggiatura a Kiri, a prendere un tea. In tutta onestà, all’epoca non rimasi
molto entusiasta all’idea di dover trascorrere quasi quattro ore in compagnia
della loro figlia, Sakura, che dall’alto dei miei quattordici anni trovavo
assai noiosa e petulante. Ancora un anno e avrei cambiato repentinamente
opinione.
In ogni modo, Itachi declinò la
nostra offerta di venire con noi dagli Haruno, sostenendo di essere un poco
affaticato dal caldo e che preferiva riposare qualche ora in camera, confortato
dalla frescura del buio. Al contrario, i vapori bollenti provenienti dalla
strada s’infiltrarono facilmente in casa, rendendogli impossibile il sonnellino
ristoratore. Così, bagnatosi dietro il collo, rinfrescatosi il viso e
cambiatosi gli abiti, mio fratello scese al pianterreno con un libro
sottobraccio e s’immerse nella lettura, dimentico del trascorrere del tempo.
Nello stesso istante in cui la
pendola suonava le sei e un quarto, un persistente battito alla porta distolse
mio fratello dalla pagina del libro, persuadendolo a levare il capo e a cercare
con lo sguardo un domestico, che andasse ad aprire la porta. Non trovandolo,
Itachi sospirò e, appoggiato il libro, si recò lui stesso ad aprirla,
spalancando sconcertato gli occhi quando il viso del suo soccorritore occupò
prepotentemente la sua visuale.
“Bondì, sior. Stavo cercando …”
“Non sono il domestico!”, gli
ricordò Itachi in un sussurro, seguitando a fissare l’uomo come se si trovasse
dinanzi ad una bestia rara.
“Sì, l’avevo capito”, liquidò
l’altro la faccenda con un brusco svolazzo della mano. “Posso almeno entrare?”
Senza proferire alcun motto, Itachi
gli cedette il passo, o meglio, lasciò la porta aperta e abbandonò l’uomo alla
soglia, tacito invito ad entrare e a chiudere da sé la porta. Inoltre, la
strategia di mio fratello contemplava una fuga strategica in camera sua, così
da evitare imbarazzanti conversazioni; tuttavia, il nuovo arrivato lo raggiunse
abbastanza velocemente da domandargli, bloccandolo:
“Sto cercando sior Terumi! Sapete
se sia in casa o meno? In virtù di suo ospite, ovviamente”, aggiunse, in modo
da sottolineare che aveva compreso e accettato lo status sociale di mio fratello,
che, appollaiatosi dietro lo schienale di una poltrona, rispose atono:
“I signori Terumi sono ospiti dai
signori Haruno.”
“Ah”, fece pensoso l’uomo. “E
pressappoco non avete un’idea, verso a che ora potrebbero ritornare?”
“No”, dichiarò Itachi, trovando
un grande interesse sui ricami dello schienale, invece che alla contemplazione
del viso dell’ospite. “Tuttavia sono quasi le sei e mezza e certamente
potrebbero rincasare da un momento all’altro.”
“Siete rimasto quindi solo in
casa?”
Mio fratello strinse le labbra in
una linea dura.
“Vi dispiace se lo attendo per
una decina di minuti?”
Itachi non disse nulla.
“Potrei almanco sedermi?”
Mio fratello scrollò le spalle.
“Lo prendo come un sì”, sentenziò
l’uomo, prendendo posto. “Ah, non siete obbligato a tenermi compagnia”,
aggiunse poi, arricciando divertito la bocca, quando Itachi si sedette invece
anch’egli, seppur a debita distanza da lui, ripigliando in mano il suo libro e
sforzandosi a riprendere la lettura interrotta.
Nessuno dei due aprì bocca per i venti
minuti che seguirono, eleggendo i ticchettii della pendola ad unico rumore
presente nel salotto. L’unico scambio di battute che si concessero fu l’offerta
di un bicchiere di limonata da parte di Itachi, che il nuovo arrivato rifiutò
cortesemente, traendo maggior diletto a spiare di sottecchi la figura di mio
fratello che, seduto ritto come un fuso, leggeva ormai per la trentesima volta
la stessa riga.
Ignoro cosa entrambi avessero
potuto pensare in quegli attimi; ciononostante, posso figurarmi – considerati
anche gli eventi che seguirono – il modo in cui a sua volta Itachi studiò di
nascosto le fattezze dell’uomo e non con la sua consueta posa rigida e tesa,
come quando lo zio Madara veniva a visitarlo, rimanendo solo con lui o in
salotto o nel giardino d’inverno.
Nessun affanno o nervosismo
sfigurava i lineamenti del suo viso.
Fastidio. Disagio. Sdegno.
Imbarazzo, ecco cosa vi si sarebbe potuto scorgere.
Curiosità.
Interesse?
Sentimenti contrastanti, che lo
spingevano a cambiare costantemente posizione sul divano, così da osservare con
comodo e tuttavia discreto l’ospite, il quale di sicuro se ne accorse, ma lo
lasciò fare.
E fedele alla parola data,
quest’ultimo alle sette meno qualcosa si alzò dalla poltrona, prontamente
imitato da Itachi. “Bene”, esordì l’ospite, ripigliando il fascicolo che aveva
portato seco. “E’ evidente che sior Terumi non rincaserà troppo presto. Poco
male, ripasserò un altro giorno”, annunciò più a se stesso che a mio fratello,
che lo ascoltava più muto di un pesce. “Temo che dovrò prendere congedo da voi.
Che sollievo, nevvero?” e se la frase voleva suonare sardonica, in realtà venne
proferita con tale cortese tatto, che costrinse mio fratello ad abbassare per
un istante lo sguardo, dirottandolo altrove onde celare un pizzico di vergogna
per la sua sgarbatezza e un notevole rossore alle orecchie.
“Ah, stavo dimenticando!
Quell’acqua di colonia non inganna nessuno: si sente, l’alcol!”, si sovvenne
l’uomo all’ultimo, quando ormai aveva un piedi mezzo dentro e mezzo fuori di casa.
Piegando in basso gli angoli
della bocca e assumendo un’espressione altamente irritata, Itachi gli sbatté
senza tante cerimonie la porta in faccia. Resosi però conto, che
all’appendiabiti ancora indugiavano sia il cappello che il bastone da passeggio
dell’ospite, mio fratello li prese, riaprì la porta e li cedette di malagrazia
a quell’altro che se la rideva alla grande, per poi chiuderlo nuovamente fuori
casa. Dopodiché, appoggiandosi sfinito al legno, Itachi espirò tutta l’aria dai
polmoni, portandosi il palmo della mano a qualche centimetro dal naso e,
alitatovi contro, ne annusò l’odore. Lo scocciatore aveva ragione, appurò egli
piccato, l’alcol degli spiriti sopraffaceva infido quello del profumo. Perché
nessuno glielo aveva fatto notare prima? Per pietà?
Diavolo d’un satanasso
intromettitore!, fumò mio fratello, afferrando violentemente il libro e
dirigendosi a grandi falcati in camera sua e rimanendovi per il resto della
serata.
“… uno scellerato, un tanghero, un
iniquo, un ruffiano, un cialtrone, un sangue di giuda, un pendaglio da forca,
un cane, un assassino, un birbo malnato, uno scimmiotto …”
Appoggiando il vassoio della cena
sul tavolino, Haku fischiò impressionato. “Varé, che casi! Paron Itachi, non
starete un poco esagerando? Mi sembrate paron Sasuke quando parla di quella putta,
la …”
“… Sakura”, lo aiutai, rubando un
pezzettino di focaccia. “E quel confetto rosa si merita ben di peggio!”,
sentenziai solennemente.
“Sì, giusto lei”, convenne il
domestico. “Per averlo conosciuto appena da qualche giorno, siete un po’ troppo
duro ne’ suoi confronti! Manco sapete il suo nome!”
“Mi è bastata un’occhiata per
capire con che razza di gaglioffo avessi a che fare!”, affermò Itachi con
sufficienza e provocando ad Haku una grande, grossa e grassa risata:
“Varé, varé! Oh, poveretto mi!
Che discorsi! Me maraveggio de vu, paron Itachi!”
“E parla cristiano, Haku! Non
capisco niente, quando ti esprimi in turco!”
“Haku ha ragione, fratello! Chi
disprezza compra! Non è che per caso …?”
“Vi siete forse messi d’accordo,
voi due?”, sibilò bellicoso mio fratello, imporporandosi. “Un’altra parola,
pidocchio, e scrivo agli Haruno per fissare un altro incontro con la loro tanto
graziosa e adorabile figliola …”
“Perfido!”, borbottai tra i
denti.
Ridacchiando compiaciuto, Itachi
si allungò sulla chaise longue. “Che dovrei trovare di interessante in quel
cafone? Non è affatto avvenente, né veste con gusto. Sono rimasto inoltre stupito
che sapesse esprimersi a parole e non a versi …”
“Certo, certo …”, ci lanciammo
Haku ed io delle occhiate complici.
“In ogni modo”, ridivenne Itachi
improvvisamente serio “anche se dovessi essermi in qualche modo infatuato di
codesto pezzente, ciò non cambierebbe la realtà, ovvero che sono già fidanzato
con lo zio Madara …”, mormorò e la sua affermazione ottenne l’effetto di
distruggere l’atmosfera di intima e giocosa confidenza, che s’era previamente
creata. “E dopo quello che è successo” e lì i suoi occhi neri divennero
preoccupantemente vuoti e opachi “non ho intenzione di compromettermi con
nessuno!”
Nessuno di noi due ebbe cuore di
replicare, limitandoci a lasciare tranquillo Itachi a consumare la sua cena.
Alas, quanto mio fratello si
sbagliava! La sorte aveva appena iniziato a giocare con loro!
Il giorno seguente, infatti,
mentre uscivamo dalla chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, il
signor Terumi venne preso in disparte da colui che intuii essere l’oggetto
delle invettive di mio fratello. Incuriosito, lo studiai per bene, concordando
con Itachi circa la poca avvenenza dell’uomo, il quale tuttavia non aveva la
faccia di un delinquente, solo di una persona piuttosto pragmatica e spiccia. E
tanto ero immerso nella mia contemplazione, che sussultai all’arrivo di mio
fratello, specie quando questi mi afferrò per la mano, tentando di trascinarmi
via dal campo visivo dell’uomo.
Sennonché, il signor Terumi ci
pizzicò, voltandosi verso di noi e riempiendoci di cortesi domande, prime fra
tutte riguardo la salute di mio fratello, che la sera precedente aveva
disertato la cena in compagnia. Di conseguenza, grazie a quel repentino cambio
di interlocutore, il famoso sconosciuto si accorse della nostra presenza e
nello specifico di quella di Itachi; trattenendo a forza un ghigno, egli allora
allungò un poco il collo dalla spalla del signor Terumi per meglio scrutarci,
inquisendo falsamente offeso:
“Ché, sior Terumi! Non mi
presentate i due signorini?”
Ridacchiando un poco imbarazzato
per la sua mancanza di buone maniere, il nostro anfitrione esaudì prontamente
la sua richiesta. “Oh cospettaccio, avete ragione, perdonate la mia
dimenticanza!”, si scusò bonariamente, schiarendosi la voce. “Sior Hoshigaki,
permettetemi di presentarvi i fratelli Uchiha, figli di mia cugina Mikoto e
miei ospiti per tutta l’estate.”
“Uchiha Sasuke”, allungai la mano
tutto baldanzoso e con arie di grande importanza. “E’ un piacere conoscervi,
signor Hoshigaki!”
“Il piacere è tutto mio,
signorino”, replicò l’altro, stringendomela a mo’ di saluto. Una presa forte,
decisa, eppure non brutale.
Reclutante, mio fratello gli concesse
a malapena tre dita da stringere. “Uchiha Itachi”, disse tutto d’un fiato,
tanto che neppure mi resi conto del movimento dalle sue labbra.
“Alla fine ci conosciamo … ufficialmente”,
commentò l’uomo con tono burlone, catturando quasi la mano di mio fratello, che
s’affrettò a ritirarla.
“Vi siete già incontrati?”,
s’informò il nostro anfitrione, guardando incuriosito i due.
“Di sfuggita”, dichiarò conciso
mio fratello, lo sguardo ben piantato contro quello del signor Hoshigaki,
sfidandolo a rivelare oltre.
Guanto raccolto. “Ho intravisto
di tanto in tanto il signorino Uchiha in riva al mare e ieri pomeriggio, quando
sono venuto a cercarvi a casa vostra, è stato così gentile da tenermi
compagnia, intrattenendomi con la conversazione più brillante ch’abbia mai
udito in vita mia!”
Dovetti trattenermi dal ridere
alla vista delle orecchie di Itachi divenire scarlatte dallo sdegno e dal modo
in cui la sua fronte si aggrottava in una maschera assassina.
“Purtroppo il signor Hoshigaki
non si è trattenuto abbastanza, da poter approfondire la nostra conoscenza”, si
difese mio fratello dalla velata frecciatina dell’altro. “Spero, di avere più
occasioni in futuro”, ergo alle calende greche, il giorno del mai.
“Oh Itachi, le avrete
certamente!”, lo rassicurò il signor Terumi. “Il signor Hoshigaki è il miglior
collaboratore nella mia ditta ed ora che è ritornato dal suo viaggio a Kumo,
sono certo che non mancherete di stringere amicizia! Adesso, però, basta
cicalare e raggiungiamo le nostre dame! Chi le sente, altrimenti?”
E nel frattempo che il nostro
anfitrione ci precedeva, sussurrai maligno a mio fratello: “Il vecchio t’ha
proprio infinocchiato, na? Adesso ti tocca sul serio sorbirtelo”, dileggio
prontamente punito da Itachi che, serrandomi inclemente la mano che ancora mi
stingeva, mi sibilò minaccioso:
“Taci, oca!”, per poi sciogliere
la presa e spedirmi da Rin, rimanendo solo col signor Hoshigaki, fatto davvero
notevole per lui, visto che senza Haku mio fratello non si muoveva da nessuna
parte, neppure in casa.
“Che commuovente dimostrazione di
affetto fraterno!”
Voltandosi di scatto verso
l’uomo, Itachi raddrizzò la schiena, sperando di colmare la notevole differenza
di altezza. “Come tratto mio fratello non è affare che vi riguardi! Inoltre, se
osate spifferare a chicchessia di quanto avvenuto in spiaggia e del …
dell’alcol” e qui Itachi abbassò la voce “giuro che vi affogo!”, lo avvertì con
la stessa audacia di chi aveva sia la coda di paglia che le spalle al muro,
brutta combinazione sì sì.
Incrociando le braccia al petto e
cambiando peso da una gamba all’altra, il signor Hoshigaki asserì seriamente,
ogni traccia di ilarità perduta: “Non è mio uso fare la spia, putèlo!
Nondimeno, questo non significa che cesserò di tenervi sottocchio …”
Il respiro di mio fratello
divenne irregolare dalla collera. “Papagà maledetto!”, gli sputò quasi in
faccia.
“Ah, finalmente avete imparato
qualche vocabolo della nostra lingua!”
“Sì”, convenne velenoso Itachi “a
sufficienza per insultarvi!”
L’uomo scosse il capo. “Almeno vi
sfogate”, puntualizzò egli grave. “E mi dimostrate di essere vivo e non un automa …”
“Potremmo interrompere qui la
nostra conversazione? Essa non è di mio gusto …”
“Per il momento, signorino
Uchiha, per il momento”, gli accordò clemente il signor Hoshigaki, cedendogli
il passo.
Senza rialzare lo sguardo, Itachi
accettò il tacito invito, le gote in fiamme e il petto in affanno da un
bizzarro languore mai prima d’allora provato, un turbamento che lo confondeva e
che lo spintonava in direzioni opposte, dal desiderio matto di decollare quel
furbastro dalla lingua lunga, alla voglia di indugiare ancora qualche istante
in sua compagnia, anche solo per seguitare in quell’infruttuosa tenzone.
E come tutti coloro che si
trovano ad affrontare aspetti di se stessi che non conoscono, scivolando nel
dubbio e nella paura, Itachi sperò di non rincontrare più il signor Hoshigaki,
ripromettendosi poi di evitarlo il più possibile, come la peste.
La faccenda dello zio lo
tormentava a sufficienza, non aveva bisogno di sovraccaricare il suo spirito di
altre spine.
Se, dopo
aver attraccato alla banchina di marmo, l’essersi recato di persona a chiamare
una delle suore dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara fosse corrisposto
ad un atto di disinteressata generosità da parte del traghettatore, Naruto non
seppe affermarlo con certezza. Fatto stava, che appena le mani del secondo
rematore erano venute a contatto con le paline, subito il giovane dai capelli
biondo-rossicci era balzato giù dall’imbarcazione, raggiungendo silenzioso la
porta del convento e lì sparendovi per una buona mezzora, istillando nel
giovane commissario la curiosità di conoscere che cosa quel teppista avesse
detto su di lui, ricordandosi all’ultimo che lui non capiva un emerito niente
del dialetto di Kiri.
“Così
lei sarebbe il commissario Uzumaki Naruto?”, lo riportò alla realtà
un’imperiosa voce femminile, appartenente alla composta e ieratica figura della
suora dinanzi a lui. “Yahiko mi ha riferito, che lei sta conducendo una ricerca
su di un soggetto piuttosto malvisto sia a Kiri che a Konoha.”
Uscendo
non senza qualche difficoltà dal traghetto, Naruto colmò la distanza tra di
loro, confermando quanto detto dalla donna. “Esatto, reverenda madre”, disse, ringraziando
il cielo che finalmente aveva trovato qualcuno che non si esprimeva in burundi.
“Il mio scopo ultimo è di apprendere quanto più possibile su questo soggetto,
acciocché io possa trovare il modo per neutralizzarlo una volta per tutte,
impedendogli di mietere ulteriori vittime.”
“Riassumendo,
ha preso di mira lei e la sua fidanzata?”
Naruto
assentì col capo. “Così è, reverenda madre. Posso domandarle come …?”
Un
deciso cenno della mano lo zittì. “Non qui. Non ora. Ritiriamoci in un posto
dove lei per volere del castigo
divino non può più entrare …”, asserì, facendogli strada.
Presi
due bei respiri profondi, il biondo si apprestò a seguirla, sennonché
all’ultimo si ricordò dell’onorario al traghettatore, il quale già aveva
ripreso il suo posto di guida. “Ecco, prenda”, gli allungò una banconota
crocchiante. “E non si preoccupi per il resto!”
Gli
occhi blu di Yahiko si soffermarono a lungo sui venti ryo, per poi spostarsi
sul volto stanco di Naruto.
“Nah, no
li voggio!”, rifiutò infine il giovane, impugnando il remo e mulinandolo per
girare il traghetto in direzione del porto antico. “Se li tenga!”, dichiarò
grave. “Le saranno utili!”
“Per
cosa?”, chiese scettico Naruto, rinfilando in tasca i soldi e domandandosi il
motivo di quella pecuniaria rinuncia.
Forse
era il chiaroscuro, ma il ghigno di Yahiko assunse una connotazione sinistra.
“Pel suo
funerale, sior!”
To be
continued …
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[1]
Guaritrice di campagna e levatrice
[2]
strofa dal “Der Erlkönig” di J.W. Goethe (1782)
[3] Canocie
= canocchie, cicale di mare. A Venezia c’è un detto: “A Santa
Caterina megio 'na canocia de 'na galina” (A Santa Caterina (25/11)
meglio una canocchia che una gallina), giacché in quel periodo le canocchie
sono belle grasse, con il succulento corallo da gustare!
[3b] Moeche = in primavera i granchi sono in
amore e hanno la corazza più morbida. Molto buoni fritti. |
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Capitolo 5 *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: la Notte di San Giovanni, Annus Horribilis 1858 ***
Premetto
che non la sto tirando per le lunghe: semplicemente, mi manca il tempo
effettivo per scrivere capitoli più lunghi e “corposi” di eventi. Di
conseguenza, preferisco che essi siano più brevi e aggiornati con maggior
frequenza. Almeno così la vedo io. Siate, per favore, pazienti.
Capitolo
pieno di dialoghi, poi! Mammina, mi sembra così strano scrivere poche
descrizioni! XD
Le avvertenze
solo le stesse! :P Ora c’è l’Mpreg. Per davvero. Siete avvertiti! Muhahahahhaha!!!!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle
infaticabili Jooles, SellyLuna e Sagitta72! Grazie anche a coloro che
hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Buona
lettura!
H.
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“Sono sicura che vostro fratello
abbia l’amante!”
Il terzultimo atto di questo
doloroso dramma ebbe inizio con questa esclamazione.
Correva l’anno 1857 e la stagione
termale era stata appena inaugurata; di conseguenza, la prospettiva di
interrompere di tanto in tanto la monotona routine del Liceo per delle
escursioni alle terme nei Colli di Oto mi entusiasmava, anche perché potevo
finalmente immergermi in un ambiente meno insulso e infantile rispetto a quello
liceale. Avevo pensato, all’inizio, che terminare il Ginnasio sarebbe
corrisposto ad un salto di qualità [1]: al contrario, mi ritrovai in classe circondato
da un manipolo di bambinetti scialbi, noiosi e arroganti per via del loro
status di nouveau riches, nel quale si crogiolano orgogliosamente, null’altro
che volgari arricchiti con modi da contadino travestito da signore. E il peggio
era che più di tanto non potevo prendermela con simile marmaglia, rispondendo adeguatamente
alle loro continue provocazioni: il denaro conduce le danze e purtroppo la mia
famiglia doveva mantenere rapporti civili coi genitori dei miei compagni di
scuola, onde non crearsi nemici fastidiosi. Inoltre, con loro non potevo
discutere di niente che uscisse dalla sfera del pragmatico, rendendo di
conseguenza le nostre conversazioni banali e superficiali, per quanto fossero i
miei compagni stessi i primi a cercarmi, forse intrigati dal mio cognome
aristocratico, uno degli ultimi a Konoha. Di conseguenza, li trattavo con la
medesima sufficienza di un principe nei confronti dei suoi servitori, lusingato
della loro venerazione, che tuttavia celavo dietro una maschera di fastidio. Malgrado
questo misero palliativo, al Liceo mi stufavo e non vedevo l’ora di
ricongiungermi alla mia famiglia, in particolare a mio fratello, le cui lunghe
conversazioni mi mancavano parecchio. Trascorrendo molto tempo a casa per via
della sua “malattia”, Itachi possedeva un sapere eclettico, del quale lui per
primo se ne lamentava, sostenendo che fosse tutta teoria e niente pratica.
Insomma, che peccava di ingenuità. Dal canto mio, protestavo dicendo che la
smettesse di fare il modesto, lui che con le sue letture e la sua memoria
portentosa avrebbe potuto discorrere tranquillamente con un professore
universitario. Allora, scuotendo il capo, mio fratello obiettava che a casa si
annoiava e che, essendo lui riservato di natura, preferiva ascoltare piuttosto
che parlare; ecco dunque spiegato perché poteva ricordare una nozione anche se
sentita solo di sfuggita. Piccato, gli chiedevo se lui mi stesse dando del
chiacchierone, visto che io impiegavo due volte per ricordarmi un concetto.
Itachi mi assicurava che non lo ero, aggiungendo però che molto spesso il mio
smisurato orgoglio mi rendeva sordo alle opinioni altrui. Visibilmente
irritato, controargomentavo e via così fino a coinvolgere qualche altro membro
della nostra famiglia, per stabilire se io fossi o meno caparbio. Dopodiché, a
pace fatta, passavamo ad un altro tema.
Queste discussioni con mio
fratello mi aiutarono molto nell’arte della conversazione (specie a
controllarmi, quando avevo degli scatti di nervi per una replica a me non
gradita), giacché le terme erano totalmente diverso dai circoli da finora da me
visitati, ergo casa mia, i salotti di Madame Terumi e di Madame Haruno e
ovviamente il Liceo. Dialogare era più ostico, in quanto l’ambiente vagamente
ambiguo delle terme riuniva a sé gente dai più svariati trascorsi e di ogni
età. Senza contare che, dati miei freschi quindici anni, dovevo faticare non
poco onde ottenere prima l’attenzione e poi saperla tenere ben viva quando
volevo cicalare coi miei interlocutori. Ma il tutto appariva più divertente,
stimolante, una sfida.
Peccato che potevo godere di
questo svago solamente due volte alla settimana, ergo durante le visite che
porgevamo a nostro padre, i cui reumatismi non cessavano di tormentarlo,
costringendolo ad affidarsi alle proprietà curatrici delle acque termali e
magari, per allietare il cuore, di qualche donnina allegra che certamente
bazzicava di lì. Nostra madre e la nonna, invece, preferivano rimanere
nell’ambiente meno promiscuo di villa Nakano, insegnando la prima ad Itachi nei
tempi morti come si governava la propria casa, dalla cambusa al salario della
servitù, questo in vista del suo prossimo matrimonio con lo zio Madara. E
stranamente, al posto dei suoi soliti tiri isterici, mio fratello la ascoltava
attentissimo, bevendo quasi le sue parole. Neanche a lui piacevano le terme,
però si “sacrificava” ad accompagnarmi di tanto in tanto, soprattutto quando
seppi che i signori Haruno vi avrebbero trascorso la stagione, accompagnati
dalla loro unica figlia, Sakura, che avevano appositamente prelevato dal
convento in cui studiava.
Confesso che all’inizio non nutrivo
una grande simpatia nei suoi confronti, trovandola spesso noiosa se non proprio
stupida, ma era anche l’età difficile della preadolescenza, durante la quale
l’egalitarismo maschio-femmina che sussisteva durante l’infanzia svaniva, vuoi
per l’educazione impartita, vuoi per lo sviluppo fisico e mentale. La sola
idea, quindi, di ritrovarmela in continuazione alle costole mi nauseava. Ed
ecco invece, che io per primo rimasi stupito del suo cambiamento,
meravigliandomi di come un solo anno dalle suore avesse trasformato quella
molesta scimmietta rosa in una signorina perbene, interessante e con la quale
si poteva discorrere senza scivolare nella banalità. Aveva spirito, rispondeva
accoratamente e raramente perdeva la compostezza per delle improvvise arrabbiature,
come al contrario soleva indulgere da piccola. Incominciò a piacermi e volli
per quanto possibile passare più tempo con lei, fatto pressoché impossibile
visto che sua madre sbucava fuori da ogni angolo peggio di una margherita. E
ciononostante, ebbi come l’impressione che alle nostri genitrici il nostro
avvicinamento andasse a genio, alle volte perfino incoraggiandoci, ad esempio a
tavola, quando ci permettevano di sederci accanto.
Fu in una di quelle serate,
mentre ci ritiravamo nel salottino dell’albergo per il caffè, la cioccolata o
lo zabaione coi biscotti, che Sakura, prendendomi leggermente in disparte,
aveva emesso quella terribile sentenza. La causa scatenante? Ultimamente le
avevo raccontato entusiasta dei miglioramenti di Itachi, sulla sua salute ritrovata
sia a livello fisico che mentale. Le narrai del drastico calo delle crisi
isteriche, degli sbalzi di umore e del modo in cui mio fratello avesse
gradualmente abbandonato tutte quelle scempiaggini sullo spiritismo per
dedicarsi a passatempi più pratici, quali ad esempio l’amministrazione di villa
Nakano ora che nostro padre s’era assentato per curarsi: adesso, a ricevere il
nostro commercialista e a controllare i bilanci domestici e non, era appunto
mio fratello. Oppure si dedicava a dirigere e a supervisionare le mansioni
assegnate ai domestici. Le sue letture vertevano non più sul futuro dell’anima
nell’Aldilà, bensì sulla politica e sull’economia, in particolare sui nuovi
mercati, interni ed esteri. L’ultimo punto mi aveva un poco sorpreso, giacché
Itachi non possedeva un’attività commerciale né aveva dato ad intendere di
volerne mai incominciare una. Anche perché, per un aristocratico, lavorare è
degradante, lasciamolo ai borghesi. All’inizio avevo teorizzato che volesse
trovare un qualche titolo per un investimento fruttuoso, ma poi avevo scartato
l’idea visto che Itachi, non essendo ancora maggiorenne [2], non poteva disporre dei suoi beni economici. Che lo facesse comunque
per giovare al suo futuro sposo?
No, aveva scosso Sakura il capo
alla fine del mio discorso. Il motivo del miglioramento di mio fratello era
riconducibile ad una sua probabile tresca amorosa. “Sì, sono proprio sicura che
vostro fratello abbia l’amante!”, dichiarò un po’ troppo audace, per una
signorina della sua classe.
“Sciocchezze!”, ribattei,
incredulo alla mera idea che Itachi si lasciasse andare a simili venalità. “Mio
fratello è freddo come il ghiaccio!”, aggiunsi un poco irritato. “Ha orrore del
contatto fisico e non l’ho visto accostarsi con nessuno, né uomo né donna!”
“Verissimo, ma il ghiaccio è
destinato prima o poi a sciogliersi!”
“E di grazia, chi sarebbe il
fantomatico amante di mio fratello? Non esce quasi mai di casa, né ha amici
stretti. Se Haku non fosse così impegnato ad amoreggiare con quel pescatore ogniqualvolta
ci rechiamo a Kiri, oserei dire che sia lui!”, scherzai, sebbene la mia voce
tremasse di una lieve ansietà, derivata dalla paura che forse i sospetti di
Sakura non erano del tutto infondati.
Ma il dubbio! Il dubbio!
Sventolando civettuola il
ventaglio, la ragazza indicò tramite una lieve inclinazione del capo le quattro
persone sedute in un angolo della sala e intente a fumare le forti sigarette di
Suna, due delle quali erano appunto mio padre e mio fratello.
Aguzzai quindi la vista, sperando
di cogliere il destinatario di quell’accusa visiva. “Il signor Terumi?”,
azzardai infine, un poco disorientato: certo, il nostro caro amico di famiglia
e lontano parente si presentava come una persona simpatica e dabbene, ma accidenti!,
a momenti poteva essere più il nonno di mio fratello, che l’amante!
“Ma no, ma no!”, si portò Sakura
più vicina al gruppetto, così da cambiare angolazione. “Quell’altro. Il suo
collaboratore. Il signor Hoshiqualcosa …”
All’udire ciò strabuzzai gli
occhi, trattenendo a stento una grande, grossa e grassa risata. “Il signor
Hoshigaki? Kisame? Con mio fratello? Ah, Sakura, suvvia! Voi sì che possedete
una fervida immaginazione! Dalle suore leggete forse Catullo al posto di
Cicerone?”, risi, lanciando una rapida occhiata al collaboratore del signor
Terumi, il quale stava discutendo col suo datore di lavoro. A causa degli
acciacchi dell’età, il nostro conoscente era ormai sul viale del tramonto,
preferendo lasciare a Kisame la direzione della sua ditta, pretendendo però da
lui ogni settimana un rapporto completo del suo operato, spiegando così la
presenza di Hoshigaki alle terme, lui che più volte aveva affermato essergli
indigeste, più che altro perché i suoi avventori lo fissavano come se si
fossero trovati dinanzi al Babau.
“E perché mai, scusatemi, dovrei
essermelo inventata?”, chiese Sakura piccata, arcuando le sopracciglia.
“Perché, carissima, so per certo
che Itachi odia il signor Hoshigaki con tutto se stesso! Lo tratta così
freddamente da rasentare a volte la maleducazione; lo evita come se avesse la
peste e quelle poche volte che gli rivolge la parola è solamente per
contraddirlo. Non scorgo in mio fratello alcuna affezione nei suoi confronti,
solo animosità!” e di fatti, spiando mio fratello di sottecchi, trovai conferma
nelle mie parole: Itachi sembrava neppure essersi accorto della presenza di
Kisame, sebbene quegli gli fosse seduto pressocché dinanzi.
Le labbra tumide di Sakura si
piegarono in un sorrisetto sibillino, tipico di chi padroneggiava con maggiori
competenza rispetto agli altri i segreti dell’animo umano. “Il troppo stroppia,
Sasuke”, asserì solenne. “E la scontrosità di vostro fratello verso il signor
Hoshigaki ha un ché di sospetto: è esagerata, teatrale a volte. Perché?
Semplice. Vuole la sua attenzione e siccome il decoro gli impedisce di farlo
attraverso un atteggiamento amabile – i pettegolezzi non sono un’opinione –
allora lo fa tramite il disprezzo! Oh, forse c’è stato un periodo in cui vostro
fratello davvero mal sopportava il signor Hoshigaki! Nondimeno, l’uomo tende a disdegnare
ciò che non può avere. Apertamente, ben inteso. Avete notato, che il signor
Hoshigaki quasi non replica più alle provocazioni di vostro fratello? Neanche avesse
intuito la loro natura fasulla!”
“Vaneggiamenti, Sakura!”, la chetai
energico, incapace di ascoltare oltre quelle che io volevo autoconvincermi
essere solo delle assurde malignità. “Itachi è “fidanzato”, è un ragazzo
onesto, non oserebbe mai macchiarsi di simili indecenze! Inoltre, tra lui e me non sussiste alcun segreto
e se mio fratello mi ha confidato che odia quell’Hoshigaki, allora io gli
credo. Non mi mentirebbe mai, ne sono certo!”
“Lo spero bene, Sasuke, anche
perché non potrei tollerare la presenza di quel tanghero per più di un’ora
nella stessa stanza! Avete visto in che modo si atteggia con noialtri? Neanche
si stesse relazionando con dei garzoni di bottega!”, si lagnò, sperando di
coinvolgermi nella sua invettiva contro il presunto amante di mio fratello.
Purtroppo per lei, l’ascoltavo a malapena, troppo roso dal dubbio: per quanto
non volessi credervi, le insinuazioni di Sakura già stavano germogliando
feconde nell’animo mio. “Ma del resto, che volete aspettarvi da uno che lavora?
Che viene dal nulla? Ovvio, che non possiede un linguaggio forbito! Ancora mi
sorprendo che un uomo colto e raffinato come il signor Terumi gli permetta di
stargli accanto, trattandolo a momenti come un figlio! Non ha buone maniere,
del gentiluomo possiede a malapena l’abito! Il classico arrampicatore sociale,
il quale, chissà, magari sperava di impalmare la signorina Mei per ereditare il
patrimonio del padre, sennonché la prima ha preferito la vita monacale!
Credetemi, vostro fratello sarebbe sprecato nelle mani di un simile zotico!”,
terminò ieratica, chiudendo e riaprendo il ventaglio, segno che null’altro
aveva da aggiungere, e guardandomi speranzosa, in cerca forse di un mio cenno o
sguardo di approvazione a quanto da lei così appassionatamente esposto.
Aspettò invano, poverina, giacché
da tempo avevo smesso di seguirla.
Era solo una mia sgradevole
impressione, oppure Itachi ci aveva osservato per tutto il tempo?
Una volta ritornato a villa
Nakano, mi prefissai come scopo di cogliere in flagrante i due amanti. Per
quanto stimassi Sakura e rispettassi il suo “intuito femminile”, le sue
sarebbero comunque rimaste delle teorie campate in aria, prive di fondamenta, almeno
fino a quando non avrei trovato delle prove concrete a quanto da lei avanzato. Solo allora le avrei creduto e ovviamente
avrei preso dei seri provvedimenti.
Non avrei permesso che lo
scandalo dilagasse fuori dalle mura domestiche, rovinandoci.
Rimuginando le parole di Sakura,
in quegli atroci istanti potevo figurarmi il giogo dell’infamia, la derisione,
gli indici puntati contro di noi, da sempre considerati dall’intera Konoha come
il modello di moralità per eccellenza. Vedevo la mia reputazione infangata, la perdita del rispetto derivato dal mio status.
Vedevo come mi veniva negato il
permesso di frequentare Sakura .
Vedevo mio fratello abbandonarmi
per un altro. Oh, ben immaginavo che non amasse lo zio Madara ed appunto per
questo gli rimanevo accanto, sostenendolo: perché sapevo che lui avrebbe
continuato a non avere occhi che per me! Me! Me! Il suo fratellino!
Quel mostro di Kiri non mi
avrebbe rubato l’affetto di Itachi, traviandomelo.
Anche a costo di distruggere
entrambi.
Di conseguenza, mi impegnai con
ardore alla ricerca di un qualsiasi indizio, di un loro passo falso.
Alas, come due complici in un
assassinio, nessuno tradiva l’altro, nessuno si contraddiceva. Non riuscivo
neppure ad ipotizzare l’esatto istante in cui incominciarono ad indugiare nel
loro turpe peccato. Ogni loro detto, ogni loro azione mostrava solo una
vicendevole freddezza, noia, fastidio: niente baci rubati, niente fazzoletti
lasciati cadere accidentalmente per terra, niente languide occhiate furtive, niente
discreto sfiorarsi di dita.
Nulla.
Di primo acchito parevano due
completi estranei.
Le eventuali lettere d’amore?
Tutte accuratamente bruciate da Itachi. Sempre che quel bruto fosse stato
abbastanza intelligente da scriverle.
Pegni di innamorati? Avevo notato
una collanina nel portagioie di mio fratello, una cosuccia da niente caratterizzata
da una catenina e tre cerchietti d’argento, la quale Itachi ne giustificò la
presenza sostenendo di averla scorta in una bancarella al mercato coperto di
Konoha e che, essendogli piaciuta, aveva deciso di comprarla. Per il suo
miserrimo valore, infatti, non trovai alcuna obiezione sufficiente per
contraddirlo, se non che aveva un pessimo gusto in fatto di gioielleria (o
bigiotteria in quel caso).
Corrompere Haku, che di sicuro
era l’intermediario tra di loro? Sarebbe stato più facile comprare l’arcivescovo
di Konoha!
Rendez-vous segreti? E quali?Li tenni
d’occhio, mio fratello soprattutto, vagliando ogni ipotesi, anche la più
assurda: dove potevano incontrarsi? Dannato Liceo che mi impediva di
sorvegliare Itachi!
Dovevo solo essere paziente, mi
ripromettevo ad ogni mio fallimento. E aspettare … aspettare …
… il gennaio del 1858, anno in
cui giunse infine quel momento.
Nessuno può fingere in eterno, né
similmente serbare un segreto.
Tempus Veritas revelat. Il Tempo
rivela la Verità.
Ma accettare quest’ultima?
Itachi aveva l’abitudine di
visitare spesso il Santuario di Santa Lucia presso il fiume Naka (da cui la
nostra villa prende il nome); sin da piccolo era sempre stato molto devoto alla
santa cui furono strappati gli occhi e mi ricordo che molte volte s’era offerto
volontario a decorare l’altare votivo o – come fece il 13 dicembre dell’anno
precedente, sfidando ogni ordine del medico e la sua salute d’un tratto instabile
– a trasportare la portantina processionale. In famiglia giudicavamo la
devozione di Itachi come una delle sue numerose stranezze; quanto al
sottoscritto, in piena fase di ribellione spirituale, mi divertivo a dileggiare
bonariamente mio fratello, paragonandolo ad una vecchia beghina, rimanendo poi
stupito della sua reazione: invece di ribattere col suo solito umorismo
sarcastico, egli mi fissava a lungo, per poi scrollare le spalle e rivolgere
altrove la sua attenzione. Del resto, nessuno di noi immaginava che quelle
visite fossero finalizzate e non fini a se stesse.
In ogni modo, non fu l’apparente
eccesso di zelo religioso di Itachi ad avermi spinto quel giorno invernale a
seguirlo en cachette, bensì la convinzione che proprio tra i sacri vapori
dell’incenso vi avrei trovato i peccaminosi miasmi dello zolfo. Quale luogo
migliore, infatti, per celare una tresca amorosa? Dentro di me biasimai
entrambi per la loro sacrilega ipocrisia.
Così, poco dopo aver visto mio
fratello e Haku uscire di casa – per motivi di devozione o espiazione, chissà,
egli non usava mai la carrozza – feci sellare il mio cavallo in gran segreto,
in modo da raggiungerli senza destare alcun sospetto in mio padre e nello zio:
se invero Sakura si sbagliava e le sue altro non erano che maligni
pettegolezzi, sarebbe stato increscioso da parte mia imbarazzare così mio fratello.
Se fosse stato innocente.
Ovviamente, non lo era e non
tardai a scoprirlo.
Dal mio osservatorio avevo
un’ottima visuale del piccolo santuario, dentro il quale Itachi e Haku si
trattennero all’incirca per una mezzora. E fin lì, niente fuori dall’ordinario.
Lo choc giunse, seppur non troppo inatteso, quando ad uscire furono sì in due,
ma del giovane domestico nessuna traccia.
Mio fratello si trovava in
compagnia di Hoshigaki Kisame e avrei scommesso la mano destra che Haku era
rimasto o in chiesa o in sacrestia, molto probabilmente con l’ordine preciso di
trattenere il prete il più a lungo possibile occupato, così che i due avrebbero
avuto tempo a sufficienza da trascorrere insieme.
Come una vera coppia.
Ché tutta l’alterigia e
l’indifferenza, mostrate da Itachi durante il loro ultimo incontro “formale”
alle terme, cascavano come il palcoscenico abilmente allestito dai due amanti.
Non camminavano a braccetto né si tenevano per mano; tuttavia, il modo in cui
passeggiavano, tanto vicini da sfiorarsi le spalle, tradì una certa intimità
fra di loro. Per un pezzo nessuno dei due proferì parola, limitandosi a
deambulare per il giardino dietro al santuario, là dove sorgeva il famoso
“Pozzo dei Ciechi”, la sua vera fortuna giacché si narrava, che coloro che si
bagnavano gli occhi con la sua acqua potevano riacquistare la vista. Fu nella
sua prossimità che Itachi domandò con lo sguardo a Kisame di fermare il loro silenzioso
vagabondare, prendendo posto su di una panchina di marmo.
“Avresti dovuto telegrafarmi”, prese
Itachi per primo la parola. “Avrei trovato un pretesto per mandare Haku a
ritirare il tuo messaggio … Non hai idea dell’angustia in cui ho vissuto in
questi giorni, senza tue notizie! Mi sono sbucciato le ginocchia a furia di
pregare per il tuo ritorno, delinquente! L’inverno non è mai un buon periodo
per navigare, neppure con le vostre navi a vapore! E appunto per questo, che ti
avevo chiesto di telegrafarmi, perché sai che la notte non dormo quando parti
per un viaggio d’affari!”, rimproverò imbronciato l’amante, che gli afferrò
delicatamente la mano, mentre Itachi appoggiava la testa sulla sua spalla.
“Dov’ero diretto non sussisteva
il modo per telegrafarti. Nondimeno, questo non significa che mi fossi
dimenticato di te o che non volessi farti avere mie notizie.”
Mio fratello levò la testa dal
suo appoggio e la reclinò sulla sinistra, segno che in parte gli aveva
condonato la sua mancanza.
“In ogni modo”, riprese Kisame,
leggermente in soggezione dinanzi lo sguardo poco convinto di mio fratello. Che
strano vedere quel colosso, che si atteggiava tanto sicuro di sé da sfiorare
l’arroganza, addolcirsi in un timido scolaretto al primo amore. “Ho parlato con
la vedova Kayama: la casa è disponibile.”
La casa?, aggrottai incredulo la
fronte. La sfrontatezza di quel ruffiano per davvero non conosceva limiti?
Il viso di Itachi s’illuminò di
piacere. “Me ne rallegro, poiché era subito stata di mio gradimento!”
Tzé, ecco cosa faceva! Altro che
passeggiate sulla promenade in riva al mare! Cercava il trogolo per potersi
comodamente rivoltare con quel pezzente!
“Al mio ritorno, sarà mia cura
comprarla.”
“Come? Parti di già? Adesso, che
sei appena tornato?”, inquisì smarrito mio fratello.
“Sarà l’ultima volta, te lo
prometto: questo carico mi frutterà abbastanza da ritirarmi, nel senso che non
sarò più io quello costretto a viaggiare di persona. Inoltre, adesso che la
madamoxèla Mei ha preso i voti, sior Terumi sta seriamente valutando l’ipotesi
di lasciarmi le redini della ditta. Ormai è vecchio e non riesce più a
sostenere la fatica di gestirla.”Sì, il signor Terumi ne aveva accennato a
riguardo alle terme e Itachi aveva reagito alla notizia con un’annoiata
scrollatina di spalle. Ora, invece, potevo leggere uno smisurato orgoglio nei
suoi occhi neri. “Dopodiché, potrai tranquillamente indossare alla luce del
sole questo …”, concluse Kisame, estraendo dalla tasca una scatoletta,
posandola sulle mani di mio fratello aperte a coppa, il quale tosto incominciò a
scartare il pacchettino.
“Che dirà la gente?”, ebbe Itachi
un improvviso attimo di esitazione, bloccandosi nel mezzo del processo di
apertura del presente. “Cosa dirà la mia famiglia? Loro danno per scontato il
mio matrimonio con quell’individuo e non vorrei che per ripicca ti nuocessero!”
“Che s’azzardino, se ne hanno il
fegato!”, replicò bellicoso l’altro, tingendo il tutto con una punta di gelosia
alla menzione dello zio, il suo “rivale” per così dire. “Il y a des juges à
Berlin, nel nostro caso a Kiri. [3]
Giudici che neppure il tanto osannato
nome degli Uchiha potrebbe intimidire né tantomeno comprare! Quello in cui ci
stiamo per imbarcare non è nulla di criminale, che torto commettiamo dinanzi
alla legge? Quanto alla gente del mio paese, dopo l’esecuzione del nostro
ultimo sovrano e la proclamazione della repubblica, non si stupisce ormai più
di niente!”
“E il signor Terumi? Ti vorrà
ancora cedere l’attività dopo la bufera, che sicuramente si scatenerà? Non
proverà rabbia e vergogna per aver “tradito” la sua fiducia?”
All’udire queste obiezioni, lo
sguardo di Kisame s’indurì. “Non è che stai avendo dei ripensamenti, vero,
Itachi?”
“No, per carità, non sia mai!”,
s’affrettò mio fratello a dissipare i giusti dubbi dell’amante, afferrandogli
con vigore la mano e impedendogli di alzarsi. “Sono disposto ad affrontare
qualsiasi ritorsione da parte della mia famiglia, se questo mi permetterà di
vivere con te anche solo per un giorno! Ciononostante, non potrei sopportare il
saperti preso di mira da loro, di vedere gli anni di sacrifici e umiliazioni per
emergere gettati alle ortiche per della merce avariata quale il sottoscritto!
Non voglio essere la causa della tua rovina!”
Il loro corrispondeva davvero ad
un lussurioso capriccio? Anteporre il benessere e la felicità dell’amato
rispetto al proprio era il sinonimo di un libidinoso svago?
Era così?
In quell’istante volli, volli
credere con tutto me stesso che sì, che altro non si trattava che dell’ennesima
follia di quell’instabile di mio fratello.
“Non sei merce avariata. Avevi
tredici anni, come potevi difenderti?”
“Sono e resto deforme.”
“Ai loro occhi, non ai miei.”
“Hai sempre la risposta pronta
per ogni cosa, furbastro?”
“Ammetto di aver avuto un buon
maestro”, si schermì giocosamente Kisame, posando una mano sulla spalla di
Itachi e, attiratolo a sé, posandogli un casto bacio sulla tempia sinistra.
Mio fratello abbozzò ad un timido
sorriso che si allargò quando, finito di scartare il pacchetto, trovò quel
ch’io intuii essere l’anello di fidanzamento, un piccolo rubino, pegno notevole
per l’estrazione sociale da cui proveniva il suo compagno.
“Starò via per tre mesi, Itachi”,
gli annunciò lentamente Kisame, fissandolo intensamente dritto negli occhi.
“Giurami che m’aspetterai. Giurami”, diss’egli stringendo forte al petto mio
fratello. “Giurami sulla tua vita, sugli occhi tuoi belli, su Iddio e la
Madonna e Santa Lucia, che per sempre mi resterai fedele.”
“Questo è facile: lo promisi
già il dì in cui ti conobbi. O quasi”,
si corresse mio fratello, rigirando l’anellino tra le dita fusiformi. “Non fui allora
molto cortese nei tuoi confronti e me ne rammarico …”
Un secondo bacio sulla fronte lo distolse dai
suoi mea culpa. “Ma giurami soprattutto, Itachi, che al mio ritorno, vivi o morti, ci
sposeremo.”
Che giuramento scellerato quel
mostro stava obbligando il mio povero fratello a compiere? Non sarebbe stato
Itachi tanto ingenuo, o stolto, da accettare, vero? Pregai ardentemente che
rifiutasse, che lo schernisse, che gli intimasse di sparire per sempre dalla
faccia della terra.
Pia e vana speranza.
“Lo giuro”, rispose tremendamente
serio mio fratello, due dita alzate e la mano al cuore, per poi addolcire il
tono di voce, aggiungendo: “E tu promettimi che tornerai presto. Anzi, che
appena metterai piede sulla terraferma, verrai a prenderci e a portarci via da
Konoha!”
Cosa? Avevo udito bene l’orrore
contenuto in quelle parole?
“Perché parli al plurale, ora?”
Itachi non rispose, limitandosi a
nascondere il viso nell’incavo della spalla di Kisame. Ciononostante, riuscii a
vedere come nel frattempo si sbottonava pudicamente il cappotto, scoprendo il
ventre sul quale appoggiò la mano dell’amante.
Come quel disgraziato reagì, cosa
disse, non lo seppi mai.
Mi rifiutai di scoprirlo, non me
ne importava.
Ero disgustato oltre ogni dire da
quanto visto e udito. Da quanto in basso fosse caduto mio fratello, sostituendo
il vizio alla virtù e infrangendo la promessa di matrimonio.
Lasciai dunque tubare le due
colombelle nella loro peccaminosa melma, ritornandomene a villa Nakano a
meditare vendetta.
Itachi doveva pagare per
l’affronto che stava progettando alle nostre spalle.
Il
gelido inverno rifiorì nella primavera, che s’infuocò nella gagliarda estate,
ma dell’innamorato nessuna notizia, la sua agile nave ancora non si scorgeva
all’orizzonte.
Affrontai mio fratello un mese
dopo quell’incontro e non per carità cristiana: innanzitutto, dovevo verificare
se l’abominio annunciato al suo drudo per davvero stesse crescendo nel suo
ventre. Secondo, trovare l’occasione propizia per indurlo alla confessione del
suo peccato e sottoporlo al giudizio della mia famiglia.
“Come! Niente vino stasera,
Itachi?”
“Non sei dell’umore adatto per un
giro a cavallo, fratello?”
“Accidenti, è l’ottava frittella!
Rischierai di divenire un’orca assassina!”
“Hai vomitato di nuovo, fratello?
Sicuro che il tuo stomaco sia a posto?”
Lo tempestavo ogni giorno di
simili domande, ribollendo intimamente alla sua faccia tosta, a quel suo
guardami tutto innocentino, come se non avesse la benché minima idea di quello
a cui mi stessi riferendo. Tuttavia, man mano che il tempo trascorreva,
incominciai a notare dei piccoli segni di cedimento in mio fratello, come ad
esempio il lieve e sospetto tremolio della sua mano, quando appoggiava la tazza
col decotto di camomilla sul suo piattino. O l’assenza di repliche alle mie
frecciatine. In quel momento, se avessi potuto, lo avrei strangolato, tanto il
furore e la vergogna per le sue azioni mi accecavano.
“Forse”, azzardai, osservando con
perfido divertimento il vassoio semivuoto di frittelle, che Haku gli aveva
sistemato sul tavolino nel suo boudoir, “forse dovresti mangiare di meno.
Ultimamente, ti ingozzi come un maiale all’ingrasso. Non vorrai mica che ti
ammazziamo per San Giovanni, spero?”
“Paron Sasuke!”, mi rimbeccò il
suo domestico, prendendo la teiera ormai vuota della camomilla. “Se vostro
fratello ha fame, lasciate che si nutra quanto vuole! De diana, mica lui vi
rimprovera quando vi tuffate su’ pomodori!”
“Non importa, Haku”, s’intromise
il diretto interessato, cedendogli la sua tazzina. “Sasuke non voleva essere
offensivo nei miei confronti. Piuttosto, potresti per cortesia riempirmi la
teiera con dell’ulteriore camomilla? Te ne sarei grato!”
Il servo annuì, chiedendomi se
desiderassi qualcosa e ricevendo uno scocciato svolazzo della mia mano, ergo
che era per lui consigliabile sparire dalla mia vista se non voleva, che mi
scaldassi i palmi sulla sua faccia. Afferrato al volo che non era il caso di discutere
oltre col sottoscritto, Haku uscì dalla stanza, non senza aver commentato tra i
denti un rassegnato “invaxà”, invasato.
Rimanemmo infine solamente noi
due, mio fratelli ed io.
“Perché sei stato così scortese
nei confronti di Haku?”, ruppe il silenzio Itachi, osservandomi perplesso. “Non
è facendo la voce grossa, Sasuke, che appari superiore rispetto a lui.”
Ipocrita moralista!, volli
urlargli, tuttavia trattenendomi. “Quel briccone a volte si prende troppe
libertà con noi! Addirittura redarguisce i suoi padroni! Se non fosse stato per
il fatto che sua madre ci ha allattati, lo avrei cacciato via di casa seduta
stante! Dopo averlo fatto scudisciare, ovviamente!”
Aggrottando la fronte, mio
fratello argomentò piano: “Haku possiede un carattere schietto, come tutti
quelli del suo paese. Dice quello che pensa e spesso mancando di diplomazia. Lo
conosci ormai, sai come agisce; eppure solo ora lo biasimi?”
“Biasimo sempre coloro che mi
mancano di rispetto”, sentenziai sibillino, lanciando ad Itachi un’occhiata
obliqua.
Silenzio.
“Se hai qualcosa da
rimproverarmi, Sasuke, parla schietto e non colpirmi tramite il domestico!”,
dichiarò perentorio mio fratello, alzando gli occhi dal cuscino a cilindro su
cui stava lavoricchiando. Ignorando il suo severo invito, allungai il collo
verso di lui, domandandogli incuriosito:
“Ignoravo che ti piacesse
ricamare … A fusilli, vero? O, come dicono a Kiri, a mazzette!”
“A metà giugno mi “sposerò” con
lo zio, fratellino”, replicò affabile Itachi. “E di conseguenza, sto cercando
di imparare un passatempo più pratico; non che leggere mi disturbi, però non
vorrei che certi libri mi riempissero la testa d’idee bislacche. Anche perché,
sappiamo entrambi benissimo che se da villa Nakano mi è concesso raramente di
uscire, a casa dello zio sarò seppellito vivo. Quindi, tanto vale trovare delle
distrazioni, non ti pare?”
Razza di sfrontato bugiardo!
“Concordo appieno con te,
fratello. E malgrado ciò, devo confessarti che Sakura ricama di gran lunga
meglio di te!”
“Ne sono contento, almeno
dimostra di essere utile in qualcosa.”
Strinsi la presa sul bracciolo
della poltrona. “La trovi … inutile, è questo ciò che stai insinuando?”
“Non l’ho mai detto”, ribatté
prontamente Itachi, abbandonando definitivamente il suo ricamo sul tombolo.
“Semplicemente non ho trovato nella signorina Haruno nulla di così
straordinario da renderla l’ottava meraviglia del mondo.”
“Io, invece, la trovo molto
amabile. Ma prego, continua, vorrei finalmente sapere la tua opinione su di
lei, giacché sei stato finora l’unico a non averla mai menzionata in un solo
tuo discorso.”
Mio fratello scosse il capo,
sospirando profondamente, neanche l’argomento gli stesse costando un enorme
sforzo. “Lei è carina, certamente. Molto giovane ed è questo che la rende così
graziosa, quasi un cherubino. Come un’opera d’arte del Boucher, senza però il
tocco idealizzato dell’Arcadia.”
“Itachi, colei di cui stai
parlando è …”
“… la contessina Haruno. Sì, sì,
so bene chi lei sia. E so anche che può cospargersi il viso di cipria quanto
vuole, ma il rossore da contadina sulle sue guance non riuscirà mai a
levarselo. Senza contare l’abbigliamento: un pavone a confronto è la modestia
incarnata.”
Espirai dal naso tanta di
quell’aria, che sarei tranquillamente passato per un toro nella corrida. Come
si permetteva di insultare in questo modo Sakura? Rossore da contadina? E lo
scalzacane che lo aveva ingravidato, allora? Chi era? Lord Brummel?
“Non ti figuravo così maligno,
Itachi. Hai forse letto di recente Voltaire?”[4]
“Tu hai chiesto la mia opinione,
Sasuke, non puoi pretendere che essa sia sempre di tuo gusto.”
Era giunto l’istante di terminare
quel gioco. L’espressione vagamente compiaciuta di Itachi, tipica di quando mi
sottoponeva al suo touché! verbale, mi risultava fastidiosa e una parte di me,
oscura e perfida, agognava a strappargliela dal viso.
“Allora, lascia che condivida
anch’io un mio pensiero con te”, sibilai, alzandomi dalla poltrona e
avvicinandomi a lui. “Permettimi di dirti solo questo: che sei un egoista,
Itachi, un insensato senza scrupoli e senza decenza!”
Gongolai alla vista dei suoi
occhi neri dilatarsi, sorpresi e increduli da quanto udito. E profondamente
amareggiati.
“In che modo ti ho mancato di
rispetto, Sasuke, per meritarmi siffatti complimenti da parte tua?”
“E me lo chiedi, disgraziato?”,
fumai, inviperito dalla sua nonchalance, ma che oh!, pian piano si stava
sgretolando. “Ti ho visto, sai? Sì, al Santuario di Santa Lucia! So tutto, è
inutile che lo neghi!”, lo incalzai inclemente, desiderando ardentemente
assistere al crollo delle difese di mio fratello. Di vederlo terrorizzato, con
le spalle al muro.
“Come tuo solito, avrai
equivocato. Non …”
“Equivocato?”, ripetei
ridacchiando. “Ti pare “equivocare” l’averci disonorati col tuo comportamento?
Di aver osato fornicare con quel cialtrone, malgrado tu fossi già promesso allo
zio? Ti pare “equivocare” l’esserti fatto da lui ingravidare, razza di
mostruosa giumenta in calore?” e feci appena in tempo a terminare la domanda,
che un ceffone mi flagellava la bocca, zittendomi.
“Non tollererò questo tuo modo di
parlarmi, nettati la lingua!”, mormorò gelido Itachi, contraendo adirato i
muscoli facciali. “Come puoi insultarmi così? Per cosa, poi? Perché ho espresso
la mia opinione su quella ragazzetta?”
“Non ti sto insultando, Itachi. Né
me la sono presa per via di Sakura. Sto dicendo la verità! Quella verità!”, digrignai
i denti, pulendomi le labbra lievemente sporche di sangue. Diavolo, non
immaginavo che quel “malaticcio” possedesse tanta forza! “O lo neghi?”
Il silenzio di mio fratello valse
a tutte le conferme di questo mondo. In fin dei conti, non riuscivamo mai a
mentirci vicendevolmente a lungo.
“Dunque è vero!”, sussurrai
disgustato, indietreggiando sopraffatto di un passo. “Come hai potuto, Itachi?”
“Tra tutti, eri l’ultimo da cui
mi sarei aspettato questa domanda!”
“Non giocare alla savia Sibilla e
rispondimi una buona volta! Che ti è saltato in mente di compiere simili
porcherie? Sei fidanzato, maledizione! Non hai pensato a noi, mentre aprivi le
gambe a quel ruffiano? Alla vergogna, allo scandalo?”
Rosso in volto – molto probabilmente
per le mie colorite parole che per la collera vera e propria, ché alterato di
sicuro lo era – Itachi scattò anch’egli in piedi, fronteggiandomi. “Vergogna!
Scandalo! Pah, che paroloni! Che vuoti concetti nella bocca di un moccioso, che
ha appena indossato i pantaloni! [5]”, berciò sardonico. “E se proprio qualcuno
in questa casa dovrebbe vergognarsi, non sono io, bensì il caro vecchio zio
che, incurante dei miei tredici anni, ha osato …!”
Per un folle istante, provai
un’infinita pena per mio fratello. Quel che la sua gola si rifiutava di dar
voce, io lo avevo sospettato da una vita, incapace tuttavia di dare un nome al
gesto dello zio, tanto era l’orrore da me provato.
Alas, il breve attimo di compassione
fraterna venne ben presto divorato dalle fiamme dell’orgoglioso sdegno.
“E allora?”, obiettai
crudelmente. “Lo zio era, è, il tuo “fidanzato”! Aveva ogni sacrosanto diritto
di prendere ciò che gli sarebbe spettato!”
Itachi strabuzzò con tale energia
gli occhi, che credetti volessero uscirgli dalle orbite. “Diritto?”, ripeté mio
fratello in un roco sussurro strozzato. “Diritto? Quale diritto? Di
approfittare della mia giovane età, della mia deformazione, della mia innocenza
per soddisfare …? Aveva il diritto di rubarmi la pace dello spirito?”, ed ecco
che dalla maschera di matura sicurezza in se stesso riemergeva il nevrotico e
spaventato fanciullo della mia infanzia.
Gratificato da quello sguardo –
oh! finalmente riconoscevo il mio vero fratello! – proseguii nel mio assedio.
“Melodrammatico come sempre!”,
sbuffai inclemente. “E se anche fosse? Date le tue … condizioni …” e ammiccai
al ventre ancora piatto, che di riflesso mio fratello coprì con una mano,
proteggendolo e aggravando ulteriormente la sua già precaria situazione. “…
dubito che ti sia poi così dispiaciuto! Insomma, hai conosciuto ben due uomini,
mica niente …”
“E’ diverso, Sasuke, è diverso:
io non volevo le attenzioni dello zio! Le aborrivo, ma lui mi costringeva!”
“Di nuovo: e allora? È il tuo
promesso. Il tuo futuro “marito”. Il tuo signore e padrone. E prima o poi, ci
avresti comunque dovuto giacere assieme! Nostro padre ti aveva chiaramente
sottolineato l’importanza di questo matrimonio e tu gli hai disobbedito!”, lo
fustigai impietoso, notando come ad ogni mia parola il rossore stesse
abbandonando le guance di Itachi per un malsano pallore. “ Ah! Perché mi dovrei
sorprendere? Tu hai sempre voluto fare di testa tua, sempre l’originale! Tanto,
al povero, malato, indifeso Sant’Itachi tutto si perdona! Ma non questa volta! Dopo
un simile impudente tiro, pensavi forse di cavartela? Di coprici di fango e poi
di scappare via? Pagherai molto care le tue porcherie!”
“Porcherie? Ti rendi conto di che
stai blaterando?”
“E chi ti avrebbe ingravidato,
sentiamo? Lo Spirito Santo? O il tuo confessore?”
“Non essere blasfemo, Sasuke!”
“La tua ipocrisia mi riempie di
ribrezzo, Itachi! Io sarei il sacrilego? Quando tu hai violato il giuramento di
sposare lo zio? Un giuramento fatto con la mano sui Vangeli, per la miseria!”
“Un’unione fondata sulla
costrizione e consumata tramite la violenza carnale non ha alcun significato
agli occhi di Dio! Io non riconosco questa promessa di matrimonio, non
appartengo a quell’amorale di tuo zio!”
“Perché, preferisci forse quel
bifolco dell’Hoshigaki? Un lurido arrivista, che molto probabilmente ti vuole
solo per i tuoi soldi?”
“Se speri di sminuirlo davanti a
me, sprechi tempo e fiato. Conosco bene Kisame, forse meglio di tutti voi. Non
sarà un campione di galateo, però è onesto, affidabile, lavoratore e
soprattutto mi rispetta. Mi lascia parlare, Sasuke!”
“E finora che hai fatto?”
“No, sciocco, voi non mi avete
mai lasciato parlare. Non mi avete mai dato l’occasione di esprimermi liberamente,
imponendomi invece di abbassare di continuo il capo e di dire sì ad ogni cosa:
sì alla mia reclusione in questa maledetta villa; sì a quelle umilianti visite
del dottore; sì alla rinuncia del mio progetto di studiare all’università; sì
al “fidanzamento” con lo zio! E sì anche alle sue oscene avances, perché Dio mi
salvi se vi avessi rivelato alcunché! Mi avreste voi salvato? No, affatto!
Anzi, mi avreste dato dell’ingrato, dello schizzinoso! E allora, ho dovuto
ingoiare questa orribile onta e tenermela dentro, sempre per la pace di questa
famiglia!”
“Non assumere arie da martire,
Itachi! Ti stavamo solamente proteggendo da te stesso e dagli altri! Per
evitare appunto che incappassi in simili cialtroni!”
“Smettila di insultare Kisame!
Lui è una delle poche cose buone che mi siano capitate nella vita!”
“E’ quindi più importante lui di
me? Della nostra famiglia?”
“Tu sei importante per me,
Sasuke. E prima o poi ti avrei rivelato tutto, giacché nella mia stoltezza ti
credevo diverso dagli altri Uchiha. Oh Dio, quanto mi sbagliavo! Sei come loro,
se non peggio! Invidioso, rancoroso, ipocrita, disposto a sacrificare tutto e
tutti per il tuo benessere e per un nome e una reputazione
che giorno dopo giorno vale sempre di meno!”, si passò Itachi una mano sulla
fronte, espirando profondamente. “Le tue parole mi spezzano il cuore, Sasuke,
perché speravo di trovare in te un alleato e non un nemico.”
Dunque nei suoi affetti non mi
aveva completamente rimpiazzato con quell’altro? Afferratolo delicatamente per
un braccio, invitai mio fratello a sedersi sulla chaise longue, mentre io mi
inginocchiavo davanti a lui, coprendogli le mani giunte sul grembo con le mie.
E, guardandolo speranzoso negli occhi neri, tentai di farlo rinsavire:
“Non sono tuo nemico e non è mia
intenzione abbandonarti! Voglio solo salvarti dall’errore della tua vita! Va
bene, hai avuto questo momento di debolezza … Ma possiamo porvi rimedio! Vai
dallo zio, digli di anticipare le nozze e giaci la sera stessa con lui! In
questo modo, penserà che il bambino sia suo e in seguito diremo che hai avuto
un parto prematuro!”, affermai speranzoso, pregando di ritrovare in quelle
iridi pece un guizzo di lucidità.
Invece, le mani di mio fratello
si sottrassero come ustionate dalle mie, nel frattempo che il loro proprietario
balzava giù dalla chaise longue, indietreggiando e fissandomi inorridito.
Accecato dal mio puerile
tentativo di trattenerlo a me, non mi resi conto che avevo invece provocato la
prima crepa tra lui e il sottoscritto.
“La tua proposta mi riempie di schifo e di
orrore, Sasuke, e mi risulta arduo concepire che simile porcata venga da te!”,
boccheggiò scandalizzato Itachi, neanche avesse dinanzi a sé il più nefando dei
diavoli dell’inferno. “Il mio corpo e il mio spirito sono vincolati dalla
promessa che feci a Kisame prima della sua partenza; voto che rispetterò anche
a costo di subire le vostre ire, non m’importa!”
“Non ritornerai mai da quel
figlio di cagna, Itachi! Anche a costo di trascinarti all’altare per i
capelli!”
“Provaci e io ti precederò, buttandomi giù dalla finestra! In fin dei
conti io non ho nulla da perdere”, sorrise obliquo, provocandomi un terribile
brivido freddo per la follia contenuta in quella smorfia. “Mentre tu avrai due
vite sulla coscienza … ”
“Hai perduto completamente il
senno?”, ansimai sconcertato. “Ti ascolti? Vuoi essere diseredato?”
“E non ti farebbe piacere?”, mi
ritorse contro Itachi, crudelmente beffardo. “Oh, via quell’espressione confusa
ed innocente, Sasuke! Tanto lo so che molte volte ti sei augurato che non fossi
mai nato, così da avere l’attenzione dei nostri genitori esclusivamente per te!
So che mi hai sempre invidiato, magari persino odiato! Ma non ti preoccupare:
al suo ritorno, Kisame ha giurato di sposarmi, di portarmi via di qui! Così non
dovrai più roderti il fegato per via dei paragoni tra te e me, perché non mi
vedrai mai più, Sasuke, mai più! Non sei contento? Non ti piace questo mio
ultimo regalo?”
“Il più grande regalo che avresti
potuto farmi, sarebbe stato appunto il non essere mai nato! Un bel sollievo! Non
sarebbe stata una prospettiva malvagia, no, visto che nostro padre non aveva la
benché minima idea che razza di tanghero per figlio avrebbe avuto!”
Gettando il capo corvino
all’indietro, Itachi si esibì in una risata gutturale, cattiva, sinistra. “Se
stai facendo rifermento a te stesso, stupido fratello, mi trovi perfettamente
d’accordo!”
Fu la proverbiale goccia che fece
traboccare il vaso. Come osava, il maledetto. Come si permetteva …! Avevo
scioccamente ipotizzato, che si sarebbe vergognato del suo errore, che avrebbe
cercato di fare ammenda! E invece no, no, non solo seguitava nella sua
nefandezza, ma mi sfidava, ci sfidava!, criticandomi, lui così orgoglioso e
intoccabile nella sua peccaminosa convinzione!
Sempre osannato, sempre protetto,
sempre giustificato!
E ora pure mi giudicava, sperando
di far passere me dalla parte del torto!
Compresi cosa aveva spinto Caino
a levare la mano contro Abele.
E similmente, afferrai il primo
oggetto che potei reperire, usandolo per colpire mio fratello, per indurlo
all’obbedienza, per impedirgli di abbandonarmi, per tarpare definitivamente
quelle acerbe ali che comunque aveva avuto l’ardire di sbattere, onde volare
via. Perduta la mia arma, seguitai a percuotere coi pugni Itachi, il quale
subiva senza alcun accenno a reagire, limitandosi a rimanere rannicchiato a
uovo, le braccia incrociate sul ventre per proteggere la creatura che vi
cresceva. I miei pugni colpirono, colpirono alla cieca, talvolta perfino a
vuoto, mentre la mia vista si ottenebrava di lacrime di stizza e dolore, di
angoscia e di vergogna, la mente sconvolta da un turbinio di sentimenti in
chiara lotta tra di loro, odio e amore, ragione e cuore.
In realtà, a governarmi era la
follia.
E di fatti, cessata la
lapidazione di pugni e approfittando dell’attimo di confusione di mio fratello,
lo afferrai per un braccio, issandolo, e lo trascinai violentemente fino in
salotto, là dove nostra madre, la nonna e le zie stavano dando il benvenuto
allo zio Madara, giunto a villa Nakano per la sua consueta visita. Una volta
lì, spinsi di malagrazia Itachi in mezzo a loro, tanto che questi barcollò
scompostamente, rischiando di cadere per terra.
“Sasuke, che modi!”, mi
rimproverò mia madre, scioccata.
“Anche fin troppo cortesi, per
una sgualdrina come lui!”
“Linguaggio, ragazzo!”, si levò
lo zio a difesa di mio fratello, promettendomi grandi ceffoni su ambedue le
guance per la mia villania. “E porta rispetto!”
“Rispetto?”, ridacchiai maligno.
“Ma come zio! Proprio voi difendente a spada tratta questa meretrice? Dopo
quello che vi ha combinato alle spalle?” e sogghignai compiaciuto alla vista
del dubbio indugiare negli occhi dello zio. “Perché voi”, mi rivolsi a tutti i
presenti, puntando il dito contro l’accusato, che quasi non pareva più
respirare “sapete, vero, che cosa Itachi ha finora tramato a nostro danno?”
“Taci, Sasuke … Non mi tradire …”,
m’implorò afflitto mio fratello, domandandomi con lo sguardo un briciolo di
pietà nei suoi confronti.
Non ne ebbi.
Dinanzi alla giuria raccontai
tutto.
Che demone mi aveva posseduto?
Uno che di sicuro mi fece godere
dello spettacolo dello zio Madara che elargiva un sonoro manrovescio ad Itachi per
poi andarsene via infuriato (di sicuro affatto contento dell’infedeltà di
quello “schifoso scherzo della natura”) e delle donne di case che, più
bellicose delle oche del Campidoglio, rincararono la dose, indirizzandosi a mio
fratello coi nomi più ingiuriosi.
“Puttana!”
“Cagna!”
“Scrofa!”
“Escremento umano!”
E ovviamente, mia madre era
quella che percuoteva più forte mio fratello, tirandogli i capelli e schiaffeggiandolo,
nel frattempo che piangeva d’isterica rabbia. Gli conficcava le unghie nelle
spalle, scuotendolo neanche avesse voluto staccargli la testa, singhiozzando
che era un maledetto, un iniquo, un ingrato, un giuda iscariota, un pervertito,
etc.
“Perché? Perché? Che ho fatto di
male per meritarmi un figlio così?”
Se Itachi riuscì a raggiungere
integro quella sera la sua camera da letto fu solamente grazie al tempestivo
intervento di Haku che, sfidando le unghie affilate della padrona e parenti,
sottrasse a quelle novelle baccanti la loro vittima, mettendola in salvo, non
senza essersele prese pure lui.
Ma ormai il danno era fatto e la
mia famiglia aveva appena incominciato con la sua punizione.
Gli Uchiha reclamavano la loro
libbra di carne.
Dolente,
la nostra anima sfortunata attendeva
paziente, il suo fedele amore come unico scudo e sostegno.
Rinchiuso a chiave Itachi in
camera sua, mia madre, dopo aver ingoiato due pasciuti bicchieri di cognac,
scrisse tre lettere urgenti: la prima indirizzata a mio padre, pregandolo di
ritornare a Konoha per un affare della massima delicatezza; la seconda al
dottore che finora aveva sempre avuto in cura mio fratello e la terza allo zio
Madara, supplicandolo di non essere precipitoso a ripudiare Itachi, giacché si
sarebbe presto trovata una soluzione onorevole per ambedue le parti.
Il medico giunse il mattino
seguente, trattenendosi nella stanza del paziente per un’oretta buona e
uscendone ricoperto di morsi, lividi e graffi, prove evidenti della contrarietà
di mio fratello circa il sottoporsi alla sua visita.
“Ebbene?”, s’informò mia madre,
stringendo speranzosa il crocefisso al collo e augurandosi intimamente che le
mie non fossero state altro che calunnie di monellaccio.
Tamponandosi un graffio
sanguinante col fazzoletto, il dottore ci rivelò piuttosto a disagio: “E’
un’anomalia, madame … insomma, cose del genere non immaginavo neppure potessero
… avevo sempre creduto nella sterilità di suo figlio … voglio dire, la sua
deformazione non avrebbe dovuto permettergli di …”
“Suvvia, basta farfugliare e
parlate! Non ci fate morire!”, tagliò corto la nonna, sollevando il bastone in
maniera molto persuasiva sotto il naso dell’uomo che, arrendendosi alle
pressanti forze superiori, sentenziò:
“Sì, il ragazzo presenta tutti i
sintomi di … di una …”
“Grazie mille, dottore”, gli
impedì mia madre di terminare, acciocché l’abominio contro natura non
insudiciasse le pareti di casa. “E ditemi … da quanto?”
“All’incirca tre mesi.”
“E’ stato il risultato di … di
una sola volta?”
“No, madame. L’aveva perduta da
molto tempo.”
“E … per quante … ha …?”
“Impossibile affermarlo con
sicurezza, madame. In ogni caso, non era un principiante in certe … attività”,
terminò il medico quella penosa conversazione, afferrando il cappotto, il
cappello e il bastone da passeggio cedutigli da una nostra fantesca. “Bisognerà
tenere vostro figlio sott’osservazione: sebbene la sua deformazione in questo
straordinario caso lo aiuta notevolmente, la sua gestazione rimane comunque più
difficoltosa rispetto a quella di una donna e il rischio di complicazioni,
anche fatali per entrambi, sono alas molto alte.”
Il modo in cui mia madre strinse
le labbra in una dura linea mi rivelò i sinistri pensieri, che le agitavano il
petto: se la cosa fosse dipesa interamente da lei, avrebbe preferito di gran
lunga che “madre” e figlio se ne andassero al Creatore, sistemando in maniera
rapida e pulita la questione. Nondimeno, non poteva esternare siffatte
cogitazioni, non a chi sottostava al giuramento di Ippocrate. Si congedò
cordialmente gelida coll’uomo, ritornando al piano superiore, là dove Itachi ci
attendeva nella sua stanza ancora steso sul letto, il telo bianco che copriva
le gambe nude e lo sguardo fisso, spento, sul soffitto.
Non si mosse neppure all’ingresso
della genitrice, rimanendo invece rigido e immobile nella sua statica
contemplazione.
“Il dottore ci ha riferito che
sbarazzarsi anzitempo del tuo bastardo potrebbe condurti alla morte. Di
conseguenza, poiché errare è umano, sono dell’opinione di lasciarti … insomma,
di proseguire la gravidanza fino alla fine. Ovviamente appena arriverà tuo
padre sarà mia cura informarlo di quanto avvenuto”, asserì mia madre solenne e
ieratica come un domenicano dell’inquisizione, ben conscia che mio padre avrebbe
assecondato la sua decisione. “Tuttavia, questo non significa che vivrai come
un privilegiato. Anzi, onde meglio ispirarti il sentimento di contrizione che
ancora non noto in te, ho risolto di sottrarti ogni passatempo e comodità, di
cui finora hai goduto. La tua piccola biblioteca verrà svuotata, il pianoforte
chiuso a chiave e similmente anche il tuo scrittoio. A parte per la camicia da
notte, la vestaglia e la liseuse, non avrai altro nell’armadio, così da non
indurti nella tentazione di uscire, giacché rimarrai chiuso qui dentro fintanto
che non ti sarai sgravato, senza poter parlare con nessuno. Inutile aggiungere,
che Haku è congedato dal tuo servizio.”
Di norma, un discorso simile
avrebbe indotto chiunque ad abbassare colpevole il capo, magari provocandogli
perfino una lacrima traditrice; invece, mio fratello ascoltò le condizioni
della sua nuova e più terribile prigionia con la medesima pacatezza di un
martire cristiano dinanzi al pretore.
Che cosa gli conferiva tutta
quella forza morale? Quell’ostinatezza? Non sarebbe stato meglio piegarsi e
ricongiungersi a noi? Se si fosse sinceramente pentito, lo avremmo di certo
perdonato!
Io lo avrei perdonato, se mi
avesse dimostrato che teneva più a me che al suo drudo.
Alas, non avevo capito che mio
fratello mi amava a pari merito rispetto al suo amante, di un affetto diverso,
ma pur sempre forte, vincolante. E io, stolto!, forzandolo a scegliere, me lo
ero alienato. Fu forse questa mia infantile e perversa costrizione ad aver
esacerbato la frattura tra di noi, più che il mio tradimento vero e proprio.
Com’era logico figurarsi, ai
servi venne severamente vietato di parlare dell’affare a chicchessia
all’esterno di villa Nakano, pena il licenziamento senza credenziali. La loro
rovina lavorativa, in sostanza.
Inoltre, a loro fu proibito di
rivolgere la parola a mio fratello quando gli portavano da mangiare - pezzi di pane ammorbiditi nell’uovo e immersi
nel brodo – o di rifilargli una lettera, se non proprio offrirgli l’occasione
di scriverne una, magari avvertendo Kisame di quanto successo.
Ché la sua mia famiglia, ormai
sul piede di guerra, meditava furibonda la sua distruzione.
Tuttavia, non essendo lui di
Konoha la faccenda si ingarbugliava parecchio e spesso le continue visite
dell’avvocato di famiglia si concludevano infruttuose. In ogni modo, ci
adoperammo ad isolare Itachi dal mondo, nella speranza di vederlo ritornare strisciando
da noi.
Invano.
Malgrado la solitudine forzata, i
crampi della fame, la pressione esercitata da mio padre, nel frattempo
rincasato, e di mia madre, mio fratello rimaneva granitico nella sua
risoluzione di non pentirsi né di cedere ad alcuna delle continue minacce
avanzate dai miei genitori o di sottostare alle loro condizioni.
Passò un altro mese.
Itachi non proferiva più parola, se ne stava in letto
tutto il giorno e solo di tanto in tanto rompeva il suo catatonico incantamento
per mormorare tra sé e sé degli incoraggiamenti.
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
Mi sentii un verme.
E a causa del nascente e
fastidioso punzecchiare del senso di colpa, non denunciai la visita notturna di
Haku nella stanza di Itachi né rivelai quanto il domestico gli regalò.
“Non dovresti rubare dalla
dispensa, Haku”, lo rimproverò stancamente mio fratello, pur accettando il
boccone che il ragazzo gli porgeva.
“E lasciare che ‘sti filistei
v’affamino? Mai!”, protestò focosamente l’altro, sistemando in un sicuro
nascondiglio il resto della refurtiva mangereccia, una volta terminato di
aiutare mio fratello a mangiare. Sospirando tristemente, il giovane si
accoccolò ai piedi del letto, le mani bendate in grembo. “E comunque, fazzo
fagòto e me torno a Kiri. M’han licenzià. La vècia (vostra nonna ) me l’ha
giurata, quando le ho morso la caviglia mentre mi menava col bastone. Paron, mi
so brutto, so poveretto, so tutto quel che volé, ma anca ‘l can morde, se ‘l
paron lo batte troppo! Me voleva mazzare,
ve lo giuro sulla testa de’ Sant’Erasmo!”, disse e di fatti, il modo
cauto in cui Haku muoveva il tronco e il lieve zoppicare denotavano un certo
accanimento nelle percosse. “Me ne vado, paron, sebbene me schioppa el cuor a
lassarve qui da solo.”
“E che farai ora, Haku?”,
s’informò dolcemente Itachi, che aveva ascoltato tutto in silenzio, grato della
poca luce che celava l’enorme tristezza di doversi congedare forse per sempre
dal suo più prezioso alleato e complice. “Tua madre è vedova, si sostiene a
malapena da sé! Come te la sbroglierai?”
Un timido rossore tinse le gote
del ragazzo. “Hé, paron, savé … ecco, l’ultima volta che gh’ho visitato la mia
mama … ehm … vi ricordate di Zabuza, no?
El m’ha dito … m’ha dito che, se voggio, è più che disponibile a darme el segno
…”
Itachi sorrise a fior di labbra,
malinconicamente incoraggiante. “E avrai
accettato, mi auguro?”
“Sì ben … o me mama me mazzava
…”, si giustificò debolmente Haku, quando in realtà doveva essere stato molto
entusiasta all’idea. “Però, paron, se volete venire via con me doman mattina,
fatelo! Non gh’ho nisùn problema ad ospitarvi!”
“No, non è mio desiderio
coinvolgere altre persone”, declinò mio fratello l’offerta, scendendo piano dal
letto e, portatosi alla stessa altezza del servo, gli circondò il viso con le
mani. “Fai bene ad andartene via da qui, Haku e non ti angustiare per me.
Presto Kisame tornerà dal suo viaggio e a Kiri potrai visitarmi quanto vorrai.
In aggiunta, sarai finalmente padrone di una casa tua, avrai una tua famiglia e
… e … non dovrai mai più sottostare ai miei capricci …”, la voce di Itachi
tremò impercettibilmente. “Sono desolato per quanto avvenuto, Haku! Non volevo
che ti punissero per causa mia!”
“Via paron, le busse de me mama
fanno più male de’ bastonate d’una vècia! M’han licenzià, pasiénsa, me marìdo”,
sdrammatizzò Haku. “Eppoi, la colpa xé mia: avrei dovuto prestare più attenzione
al santuario, cussì paron Sasuke …”, ma per delicatezza nei confronti di Itachi
non proseguì oltre, chetandosi. “Non c’è gnente che possa fare per voi, paron?”
“No, Haku. Quest’inaspettata cena
è più che sufficiente.”
“Se lo volete, potrei rivolgermi
al cogitore …”
“Non ti ascolterebbe in quanto
straniero e domestico degli Uchiha. Penserebbe che le tue altro non siano che
calunnie, biasimando te al posto loro.”
Silenzio.
“Ben, paron. M’arrendo”, sbuffò
snervato Haku, frugando nella tasca della sua uniforme. “Però un ultimo
presente, ve lo voggio dare …”, dichiarò convinto, estraendo quello che doveva
essere un doppione della camera da letto di Itachi, i cui occhi si allargarono per
la piacevole sorpresa. “La vècia Keiko non se n’è manco accorta!”, gli spiegò
compiaciuto il domestico. “Gli ho rubato le chiavi, preso lo stampo su di una
candela e portato da un ferramenta! Quando volete, paron, potete scappare via
di qui!”, disse e lo abbracciò pieno di trasporto, incurante della differenza
di classe, d’età e di qualsiasi cosa li potesse separare.
In quell’istante si consideravano
solamente due giovani pieni delle loro
aspettative e progetti, ansiosi di realizzarli e beffardi contro le imposizioni
della società. Niente servo e padrone. Niente. Amici. Fratelli. Compagni
d’arme. Complici. Pari. Uguali.
“Vi aspetterò con ansia a Kiri, paron!”
“Prepara almeno una decina di frittelle, mi raccomando!”
“Anca venti!”
Altro non aggiunsero.
Non ve n’era bisogno.
Il giorno dopo Haku non si
presentò all’appello mattutino, l’unica sua traccia rimastaci fu un biglietto in cui ci invitava in una scrittura
sgangherata ad andare a farci squartare.
Il
suo segreto, inoltre, incominciava a svelarsi agli occhi dei disgustati
genitori.
Nessuno si sorprese del puntuale
ripudio di Itachi da parte di zio Madara.
“Carissimo
cugino – diceva il conciso biglietto
recapitatoci, ché lo zio neanche s’era degnato di venire di persona a riferirci
la sua decisione – otto anni addietro vi domandai il permesso di
frequentare vostro figlio in vista di una nostra unione, quando egli avrebbe
raggiunto la maggiore età. Ebbene, considerato l’innominabile oscenità da lui
compiuta a mio danno, a voi chiesi di fare di Itachi il mio consorte e ora a
voi dico che lo ripudio. Cordiali saluti, U.M.”
La risposta di mio padre non
tardò a venire.
“Cugino,
comprendo come voi vi possiate sentire dopo una simile offesa; tuttavia,
cercate di essere un poco comprensivo: mio figlio Itachi è in sostanza un
ingenuo, ignaro della malizia del mondo. Irretirlo e indurlo al peccato non aveva avuto quel maledetto alcun
problema. Accetto la vostra decisione e al contempo vi invito a mostrare
clemenza nei confronti del ragazzo. Per amor della nostra famiglia, nella
nostra reputazione, della vostra reputazione, fateci l’enorme favore di sostenere
dinanzi al mondo intero che il motivo dell’annullamento del matrimonio si basava
su di un trauma subìto da Itachi, che lo ha a tal punto scosso e portato
sull’orlo della follia, da spingerlo a ricercare la quiete del monastero. È
l’ultima richiesta che vi avanzo. Cordialmente, U.F.”
Lo zio accettò, più che altro per
salvare la sua reputazione, giacché sono sicuro che non gli avrebbe fatto
piacere essere soprannominato “il gran becco di Konoha”.
Anche Itachi ricevette, dopo ben
due mesi di reclusione, una missiva. O meglio, una …
“Io,
Uchiha Itachi, dichiaro solennemente che la mia gravidanza è il risultato di
uno stupro subìto, il cui colpevole porta il nome di Hoshigaki Kisame – che significherebbe questo?”, interruppe mio
fratello la lettura e appoggiando con schifata lentezza il foglio.
Puntando il dito sull’angolo
sinistro in basso, mio padre evitò ogni spiegazione per un secco:“Firma.”
“E il bambino? Che ne sarà del
mio bambino?”
“Verrà esposto alla ruota, dove
crescerà coi suoi simili. Quanto a te, una volta ripresoti dal parto, entrerai in
monastero e prenderai i voti, in modo da redimere la tua colpa tramite la
preghiera”, gli rivelò nostro padre, intingendo il pennino nel calamaio e
cedendolo ad un impietrito Itachi che, spostando lo sguardo dal foglio al
genitore, replicò lapidariamente:
“No.”
Digrignando i denti e tuttavia
tentando di mantenere l’autocontrollo, mio padre gli afferrò il polso,
cacciandogli di malagrazia il pennino tra le dita. “Non credo tu sia nella posizione
di rifiutare, Itachi”, sibilò, sbattendo snervato il foglio quasi sotto il naso
di mio fratello. “Grazie a questa dichiarazione, ne uscirai in un certo qual
modo pulito e nessuno avrà di che biasimarci!”
“E’ solo una questione di punti
di vista”, obiettò Itachi, sciogliendosi bruscamente dalla presa paterna. “In
ogni modo, mi rifiuto di firmare siffatta scelleratezza. Non solo, ci sputo pure
sopra: al vostro ricatto, alla mia reputazione, al nome degli Uchiha! Se volete
costringermi ad accusare il mio compagno di stupro e di separarmi da mio
figlio, allora dovrete passare prima sul mio cadavere!”, gli promise fieramente,
sfidando il genitore cogli occhi.
“Firma, disgraziato. Firma o
giuro che ti espongo sulla pubblica piazza come meretrice, portandoti a spasso col
guinzaglio per le vie di Konoha e indossando la maschera della vergogna!”
Il labbro di Itachi tremò
impercettibilmente all’idea di dover subire quell’umiliazione e di portare
quell’orribile maschera che lo avrebbe reso
ridicolmente grottesco, nonché incapace di parlare a causa della lingua tenuta
a forza fuori dalla bocca di ferro. Nondimeno, neppure la prospettiva di
camminare vestito di sacco, legato come un cane e con la maschera delle donne
di malaffare o eccessivamente pettegole e impiccione lo spaventò, facendolo
vacillare.
Fedele al suo giuramento, mio
fratello tirò a sé il foglio e, afferratolo con ambedue le mani e levatolo in
alto, lo strappò in chiaro segno di sfida davanti al livido padre.
“Spero ardentemente che la febbre
puerperale ti pigli, maledetto traditore”, ringhiò offeso mio padre, uscendo furibondo
dalla stanza del figlio.
“In attesa di ciò, che gli siano
ridotti i pasti da tre a due volte al giorno.”
Fu un bene che l’inverno fosse
ormai finito: i servi avevano ricevuto l’ordine di lasciare anche il caminetto
sprovvisto di legna.
Amare
lacrime vennero versate, nessuno poteva consolare il suo strazio.
Quinto mese.
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
Di giorno, di notte, di mattina,
di pomeriggio, incessantemente, incessantemente, mentre la sedia a dondolo
cigolava avanti e indietro, avanti e indietro … gnik-gnak, gnik-gnak …
Che la smettesse!
Sesto mese.
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
… gnik-gnak, gnik-gnak …
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
… gnik-gnak, gnik-gnak …
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
“Tornerà, me lo ha promesso. E
quel giorno saremo felici.”
… gnik-gnik, gnik-gnak …
Lode alla pazienza ossessiva di
Itachi, ché Kisame tornò veramente a prenderlo, rubandomelo definitivamente,
corpo e anima.
Mi … (scarabocchio illeggibile) La mia mano trema al pensiero di quel che
poté essere successo la fatidica Notte di San Giovanni, solstizio d’estate e
appuntamento dei morti sulla terra dei vivi, onde sperimentare per un breve istante
il piacere di riempirsi i polmoni di aria e non del consueto humus.
O acqua.
Chiedo perdono a coloro – o colui
– che mi auguro stia leggendo queste mie cronache: alas, di persona e nello
specifico ignoro le vicende di quella notte. Coloro che la vissero strinsero
con se stessi il tacito patto di non parlarne ad anima viva, serbando in eterno
i veri fatti. Le leggende e ballate sono un misto di verità e fantasia, di
dolorose vicende e di ciò che alla gente piace sentire.
Ah, ironia della sorte!
Potrei certamente domandare
maggiori informazioni ad Itachi, che per tutta la stesura di questo diario non
mi ha abbandonato per un solo istante, tuttavia non gli darò questa
soddisfazione! Il mio suicidio sarà sufficiente, ne sono certo.
Di conseguenza, lascerò che sia
la Ballata della Sposa Mancata a parlare per me, dimostrando che alla fine
perfino un estraneo poteva capire mio fratello meglio del sottoscritto.
Cediamo la parola ai morti.
Ma
ecco che nella notte di San Giovanni un piccolo rumore distolse questo spirito
afflitto da un sonno agitato.
Chi
sarà mai?
Oh,
meraviglia! Oh, somma gioia!
L’amato,
il diletto, lì sorridente all’ombra degli alberi spogli l’attendeva!
“Sei
tu! Finalmente!”
“Sì,
mia vita. Sono io”, rispose l’amato. “Ancora mi sei fedele?”
“Fino
alla morte e oltre! Ma ora raggiungimi, te ne supplico! Da troppo ti aspetto!
Lasciati stringere al mio petto!”
“Non
posso entrare, mia luce: invece, va’, prendi lo stretto necessario e vieni meco,
ch’è giunta l’ora di sposarci!”
Quando
si è innamorati non si pensa troppo alle conseguenze e nulla appare fuori luogo
o bizzarro.
Né
si avverte il bisogno di consultarsi con chi ha più esperienze di vita.
L’infelice
obbedì e scese dalla sua torre di avorio, congiungendosi al suo promesso.
Una
carrozza lì aspettava, una carrozza più nera di quella notte senza né luna né
stelle.
“Hai
la pelle gelida, amore mio! Il tuo mantello non ti scalda a sufficienza?”,
chiese la Sposa Mancata durante il viaggio.
Sorridendole,
lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti hanno sempre freddo?”
La
sua metà rise di gusto allo scherzo.
“Ne
vuoi un po’?”, gli offrì del panpepato: da molto erano in viaggio, il suo
diletto doveva essere affamato.
Sorridendo,
lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti non hanno più bisogno di mangiare?”
La
Sposa Mancata rise con meno gusto allo scherzo.
“Perché
il cocchiere non vuole essere pagato? Ha galoppato per quasi tutta la notte!”
Sorridendo,
lo sposo replicò: “Non lo sai, che i morti non hanno più bisogno dei soldi?”
La
luce dei suoi occhi non rise allo scherzo.
“Aspettami
qui, io vado a chiamare i testimoni!”, disse lo sposo, lasciando l’amore suo
sul sagrato della chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara.
Scoccò
la mezzanotte.
Tutto
taceva, solo l’eco del ruggito del mare si poteva udire in quella notte così
silenziosa, così spettrale, avvolta da una fitta nebbia.
“Chi
va là?”
“Perdonatemi,
padre, sto attendendo il mio promesso: è andato a chiamare i testimoni, ché
stanotte ci sposiamo!”
“Ah,
e quale sarebbe il suo nome?”
La
Sposa Mancata glielo disse.
Gli
occhi dell’anziano sacerdote si spalancarono pieni d’orrore: Dio, del cielo,
poteva essere?
Violini,
flauti, cetre, cembali e tamburelli annunciavano il festoso corteo.
E
che corteo! Neppure un principe ne avrebbe mai avuto uno simile!
Lo
sposo arrivò infine mentre tutti i suoi compagni gli facevano festa. “La sposa
tua dov’è? Abbiamo voglia di festeggiare la fortunata, che fedele e paziente ti
ha atteso!”
L’infelice
vide tutto questo e un terrore folle assalì il suo cuore.
Lo
sposo chiamò a gran voce il suo amore: “Vieni, luce dei miei occhi! Gli
invitati son giunti: cosa ti trattiene?”
“Vattene,
via, anima dannata!”, ribatté invece il prete, che ben sapeva chi in realtà lo
sposo fosse: aveva sentito di una nave naufragare poco distante dai loro lidi e
di sicuro egli altri non poteva esserne che il capitano.
“Vattene,
tu e tutti i tuoi compagni!”
Il
corteo era composto da coloro che il mare non aveva più restituito alle loro
famiglie.
Alcuni
di loro erano padri, altri figli, altri fratelli, sposi e cugini.
Anime
perdute, la cui morte neppure una Messa aveva ricordato.
“Indietro,
vecchio! Siamo qui per celebrare le nostre nozze! Voglio il mio amore! Un giorno
giurammo che ci saremmo sposati, vivi o morti!”
“No,
non puoi! Iddio non approva siffatte unioni! Ritorna tra i morti, là dove la
luce del sole non rifulge!”
“No,
finché l’amore mio non manterrà la sua promessa, io non me ne andrò!”
L’acqua
del mare ruggì in approvazione, risalendo su, su fino a lambire le scalinate
all’entrata della chiesa.
Che
fare dunque?
Il
corteo di spiriti gorgogliava minaccioso e lo sposo stesso appariva più un
demone dell’inferno, che il tenero amante conosciuto dalla nostra anima
sfortunata.
“E
sia, annegato! Ecco, prendi la tua sposa!”, disse il prete, afferrando la mano
alabastrina dell’infelice e mozzandogli l’anulare con indosso l’anello di
fidanzamento.
“Così
nessuno l’avrà, fintanto che sarà in vita!”
E
detto questo, lanciò il dito nell’acqua nera come l’inchiostro.
Il morto, urlando di sdegno e orrore, si ritirò
assieme al ringhiante corteo e al mare rabbioso.
La
Sposa Mancata svenne.
To be
continued …
***************************************************************************************************
Uhm, com’è
venuto? Quest’ultima parte è stata un’improvvisazione, un esperimento quasi! Ovviamente,
la “ballata” l’ho scritta io, quindi … Spero che il litigio non abbia infastidito nessuno, anche a me piace il "fluff" tra i due fratelli, ma alas, in questa storia ci andava. E l'amore fraterno non è bello se non è litigarello ...
Alla prossima,
ciao!
Un po’
di noticine:
[1] Sto
facendo riferimento al sistema scolastico italiano dopo la Legge Casati (1859),
dove l’Istruzione Secondaria Classica
(su pagamento) era divisa in Ginnasio e Liceo, il primo dai 10 ai 14 anni e il
secondo dai 14/15 ai 17/18 anni. Mi sono presa, se non si è notato, una licenza
storica, visto che questa riforma è entrata in vigore dopo la data nella fic
(1857). Vabbé, sopravvivremo.
[2] Fin
quasi alla seconda metà del Novecento, la maggiore età si raggiungeva ai 21
anni per i maschi e 18 per le femmine. Tuttavia, i maschi già a 18 anni si
potevano sposare, mentre le femmine a 15.
[3]
Malgrado sia in francese, è un vecchio proverbio tedesco (derivato da un aneddoto sulla vita di Federico II di Prussia ) che significa che anche contro i poteri forti la legge (i giudici in questo caso) possono dare ragione agli "svantaggiati". Lo stato ideale, insomma.
[4]
Voltaire era famoso per il suo sferzante sarcasmo, facendo di lui il maligno
per eccellenza.
[5] Fino
ai 14-15 anni i maschi indossavano dei calzoncini corti, lasciando le ginocchia
o nude o coperte da delle calze. |
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Capitolo 6 *** Dal Diario di Uchiha Sasuke: 1858- 1919, Decadenza di una Famiglia Maledetta ***
Heilà!
Dopo
una pausa di quasi due mesi, rieccomi a tormentarvi con questo mio delirio! Non
mi era venuto il blocco dello scrittore, solo troppe storie da aggiornare, un
po’ di magagne personali e poco tempo a disposizione (che mi sa qua manca a
tutti, ma vabbè …)
Una buona
notizia, però: ci stiamo avvicinando alla fine di questa storia. Davvero e
questa volta non è un falso allarme! Se il mio vizietto (prolissa fino al coma
profondo) non ha il sopravvento sulla sottoscritta, ancora tre capitoli a
partire da questo e ci siamo! Ammetto che avrei voluto una fic più breve, ma …
ma alla fine Itachi ha rubato la scena più del dovuto. Per colpa di Sasuke che
è un grafomane e scrive diari da far invidia a “Le Confessioni di un Italiano”!
Cattivo, Sasuke, non si fa!
In ogni
modi, proseguiamo con la storia!
Un sentito
ringraziamento alla pazienza di tutti coloro che hanno atteso l’aggiornamento,
ai miei lettori e recensori in particolare: April88; Lady_Loire; SellyLuna; Sagitta72 e Jooles.
Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate
e seguite!
Vi auguro
buona lettura!
H.
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L’interno
della chiesa dell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara si presentava assai
diversa da come Naruto l’aveva immaginata: una delle grandi pecche del giovane
era stata di non aver mai lasciato, per un motivo o per l’altro, lo stato
federato di Hi e in quel momento se ne rammaricò parecchio, giacché, dopo aver
contemplato rapito il diverso stile architettonico e artistico di quel luogo
sacro e della città portuale in generale, adesso comprendeva come mai durante
le lezioni di storia il suo professore si era sempre dilungato sulle difficoltà
e resistenze da parte di tutte le ex-nazioni al momento della riunificazione.
Si
vedeva che Kiri in passato era stato un porto di una notevole importanza e
soprattutto abitato da gente stufa di dover sopportare la malinconica nebbia,
che ogni tanto avvolgeva la città: ciascun edificio mostrava decorazioni
esotiche, bizzarre, curvilinee e al contempo rigidamente geometriche – molto
simili a quelle di Suna - e non v’era una sola casa che non fosse stata
affrescata con o il simbolo del mestiere di chi vi lavorava al suo interno
(casa-bottega, così funzionava una volta) oppure di scene mitologiche per i più
ricchi o, per i meno acculturati o indigenti, semplicemente colorate da tinte vivaci e brillanti come blu, carminio,
verde, giallo senape, arancione, etc., tanto da rendere Kiri un
bell’Arlecchino. Camminando sotto i portici per raggiungere l’imbarcadero,
Naruto aveva poi notato come le loro volte fossero state dipinte a mo’ di cielo
stellato e che su tutte le lunette si alternavano scene della Passione
(evidentemente per la Via Crucis del Venerdì Santo) e Madonne col Bambino.
Eppure, considerando l’atteggiamento dei pochi abitanti coi quali s’era
imbattuto, il giovane commissario aveva dedotto che tutta quella devozione
sfiorava sorniona la superstizione pagana, forse sobillata in parte dall’occupazione
di trequarti della popolazione di Kiri (marinai e mercanti), ergo una notevole
incertezza sul ritorno dei propri uomini, almeno nei tempi che furono. Anche
perché, Naruto non si sarebbe potuto spiegare altrimenti certi sacramenti che
aveva udito volare con estrema nonchalance e che non solo avrebbero fatto
impallidire un arcivescovo, ma che avevano coinvolto l’intera Corte Celeste e
perfino i morti. Ma l’augurio peggiore, che aveva provocato un lungo brivido
freddo al giovane, era stato: Che la
Sposa Mancà te poxa ciapàr!
In ogni modo, nel frattempo che attendeva il ritorno della
madre superiora, Naruto poté ben confermare i suoi dubbi sulla diversa
concezione spirituale e quindi la conseguente mentalità dei due paesi: se la
Cattedrale di San Michele Arcangelo in Foro a Konoha favoriva una severa
articolazione architettonica a croce latina, così da sottolineare tramite la
sua spartana monumentalità slanciata verso l’alto l’intima elevazione
dell’anima verso Dio – ognora presente eppure inafferrabile, non
identificabile, non circoscritto dalla ragione umana – la croce greca, la
sontuosità e l’inaspettata esplosione di luce derivante dai mosaici della
chiesa dell’Abbazia sottolineavano invece la celeste sovranità di Dio, l’Alpha
e l’Omega, estremamente umano sul suo trono eppure ieraticamente inavvicinabile
come un basileus bizantino. Abituato ai vuoti ed enigmatici occhi delle statue
di pietra di Konoha, quelli incredibilmente vividi del Cristo Pantocratore sul
catino absidale avevano messo il giovane in totale soggezione, rubandogli il
respiro e portandolo a momenti ad inginocchiarsi sconfitto ai suoi piedi.
Era questo il motivo per il quale neanche un essere come la
Sposa Mancata, o Uchiha Itachi, poteva sopportare la vista di quello sguardo
così profondo, inquisitore, che pareva strappare dall’anima le colpe più
recondite e presentarle al peccatore onde ispirare una sincera contrizione?
Era paura quella che si provava dinanzi a quello sguardo? O
profonda vergogna?
Si vociferava che a Kiri si raffigurasse Dio così, perché la
natura mercantile della popolazione la spingeva a volerseLo propiziare,
istaurando un rapporto quasi a tu per tu. In realtà, il biondo comprese che un
Dio così vicino e scrutatore serviva loro da monito: siate accorti nei vostri
affari, non ingannate il prossimo, non imbarcatevi in niente di losco e
amorale, poiché alla fine non c’è segreto che la vostra anima possa nascondere
a Me.
L’artista
che aveva ideato e composto quel Cristo doveva aver avuto molti peccati da
espiare o uno solo ma grave, giacché soltanto chi aveva conosciuto appieno
l’entità della colpa commessa poteva raffigurare con tale intensità l’Ultimo
Giudice, senza però suscitare timore. Come se volesse ricordarsi per sempre del
suo sbaglio. Un artista invero geniale che aveva fissato per l’eternità il
pungolo alla penitenza.
“Ecco,
tenga!”, la voce severa della madre superiora distolse Naruto dalla sua rapita
contemplazione, salvandolo da inconsce lacrime: stress? Paura? Empatia? Pietà
per i turbinosi avvenimenti che gli avevano scardinato l’esistenza? Per
l’essere venuto a conoscenza di vite distrutte e accuratamente celate
dall’ombra del perbenismo e buonismo?
“Che
cos’è?”
Gli
occhi leggermente velati dell’anziana donna si strinsero in ironica incredulità.
“Lei viene a cercare risposte nella nostra abbazia, eppure non comprende che
cosa possa contenere questo libricino? Ovvio, no? E’ la seconda parte del
diario di Uchiha Sasuke, arricchito con le lettere dell’altro …”
“La
seconda parte? Vuole dire che la storia non si conclude con l’amputazione del
dito di … lei ha capito … da parte del prete?”
La
madre superiora prese un profondo respiro. “No, purtroppo. Il fu Uchiha Sasuke
riempì due quadernini per raccontare esaurientemente l’infelice e maledetta
vicenda di suo fratello. Due tristi copioni che una misteriosa donna portò qui
da noi un anno dopo la morte del signor Uchiha, così mi raccontò una mia
consorella poco prima di rimettere il suo spirito nelle mani di Dio. Si
trattava di una signora distinta, mi narrò, molto ricca e tuttavia provata sia dalla
terribile esperienza della guerra - che le aveva sottratto tre dei suoi cinque
figli e ben due nipoti- sia della spagnola, che invece aveva portato via con sé
il marito. Desiderava trascorrere il resto della sua vita in contemplazione e
preghiera, così da rasserenare la sua anima fortemente turbata e rosa dal
dubbio, dal vacillare della fede. Ma soprattutto, voleva espiare sia i suoi
peccati sia quelli di una persona che aveva
cercato e trovato la morte in quest’abbazia sessantadue anni prima.”
“La
Sposa …”, soffiò Naruto, abbassando lo sguardo sul secondo diario, il quale si
presentava leggermente rigonfio rispetto al suo gemello, in quanto v’erano
incastrate al suo interno anche delle lettere. Dunque, la madre superiora sosteneva
che il fantasma di Uchiha Itachi non poteva varcare la soglia della chiesa
dell’abbazia, in quanto …?
“Esatto.
Come unica condizione, oltre che ad una generosa donazione all’abbazia, questa
gentildonna ci chiese di seppellirla una volta morta sotto la croce che sorgeva
all’incrocio del nostro piccolo cimitero. Assieme a questi due diari,
ovviamente. L’allora badessa accettò, ma quando la gentildonna morì alla
rimarchevole età di centotre anni, nessuno tranne la mia consorella si ricordò
della promessa, o poiché deceduto o perché si sapeva chi veniva seppellito sotto quella croce. Una sepoltura
disonorevole per i buoni cristiani. Così, la mia consorella nascose i due diari
e tali dovevano rimanere, finché proprio un suo concittadino di Konoha, o
dovrei dire concittadina, non si
presentò anche lei per svolgere delle ricerche concernenti la Sposa, rubando di
conseguenza uno dei due diari.”
“Sta
facendo riferimento alla signora Utatane Koharu?”
“Proprio
lei.”
“Beh,
immagino che chiamerà allora la sua morte castigo
divino. È deceduta ieri. E sua nipote Tenten con lei. Entrambe assassinate
dalla Sposa.”
La
priora socchiuse gli occhi, accusando stoicamente il colpo. “Dio non si
impiccia nell’operato di quell’anima perduta. Essa rinunciò alla Salvazione
Eterna il giorno in cui decise di ricongiungersi anzitempo al suo amante,
rimettendosi negli artigli del tentatore. San Girolamo sosteneva che Dio non biasimò
tanto Giuda per aver tradito Suo Figlio, bensì per essersi impiccato.”
“Il
vostro giudizio è duro e impietoso”, replicò Naruto, stringendo con forza i
quadernini. “Ha letto la sua storia? Avrebbe condotto chiunque alla follia!”
“Ciò
che la Sposa ha sopportato è lamentabile. Nondimeno, invece di rassegnarsi e di
bere l’amaro calice offertogli, ha sfidato le leggi di Dio e degli uomini pur
di punire a modo suo coloro che gli resero la vita un inferno in terra. Superbia et Furor, figliolo, hanno
insozzato il candore della sua anima in un sudario imbevuto di sangue.”
“E non
c’è modo per aiutarlo?”
Le
labbra screpolate della badessa si arricciarono in una smorfia sibillina. “Lo
fa per la salvezza dell’anima della Sposa o per amore della sua fidanzata?”
“Per
entrambi.”
“Non
può servire due padroni, figliolo. Deve decidere”, scosse il capo la
donna, alzandosi. “Legga pure con calma,
l’aspetterò nel nostro piccolo cimitero.”
“Ma,
madre!”, protestò Naruto, scattando in piedi. “Non ho tutto questo tempo!
Hinata potrebbe trovarsi in pericolo! Magari la Sposa l’ha già …”
Un
amaro sorriso. “La sua Hinata è caduta nella gabbia della Sposa lo stesso
giorno in cui mise piede a Villa Nakano. Ma finché lei rimarrà qui, finché
anche lo sposo non varcherà quella soglia maledetta, la sua fidanzata non avrà
nulla di cui temere.”
Mordicchiandosi a disagio il labbro inferiore,
al giovane commissario altro non restò che convenire con l’anziana badessa,
risiedendosi e aprendo il consunto libricino, la testa piena zeppa di domande.
Prima
fra tutte: chi era quella misteriosa gentildonna?
Povera anima sofferente!
Da quel giorno non si riprese mai più.
Invano i genitori vollero riportare l’infelice a casa, ma
non si trovava il modo:
“Il mio promesso sarà qui da un momento all’altro e sarebbe
increscioso, se non dovesse trovarmi per le nozze!”
Impietosito, il prete si offrì di ospitare la Sposa Mancata
nella sua abbazia.
“Ho perso il mio anello! Ho perso il mio anello! Che errore
imperdonabile da parte mia! Lo ritroverò mai?”
“Come farò? Come farò? Che dirò al mio amore, quando
giungerà qui per sposarmi?Mi vorrà ancora?”
Il bambino nacque a San Michele,
il 29 settembre 1858.
“Non pensavo, dolente com’era,
che Itachi sarebbe arrivato alla fine della gravidanza”, fu il commento di
Sakura alla notizia. Quando il corriere ci recò la notizia, ella stava cenando
con noi. “Quanto al parto, poi … mi sorprendo che sia ancora vivo …”
Molte cose erano successe
dall’infausta notte di San Giovanni, 24 giugno, tra cui l’esclusione di mio
fratello dal testamento di nostro padre e il suo successivo ripudio come
figlio; la segregazione dello stesso nell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara
(giacché Itachi s’era aggrappato alla tovaglia dell’altare pur di non
abbandonare quel luogo sacro) e al mio fidanzamento con Sakura, l’unico
episodio sereno nella nostra infelice famiglia, tranne forse che per l’annuncio
della seconda gravidanza di Rin.
In ogni modo, ora ch’eravamo ufficialmente fidanzati,
Sakura aveva il permesso di frequentare assieme a sua madre più agevolmente e
spesso la nostra casa, in vista ovviamente delle prossime nozze, fra
esattamente cinque anni. Geld heiratet Geld, sussurravano i maligni, i soldi
sposano i soldi. Eppure, non riuscivo a godere della mia fortuna: avevo,
infatti, la sgradevole certezza di essermi guadagnato la mia felicità sulle
rovine di quella di Itachi. Similmente ai fratelli di Giuseppe, avevo
egoisticamente venduto la vita di Itachi per assecondare i miei desideri. E fu
per quel motivo, che riferii in parte l’intero contenuto della missiva giuntaci
da Kiri, sperando che Sakura non intuisse il mio stato d’animo assai agitato.
“Almeno nella disgrazia v’è una
consolazione”, dichiarò seccamente mio padre. “Poteva nascere un maschio. Dio
sia lodato che ha partorito una femmina.”
Avvertii un certo bruciore alle
gote. Significava che l’avrebbero considerata meno?
La lettera incominciava a
scottarmi nella tasca e sentii l’impulso di alzarmi da tavola, scusandomi per
un leggero crampo allo stomaco. E proprio mentre stavo salendo le scale della
sala grande, il campanello suonò per la seconda volta; intercettando il
maggiordomo, recuperai il telegrafo consegnatogli e mi ritirai nella sicurezza
della mia stanza, divorandone febbrilmente i contenuti.
Il
signorino Itachi presenta tutti i sintomi della febbre puerperale, stop.
È già
stato chiamato il dottore, stop.
Fategli
compagnia almeno sul letto di morte, stop.
Ci sono
buone probabilità che non sopravviva, stop.
Cordialmente, Suor Maria Elisabetta della Visitazione.
Un tumulto mi sorse in petto:
che fare? L’istinto mi suggeriva di ingoiare finalmente il mio dannato orgoglio
e di correre al capezzale di mio fratello; la parte razionale di me, al
contrario, mi suggeriva di lavarmene le mani. Del resto, Itachi aveva fatto la
sua scelta, no? Aveva preferito l’amante a noi! Ciononostante, non mi pareva
giusto lasciarlo morire da solo. E la bambina? Mia nipote? Quale sarebbe stata
la sua sorte, se l’unico genitore rimastole al mondo fosse morto?D’impeto presi
la mia decisione e tramite un abile stratagemma riuscii l’indomani a partire
per Kiri: bastò addurre una semplice visita a Rin, che assecondò l’inganno.
Grave errore! Sarei dovuto
rimanere, così da impedire l’orrida decisione che la mia famiglia stavano ordendo
nel frattempo! Una decisione che avrebbe firmato la nostra condanna terrena ed
eterna, includendo indiscriminatamente tutti, perfino Sakura, colpevole di aver taciuto a riguardo e di essere
entrata nella nostra famiglia.
Ma quale altra scelta mi
rimaneva? A spingermi fu l’enorme pena e il rimorso e le ceneri ancora bollenti
dell’amore fraterno! Malgrado gli avessi augurato ogni male, la prospettiva di
perdere definitivamente mio fratello mi terrorizzava, neanche mi avessero
preannunciato la scissione della mia anima in due parti!
Dovevo visitarlo, dovevo!
E tuttavia, avrei anche voluto
non essere mai entrato nella cella (così si chiamano le stanze private dei
monasteri, ndr.) dove un esangue Itachi tremava sotto i
numerosi strati di coperte, malgrado le
perline di sudore che gli inumidivano il viso e i capelli. Il mio malessere non
derivava dall’aria mefitica, ancora pregna dei vapori ferrosi del sangue e di
altri liquidi cui non osavo neppure dar nome, bensì dall’impietosa incarnazione
vivente delle mie colpe. In che condizioni avevo ridotto il mio povero
fratello? Il viso grigiastro e sudaticcio ancora presentava i segni delle
lacrime; i capelli attaccati alle tempie s’erano striati di preoccupati ciocche
bianche e aveva appena ventun anni. Le gote si presentavano scavate e gli
zigomi più pronunciati, neanche la pelle si fosse tesa sullo scheletro, chiaro
segno di magrezza eccessiva. Di sottecchi spiai la mano sinistra: la protesi di
legno all’anulare fissata con una cinghia di cuoio confermò i miei più
terrificanti sospetti.
Dunque, era tutto vero.
Gli era stato sul serio amputato
l’anulare per salvarlo dal fantasma di Kisame, venuto a reclamarlo anche da
morto, come s’erano giurati poco prima della partenza di quest’ultimo.
Rabbrividii impercettibilmente.
“Quando giunse alla nostra
abbazia, Itachi aveva perso una pericolosa quantità di peso”, mi riferì
partecipe Mei (benché avesse cambiato nome dopo i voti monacali, continuerò a
chiamarla così, per abitudine, sapete. Mia pigrizia mentale) “Inoltre, il
trauma di quella notte lo ha debilitato ulteriormente. È un
miracolo che la piccina sia sopravvissuta a tutto questo.” Ammirai la grande
apertura mentale e carità cristiana della donna, così diversa dai superstiziosi
e intimoriti bisbigli delle altre consorelle, che evitavano la cella di mio
fratello quasi vi emanasse gli effluvi della peste. “Tuttavia”, riprese “il suo
corpo non interamente femminile ha impedito grandemente il parto per vie …
normali. Mi dispiace, marchesino Sasuke, ma siamo stati costretti ad un taglio
cesareo:o quello o altrimenti rischiavamo di perdere entrambi. Vostro fratello
ha fatto appena in tempo a vedere la sua bambina e a conferirle il nome, che
due ore dopo Haku l’ha trovato delirante dalla febbre, la quale da ieri non
accenna a calare. Siate quindi pronti al peggio, marchesino Sasuke”, mi pose
Mei una mano sulla spalla, mano che serrai senza accorgemene, la vista
appannata da lacrime montanti. Presi dunque posto accanto ad Haku – a Kiri i
segreti non esistono e sono certo che appena saputa la notizia, il ragazzo si fosse
immediatamente recato dall’ex-padrone – abbozzando ad un imbarazzato saluto:
non ci eravamo di certo congedati nel migliore dei modi. Inoltre, fu strano
vederlo indossare gli abiti tipici di Kiri (una camicia a maniche vaporose col
gilet e la fustanella), piuttosto che la divisa da servitore. Pareva anche
leggermente più in carne. Il matrimonio doveva avergli notevolmente giovato, conclusi.
“Sior marchexin”, rispose
incolore Haku al mio saluto, asciugandosi gli occhi cerchiati di rosso dal
pianto e dalla veglia forzata. Ovvio che non mi considerasse più un suo
padrone, però fui contento dell’assenza di freddezza nella sua voce.
Mi sbagliai.
“Voialtri Uchiha siete pèzo de’
quei che ziogavan a’ dadi sotto la Croxe!”, esplose il ragazzo, colpendomi il
braccio con incredibile forza - vista e considerata la sua corporatura minuta.
“Siete stati crudeli col poveretto del paron!” Un secondo pugno. “Per cossa,
poi?” Un terzo pugno. “L’avete affamato, era magro come uno scheletro,
maledetti!” Un quarto pugno. “E alla creatura, non gh’avé pensato? Era gravido,
sangue de diana, per poco non mazzavate entrambi!” Quinto pugno. “Povera
putela, povera putela! So pare xé morto in mare, so “mare” va morir de’ febbre!
Andé a farvi impiccar quanti che sé, se’l boia non s’offende! Cani! Sassini!
Barabba!”, pigolò, coprendosi la mano e singhiozzando sonoramente, attirando
così l’attenzione di Itachi che, compiendo l’enorme sforzo di sollevare un poco
il capo indolenzito, aprì le palpebre umide di sudore per cercare la fonte di
quell’inaspettato baccano.
“Itachi …?”, mi sporsi verso si
lui, sperando in un contatto visivo.
Invano.
Sopraffatto dalla fatica, mio
fratello richiuse in fretta gli occhi velati dalla malattia e cadde in pieno
abbandono sul cuscino, appoggiando stancamente la testa dalla parte opposta.
Tremò violentemente, quando gli
scostai pudicamente la frangia dagli occhi.
Del resto, il suo segreto cresceva giorno dopo giorno fino
alla nascita di una piccina bella come il sole, l’ultimo legame con lo sposo
scomparso.
Dopo che Haku ebbe modo di
sfogarsi per bene a discapito del mio braccio, mi condusse nella cella accanto,
là dove le novizie circondavano rapite e ridacchianti una giovane donna dai
lunghi capelli rossi e abbigliata come le popolane di Kiri, la quale stringeva
al petto con estrema cura un fagotto di panni. Aveva sciolto i lacci della
bianca camicia merlettata, permettendo alla mia nipotina di usufruire della
gonfia e lenta poppa presentatale. Ai piedi della balia dormiva serafico in una
cesta di vimini il fratello di latte della neonata.
“Ameyuri!”, la chiamò Haku,
prendendo posto accanto a lei. Neanche le avessimo pizzicate in attività
oscene, le novizie si scossero dal loro incantamento, abbandonando la cella una
volta, forse in realtà richiamate da Mei che le contò simil can pastore.
“Allora, mangia?”
“De diana, se mangia!”, esclamò
la giovane madre, reclinando il capo cosicché potei osservarla meglio: non
particolarmente carina; tuttavia possedeva un ché di vivace e monellesco che me
la rese subito simpatica. “Per cento! Fortuna,
che’l mio putelo gh’ha già poppato! Nol me lassa gnente, sennò!”
“Almanco uno in salute
l’avemo!”, si segnò Haku sollevato, prontamente imitato dalla rossa. “A
proposito, xermana, ti presento il sior marchexin Uchiha Sasuke, fradelo minor
del paron!”
“Lutrissimo!”
“Onorato, signora”, abbozzai ad
un breve inchino, che comunque provocò un certo sgranare degli occhi della
giovane donna, non avvezza magari a
simili cortesie. “Vi ringrazio dal profondo del cuore, per esservi presa cura
di mia nipote. Nondimeno, vorrei chiedervi di continuare ad essere la nutrice
della piccina … Verrete largamente ricompensata, statene certa, ecco …” e
m’accinsi ad estrarre delle banconote, sennonché la mano di Ameyuri mi bloccò
il polso.
“No li voggio”, dichiarò seria,
fissandomi lungamente dritto negli occhi. E dinanzi al mio sguardo perplesso,
lei mi spiegò, dopo aver preso un profondo respiro. “Me marìo si trovava in
quella nave. Anca lui xé morto in mare, sensa veder la sua creatura. Donca, no
voggio schei. Lo fazzo per solidarietà, perché capisso el dolore de’ quel
poveraccio de’ vostro fradelo!”
Un empatico silenzio s’intromise
tra di noi, durante il quale ne approfittai per accarezzare discretamente la
gota paffuta e morbida della mia nipotina, che mi spiò interdetta con la coda
di un occhio nero pece. I nostri occhi. I capelli, invece, dai pochi ciuffi che
spuntavano di qua e di là, parevano aver ripreso il colore di quelli del padre.
Eppure, era così piccola. Uno
scricciolo.
“Che Dio vi benedica, signora”,
le dissi col cuore in mano, prendendo congedo sia da lei che da Haku.
“Accuditemela bene, ve l’affido …”, e rimettendomi il cappello, ruppi gli
indugi che ancora mi tenevano ancorato alla piccina.
“Mayra!”, mi rivelò
all’improvviso Haku, quand’ero ormai sulla soglia della cella. “Pensavo che
avreste dovuto saperlo.”
Non mi voltai: un Uchiha non
mostra la sua debolezza piangendo di fronte agli altri. E se lo feci, fu
solamente dinanzi al mare tumultuoso e coi gabbiani a miei testimoni, nella solitudine
di quel mare benefattore al contempo tiranno, che forniva agli abitanti di Kiri
sia la ricchezza che la morte. Il suo eterno ruggito coprì coscienziosamente i
miei singhiozzi.
Mayra.
Così si chiamava la mia
nipotina.
Come la principessa della fiaba,
che da piccoli Mamma Haruhi soleva raccontarci nelle notti di tempesta onde
tranquillizzarci.
Ma la sorte non aveva – e non
avrebbe - riservato a nessuno di noi l’agognato“e vissero felici e contenti".
"Spuma splendente, onda fremente.
Gioca col mare e lui ti
catturerà”
Qui il
diario s’interrompeva: al posto della narrazione, il suo defunto proprietario
vi aveva inserito delle lettere datate tra inizio e fine ottobre 1858.
Leggendone le firme, Naruto capì essere state scritte da persone differenti:
Haku, l’ex domestico, suor Maria Elisabetta della Visitazione (o Mei Terumi,
prima di prendere i voti) e, con suo sommo orrore, da Uchiha Itachi in persona.
Calmando
il visibile tremore alle mani, il giovane commissario riprese la lettura.
Kiri, 6 ottobre
1858
(Scritto per conto del signor Momochi
Haku, dal signor Kuriarare Kushimaru)
Egregio signor marchesino Uchiha
Sasuke,
mi rivolgo a voi, giacché ho
fede che voi siate l’unico giusto in quella Sodoma e Gomorra quale sia la
vostra iniqua famiglia. Non biasimatemi per i toni sverzanti e duri. Se li
meritano tutti, credetemi.
Vi recherà piacere la notizia
della scampata morte di vostro fratello: le costanti cure del dottor Ao l’hanno
sottratto dalle grinfie della febbre puerperale. Che sollievo, nevvero? A mio
parere, sarebbe stato meglio se il signorino Itachi fosse morto di quella
febbre!
Una delle novizie è una mia
amica e mi ha raccontato della loro sorpresa nel vederlo nuovamente seduto sul
letto, la fronte fresca, gli occhi limpidi e le gote leggermente rosee. Ed era
lì quando il signorino Itachi, terminato il brodo di pollo, dichiarò sollevato:
“Per fortuna non sono più un pericolo per la mia piccina. Per favore,
portatemela!”
E non le sfuggì l’occhiata imbarazzata
che le due suore si scambiarono, il loro tentennamento. L’impazienza del
signorino Itachi. “Ebbene? Che aspettate? Voglio vedere mia figlia!
Portatemela, ho detto! Cosa sono quelle facce? Mia figlia dov’è? Dov’è?”
Una delle due si era morsa a
disagio il labbro inferiore, mentre l’altra abbassava colpevole lo sguardo.
“Dov’è?”
“Nella cripta, marchesino, nella
piccola bara bianca che il prete sta benedicendo …”
E mi riferì dell’urlo disumano
emesso da vostro fratello, dopo essere impallidito fino al violaceo, piangendo
a momenti il suo stesso sangue! Mi narrò di come balzò giù dal letto, correndo
via peggio di un invasato verso la cripta, gridando che voleva vedere la sua
bambina. “Lasciatemi! Lasciatemi! Voglio vedere la mia bambina! Mia figlia! Non
portatemela via! Non voglio! Non voglio!”
“Itachi! A che giova disperarvi?
La piccola Mayra ormai è morta, il suo corpicino già riposa nel nostro
cimitero!”, lo trattenne a forza il prete, impedendogli di raggiungere l’agognata
cripta. E dinanzi ai suoi incessanti singhiozzi, a quel suo strapparsi i
capelli e graffiarsi il viso, egli aveva tentato di consolarlo, dicendo:
“Calmatevi, Itachi! Calmatevi, figlio mio! Siete ancora giovane, avete tutta la
vita davanti! Potete avere ancora dei bambini!”
“E certo!”, convenne la madre
superiora. “Quale puerpera non ha perduto almeno un figlio in vita sua! Oh là
là, finitela con questi piagnistei!”, e batté snervata il bastone. I singhiozzi
del signorino s’abbassarono di volume, ma non cessarono, perseverando in un
persistente gorgoglio sconsolato.
Sapete, marchesino, perché
appresi tutto ciò da questa novizia mia amica? E non ne fui invece io medesimo
testimone? Perché mi chiusero la porta in faccia tre giorni prima! E Ameyuri, congedata
dal suo ruolo di balia appena due giorni addietro, ancora ha gli incubi delle
urla di vostro fratello! Ad entrambi, poi, è stato proibito di metter piede
nell’Abbazia!
Coincidenza?
No.
Non quando vostra madre e la
vostra fidanzata vennero a visitare questo nido di vespe proprio il giorno in
cui divenni un ospite indesiderato.
Che abbiano ucciso la bambina?
Prego per la loro anima di sbagliarmi.
Altrimenti, siete peggio del
demonio in persona. Non avete decenza, né morale, né timore di Dio.
Non rispondete a questa mia
missiva. Trovate, per cortesia, il modo per potermi parlare a quattr’occhi.
Spero di ricevervi presto in
casa mia,
distinti saluti,
Momochi Haku
Finché un giorno funesto, la madre e la fidanzata del
fratello minore vennero all’Abbazia del dolore.
Kiri, 21 ottobre
1858
Egregio signor marchese Uchiha
Sasuke,
comprendo come la recente
dipartita di vostro padre possa corrispondere ad un duro colpo per voi e per la
vostra famiglia; nondimeno, mi duole informarvi come le condizioni della salute
mentale di vostro fratello stiano irrimediabilmente peggiorando.
La morte della sua bambina ha
minato fortemente l’equilibrio e la pace del suo spirito. Temo il peggio,
signor marchese. Temo per il destino della sua anima, già di suo così
compromessa a causa delle previe manifestazioni del maligno.
E gradirei, se non v’incomoda,
che veniste a visitare vostro fratello. Infatti, non possiamo più contare né
sull’aiuto di Haku né di sua cugina Ameyuri: sia il nostro prete che la badessa
hanno loro severamente proibito di entrare nell’Abbazia. Ho i miei sospetti, ma
non li esternerò in questa mia missiva.
Se ancora amate vostro fratello,
anche di un bene piccolino, venite e cercate di lenire un poco l’enorme
sofferenza che lo sta letteralmente corrodendo. Non vi costerà niente e aiuterete
un’anima in difficoltà.
Che Iddio e la Vergine vi
benedicano,
Suor Maria
Elisabetta della Visitazione
E davanti al sagrato della chiesa, di notte o di giorno, col
gelo o con l’afa, col sole o con la pioggia, attendeva e chiamava ad alta voce lo sposo e la figlia.
I fedeli, vedendola, scuotevano il capo impietositi.
L’ultima
lettera non recava un né luogo né una data, eppure Naruto ben immaginava da
dove poteva essere stata recapita e soprattutto da chi.
Un’irrequieta
e tremante mano carica d’odio aveva imbrattato in un incomprensibile arabesco
la carta ormai ingiallita dal tempo. La grafia era ingarbugliata, frettolosa,
collerica, come se lo scrittore avesse voluto incidere le parole piuttosto che
scriverle; sbavature d’inchiostro e macchie che Naruto ipotizzò essere lacrime avevano
reso doppiamente illeggibile il manoscritto.
Ma il
giovane commissario si sforzò.
E il
gelo della paura gli attanagliò il cuore.
Ti avverto, Sasuke! Ti avverto!
E non solo te, ma anche quelle
sciagurate di tua madre e della tua fidanzata! E tutti gli Uchiha con loro …
Attenti! Non giocate con me! Non posseggo più né la pazienza né la volontà di
essere nuovamente manipolato da voi!
Ladri! Vigliacchi! Assassini!
Pensavate di farla franca, vero?
Di ingannarmi? Di inscenare la morte della mia Mayra? Pah! Dovevate
trovare uno stratagemma migliore!
Kisame mi ha detto tutto.
Mi ha rivelato la vostra
porcata.
I morti sanno tutto, nulla
sfugge ai loro occhi.
Voi me l’avete sottratta con
l’inganno! Avete corrotto questa spelonca di ladri chiamata abbazia per allontanare
Haku, avete complottato per far sì che io fossi persuaso della morte della luce
dei miei occhi! Avete perfino osato dichiararmi incapace di intendere e di
volere! Kisame mi ha riferito che volevate addirittura rinchiudermi in un
lercio manicomio!
Disgraziati! Lurida feccia!
Restituitemela! Ridatemi mia
figlia!
Lei è MIA!!! Mia!!! Mia!!! Non
vostra! Non sarà mai una di voi! Non sarà mai un’Uchiha, un’altra figlia
del diavolo il cui unico scopo è quello di rovinare la vita al prossimo!
Ridatemi mia figlia o troverò il
modo per farvela pagare!
Anche a costo di rinnegare tutto
ciò che sono!
Troverò il modo per tormentarvi
così a lungo da farvi desiderare di non essere mai nati e anche in quel frangente,
quando tenterete di porre fine alle vostre sofferenze, io sarò lì per fermarvi,
acciocché esse ingigantiscano fino a condurvi alla follia più nera!
Riderò della vostra
prostrazione, come rideste della mia e vi farò assaggiare la punizione cui il
vostro titolo e i vostri privilegi vi hanno sempre sottratto!
Sarò il vostro carnefice! Il
vostro castigatore!
Non scapperete da me!
Nessuno scapperà da me!
Scegliete! O mi restituite mia
figlia oppure …!
Perché se è vero che per me non
v’è più alcuna salvezza, allora vi trascinerò meco nella perdizione e
nell’abisso delle fiamme nere del maligno. Mi avete abbandonato, ma oh, ci
faremo tosto compagnia!
Nello stridore dei denti e nell’eterna
notte del grande abisso.
Vi odio tutti.
Crepate.
Marcite all’inferno.
La Vigilia degli Ognissanti, la Sposa Mancata svanì nel
nulla.
Evidentemente,
quelle lettere giunsero troppo tardi nelle mani di Uchiha Sasuke, quando ormai
i giochi erano fatti. Infatti, nel diario del defunto non appariva nessun
commento, né un qualsiasi altro indizio che denotasse lo stato d’animo del suo
autore e ciò convinse definitivamente Naruto, giacché, leggendo quelle memorie,
s’era costruito l’immagine di una persona molto meticolosa. Di conseguenza,
quell’assenza di note convalidarono la sua teoria sull’assoluta ignoranza di
Sasuke su quel che stava accadendo a Kiri nel frattempo che lui … Già, bella
domanda! Dov’era stato lui nel frattempo?
Un
omicidio …, cogitava il biondo, rileggendo accuratamente quelle tre missive.
Dunque, si adombrava l’omicidio della piccola Mayra e alla conseguente pazzia
di Itachi per quest’ennesimo lutto.
Un moto
di rabbia e frustrazione agitò il cuore del giovane commissario, disgustato
dalla bassezza di quel gesto: come avevano potuto? Uccidere una neonata, una
creatura innocente ed estranea alla faccenda? Per che cosa poi? Onore?
Reputazione? Eredità?
Pazzesco.
Inconcepibile. Quei bastardi si meritavano tutte le disgrazie capitatigli.
Ma e
qui il ma! La “madre” dell’infante seguitava a reclamarla, neanche nutrisse il
dubbio – no, la certezza! – che la sua figliola fosse ancora viva. La suora
stessa parlava di “sospetti”. Che si trattasse di una farsa per camuffare un
rapimento? Oppure, la follia aveva sconvolto a tal punto la mente di Itachi, da
costringerlo a vaneggiare nient’altro che collerici deliri? Sosteneva
addirittura di aver parlato con l’amante annegato! Oppure, le sue lunghe e
approfondite letture sullo spiritismo avevano dato infine i loro frutti?
Dov’era la verità in quel torbido e penoso enigma centenario?
Sfogliando
il diario, Naruto reperì una quarta lettera, la tristemente nota conclusione di
quel mese terribile.
Kiri, 2 novembre
1858
Egregio signor marchese Uchiha
Sasuke,
immagino che voi non abbiate
ricevuto le mie lettere; forse, vi trovavate in viaggio all’estero. In ogni
modo, come vi avevo preannunciato in una mia missiva datata 21 ottobre e nella
quale esprimevo i miei timori riguardo la sorte di vostro fratello, vi annuncio
che solo oggi, dopo due giorni di ricerche in mare, è stato ritrovato il
cadavere di Itachi.
La causa della sua morte è
facilmente indovinabile ed era questione di tempo: scioccamente, sia la badessa
che il nostro prete avevano supposto, che il dolore della perdita della figlia
sarebbe stato addolcito col passare del tempo. Al contrario, quest’ultimo ha
infierito barbaramente sull’animo già martoriato di vostro fratello, portandolo
a perdere la lucidità giorno dopo giorno. Infatti, oltre che a rifiutare il
cibo, Itachi aveva preso l’abitudine di alzarsi di notte e di vagabondare per
il monastero, cantando nenie per bambini. Di giorno, invece, aspettava sul
sagrato della chiesa il suo amante, lagnandosi di continuo che aveva perduto il
suo prezioso anello. Inutile dire come la gente del posto abbia incominciato a
tessere strane storie su di lui, ora commiserandolo ora deridendolo. La
situazione peggiorò, tuttavia, nel momento in cui, sfidando gli ordini della
priora, feci entrare Haku di nascosto nel monastero: ebbene, Itachi non lo
riconobbe. Lo fissò a lungo, sorridentemente stranito, ma non diede cenno a
riconoscerlo, seguitando anzi a cullare tra le braccia il vuoto e a
canticchiare e a parlare tra sé e sé.
Talvolta, pizzicavo vostro
fratello intento ad osservare piuttosto intensamente il mare: seduto a gambe
penzoloni sull’imbarcadero di marmo, si perdeva nella sua gabbia fantasmagorica
per ore e ore, incurante dei lazzi rivoltigli dai bambini o delle onde che lo
bagnavano fino alle cosce o di qualsiasi altro richiamo al mondo esterno. In
quelle occasioni mi avvicinavo a lui, invitandolo a rientrare, poiché conoscevo
anche fin troppo bene “quello” sguardo. Allora, Itachi si girava verso di me,
fissandomi con odio intenso, un astio che stranamente percepivo non essere
rivolto alla sottoscritta, bensì a qualcun altro. Opponeva resistenza,
arrivando a graffiarmi e a momenti a trascinarmi con sé in acqua.
Perché lui aveva eletto il mare
a sua tomba.
Tutto accadde il 31 ottobre.
Quel giorno, dopo il Vespro, notai l’assenza di vostro fratello tra le panche
dei fedeli e, preoccupata, mi misi immediatamente alla sua ricerca. Lo trovai
al suo solito posto (rannicchiato sui gradini dell’imbarcadero con le ginocchia
al petto) dandomi subito della sciocca per essermi affannata in sì modo;
tuttavia, lo stesso avanzai verso di lui piuttosto snervata, più che altro
indignata dallo spettacolino offertomi: dei monellacci di ambo i sessi, in
attesa dei loro genitori, lo avevano circondato, tormentandolo con infiniti dispettucci:
ora, ad esempio, gli scompigliavano e tiravano i capelli; oppure lo
punzecchiavano con dei bastoncini e pizzicotti, riempiendolo poi di alghe e
strattonandolo per le vesti. Il tutto, mentre canticchiavano burlescamente la
seguente canzonetta:
“La Sposina è triste,
che si può far?
Vuol marito, la miserella,
dove lo podriam trovar?
Nel mar, giù giù co’ pesci,
dove l’andrem a gettar!”
E alla vista di quei birbi
malnati che s’appropinquavano a spintonare vostro fratello giù dall’imbarcadero,
accelerai il passo, rimproverandoli aspramente ed elargendo loro anche un
meritato scappellotto. Invece, Itachi si voltò verso di me, guardandomi
sorpreso. “Perché li hai scacciati? Mi stavano preparando per le mie nozze con
Kisame!”, ridacchiò, indicando le alghe
che adornavano a mo’ di coroncina i suoi capelli divenuti, alas, bianchi come
la neve. “Se solo avessi il mio anello! Allora, riavrei mia figlia e il mio
caro sposo …”
“E’ ora di rientrare, Itachi”,
lo afferrai per un braccio, issandolo. “E comunque non dovresti avvicinarti
troppo all’acqua …”, lo rimbrottai, levandogli quello schifo dalla testa.
Vostro fratello si lasciò fare, seguendomi senza proferire parola finché non
raggiungemmo la sua cella.
Fu l’ultima volta che lo vidi.
Poco prima della mezzanotte, una conversa venne a svegliarmi, annunciandomi
trafelata della scomparsa di Itachi dalla sua stanza: lo aveva cercato ovunque,
senza tuttavia evidenti risultati. Un unico particolare l’aveva colpita: il
pavimento della cella si presentava completamente bagnato e di fatti, recandomi
lì anch’io onde verificare il suo racconto, appurai quei due o tre centimetri
abbondanti d’acqua salsa. Dov’era, però, sgorgata? Come aveva fatto ad
infiltrarsi? La marea era bassa e il mare non era in tempesta! In ogni modo, mi
sentii in dovere di avvertire la badessa e di informarla dell’accaduto. Il
giorno seguente setacciammo alla luce del sole ogni angolo dell’Abbazia,
invano: vostro fratello non si trovava in nessuno luogo. Rassegnati alla
peggiore delle ipotesi, ingaggiammo dei pescatori per cercarlo in mare e
purtroppo le nostre paure si rivelarono fondate: questa mattina hanno reperito
il corpo e già si sta decidendo sul suo destino, ergo dove seppellirlo.
Voi, marchese Sasuke, siete
l’unico parente rimastogli, l’unico cui mi possa appellare per un minimo di
carità cristiana. Vi prego, vi scongiuro, venite a Kiri. Almeno per reclamare la
salma di vostro fratello. Ha molto sofferto e non vedo il bisogno d’infierire
ulteriormente su di lui.
Che Iddio e la Vergine vi
benedicano,
Suor Maria
Elisabetta della Visitazione
Il mare ne aveva inghiottito le stanche spoglie mortali.
Ed ecco
la replica di Uchiha Sasuke:
Mio fratello è morto.
Mio fratello è morto.
Queste furono le uniche parole
che la mia anima riuscì ad elaborare, figurarsi la mente, che pareva morta
d’ogni pensiero.
Itachi era morto.
Mi venne da ridere e al contempo
da singhiozzare. Non ci potevo credere. Non volevo crederci. Mio padre era
deceduto da neanche un mese (ancora vestivo di nero) e mi annunciavano che mio
fratello s’era suicidato, annegandosi. Era ridicolo, era grottesco.
Infatti, verso inizio ottobre
mio padre Uchiha Fugaku, durante una passeggiata a cavallo, era stato
disarcionato dalla bestia, la quale s’era impennata inaspettatamente, vista la
sua natura da tutti ritenuta mansueta. La caduta gli aveva distrutto la colonna
vertebrale, perforandogli i polmoni con le schegge delle ossa. Quando lo
riportarono su di un carretto a casa, bastò un’occhiata per comprendere che era
già in agonia e che l’unico sollievo che il medico poteva dargli consisteva nel
chiamare un prete per l’estrema unzione e somministrargli di tanto in tanto
della morfina. Sei ore dopo, mio padre esalava l’ultimo respiro. Lo seppellimmo
nel camposanto di famiglia, poco distante da Villa Nakano, là dove riposavamo
tutti i nostri illustri antenati. Ancora mi sovvengono le emozioni che provai
in quel momento, quel senso di dolorosa accettazione del mio neo acquisito
ruolo di capofamiglia: lo sperimentai dal braccio che porgevo ad una piangente
genitrice pesantemente nerovestita o alla presenza di Sakura accanto a me. Le
stesse riverenze, gli onorifici, quel togliersi il cappello dinanzi al
sottoscritto e mormorare: “Le nostre condoglianze, signor marchese”,
appesantirono quel senso di responsabile gravità che già pesava sulle mie
spalle ancora acerbe, segnando definitivamente la fine della mia breve adolescenza.
Giuridicamente parlando restavo minorenne e sotto la tutela di mia madre, però
sapevo che d’ora in avanti le sorti della famiglia Uchiha sarebbero state riposte
nelle mie mani e il primo passo consisteva nella riconciliazione di Itachi con
noi. A severe condizioni, sicuro, ma lo avrei riaccolto. Invece, gli impegni
scolastici s’intromisero, costringendomi ad abbandonare Villa Nakano, ignaro
delle macchinazioni della mia – ora posso ben dirlo! – scellerata famiglia e
della tragedia che si consumava a Kiri.
Appresi per caso della morte di
Itachi. Per caso. Per rimorso. Venendomi a visitare al collegio, Sakura mi
consegnò dogliosa e contrita tutte le lettere a me indirizzate – quelle di
Haku, di Mei, di mio fratello stesso e un’altra della signorina Terumi –
spiegandomi di averle sottratte dallo scrittoio di mia madre, poiché
quest’ultima s’era rifiutata di consegnarmele. Non domandai ulteriori
chiarimenti: lessi e presi subito un treno per Kiri. Durante il viaggio, Sakura
si sciorinò in ogni genere di mea culpa, sostenendo di non aver compreso la
gravità di quei contenuti, che sì, lei le aveva viste, ma mai lette.
Vane parole, giacché da tempo
avevo smesso di ascoltarla. Anzi, da tempo avevo cessato di vivere. La mia
anima si sentiva così vuota, così confusa, neanche l’avessero menomata. Itachi
era morto. Pensavo di aver sparso tutte le mie lacrime sulla tomba di mio padre
e invece mi ritrovai a singhiozzare senza ritegno dinanzi alla piccola bara di
semplice legno di pino (altro che il lussuoso noce!) dentro cui giaceva il mio
povero fratello. Pareva così fragile, così indifeso. Stanco e più vecchio dei
suoi ventun anni. Haku e sua madre gli avevano cucito apposta un modesto abito
bianco e un lungo e pensante velo fermato da una coroncina di crisantemi e gigli
gli nascondeva i capelli divenuti precocemente bianchi. La mano destra portata
al petto celava gelosa lo scempio della sinistra e dalla loro fittizia unione
scendeva un rosario di legno.
Scusami tanto, Itachi! Non lo
farò mai più, te lo prometto!
Non ti angustiare, sciocchino!
Ti ho già perdonato!
Ah, fratello mio! Così solevamo
fare da piccoli, ti ricordi? Litigavamo, ma poi ci perdonavamo tutto. E
dimenticavamo. E ricominciavamo. Sempre, però, con la certezza che saremmo
rimasti assieme, uno accanto all’altro, a sostenerci, a rimproverarci, a
proseguire mano nella mano lungo il cammino della vita.
Invece, stavolta il nostro
ultimo tremendo diverbio non ha conosciuto il balsamo della riconciliazione. Ti
avevo perduto, Itachi, per sempre. Non mi hai perdonato, né l’avresti mai più
fatto.
Il funerale si rivelò un affare
penoso. Secondo le leggi, un suicida non meriterebbe di venir sepolto in terra
consacrata, ma al primo crocevia fuoriporta: col suo gesto, infatti, aveva
rinnegato il dono di Dio e di conseguenza non poteva riposare tra i
“benedetti”. Dovetti far ricorso a tutta la mia dialettica sia oratoria che
pecuniaria pur di convincere il prete e la badessa a tumulare Itachi perlomeno
sotto la croce votiva del piccolo cimitero dell’Abbazia, là dove le stradine aiuolate
si intersecavano. Ovviamente, la tomba sarebbe rimasta anonima, però mi
consolava (grande parola!) di aver risparmiato ad Itachi l’ultimo ostracismo.
Così m’ero illuso, mentre
osservavo prostrato quella piccola bara venir calata nell’umida terra sabbiosa.
Attorno alla fossa, un misero corteo assisteva alla svogliata funzione, un
vestito di Arlecchino [1] formato da Haku, suo marito e sua madre; la
balia Ameyuri, che mi sorpresi dal modo estremamente possessivo e sospettoso
con cui stringeva al seno il figlioletto; la signorina Mei e il prete. Una
cerimonia svelta, scocciata e piovve persino, neanche il mondo stesso avesse
congiurato per nascondere il prima possibile quella pietra di scandalo.
“Povero Itachi. Finalmente
riposa in pace”, mormorò mestamente Sakura, cingendomi il braccio. “E adesso
che è tutto finito, torniamocene a Konoha, lontano da questo posto pieno di
dolore. Là dove potremo dimenticare quanto accaduto!”
“Sì”, bisbigliai a mia volta, gli occhi ognora
puntati sulla fossa ormai ricoperta di terra. Finita. Sì, era davvero finita. Mio
fratello apparteneva ai vermi. La sua intelligenza, le sue passioni, i suoi
rimpianti, i suoi progetti, tutto sarebbe stato annientato da quegli spazzini
invertebrati. Ingoiato dall’anonimato della tomba di un miserabile. Destinato
all’oblio. Un tale umiliante epilogo non l’avrei mai immaginato per lui. Mai.
“Andiamo a casa, Sakura …”
Lei, però, non si mosse,
fissando terrorizzata oltre le mie spalle, gli occhi sbarrati e dilatati. “Oh
Dio Santissimo …”, ansimò cinerea in volto. Temendo di un eventuale suo
deliquio, l’afferrai prontamente per le spalle, sorreggendola.
“Sakura! Che vi prende? Cos’è
successo? State poco bene?”
La mia fidanzata non rispose,
indicando tremante un punto indefinito dinanzi a sé.
Mi voltai e vidi il nulla.
“Lo vedi? Lo vedi?”, si portò
ella la mano al cuore, indietreggiando verso il portico del monastero. “Lo
vedi?”
Allungai il collo, aguzzando la
vista: niente, solo grigie lapidi e angeli e santi di pietra. Niente. “Sakura,
vi sbagliate. Siamo soli, chi dovrebbe esserci?”
“Lui! E ride! Ride! Ride di me!
Di noi tutti!”, gridò infine la mia promessa, facendo un isterico dietrofront e
correndo peggio di un’invasata nella salvezza del monastero, abbandonandomi lì,
nel bel mezzo di un acquazzone.
Avvertii chiaramente un tocco
gelido alla mia nuca.
“Chi va là? Chi va là?”,
domandai imperioso, girandomi di scatto in ogni direzione. Avevo sentito
qualcosa, una presenza, forse? Avevo sentito qualcosa e non si trattava soltanto
del furioso tambureggiare della pioggia sulle tombe! “Chi va là?”
Una lieve pressione sul mio
braccio. “Sasuke?”
E anch’io cacciai un urlo
spaventato, voltandomi in direzione di quel richiamo.
“State bene?”, inquisì
preoccupata Mei, arcuando perplessa il sopracciglio ramato. Boccheggiando, mi
passai una mano prima sulla fronte poi sugli occhi. “Su, venite dentro,
altrimenti vi buscate un malanno”, m’invitò amorevole, accompagnandomi
all’asciutto.
Era davvero finita? O non era
che l’inizio?
Giudicate voi, gentile lettore.
Vi dirò solo questo.
Il 31 ottobre 1859, Uchiha Rin
soffocò nel sonno i suoi due figlioli, dandosi poi la morte tramite veleno. Mio
cugino Obito, appresa la notizia, ne rimase talmente devastato da
ricongiungersi alla famiglia perduta avvelenandosi anch’egli.
L’anno seguente, 1860, morì mia
nonna. Si buttò dalla finestra. La sua cameriera personale disse che, prima del
grande salto, aveva urlato: “Vade retro! Vade retro, anima dannata!”
Nel 1861 morì mia zia, la madre
di Obito e Shisui. La trovarono impiccata al lampadario e le foto dei due figli
deceduti nella tasca della sua vestaglia.
Nel 1862 un incendio “dalle alte
fiamme nere”distrusse la casa dove viveva mia cugina Sayuri e la sua famiglia. Nessun
superstite.
Nel 1863 morì lo zio Madara,
anch’egli suicida. Non descriverò in quale stato il suo cadavere venne
reperito. Lo vidi in foto e mi bastò per tutta la vita. Ancora oggi
rabbrividisco al solo pensiero, mentre un conato di vomito m’impedisce di
ragionare obiettivamente. Morì e questo sia per voi sufficiente.
Giunse infine il 1864, l’anno
che in teoria avrebbe dovuto rischiararmi l’esistenza. Ah! Una vita radiosa,
certo, certo, che mi fu invece avvelenata per sempre.
Ah, delitto orrendo! Lo avremmo
espiato tutti! La sua anima offesa si sarebbe invero vendicata!
Molti anni dopo, si
celebrava il matrimonio di una bella fanciulla dagli occhi simili agli
smeraldi.
Infatti, Sakura ed io avevamo
eletto il 1864 ad anno del nostro matrimonio. La catena di numerosi lutti ci
aveva costretti a posticipare l’evento; tuttavia, anche per dissipare le
fastidiose dicerie circolanti sulla nostra famiglia, decidemmo di convolare lo
stesso a nozze, così da portare un po’ di gioia in una casa sempre più vuota. Mia
madre, ormai rifugiatasi nel conforto di una superstiziosa devozione, ne fu
quantomeno estasiata. In effetti, un pesante senso d’oppressione gravava sempre
di più sulle nostre spalle, un’orrida sensazione di avere il fiato del destino
sul collo.
Un cerchio che si stringeva.
Itachi, il crudele, non aveva
colpito i diretti responsabili delle sue sciagure. Non subito, almeno.
Lentamente e coscienziosamente, aveva indotto al suicidio i nostri parenti più
lontani, per poi avvicinarsi gradualmente a noi, acciocché ci sentissimo da lui
braccati, in trappola.
Queste erano le terrorizzate
convinzioni di mia madre, che speravo di dissipare con questo matrimonio. Del
resto, necessitavo di placare l’inspiegabile ansia che aveva colto anche Sakura
dal giorno del funerale di mio fratello: infatti, il sonno le giungeva con
difficoltà e molto spesso la sorprendevo o a
fissare con timorosa insistenza i ritratti di Itachi relegati in
soffitta oppure ad informarsi su affari di spiritismo, consultando i medesimi
libri dai quali mio fratello a suo tempo ne aveva divorato i contenuti. Mi
sentii quindi in obbligo di consolare la mia fidanzata e soprattutto di
rassicurarla: fintanto che avrebbe seguitato a credere ciecamente a quelle
baggianate, ovvio che ne sarebbe stata negativamente influenzata. Itachi era
morto. Io stesso avevo visto la sua bara venir ricoperta di terra. Non poteva
essere ritornato a perseguitarci. Non poteva, mi ripetevo.
Invece, lui era ritornato
apposta per noi. Per reclamare la sua soddisfazione, per infliggerci quel colpo
tremendo che segnò il vero inizio della decadenza e fine della famiglia Uchiha.
L’ultimo atto ebbe dunque luogo
il giorno del mio matrimonio.
Nonostante le tristi premesse,
Sakura era radiosa, come lo fu durante l’intera preparazione dell’imeneo: gli
addobbi, il rinfresco, gli inviti, la scelta del vestito, etc. tutto avvenne
sotto la sua supervisione e io la lasciai fare senza impicciarmi., contento di
quella sua ritrovata vitalità. Non ebbi da ridire neanche quando lei ordinò da
Iwa la seta per l’abito nuziale. O le perle e i merletti da Kiri. O la frutta
esotica e candita da Suna. Assecondai ogni suo capriccio, purché fosse felice.
Secondo le nostre consolidate
tradizioni aristocratiche, la cerimonia avrebbe avuto luogo nella cappella di
famiglia, seguita poi dall’opulento ricevimento in casa che i nostri servitori
già di primo mattino si stavano adoperando ad imbastire.
Ma, oh caso fortuito!, perché la sposa tardava a venire?
Attesi impaziente all’altare per
una mezzora buona.
Cos’era quel ritardo?
Perché Sakura non faceva la sua
comparsa?
Ansioso, scoccai una rapida
occhiata a mia madre, la quale ricambiò altrettanto apprensiva, se non proprio
in apnea da una sua intima – ma intuibile – inquietudine.
Perplessi e fastidiosi mormorii
incominciarono a diffondersi nella cappella e per un breve istante fui colto da
un lieve moto di stizza: ma come! Sakura aveva tanto insistito per il
matrimonio e poi si tirava all’ultimo indietro? Non aveva mica avuto dei
ripensamenti, vero?
Decisi dunque di rientrare a
Villa Nakano. Forse, aveva avuto un malore.
Oh Signore, cos’era quell’urlo atroce?
Lo udii appena varcai la soglia
di casa, quell’urlo atroce, disumano, come quello dell’indagato straziato dai
ferri dell’inquisizione.
Dolore, sorpresa, impotenza,
paura folle riconobbi nella voce innaturalmente acuta di Sakura, spronandomi a
correre al piano superiore, sperando di non giungere troppo tardi.
Eppure, non senza celare un
certo rossore nelle mie gote mentre scrivo questa confessione, ammetto che ebbi
un attimo di esitazione prima di aprire la porta della camera della mia
promessa.
Specie quando avvertii
dell’acqua bagnarmi le scarpe, la quale fluiva sornionamente placida attraverso
le fessure della porta, espandendosi in un’anomala pozza.
D’acqua salata.
“Che bello!Mi avete preparato una festa nuziale!”
Mi parve di entrare in un mondo
surreale, grottesco, là dove le leggi su cui basiamo la nostra razionalità,
salda garanzia del nostro intelletto e salute mentale, si capovolgevano impazzite.
Il vivente e il morto si
tenevano a braccetto secondo la più assurda delle dances macabres.
Seminascosto nella penombra
stava ritto in piedi Itachi, quell’Itachi che avevo seppellito sei anni
addietro.
“Ve ne ringrazio, ma alas, questo anello non va bene!”
Sembrava non accorgersi di me,
mantenendo invece lo sguardo dritto alla finestra.
Parlottava, le labbra vermiglie
piegate in un burlesco e inquietante ghigno ferino.
Come dei rari e vellutati petali di rosa, macchie rosse di
sangue imbrattavano il virginale abito bianco.
Della Sposa Mancata …
Improvvisamente, egli si voltò e
il cuore smise di battermi in petto: l’inconfondibile volto di mio fratello non
dimostrava nulla di umano nel suo ultraterreno pallore, perdendo quell’aura di
mesta sofferenza che gli avevo visto alla veglia del funerale. I capelli
avevano riottenuto il loro naturale color carbone ed erano nascosti dal pesante
velo ricamato, da quel sudario in cui lo avevano avvolto. Bianco, tanto da
competere con la sua pelle, si presentava anche l’abito funebre con cui era
stato seppellito, rendendo impossibile ogni abbaglio.
Era lui.
Itachi.
Mio fratello, ancora ventunenne,
incorrotto sia dai vermi che dal tempo impietoso.
Mio fratello, dagli occhi rosso
sangue e dalle mani sporche del medesimo colore.
Mio fratello, un demone venuto
direttamente dall’inferno che mi sorrideva beffardo, scoprendo in quel ghigno
malizioso i suoi denti candidissimi.
Mai in tutta la mia esistenza
provai un simile terrore e non solo per me, per quella vita che Itachi già
stringeva nel suo pugno castigatore, bensì per le sorti della mia stessa anima.
“Chi sei?”, osai balbettare.
Un risolino maligno. “Stupido
fratello. Perché chiedi cose di cui già conosci la risposta?”
“Tu … tu sei morto!”,
boccheggiai spaventato.
“Corretto.”
“Sei … sei dunque … un …
fantasma?” Domanda assurda la mia; nondimeno, avevo sempre creduto che i
fantasmi appartenessero all’indefinito ed ermetico mondo della notte, non alla
chiara e benefica luce del sole!
“Io sono ciò che voi avete
voluto che diventassi”, si presentò sardonicamente ieratico Itachi, abbozzando
ad un lieve inchino e rivelando così una sinistra macchia rossa sul candore
dell’abito. Inoltre, solo allora mi accorsi come lo strascico del velo-sudario
fosse stranamente rigonfio ai suoi piedi, neanche avesse dovuto nascondere
qualcosa …
“Sei qui … sei qui per
uccidermi, Itachi? Per vendicarti su di me?”
Mio fratello reclinò falsamente
sorpreso il capo. “Oh no, Sasuke! Sono venuto fin quassù per festeggiare le mie
nozze. Non posso tollerare che la mia povera Mayra sia additata come una
bastarda, né voglio rimanere separato un minuto di più da Kisame. L’unico
problema, caro il mio fratellino, è che al momento mi trovo sfornito del mio
anello. E anulare. Temo di aver perduto la mia protesi di legno in mare, che
sciocco! Poco male, credo di aver trovato un degno sostituto …”, sospirò,
afferrando con quelle mani lerce di sangue un lembo del velo-sudario e lo
scostò teatralmente, rivelando il bozzo da me previamente notato.
… e dell’altra fanciulla.
Potrò mai trovare le parole per
descrivere l’orrore nascostovi?
“Sakura! Dio Santissimo, Sakura!
No!”, ruggii, scattando al suo fianco e afferrandola forte per le spalle.
“Sakura, per l’amor di Dio, rispondimi! Apri gli occhi!”
Dietro la Sposa Mancata, la promessa giaceva svenuta in una
pozza di sangue vermiglio.
“Non ti preoccupare per lei,
Sasuke: non è morta, soltanto in deliquio. Certo, se non intervieni subito
quell’emorragia potrebbe terminare il mio operato incompleto …”
Stordito, guardai con orrore il
copioso rivolo scarlatto che imbrattava il latteo abito nuziale. Ne cercai in
pieno affanno la sorgente, impallidendo fino al cadaverico non appena i miei
occhi dilatati dalla paura s’imbatterono nell’anulare sinistro amputato. Un
déjà vu che mi portò a tremare neanche avessi contratto la temibile febbre gialla.
“Come hai potuto, Itachi? Perché
lei? Perché i nostri parenti? Perché l’hai fatto?”
Una fredda e sardonica risata fu
la sua unica risposta.
Mi voltai verso di lui per
affrontarlo, trovando invece alle mie spalle il vuoto e l’eco di quel riso
demoniaco.
Fuori di me dalla collera,
seguii quella traccia, non senza aver prima fermato con la mia cravatta
l’emorragia di Sakura.
Un secondo atroce urlo, che
riconobbi appartenere a mia madre, mi rivelò la nuova ubicazione di Itachi.
Ben presto, si aggiunsero quello
dei domestici e degli ospiti che, incuriositi dalla mia lunga assenza, mi
avevano raggiunto alla villa.
“Permettetemi di
invitare un po’ di amici miei …”
In un infernale valzer suonato
da un’altrettanto demoniaca orchestra, si dilettavano i componenti della mia
famiglia e molti altri spettri, i quali negarono il dono della vita per darsi
volontariamente la morte. Epoche e abiti diversi, tutti lì riuniti in un
grottesco teatrino da sberleffo, occupando arroganti e cafoni il salone.
Mangiavano, bevevano,
imbrattavano ogni cosa.
E ballavano.
Incessantemente.
Insultando e deridendo le anime
piangenti dei suicidi all’interno del mio clan.
“Chapeau! Chapeau, Itachi mon
cher!”, batté le mani in approvazione un uomo molto alto dal palco per i
musicisti. Vestiva di nero, creando un fiero contrasto coi lunghi capelli
biondo platino. Le iridi dorate simili alle aquile rifulgevano di un
inestinguibile fuoco torturatore. “Che festa! Che divertimento! Hai fatto bene
ad invitarmi, laggiù alla fin fine ci si annoia dopo un po’!”, giubilò
quell’orrida creatura dal volto d’uom giusto (volendo citare Dante).
Mio fratello, che ritrovai in
centro alla sala, abbozzò ad un soddisfatto inchino, sogghignando anch’egli
ricolmo della medesima ripugnante perfidia.
E all’ennesimo latrato di
quell’essere, l’arancione delle candele si tramutò in un nero bestemmia,
proiettando iridescenti e vorticose ombre sulle pareti.
Gli specchi si frantumarono in
un unico sincronizzato fragore.
Gli spettri si presero per mani
e si esibirono in un folle girotondo, circondando i miei parenti sopravvissuti.
“Voi siete i prossimi! Voi siete
i prossimi!”, cantilenavano con false voci di bambini innocenti.
Gli ospiti, terrorizzati,
scapparono via urlando, sia dalla porta che dalla finestra, nel frattempo che i
fantasmi li salutavano con pernacchie e gesti osceni.
I domestici non tardarono ad
imitare gli invitati.
Fu troppo per me. Il buio
avvolse i miei occhi e caddi per terra, pregando Dio di avere pietà di me,
poiché il grande nemico era entrato nella mia casa e io ormai ero il suo
prigioniero.
“Tutti, adesso,
danzerete per il matrimonio che mi negaste! In eterno!”
Da quel momento in poi
sperimentai l’amaro gusto della follia.
Lo sconforto atroce derivato
dall’impotenza e dall’ineluttabilità delle mie sorti mi perforava la gola di
spilli forgiati da urla nate morte: la paranoia d’essere costantemente sorvegliato
dagli occhi instancabili di Itachi mi spronava a scaraventare ogni oggetto e
mobilio, a distruggere qualsiasi cosa reperita dalle mie mani, ad accendere
forsennatamente le luci, tutto pur di reperire la forma tremendamente corporea
e al contempo inumana di mio fratello, il cui opprimente silenzio tradiva la
sua presenza, invece di negarla.
I miei isterici richiami –
volevo sapere! Volevo sapere! – si mescolavano giorno e notte alle grida
dolenti di Sakura (i suoi genitori morirono di crepacuore un mese dopo
l’amputazione), alle suppliche di perdono di mia madre.
“Non ho ucciso io tua figlia!
Non ho ucciso io tua figlia!”, ripeté ella fino alla morte, ovvero quando si
tagliò le vene nella fontana dinanzi a Villa Nakano. Era il 1866. Quattro anni
dopo, mi ritrovai l’ultimo esponente del ramo sia diretto sia cadetto sia in
via femminile degli Uchiha. Itachi non aveva risparmiato nessuno; perfino le
mie cugine e i loro discendenti erano stati sistematicamente condotti al
suicidio, aumentando il suo chaperon infernale e lo spasso di quegli spettri
immondi.
“Itachi! Itachi! Dove sei?
Perché mi hai fatto questo? Qual è il tuo scopo? Avanti, anima dannata! Sono
qui! Ammazzami come gli altri, se ne hai il fegato! Mostrati, demonio!”, mi
sgolavo, vagabondando insonne per le stanze vuote e disordinate, strappandomi i
capelli precocemente incanutitisi e graffiando sulle pareti quella che in
teoria avrebbe dovuto essere la mia ombra, ma dalla cui forma riconoscevo
invece la silhouette di mio fratello.
Avevo sperato in una sua
redenzione nell’ora della sua morte: al contrario, essa altro non era stata che
il mezzo da lui eletto per la sua e nostra perdizione.
“Che vuoi sapere da me?”, si
degnava talvolta Itachi di rispondermi. “In sostanza sono morto. E i morti non
parlano. Ergo, d’ora in avanti starò zitto. Non è questo che avete sempre
voluto?”
Oppure:
“Mi odi così tanto, stupido
fratello, da sfregiare i miei ritratti e a tagliuzzare le mie foto? Ma sì,
odiami pure! Disprezzami! Lascia che mi nutra del bollente fiele del tuo
rancore! Che altro ti resta, altrimenti, in questa tua patetica non-vita?”
O il giorno in cui Sakura,
oramai impazzita, morì, ingoiando il tossico colore giallo dal tubetto di
colori per la pittura da lei in passato tanto amata. Era il 1879.
“Pare che alla fine tu sia
l’ultimo rimasto. Non sei contento, fratellino? Finalmente non dovrai mai più
temere il confronto con chicchessia. Sei unico. Sei caduco. Sei il mio
protetto. Ti controllerò, Sasuke. Per sempre! E non solo te, ma anche tutti
coloro che possederanno questa villa maledetta!”
Ringhiando frustrato, serravo i
pugni fino a conficcarmi le unghie nei teneri palmi.
“Ed è per questo che mi
ucciderai per ultimo?”, gridavo al nulla. “Per farmi soffrire? O perché non ho
nulla a che fare con la morte di tua figlia?” e ridevo isterico, poiché alla
sola menzione di Mayra, Itachi taceva, rintanandosi tristemente offeso nelle
tenebre.
Gli anni trascorrevano,
deturpandomi tra la pazzia e la solitudine: Villa Nakano decadeva, il nome
onorato degli Uchiha veniva poco a poco dimenticato e il vandalismo dei tempi
che cambiavano s’accanì ulteriormente su di me e sulla mia casa. Più volte
venni assalito in strada, insultato e commiserato dalla gente superstiziosa e
ignorante. Schifato e ostracizzato dalle altre famiglie nobili. Oggetto di
invettiva dei pamphlet e feuilleton, che mi descrivevano come un orco, uno
stregone, un babau. Del resto, era l’unica malagrazia che potevano farmi: nella
sua crudeltà, Itachi mi proteggeva a suo modo. Tanto era il terrore che anno
dopo anno stava creando nell’animo dei konohagariani, che a nessuno reggeva
abbastanza il cuore da avventurarsi a Villa Nakano. Molto spesso avevo,
infatti, sperato di essere ucciso da un avido e spaventato ladro o linciato
dalla folla credulona. Niente di ciò. Sarei dovuto morire di mia stessa mano,
quando stava tutto nel capriccio di mio fratello. In nulla trovavo conforto, né
nella religione né nella lettura.
Ma ecco, che allo scoccare dei
miei quarant’anni una malsana idea mi balenò in testa.
Ripresi in mano le lettere di
Haku, di Mei e di mio fratello e le rilessi attentamente, sviscerandone i
contenuti alla disperata ricerca di un qualsivoglia indizio per confermare una
teoria, che da anni tormentava i miei pensieri.
Era forse possibile, che mia
nipote Mayra non fosse morta, come invece s’era creduto per questi lunghi ventiquattro
anni? Cosa volevo, però, dimostrare, nel caso l’avessi ritrovata? Che speravo
di ottenere?
Per vendicarmi di Itachi tramite
lei, affermò la mia lingua.
Per fare ammenda, replicò il mio
cuore.
Forte di questa mia convinzione,
mi recai dunque alla volta di Kiri per incominciare quella che io intuivo
essere una lunga e spossante ricerca, ma poco m’importava, visto che …
Naruto
strabuzzò gli occhi, confuso: la frase che iniziava dalla pagina accanto non
completava quella a lei precedente. Inoltre, passando il polpastrello all’attaccatura
delle pagine, notò una compatta linea di rimasugli di carta che assottigliavano
di parecchio il quadernetto.
Delle
pagine erano state strappate. Ma da chi? E perché proprio in quel punto, dove
si sarebbe sciolto l’ultimo enigma concernente la Sposa Mancata? Qual era stata
la fine di Mayra? Uchiha Sasuke aveva ritrovato alla fine la nipote scomparsa?
Strano, giacché tutti sostenevano fosse morta, soltanto il fantasma della
“madre” ne rivendicava la sua esistenza su questa valle di lacrime! Eppure, da
quelle poche righe, lo zio stesso ne pareva ora anch’egli mortalmente convinto:
la bambina, o giovane donna se considerate le date, era sopravvissuta al
complotto del suo clan. E come?
Eppure,
neanche questo twist d’eventi pareva illuminare i mille punti oscuri di quella
triste vicenda: mettendo caso che Sasuke avesse ritrovato Mayra, che cosa
poteva mai essere accaduto tra di loro? Di certo egli non l’aveva mai
reintegrata nella famiglia, visto che tutti a Konoha affermavano convinti che
Sasuke fosse senz’ombra di dubbio l’ultimo Uchiha rimasto su qualsiasi ramo,
principale o cadetto o in linea femminile. La Sposa aveva fatto bene i suoi
compiti per casa.
Ovviamente,
sussisteva anche l’ipotesi che Sasuke non avesse mai incontrato la nipote. In
tal caso, però, a che pro strappare le pagine concernenti questa ricerca?
Sfogliando
e risfogliando frustrato il quadernetto menomato, Naruto si accorse che soltanto
una pagina si era tuttavia salvata da quell’incomprensibile e vandalica censura:
l’ultima, la conclusione di quell’amaro caso o l’inizio di una catena di
sciagure …
L’ora è giunta.
Manca poco alla consolazione
della luce diurna, quella dolce luce che i miei occhi vecchi e stanchi non
contempleranno mai più. Prenderò su di me l’oscurità assoluta e tremenda che
precede l’alba ed espierò fino in fondo la mia condanna.
Giusto l’altroieri ho venduto
Villa Nakano all’industriale Yamanaka Inoichi. Non ho provato rimpianti: quella
che fin dalla mia nascita avevo onorato come orgoglioso simbolo della famiglia
Uchiha, adesso, nell’ora della mia morte, la disprezzo e la temo per il nido di
vespe qual è in realtà.
A chiunque leggerà queste
infelici memorie, questa vergognosa confessione, chiedo di pregare per l’anima
mia peccatrice e quella di mio fratello, auspicando per entrambi quell’eterno
riposo e la luce perpetua, che dubito ci verranno mai concessi.
Io per primo prego acciocché
l’ira tempestosa di Itachi non estirpi mai le ultime tracce degli Uchiha. E che
i nuovi proprietari di Villa Nakano possano condurre un’esistenza più felice
dei loro predecessori.
L’ora è giunta.
Il Veronal! Il Veronal! Dov’è il
Veronal?
Il veleno uccise Sakura.
Similmente mi ricongiungerò a lei! Ma lui me lo nasconde!
È dunque questo l’ultimo tuo
supplizio, fratello?
Oh, Itachi! Davanti a Dio! [2]
Quando
Naruto chiuse definitivamente il diario di Uchiha Sasuke, suonarono le nove e
mezza del mattino.
Mancavano
due ore alla celebrazione del suo matrimonio con Hinata. Sempre che fosse
ancora viva.
No! Lei
era viva, doveva essere viva!
L’avrebbe
salvata da quell’anima offesa! A qualsiasi costo!
Ora
Naruto ne aveva i mezzi e le conoscenze e finalmente ogni tassello, ogni
informazione di quell’intricato puzzle sembrava avere senso. La Sposa nella sua forma più vulnerabile,
aveva scritto Utatane Koharu nella sua lettera di addio. Ergo, la tomba di
Uchiha Itachi, là dove le sue spoglie mortali riposavano dimenticate e separate
da coloro che aveva amato per ben centocinquataquattro anni.
E
frugando nella borsa a tracolla, il biondo si diresse determinato verso il
piccolo cimitero dell’abbazia.
To be
continued …
***********************************************************************************************
I miei
primi esperimenti con PhotoShop/Paint/Vattelapesca. Spero che l’immagine sia
venuta bene, perché a me ha fatto un po’ d’impressione …
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto! Alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Un vestito di Arlecchino (riferito a
persone) = forma antecedente alla più
recente espressione “Un’armata Brancaleone”, coniata proprio dall’omonimo film.
Siccome Sasuke racconta eventi del XIX secolo e lui è morto nella prima metà
del Novecento, è ovvio che non può utilizzare quest’espressione.
[2]
Rielaborazione della celebre frase di Tosca “Oh Scarpia! Davanti a Dio!” - dal terzo e ultimo atto dell’omonima
opera di Puccini - prima di gettarsi da Castel Sant’Angelo. Da qui si intuirà
che Sasuke ha commesso suicidio gettandosi nel vuoto. E magari con Itachi che
lo controllava da dietro … *risata maligna*
|
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Capitolo 7 *** Agosto 2012 - terza parte: Osud ***
Evvai! Finalmente
riusciamo a pubblicare questo capitolo!
Succede
sempre così, quando si arriva alla fine di una storia!
Infatti, se il prossimo capitolo non verrà
eccessivamente lungo – ovvero se riusciamo a contenerci a meno di 20 pagine –
allora nel prossimo aggiornamento vi sarà sia il finale che l’epilogo. Altrimenti,
dovrete attendere solo un paio di giorni per l’epilogo …
Inoltre,
già da ora vi anticipo che questo finale mi ha fatta impazzire: fintanto che “giocavamo”
coi personaggi, tutto era possibile ma ad un certo punto bisognava pur prendere
una decisione (Happy ending? Bad ending? Open ending?) e per questo ringrazio
moltissimo tutti coloro che mi hanno direttamente o indirettamente consigliata,
in particolare Sagitta che s’è ascoltata mille e più finali per questa storia. Grazie
carissima!
Ovviamente,
siccome questo capitolo è un pieno d’avvenimenti, se non vi è chiaro qualcosa,
chiedetelo pure! Anche un albero genealogico se serve!
Un sentito
ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare a: April88; Lady_Loire e Sagitta72.
Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate
e seguite!
Vi
auguro buona lettura!
H.
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Agosto 2012
A
racconto terminato, Hinata abbassò il capo e si guardò le mani, incredula.
Itachi,
in piedi, l’osservava impassibile. Dietro di lui, dalle grandi finestre del
giardino d’inverno, il cielo incominciava ad oscurarsi, annunciando l’arrivo di
un temporale.
Sarebbe
stato troppo semplice per la mora affermare, che quanto udito corrispondesse al
delirio di un folle, di un esaltato dal macabro senso dell’umorismo. Sarebbe
stato troppo facile. Troppo rassicurante. Ché lo sguardo del giovane dinanzi a
lei non tradiva alcun barlume di burlesco inganno, solo una tremenda serietà,
così in netto contrasto con il danzante giubilo degli spettrali invitati, i
quali, incuranti del mutismo vigente tra i due, seguitavano nel loro
ultraterreno svago.
“Quante
…?”, riuscì Hinata a mormorare, la mente confusa e impacciata dall’asfissiante
tumulto interiore nel suo cuore, a quella tempesta di sentimenti che lentamente
inghiottiva la sua ragione. Tristezza, pietà, indignazione e paura, tanta paura
per quell’inflessibile giudice e carnefice che la fissava stoico, immobile. Nel
loro inquieto girovagare, gli occhi della giovane si erano intanto posati
sull’anulare sinistro mancante dalla flessuosa mano di Itachi, i cui occhi
pece, man mano che le lancette della grande pendola procedevano nella loro
salita e discesa, cangiavano nel cupo scarlatto e l’aria medesima della casa
diveniva irrespirabilmente fredda, come gelida si presentava l’acqua sgorgante
dal pavimento, una mostruosa marea che tutto lambiva e lentamente lo ingollava
avida.
“Quante,
Shu, anzi no, Itachi?”, insistette Hinata, levando infine lo sguardo.
Un
annoiato sbattere di ciglia. “Quante?”, ripeté egli.
Qualcosa di strano avvenne a Villa Nakano …
“Tante”,
le confessò infine Itachi, interrompendo la sua innaturale immobilità per
avvicinarsi ad Hinata, la quale trattenne il fiato, appiattendosi contro lo
schienale del canapè. “Forse troppe”, aggiunse poi il moro, stendendo il
braccio della mano mutilata verso la giovane. “Ho perso il conto”, sussurrò amaro
e gli occhi della mora si spalancarono terrorizzati al freddo luccichio della
lama del coltello ben stretto nell’altra mano del fantasma. Stava forse per
ucciderla?
“Stai
indietro!”, gridò d’istinto Hinata, divincolandosi dalla ferrea presa al suo
polso sinistro; finito ormai quel sentimento di tenera compassione, ingoiato
dagli abissi del terrore antracite. Nella concitazione della lotta, la giovane
reperì freneticamente il primo oggetto a portata di mano, una bajour di
porcellana che scagliò contro al suo assalitore, mirando alla testa.
Ovviamente,
Itachi non diede alcun segno di essere stato in qualche modo danneggiato da
quel colpo, anzi, neppure si degnò di spostarsi, così da evitarlo: il delicato
materiale si frantumò contro la sua persona e Hinata tremò al pensiero di
quanto corporeo potesse presentarsi
quel fantasma, che aveva perfino preso a sanguinare, imbrattando l’abito
bianchissimo di vermigli rivoletti di sangue.
“Vattene
via! Non osare avvicinarti a me!”, ribadì esasperata la mora, approfittando
tuttavia della confusione generata da quell’eclatante quanto inutile gesto per
scivolare via da Itachi e puntargli contro il pugnale sottrattogli. Dio del cielo! Come pesava! E come scottava!
Pareva incandescente! Ma chi era sul serio quell’essere dinanzi a lei?
“Vuoi
ucciderti, Hinata?”, le chiese serissimo Itachi e la giovane per poco rivide il
rassicurante nero in quelle iridi così demoniacamente vermiglie. Fu un attimo,
però. Un momento di debolezza. Di stanchezza infinita. Una sorda richiesta di
aiuto. “Avanti, che aspetti? Fallo! Affonda la lama nella mia gola! Sgozzami!
Non è difficile, sai? Un piccolo gesto e sarà tutto finito!”, ridacchiò
isterico, afferrando ambedue i polsi di Hinata, che urlò a quel freddo
contatto, specie quando la punta del pugnale punse la pelle alabastrina del
moro, strappandogli delle pingue gocce scarlatte. “Allora? Ti decidi? Mi
uccidi? Come mi uccisero loro?”
Scuotendo
il capo, Hinata protestò debolmente fra le lacrime. “Non posso ! … Non sai quel
che dici! … Tu … tu sei morto!”
“Cancella
la mia esistenza, Hinata!”, impresse Itachi maggior forza a quella pericolosa
pressione sulla sua gola.
“No!”
“O mi
elimini o riprendo là dove mi hai poco educatamente interrotto … A te la
scelta!”
Era
l’orrore, era la follia! Perché non s’intravedevano altre soluzioni? Una via
d’uscita che non prevedesse lo spargimento d’ulteriore sangue? Non ne era già
stato versato abbastanza?
“Lasciami,
pazzo!”, urlò, liberandosi con un ultimo disperato strattone dal moro. Il
pugnale, cadendo sul pavimento, zittì i festanti spettri che si voltarono
stupefatti nella loro direzione e avrebbero perfino trattenuto il fiato, se ne
avessero avuto. Solo il fievole scroscio dell’acqua montante attenuava l’infernale
silenzio di tomba creatosi.
Improvvisamente,
i vaghi occhi lattei degli spiriti si tinsero di carbone e la loro evanescenza
assunse dei sinistri riflessi verdastri, mentre delle fiamme nere li avvolsero
completamente, creando macabri chiaroscuri sui loro volti bluastri di cadavere
e sul candore dei denti aguzzi, inumani, da cui faceva capolino una lunga e
viscida lingua viola che sembrava possedere una vita propria, arrivando fin
quasi alla base del loro collo. Ingobbiti, dalle braccia lunghe e nodose, le
unghie affilate e le gambe flesse simili a quelle posteriori di un quadrupede,
essi fissavano ora pieni di malevole aspettativa Hinata, pronti a saltarle
addosso e a divorarla, come suggeriva la bava colante dalle bocche ansimanti di
taluni. Ogni traccia d’umanità svanita in loro, solo un vago aspetto
antropomorfo rimaneva e questo spaventava doppiamente la giovane, sopraffatta
dalla malizia e dalla ferocia emanata da quelle bestie immonde. Dunque, in
questo si erano tramutati gli Uchiha? E le vittime di Itachi? In mostri
abbietti?
E
sarebbe anche lei divenuta una di loro?
No!, si ribellò la sua mente,
scattando in avanti e, fronteggiando il terrore paralizzante, corse alla prima
porta vicina, puntando al portone d’ingresso, ad una finestra, a una qualsiasi
via d’uscita da quella villa maledetta!
“Non
risolverai nulla con la fuga, Hinata!”, udiva ella la voce di Itachi
riecheggiare per i corridoi, la cui luce si spegneva al suo forsennato passaggio.
“Nulla!”
Eccola!
La porta! La porta!
Che si
chiuse da sola in un unico sordo tonfo, resistendo ai vani tentativi di Hinata
di riaprirla.
“Nessuno
sfugge alla maledizione di Villa Nakano …!”
Provò a
forzare le uscite sul retro, inutile! Parevano sigillate!
“… Né
alla Sposa Mancata!”
Uno ad
uno gli scuri delle ampie finestre si serrarono anch’essi sbattendo
fragorosamente, sbarrando alla mora ogni via di fuga e facendo piombare
progressivamente la casa nell’oscurità totale. L’acqua marina prese a sgorgare
dai quadri, dal soffitto, rendendole la corsa doppiamente difficile ed
estenuante, in particolare quando Hinata tentò di salire le scale, tramutatesi
in scivolosi torrenti di montagna.
“E
questa volta, vengo per te, Hinata!”
La
giovane, rifugiatasi nell’ultima camera trovata aperta, chiuse violentemente la
porta e si lasciò scivolare sfinita sul pregiato legno, le gambe che le tremavano
e il cuore in affanno. Era in trappola, non ci impiegò molto per realizzarlo:
Villa Nakano l’aveva isolata dal mondo, impedendo un qualsiasi aiuto esterno,
neanche obbedisse ciecamente agli ordini di quell’anima infuriata.
“Naruto
… dove … sei …?”, ansimò Hinata, reprimendo un doloroso singhiozzo e
appoggiando sgomenta la fronte sulle ginocchia. “Dove sei?”
“Già,
chissà dov’è …”
Hinata
alzò il capo, annientata dalla paura. Aveva udito bene? Chi aveva parlato?
L’aveva già raggiunta? No! No! Non poteva essere!
Silenzio.
Tranne
che per l’ululare del vento e i tuoni lontani del temporale che s’avvicinava.
Silenzio.
Gli
occhi di Hinata vagarono forsennatamente a destra e a manca, cercando di
adattarsi quanto prima alla semioscurità e di scoprire cosa vi si nascondesse.
Silenzio.
Forse
si era sbagliata. No, doveva certamente essersi sbagliata. Non c’era nessuno in
quella stanza.
Nessuno.
Solo
lei e il silenzio.
Gnik-gnik,
gnik-gnak …
La
bocca della giovane si deformò in un’esasperata smorfia di impotenza e
frustrazione.
…
gnik-gnik, gnik-gnak …
Perché?
Perché a lei? Che aveva fatto di male per meritarsi questo?
…
gnik-gnik, gnik-gnak …
Dal
buio risuonò un risolino crudelmente compiaciuto.
“Come!
Già finito di scappare?”
Il
bagliore d’un lampo rivelò improvvisamente dai vetri senza scuri la siluette
dei mobili di quella camera ad Hinata tristemente nota.
Un
secondo, ancora più accecante, definì la cupa sagoma della sedia a dondolo
davanti alla finestra.
“Au clair
de la lune / Mon ami Pierrot / Prête-moi ta plume / Pour écrire un mot / Ma
chandelle est morte / Je n’ai plus de feu / Ouvre-moi ta porte / Pour l’amour
de Dieu …” [1]
E con
essa la figura del suo proprietario, di cui Hinata vide solamente gli occhi
vermigli e il candore di un sorriso nefasto.
… una ad una tutte le
promesse spose che vi abitarono …
Procedendo
verso il camposanto dell’Abbazia dei Santi Erasmo e Barbara, Naruto convenne
che non aveva mai visto un simile spettacolo: il cielo si era oscurato di un
denso grigio fumo, eppure la luce del sole lo accecava neanche fosse giunto il
meriggio. Grassi e neri cirri battaglieri galoppavano dall’estremo orizzonte
dell’inquieto mare color del vino, annunciando la loro prossima venuta tramite l’impietoso
flagellare dell’umida aria salmastra. Se fosse stato inverno, l’avrebbero
chiamata bora scura per i suoi refoli freddi e discontinui, violenti.
Il
giovane commissario si strinse la giacca, rimpiangendo di non potersi riparare
di più; in aggiunta, ricordi dolorosi collegati alla dirompente forza del mare
gli appesantivano il cuore, acutizzando la compassionevole comprensione che
provava nei confronti della Sposa Mancata. Rimembranze dei felici giorni
dell’infanzia distrutti da un orribile incidente, che lo aveva strappato dal
tenero abbraccio paterno. La madre, per sua fortuna, all’epoca già aveva
raggiunto la casa dell’Ade per via di un balordo, investita e soccorsa troppo
tardi. Se ne lavarono le mani. Non fu fatta alcuna giustizia. E suo padre
affondato assieme alla nave, secondo la più antica tradizione della marina, la
sua memoria infangata con pazzesche accuse d’irresponsabilità: meglio un
onorevole suicidio, che subire l’umiliazione del processo. Invece, Naruto
sapeva che suo padre era stata l’ennesima vittima di un infame giro di
raccomandazioni, l’ombra oscura del tanto virtuoso quanto ipocrita stato
federato di Hi. Infatti, non egli non fu l’unico ad annegare in quel triste
giorno.
Sì,
decisamente Naruto comprendeva il dolore di perdere delle persone amate col
cuore, la mente e l’anima. Specie, se il loro trapasso appariva
inspiegabilmente assurdo e inatteso.
La meta
finale del biondo, il piccolo cimitero, si trovava su di una posizione
leggermente rialzata rispetto all’isolotto naturale, su cui sorgeva l’abbazia,
e il muretto di marmo addolciva infatti la scogliera, nascondendo il notevole
salto che separava la terra dall’acqua gorgogliante. E malgrado ciò, gli
schiumosi schizzi provenienti dalle onde infrante riuscirono lo stesso a
bagnare Naruto, che si chiedeva quale mostro divoratore doveva essere stato il
mare di Kiri durante una vera e propria tempesta. L’Apocalisse, ne dedusse,
scansandosi onde evitare l’ennesimo spruzzo.
Curioso,
però: più lui si allontanava e più il mare ruggiva frustrato, neanche si fosse
prefissato di ghermirlo e trascinarlo via con sé …
“Cacchiate!”,
scosse Naruto il capo energicamente. “Il mare non possiede alcuna volontà! È
solo … solo …” e qui s’interruppe, appoggiando sfinito la fronte sul cancello
di ferro imbiancato dalla salsedine e sospirando penosamente. “A chiunque mi
possa ascoltare, ti supplico! Dammi la forza … dammi la forza di affrontarlo
…”, mormorò prostrato, intimidito dall’aria soffocante del cimitero, così
densa, irrespirabile, carica di odio e tristezza. Come ci si poteva augurare
l’eterno riposo in un ambiente sì pregno di disperazione? Dov’era la
consolazione della luce eterna?
“Aiutami”,
s’infuse coraggio il biondo, spingendo l’inferriata e inoltrandosi all’interno
del camposanto, una marcia palude di lapidi scheggiate e sbilenche, di erba
alta e vasi di fiori ridotti in cocci. Delle sabbiose pozze di fango tesero
numerosi agguati alle scarpe del giovane commissario, imbrattandolo fino al
ginocchio. Forse, pensò Naruto, si trattava del vecchio cimitero, poiché non
appariva molto capiente. E tuttavia, perché quell’incuria? Accidenti, sembrava
abbandonato da secoli!
E
soprattutto, dove s’era cacciata la madre superiora? Non aveva detto, che
l’avrebbe atteso alla tomba di Uchiha Itachi?
Infatti,
dopo un infruttuoso gironzolare per i vialetti semi-cancellati dall’erba e dal
limo, Naruto era infine giunto al crocevia principale di quel triste luogo,
ritrovando, similmente alle indicazioni lasciate da Sasuke, l’imponente Croce
di pietra, mezza sfigurata dalle intemperie e dall’arancione della caloplaca
marina e che si stagliava nel cielo misticamente ieratica. Sotto di essa,
appoggiata significativamente, lo aspettava un badile.
Ma
dov’era la suora?
“Bene,
un messaggio più chiaro di così non poteva lasciarmelo …”, cogitò il biondo ad
alta voce, afferrando energico il manico della vanga e, segnandosi velocemente,
prese a scavare proprio sotto alla Croce, in particolare davanti alla scritta
mezza cancellata sul dado del piedistallo: Chi
non conosce il vero dolore, non pianga mai su questa tomba.
Il
colmo! Il colmo! Adesso andava pure a profanare le tombe!
E dove
diavolo era finita la badessa?
… il giorno del loro matrimonio, chissà come …
“Come!
Già finito di scappare?”
La
sedia a dondolo non aveva neppure fatto in tempo a smettere di scricchiolare,
che Hinata, trattenendo il fiato e mordendosi il labbro inferiore pur di non
urlare, si girò verso la porta dove s’era appoggiata, pronta a riprendere la
fuga.
“E’
maleducazione non rispondere ad una domanda, lo sai, Hinata cara?”, l’apostrofò
zuccheroso Itachi, sbarrandole la strada dall’agognata maniglia. Scoccando
un’ansiosa occhiata dietro di sé, la giovane appurò spaventata come la sedia a
dondolo stesse ancora oscillando avanti e indietro e tuttavia priva del suo
proprietario, il quale la incalzava ad indietreggiare, gli occhi scarlatti
luccicanti di insana delizia. “Ripeto: hai già finito di scappare?”,
insistette, braccando la mora finché questa non sbatté contro la sedia,
atterrandoci sopra e ipnotizzata dallo sguardo di lui.
“Ti
prego … ti scongiuro … lasciami andare … devo … ritornare a casa …”
Itachi
reclinò il capo corvino da un lato, fissandola con la medesima meraviglia di un
bimbo allo zoo. “Ritornare, Hinata cara? Non c’è nessun ritornare, Hinata cara. I miei ospiti non tollerano chi se ne va via
all’inglese …”, cinguettò, socchiudendo gli occhi in un sorriso maliziosamente
innocente.
E in
quell’istante, innumerevoli mani sbucarono dal pavimento, dai braccioli della
sedia, dallo schienale stesso, ghermendo Hinata coi loro lerci e lunghi artigli
per le caviglie, per i polsi, per la vita, impedendole in questo modo di
alzarsi e fuggire via, così come suggerito dai continui e involontari spasmi
del suo corpo.
Se
avesse avuto le coronarie più deboli, sicuramente la mora sarebbe schiattata al
mero contatto di quella carne putrescente, ustionante nella sua freddezza.
Se
avesse avuto uno spirito più forte, forse non avrebbe versato l’unica lacrima
che le rigò la guancia smunta dal sonno e dal terrore.
Eppure,
stranamente, fu proprio quel rivoletto salato a mitigare il folle compiacimento
di Itachi, il quale le si parò dinnanzi, scrutandola ossessivamente attento
dritto negli occhi. “Hai paura di me, Hinata? Anche dopo averti raccontato la
mia patetica vita? Nutri ancora pietà verso la mia immorale famiglia? Mi lasci
perplesso, poiché speravo in un po’ di comprensione da parte tua! Non ti chiedo
poi molto, solo il tuo anulare e il tuo anello di fidanzamento! Non potresti
essere un poco generosa e accordarmi questa richiesta?” e man mano che le
domande s’incatenavano l’una con l’altra, il suo tono di voce s’induriva in
un’escalation di stridente ghiaccio.
Richiamando
a sé quella misera percentuale di coraggio rimastale, Hinata boccheggiò
impaurita: “Come … come hai potuto uccidere … così … della gente innocente?
Come hai potuto macchiarti del sangue di persone che … che non c’entravano
nulla?”
Un’infastidita
ruga attraversò la fronte crucciatamente aggrottata di Itachi che, sospirando,
replicò alquanto snervato dalla testardaggine della Hyuuga: “Gente innocente, dici? Non credo”,
scosse il capo, nel frattempo che si portava dietro ad Hinata, appoggiandole le
mani sulle spalle. Alla vista del dito monco, la mora sussultò violentemente e
solo la salda presa di Itachi la tenne ferma al suo posto. Viscide anguille
d’acqua salata colarono sul petto della giovane, acqua proveniente dai medesimi
arti del fantasma, implacabili e umide catene.
“Ti
confesserò un ulteriore segreto, Hinata cara. Io ho maledetto questa casa. Ed essa, docile alla mia ira, richiama
a sé tutti coloro che – direttamente o indirettamente – hanno avuto a che fare
con la mia spregevole famiglia. Capito? È stata Villa Nakano ad avervi condotti
qui … chiamalo karma, destino, maledizione … Ma, uno ad uno, mi ha riportato
tutti gli Uchiha che mi sono sfuggiti nel corso degli anni …”
“Cosa?
… Gli Uchiha? … Io … io non ne so niente della tua famiglia! Inoltre, essa si è
estinta per mano tua novantatre anni fa! In che modo mi sarei mai relazionata
con essa?”
Una
risatina gutturale martoriò i nervi già tesi della giovane. “Tut, tut, Hinata
cara, non pecchiamo di superbia. Chi ti dice che mi stessi riferendo a te?”
… persero, oh sventura!, il loro anulare sinistro …
Merda!
Merda! Merda!
E
ancora merda, dattebayo!
A
Naruto parve che il mondo fosse crollato addosso mentre la vanga gli cadeva per
terra, avendo le sue mani mollato scoraggiate la presa sul ruvido manico.
Tutto
si sarebbe aspettato, dopo aver trascorso un’infinità di tempo a mangiare terra
e a spaccarsi la schiena, ma non l’atroce spettacolo paratogli innanzi.
La bara
era vuota.
Vuota.
L’aveva
scoperchiata pieno di disgusto e speranza, pronto a chiudere in maniera
definitiva quell’infernale cerchio d’odio e tristezza che aveva mietuto vittime
da centocinquantaquattro anni.
E
invece il niente. La disfatta.
La
tomba di Uchiha Itachi era già stata profanata e il suo corpo, chissà,
trafugato e magari distrutto da un manipolo di disperati superstiziosi o una
ripicca da parte dei parenti delle sue vittime.
Digrignando
i denti, frustrato e abbattuto, Naruto diede d’istinto un sacrilego calcio alla
bara estratta, spaccandone il legno marcio per poi lasciarsi cadere a terra, le
mani sporche artigliate alla capigliatura bionda.
Aveva
fallito.
Aveva
fallito.
Non
sussisteva più alcuna soluzione onde fermare il fantasma della Sposa Mancata.
Non …
Un
piccolo sacchetto di velluto blu scuro attirò l’attenzione del giovane
commissario, il quale si stupì di non averlo notato prima, forse sopraffatto
dalla delusione derivata dalla salma scomparsa. In ogni modo, l’afferrò
prontamente, sciogliendo il nodo e frugando dentro essa, la sua curiosità a
mille non appena realizzò di essersi imbattuto in una piccola collezione di
fotografie. Sotto di esse, le pagine del diario di Uchiha Sasuke, i segni
dentati dello strappo ben visibili.
L’ultimo
tassello.
Com’erano
finite lì? Chi le aveva messe? Lo stesso che aveva trafugato il cadavere … di
…?
La
riconobbe.
O
meglio, riconobbe Itachi in lei, sebbene in una versione più femminile, più
sorridente, libera e padrona della sua esistenza.
Mayra, la figlia perduta, che tutti
avevano dato per morta e che invece s’era salvata dalla furia ipocrita e
perbenista della sua casata.
Naruto
non seppe trattenere un ghigno complice mentre scorreva le foto, eclatante
testimonianza della forza della vita contro la morte dello spirito, soffocato
da una moralità abietta. La vide, oh sì,
la vide circondata dai numerosi fratelli e sorelle della sua famiglia adottiva;
la vide vestita di bianco alla prima comunione; la vide raggiante il giorno
delle sue nozze, in posa accanto all’uomo che amava; la vide attorniata dai suoi
figli e nipoti e la vide dolente e di essi privata, quando quel sanguinoso
conflitto e la spagnola mieterono migliaia e migliaia di vite.
Ciò che
però colpì Naruto con la potenza di un pugno furono le foto più vicine alla sua
epoca, sulle quali comparivano volti a lui sinistramente noti.
L’ultima
poi, lo spiazzò completamente: lei, Mayra, ormai centenaria e vestita dell’abito
monacale, stringeva con la sua piccola e fragile mano avvizzita quella più
paffuta e forte del suo pro-pronipote.
Un
bambino che Naruto non aveva alcuna difficoltà a identificare, giacché i suoi
lineamenti li poteva in parte scorgere ogni volta che si mirava allo specchio.
… e il loro anello di fidanzamento!
“…
Naruto? Ma perché? Che torto ti ha mai fatto?
Ti ha infastidito l’acquisto di questa villa da parte sua? Come gli
altri prima di lui?”, inquisì incredula Hinata, sconcertata dalle insinuazioni
di Itachi: a sentir lui, ogni loro disgrazia era stata accuratamente preparata
da … secoli? … Dunque … il trasferimento del fidanzato da Uzushio a Konoha … il
prezzo irrisorio della proprietà … faceva tutto parte di una secolare vendetta?
“Gli
altri … Naruto … tutti avevano – hanno! – un debito da scontare nei miei
confronti ...”, la voce del moro si era trasformata in un minaccioso sibilo,
talmente flebile da confondersi col vento impetuoso e l’incessante picchiettare
della pioggia contro i fragili vetri. “Il tempo passa, Hinata cara, le persone
invecchiano, talune nascono ed altre muoiono. Generano figli che ne avranno
altri. Si allontanano dalle loro radici,
talvolta le recidono, ma … ma è difficile annientare gli antichi legami di
sangue, per quanto mischiatisi e annacquatisi, giacché essi si dimostrano più
vincolanti di mille catene di ferro.
E così
succede che Villa Nakano, pregna del sangue della mia famiglia, richiama coloro
che speravano con la fuga di sottrarsi alla loro giusta punizione o …” e qui il
sorriso di Itachi s’allargò d’isterico giubilo “… o che mi furono abilmente
celati da mio fratello. L’ultimo tradimento di Sasuke. Egli ha ritrovato mia
figlia, ma, in un attimo di mia distrazione, ha distrutto ogni traccia della
sua scoperta nella speranza che un ramo della nostra stirpe maledetta si
salvasse! Che si salvassero gli ultimi portatori del germe maligno che ci ha
tutti ammorbati, portandoci al vicendevole scannamento!
Loro
m’impedirono in vita di sposarmi, di vivere da persona onesta. Ebbene, per
sopprimere questa pula indegna, ho riservato, generazione dopo generazione, la
medesima sorte a tutti coloro che hanno abitato a Villa Nakano, nella casa dei
loro antenati!”
“Com’è
possibile?”, obiettò energica Hinata, strattonandosi per l’ennesima volta da
quei ceppi di carne e acqua. “Nessuno di coloro che hanno comprato la villa era
imparentato con te, né portava il nome Uchiha!”
Roteando
gli occhi, Itachi sbuffò. “Allora sei proprio densa, Hinata cara. Ti ricordo,
che alla mia piccola Mayra non venne mai
dato il mio cognome né tantomeno quello di Kisame. Assunse quello della sua
famiglia adottiva …”
Chi sarà mai stato?
“… fu
tutta colpa della balia, quell’Ameyuri. Se non ci avesse traditi, nulla di
tutto questo sarebbe mai accaduto.”
Naruto
sussultò violentemente, perdendo per poco le foto che teneva in mano, in
particolare l’ultima che tanto lo aveva colpito. Voltandosi bruscamente,
s’imbatté nella madre superiora. Un’aura di oscuro rancore pareva circondarla,
un astio che fece rizzare i capelli sulla nuca del giovane commissario.
“A-Ameyuri
…?”, ripeté confuso il biondo, indietreggiando di qualche passo di sicurezza.
“Che c’entra ora la balia? Perché vi avrebbe dovuto tradire? Lei è vissuta un secolo e mezzo fa, non ha a nulla a che
vedere con voi!”
A meno
che …
Gli
occhi della religiosa rifulsero di un sinistro bagliore vermiglio. “Oh sì,
povero sciocco, ha tutto a che vedere
con noi! Infatti, se avesse eseguito l’ordine della marchesa Uchiha Mikoto e se avesse somministrato il veleno a quello
scherzo della natura, allora niente di tutto questo sarebbe accaduto! Invece,
presentandoci il cadavere del suo figlioletto morto in fasce al posto di quella
pulce bastarda, Ameyuri ci fece credere di aver portato a termine il suo
compito! E quando indagammo, poiché rosi
dal dubbio, ormai la troia era fuggita con la bambina a Kumo, sposandosi e
mettendo su una nuova famiglia!”
“… la balia Ameyuri, che mi sorpresi dal modo
estremamente possessivo e sospettoso con cui stringeva al seno il figlioletto …”,
rimembrò Naruto quel passaggio dal diario, spalancando la bocca ed emettendo
un’esclamazione di pura indignazione. “Voi … eravate i loro complici … come
avete potuto, dattebayo? Come avete potuto ospitare Itachi e al contempo
progettare l’uccisione della figlia alle sue spalle? Non avete decenza? Non
avete timore di Dio?”
Ormai
non sussisteva alcun dubbio …
“Dio ci
aveva condotto qui quella mostruosa meretrice, acciocché noi sopprimessimo sia
lei sia la sua creatura che sfidava tutte le leggi umane e divine! Era la
Provvidenza che agiva! E se noi abbiamo fallito fu per colpa dello sciocco
sentimentalismo di quella stupida ignorante di Ameyuri!”
La
donna dinanzi a lui non poteva essere che una di loro …
“Non
bestemmiate la volontà di Nostro Signore per nascondere la nuda e cruda verità
e cioè che non siete altro che un branco di ipocriti assassini!”, ruggì Naruto
e per un istante gli parve che il mare, nel suo irrequieto gorgogliare, gli
stesse dando ragione. “Altrimenti, non sareste stati puniti anche voi, costretti
a vagare in eterno in questa abbazia corrosa e sozza delle vostre malefatte!
Itachi avrà pagato per il suo suicidio, ma anche a voi fu similmente negata la
consolazione dell’aldilà, in quanto suoi indiretti assassini!”
Il velo
della menzogna era ormai caduto. La rabbia, la frustrazione e lo sdegno avevano
finalmente liberato gli occhi del biondo dal tranello del fantasma: l’abbazia,
infatti, non si presentava più maestosamente ieratica, bensì un cumolo di marce
rovine ricoperte di alghe, di granchi e coquillage vario e sulle quali cresceva
parassita la caloplaca marina. Solo l’immagine del Cristo Pantocratore sul
catino absidale era rimasta intatta, per quanto non la si potesse vedere dal
cimitero, neanche volesse ribadire l’impossibilità di redenzione per coloro che
vi erano stati seppelliti.
Quanto
al viso della madre superiora, esso si era inselvatichito in un’orrida maschera
ghignante, un putrido e sornione teschio di malizia e sorniona cattiveria.
“Povero,
povero sciocco! Ovvio che difendi quella puttana: se non avesse fornicato col
diavolo, tu non apparterresti di certo a questo mondo … Ma dimmi, come hai
fatto ad accorgerti del mio inganno? Non credo che tu sia un medium o comunque
un essere tanto ferrato nello spiritismo …”
Questa
volta fu il turno di Naruto di sorridere, trionfante. “Ignoro chi abbia
nascosto qui queste foto, ma chiunque sia stato era chiaramente un mio alleato,
fornendomi una prova schiacciante contro questo turpe imbroglio! Sì, è vero che
in tarda età Mayra prese i voti, ma non li prese nell’Abbazia dei Santi Erasmo
e Barbara né venne mai a sapere delle sue origini! Similmente, ella non sottrasse
mai il diario da Villa Nakano né Utatane Koharu venne mai qui a rubarlo! E
sapete da cosa l’ho dedotto? L’abito
monacale di Mayra non corrisponde al vostro ordine religioso!
Dunque,
suppongo che sia stato Uchiha Sasuke stesso a strappare le pagine inerenti al
ritrovamento della nipote scomparsa, a separare i due diari nell’ultimo
disperato tentativo di salvare suo fratello da uno sbaglio di cui si sarebbe
pentito per l’eternità! Il primo diario
rimase a Villa Nakano, mentre il secondo lui lo portò qui, assieme alle altre
foto.
Perché l’obiettivo ultimo di
Sasuke era di trovare qualcuno che riscattasse suo fratello, anche a costo di
attendere in eterno!
Un
Uchiha aveva condannato Itachi e un Uchiha lo avrebbe liberato dalla
maledizione inflitta sia alla sua famiglia quanto a se stesso! L’Uroboro
perfetto!
Ma
qualcuno l’aveva già preceduto, voi!
Infatti,
poco dopo il funerale di Itachi, voi avete profanato la sua tomba, seppellendolo
altrove! Avevate sentito parlare della maledizione, vero? E dell’unica maniera
per romperla! Ormai, era sulla bocca di tutti e così escogitaste questo vile
trucco in modo da negargli per sempre l’eterno riposo! Non avevate però
considerato che dal peccato nasce il peccato e che con le vostre malefatte vi
siete attirati la collera divina! Per questo motivo, morendo, non siete finiti
all’inferno, come invece avreste dovuto cadere, bensì vi siete ritrovati
fantasmi come la vostra vittima!”
“Interessante,
non sei poi così cretino come dai ad intendere”, lo sbeffeggiò la badessa.
“Perché parli al plurale, però? Davanti a te, ci sono soltanto io!”
Senza
lasciarsi minimamente abbattere da quella sardonica canzonatura, Naruto
proseguì: “Tzé! Anche il prete è stato tuo complice e sono sicuro che si
nasconda da qualche parte, qui, in questo luogo pregno di zolfo …”
Gettando
il capo all’indietro, la donna latrò una risata perfida. “Hai ragione, stupido
bamboccio, hai perfettamente ragione! Avresti dovuto vedere la faccia di quel
vecchio pazzo di Sasuke, quando, scoperchiando la bara del fratello, la trovò vuota!
Per poco, non mi schiattava dentro! Tant pis, mi sono rifatta col suo
pro-pronipote … Quello sfortunato pittore da strapazzo, alla cui promessa sposa
venne accorciato l’anulare sinistro per
mano del fantasma del suo bisnonno/a …”
Naruto
aggrottò la fronte, stavolta disorientato: ovvio, le foto più recenti
appartenevano agli anni Cinquanta del Novecento, Sasuke non poteva essere
vissuto così a lungo …
“… Il
quale, col cuore a pezzi, dopo aver scoperto e letto il diario del suo antenato
pensò bene di rompere la maledizione, giungendo fin qui. Peccato, che fossimo
già pronti ad accoglierlo, sebbene non troppo presto da impedirgli di
completare l’opera di Sasuke …” e quegli occhiacci maligni si posarono sulle
fotografie tenute saldamente in mano da Naruto, che soffiò schifato:
“Lo
avete dunque ammazzato?”
“Oh
certo, idiota! E dopo di lui …”
Fate quindi attenzione, care fanciulle, il giorno delle
vostre nozze!
“Quindi
… Yamanaka Ino era una tua discendente?”
Itachi
arricciò il naso, palesemente disgustato da quella prospettiva. “Per carità! La
mia famiglia era troppo de haut rang
per mescolarsi a simile marmaglia!”, dichiarò perfidamente ironico, imitando
l’intonazione altera del padre. “Anzi, all’epoca ero rimasto piuttosto sorpreso
dalla decisone di Sasuke di vendere Villa Nakano proprio a loro; se solo Papa
fosse vissuto abbastanza per assistere allo spettacolo!”, e rise senza
divertimento, amaro. “No, Hinata cara. Non era Ino la mia discendente, bensì il
suo fidanzato, Yuhi Sai. Il mio pronipote. Non ci potevo credere la prima volta
che lo vidi entrare a Villa Nakano, con la sua pelle diafana, gli occhi neri e
il capelli altrettanto scuri … così Uchiha …”, digrignò i denti, scotendo il
capo. “La guerra e la malattia avevano ucciso tre dei cinque figli di Mayra,
lasciandone in vita due soltanto: una femmina e un maschio. I quali a loro
volta si sposarono. Mia nipote Noera ebbe due figli, Sai e Shin. Il primo, in
seguito al mio tête-à-tête con la sua Ino, visse altri trentatré anni in piena
solitudine prima di suicidarsi e mai volle risposarsi! Non lo trovi romantico, Hinata cara?
Shin,
invece, si sposò ed ebbe una sola figlia, Kurenai. E anche lei … ZAC!”, imitò Itachi lo schiocco delle
forbici sotto il naso di Hinata, la quale storse il viso, apprensivamente
inquieta. “Tuttavia, non avevo considerato un piccolo dettaglio, ovvero che la
cara Kurenai aveva già partorito una pargoletta al momento delle nozze … Sai
com’è, ai tempi di guerra … In ogni modo, la piccola Kiyora una volta divenuta
grandicella convolò a nozze e in seguito mise al mondo la signorina Mitarashi,
alla quale porsi una mia visitina il giorno del suo matrimonio.
E così,
con Anko si chiude la discendenza in via femminile di mia figlia Mayra”,
concluse giocosamente il moro il suo resoconto, la mano appoggiata sotto il
mento.
“La
discendenza di mio nipote Ian, invece, fu più fortunata giacché non ebbi modo
di imbattermi nei suoi componenti fino ad oggi, in data 2012. Ah, che sciocco!
Hinata cara, ancora non ti ho rivelato il cognome di mio genero!”
Molti anni sono ormai passati da questo amaro caso, eppure
la Sposa Mancata ancora infesta la villa maledetta!
“E ora
che sai tutto, sciocco marmocchio, levami tu una curiosità: come mai, malgrado
la palese discendenza esclusivamente maschile, fai di cognome Uzumaki al posto di Namikaze?”
Ché
Namikaze era il cognome dello sposo di Mayra e Namikaze Ian, il loro unico
maschio sopravvissuto, ebbe a sua volta solo
discendenti maschi … fino a lui …
Naruto
abbassò il capo, guardando amorevolmente l’immagine di suo padre Minato ancora
bambino. Sapeva di chi era figlia quella dolce vecchietta di cui teneva la mano?
Aveva mai sospettato della triste eredità che gli fluiva nelle vene? Dell’ombra
nefasta che lo incalzava ogni giorno? Aveva mai immaginato che tale sorte
sarebbe stata riservata anche a lui, suo figlio, reo di compartire il medesimo
sangue di quella famiglia maledetta?
Il
biondo oro si era sostituito al corvino; lo zaffiro all’ossidiana, ma la
sostanza, la genetica, il sangue!, rimaneva lì, dormiente e paziente, pronta a
manifestarsi alla prima occasione.
Era
anche lui tarato, corrotto, marionetta di un destino atroce.
Tutto
gli apparve ora così lineare, così logico: alla fine, prima o poi, avrebbe dovuto
comunque aver luogo questo confronto finale tra l’anima offesa della Sposa
Mancata e un membro del suo casato, anche se di lontana discendenza. Il debito
era troppo grosso per essere ignorato in eterno.
Si
doveva giungere ad una fine.
La
totale estinzione degli Uchiha.
O la
rottura della maledizione di Villa Nakano.
“Ti
risponderò solo se tu soddisferai la mia curiosità: mio padre, Namikaze Minato,
serviva come capitano nella marina di Hi e la sua nave è affondata nel golfo di
Kiri esattamente vent’anni fa. Voi, non è che ne sapete qualcosa?”
Spuma splendente, onda fremente.
Gioca col mare e lui ti
catturerà.
Il
ghigno demoniaco della badessa sciolse ogni dubbio a riguardo. “La Sposa
Mancata desidera l’annientamento del suo clan e noi, sia per motivi diversi,
gli stiamo dando una mano. Altrimenti, come da te previamente affermato,
l’ultimo desidero di Sasuke potrebbe anche avverarsi e tu, vero e ultimo
discendente degli Uchiha, potresti sul serio liberare la sua anima dannata e
riscattare quelle delle sue sfortunate vittime!”
Silenzio.
“Ora
tocca a te rispondere, moccioso.”
Il viso
di Naruto assunse un’espressione dolcemente amara, nel frattempo che chiudeva
gli occhi, cullato dalla rassicurante sensazione che sì, aveva sempre avuto
ragione su suo padre, che lui non era un irresponsabile e un incompetente nel
suo lavoro. Quante volte il biondo, nella solitudine dell’orfanotrofio, era
stato costretto a sopportare i crudeli dileggi dei suoi compagni? Quante volte
aveva pianto sulla sua tomba, invocando una spiegazione, un perché di quella
morte così ridicolmente assurda? Quanto
lo aveva perseguitato la memoria di quell’incidente, incarnata nelle continue
invettive dei parenti di coloro che suo padre non era riuscito a salvare, prima
di cedere all’ingordo abbraccio del mare?
Thàlassa, Thàlassa,
credo sia mio destino amarti e
in te morire.
Osud. [2]
“Nutrivo
una profonda vergogna per il mio cognome …”, proferì lentamente il giovane,
schiudendo le palpebre e ringraziando gli spruzzi salati del mare che gli
inumidivano il viso, celando il febbrile misto di gioia e angoscia, di calma e
inquietudine. Avrebbe dovuto provare del profondo ribrezzo per la sua
discendenza da quella famiglia perversa, eppure al contempo provava una tiepida
sensazione di appartenenza, di casa, come una nave che attracca in porto in
seguito ad un lungo ed estenuante viaggio.
Osud.
“All’epoca
pensavo che non esistesse nulla di più infamante del mio cognome, di quel
palese vincolo anagrafico che mi collegava ad un pendaglio da forca di
capitano, in realtà l’ennesima vittima di questo sanguinoso carosello!”,
ridacchiò istericamente Naruto. “Pah! Se avessi conosciuto meglio le mie
origini, sarebbe stato per me consigliabile un bel colpo in testa!”, e rise,
rise, fino alle lacrime. “Ciononostante, debbo ringraziarvi: infatti, per colpa
vostra ho vissuto la mia infanzia nell’infamia più assurda e solo per questo
motivo io posso comprendere appieno chi
ha sperimentato come me il peso di un’immeritata ignominia! L’epitaffio lasciato
da Sasuke sulla tomba d’Itachi lo conferma: Chi
non conosce il vero dolore, non pianga mai su questa tomba.
Ed è
per questo motivo che solo io posso mettere la parola FINE all’Amaro Caso di
Villa Nakano!”
Il
demoniaco fantasma, all’udire ciò, s’ingobbì minaccioso, ringhiò battagliero
cupi latrati e mostrò ferino i denti aguzzi, ma, malgrado la sua reazione
animalesca, fu costretto lo stesso ad
indietreggiare.
Una malinconica figura biancovestita erra dolente per i suoi
corridoi o nel giardino, il capo chino e un coltello stretto al petto: girate
subito dalla parte opposta, presto!
“Naruto
non può essere un tuo discendente!”
“Ah,
non può?”
“Non è
malvagio come te!”
“Non lo
è? E chi ti assicura, Hinata cara, che non sarebbe disposto, per amor tuo, a
compromettere perfino la sua anima pur di salvarti dal sottoscritto?”
La
giovane aprì la bocca per ribattere, stupendosi come la voce le mancò. Che
quanto affermato da Itachi corrispondesse al vero? Lui per primo ne pareva
mortalmente sicuro. Provvederò a far tacere quanto prima
queste fastidiose voci, te lo prometto!, le aveva giurato il giorno prima, appena svegliati da
quella notte piena d’incubi. Ma a che prezzo, però? Hinata sapeva che Naruto
era un eccelso testardo, ma fin dove sarebbe giunto pur di salvarla? E lei?
Avrebbe accettato la sua perdizione per cosa, poi? Per un dito?
Il destino eterno dell’anima del fidanzato valeva
un anulare mozzato?
“Non
oseresti spingerlo a tal punto!”, singhiozzò sconfitta la mora, la punta del
mento che pugnalava il petto. “Non …” e un nuovo, sconquassante singulto la
interruppe, soffocandola per poco, ogni afflato di resistenza destinato ormai a
sciogliersi dinanzi a quella tremenda convinzione. Amava troppo il suo compagno
per lasciare che si compromettesse a tal punto per lei; non ne era degna. Non
lo meritava. Non aveva fatto nulla in vita sua per aiutare Naruto, tranne che
accettare di sposarlo, ma perché? Per amore? O per pena? Per interesse?
Il
dubbio! L’incertezza! Il perfido torpore della sfiducia!
Forse,
non sarebbe stato poi così tragica se Itachi avesse deciso di sottrarle anche
qualcos’altro, oltre che al dito e all’anello … Sparire, ecco cosa.
Nell’avvolgente abisso del nulla, dell’ombra.
E
Itachi, neanche fosse stato dotato di un olfatto peculiare, respirava a pieni
polmoni questa pena, nutrendosi quasi di essa: mai essenza più soavemente
tossica viene emanata, quando nello sconforto più atroce una persona s’appresta
a congedarsi dalla vita!
“Io ho
bisogno del mio anello, Hinata carissima, anello sottrattomi con la forza. E
che con la forza riotterrò!”
E
tuttavia, perché quelle lacrime sul suo viso? Lui, talmente persuaso di averle
versate tutte!
“Se
tanto mi vuoi uccidere, perché stai qui a raccontarmelo?”, gli giunse ovattato
il patetico pigolio di Hinata, il cui sguardo opacamente avido lo turbava,
portandolo a mordicchiarsi incerto il labbro inferiore. Non aveva avuto remore
negli anni passati a recidere dita, fossero esse appartenute a ragazze di altre
famiglie o della sua stessa.
Dunque,
da dove proveniva quel suo tentennare? Un solo gesto, un solo attimo e sarebbe
tutto finito! L’ultimo suo discendente sarebbe sprofondato nel dolore più
lacerante, ponendo fine alla sua vita e congiungendosi alla sua spettrale e
dannata famiglia! Non era questo, ciò cui Itachi aveva sempre anelato? No? Non
s’era adoperato in ogni modo per sbarazzarsi di lui? E quel folle, perché
insisteva tanto? Non aveva compreso l’antifona?
Itachi
non voleva essere salvato! Non voleva! Giacché nessuno poteva salvarlo! Sulla
sua anima gravavano già troppe innominabili colpe! Non c’era più nulla da fare
per lui! Non …
“Io non
voglio ucciderti, Hinata. Mi bastano solo il tuo anello e il tuo anulare
sinistro. Una volta ottenuti, sarai libera finalmente libera di morire come
meglio credi. E di tua mano, ovviamente.”
La
pendola suonò le undici e mezza.
Basta
lacrime, basta rimpianti!
Se per
un istante il ghiaccio del rancore e della tristezza cessò di illividire il
viso di Itachi, sciogliendosi nella sua prima vera espressione umana dopo quasi
un secolo e mezzo di crudele solitudine e vagabondare, ecco che esso si
ricompattò e il furore e lo sdegno rianimarono il suo spirito offeso e resero
più salda la presa al coltello.
Bisognava
agire!
“Sarò
rapido, Hinata cara, così non dovrai soffrire più del dovuto”, la rassicurò,
allargandole la mano serrata sul bracciolo della sedia a dondolo e levando quel
poco la lama per eseguire il taglio tanto agognato. “Con te, la mia condanna si
adempie in pieno …” e volle calare il coltello, bloccandosi invece
all’improvviso.
Una fusiforme
mano spettrale si era stretta al polso sottile di Itachi, mentre un’altra lo
cingeva per la vita, allontanandolo di peso da Hinata che, ripresasi da quel
sonno demoralizzante e ipnotico, approfittò di quell’attimo di sorpresa per
liberarsi dalle sue catene, balzare dalla sedia e correre via dalla stanza.
L’ultima
cosa che vide, prima di sbattere la porta, fu il grottesco groviglio di due
fantasmi che si muovevano in scatti secchi e violenti, uno tentando di
divincolarsi e l’altro che lottava come un invasato pur di trattenerlo.
“Quousque
tandem abutere, frater, patientia
nostra?”
Prima che si accorga di voi!
I due
contendenti tacquero, altro da dire non avevano: gli altarini erano stati
svelati, le accuse e difese proferite con partecipe convinzione e
sovrannaturali sfide altezzosamente lanciate. Cos’altro poteva loro rimanere,
se non guardarsi vicendevolmente in cagnesco, sperando di impressionare
l’avversario?
Il
vento aveva cessato definitivamente il suo sprezzante fischiare e le malevole
nuvole nero carbone avevano ingollato avido il sole estivo, relegandolo
vergognoso nelle oscurità del loro vaporoso stomaco. Un odore marcio, puro
putridume, risalì invece sia dalla terra sabbiosa che dalle profondità marine,
ammorbando l’aria di quella maleodorante cancrena muffosa. I moscerini e ad
altri insetti volanti, sfruttando l’assenza del flagello naturale, ne presero
il posto, frustando Naruto col loro fastidioso ronzare e cercando di infilarsi
ovunque, occhi, naso, bocca. Ma nulla era il suo tormento se paragonato a
quello del fantasma della badessa, la quale appariva letteralmente divorata da quei ributtanti animali,
neanche si fosse trasformata nel loro nido.
Solo l’impotente
borbottio del tuono riportò una parvenza di calma a quel limbo infernale e il
lampo suo fratello illuminò a giorno quel buio sceso troppo presto. Il mare,
eccitato dall’inquietudine della sua controparte celeste, s’agitò con maggior
gusto, riflettendo il medesimo color vino e fumo del cielo.
Spiando
di sottecchi quel ripugnante fantasma, Naruto pensava furiosamente sul da
farsi: adesso che aveva scoperto la verità, come affrontare quella sinistra
presenza? Come giungere alla vera tomba di Uchiha Itachi e rompere la
maledizione?
Neanche
gli avesse letto nel pensiero, quello spirito immondo congiunse i polpastrelli,
dichiarando macabramente divertitio:
“La tua
determinazione è lodevole, ragazzo, ma dimentichi un piccolo particolare: sei
uno contro due e molto, molto, ma molto vicino al …”
Come se
si fosse materializzato dalla stessa umidità presente nell’aria salmastra, un
suo compagno di dannazione comparve alle spalle del biondo, il quale non ebbe
neppure il tempo di realizzare che cosa gli stesse accadendo, che una mano gli
serrava inclemente il collo, stringendo, stringendo, neanche si fosse
prefissata di spaccargli l’osso del collo in un singolo crack!
Poco
male, giacché il nuovo arrivato preferì invece issare Naruto da terra, mentre
questi, afferrando i polsi putrefatti del suo assalitore, tentava di respirare
ossigeno vigliaccamente negatogli. Ciononostante, una parte di sé si diede
dello stupido, poiché aveva già sospettato della presenza del fantasma del
prete, il complice della badessa.
Era in
trappola.
“… al mare!”
E non
appena evocò il vero sposo di Kiri, il prete con forza sovrumana scaraventò Naruto
oltre il muretto, lontano, simil all’innocente gioco del sassolino che spesso
dilettava i bambini prima della cena.
Giù,
giù, in quell’inferno acquatico.
L’impatto
fu tremendo e il biondo dovette serrare a forza la bocca per non urlare il suo
doloroso disappunto, quando la sua schiena forzò la superficie del mare, colpo
che gli parve risuonare in tutta la sua cassa toracica. A che pro, tuttavia,
quel disperato tentativo di conservare quanto più ossigeno possibile, quando la
corrente impazzita lo teneva coscienziosamente sottacqua?
Avrebbe
resistito? Non poteva mollare proprio ora che aveva scoperto la verità, proprio
ora che era a due passi dalla soluzione!
Peccato
che la sua prigione acquatica la pensasse diversamente, trascinandolo nei suoi
abissi, gelosa custode degli incauti uccellini entrati loro malgrado nella sua
impietosa gabbia.
“Tutto
è incominciato con un annegamento e con un annegamento finirà!”, dichiarò
ieratico il prete, nel frattempo che si portava accanto alla badessa.
Osservando
compiaciuta il mancato riemergere di Naruto, essa rincarò la dose, beffarda:
“Che ne dici, bamboccio? Morirai come tuo padre! Non lo trovi poetico?”,
strillò al mare, la sua immortale arma del delitto.
Eppure,
perché quella sensazione?
Perché
le parve che il mare la stesse a sua volta deridendo?
Next chapter, the end …
**********************************************************************************************
Dum-dum,
la suspense!
Come finirà?
Naruto
morirà annegato?
Hinata
si ritroverà un dito in meno?
Chi ha
bloccato Itachi?
E quest’ultimo,
ritroverà mai la pace dello spirito?
Tutte
le risposte al prossimo capitolo!
Ciao!
Un
po’ di noticine:
[1]
Famosa ninnananna francese. La traduzione: “Al chiaro di luna [chiedo a] il mio
amico Pierrot: “Imprestami la tua penna per scrivere una parola, la mia candela
è spenta, non ho più da accendere, aprimi la tua porta, per l’amor di Dio”
[2] Thàlassa, Osud = rispettivamente “Mare”, in greco e “Destino”,
in ceco. Mi piace mischiare le lingue, ecco …
|
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Capitolo 8 *** Agosto 2012 - quarta parte: Thàlassa ***
E rieccoci infine con il capitolo finale di questa storia! Gosh,
mi sembra un’eternità da quando l’ho incominciata, in una notte tempestosa –
nel vero senso della parola – di febbraio. Ora mancano solo due altre mie
storie da finire, uh-uh …
Siccome il capitolo è piuttosto lunghetto, non vi tarmerò con
note introduttive; eventuali spiegazioni/giustificazioni/abbiate-pietà-di-me ci
saranno nell’epilogo, che arriverà prossimamente.
Spero che questa conclusione – molto sofferta – possa piacere
e che nessuno si offenda per certe considerazioni fatte nel corso della storia.
Ringrazio tutti i miei lettori e recensori, in particolare: April88; Lady_Loire, Mary Uchiha, Cucciola Blu e Sagitta72.
Grazie
anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e
seguite!
Vi
auguro buona lettura!
H.
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Agosto 2012
“Quousque tandem abutere, frater, patientia
nostra?”
La
stretta, dapprima brutale e asfissiante per la sua determinazione nel
trattenerlo, si allentò nella disperata dolcezza di un abbraccio.
“Per
favore, fratello”, furono le uniche
parole dell’evanescente e deforme figura. “Basta così”, e un viso ritornato
sorprendentemente umano si nascose nell’incavo di una spalla fraterna e
tremante. “Basta così, Itachi. Hanno patito abbastanza, non infierire!” Eppure,
malgrado la linea dura e inflessibile della bocca del fantasma, quest’ultimo
non accennò a sciogliersi da quella confortevole prigione di braccia.
“Che
cosa vuoi da me, Sasuke?”
Rabbia,
frustrazione, angoscia nel veleno di
quella domanda.
“Lasciala andare. Lasciali andare. Lasciaci
andare. È abbastanza!”
“No”,
giunse senza alcuna esitazione la lapidaria sentenza, che però vacillò per
mitigarsi in un più conciliante: “Non sarà mai abbastanza! Mai! Devono essere
castigati! Tutti devono essere castigati!”
Litania
centenaria, convinzione suprema e alfa e omega di quell’esistenza innaturale.
“La
malvagità risiede nella nostra famiglia, è radicata in essa! Non permetterò che
compia altri danni!”
“Come
puoi saperlo? Non sei il custode delle loro vite! Vero, ti recammo in vita un
grave oltraggio, ma abbiamo anche pagato il fio col nostro sangue! Nella nostra
epoca! Non in quella altrui! Non col sangue altrui! Itachi … fratello … Neanche
tu puoi ignorarlo in eterno: non attraverso l’annientamento potrà la nostra
famiglia redimersi, bensì vivendo e sbagliando e pentendosi e facendo ammenda
dei loro errori!”, un timido sorriso complice arricciò le labbra violacee del
secondo fantasma. “Qualsiasi cammino li abbia riservato la vita, devono essere
loro stessi a percorrerlo. Anche se li conducesse alla perdizione … Tu lo sai …
tu lo sai … Questo non è da te … Non divenire il mostro che in vita ti ha
divorato … ”
Itachi
scosse ostinato il capo, irremovibile. “Il karma degli Uchiha verte alla
malvagità e neppure i discendenti di mia figlia ne sono stati esenti, tu
medesimo ne sei testimone!”
Vero,
tutto vero.
Non a
caso si era sempre vociferato come gli Uchiha venissero dall’inferno e come
all’inferno tutti sarebbero un giorno ritornati, nessuno escluso.
“Allora”,
replicò altrettanto cocciuto il minore, guardando fissamente il fratello dritto
negli occhi vermigli “elencami le nefandezze di Naruto, l’ultimo tuo discendente! Rivelamele e io tacerò
fino al Giudizio Universale!”, fu l’ultima disperata richiesta di Sasuke e il
silenzio da essa generato ridestò, seppur debolmente, la timida fiammella della
speranza.
Zoppicante
barlume che addolcì lo scarlatto di
quelle iridi incandescenti nella mite ossidiana da Sasuke tanto amata, la quale
ancora tremò, inumidendosi, tentennando, rosa dal dubbio e dalla fatica e
dall’esasperazione dell’anima intrappolata nel cieco labirinto del furore e della
sua creatura più crudele, il senso di colpa.
Si
trattò di un attimo, però, una minuscola crepa di spossatezza e confusione: una
volta rimesso il proprio destino eterno negli artigli del grande nemico, da
soli non è mai facile sottrarsi alle sue invisibili catene, non se la paura di
chiedere aiuto e perdono risulta maggiore alla prospettiva di venire per
l’eternità consumati dal fuoco nero dell’abisso.
“Che
importa ormai?”, ridacchiò cupamente rassegnato Itachi, sollevando di peso
l’incorporea figura di Sasuke e stritolandola fino ad assorbirla dentro di sé.
“La fine è vicina. Villa Nakano adora
la sua promessa sposa e non desidera per nulla al mondo lasciarla …”
E quando
il viso del fratello, scomparendo, non gli ricordò più il benefico balsamo del
perdono, ecco che Itachi si portò alla finestra, contemplando con freddo
compiacimento – a lui così estraneo, così lontano dalla sua vera natura – le piante del giardino della casa maledetta,
le quali, anch’esse animate da una volontà scellerata e feroce, avevano
tramutato la loro estiva bellezza in un lercio manto di putrido rancore,
ghermendo Hinata e trascinandola seco dalla loro “madre”, Villa Nakano, che la
attendeva piena di impaziente godimento, la porta tramutatasi in fauci ingorde
e le numerose finestre in occhi febbrili e insonni, novella Argo Panoptes [1].
Volevi essere la mia padrona, pareva schernirla l’imponente
edificio e il fantasma con esso, e invece
sarai tu in mio potere!
Come fu per le giovani spose che
ti precedettero.
Come fu per gli Uchiha.
Come fu per Itachi.
Come è ancora per lui. In fin dei
conti, non è mai stato libero dalla sua famiglia.
Da me.
Tanto è l’odio di voi uomini, da
trasformare il rifugio in una prigione. Da insozzarlo con le vostre faide, con
la vostra ipocrisia. Mi nutrite. Mi rendente forte, invincibile.
Non lamentatevi poi se ne dovrete
pagare le conseguenze.
Così
parlò arrogantemente trionfante il grande nemico per bocca di Itachi - dietro
di lui, dentro di lui - in quel momento
Hinata poté distinguerlo bene.
Era
sempre lui.
L’approfittatore
per eccellenza delle debolezze dell’uomini.
E dei
loro sbagli.
È
l’alma maledetta della suicida Sposa Mancata, costretta come punizione a vagare
sulla terra.
L’ultima
cosa che gli occhi di Naruto videro, riemergendo a stento a galla dopo il
tuffo, fu la gigantesca onda abbattersi contro
di lui, simile alle fauci di un mostro che azzannavano una preda moribonda.
Poi, fu
solo l’oscurità del mare color del vino.
Morire
annegati era una fine davvero atroce: i polmoni inadatti all’ambiente marino
reclamavano ruggendo aria, nonostante la consapevolezza che non avrebbero
ricevuto nient’altro che acqua. Insistevano, premevano dolorosamente per aprire
solo per un istante la bocca, onde respirare un poco e presto tutto il corpo
incominciò anch’esso a tendersi per lo spasimo, mentre il cuore batteva
all’impazzata, protestando la sua impellente necessità di ossigeno.
Non
v’era scampo all’imminente incontro con la morte: quattro minuti al massimo si
poteva restare senz’aria; d’altro canto, tuttavia, dischiudere la bocca
significava ingurgitare salata e mortifera acqua marina e il tutto mentre la vista si affievoliva,
fissando impotente l’agognata superficie del mare allontanarsi sempre di più,
sprofondando nell’incoscienza …
“Sono
morto?”, si domandò ad un tratto il biondo, quando si riprese dallo svenimento,
sorpreso di non sentirsi più addosso la pressione dell’acqua.
Una voce
profonda e divertita gli rispose: “No, per il momento. Ma se ci tieni tanto,
posso sempre rimediare a questo piccolo
inconveniente …” e un sardonico sogghignare fece eco alle sue parole.
Naruto
aprì gli occhi, guardandosi intorno spaventato e incuriosito allo stesso tempo:
il posto in cui si era risvegliato era il più insolito che avesse mai visto,
caratterizzato, infatti, da una spiaggia senza alcun tipo di vegetazione e che
si slungava all’infinito, stagliandosi dal cielo plumbeo in una perfetta linea
retta. Inoltre, davanti al giovane si ergeva imponente una porta di legno
dipinta di rosso scarlatto e dalla maniglia nero carbone; tuttavia, ciò che
colpì in particolar modo Naruto, fu che codesta entrata non era circondata da
alcun muro: attorno a lei, c’era il nulla, se ne stava in piedi così, isolata
da quel paesaggio uscito da un dipinto di Dalì.
Il biondo
rimase interdetto: a che cosa serviva una porta, se non c’era un edificio
chiuso dietro ad essa? A che pro tenerla, poi?
“Curiosa
quella soglia, eh?”, gli chiese l’uomo alle sue spalle e Naruto sobbalzò per la
sorpresa. “Tutti coloro che sono entrati non sono mai più tornati indietro a
raccontarlo, eppure, nonostante ciò, la gente muore lo stesso dalla voglia di passare per di qui! Ah, per la
cronaca: anche tuo padre e tua madre l’hanno già varcata”, gli comunicò con
tono rilassato, quasi fosse la cosa più normale del mondo.
“Papà e Mamma?”,
ripeté confuso Naruto, che non riusciva bene a capire a che cosa l’uomo si
stesse riferendo.
L’individuo
annuì, arruffandosi i capelli già di loro spettinati. “Uh - uh, sicuro! E le Parche
avrebbero deciso che tu dovresti raggiungerli fra …”e controllò pensieroso
l’orologio da taschino “fra due minuti e tredici secondi esatti. Tuttavia,
poiché sono un bastardo rompiscatole di natura, credo che sarà assai divertente
rovinare i piani delle tre megere, non trovi?” e sorrise complice, mettendo
bene in vista tutti e trentadue i denti lievemente appuntiti. “Insomma, chi
vuole morire al giorno d’oggi?”
“M-morire?”,
balbettò Naruto, capendo solo ora il significato della porta, mentre fissava come
ipnotizzato la maniglia nera stagliarsi dal rosso della porta. Ora si spiegava
l’insolita voglia di aprirla …
“Oh sì:
morire, perire, crepare, tirare le cuoia, decedere … scegli tu il verbo che più
ti aggrada, il significato è lo stesso, non cambia nulla”, puntualizzò
ineffabile l’uomo, scrutando attento il biondo.
“Quindi
… quindi chi oltrepassa quella porta è …
morto?”, volle accertarsi Naruto, gli occhi che gli si inumidivano dalla
frustrazione e impotenza: maledizione, non voleva morire! Aveva ancora mille
progetti da portare a termine prima di presentarsi davanti a San Pietro!
E
ciononostante, una piccola ma insistente parte di lui premeva per aprire quella
solenne porta e godere del più pacifico dei riposi.
“Esatto,
” fu la risposta incolore che ricevette.
“Senza
speranza?”, continuò il giovane.
“Alcuna.”
“Ed io?”
“Oh tu!
Non mi hai ascoltato prima? Dovresti subire lo stesso fato, ma …” e fissò Naruto
dritto negli occhi, inchiodandolo con uno sguardo birbante e il suo sorriso s’allargò compassionevole,
quando l’altro lo invitò disorientato a proseguire.
“ … ma
tu ed io potremmo giungere ad un accordo, come tra due gentiluomini, no?” e
l’uomo cinse Naruto per le spalle con un braccio. “Sai, ne ho vista tanta di
gente schiattare, anche fin troppa per la verità, però ti confesso che i decessi dei bambini …” e qui Naruto socchiuse
indispettito gli occhi “… non li ho mai digeriti più di tanto e quello tuo
prossimo non è da meno”, disse, inginocchiandosi per terra, e si mise a
spianare la sabbia quasi volesse pulire il suolo sottostante, il che avvenne
incredibilmente, poiché l’ocra venne sostituito da una superficie liscia e
trasparente, attraverso la quale era possibile osservare il fondale marino e
appoggiato ad esso un corpo che Naruto conosceva molto bene.
“Ti sei
visto, eh? Questo sei tu, o meglio, tu da vivo, per quel poco che ti rimane.
Così quello là avrebbe deciso!” e
pronunciò l’ultima frase con grande disprezzo, o almeno fu quel che parve al biondo, che boccheggiò sinceramente
preoccupato:
“Non mi
puoi aiutare in qualche modo, dattebayo?”
“Dovrei?
E che ci ricavo in cambio?”
“In
cambio?”, ripeté indignato Naruto, reprimendo una voglia matta di strangolare
quel gran furbastro. “Riceverai la mia
riconoscenza, che altro pretenderesti, dattebayo?”, berciò, rimanendo subito
dopo urtato dalla fragorosa risata di scherno che la sua frase provocò
nell’individuo.
“La tua riconoscenza? Carino, io sono morto. Che
me ne faccio della riconoscenza di un vivo e per di più di un vivo che neppure
mi conosce? No, no, non spreco i miei servigi per ricompense così … intangibili! Che c’è, ora non vuoi più
il mio aiuto?”, arcuò egli il sopracciglio, arricciando maligno l’angolo della
bocca dinanzi al palese sospettoso tentennamento di Naruto, il quale aveva
nuovamente stretto gli occhi in una linea sottile, cercando la fregatura in
quell’affare. “Non ti preme più vivere solo perché non mi atteggio da
bonaccione generoso?”, rise sarcastico l’uomo, davanti al conflitto interiore
che si consumava nell’animo del biondo: accettare o non accettare? Si poteva
fidare di un … fantasma? Specie dopo tutto quello aveva patito per mano dei
suoi simili? E soprattutto, che cosa poteva offrire in cambio ad uno che in
teoria non avrebbe mai più avuto bisogno di guadagni terreni?
“Vedi di
sbrigarti: il tempo per me è denaro, per te è ossigeno …”, lo incalzò impaziente
e sbadigliando l’uomo, imitando con la lingua il ticchettio delle lancette
dell’orologio, suono che rese Naruto ancora più nervoso, ma allo stesso tempo
rassicurato che una qualche speranza di salvezza gli era stata offerta e lo
sconosciuto ghignò soddisfatto nell’osservare tale nuovo sentimento
manifestarsi timidamente negli occhi azzurri del giovane: dinanzi al grande abisso,
ogni ancora di salvezza per salvarsi era buona, in barba alla morale.
“Che ti
dovrei dare in cambio? Non ho nulla da offrirti!”, allargò esasperato Naruto le
braccia.
“Oh no,
al contrario, hai molto da concedermi e più di quanto tu possa immaginare …
Facciamo così: io ti salvo la vita e tu mi prometti che esaudirai un mio
desiderio, di qualsiasi natura esso sia!”
“Anche
cattivo?”
“Certo! Soprattutto se è cattivo: dov’è sennò il
divertimento?”
“Eh
no!”, protestò Naruto: lo sapeva che non doveva fidarsi di quello strano
individuo! “Non ci sto a queste condizioni!”
“Non
credo che tu sia nella posizione più favorevole per dettarne, ma se ci tieni … un
minuto e quarantacinque secondi …” e lo sconosciuto si alzò, accingendosi ad
andarsene.
Fissando
ora l’uomo, ora il se stesso morente sul fondale marino, il biondo si torse le
mani, mordicchiandosi incerto le labbra.
“Non
voglio commettere nulla di malvagio …”, si lagnò con voce flebile, pigolando
quasi.
“Un
minuto e trentasei secondi …”, fu l’implacabile replica dell’uomo, sempre dando
le spalle al giovane.
“Se
almeno mi dicessi in modo più specifico che cosa dovrei fare …”
“ … Un
minuto e ventinove secondi …”
“Sei uno
stronzo!”, ruggì offeso Naruto, il volto rosso dalla frustrazione.
“Ne
prenderò atto. Intanto, fra un minuto e diciassette secondi tu sarai un bel
nulla!”, ribatté cinicamente lo sconosciuto, per niente toccato dall’ingiuria
del biondo.
“Ma …”
“Un
minuto e dieci secondi!”
“Non
potremmo …”
“Un
minuto e due secondi !”
“Magari
…”
“Cinquantanove
secondi!”
“Per
favore …”
“Quarantotto!
Testardi fino alla fine, eh? Che t’importa del male o del bene che compirai in
futuro, quando da morto non potrai far altro che marcire, me lo spieghi? Addio,
sempliciotto!”
Naruto ringhiò
sconfitto: per quanto lui per primo detestasse ammetterlo, quel sillogismo era invero
intaccabile.
“Aspetta!
Se accetto, mi aiuterai sul serio?”, fermò egli lo sconosciuto, afferrandolo
per un braccio e costringendolo a voltarsi.
Il
ghigno dell’uomo si allargò soddisfatto e tuttavia sinceramente rincuorato,
come se Naruto lo avesse sollevato da un enorme macigno . “Ci puoi scommettere.
Andata?” e gli porse la mano, che Naruto guardò dubbioso, prima di serrargliela
con forza e che, facendo perno su di una gamba, usò per scaraventarlo a terra,
sventolandogli sotto il naso leggermente grifagno il crocefisso che teneva
sotto la camicia.
“Pensavi
sul serio di fregarmi coi tuoi tranelli, eh?”, berciò battagliero il biondo,
piccato dall’espressione assolutamente scioccata dell’altro, che lo fissava
come una bestia rara dello zoo.
“Cosa?”,
aggrottò la fronte l’uomo, puntellandosi confuso sui gomiti e per nulla
impaurito dal simbolo religioso, anzi, solo leggermente perplesso.
“Inutile
che giochi al nesci, dattebayo! So chi sei! Sei il diavolo e speravi di corrompere la mia anima, approfittandone della
mia delicata situazione!”
“Oh,
cielo!”, roteò lo sconosciuto gli occhi, schiaffeggiando via annoiato la mano
di Naruto – quella che brandiva il crocefisso – e rialzandosi in piedi, nel
frattempo che si spolverava via la sabbia dai pantaloni. “Mi domando da quale
ramo dei tuoi antenati tu abbia ereditato la tua cretineria! Spero non da me,
perché mi sentirei abbondantemente umiliato …”
Puntandogli
offeso il dito contro, Naruto berciò: “Non sono cretino, dattebayo! Sono un
povero disgraziato che è stato buttato in mare dai fantasmi! E che ha vissuto
in una casa maledetta per un anno! E che l’ex-inquilino di detta casa ha
tentato più volte di farmi la festa! E che sta per morire affogato! E la cui
fidanzata sta per ritrovarsi un dito in meno! E che … e che … Dattebayo! Non
sono un cretino! E tu comunque sei e resti il diavolo!”
Incrociando
le braccia, l’uomo si sentì in dovere di dissentire a riguardo. “Non sono il
diavolo, signor disgraziato. Sono –
ero – un mercante il che, da un certo punto di vista, potrebbe anche
corrispondere al vero …”
Siccome
Naruto, in fin dei conti, non era poi così denso come la gente si divertiva a
descriverlo, quella piccola informazione lo chetò immediatamente, slogandogli
la mascella dall’incredulità.
“Kisame?”
Il
sopracitato batté spassionatamente le mani. “Bravo. Vuoi un bonbon?”
“No, del
ramen”, replicò a tono Naruto, pur tuttavia seguitando a sbattere incredulo le
palpebre: accidenti, già dal racconto di Uchiha Sasuke, il biondo aveva intuito
che l’amante del fratello di questi non gli arrivava in fatto di bellezza
neppure alle caviglie, ma ora che lo vedeva dal “vivo”, sinceramente il giovane
si chiese come fece Itachi a perdere la testa per un uomo sì poco piacevole
all’occhio.
Bah, de
gustibus.
“E così,
tu saresti l’amante della Sposa Mancata?”
Forse,
fu il pronto e appassionato scatto in sua difesa ad aver dolcemente irretito
Itachi. “Non chiamarlo così, è offensivo e immeritato”, ringhiò Kisame, nascondendo
il pugno stretto in tasca per non sfogarne la sua aggressività sul naso di
Naruto. “E comunque, putèlo, smettila
di fissarmi neanche fossi una foca ammaestrata, è maleducazione!”, aggiunse
poi, risiedendosi poco distante dalla
porta e fissando un punto indefinito davanti a sé. Il biondo lo imitò subito
dopo.
“Perdonami,
ma la Ballata …”
“Tutte
baggianate!”, replicò seccamente l’uomo, scrollando le spalle. “Tali fiabe da
balia non sono altro che un mucchio di cavolate, atte a mettere a nanna i bambini!”
“Su
questo punto, si potrebbe molto
discutere”, obiettò Naruto. “Capisco che nei confronti di Itachi tu sia
estremamente partigiano, ma neppure tu puoi negare né giustificare il suo
operato!”
“Cosa ne
sai tu?”
“Più di
quanto tu possa immaginare!”
Kisame
rise senza divertimento. “Pah! Come fai a dire di conoscere Itachi, se non lo
hai mai conosciuto di persona?” e il suo
sguardo s’addolcì per un attimo al pensiero, per poi rindurirsi. “Certo, avrai
letto il diario del mio “cognato”, ma anche quello è di parte. Nessuno a questo
mondo è oggettivo, si finisce sempre per giustificarsi sia direttamente che
indirettamente.”
“Dunque”,
gli chiese il biondo “come spieghi la tua
comparsa nella Notte di San Giovanni, nel 1858? Non ti sei reso conto di aver
peggiorato la situazione? Se non avessi costretto Itachi a seguirti fino a
Kiri, forse …”
Una
brutale stretta alla gola lo interruppe bruscamente.
“Mi
biasimi forse?! Non avresti fatto lo stesso?!”, incontrò Naruto lo sguardo
furibondo di Kisame, i cui occhi dorati rifulsero di rabbia e sdegno tanto da
competere con la lava incandescente e la sua voce, dapprima profonda eppure
rassicurante, assunse la medesima inquietante connotazione del mare in
tempesta. “Non saresti forse intervenuto, se avessi saputo che ti stavano uccidendo l’amante e la figlia?!”, ruggì
e il biondo si ritrovò ad abbassare vergognoso gli occhi: sì, se i ruoli
fossero stati invertiti, se lui fosse morto e avesse saputo che la sua Hinata,
incinta della loro creatura, rischiava la morte per i maltrattamenti subìti,
certamente Naruto sarebbe intervenuto anche a costo di sbucare dalla terra come
una margherita e in piena fase di decomposizione.
Notando
quell’attimo di colpa e imbarazzo, Kisame si calmò, liberandolo dalla presa e
stringendo le mani tra di loro. “Perdonami,
non era mia intenzione colpirti”, dichiarò più controllato. “Ammetto, però, di
aver lo stesso sbagliato: i morti non si devono curare degli affari dei vivi, è
vietato! E coloro che infrangono questo tabù, per quanto le loro intenzioni
siano buone e sincere, otterranno come unico risultato il complicare le vite
dei loro cari di male in peggio. Fui uno stolto a pensare di poter soccorrere
il mio amato. In questo modo, ho esacerbato il folle dolore che s’era annidato
in lui, dandogli una ghiotta scusante per prosperare e prendere il controllo sulla
sua mente. Se Itachi s’è consegnato nelle sue
grinfie, la colpa è imputabile anche al sottoscritto.”
Naruto
deglutì penosamente, reso muto dall’improvviso groppo in gola. Si limitò,
quindi, a trasmettere la sua comprensione a Kisame appoggiandogli una mano
sulla spalla. Al diavolo l’aspetto fisico! Il biondo sapeva che non fu la –
poca – avvenenza dell’uomo, né lo status sociale, né tantomeno l’attrazione
fisica ad aver avvicinato i due amanti.
Era
stata la disarmante schiettezza del suo amore forte e battagliero e sicuro,
quello sfacciato sacripante che andava a testa alta incontro al suo diletto,
comunicandogli con un semplice sguardo: Olà,
io sono qui! Puoi fidarti di me! Se cadi, sarò lì a prenderti! Io ti
appartengo, altero stupidotto, come tu appartieni a me, anche se sei così poco
furbo da non averlo capito!
Naruto
conosceva bene quel genere di amore: del resto, gli era capitata la medesima
sensazione quando si era innamorato di Hinata, per quanto la parte dell’ignaro
tonto l’avesse fatta lui.
“Non c’è
modo, dunque, per salvarlo?”, inquisì infine il biondo, sentendosi così
impotente dinanzi alle insidie di quella mente perfida e piena di malizia.
“C’è, ma
ho bisogno del tuo aiuto.”
“E dopo?
Che ne sarà di lui? Insomma, è un suicida … Lui stesso ha ucciso! Non …”
“Naruto,
per quanto vi sforziate, voi viventi non riuscirete mai a comprendere quanto la
misericordia di Dio sia più grande di qualsiasi peccato si possa commettere. E
non è buonismo, ciò che intendo. Lui vede al di là di ogni cosa.”
“Allora,
perché non …?”
“Perché
ci vuole liberi nelle nostre scelte, tanto è il Suo amore, non come l’altro che basa i suoi sacrileghi
traffici sull’infida legge del do ut des.
Molte volte ha steso la mano per aiutare il mio amato, anche quando
quest’ultimo si rifiutava di prenderla. Sì, Naruto, non lo ha mai abbandonato,
è stato il contrario. Itachi quella
notte voleva morire. L’ho sentito.
Non voleva essere salvato, sebbene sotto la coltre di orgogliosa follia egli
stia ancora urlando al soccorso.
Ho
pianto di rabbia e impotenza mentre assistevo alla sua caduta, guardandolo
trasformarsi lentamente nel mostro che non era mai stato, che non è.
E ho
digrignato i denti alla vista di quello
che lo accecava con false promesse di giustizia, portandolo a levare la mano
sui suoi stessi discendenti, i figli della nostra creatura per la quale in vita
aveva molto sacrificato pur di proteggerla.
Non ho
potuto fare niente, questo mi addolora immensamente. Il suo odio e la sua
tristezza respingono ogni tentativo di conciliazione e perdono, arrivando a
renderlo inaccessibile a chiunque, perfino a me. Tu, invece, apparentemente sei
immune alle subdole macchinazioni dell’altro.”
Naruto
emise un ibrido da uno sbuffo scettico e una risatina rassegnata. “E perché
mai? Sono ben lungi dal giocare al buon samaritano o all’eletto! Da quando le
nostre strade si sono scontrare, provo per il tuo amante pena e al contempo
rancore, l’ho giudicato senza pormi tanti problemi e talvolta vorrei …!”, ma
per rispetto al suo interlocutore, il biondo s’interruppe in tempo, evitando di
estraniargli pittoreschi progetti di vendetta.
“La mia morale m’impone di perdonarlo, eppure non ci riesco. Ha fatto
del male ad Hinata, ha rubato la mia vita, ha ucciso dei miei lontani parenti e
… e …! Perché dovrei fare la differenza rispetto agli altri, dattebayo?!”
“Anche
tu ti eri perduto e disperavi in un aiuto negatoti, sguazzando nel frattempo
nell’afflizione e nell’aggressività verso Dio e il mondo intero.”
Intuendo
immediatamente a quale episodio della sua vita Kisame stesse facendo
riferimento, il biondo arrossì fino al violaceo, protestando vivacemente: “Che!
Come fai a saperlo, dattebayo? Mi hai spiato, razza di pervertito?”
“Varé là,
vuoi che ti meni? Sono morto, ma posso ancora offendermi, sior mamara!”,
ribatté scocciato l’uomo, elargendogli comunque un bello scappellotto. “No, non
ti ho spiato. Ho solo tentato di
impedire a tuo padre di riverniciare quella porta col suo cervello, visto che,
a furia di dar prova della tua caparbia idiozia, lo hai costretto a sbatterci
continuamente la testa!”
“Papà ti
ha fatto compagnia?”
“Sì,
finché non hai accantonato il tuo stupido orgoglio e non hai afferrato la mano
tesati dalla tua dievòtchka!”
Naruto
ridacchiò, massaggiandosi il capo leggermente dolorante dalla scoppola.
Effettivamente, aveva esorcizzato tutti i suoi demoni interiori e si era
riconciliato con Dio e gli uomini soltanto nel momento in cui Hinata era
entrata timidamente nella sua vita, accettandolo così com’era – cioè poca cosa,
o almeno così lui si considerava – senza chiedere nulla in cambio. Oh, non che
lei si fosse comportata sempre da santa crocerossina, anzi!, ma … ma lo aveva
soccorso, senza sperare di cambiarlo come persona, solo di aiutarlo a capire se
stesso e a riconoscere quanto futile fosse stata la sua ribellione spirituale e
morale. E comportamentale.
Un
balsamo che tutti avrebbero il diritto di avere.
“Capisco”,
sospirò Naruto, rimettendosi in piedi. “Mi sarebbe davvero piaciuto aiutarvi,
ma temo che ormai sia impossibile. Hanno vinto, Kisame!”
Reclinando
il capo, l’uomo inquisì: “Di che accidenti stai blaterando?”
Allargando
le braccia, Naruto gli rivelò rassegnato: “Ormai sono morto! I quattro minuti
sono passati! La vostra discendenza è finita. Hanno vinto!” e gli sarebbe
venuto pure da ridere, se la situazione non fosse stata talmente tragica. E
stranamente, sentiva un’anomala sensazione di benessere percorrergli le ossa,
l’ombra del rimpianto bandita da ogni suo pensiero come se tutto si fosse
compiuto nel migliore dei modi.
“A te
l’acqua salsa fa davvero un brutto effetto”, commentò incredulo Kisame,
alzandosi. “Ma va bene così. Del resto, al
mato e al paron, darghe sempre raxon!”, citò, dirigendosi verso la porta.
“Andiamo, allora?”
Andare?,
rifletté Naruto. E perché no? Ora che la guardava meglio, quella porta non gli
appariva più così tanto minacciosa …
“Dunque
… questo è un addio, Kisame?”, si voltò all’ultimo il biondo verso l’uomo,
bloccando a mezz’aria il gesto di girare la maniglia.
Scuotendo
rassegnato il capo, l’altro lo corresse paziente: “Un arrivederci, strambazzo!”
“Non
vieni?”
“Da
solo, no. Lo aspetto.”
Naruto
annuì. “Grazie di tutto, davvero. Sebbene avrei preferito di gran lunga trovare
mio padre al posto tuo … Non sei molto paterno, forse a Mayra è andata infondo
piuttosto bene.”
“Neppure
io mi sono tanto divertito a parlare con te, credimi. La tua stupidità è
urticante e di fatti ho deciso di apparire in sogno al Papa per persuaderlo ad
aprire il processo di beatificazione per tuo padre, che non ti ha soffocato nel
sonno!”
“Sei
proprio uno stronzo, Kisame!”
“Tratto
che tu non hai proprio ereditato”, sentenziò spassionatamente l’uomo,
sorridendo tuttavia. “E manco male.”
Silenzio.
“Quindi,
li rivedrò? Dietro questa porta, rivedrò Mamma e Papà?”
“Sicuro,
che li rincontrerai! Voi viventi siete estremamente effimeri, siete lo
sbadiglio dell’universo! Il tempo di chiudere la bocca e intasate i cancelli di
San Pietro!”
“Dall’immagine
che avevo di loro, mi sa che questa assomiglia più ad una porta di servizio!”,
scherzò Naruto, aspettandosi l’ennesima sagace risposta come: Credi che l’aldilà sia la reggia di
Versailles? oppure Per gli scemi è
troppo difficile riconoscere un cancello da una porta o Crepa e non tarmarmi oltre!
Non
considerò, invece, l’attimo di pausa dietro in cui Kisame indugiò, né quel suo
indicare la sabbia. “Prima di andartene, Naruto, non potresti accordarmi un
piccolo favore? Temo che mi sia caduto qualcosa, me lo raccoglieresti, per
cortesia?”
Quando,
come e cosa aveva perduto fu l’istintiva triade di domande che riempì il
cervello già sconvolto di Naruto, il quale, per preservare la sua sanità
mentale in quel sovrannaturale vaudeville dove lui era lo sfortunato
protagonista, aveva da tempo rinunciato a contestare i fatti per accettarli e
adattarsi di conseguenza. Ciononostante, quella richiesta lo aveva lo stesso
lasciato perplesso. Ma chi era poi lui per negare un favore sì piccolo e
innocuo?
Di
conseguenza, abbandonata l’allettante porta per l’Aldilà, il biondo si spostò
su quello che assomigliava al bagnasciuga, là dove il mare latteo s’incontrava
con la rena ocra, chinandosi e frugando
con gli occhi e le mani alla ricerca dell’oggetto smarrito. “Non vedo niente!”,
esclamò leggermente contrariato e notevolmente spazientito: vero che i morti
non avevano mai fretta, ma quel limbo gli stava dando sinceramente i nervi!
“Piegati
di più.”
“Così?”
“Sì … Un
poco più avanti … perfetto …”
Sbuffando,
Naruto prese a rivoltare la sabbia, imitando alla perfezione un eccitato
cagnolino che seppellisce il suo osso preferito. Che Kisame, a furia di
sniffarsela, non si fosse nel corso dei secoli rincretinito? Non v’era nulla sulla
sabbia! Nulla!
O quasi
…
Ché
infatti i capelli sulla nuca del biondo si rizzarono in allarme, mentre lo
stomaco si contorceva a disagio, conscio della palpabile presenza di un brutto
presentimento. Molto brutto. E l’inquietante risatina di Kisame alle sue spalle
gli confermò ogni sospetto:
“Sai,
putèlo, che cos’è la Spinta di Diomede?”
Avesse
compiuto studi classici, forse Naruto l’avrebbe certamente saputo. Perché la
teoria salva dalla pratica, è risaputo. Come i classici descrivono i vizi ben
ancorati negli uomini, di qualsiasi epoca essi siano.
Tutto
questo il giovane commissario lo imparò a sue spese, maledicendo gli dèi per il
dolore incommensurabile al deretano, nel frattempo che sprofondava negli abissi
lattei di quel mare ultraterreno per ricongiungersi in un folle precipitare
alla sua metà corporea con l’ammonimento del suo antenato ancora ridondante
nelle sue orecchie: Adesso andiamo a
ripigliare il mio consorte! Fallisci e un trattamento simile ti aspetta per
l’eternità! Magra consolazione per uno che aveva appena fatto un
dietrofront last minute a qualche passo dalla soglia della casa dell’Ade.
Quando finalmente
il mondo cessò di ruzzolare e Naruto poté focalizzare il suo sguardo sul paesaggio
più stabile dell’Aldiqua, si rese conto di trovarsi aggrappato simil sirena – o
nel suo caso, tritone – ad uno scoglio, il suo corpo esausto e pieno di
escoriazioni e tagli martoriato dai salmastri schiaffi delle onde, mandando
così in cortocircuito i suoi sensori del dolore, eccitati allo spasimo dal
pizzicore di carne, sangue e sale e soprattutto dai brividi provocati dal vento
sverzante, il quale oltre che a schiaffargli i capelli arruffati sulle gote
graffiate, acuiva la sensibilità della sua pelle raffreddatasi a causa
dell’acqua.
Eppure,
a Naruto in quel momento venne da ridere, sogghignando di pura trionfante
liberazione: non si era mai sentito così vivo,
così in armonia col suo corpo e la natura! Certo, adesso era un patetico
ammasso di carne dolorante e ciononostante, egli gioiva di quelle fitte che
tradivano la sua appartenenza al mondo dei vivi. Respirava avido e
sghignazzante l’irruente raffica proveniente dal mare irrequieto, dando il
benvenuto al sentore elettrico della tempesta, al suo ruggito. Urlò la sua
contentezza e la stanca esitazione che aveva avuto dinanzi alla porta per
l’aldilà svanì completamente.
Guardandosi
febbrilmente attorno in cerca di indizi riguardanti la sua attuale ubicazione,
il biondo constatò di trovarsi sempre nell’isola dell’Abbazia, nella punta che
dava sul mare aperto e non sul golfo. Inoltre, lo scoglio sul quale penzolava
era l’ultimo di una serie di piccoli faraglioni che portavano su di una baia
altrettanto piccola e nascosta da una grotta naturale.
Doveva
raggiungerla.
Se solo
le gambe gli avessero obbedito!
Se solo
le sue mani dalle nocche sbucciate e le unghie spezzate si fossero degnate di
lasciare la loro presa dalla ruvida e viscida roccia!
Lo
sconforto si rimpossessò del suo cuore, i muscoli tesi dallo sforzo di
resistere all’andirivieni delle onde e all’alzarsi della marea. Naruto strinse
i denti, tentò di far leva, borbottando rancoroso nel frattempo: “Stupido d’un
antenato! Credevo che avessi bisogno del mio aiuto, non che avrei dovuto far io
l’intero lavoro sporco!”, imprecò vivacemente, muovendo frenetico gli arti
inferiori.
Un
inaspettato ceffone in pieno viso d’acqua salsa rispose al suo malessere.
“Ahia!
Brutto cesso bipede, quello faceva male!”, protestò indignato il giovane,
sputacchiando contrariato l’acqua entratagli a tradimento dal naso e dalla
bocca. Un secondo manrovescio acquatico lo rimise al suo posto. “Morte e
dannazione, basta! Ho compreso, dattebayo!”, berciò Naruto, azzardando a
scostarsi la frangia bagnata via dagli occhi e rendendosi conto solo in
quell’istante d’aver avuto il pugno sinistro sempre chiuso, come se stesse
serrando possessivamente un immenso tesoro.
Disperata,
invoca indietro il suo dito e il suo anello di fidanzamento: senza non può
entrare in chiesa e lì sposarsi con il suo amato.
“Sei
davvero un farabutto”, ghignò complice Naruto, richiudendo il pugno sul suo
bottino. “Ma per stavolta potrei anche fidarmi di te!”, disse, allentando la
presa sullo scoglio e permettendo che l’acqua lo sollevasse prima e che tramite
la corrente lo portasse a riva, là dove aveva una certa commissione da portare
a termine.
Una
volta per tutte.
Allora,
per ripicca, reciderà gli anulari e ruberà gli anelli delle altre spose, perché
se il suo spirito offeso non potrà trovare la pace nelle nozze agognate, allora
neanche loro l’avranno!
Malgrado
la fine barriera della stoffa, le spine
tormentavano la tenera pelle alabastrina di Hinata, spillandone languide e
pasciute gocce di sangue, che lentamente s’agglomeravano in dense pozze,
macchiandole la camicia da notte. Il ciottolato del vialetto e la ruvidezza
degli scalini di pietra, poi, le avevano raschiato la pelle della schiena,
graffiandola, mentre i lunghi capelli neri avevano raccolto ogni sorta di
sporcizia sul terreno, dalla semplice polvere a delle foglie cadute per via del
temporale. Quanto ai danni di quest’ultimo, Hinata si reputò fortunata per la
sua attuale condizione di bagnata fradicia, poiché quando la sua orrorifica
marcia terminò nel foyer di Villa Nakano, ella aveva spento ogni lacrima secreta
dalle sue ghiandole lacrimali ed era ricoperta da un fine velo di sudore
provocato sia per la corsa folle verso l’uscita da quel luogo maledetto sia per
la genuina paura, realizzando che adesso sul serio non sussistevano altre vie
di salvezza. L’unica consolazione era che, indifesa ai piedi di Itachi, avrebbe
affrontato con dignità il prossimo calvario grazie alla scusante della pioggia
battente.
“Bene,
bene”, schioccò deliziato la lingua il fantasma. “Guarda un po’ chi è ritornato
all’ovile!” e piegò la bocca per i suoi malevoli risolini, trapanando con essi
le orecchie di una sfinita Hinata, la quale nascose il capo tra i suoi capelli
scarmigliati, sperando di sottrarsi a quella vista terribile. “Che fai? Piangi?
Su, fammi vedere come piangi! Debole. Frignona. Inutile Hinata”, la schernì
quella voce roca e sibilante, conficcandosi perfida nel suo cervello e
facendola raggomitolare su se stessa.
Ma ecco,
che una al contrario vellutata e carezzevole nella sua dolcezza riaffiorava dai
suoi ricordi, mischiandosi e sopraffacendo la sua gemella aspra e velenosa: Non mi devi assolutamente domandare scusa,
mia cara, né tantomeno auto-flagellarti per colpe, che non ti concernono … Adesso smettila sul serio di piangere, Hinata,
altrimenti incomincio anch’io … Mi
prometti di non frignottare mai più per certe sciocchezze? … E che mi farai ora
un bel sorrisone?
Era
possibile che tale miele fosse scaturito dalle medesime labbra?
Quali di
queste parole corrispondeva al vero? Chi delle due affermava la vera natura del
loro creatore?
“Maledetto
…”, ansimò Hinata, levando infine lo sguardo e fronteggiando determinata
l’essere chino dinanzi a sé, il quale reclinò interrogativamente il capo,
sorpreso e alquanto inquieto dal modo in cui la mora lo fissava, come se
potesse vedere oltre le sue fattezze
ultraterrene. “Come hai potuto? Con che coraggio ti sei servito di lui,
approfittando della sua disperazione? Vigliacco! Assassino! Lo hai costretto a
vedere! Ad assistere! Che orrida vendetta gli hai proposto!”
La
creatura con le fattezze di Itachi rizzò la schiena, indietreggiando di qualche
passo e rivelando man mano il suo vero volto, ovvero la infida illusione di
bontà dietro lineamenti deturpati dalla malizia e dall’inganno e dalla cieca
alterigia di chi si credeva onnipotente, pascendosi dell’angoscia umana e
instillandola e spronandola ai più turpi istinti. A tale viste Hinata
rabbrividì, rimanendo tuttavia salda nella sua decisione di non abbassare mai
più lo sguardo.
“Itachi
è venuto da me di sua spontanea iniziativa. Si è suicidato. Col suo gesto ha
voltato le spalle a Colui-che-osai-sfidare
e mi ha consegnato la sua anima. Voleva vendetta, l’ha ottenuta. Voleva la
fine della famiglia Uchiha …” e sogghignò, mostrando una fila di appuntiti
denti macchiati di sangue e viscere umane, una bocca troppo animalesca per
essere quella d’un uomo.
“Lui
voleva solo farla pagare ai suoi aguzzini, non sterminare anche la sua
discendenza!”, gridò Hinata, trafficando segretamente dietro la schiena per
liberarsi dalle costringenti piante. “Sei solo un bugiardo truffatore!”
Lo
spirito demoniaco scrollò le spalle di Itachi. “Oh, poverina! Vai a piangere
dalla mamma …”, la sbeffeggiò, piantandole un piede sul petto e spingendola giù
sul duro pavimento. “Avanti, Hinata!”, la sfidò, estraendo il pugnale e
fissandola con occhi esagitati, folli, spalancati, pregni di sanguinolento
vermiglio. “Urla! Dimenati! Mostrami la tua paura! Sai, questo corpo è fatto di
odio e tristezza: il primo, l’hanno provato tutte le vittime-carnefici di
Itachi! Sì, come lo odiarono da vivo, lo odiarono ancor più da morto per il suo
operato! E la seconda, la provò lui stesso per le ingiustizie subite e soprattutto
per aver capito troppo tardi che da me non si scappa!”, gridò eccitato,
afferrando il polso di Hinata. “Odialo, ragazza, odialo con tutta te stessa!
Odia Itachi e tutto ciò che rappresenta! Più lo odierai, più renderai tangibile
questo corpo! Più lo odierai, prima giungerà la tua fine! Più lo odierai, più
la anima d’Itachi verrà consumata dalle fiamme nere dell’inferno … Il mio regno
… Nel quale, Hinata, presto sarai anche tu la benvenuta!”
Afferrando
l’arto dell’avversario e digrignando i denti per l’ustione che quel contatto le
provocava, Hinata replicò a tono alla sfida: “Io non odio lui, ma te! Tu, la
causa di tutto! Bestia annoiata, volevi divertiti per l’ennesima volta con le
vite degli altri, vero?”
La
stretta si fece brutale, incrinando pericolosamente le delicate ossa del polso.
“Sei tu che mi annoi, sgualdrina …”, ribatté gelido, offeso, eppure gustando
l’attimo in cui il patto sarebbe stato definitivamente onorato, conferendogli
il dominio su quelle tanto succulente anime sui cui aveva posato gli occhi
quasi due secoli fa. Oh, ne aveva molte altre da catturare sgranocchiare, ma
nessuna caccia s’era rivelata alla fine essere un gioco così spassoso … “Au
revoir, ma chère et stupide Hinata …”
E calò la lama.
Sul suo
petto.
“Tu …
traditore … ingannatore … per questo ti eri … ritirato così subitaneamente? Per
… per attendere un mio attimo di distrazione …?”, boccheggiò furioso l’essere
immondo, guardando stupito il pugnale conficcato nelle carni di Itachi, mentre
sempre più copiosi rivoli d’acqua salsa scendevano possenti, ultraterreno
sostituto del sangue.
“Hinata … amica cara …”, ansimò invece
quella voce, che la mora conosceva molto bene e un sorriso le illuminò il volto
stanco alla vista dell’occhio nero rifare capolino dallo scarlatto delle iridi
infernali.
“Itachi!”,
si liberò ella dalle costrizioni delle piante, correndo al suo fianco,
sennonché questi indietreggiò bruscamente, allontanandosi da lei.
“Vai via … scappa lontano … Non permettere
che ti prenda … Fui uno sciocco … Non merito il perdono di nessuno …”,
pianse l’occhi nero, mentre quello scarlatto s’illuminò di crudele gusto. “Ah!
Adesso ti penti per quel che hai fatto?
Troppo tardi, mio caro, troppo tardi! … Taci! Mi hai tormentato a sufficienza! … Tormentarti? È solo
l’inizio, stolto! Per il tuo tanto caritatevole – puah! – gesto, mi diletterò a
straziare la tua lurida pellaccia per l’eternità! … Fallo, me lo merito! … Ma non avrai lei! … Non l’avrai! … Scappa,
Hinata! … Vai da Naruto! … Lui ti aspetta … Lui ti ama … La tua anima per
il giusto castigo, questo ti promisi! Questo pattuimmo! Io ho rispettato il
patto! Io ho fatto la mia parte! Ora tocca a te! Insieme, come abbiamo fatto
per questi due secoli! Avanti! Amputale il dito così da condannare alla follia
e alla morte anche l’ultimo tuo discendente! E la tua vendetta sarà finalmente
compiuta! … No, basta! … Basta col sangue! … Basta con la vendetta! … Non voglio!
... Hinata … Ti prego! Ti supplico! … Vattene via, ora!!!”, ruggì di
dolore, ghermendosi le braccia e conficcandosi le unghie nelle carni, tutto pur
di impedire di avanzare verso l’atterrita e confusa giovane, la quale in verità
aveva invece allungato un braccio per soccorrerlo. Braccio che le fu
prontamente afferrato da una figura alle sue spalle.
“Non hai
sentito, stupida? Mettiti in piedi e inizia a correre, disgraziata!”
“Ma …
Itachi …”
“Lo
aiuteremo, stanne certa, incominciando
dall’abbandonare Villa Nakano!”, replicò spazientito Sasuke, trascinandola via
di peso dal foyer verso il portone d’ingresso, che si ricordò di spalancare
visto la condizione molto corporea di Hinata. “Non guardarti alle spalle, corri e basta!”
La
giovane Hyuuga annuì e si sforzò a non imitare la sua più incauta controparte
mitologica, Orfeo, per quanto la curiosità – dettata dal terrore - di sapere
che cosa mai potesse esserci alle loro spalle la divorasse. E la sua fu
un’ottima scelta, quella di dar retta a Sasuke, giacché, soppressa
completamente la coscienza di Itachi, lo sgradevole ospite del suo corpo lanciò
un ringhio gutturale che avrebbe fatto accapponare la criniera del più feroce
dei leoni.
“Prendeteli!”,
ruggì, battendo frustrato i pugni per terra. “Prendeteli e fateli a pezzi! Sviscerateli!
Squartateli! Strappate loro il cuore! In questo modo avrò il suo dito anche
senza doverglielo tagliare!”
Dalle
pareti, dal pavimento, dall’aree stesso si raggruppò la sua schiera infernale,
mettendosi subito alle calcagna dei fuggitivi come una nervosa muta di cani da
caccia.
D’oro,
d’argento, col diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, il rubino, il topazio, l’acquamarina,
…
Che
importa?
Li
avrà tutti!
“E
adesso, bis? Da che parte dovrei
andare?”, riecheggiò la domanda di Naruto nella grotta, il naso all’aria e le
mani portate sui fianchi. Da quindici minuti buoni girava per l’angusto e buio ambiente,
avanzando circolarmente con l’acqua fino alle ginocchia.
Contro
ogni logica della corrente marina, le onde si focalizzarono su di un punto
oscuro della caverna, sbattendoci contro il biondo, il quale rischiò più volte
il tuffo a causa della perdita d’equilibrio. Una in particolare lo gettò su di
un masso e fu aggrappandosi ad esso per non finire sottacqua, che le dita
scorticate di Naruto percepirono la famigliare regolarità di un grandino.
“Scale?”,
cogitò il giovane commissario ad alta voce, avanzando per un tratto a gattoni. “E
dove portano?”
Alle catacombe dell’Abbazia, rispose tra uno sciabordio e
l’altro l’eco della voce di Kisame. Prima
di divenire un luogo di culto, l’isola
fungeva da rifugio contro eventuali invasioni dalla terraferma. Taluni
ipotizzano che il primo nucleo cittadino di Kiri si sia formato qui. Chissà. In
ogni caso, dalle antiche catacombe era stato costruita una via di fuga che, in
caso di conquista dell’isola dal golfo, permetteva alla popolazione di
sgattaiolare via per il mare: in questa
grotta, infatti, solevano essere attraccate le navi della salvezza.
“Ingegnoso”,
sputacchiò Naruto l’acqua occasionalmente ingoiata, seguitando la sua
difficoltosa salita: il tempo e le maree avevano tappezzato gli scalini
naturali di alghe, patelle, qualche sporadica colonia di cozze legate dalle
loro barbe e, mettendo una mano nell’angolino sbagliato, il biondo s’accorse da
un offeso pizzicotto che pure i granchi vi avevano reclamano domicilio. “E
dimmi”, riprese ansimando dallo sforzo, i muscoli delle braccia che gli
tremavano. “Come mai questo stato d’abbandono? Dai diari del tuo cognato, mi
immaginavo l’Abbazia come un’ottava meraviglia del mondo, non un ammasso di
rovine!”
All’inizio del Novecento ci fu un
terribile maremoto, che distrusse la chiesa e il monastero con essa. Si salvò
soltanto l’abside col mosaico raffigurante il Cristo Pantocratore, come hai
potuto tu stesso appurare.
“E tu
non ne sai niente a riguardo?”, inquisì Naruto, che apparentemente s’era
abituato a parlare coi morti o col mare o con entrambi con la medesima
naturalezza di coloro che s’accorgono di trovarsi nel bel mezzo di un sogno e
che quindi niente delle loro oniriche vicende potesse lontanamente corrispondere
alla meno possibilista realtà.
Non sono affari che ti
riguardano. Ora procedi dritto e, quando ti imbatterai nella botola, vedi di
aprila senza …
Stremato
dall’estenuante scalata, i nervi a mille e le labbra bluastre raschiate dalla
salsedine, Naruto, incontrando la debole opposizione del legno gonfio e marcio
della botola, si girò sul fianco e, tramite un violento calcio, la fece volare
di qualche metro abbondante.
… distruggerla.
“Troppo
tardi, sorry”, bofonchiò il biondo, ignorando certi inquietanti movimenti
all’interno del suo ventre dovuti all’acqua effettivamente gelida del mare.
Allungando il braccio e infilandolo alla cieca tra i resti di legno, vagò alla
ricerca di un appiglio abbastanza saldo da permettere di issarsi e sgattaiolare
dentro l’ambiente più buio e putente dentro cui il giovane uomo avesse mai
messo piede. A mo’ d’accoglienza, infatti, gli venne incontro una zaffata
fetente di muffa, di umido, di alghe in decomposizione e di escrementi e di
urina alla cui specie di appartenenza Naruto non osò neppure immaginare,
reprimendo invece un sempre più insistente conato di vomito. Ingollando saliva,
frugò nella borsa a tracolla rimastagli miracolosamente addosso e pregò che la
torcia non fosse andata a remengo. Per una volta la dea bendata parve volersi
alleare con lui, persuadendo la torcia dopo una serie di ceffoni alla pila ad
assecondarlo e ad illuminare quel labirinto di morte e di puzzo col suo flebile
seguipersone in miniatura. “Un posticino
molto pittoresco”, scherzò il giovane commissario con una vocina flebile
flebile, atta più che altro ad infondersi coraggio e a cessare l’insistente
tremito alle gambe e i rivoltamenti dello stomaco. Pensò ad Hinata, ai suoi
capelli neri, al suo collo sottile, alle sfumature viola dei suoi occhi
illuminate di ridente gioia il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo,
sovrapponendole con veemente tenacia alla sconfortante vista delle innumerevoli
bare ammucchiate in pericolanti pile come delle valigie vecchie dimenticate in
un’assai disordinata cambusa o soffitta. Distolse lo sguardo là dove gli
scossoni e l’equilibrio precario aveva fatto ruzzolare alcune di queste lerce
casse, riversandone scompostamente i loro macabri contenuti sul pavimento unto.
“E
adesso? Da dove incomincio, dattebayo?”, esclamò sfibrato Naruto, l’eco della
sua perplessità che si burlava di lui maligno, ricordandogli la sua impotenza
dinanzi a simile fatica d’ercole. “Ci saranno almeno centinaio di casse, senza
contare le urne nei colombari! Sarebbe come cercare un ago in un pagliaio!”
Certo, convenne la voce di Kisame da
basso, ma noi cerchiamo un ago prezioso,
che perfino nel mucchio sarebbe troppo impudente lasciarlo incustodito nella
massa.
“E
grazie tante, savia sibilla! Parla schietto che … non … ti … capis-…”, rallentò
il biondo la sua protesta, scorrendo i suoi polpastrelli macerati dall’acqua sui
ruvidi stipiti delle piccole celle, nel frattanto che la sua mente rielaborava
le istruzioni offertegli.
Dopodiché,
sorridendo peggio del Cheshire Cat, elargì un possente calcione alla prima
inferriata, la quale cadde all’indietro in un sordo tonfo, schiacciando le bare
più vicine e sollevando un gran polverone. “Fuori una!”, gridò battagliero
Naruto, passando velocemente alla sua vicina e ben presto il vecchio cimitero
sotterraneo si rianimò in una rumorosa sequela di ferrose percussioni, finché
il giovane raggiunse l’ultima rimasta, massaggiandosi le gambe indolenzite e
battendo per terra i piedi doloranti da quei violenti impatti. Prendendo una
piccola rincorsa, Naruto colpì la grata, lanciando un colorito improperio
quando essa resistette al suo assalto, restituendogli la forza del colpo che
risalì dolorosamente dal piede fino al suo cervello, facendolo trillare come i
campanelli suonati nei match della box.
“Brutta
vacca d’un’inferriata, dattebayo!”, grugnì a denti stretti l’uomo, zoppicando
leggermente verso le bare sfracellate e, selezionando i pezzi più grossi e
robusti, li sistemò sulla sua ostinata opponente. Aveva studiato, che quelle
antiche tendevano ad essere costruite con una struttura a cerniera, quindi
… “E adesso vediamo, se fai ancora la
stronza! … Tre … Due … Uno … ‘Fanculo agli Uchiha, che il diavolo se li porti
viaaaahhh!!”, urlò dallo sforzo e dalla sorpresa di essere trascinato dalla
grata che, cedendo ai suoi metodi da evaso, lo scaraventò in mezzo a delle bare
semi-ammuffite e ricoperte da fitte ragnatele, le quali Naruto scoprì essere
tutte ricolme di sassi, tranne una, celata vergognosa nell’angolino più buio
dell’umida cella.
“Finalmente
… ti ho trovato …”, si permise egli il piccolo lusso di un sorriso liberatore,
per poi ritornare assurdamente serio e rimettersi al lavoro. Spaccò senza tante
cortesie le chiusure arrugginite che tenevano fissato il coperchio, infilando
l’ennesimo pezzo di legno tra la piccola fessura concessagli dai chiodi ormai
neri, che non tardarono a volar via alla minima leva. Infine, asciugandosi con
la manica la fronde madida di acqua salsa e di sudore, Naruto afferrò con
ambedue le mani il coperchio per rimuoverlo definitivamente, il cuore che gli
stava per uscire dalla gola. Trattenne il fiato e lo rilasciò in
un’esclamazione sorpresa non appena vide ciò che si celava dietro quel pezzo di
legno scuro e dilatato dall’umidità.
Nulla
aveva scalfito il corpo di Itachi, né i vermi né il tempo né l’odio e la
tristezza che gli avevano conferito quel suo aspetto inorganicamente splendido
e soggiogante. Come una modesta Bella Addormentata nel Bosco, appariva al
contrario estremamente spossato, fragile e indifeso nella sua immacolata tunica
bianca, con le sue mani cingenti timidamente il rosario, con i suoi capelli bianchi seminascosti dal
velo-sudario e con le sue occhiaie bluastre sullo sfondo esangue della sua
pelle lattea, occhiaie di chi s’era cavato gli occhi a furia di piangere.
Era
dunque questa mater dolorosa la fonte
di tutte le sue disgrazie, cogitò disorientato Naruto, fissando incerto e
confuso quella salma sorprendentemente incorrotta. Era lui la persona su cui
avrebbe potuto sfogare il suo rancore? Oh, la tentazione era invero così forte
e molesta! Insistente!
Aveva la
Sposa – l’incubo di Konoha e di Kiri - alla sua mercé!
In suo
potere!
Avrebbe
potuto infierire su quel corpo in qualsiasi modo gli sarebbe più garbato, magari
squartandolo come un pollo, o tagliuzzandogli la lingua, o sfregiandogli i
lineamenti aristocratici, o conficcandogli dei paletti nel cuore e spilli negli
occhi, o spezzandogli le ossa, o strappandogli i capelli e i denti, o sputandoci
o addirittura pisciandoci sopra, o ficcandogli fango in ogni orifizio o … o … o
tutto, tutto pur di sfogare l’enorme
rabbia e paura e frustrazione provocatogli dal suo progenitore. Per colpa sua,
degli innocenti erano morti, lui stesso aveva quasi varcato la soglia
dell’Aldilà! Avrebbe pagato per i suoi crimini!
Eppure …
eppure …
Che ne
avrebbe guadagnato?
Si
sarebbe forse sentito meglio?
E
soprattutto, aveva lui diritto di giudicare?
Ma la
sete di vendetta! Quell’agrodolce, allettante, brama di schiacciare e godere
dell’angustia del suo antico tormentatore … Anzi no! Sfruttando Itachi, si
sarebbe vendicato di tutti e a tal pensiero la bocca di Naruto si piegò in un
sadico mostruoso ghigno alla vista di coloro che gli rovinarono l’infanzia strisciargli
ai piedi come vermi, raggomitolandosi peggio di ossuti cane rognosi bastonati e
supplicandolo di avere pietà di loro! Che vista! Che goduria! La vendetta! La
vendetta!
Gli
tremarono le mani dall’eccitazione.
“Sì, mio caro …”, gli insidiò le orecchie
una melliflua voce da tenore di grazia “Vendicati
di Itachi … Distruggi il mostro … Annientalo e ghermisci le sue facoltà e così
… così … la farai pagare a quei porci che ti fecero soffrire … che ti
umiliarono … io conosco il tuo cuore, Naruto … io ti comprendo … io so a cosa
tu aneli e te lo posso offrire … perché io sono generoso … si prostreranno
dinanzi a te … ti ameranno … non ti abbandoneranno mai né ti tradiranno … non
sarebbe meraviglioso? Ma prima … prima dovrai dividere il corpo di Itachi in
sei parti e bruciarli in cinque specifici punti dell’isola, pronunciando poi …”
e si fermò astutamente burlona.
Preso
dall’impazienza, il biondo la spronò bruscamente a continuare, inumidendosi le
labbra screpolate e piene di sale. “Cosa …? Cosa?!”
Ghermendolo
con le sue filiformi dita d’ombra e fumo, essa increspò vittoriosa le labbra,
sussurrandogli all’orecchio la formula per la sua rovina.
“Avanti … distruggilo, Naruto … Distruggi la
Sposa e vendicati!”, lo incitò la voce, mettendogli nelle mani un’ascia che
il giovane uomo neppure sapeva da dove fosse sbucata, ma poco gli importava
giacché, dopo averne saggiato il ligneo manico, la levò in alto contro la salma
di Itachi, gli occhi puntati verso il basso.
“Distruggilo!”
E il
sibilo del metallo fendette l’aria putrida e densa della cripta in un fischio
blasfemo …
Questo
matrimonio non s’ha da fare!
“Da qui
in poi proseguirai da sola”, le comunicò perentorio Sasuke, bloccandosi al
cancello di Villa Nakano e facendo cenno con la testa ad Hinata di varcarlo.
“Ho una piccola incombenza da portare a termine e, onestamente parlando, mi
saresti solo d’intralcio.”
Non
sapendo se considerarsi fortunata per la possibilità di salvarsi
definitivamente da quella follia ultraterrena o se offendersi per il poco
lusinghiero commento, la mora negò col capo, sottolineando la sua risoluzione
di non abbandonare quel luogo orrendo né il suo compagno di sventura. “Quello
ti catturerà e … potrebbe farti del male così da far soffrire ulteriormente tuo
fratello e … non ti posso disertare in questo modo senza aiutarti …”
“Non
darti grandi arie da eroina tragica, pupattola, la mia non era una richiesta”,
tagliò corto e alquanto snervato il fantasma dinanzi alla reazione dell’altra.
Già i suoi sensi percepivano gli altri spettri avvicinarsi sempre di più a
loro, non bisognava perdere un ulteriore secondo di quel tempo così prezioso
appunto perché esiguo. Né voleva rendere vano l’atto di ribellione di Itachi. “Piuttosto,
non senti che tuo cugino e tua sorella ti stanno cercando? Che razza di
screanzata sei, che li fai impensierire così?”
Di
riflesso Hinata si girò in direzione del vialetto che conduceva al centro storico
di Konoha, da dove effettivamente aveva intravisto appropinquarsi alla villa
delle luci meno spettrali, molto probabilmente i fari dell’automobile di Neji.
Quell’unico
appiglio alla terrena realtà destò Hinata dalla sua trance, riportandola a
riconsiderare la data e l’ora e le circostanze che avevano spinto Hanabi e Neji
a guidare fin lì: ovvio, quel giorno lei avrebbe dovuto sposarsi e la sera
prima aveva dormito a casa dei suoi, naturale che, non trovandola nel proprio
letto, i suoi parenti si fossero preoccupati, presagendo alas il peggio. Fu
tentata di andar loro incontro e, in effetti, avanzò inconsciamente di qualche
passo.
“Sasuke!
Come facevi a …?”, inquisì stupefatta la mora, sobbalzando all’indietro quando,
voltatasi distrattamente, si ritrovò le sbarre del cancello a qualche
centimetro dal suo naso. Approfittando di quell’attimo di distrazione, Sasuke
l’aveva spinta discretamente fuori da Villa Nakano, chiudendo a chiave il
cancello, sulle cui aste di ferro battuto incominciavano ad avvinghiarsi dei
letali serpenti d’edera, nascondendo gradualmente il corpo del fantasma alla
giovane.
“Sei
davvero un pazzo, un insolente, un cocciuto!”, protestò furiosamente sconvolta
Hinata, afferrando le sbarre e tentando di spezzare quei verdi rami. “Perché
hai usato mia sorella e mio cugino per ingannarmi?”
“Ah! E
che ti aspettavi da uno che sta marcendo all’inferno?”, la schernì sardonico
Sasuke, gettando il capo all’indietro e ridendosela alla grossa senza però con apparente
gusto. “Ho già perso una volta mio fratello, non lo lascerò affrontare
quest’ennesima prova da solo. Qualunque destino m’attenda, lo accetterò”, le
confidò, addolcendo lo sguardo.
Hinata
avvertì un famigliare pizzicore agli occhi, guardando impotente la coltre di
edere mangiarsi il viso del fantasma.
“Via
quelle lacrime, frignona! Mica sei al mio funerale!”, la consolò Sasuke,
allungando attraverso l’inferriata il braccio ed elargendole un paternalistico
buffetto sulla guancia. “E à propos di
funerale, riferisci al dobe che mi
deve una Messa di suffragio: salvargli costantemente le chiappe da colui che
s’è approfittato di mio fratello è stato uno sforzo notevole, sono stato
costretto a venir a patti perfino con mio cognato! Ergo, se si dimentica di me,
appena lo rivedo nell’Aldilà gli cambio i connotati a furia di pugni!”
“Ma …”
“Adieu,
Hinata. Stammi bene!”, la spinse via il moro, indietreggiando e permettendo
così che l’edera gli nascondesse la visuale, fungendo da impenetrabile barriera
che Hinata tentò ripetutamente di distruggere, sennonché più ella strappava più
essa ricresceva e molto più rigogliosa di prima.
“Sasuke!”,
urlò Hinata dall’altra parte. “Sasuke!”, strillò, abbassando sconfitta il capo
e serrando le labbra per non piangere. Si riebbe soltanto quando avvertì le
braccia della sorella che la cingevano, forzandola ad incrociare i rispettivi
sguardi.
“Sorella!”,
esclamò apprensiva Hanabi, che a momenti s’era gettata dalla macchina ancora in
corsa. “Che ci fai qui? Come mai non eri in camera tua? Ti abbiamo cercata
dappertutto! Cos’è successo? Questi graffi! Questi strappi! Rispondimi, Hinata!”
“Hanabi,
lasciala respirare, la stai soffocando!”, sciolse Neji la cugina maggiore
dall’abbraccio febbrile della minore. Poi, rivolgendosi alla parente: “Hinata,
che t’è saltato in testa di sparire così, senza avvertire nessuno? Ci hai fatto
prendere un colpo! La gente già vociferava di maledizioni e ballate e
spose-fantasma e … Che accidenti è accaduto al cancello?!”, gridò sconcertato,
fissando inebetito dallo stupore la monumentale entrata di Villa Nakano, che
ora ricordava più che altro la siepe di un labirinto.
“Niente!”,
dichiarò decisa Hinata, riprendendosi dal suo incantamento. “Assolutamente
niente di cui preoccuparsi! Ma andiamocene via! Ritorneremo forse più tardi!”
“Ma …”,
tentarono i due parenti di obiettare, tuttavia la mora li interruppe con fare
determinato, posando le mani sulle loro spalle.
“Un
giorno vi spiegherò tutto, per quanto sono certa che difficilmente mi
crederete. Non so. Ora come ora, però, fidatevi di me: andiamocene e non ci
accadrà nulla di male!”, disse, correndo lei per prima alla macchina e ben
presto seguita dagli interdetti congiunti.
“Spero
che tu sappia quel che stai facendo”, condivise Neji i suoi pensieri con la
cugina. “E soprattutto, che tu sappia spiegarci la scomparsa di Naruto dall’ospedale!”
Hinata
annuì stancamente, senza però degnarlo di una pronta risposta, gli occhi
puntati sulla minacciosa silhouette di Villa Nakano che si rimpiccioliva man
mano che procedevano verso la loro casa natale. Rigirando piena d’angoscia l’anello di
fidanzamento sul dito graziato dalla furia della Sposa, ella lo portò alle
labbra, mormorando tra sé e sé: “Ritorna presto, amore mio, ti prego, ritorna
presto …” e, nascondendo il viso tra le mani tremanti, biascicò un
singhiozzante Requiem aeternam per le
anime ingannate e prigioniere che ancora vagavano inquiete in quella dimora di
morte e di odio.
Irruppe
infine in un pianto liberatorio tra le braccia compassionevoli di Hanabi,
domandandole d’impeto perdono per tutte le malegrazie compiute durante
l’infanzia e ripromettendosi di essere una sorella migliore.
Confusa
e un poco imbarazzata da tale crollo di nervi, Hanabi si limitò ad assecondarla
convenendo, accarezzandole la testa sotto lo sguardo meditabondo di Neji.
Dalle
piccole fessure lasciate dalle pianti rampicanti, Uchiha Sasuke aveva assistito
in silenzio alla fuga di Hinata e della sua famiglia, sospirando di sollievo
per aver evitato il compimento della maledizione e la dannazione eterna sua,
del fratello e del suo casato. Rimanendo ritto davanti al cancello, ascoltava
attento ogni singolo rumore, valutandolo e decidendo la strategia da adottare. Ciononostante,
si stupì dell’improvviso gelo che gli serrava letteralmente le caviglie, immobilizzandolo e impedendogli ogni
tentativo di fuga.
E se
avesse potuto respirare avrebbe trattenuto il fiato per il terrore, non appena
un famigliare braccio gli pesò sulla spalla, circondandolo a mo’ di grottesco
affetto.
“Cesserai
mai d’intrometterti negli affari che non ti riguardano, stupido fratello?”
Per
l’eternità!
…
fischio che terminò in uno strido liberatore di ferro cozzante contro pietra e
mattoni, ben presto accompagnato da un grido tanto indignato quanto sorpreso.
“Lurida
bagascia …”, fischiò Naruto in tono di sfida, voltandosi verso il soffiante
spirito maligno che aveva assunto le fattezze della madre superiora. “Pensavi
di fregarmi una seconda volta? Prima tenti di affogarmi e poi mi proponi di
prendere il posto di Itachi? Ho scritto forse giocondo sulla fronte?”, strillò istericamente incavolato,
indicando con un indice accusatore l’ascia che giaceva innocua per terra,
lanciata da un furibondo commissario contro il fantasma sul cui stomaco ancora
faticava a ricucirsi il foro lasciatovi dalla mannaia volante.
“Tu …
maledetto … infame … figlio di …!”, schiumò l’orrida fiera antropomorfa,
passandosi la sua putrida lingua verdognola sulle zanne giallastre. “Tu non
potevi sapere! … Non dovevi discernere! Come …! Come …?!” e i suoi occhiacci
d’iguana si strinsero di arcano terrore alla vista dell’acqua del mare lambente
pigramente dolce le caviglie di Naruto e la bara di Itachi. “Thàlassa!”, urlò essa, strappandosi i
capelli di corda e stoppa. Credendosi seducentemente informe, s’era illusa di
avvelenare la mente di Naruto con false promesse, inconsapevole invece del suo
riflesso svelato dalla scura superficie acquatica, lo stesso che il biondo
aveva scorto prima di lanciare l’ascia. “Il mare! … Thàlassa! … Ecco perché
ridevi! … Ridevi di noi, perfido voltagabbana! Thàlassa!”
“Osud!”,
replicò il biondo, sogghignando trionfante. “Sì, il mare si sta sganasciando
dalle risate, poiché stasera la Sposa si ricongiunge al suo consorte!”, ruggì battagliero,
chiudendo in fretta il coperchio della bara e, afferrata quest’ultima, si
accinse ad uscire dalla cella.
“No!”,
gli bloccò la strada lo spirito, gli occhiacci di bragia. “Tu non oserai!”
“Io
oserò quanto mi pare, dattebayo!”, iniziò Naruto a spingere la bara contro il
fantasma stesso, che inorridì alla vista del legno che transitava
tranquillamente attraverso le sue viscere, invece di essere da esse respinto.
“E sarai tu stavolta a cedere il passo!”, gli assicurò, passando anche lui e
rabbrividendo al gelo bollente che caratterizzava l’essenza di quella presenza
demoniaca.
“Chi ti
credi di essere … Naruto-moccoloso?”
“Naruto-cagasotto-piscialetto?”
“Naruto-testa-quadra?”
“Chi,
spazzatura vivente?”
Il cuore
del biondo ebbe un sobbalzo e le sue iridi celesti si dilatarono e represse a
malapena un brivido freddo alla vista dei suoi ex-bulli degli anni scolastici che
lo circondavano, scuotendo minacciosi i piccoli pugni e i bastoni e i sassi con
cui solevano percuoterlo fino a stordirlo, per poi finire l’opera maestra
trascinandolo nelle toilette e lì tentandolo di affogare, uno che gli teneva la
testa ben ferma dentro il cesso e l’altro che tirava lo sciacquone.
Naruto
inalò ed espirò febbrilmente l’aria, ingoiandosi a momenti le sue medesime
labbra tanto serrava la bocca.
“Ho trentun
anni, ormai”, sibilò feroce. “E certe merdacce
le ho già da tempo esorcizzate!”, ringhiò, scostando via infastidito col
braccio quelle proiezioni, le quali evaporarono, permettendogli di avanzare di
qualche passo col suo pesante fardello.
Essendo
la botola troppo stretta per la bara, purtroppo non gli restava che risalire
fino ai ruderi della chiesa. Il suo opponente lo sapeva e per questo aveva
deciso di approfittarne spudoratamente.
“Naruto
…”, lo appellò una vocina a lui tremendamente nota. L’interpellato in questione
strinse le palpebre, assordandosi da sé. “Perché non corri da me? Perché non mi
salvi? La Sposa mi ha fatto prigioniera, vuole il mio dito e il mio anello!
Salvami da Itachi! Distruggilo! O conto così poco per te?”, disse, appoggiando
le sue delicate manine candide sulle sue più robuste e brune.
“Hinata
…”, gemette Naruto, scuotendo il capo. “Se fossi la mia Hinata, non mi
chiederesti mai di fare del male a
chicchessia …” e alzò lo sguardo. “Ergo, vattene via, anima dannata! Chetati e
lasciami passare!”, esclamò, conquistando altri preziosi centimetri, mentre la
figura della fidanzata si disgiungeva e si ricomponeva in un confuso arabesco
di fumo.
“Anche
se mi ha ucciso?”
“Sono
addolorato per la sua morte, signora Koharu, ma è anche vero che lei non ha
mosso un dito per aiutare Itachi o le sue vittime, s’è limitata a guardare e
basta!”
Ancora
qualche passo …
“E io?
Che colpa ne avevo io?”
Le scale
che s’avvicinavano …
“Pregherò
per la tua anima, Tenten, altro non posso fare per te.”
La punta
della bara toccò il primo gradino …
“Ci restituirai
tu le dita che ci ha mozzato?”
Sollevare
… trascinare …
“Andatevi a lamentare dal vero architetto di questa
schifosa messinscena!”
Un
gradino … e un altro … e un altro ancora …
“Che
razza di garante della giustizia sei, allora? Che non punisce chi ti sottrasse
la tua famiglia, i tuoi diritti, la tua fortuna! Se non fosse stato per Itachi, altro che il
povero, maltrattato, emarginato Uzumaki Naruto! Saresti stato uno di noi! Il
vanto di Konoha, il fior fiore dell’aristocrazia!”
Rabbia e
sdegno.
“Voi tra
tutti dovreste stare nel silenzio più assoluto! Voi avete spinto il sangue del
vostro sangue a divenire il vostro carnefice, a trasformarsi nella vindice
Sposa! E se fosse stato per voi, Uchiha, la mia antenata poteva morire in fasce
avvelenata e di certo non sarei qui a darvi il benservito!”
Inoltre,
lui aveva conquistato tutto ciò che gli serviva, la sua dignità, il suo nome,
una nuova famiglia. Con le sue forze, con la sua tenacia e non aveva bisogno di
lordarsi l’anima per un palliativo di vero amore.
“Non lo
farai neppure per me, tesoro mio?”
Un
sospiro penoso.
“Sei
morta prima ancora che imparassi a seguire seriamente i tuoi consigli, mamma …
E’ troppo tardi, ormai.”
Ma non
abbastanza da vedere i primi bagliori della luce del meriggio infiltrarsi
dall’uscita.
“Quindi
sei proprio il figlio di un vigliacco, vero Naruto?”, sennonché l’ultima prova
gli sbarrò il passaggio, stagliandosi contro quel fascio luminoso come una
minacciosa nuvola nera foriera del temporale. “Come me.”
Appoggiando
finalmente la bara sulla soglia della porta, il biondo si stiracchiò in una
postura più eretta, fissando amorevolmente il volto deluso di suo padre.
Dopodiché, inaspettatamente, cadde in ginocchio, trattenendo le lacrime.
Amore
mio, amore mio!
Plick.
Plick.
Macchiava
e colava il denso e vischioso liquido nero dal petto di Sasuke, là dove un
tempo batteva il suo cuore e dove ora beveva avida la spada infernale del
grande nemico. Si sentì vacillare le gambe ed annebbiare la vista, conscio si
essere stato trafitto con l’unica arma in grado di ferire gli spettri, un ferro
diabolico per il suo altrettanto demoniaco padrone.
“Devo
ammettere che la vostra patetica ribellione aveva un che di commuovente, pareva
la trama di un romanzetto d’appendice: i due fratelli, divisi per secoli da
grande odio, si perdonano a vicenda e insieme combattono il drago per salvare
la pulzella di turno!”, gli rivelò velenosamente scherzoso lo spirito maligno,
la cui espressione dimostrava però tutto meno che giocosità, al contrario, a
malapena aveva mantenuto le fattezze di Itachi per mescolarle alla sua più
spigolosa e satiresca figura, il suo vero volto. “Quasi quasi avrei applaudito,
se le vostre scemenze non incominciassero a darmi leggermente sui nervi!”, gli
sibilò all’orecchio.
“Sei un
pessimo perdente”, dichiarò Sasuke con voce flebile, simulando un coraggio che
gli riusciva sempre più difficile da mantenere, poiché aveva ben afferrato le
intenzioni del suo aguzzino e la prospettiva di finire torturato all’inferno
per l’eternità avrebbe spaventato chiunque. “Non riesci ad accettare che lei ti
sia sfuggita!”
“Che
ingenui che siete, tu e tuo fratello!”, rise il demonio senza gusto. “Pensavate
che salvando Hinata avreste risoluto la situazione? No, se non è lei, sarà
un’altra, avete guadagnato solo un po’ di tempo. Ma a che prezzo? Varrà davvero
la pena per lei essere scuoiati a testa in giù dai miei sudditi, dopo avervi
strappato lingua, naso, orecchie, aperto e srotolato gli intestini e messo a
rosolare come un pollo allo spiego per l’eternità? Ora che so dell’esistenza
del vostro ultimo discendente, realizzerete ben presto di esservi sacrificati
per niente …”, sogghignò, afferrando la mandibola del moro e premendo così
forte che questi temette volesse frantumargliela.
Silenzio.
“Avanti,
dimmi, che farai ora, Sasuke?”, gli lanciò il guanto di sfida, abbandonando la
presa.
“Che
cosa farò?”, ansimò il fantasma, gradualmente stanco e pesante e avvertendo il
gelo delle fiamme infernali attanagliargli le viscere. Lentamente, fece
risalire le dita nodose verso l’alto e in seguito lungo il braccio di Itachi,
afferrandogli la mano che stringeva l’elsa della spada. Sentì il pollice del
fratello avvinghiarsi al suo, l’ultimo suo gesto di libero arbitrio, e in quel momento il minore dei due seppe
ch’era giunta la loro unica occasione di riscatto. “Che cosa faremo noi, Itachi!”, gridò, spingendo la lama
in profondità, acciocché essa penetrasse oltre il suo corpo di spettro e si
conficcasse nel petto del fratello, che sputò a sua volta quel nauseabondo
liquido nero.
“Tzé,
odiavi così tanto Itachi da arrivare a ferirlo per l’ennesima volta?”, lo
derise lo spirito maligno, estraendo con nonchalance la lama da ambedue i petti
e osservando compiaciuto il modo in cui Sasuke gli cadeva i piedi, più
evanescente di prima. “Ti diverte così tanto spezzargli il cuore?”, inquisì,
accennando alla profonda ferita sanguinante. E chinandosi davanti a lui:
“Intanto, tu te ne andrai per primo; poi, quando avrò terminato con Naruto, ti
rispedirò tuo fratello per soffrire insieme la giusta punizione. Dimmi, non sei
contento? La maledizione durerà ancora per molto, mio caro!”
Un
sorprendente ghigno di risposta.
“Molto
contento”, ammise Sasuke rialzandosi, perdendo ad ogni movimento il suo aspetto
mostruoso per riprendere l’antico suo sembiante d’uomo e similmente a lui,
anche i suoi compagni di sventura si guardavano sconcertati le mani, non più
zampe e artigli, bensì abili falangi umane.
Indietreggiando
confuso da quell’inspiegabile metamorfosi, il demonio fissò pieno di collerica
frustrazione i suoi prigionieri assumere la loro previa forma e ricambiare il
suo sguardo non col loro solito tremante servilismo, bensì con sdegnato
disgusto.
“Se
davvero la maledizione di Villa Nakano è destinata a durare nel tempo”, fu il
turno di Sasuke ad inquisire beffardo. “Come mai non possiedi più le fattezze
di Itachi?”
Bastò
appoggiare appena la mano sulla sua irsuta guancia per realizzare, che il suo schiavo
aveva ragione.
La
maschera era caduta.
L’anima
di Itachi lo aveva abbandonato.
C’era
un’unica spiegazione possibile.
“Il suo
corpo!”, ruggì il grande nemico, provocando un possente turbine di vento e
facendo tremare la terra fino a spaccarla. “Lo ucciderò! Lo ucciderò con le mie
stesse mani!”, sputò egli veleno, sennonché si ritrovò dozzine di braccia che
lo trattenevano, impedendogli di attuare la sua minaccia.
“Come
osate mettermi le mani addosso, lurida feccia merdosa? Lasciatemi passare o vi divorerò
tutti!”
Per
tutta risposta, gli spettri lo strinsero ancora più forte.
“Tu non
puoi più comandarci un bel niente, perché siamo liberi! Liberi!”
Un sordo
boato riecheggiò per tutta l’antica proprietà, scuotendola dalle fondamenta al
segnavento, che girò impazzito fin quasi a svitarsi e piegarsi dinanzi a quell’ondata
d’aria che parve voler radere ogni cosa al suolo e far sprofondare la villa
negli abissi stessi della terra.
Fu un
attimo, però.
Gli abitanti
di Konoha fecero appena in tempo ad accorgersi di quell’inusuale rombo e di un urlo
ingolato d’inferno, che, affacciandosi alla finestra in direzione di Villa
Nakano, altro non videro che un signorile edificio circondato da un incantevole
giardino paradisiaco, illuminato dal ridente sole del meriggio.
Infatti,
il temporale era nel frattempo cessato.
Guarda
l’oltraggio recato alla tua sposa e dimmi: …
“Ti
domando perdono, papà, per aver dubitato di te e spero che il giorno in cui ci
rincontreremo, tu vorrai ancora essere così buono da riconoscermi come tuo
figlio, io che ti rinnegai con stupida ferocia. Scusami tanto, papà, scusami
tanto!” e tali supplichevoli richieste di perdono ancora fluivano dalle labbra
di Naruto nella loro disperata litania, che i lineamenti di Minato si
deformarono in una massa indistinta di bolle simili a del pus, che ribollendo
gli ingrossarono la faccia e il corpo fino a scoppiare in un ruggito di pura
sconfitta, svanendo definitivamente in vomitevoli effluvi, lasciando spazio
alla fresca brezza marina che segue la tempesta.
Solo
allora il giovane uomo levò gli occhi da terra, accogliendo per quanto
abbagliante la luce del meriggio, che da dietro al catino absidale raffigurante
il Cristo Pantocratore pareva dividersi in diversi raggi, luminosi fiumi
terminanti in un unico grande mare di gioia e speranza.
“Ci
siamo quasi …”, s’incoraggiò il biondo, riprendendo a spingere la bara verso il
mosaico. “Non manca molto …” e il tragitto gli risultò più facile quando
s’imbatté nel poco marmo rimasto per pavimento, permettendogli di scivolare
sotto quello sguardo così scrutatore e al contempo comprensivo.
“Non
sono uno del mestiere, però … Che dire … E’ ora di andare, Itachi”, mormorò
infine Naruto, sospirando a fondo ed estraendo il tesoro cedutogli da Kisame,
la cui impazienza il giovane la poteva percepire dall’insistente infrangersi
delle onde sugli scogli e dai saltuari spruzzi che oltrepassavano la linea tra
terra e acqua, bagnando la salma del moro, che ancora pareva dormiente. “E
allora andiamo …”, gli sorrise dolcemente, riponendo sulla mano monca il suo
anulare ingioiellato dal piccolo anello di fidanzamento e nel cui palmo
raccolto introdusse una piccola saccoccia di velluto contenente le fedi nuziali
comprate in viaggio da Kisame e che il naufragio li aveva impedito di assolvere
il loro compito.
“Avete
aspettato abbastanza.”
E in
quel momento, l’incanto scomparve e il corpo d’Itachi ritornò ad essere un
umile scheletro nudo, a malapena coperto da qualche brandello di pelle
rimastogli e un filo di capelli unti sul teschio ghignante e dalle orbite
vuote, segno che l’anima d’Itachi era stata liberata dal contratto col male, ma
libera soprattutto di recidere gli ultimi vincoli terreni per intraprendere il
viaggio verso la porta dell’Aldilà e lì terminare la sua ammenda per poi
dedicarsi completamente all’eterna contemplazione.
“Bonne chance”, gli augurò Naruto,
chiudendo la bara e riempiendola di pietre e, portatala al limitare della
scogliera, raccolse le ultime forze e la spinse giù, osservando come il mare,
levandosi nella sua onda più alta,
l’avesse ghermita avido e impaziente a metà strada, prima ancora che
essa potesse sfiorarne la superficie, trascinandola nei suoi profondi recessi
in un voluttuoso tenero abbraccio, per poi chetarsi in un’accarezzante nenia,
come se stesse ninnando il nuovo arrivato, consolandolo e sussurrandogli
segrete parole comprensibili solo ad anime affini e indissolubilmente legate.
Dove sono? Nessuno ti ha
condannato?
Si
sovvenne Naruto di quel passo del Vangelo mentre seguitava a cercare con gli
occhi eventuali segni della cassa, passo ascoltato svogliatamente se non proprio infastidito, giacché solo ora
afferrava del tutto il significato di quelle parole all’epoca così strane e da
lui considerate troppo buoniste, da mollaccioni quasi.
Nessuno, Signore.
Accusare
è facile, domandare perdono un po’ meno. Perdonare dal profondo del cuore è
impossibile, perché essere creditore nei confronti di qualcuno appaga assai il
proprio ego e la propria meschinità morale, l’angolo buio e vendicativo da
sempre in agguato, pronto a manifestarsi alla prima occasione.
Neanch’io ti condanno; và e d’ora
in poi non peccare più.
La bara
doveva ormai essere affondata interamente, visto che Naruto non percepì più i
sospirati Grazie! provenienti dal
mare. Rialzandosi a fatica, barcollò fino ai resti dell’antico imbarcadero di
marmo, cadendo in avanti a bocconi, la gola insidiata dalla nausea montante e
le gambe trasformatesi in ricotta dallo sforzo e lo sfinimento.
Rigirandosi
supino, il biondo contemplò il cielo che si liberava man mano dagli ultimi
rimasugli del temporale, visuale timidamente celatagli da un viso un poco rosa
di colpevole verecondia.
Potrete mai perdonarmi per quel
che vi ho costretto a patire?
“Potrai
mai perdonarmi per averti odiato senza conoscerti?”, replicò Naruto prima di
serrare definitivamente le palpebre e lasciarsi catturare da una meritata
incoscienza, non senza aver tuttavia catturato un tremulo, grato e sincero
sorriso che abbellì quella bocca a lungo costretta in un’immeritata e sofferta
linea dura.
Rincontrò
inoltre un altro viso da poco conosciuto, le cui fattezze però mai le avrebbe
dimenticate.
“Insomma,
tu, chi accidenti sei?”
“Già”,
rispose quello scuotendo la zazzera biondo-rossiccia. “Chi, infatti?”
E il
buio avvolse nel suo morbido manto Naruto, cullandolo verso un dolce limbo
senza affanni e dolori.
…
Quando potremmo darci il segno?
Next chapter, the epilogue …
**************************************************************************************************
Fiuh,
che parto! Allora, piaciuto il finale? Sì? No?
Fatecelo
sapere!
Ci
vediamo all’epilogo e pronti con lo champagne per festeggiare la fine!
Ciao!
Un po’
di noticine:
[1] Argo Panoptes (Argo “che tutto vede”),
era un gigante interamente coperto di occhi e che Hera aveva messo a guarda di
Io, una delle innumerevoli amanti di Zeus, trasformata in una mucca, acciocché
lo sposo fedifrago non se la riprendesse. Grazie ad un inganno di Hermes, che addormentò
Argo e gli tagliò la testa, Zeus si riprese la sua mucca. Tuttavia, per
ricompensare il gigante per la sua devozione, Hera gli strappò gli occhi e li
piazzò sulla coda del pavone, animale a lei sacro. Questo mito serve a spiegare
le formi “ovali” sulla coda del pavone. |
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Capitolo 9 *** Epilogo: 2037 ***
Rieccoci qua!
Iniziata in Germania e terminata a Venezia, mi sento molto in
sintonia coi personaggi di questa storia, che pure loro si sono fatti un bel
viaggetto e, nel caso di Naruto, pure un bel bagnetto (come la sottoscritta di
tanto in tanto).
Mi scuso per l’abnorme ritardo con cui questo epilogo arriva,
ma la sintesi non è mai stata la mia specialità e poi si sono messe di mezzo le
vacanze, fornendomi la pausa necessaria per trovare finalmente il modo di
concludere questa storia. Teniamo incrociate le dita! XD
Ora che siamo arrivati alla fine, vi confesserò che avevo in
mente un finale molto più drammatico, ma … che volete, già mi ero sfogata con
le terrible endings in un’altra mia storia, non me la sentivo di fare un
immediato bis … Inoltre, la mia consulente personale sa essere mooolto
persuasiva … ;-)
Mi dispiace battere la parola The End, un po’ perché mi
accomiato dai personaggi – mi ci affeziono, alas – un po’ perché mi mancheranno
i bellissimi commenti che mi hanno sempre spronato a migliorare capitolo dopo
capitolo.
Ringrazio quindi tutti i miei lettori e recensori, in
particolare: Cucciola Blu; April88; Mary
Uchiha, Lady_Loire e Sagitta72. Le cui recensioni risponderò a breve, in
quanto di recente non ho avuto molto accesso al mio computer. Sappiate però che
le ho sempre apprezzate!
Ringrazio
poi: Sagitta72, Arya; Selly_Luna; MalandrinaElly;
e Holy96 per aver messo questa
storia tra le preferite.
Ringrazio:
11 Novembre, Babel, Arya e ShoKei89 per aver messo questa storia
tra le ricordate.
Ed
infine, ringrazio: 11 Novembre; Itanuno;
Angel_Dark_Light; April88; Black_Thunder; Cucciola Blu; Iris1996, LaDyDeBbs,
Lady_Loire, Mary Uchiha, Phoenix17, Serenere98, Sophie Charlotte e Titticullen4ever per averla messa tra
le seguite.
Se
qualcuno avesse voglia di lasciare una piccola recensione di commiato, faccia
pure, siamo aperti 24/7! XD
H.
**************************************************************************************************
24 Giugno 2037
Uzumaki
Tadja si contemplava estasiata davanti allo specchio, lisciando le pieghe del
suo abito da sposa e assaporando coi polpastrelli la morbidezza della seta e i
ghirigori dei merletti del pizzo chantilly. Si sistemò vezzosamente infastidita
una ciocca ribelle dietro l’orecchio, ammiccando al riflesso ridente di una
sposa pronta ad unirsi all’uomo che ama.
Ce
n’era voluto di tempo, accidenti accidenti!, per persuaderlo, ma alla fine Sabaku
Gaara si era deciso a parlare con suo padre e, in seguito alla conversazione
più ostica che i due giovani avessero mai sostenuto in vita loro, finalmente
avevano ottenuto la benedizione paterna e Gaara, tra la commozione generale,
aveva estratto dalla tasca il
prezioso pegno preparato per Tadja - un anellino d’oro bianco con annesso un
diamante – assieme alla solenne promessa di convolare a nozze e di appartenersi
per tutta la vita, finché morte non li avrebbe separati.
A quel
pensiero, di solito così scontato da sorvolarci allegramente sopra, un piccolo
brivido freddo smorzò il sorriso altrimenti raggiante della fanciulla, la quale
si voltò, certa di aver avvertito una presenza alle sue spalle.
“Porta
male vedere la sposa prima delle nozze!”, esclamò ad alta voce la giovane,
voltandosi di scatto.
Niente.
Nessuno.
Era
completamente sola nella sua cameretta.
Eppure,
eppure …
La
finestra era sempre stata aperta?
Beh,
era il caso di chiuderla, nevvero?
“Ah!
Sei tu! Santo cielo, mi hai spaventata!”, sospirò Tadja assai sollevata, mentre
stendeva le braccia e si apprestava a serrare la finestra – aveva sempre fatto
così freddo? - sennonché la voce alle sue spalle, soave come un dolce zefiro
primaverile e al contempo più gelida della bora invernale, le sussurrò
malinconica l’orecchio:
Posso raccontarti una storia?
“Tadja?
Sei pronta? Su, bambina mia, ti stiamo tutti aspettando! Non vorrai mica far
attendere Gaara più del dovuto, spero? Dai, che sennò scappa!”, la richiamò scherzando
sua madre, Uzumaki Hinata, bussando alla porta ben serrata. Non ricevendo
risposta, la donna si risolse ad entrare forzatamente nella stanza della
figlia, preoccupata per quell’insano silenzio, foriero di tristi ricordi. Solo
per amore di suo marito aveva acconsentito, quasi cinque lustri fa, di tornare
a vivere a Villa Nakano, sebbene la notte ancora giurasse di scorgere, nei
lunghi corridoi ovattati dai tappeti, sinistre ombre, leggiadre come il vento
che ingravidava le tende.
“Tadja,
tesoro, ti senti bene? Tadja, che succ- … Oh mio Dio, no!”, gridò Hinata,
tappandosi la mano e barcollando all’indietro alla terribile vista offertale,
non appena mise piede nella camera da letto della sposa. “Naruto! Tadja! Oh mio
Dio! Ma perché? Me lo avevate promesso!”, prese a ridere, attirando di
conseguenza l’attenzione degli ospiti al pianoterra, in particolare lo sposo, il
quale corse istintivamente verso la fonte di quella risata sconquassante.
Giuntovi
infine, Gaara rimase dapprincipio pietrificato sul posto, per poi sciogliersi
anch’egli in una calda risata. “Il lupo perde il pelo ma non il vizio, signora
Hinata, si rassegni!”, la consolò, proteggendo col palmo della mano gli occhi
alla vista della sua futura moglie in abito da sposa e del suocero che, seduti
sul canapè, si stavano scodellando una ciotola di ramen a mo’ di segno di buon
augurio.
“E dai,
Hinata!” , protestò Naruto a bocca piena. “Non vorrai mica negare ad un povero
papà l’ultimo ramen con sua figlia, spero?”
“E
raccontarmi la storia dietro la Ballada
della Sposa Mancata”, aggiunse la loro figlia, addolcendo le ultime parole
al ricordo di quella favola della buonanotte, che suo padre, in barba a quelle
tradizionali, soleva narrarle prima di spegnere la luce, sistemarle il suo
corvetto di peluche e rimboccarle le coperte. Niente di male, quindi, l’estremo
congedo dall’infanzia. Peccato che Hinata, a giudicare dall’occhiata sulfurea
che lanciò al consorte, non la pensava ugualmente, anzi, lo pigliò per un
orecchio e lo trascinò fuori dalla stanza di Tadja.
“Naruto,
razza di delinquente”, borbottava, “Quante volte ti ho ripetuto che non voglio
mai più sentire quella ballata? Specie in questo giorno? Sei proprio uno scemo,
un beota, una testa quadra, un cervello da gallina in gelatina …” e via così,
fino al pianoterra.
Tadja
si sposò il giorno del solstizio d’estate, perché secondo la saggezza popolare
di Suna, la città natale di Gaara, chi si sposava a giugno festeggiava come
minimo le nozze d’oro.
Quando
a marzo aveva comunicato questa sua decisione ai genitori, i signori Uzumaki
Naruto e Hinata, per poco quest’ultimi si erano visti sfumare la prospettiva di festeggiare il loro
di cinquantesimo anniversario di matrimonio, poiché la data prescelta dalla
coppia – il 24 del mese – aveva risvegliato nel nuovo patriarca della famiglia
ricordi non propriamente allegri e un doloroso batticuore. Si era limitato
quindi a lanciare alla consorte una breve occhiata, quei segreti lampi d’intesa
visiva in cui solgono indugiare madre e padre quando certi argomenti tabù
vengono inconsapevolmente menzionati dagli ignari figli.
“Non è
un po’ presto? Perché non vi sposate in primavera? Magari ad aprile o a maggio
del prossimo anno! Come sapete, qui nel giardino fioriscono certe magnifiche
rose …”, aveva tentato Hinata di temporeggiare, servendo un tea che non venne
accettato da nessuno e che fu costretta a riappoggiare sul tavolino.
“Perché
non vi sposate affatto?”, aveva al contrario decretato Naruto, assottigliando
gli occhi e fulminando il suo futuro genero, Sabaku Gaara, il quale dal canto
suo non gli diede neppure la soddisfazione di una replica, reclinando solamente
il capo e fissandolo con la medesima imperturbabile sufficienza di chi si trova
dinnanzi ad un babbuino danzante col tutù.
Questa
conversazione era avvenuta nel gazebo del giardino di Villa Nakano, nel primo
soleggiato pomeriggio dopo settimane di pioggia incessante.
L’edificio
appariva totalmente trasfigurato nel suo ritorno agli antichi fasti, grazie
alla cura certosina di Naruto, non appena vi rimise piede in un nebbioso settembre
di venticinque anni addietro. Affari urgenti lo avevano trattenuto a Kiri fino
ad allora, i quali coincidevano col suo ritrovamento mezzo morto sulla spiaggia
e un ricovero coatto, visto che il giovane commissario, una volta ripresosi a
furia di respirazioni bocca a bocca di una procace bagnina e stufo di ripeterle
che stava assolutamente bene, non venne da quest’ultima rincorso per tutto il
bagnasciuga, da essa stordito e trascinato all’antico ospedale nel centro
storico in camicia di forza, dove venne sottoposto ad un infernale giro di
controlli che portarono alla rimozione delle tonsille e della sua appendice
infiammata, giusto perché, come affermato dallo stesso Naruto, se il trenta era
fatto, bisognava fare pure il trentuno. Saputo per caso della sua ubicazione in
seguito alla clamorosa fuga, la dottoressa Tsunade si era chiesta, nel
frattempo che chiamava Hinata per informarla della novità, quale motivo avesse
spinto il commissario Uzumaki a scappare dall’ospedale di Konoha per finire in quello di Kiri, famoso per la sua magnifica
vista sul mare e i tentavi poco ortodossi di farlo fallire per utilizzare lo
stabilimento come hotel di lusso. Arrivata al capezzale del fidanzato insieme
alla sorella minore e al cugino, Hinata s’era molto presa cura di Naruto,
vezzeggiandolo quando si rifiutava di sottoporsi alle analisi e intimandogli di
non infastidire con la sua testardaggine i medici e gli infermieri, ma mai
accennando agli eventi che li avevano separati e spinti a ritrovarsi in
tutt’altro posto che il loro nido d’amore e ciò infastidiva non poco il biondo,
il quale avrebbe preferito di gran lunga sfogarsi con la sua fidanzata e
conoscere la sua versione dei fatti. Hinata, ogniqualvolta egli accennava alla
villa e ai suoi previi abitanti, si limitava a scuotere il capo, sussurrando
un: Non ora, caro e ficcandogli in
bocca un pezzo di mela, frutto assolutamente detestato da Naruto che lo
ingoiava schifato, neanche fosse stato un rospo a scivolargli giù per
l’esofago. Finché un giorno, davanti alle insistenze del giovane, la mora,
sospirando a lungo, gli aveva rivelato il suo intimo cruccio:
“Non
possiamo sposarci, Naruto. Non subito, almeno.”
Chissà
perché, il biondo se l’era quasi aspettata.
“Io …”,
aveva ripreso Hinata, guardandosi vergognosa le unghie laccate di fresco. “Ho
bisogno di tempo. Per dimenticare. Non riesco a …”
“Ti
aspetterò”, l’aveva interrotta allora Naruto, fissandola dolcemente e pur
tuttavia non osando sfiorarla, poiché la vedeva così fragile, di cristallo e
poi ben sapeva quanto quello non corrispondesse ad un addio, bensì ad un
arrivederci. “Prenditi tutto il tempo che ti occorre. Sarò sempre lì ad
aspettarti”, l’aveva rassicurata, ridendo ironico per il modo in cui i giochi
s’erano capovolti rispetto al passato, lui ad attendere lei e non l’incontrario
com’era avvenuto ai tempi del loro innamoramento.
Hinata
gli diede un bacio e da quel momento non si rividero per i successivi due anni.
Periodo
di tempo che non fu assolutamente sprecato dal giovane a piangersi addosso:
dimesso da Kiri in ottima salute, con qualche organo in meno e con una perfetta
padronanza del dialetto locale, Naruto aveva ripreso il suo posto nel suo
ufficio, riaccolto da amici e colleghi col medesimo stupore che riservarono
Marta e Maria alla vista di Lazzaro fuoriuscito dalla tomba col suo putente
sudario addosso. E il colpo di grazia
avvenne nell’udirlo blaterare di ritornare a Villa Nakano e riprendere i lavori
di restauro.
“Sei un
demente”, aveva soffiato Kiba, gli occhi fuori dalle orbite.
Naruto,
per tutta risposta, aveva scrollato indifferente le spalle, oramai abituato a
simili complimenti.
La
ristrutturazione di Villa Nakano lo aveva sollevato dal peso della solitudine,
giacché ogni giorno, terminato il suo turno lavorativo, v’era sempre un angolo
da risistemare, un mobile da disinfestare dai tarli, una siepe da rimodellare,
una lapide da rinominare e ciò lo aiutava a non pensare ad Hinata, la quale,
prima di partire per la sua terapia spirituale, gli aveva recapitato una dolce
e-mail di commiato. Naruto neppure la lesse, cestinandola e bofonchiando:
“Spero che non mi ritorni pelata e vegetariana a furia di ritrovare se stessa.”
Nondimeno, aveva onorato per i primi due mesi i gentili inviti dei suoi
quasi-suoceri e quasi-cognata, venendo a pranzare da loro la domenica.
Dopodiché, smise di visitare gli Hyuuga e si dedicò anima e corpo a Villa
Nakano, la quale rifioriva lentamente, come un ammalato sopravvissuto ad un
delicato intervento chirurgico. Si scoprì in seguito, che il biondo aveva
perfino cancellato i numeri telefonici della famiglia di Hinata e quando Neji,
incontrandolo per caso in piazza la Vigilia di Natale, gliene chiese il motivo,
Naruto replicò serafico: “Se tua cugina vuole ricominciare daccapo, padrona
lei. Quindi, da adesso noi non ci conosciamo più.” Neji spalancò la bocca
sconcertato e la diceria che il commissario Uzumaki Naruto non solo fosse
scemo, ma addirittura pazzo furioso si disperse per tutta Konoha, tant’è che i
criminali pensarono subito di festeggiare gozzovigliando impunemente, per
essere poi prontamente arrestati da Naruto e la sua squadra, il primo che si
chiedeva che accidenti avesse preso alla gente per blaterare simili cacche di
piccione nei suoi confronti. “Tanto scoglionarsi”, grugniva al Ramen Ichiraku. “Tanto scoglionarsi per
la loro sicurezza ed ecco come vieni ripagato: dandoti del beota demente! Che
fottitura, averlo saputo mi sarei dedicato ad un allevamento di porcellini
d’india!” Poi, però, con la flemma olimpica di chi aveva compiuto il viaggio
dall’Aldilà all’Aldiqua, si risolse che decisamente i konohagakuriani erano dei
gran rompipalle pettegoli e che trascorrere il suo tempo libero a contemplare
il fiorente giardino di Villa Nakano lo rilassava di più, appagandolo.
Nessuno
aveva mai osato ventilargli l’ipotesi di dimettersi dal suo posto di
commissario, ma ciò non gli impedì, da scemo e pazzo furioso, di beccarsi
l’ulteriore onorificenza di scemo pazzo furioso e eremita. Questo finché tornò
Hinata, la quale, ripresasi dallo choc che l’aveva per poco spedita nel reparto
rianimazione per triplo infarto, accettò di buon grado l’idea di sposarsi col
suo Naruto, un po’ meno di tornare a vivere a Villa Nakano. Cupi pensieri che
si sciolsero come neve al sole il giorno in cui nacque Tadja, la loro, a causa di
tristi circostanze, unigenita figlia, ma non per questo i due ebbero mai di che
dolersi. E di fatti, nonostante la
giustificata ostilità iniziale, Naruto fu costretto a far buon viso a cattivo
gioco e cedere la sua preziosa figliola a “quel sozzo bifolco d’un sunagacino!”
Il
quale, ironia dalla sorte, lo stava salvando dalle pinze vendicatrici di sua
moglie.
“Mamma!
Dai …”
“Signora
Hinata! Non ce lo ammazzi … Non oggi, almeno! Chi porterà, altrimenti, Tadja
all’altare?”
“Aiuto,
m’accoppa! Gaara, levamela di dosso! Perché ti vuoi sposare? Sei così ansioso
di rovinarti la vita?”
“Ah,
canaglia! Dunque ti ho rovinato la vita, eh? Vieni un po’ qua, che ti concio
per le feste, caprone!”
“Basta
voi due! Finitela!”
Ma non
si cessava di ridere in quella soleggiata mattina del 24 giugno 2037, il cui
vento ancora fresco s’intrufolava giocoso nelle finestre spalancate, vagando
incuriosito per le stanze ora luminose e decorate con delicata leggiadria,
accarezzando il mobilio e scostando, dispettoso, gli oggetti la cui lieve
consistenza li rendeva assai propensi a lasciarsi da lui spostare. Giunse per
ultimo nella camera abbandonata dal festante gruppetto, alitando il suo augurio
di fortuna tra le coperte sfatte, la vestaglia abbandonata frettolosamente
sulla sedia e scompigliando le pagine di due diari dalle fragili pagine
avvizzite e pacchi di foto legati coscienziosamente con uno spago, un piccolo
regalo che Naruto ci teneva a cedere alla figlia.
“Avete perfettamente ragione, signor Sasuke”, cadde una pagina strappata da
uno dei due diari. “Chiunque, nella sua
vita deve affrontare il mostro dell’Odio, quel pauroso cavaliere che avanza
brandendo lo scudo del Rancore e la spada della Disperazione. Anch’io l’ho
provato, sapete, quando la varicella si portò via il mio bambino.”
“Un’immagine molto poetica,
signora Namikaze.”
“Chiamatemi pure Mayra, signor
Sasuke. E no, non è poetica. È realistica. Chi non ha mai odiato i nostri cari
per averci abbandonato? Per aver tradito il nostro affetto? E quanto soffriamo
quando ci lasciano definitivamente, per sempre, scomparendo coi nostri sogni?
Le nostre aspettative? Ebbene, è in questo momento buio che il nostro tiranno
viene sfidato a duello dal suo nemico più temuto, colui che soccorre chi
rimane, chi non è potuto partire, che deve ancora vivere in questo mondo e
fronteggiare l’Odio: è Amore. Non, però, quell’amore sciocco e carnale e
romantico e mellifluo, che si nutre di superficiale sensualità. No, è l’Amore
armato che para i fendenti della Disperazione con lo scudo della Speranza e
penetra nello scudo del Rancore con la spada della Gioia, le sue armi sono
esse. Perché noi siamo stati amati dai nostri cari defunti e anche se li
abbiamo odiati, non possiamo negare, neppure dal profondo del cuore, che per un
attimo, seppur fuggevole, li abbiamo a nostra volta tanto amati.”
E sopra
il caminetto della stanza ora di Tadja ma appartenuta in passato ad Itachi
stava appeso il suo ritratto assieme al fratello Sasuke, non più mutilato dal
profondo squarcio sulla tela che li aveva divisi, bensì adesso un tutt’uno,
bello e vivido come doveva essere stato il giorno in cui il pittore aveva
appoggiato il pennello, esclamando: Voilà,
terminato!
Si era
rotta finalmente la maledizione di Villa Nakano.
"L'Amaro Caso di Villa Nakano"
The End
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Se non
ci si è accorti, ve lo dico io: il Prologo e l’Epilogo sono uguali in certi
punti, poiché volevo dare l’idea di un cerchio che si chiude, un cammino di
accettazione e redenzione che ha potuto oltrepassare la cecità dell’odio e
della vendetta. Spero di non avervi dato
la sbagliata impressione d’essere una bacchettona moralista, ma sono dell’idea
che nella vita se si accettano i momenti belli, bisogna saper fronteggiare
anche quelli brutti e che non è mai tardi per chiedere sia aiuto che perdono.
In ogni
modo, adesso possiamo stappare la bottiglia di champagne per festeggiare la
fine, tenendone da parte un po’ per la nascita di altre storie in questo
fandom!
Grazie a
tutti che voi che mi avete seguito!
Alla prossima,
ciao!
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