Be still di Ever Lights (/viewuser.php?uid=92672)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** There's nothing stronger than love ***
Capitolo 2: *** How can you remember? ***
Capitolo 3: *** Heaven ***
Capitolo 4: *** Love of a Life ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** There's nothing stronger than love ***
Be
still
Capitolo uno: There's nothing stronger
than love.
A
Sanya. Lei sa il perché.
(in fondo per gli altri ringraziamenti,
o riempio una pagina solo di questi.)
Bella.
«Tornerai presto?»
Mi baciò la fronte, stringendomi.
Sentii le guance inumidirsi contro la sua divisa militare e provai a
trattenermi. Percepivo l’odore di guerra, sangue, dolore,
sudore, forza e amore su quel tessuto, ma una cosa in particolare mi
colpiva e volevo cancellarmela dalla mente: odore di morte.
Ogni volta che mi avvicinavo a
quell’uniforme, ogni volta che la prendevo fra le mani e me
l’avvicinavo al petto, in lontananza scorgevo delle urla, dei
rombi, degli ordini, lo scoppiare di bombe, mitragliatrici che
scoppiettavano… Senza accorgermene, chiudevo gli occhi, li
serravo e provavo ad allontanarmi da quei rumori.
«Ancora prima che tu possa dirmi
‘ti aspetto’ e sarò qui,
amore.» Mi accarezzò i capelli, mentre io
nascondevo il mio viso preoccupato e triste sul suo petto.
«Ehi, guardami.»
Mi sollevò il mento con la punta delle
dita, incatenando così il mio sguardo al suo.
«Amore.»
Distolsi gli occhi dai suoi, sbattendo
più volte le palpebre, nel tentativo di trattenere le
lacrime… Ovviamente, non funzionò.
Piccole goccioline iniziarono a scivolarmi sulle
guance; acide solcavano la pelle, corrodendola. Tutto il dolore e la
paura si fecero reali e concrete.
«Scusami…»
«No, ehi, non piangere.» Mi
asciugò le gote con i pollici. I polpastrelli ruvidi
accarezzavano la mia pelle: mi sarebbe mancato immensamente quel
contatto.
«Ricordi cosa ti avevo detto?»
«Non è facile vivere questa
situazione, Edward.», mormorai, guardandolo intensamente.
«Non posso lasciarti andare se non ho la garanzia che
tornerai.»
«Ascolta: non voglio riparlarne proprio
ora, per rimanere con il magone durante tutto il viaggio,
d’accordo? Ti amo, sai che tornerò.»
«Non sai nemmeno tu se sarai di nuovo
qui il prossimo anno.», sputai, gettandogli davanti agli
occhi la verità.
«Voglio pensare positivo, Bella. Vuoi
sentirti dire che anche io non riesco a vivere questa cosa? Bene,
nemmeno io ci riesco. Amore, non voglio discutere qui, adesso, ma ti
prego: abbi fiducia.»
«La fiducia mi manca, ora.»,
singhiozzai, mentre le sue forti braccia mi avvolgevano.
«Ti prego, riacquistala. Per me. Non
voglio sapere che starai male durante questo tempo di lontananza,
chiaro?»
Annuii con poca convinzione, perché
sapevo che non sarebbe andata così.
Stavo per contraddirlo ma gli altoparlanti
chiamarono un numero. Il numero. Il suo volo.
«Devo andare.»
Non c’era bisogno che me lo dicesse.
«Ti prego, appena arrivi lì, chiamami.»
«Sai che lo faccio sempre.»
Posò all’improvviso le labbra
sulle mie. Non era un bacio come un altro: sapeva di addio, lo
percepivo come un ultimo contatto prima della fine, prima che lui mi
scivolasse dalle dita.
Rimanemmo vicini in quel modo per ben cinque
minuti abbondanti, fino a che non fu lui a decidere che era giunto il
momento.
«Ti amo.», sussurrai. I suoi
occhi verdi brillarono per un secondo, per poi rispegnersi.
«Anche io, ricordatelo sempre.»
Qualcuno
mi sfiorò la spalla, dolcemente, per farmi ritornare nel
presente.
«Tesoro?
Tutto bene?»
La
mia speranza, la mia voglia che fosse Edward sparì nel
momento in cui sentì quelle parole.
Renée
mi abbracciò appena, e io sospirai.
«Sì, mamma, tutto a posto.»
Sorrisi,
provando a confortarla, e lei fece lo stesso. «Vado a
terminare il lavoro con Esme. Sei hai bisogno, chiamami,
okay?»
Annuii
e lasciai che tornasse nella camera adiacente per poter sospirare
sottovoce. Negli ultimi mesi le cose erano cambiate notevolmente,
alcune per il verso positivo e altre per quello negativo.
Tutte
quelle persone che mi ronzavano attorno… be’,
erano nella parte intermedia. Si preoccupavano per me, mi sollecitavano
a essere più allegra, ma riuscivano a diventare assillanti,
chiedendomi senza sosta “Come stai?”,
“vuoi qualcosa?”, “cosa ti
serve?”, “vuoi stenderti?”,
“hai mal di schiena?” e altre domande snervanti.
Ma
non potevo non compiacerli, anche perché la risposta era
sempre la stessa.
Sussultai
quando qualcosa, o meglio qualcuno, si mosse dentro di me, sferrando un
calcetto proprio contro la pelle.
Aspettavo
un bambino, mio e di Edward, e quel pensiero poteva rendere tutto
ancora più che perfetto. Era una piccola parte di Ed sempre
con me, nonostante lui fosse lontano.
L’idea
di diventare mamma mi rendeva eccitata, ma ogni volta che capivo che un
tassello mancava, mi sentivo perduta.
Quel
posto vuoto a tavola, lo spazio freddo sul materasso, le coccole al
mattino, i baci del buongiorno e della buonanotte… Tutto
mancava di lui.
Edward
non c’era e la gravidanza, per quel verso, non era magica
come avevo sempre desiderato.
Il
laptop davanti a me squillò, annunciandomi
l’accesso di qualcuno su Skype. E quel qualcuno era proprio
Ed.
Riuscivamo
a parlarci poche volte, ma appena sentivo la sua voce ogni traccia di
tristezza e malinconia spariva. Era come un incantesimo che rendeva
tutto… felice.
10:34: Ciao, amore. Ci sono per poco.
Sorrisi
leggendo il suo messaggio. Nonostante fossero solo caratteri digitati
virtualmente, scatenavano in me uno strano senso di benessere.
Era
l’effetto Edward, senza ombra di dubbio.
10:34: Mi bastano questi pochi minuti. Faccio
partire?
10:35: Vai pure :)
Cliccai
il tasto verde di chiamata e incrociai le dita affinché il
segnale di ricevimento fosse abbastanza buono per consentirci qualche
momento di felicità.
Pochi
secondi dopo, sullo schermo comparve il suo volto, concentrato a
capire, come ogni volta, come funzionasse il computer del campo.
«Ciao,
amore.»
Il
suo sorriso mi scaldò il cuore, e qualche lacrima
sfuggì al mio controllo. Maledetti ormoni.
Aveva
i capelli di nuovo corti, rasati a zero. La mia ball head…
Era ormai diventato il suo soprannome da quando aveva iniziato di nuovo
a tagliarseli per lavoro, e come ogni sua cosa mi mancava non poter
stringere quelle ciocche seriche fra le dita.
«Ciao…»
La forza di parlare mi mancava, ancora. Pensavo di essere diventata
forte col passare del tempo, ma mi accorgevo che non era
così. Ero sempre la Bella fragile e innocente di otto mesi
prima, non ero d’acciaio. Il mio cuore ancora si piegava
vedendolo così lontano e non accanto a me, che mi stringeva
e mi carezzava il pancione sussurrando dolci parole al suo bambino.
Erano
cose che probabilmente mai sarebbero successe, almeno non
quell’anno.
«Come
ti senti, oggi? Hai avuto ancora dolori?»
Inconsapevolmente,
mi carezzai il ventre prominente, pensando a nostro figlio.
«Sì, alcune contrazioni durante la notte, ma
è normale.»
«Dopotutto
siamo alla trentaseiesima settimana, no?», concluse per me,
strappandomi una risata. Nonostante tutti i suoi impegni, si teneva a
mente a quanto eravamo nel nostro percorso, quanto mancava alla fine e
sapeva perfettamente le date delle ecografie, delle analisi e mi
chiedeva il prima possibile gli esiti.
Rimasi
per qualche secondo in silenzio, fino a che lui non lo ruppe tossendo.
«Posso
vedere il mio bambino?», chiese con la voce da cucciolo,
perché sapeva che non riuscivo a resistere alla sua
tenerezza.
Scuotendo
il capo, mi alzai in piedi davanti alla webcam, per poi sollevare la
maglia fino a sotto il seno.
Mi
accorsi che i suoi occhi si erano illuminati, sebbene la ricezione
video fosse alquanto scadente, ma il suo viso si era contratto in un
sorriso orgoglioso davanti a… nostro figlio.
«Cresce…»
«…
tantissimo, lo so.», sussurrai, osservando la pelle tirata
dell’addome. L’ombelico era ormai totalmente
sporgente, e forse un giorno o l’altro si sarebbe squarciato,
facendomi esplodere.
«Bella…»
Lo sguardo di Edward si allacciò al mio, ma non
terminò la frase per via della voce bloccata in gola.
«Che
c’è, amore?», lo incitai, e lui
abbassò il capo, scrollandolo e singhiozzando.
«Mi
manchi, mi mancate. Odio essere qui in questo momento, odio non aver
ancora conosciuto in qualche modo mio figlio, odio non esserti vicino,
odio tutta questa situazione. Mi manchi, sono in un inferno. Qui non
c’è amore, non c’è quello che
voglio davvero. C’è solo la guerra, la
morte…»
Mi
portai una mano alla bocca e l’altra proprio sopra il suo
viso, come se avesse potuto toccarmi anche attraverso un computer.
«Ti
prego, Edward… Tu tornerai a casa, e anche se non hai potuto
toccarmi la pancia, sussurrare sopra la pelle e coccolarci…
non importa. Incontrerai tuo figlio quando nascerà, quando
sarà un pochino più grande.»
Sbatté
il pugno sul tavolo, scacciando via le lacrime. «A me importa
invece! Tu… Tu vivi tutto in prima persona, senti i suoi
calci tutto il tempo. Io no. Io non so cosa vuol dire poter sfiorare il
proprio bambino da sopra la pelle, non ho idea di quello che si prova
guardando un’ecografia. Io non sto vivendo tutto davvero. Mi
sto perdendo tutti i passi più importanti di questa
avventura. Mi sto perdendo le prime foto di mio figlio, i suoi primi
movimenti non li ho percepiti sotto la tua pelle… Non
conosco nulla di tutto questo.»
«Non…
non dire tutto questo, per favore.», mormorai, accorgendomi
che stavo piangendo anche io. «Non sarà la stessa
cosa, ma hai vissuto a modo tuo ogni gradino importante di questo
percorso. Le foto le hai viste pochi giorni dopo le visite, conosci
tutte le sfaccettature su tuo figlio… Forse è
vero che non potrai mai sentire i suoi movimenti da qui dentro, ma da
fuori sì. E poi chi ce lo dice che ci fermeremo a un solo
figlio?»
Sorrise
appena. «Voglio uscire da qui, voglio tornare da
voi.»
«Ce
la farai, amore. Solo… pensa positivo. Eri tu che me lo
ripetevi spesso, giusto?»
Edward
annuì e si affacciò verso qualcuno che lo
richiamò. Ascoltò con attenzione per poi fissarmi
addolorato.
«Io…
devo andare.»
Qualcosa
dentro di me – questa volta non il bambino, si smosse e
sentii il mio cuore infrangersi di nuovo. Presto non ne sarebbe
più rimasto nulla, se continuavo così.
«Sì…
Hai ragione.»
Non
sapeva più cosa dire, ogni parola forse gli sembrava banale.
«Cercherò di tornare appena mi sarà
data la possibilità.»
«Stai
tranquillo… Stai lavorando, dopotutto.»
Annuì
mesto, per poi sorridermi amorevolmente. Nonostante cercasse di
nasconderlo, vedevo tutto il suo dolore in quell’espressione.
«Vi
amo.»
«Anche
noi…», mormorai con le lacrime che scivolavano con
nonchalance sulle mie guance. Chiuse la chiamata e iniziai a
singhiozzare così forte che mia madre accorse per vedere che
cosa mi fosse successo.
Il
dolore che mi invadeva il petto era enorme, ma non quanto la
consapevolezza che non sapevo quando lo avrei rivisto.
Forse
il giorno dopo, forse dopo una settimana… O forse mai. Ed
era proprio quello che mi preoccupava: e se non fosse tornato? E se gli
fosse successo qualcosa, in quel momento?
Era
la cosa peggiore che mai mi potesse accadere.
Lui,
Edward, era il mio tutto: il mio sole, la mia ancora, il mio sorriso,
il mio cuore. Non potevo pensare a un’esistenza senza di lui,
era assurdo, era inconcepibile da parte mia.
Era
come vivere senza aria, come se per ventiquattro ore ci fosse stata
solo la notte, un cielo senza stelle.
Tutti
fatti impossibili, così come la sua assenza nella mia vita.
«Dov’è
Edward?»
Urlavo, ero senza voce, nessuno mi sentiva.
Sbattevo i pugni contro un vetro, con il viso stravolto dal pianto.
«Dov’è
Edward?», continuavo a chiedere, ma non ricevevo risposta.
Sentivo mio figlio scalciare prepotentemente, come a rassicurarmi che
lui c’era e che dovevo calmarmi, ma non lo ascoltavo.
Infransi il vetro, macchiandomi le mani del mio
stesso sangue proteggendomi dalle schegge, e corsi fino a che ebbi
fiato nei polmoni.
Mi accasciai sconvolta sulle ginocchia,
continuando a singhiozzare e a disperarmi. C’era un silenzio
assordante che mi penetrava nelle orecchie, fischiava incessantemente e
mi misi le mani sulle orecchie, urlando di smetterla.
Ero sola, ancora.
Ad un certo punto, a pochi metri da me, si
illuminò una luce e vidi una bara. Mi issai sulle gambe
tremanti e la raggiunsi, affacciandomi. Mi sentii mancare, e mi
aggrappai con forza al legno massiccio.
Il suo volto era straziato da profonde ferite,
nella sua mano stringeva un ciuccio rosso e al dito portava la fede,
anche se non gli era consentito al campo.
Strillai di dolore, e qualcosa di viscido mi corse
lungo le gambe.
Ai miei piedi, solo una gigantesca pozza di sangue.
«Stt,
amore. Bella, sono qui.»
Spalancai
gli occhi, con il fiato corto e il petto che si alzava freneticamente.
Mia madre mi stava accarezzando la fronte nel tentativo di
tranquillizzarmi.
«Era
solo un incubo…», sussurrai a me stessa, e quando
percepii un calcetto di mio figlio, tirai un sospiro di sollievo.
Era
davvero solo un brutto sogno… Più che
brutto, tremendo. Non avevo mai avuto così tanta paura in
vita mia… sembrava tutto così reale. Edward, il
suo viso, l’aborto…
Mi
venne la pelle d’oca e mi lasciai cullare da
Renée, che mi teneva stretta al suo petto.
«Ti
va di parlarmi del sogno?», domandò sottovoce,
asciugandomi le guance come quando ero bambina.
Scossi
il capo e lei non fece una piega. Averla così vicina era la
miglior medicina… Dopo Edward. Solo lui era capace di
eliminare tutti i miei problemi, di farmi sentire meglio solo con un
sorriso. Solo lui poteva.
«Tesoro,
sicura di stare bene?» Renée interruppe il flusso
dei miei pensieri.
Beh,
se essersi appena svegliati da un incubo era sinonimo di stare bene...
«Si mamma, perché?»
Mi
guardò in modo strano e... protettivo?
«Mamma?» la chiamai «C'è
qualcosa che non va?»
Accese
l’abat-jour e, rivolgendomi un sorriso appena accennato,
confabulò qualcosa, per poi uscire dalla stanza.
Cosa
diavolo era successo, ora? Controllai di stare bene, o almeno di avere
una parva idea di esserlo.
Al
contrario del mio sogno, non c’era nessuna macchia di sangue
sul lenzuolo in mezzo alle mie gambe, le mie mani non erano ferite e
avevo qualche accennata contrazione, come d’abitudine
notturna.
Che
motivo c’era quindi di guardarmi in quel modo? Non
c’era nulla di diverso o preoccupante in me.
Mi
asciugai la fronte madida di sudore, e solo in quel momento mi accorsi
di scottare: ero in fiamme.
Ora
capivo perché Renée era fuggita nella stanza
accanto: aveva intuito che qualcosa stava andando per il verso
sbagliato.
Respiri piccoli ma profondi,
mi ripetei mentalmente, per non andare nel panico. Era una
febbriciattola da nulla, no?
Eppure
nel giro di qualche secondo mi ritrovai seduta e tremante, con i miei
genitori accanto che mi rassicuravano con parole dolci, ma non
riuscivo a sentirli. Il mio cervello era disconnesso, ogni
rumore del mondo esterno mi giungevano così ovattati da
sembrare muti.
E
per qualche attimo capii cosa voleva dire non udire nulla. Era come
essere fuori dal mondo, fuori dai tuoi cari, fuori da tutto. Un
silenzio così rimbombante che ti trapanava i timpani
entrando nella tua testa e ti faceva oscillare e confondere.
Così intenso ma allo stesso tempo assente da averti fatto
sentire in modo amplificato i tuoi pensieri che ti riempivano la mente.
E al momento la mia era piena di domande e di perché che non
presto trovarono una risposta.
«Tra
poco saremmo in ospedale, tesoro, stai tranquilla.»,
continuava a dirmi Renée ma a stento comprendevo le sue
frasi, anche se alcune parole, come “ospedale”,
“dottori”, “bambino” e
“soluzione” perforavano quella barriera che il
mio corpo, per via del panico, si era creato.
Uno
dei fatti che tutti dovrebbero sapere assolutamente dei dottori
è che sono molto pragmatici. In parte è un bene,
perché non ti fanno rimanere con il fiato sospeso fino
all’ultimo decimo di secondo, ma dall’altra parte
è un male perché sono capace di farti cadere il
mondo addosso in qualche istante.
«Allora,
signorina Swan. Le analisi non riscontrano nessun aumento degli
anticorpi e dei globuli bianchi, il che sarebbe segno di un infezione.
La febbre è solo portata dallo stress. I monitoraggi come
proseguono?»
Alzai
le spalle. «Si muove, contrazioni pari a zero.»
«Bene,
allora misuro se la febbre è calata.»
Sotto
lo sguardo attento e preoccupato dei miei genitori, lasciai fare al
medico il suo dovere, sebbene mi trattasse come un numero qualsiasi.
Non sopportavo quella condizione, l’essere ammalata e venire
curata come se fossi un pacco da spedire o da buttare. Però
purtroppo la politica dell’ospedale era quella, e non potevo
fare molto per cambiarla…
«Perfetto,
la temperatura è tornata nella norma. Vado a richiedere i
moduli per la dimissione.»
Appena
il dottore uscì dalla camera, alzai gli occhi al cielo e mi
lasciai andare sui cuscini della barella.
«Fortuna
che stai bene, tesoro.», mormorò mia madre,
qualche minuto dopo, accarezzandomi una mano. «Ci hai fatto
preoccupare.»
«Sono…
Sto bene, stiamo bene, l’hai sentito anche tu, no?»
Annuì
e mio padre uscì un attimo dalla stanza, con il cellulare
che vibrava.
«Comunque
anche lui… anche il bambino sta bene, mamma.»,
sussurrai, sfiorandomi con la mano aperta il ventre che svettava dalle
lenzuola. In risposta, ricevetti un calcetto che mi fece sorridere. Non
era successo nulla, anche i dottori avevano detto che il feto era in
perfette condizioni.
Socchiusi
gli occhi beandomi del silenzio che mi circondava, anche se venne rotto
poco dopo da un’infermiera che mi disse che potevo tornare a
casa.
Raccolsi
le mie cose e con l’aiuto di Renée uscii dalla
camera e mi accorsi che Charlie era lì in un angolo a
confabulare al telefono, che attaccò non appena ci vide.
In
auto rimanemmo tutti in silenzio, e solo quando mio padre aveva
parcheggiato l’auto nel vialetto di casa, risentii il
cellulare suonare.
«È
per te.», borbottò, porgendomi
l’apparecchio una volta giunti a casa. Lo appoggiai
all’orecchio. «Pronto?»
«Bella, amore, stai bene?»
Mi
si mozzò il fiato nei polmoni a quella voce, e il magone
risalì la gola. «Edward?»
«Dio, ero così
agitato! State bene, tu e il bambino?»
Nonostante
la lontananza, era iperprotettivo e nell’oscurità
della nostra camera mi ritrovai a sorridere. «Ehi, calmati,
stiamo benone.»
«Santo cielo, tua madre mi ha
chiamato dicendomi che eravate in ospedale… Ti rendi conto
di quanto mi sia spaventato? Stavo morendo di paura.»
«Ehi…»,
dissi, rimettendomi sotto le coperte. «Va tutto bene, okay?
È stato… solo un piccolo malessere, niente di
più.»
«Un piccolo malessere?! Bella,
hai la minima idea di come mi sia sentito in quest’ora?»
Sospirai.
«Amore, ti prego, ascolta: ho avuto solo un po’ di
febbre, mi sono agitata perché ho fatto un brutto sogno,
d’accordo?»
Lo
sentii sbuffare. «Io
sono… a chilometri da voi, lo sai, vero?»
«Certo
che lo so.»
«E… sapere che stai
male, quando io sono lontano, mi strugge. E se ora ti trovassi in
travaglio, e io non fossi al tuo fianco, come la metteresti? Una delle
cose che non mi perdonerei mai al mondo è perdere la nascita
di mio figlio.»
Le
lacrime sfuggirono al mio controllo, e mi ritrovai ben presto
abbracciata al suo cuscino. «Non dirmi
così…»
«No, Bella, è la
verità. Nostro figlio ancora non ha conosciuto suo padre, e
forse lo incontrerà quando avrà due o tre anni.
Come posso vivere con questo rimorso?»
«Edward…»
La
sua voce si ruppe per via delle lacrime. «Non lo vedrò nascere,
non sentirò il suo primo respiro e il suo primo pianto in
sala parto, non lo vedrò prendere peso, non lo
vedrò iniziare a gattonare e a camminare… Come
posso, amore, come posso resistere? Nell’esercito questo non
ce lo insegnano. O la vita, o il dovere per la patria. Voi…
voi siete la mia vita, e vi sto lentamente perdendo, ogni giorno che
passa.»
«Ascolta»,
tossii, provando a prendere un po’ di forza.
«proprio tu mi avevi insegnato a essere forte e a credere
nella fede e nella speranza, e proprio tu stai cancellando le tue
stesse parole. Come faccio io a resistere se tu stesso mi dici questo e
non mantieni la tua promessa?»
«Non… non mi va di
litigare proprio adesso, okay? Ti prego, dormi adesso, lì
è tardi.»
«Certo,
chiudiamo sempre i discorsi a metà.», borbottai,
maledicendolo mentalmente.
«Ora non voglio, Bella. Dormi. Vi
amo.»
«Anche
noi.», risposi, attaccando la cornetta e quella piccola frase
mi parve non contenere tutto l’amore che doveva avere. Era
stata detta nella rabbia, quasi come una sfida, ma io davvero amavo
Edward. E pensare che potevo perderlo…
Scacciai
dalla mente quel pensiero, chiudendo gli occhi e provando a prendere
sonno, ma ben presto mi ritrovai soltanto a vagare in mezzo ai ricordi.
«Sai che… essere la moglie di
un militare è una delle imprese più difficili del
mondo?»
Eravamo distesi sul mio letto, nella casa dei miei
genitori, pochi minuti dopo che lui mi aveva fatto la fantomatica
proposta di sposarlo.
Posai appena le labbra sulle sue, stringendomi al
suo petto. «Mh… ne ho una vaga idea.»
Rise e mi carezzò la guancia.
«Sul serio, Bella. Non è una cosa da tutti i
giorni, sposarsi con un ragazzo dell’esercito.»
Lo fissai in quei suoi occhi così belli
da perdermici dentro. Il verde smeraldo, in quel momento, stava
brillando di felicità per la risposta che gli avevo dato e
quella luce ancora non si era spenta, e pensai che non lo avrebbe fatto
tanto presto. «Mi pare di averti risposto di
sì.»
«Mi avrai risposto anche di
sì, ma sei sicura della tua scelta?»
Aggrottai le sopracciglia, sperando che stesse
scherzando. «Mi stai chiedendo di cambiare il mio responso, o
cosa?»
Sorrise. «Non ho detto questo.
Solo… non voglio che tu prenda la decisione troppo alla
leggera.»
«Io so quello che voglio.»
Marcai decisamente troppo sul verbo e lui se ne accorse, ma non lo feci
ribattere. «E io voglio sposarti, voglio vivere il resto dei
miei giorni con la consapevolezza di averti al mio fianco, di amarti e
di tenere al dito un anello con su inciso il tuo nome.»
«È lo stesso che voglio
io.»
«Ma?», lo incitai, posando una
mano sul suo petto. Sospirò pesantemente e
appoggiò la fronte contro la mia.
«Ma io non voglio sapere che, mentre io
sarò lontano, a migliaia di chilometri da te, vivrai nel
dolore e nella paura di perdermi. Solo l’idea di procurarti
tutto questo…»
Sentii la sua voce incrinarsi e lo fermai,
adagiando la mano che prima era sul torace sulla sua bocca.
«Stt…»
Una lacrima gli scivolò lungo la
guancia. «No… Ehi, non piangere, Edward.»
«Come farò a sopravvivere
laggiù immaginandoti stare male? Come posso lasciarti qui da
sola?»
«Non mi lascerai da
sola…», sussurrai, provando a dargli un
po’ di conforto. «Io sarò forte se
saprò che tutto andrà liscio. Non ti basta sapere
che ti amo e che credo in te?»
In tutta risposta, posò le labbra sulle
mie, suggellando un bacio che cercava di aiutare entrambi ad essere
tenaci.
«Qualunque cosa accada… Io ti
amerò sempre.», mormorò dopo esserti
staccato da me.
«Anche io, sempre.»
Vidi sul suo volto affacciarsi un sorriso.
«Allora… Quindi è ufficiale che
diventerai la moglie di un militare?»
«Non hai bisogno di una risposta, mio
soldato.», sussurrai e lui avvicinò il mio viso
con la mano.
«Hai accettato la
sfida…»
«E vincerò, mio caro. Io
vinco sempre.», scherzai e lasciai che ridesse sulla mia
bocca, per poi lasciarsi andare in quel contatto che non meritava di
essere fermato, perché racchiudeva tutta la speranza e
l’amore che provavamo reciprocamente l’uno per
l’altra. Era il mio soldato, e lo avrei aspettato sulla porta
di casa, pronta ad amarlo come avevo fatto durante l’attesa
di riaverlo fra le braccia.
Angolino tutto mio :3
Saaaaaaaaaaaaaaalve. Allora...
Ebbene sì, sono ancora qui! Diciamo che questo doveva essere
un regalino di Natale, ma per motivi ieri non ho potuto postare... va
bene lo stesso, no? :3
Per chi non mi conoscesse, salve: sono Ever e mi faccio spesso odiare
perché inizio FF nuove a tutto spiano... Lulu, tu ne sai
qualcosa, vero? *coff*
Però questa mini long (ebbene sì, solo mini, per
sfortuna - o fortuna: tre capitoli più un epilogo e forse
qualche extra, se non allungherò ulteriormente la storia, ma
non penso.) mi è nata dal cuore, e avevo un infinito bisogno
di scriverla e postarla. Per cui, spero di finirla presto, tanto tre
capitoli e un epilogo si scrivono in fretta... E poi tornerò
a scrivere le altre ff, don't worry, non le ho abbandonate, come potrei?
Ebbene... Niente, in realtà non so cosa dire. O forse
sì. spero solo che alcune personcine nuove si facciano
sentire, per dirmi che cosa gliene pare dell'idea.. Okay, non molto
natalizia, maaaaaa vi prego di aspettare. Però preparate lo
stesso una bella di fazzoletti, okay? Non si sa mai lol.
Avevo detto che alla fine ci sarebbero stati i ringraziamenti...
Sì.
Allora, in primis Sanya,
come ho già detto, e lei sa perché. Buona parte
della storia mi è stata dettata inconsciamente da lei, e per
questo voglio dedicarle la mini long. Sii forte, tesoro, come la nostra
Bella, okay? So che leggerai tutto questo dopo, però voglio
che tu lo sappia da subito.
Poi Simona e
Jess Vanderbilt,
perché loro sapevano tutto dall'inizio, e mi hanno aiutato a
sviluppare l'idea, a modo loro. Thanks girls <3
A Bianca, Anya e a Simona (again)
perchè questo è il mio regalo di compleanno per
loro. Anche se in ritardissimo, spero lo accettiate, ve lo faccio con
amore <3
A Lulu,
perché le ho tenuto nascosto tutto HAHAAH e non le ho detto
nulla fino ad adesso, e so che mi ammazzerà
perché ho postato qualcosa di nuovo e non dovevo (!)
A Giuls, Francy,
Aurora, Marti, Cami, MaryFely e a tutte le altre (sanno
chi sono) perché a modo loro rientrano in questa ff, e
perché, come alle ragazze sopracitate, voglio un mondo di
bene e perché credono in me e vorrebbero uccidermi quando
penso che non so scrivere.
Direi di finirla anche qui, o divento troppo monotona (blablabla).
Vi aspetto presto con il secondo capitolo (dovrebbe arrivare al massimo
fra 4 gg, non di più.) E quindi aspetto numerose le vostre
recensioni (positive o negative) che siano, perché voglio
sapere tutto ciò che pensate su questa mia idea. Per me
è importante, so...
Ci sentiamo in settimana :)
Kisses,
Giulia.
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Capitolo 2 *** How can you remember? ***
Be still
Be
still
Capitolo due: How can you remember?
Bella.
Non era la neve (assente)
che cadeva in piccoli fiocchi imbiancando tutto, non erano le
canzoncine natalizie che si sentivano nei negozi, non erano le case
addobbate che facevano sentire l'atmosfera natalizia a casa nostra.
Era Edward. Era sempre stato lui a farmi amare, in un modo particolare,
quella festività. Riuscivamo a vivere quel periodo dell'anno nella più
totale armonia che si poteva desiderare, rimanendo a casa a guardarci
un film oppure a coccolarci davanti al camino. Andavamo spesso per una
settimana o poco più in Canada, per prenderci un po' di tempo per noi
stessi e rimanere da soli.
Ma quell'anno sarebbe stato diverso, completamente. Mancavano appena
tre giorni a Natale, in casa non c'era neanche l'albero o fuori in
giardino le luci non erano neanche state disposte. Il soggiorno in
Canada non era stato prenotato, i film erano sullo scaffale, sotto
un'immensa coltre di polvere.
E, cosa più importante, Edward non c'era. Quel pensiero pulsava
tremendamente nella mia testa, e mi chiedevo come avrei mai fatto a
trascorrere il giorno di festa senza averlo vicino a me. Era una
tortura, non meritavo di viverla.
«We wish you a merry Christmas, we wish you a merry Christmas, we wish you a merry Christmas and a Happy New Year!
Good tidings we bring, to you and your kin. Good tidings for Christmas and a hapy New Year!»
Alice canticchiò intorno a me, ridendo gioiosa. «Dai, Bella! Canta con me!»
Sorrisi, solo per farla felice. «Perché non canti con i bambini? A me non va.»
Si voltò per tornare nella camera accanto, ma poi mi fissò
interrogativa. Forse si era accorta del tono che avevo usato: duro e
gelido.
«Oh, tutto okay?»
«Mh-mh.», bofonchiai, sedendomi sul divano. Non fece altre domande e se ne andò.
Sospirai pesantemente. Forse avevo pregato fin troppo che tutta quella preoccupazione nei miei confronti sparisse...
Ancora una volta era cambiata la situazione. Da una di totale ansia e
domande verso di me, dove appena facevo un verso tutti accorrevano,
eravamo passati ad una di totale menefreghismo.
Pure Renée, che fino a una settimana prima si era spaventata da morire
– vedi l'episodio dell'incubo con conseguente febbre e corsa al pronto
soccorso, ora non si sbilanciava a vedermi con le lacrime umide, né mi
chiedeva cosa mi fosse successo.
Le persone sono così volubili...
Ormai la sera mi ritrovavo a piangere in silenzio, pensando a tutto il
dolore che mi portavo dentro, e quello era l'unico modo per sfogarmi.
Neanche accarezzarmi il pancione sentendo i calci del bambino mi
aiutava più a calmarmi.
Mi alzai goffamente dal divano, guardando fuori dalla finestra. Il
giardino, spoglio, evidenziava ancora di più la mia voglia di
trascurare quel Natale.
Sgattaiolai in camera, scivolando come un ladro in camera mia.
Perlustrai con lo sguardo tutto l'ambiente, dalle tende lilla al letto
ancora sfatto. Il suo cuscino era rannicchiato contro il mio, perché
ormai era diventata abitudine consolidata stringerlo a me e inspirare a
fondo il suo profumo prima di prendere sonno.
Dieci secondi dopo mi ritrovai davanti al suo armadio, a fissare quei
pochi vestiti che Edward aveva lasciato a Jacksonville, a casa.
Perché quella era casa sua, nostra. Strinsi al petto una sua T-Shirt,
quella comprata alle cascate del Niagara qualche estate prima, talmente
usata che le scritte si stavano sbiadendo.
Colta da un magone improvviso, richiusi le ante e fissai il soffitto.
Quell'ambiente cominciava a starmi stretto, come tutti i vestiti che
avevo nell'armadio che non mi entravano più, come la fede nuziale che
mi stringeva l'anulare.
La fede, quell'anellino d'oro perfettamente incastrato nel dito. Aveva ancora un senso, per me, quel piccolo simbolo?
A me, non serviva per rappresentare l'amore che provavo per Edward, per
il fatto che eravamo indissolubilmente legati davanti a Dio. Ma sarebbe
servito, quando, per puro caso, Ed se ne sarebbe andato? Quando mi
avrebbe lasciato sola, con suo figlio in grembo? Sarebbe servito
davanti alla sua bara, avvolta nella bandiera americana, al suo
funerale? Sarebbe servito, un giorno, per spiegare al nostro bambino
che avevo amato suo padre così tanto da non riuscire a lasciarlo andare?
Quanto mi sarebbe servito quell'anello?
Dovevo tenerlo lì dov'era o lasciarlo a casa? Appoggiarlo al comodino
avrebbe voluto dire che era la fine, lui non c'era, dimenticarlo, in
poche parole. E io non volevo. Dimenticarlo era proibito, solo il
pensiero mi faceva male, mi bruciava gli occhi, i polmoni. Mi ronzava
nel cervello, annebbiandolo.
Scacciai subito quel pensiero, e decisi quello che dovevo fare.
Indossai un paio di jeans larghi e una felpa pesante. Nonostante
l'ingombro del pancione, riuscii a legarmi le scarpe e mi infilai un
cappotto pesante.
Scesi al piano di sotto furtivamente, cercando di dare meno nell'occhio
possibile vista la marmaglia di gente che insediava il mio salotto.
Tutti presi a cantare canzoni di Natale, a ridere e a pensare al
domani.
Tutte cose impossibili per me. Potevo farlo, sì, ma non quando Edward
non era al mio fianco, non quando non sentivo i suoi passi per casa.
Se lui non c'era, per me non aveva senso tutto quello. Non aveva senso vivere quel Natale come tutti gli altri.
Mi richiusi il portoncino alle spalle e fuggi lungo la via deserta,
camminando velocemente per allontanarmi il prima possibile da quel
buco. Quando fui abbastanza lontana perché mi vedessero, decelerai il
passo, con il fiato già corto.
Le strade erano completamente vuote, segno che tutti erano in casa a
finire gli ultimi preparativi, a divertirsi con i propri familiari e a
provare le ricette che sarebbero state cucinate alla vigilia.
E in un attimo rividi me e Edward, in cucina, insieme, un anno prima.
«Stai bravo.»
Cacciai via le mani di Ed dalla
ciotola dove stavo mescolando la salsa per l'arrosto, su cui girava
come un avvoltoio già da mezz'ora abbondante.
«Voglio assaggiare, dai.», borbottò come un bambino impaziente. «Solo... Una punta di cucchiaio, non di più.»
«Non se ne parla!», esclamai,
guardandolo negli occhi, pronta a difendermi dal suo sguardo da
cucciolo. «Prima devo finirla! E poi fredda e cruda non è buona!»
«Ma chi se ne importa! Fammi assaggiare, su!»
Mi afferrò la mano che teneva la
frusta e la sua bocca si avvicinò famelica all'utensile, ma io fui più
veloce e mi scansai dalle sue braccia.
«Eh, no!», risi, correndo per casa
con il mano la ciotola. Avremmo combinato guai, ne ero certa. Sentivo i
suoi passi correre dietro di me, nel tentativo di raggiungermi.
Ben presto mi ritrovai in salotto, e scivolai per terra cascando nel tappeto.
«Ti ho presa!» Le risate di Edward si espansero per tutta la stanza, e vittorioso mi tolse dalle mani la salsa.
«E meno male che non era buona da
cruda, eh?», borbottò, lanciandomi una frecciatina. Provai a sfuggire
dal suo controllo, ma aveva ben capito che l'unico modo per tenermi
ferma era sedersi sul mio bacino.
«Smettila! Così la finisci tutta e poi...»
Non mi lasciò terminare la frase che
posò la bocca impiastrata. La sua lingua sapeva di salato, lo stesso
gusto della ricetta... E sapeva di Edward.
Non controbattei ma risposi ben
volentieri al bacio, lasciandolo appoggiare la terrina sul tavolo
accanto a noi e poi allacciare le mani dietro al suo collo, spingendolo
più verso di me.
«No, okay... Non era tanto male,
infondo.», sussurrai sulle sue labbra, mentre non sentivo altro che i
nostri respiri colmare il silenzio del salotto sotto i nostri gesti
affrettati.
I ricordi procuravano dolore ancora di più della sua assenza. Le
lacrime presero a scorrere e mi incamminai per le stradine che
portavano oltre le colline, dove c'erano quei paesini sconfinati e
tranquilli, dove io e Edward avremmo sempre voluto abitare.
Lì, dove l'erba dei prati era secca e gelata e gli alberi erano senza
foglie, era visibile come ciò che provavo potesse manifestarsi anche su
un posto. Perché, in qualche modo, rappresentava il mio dolore.
Scivolai via anche da lì, percorrendo un sentiero sterrato che portava ad un luogo a me caro.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal vento. Sentivo le onde
scrosciare sugli scogli e infrangersi, i gabbiani stormivano lontani,
la brezza mi carezzava il collo e i capelli.
Quando rivolsi lo sguardo al cielo, ascoltai le nuvole rombare sopra la
mia testa, grigie e cupe, quasi tristi. Che volessero piangere come me?
In realtà sperai di no.
Feci per controllare l'ora sul cellulare ma mi fermai ancora prima di
aver messo la mano in tasca. L'avevo spento, perché nessuno mi avrebbe
dovuto cercare, ma tanto sapevo non sarebbe successo. Avevo bisogno
però anche di un po' di tempo da sola, per pensare, per sentire le
parole nella mia mente urlare e venire spazzate via dal vento, uscire
dal mio corpo e trovare spazio per ribellarsi. Volevo solo percepire
appieno i movimenti del mio bambino, come mai avevo fatto, neanche le
sere in cui non riuscivo a prendere sonno e mi fermavo ad ascoltarlo
con una mano accanto all'ombelico e un sorriso stampato in viso. Era un
momento per, finalmente, recuperare tutto ciò che avevo perso in quei
mesi, dove mi sembrava di essere stata spenta, senza anima, senza nulla
per cui vivere, quando invece ce l'avevo proprio dentro di me, ma il
dolore non lasciava spazio per niente che non fosse lacrime e urli muti
nel cuore della notte.
Sulla spiaggia, nel nostro piccolo angolo di paradiso personale, il
tempo sembrava essersi fermato. Tutto era come me lo ricordavo: sabbia
mista a ciottoli, la roccia deformata dal sale, gli scogli a un
centinaio di metri dalla riva... Esattamente come tanto tempo prima.
Ci eravamo costruiti, diciamo, quel posto tutto nostro, sebbene spesso
fosse affollato di gente. Ma quando non lo era, quando non si sentiva
altro che il mare mormorare e i gabbiani stridere, lavoravamo quel
posto come se fosse stato creta. Immaginavamo di costruirci un capanno
con le barche, un piccolo chiosco per i bambini. Cambiarlo e volgerlo a
nostro piacere.
Senza accorgermene, mi ritrovai seduta a pochi metri dalla riva, con i
palmi delle mani sulla sabbia, il viso rivolto verso il cielo, gli
occhi chiusi, l'udito assente.
Dentro di me sentivo le voci mie e di Edward, nel momento in cui mi
fece scoprire quel posto, quando mi aveva fatto sentire una donna per
la prima volta, quando avevo capito che in un corpo possono viverci due
persone senza grossi problemi.
«Edward, ti prego.»
«No, silenzio. E non sbirciare.»
Il fiato caldo di Edward mi solleticava la pelle dietro l'orecchio, il collo, il lobo, la guancia.
«Ma è proprio obbligatorio tutto
questo?», mormorai, con la voce tremante. Mi aveva messo una benda
sugli occhi appena saliti sulla sua auto e ancora non si era degnato di
dirmi dove mi stesse portando.
«Mh, già. E ora st, ascolta soltanto, d'accordo?»
Non risposi e sbuffai soltanto, e
percepii sotto i miei piedi della sabbia tiepida, scaldata dal sole di
metà settembre. Aprii la bocca per dire qualcosa ma fui colta alla
sprovvista da un fruscio accanto a me, poi da uno scroscio d'acqua,
degli starnazzi.
«Dove sono?»
Edward sorrise. «Attendi ancora qualche minuto.»
Essendo scalza, sentii ben presto qualcosa di freddo e umido sfiorarmi i piedi, e lanciai un gridolino di sorpresa.
La benda stretta attorno al mio viso
si allentò e le dita di Ed la tolsero. Rimasi ancora un po' con gli
occhi chiusi, fino a che non percepii le labbra calde del ragazzo sulle
mie.
«Eri tutta impaziente, e ora non guardi?»
Risi e dischiusi le palpebre. A parte
il bellissimo viso di Edward davanti al mio, alle sue spalle vidi il
mare, le onde blu morire sul bagnasciuga, i gabbiani bianchi
sopra le nostre teste, il cielo terso che si perdeva con l'orizzonte,
la sabbia fine e chiara.
«Cosa diavolo...»
Ed posò la mano sulla mia bocca, per zittirmi. «È il mio regalo di compleanno da parte mia, per te.»
Tutto divenne lucido, segno che le lacrime stavano per fare capolino. «Cosa? No, ehi. Sei pazzo!»
Mi strinse al suo petto, carezzandomi la schiena. «Manco avessi speso un capitale, amore.»
Mi aveva chiamata amore. Succedeva
spesso, ma in quel momento le sue parole mi bruciarono la pelle, la
baciavano. Quel termine aveva definitivamente mandato i miei neuroni
all'altro mondo.
«È tutto bellissimo, è un regalo
stupendo.», mormorai. Per alcuni, sarebbe stata una delusione,
ritrovarsi il giorno del proprio compleanno in una spiaggia deserta, e
non magari con qualcosa di sfarzoso addosso.
Ma per me, quello che davvero
importava, era il gesto, il pensiero che Edward aveva avuto. Era vero,
forse non era nulla di speciale, quel posto, ma per me, era
semplicemente perfetto. Rappresentava in qualche modo lui, e me,
insieme.
«Vieni.» Ed mi prese la mano e mi
portò fino ad un angolino lontano da occhi indiscreti, dietro una serie
di piante basse, dove il sole arrivava appena.
Mi fece sedere su una coperta che
forse aveva messo lui mentre io ero bendata, la schiena contro una
roccia. I nostri sguardi si incatenarono, i suoi occhi diventarono
specchio dei miei.
Pochi secondi dopo, la sua bocca
sigillò la mia, e ben presto sentii la sua lingua scollare le mie
labbra. Lo lasciai fare, ma lo fermai quasi subito, impaurita.
«Dammi... Dammi un secondo.»
Mi fissò sconcertato... e intenerito.
Dove era tutto il mio coraggio, in quel momento? Me ne sarei scappata
ben volentieri a gambe levate, eppure il mio desiderio nei confronti di
Edward era troppo forte, e come una calamita mi avvicinai di nuovo a
lui.
Mi inginocchiai sulla sabbia e
allacciai di nuovo le braccia al suo collo, posando le labbra sulle
sue. Erano morbide, vellutate, e soprattutto trasmettevano tutta la
voglia che provava nei miei confronti.
Slacciai la sua camicia, gettandola
dietro a un cespuglio, e lui fece lo stesso con la mia. Le sue labbra
percorsero il profilo della mia mascella, scendendo verso la spalla,
posandoci sopra piccoli tocchi.
Ben presto, mescolati al suono delle
onde infrante sugli scogli e alle grida dei gabbiani, si percepirono
respiri affannati, parole sussurrate al vento e mugolii silenziosi.
«Ti amo...», mormorai contro la sua fronte, socchiudendo gli occhi.
Ogni termine, ogni sussurro, ogni
respiro che affiorava sulle nostre labbra traspirava un amore così
forte da parere impossibile.
La mia mente era affollata da mille
pensieri, dai ricordi che avevamo passato assieme. Tutti incredibili,
ma nessuno riusciva a battere quel momento.
«Ti amo anche io, immensamente.», soffiò sulla mia guancia, portandomi ad un passo dal paradiso. «Ti sto facendo male?»
Scossi il capo, sebbene dentro di me sentii qualcosa rompersi e una lacrima mi sfuggì. «No, sto bene.»
Dolcemente, con la punta delle dita,
cancellò via quella piccola traccia di dolore dal mio viso, per poi
baciarmi di nuovo, per poi farmi perdere ancora una volta il controllo
della realtà.
Niente poteva superare l'attimo in cui divenni una donna, completa, assieme a lui. Niente era meglio di quello.
Ero nel mio angolo di paradiso personale, con la persona che amavo, e, momentaneamente, mi bastava.
Il peso dei ricordi era terribile, e in più era tutto volontario.
Rifugiarmi nel passato mi serviva, in qualche modo, per sentirlo
accanto a me, per sapere che lui era ancora vivo, che non mi aveva
lasciato mai, nonostante ora si trovasse a migliaia di chilometri da me.
Posai una mano sulla pancia, e cominciai a fantasticare con la mente.
«Ciao, piccolino.», sussurrai, e sperai con tutta mia stessa di
ricevere una risposta che non arrivò.
«So di averti un po' trascurato, ultimamente. E mi dispiace tantissimo,
però la mamma ti promette che non capiterà più, okay? È solo che...»
All'improvviso non sapevo cosa dirgli, se fargli veramente quel
discorso. So che poteva sentirmi, ma avrebbe avuto un senso quel
discorso per lui, che ancora non aveva visto i miei occhi, il mio viso,
il mondo intero?
«Tu conosci la mia voce, mi senti tutti i giorni, ti accarezzo dalla
mattina alla sera. Però sai, piccino, c'è una persona che vorrebbe fare
tutto questo e non può. È il tuo papà.»
Fissai le onde che arrivavano piene di schiume sul bagnasciuga. «Solo
che... non è qui, da come ti sei accorto. È lontano, tanto, e non so
quando sarà qui. Ma anche lui ti vuole bene, lo sai? Ti ama, ti ama
proprio come me. È triste perché sa che fra poco tu arriverai e forse
lui non sarà qui. Ma lui già ti conosce, quando parliamo assieme lui
ogni tanto ti vede. Sa come cresci, come sei bello e già sa che sarai
uguale a me. Io, in realtà, amore, spero che tu abbia preso tutto da
tuo papà, perché è bellissimo, dolce, ha un carattere forte.»
Un calcetto arrivò proprio in direzione del palmo della mia mano, e
sorrisi. «Però non posso dirti dove si trova. Lì c'è tristezza, decine
di persone muoiono ogni ora e pochi lo sanno, non sanno cosa sia la
felicità. Ci sono solo spari, scoppi, urla... E il tuo papà è lì, e non
se lo merita. Ma il tuo papà è un soldato, amore, e quindi il suo
dovere è proteggerci, anche da lontano.
E fra poco è Natale, e non sarà qui. È il primo natale senza di lui,
purtroppo. Però... però lo penserò tutto il tempo, perché è sempre nel
mio cuore, e mamma lo ama immensamente. Non riesco a stare un secondo
senza pensare a lui, e rabbrividisco tutte le volte che penso a cosa
potrebbe succedergli. È un posto terribile, quello in cui è adesso.
Ogni secondo rischia di morire, di andarsene per sempre da noi. E io...
io non potrei mai sopportarlo, amore, mai. Un'esistenza senza papà è
come il giorno senza sole, la notte senza luna e stelle. Sarebbe
terribile...»
Quando iniziò a piovere, non mi mossi. Lasciai che le goccioline di
pioggia si mischiassero con le lacrime, che mi scivolassero lungo il
viso indifferente, che mi bagnassero i capelli.
«E ora vedi? Anche gli angeli piangono, come la mamma. Ma non dovrei
piangere, non dovrei. Non fa bene né a me né a te, ci renderebbe
tristi. Purtroppo però mamma non riesce a essere felice, se papà non è
qui. Quando ho scoperto di averti dentro di me, lì sì che ero felice, e
spaventata, perché non sapevo cosa fare... Ero sola, indifesa, e tu già
eri grande come un fagiolo. Avevo paura di perderti, avevo paura che
anche tu te ne andassi, che mi lasciassi sola. Non avrei sopportato
tutto questo. Ma tu sei forte, amore, sei rimasto con me per tutto il
tempo. Anche se sei un birichino perché ancora nessuno ha capito se sei
un maschietto o una femminuccia... Io spero che tu sia un bel bambino
con gli occhi verdi e i capelli rossicci, uguale a tuo padre, così
avrei sempre una parte di lui con me. Ma se fossi una bambina so che
saresti bella come il sole, con le guance sempre imporporate e i
capelli color dell'oro e rossicci, ricci, lunghi e morbidi; gli occhi
grandi e luminosi, che riflettono la tua voglia di vivere. Saresti la
bambina più bella del mondo, saresti la mia principessa, ti amerei come
si può amare l'ultima cosa sulla terra. Ti amerò perché sei la mia
bambina, dentro di te custodisci la migliore parte di me, hai i miei
pregi e i miei difetti. E il tuo papà ti amerà perché sarai la cosa più
cara che ha qui, perché il tuo sorriso lo rallegrerà nei momenti bui,
perché quando vedrà il tuo viso crederà come davvero abbiamo potuto
fare un capolavoro come te.»
Risi della mia poca modestia, ma mi veniva naturale parlare a mio
figlio in quel modo, come se già mi capisse, come se già mi amasse.
«Ti amerà perché sarai il suo angioletto, la sua peste, il suo cuore,
perché la sera ti stringerà al suo petto e ti dirà quanto sei
importante per lui, perché le notti che passeremo insonni ti cullerà
per farti addormentare e ti sussurrerà all'orecchio le ninnananne più
dolci che esistono. Ti amerà perché... perché sarai tu, perché capirà
cosa si è perso in questi mesi, perché sarai la cosa più importante per
entrambi, sarai l'incoronazione del nostro amore, tutto ciò che abbiamo
sempre desiderato.»
Avevo iniziato a singhiozzare molto forte e qualcuno chiamò il mio nome
da lontano. Probabilmente era solo una mia impressione, ma quando mi
sentii toccare la spalla capii che non mi ero immaginata nulla.
«Cristo santo, Bella!»
Charlie aveva il fiato corto, teneva le mani sulle ginocchia e mi fissava incredulo. «Cosa ci fai qui?»
Scossi il capo, cercando una risposta, ma lui mi aveva già presa in braccio e portato il auto. «Dio mio, sei fradicia!»
Mi posò in una coperta calda sul sedile, stringendomi a sé per qualche
secondo. «Mi hai fatto preoccupare...», mormorò con voce così bassa che
a malapena distinsi le parole.
«Scusa, papà...», risposi sottovoce, e lui mi lasciò andare, sedendosi accanto a me.
Non mi rivolse più la parola per tutto il tragitto, e mi rannicchiai su
me stessa, con le braccia attorno alla pancia, come a proteggere mio
figlio. Arrivati a casa, mi sollevò di peso e mi scortò fino in
salotto, adagiandomi sul divano. Mia madre subito mi fu accanto, e mi
prese la mano.
«Dio mio, Bella, amore...»
«Sei uscita fuori di testa per caso? Ti abbiamo cercata per tutto il
tempo!», gridò spazientito mio padre, con gli occhi lucidi. Tutta
l'ansia provata ore prima stava venendo a galla.
«Charlie...», lo riprese mia madre, guardandolo severa. «Non mi sembra il caso di fare scenate proprio ora.»
«Renée, è il momento invece! Ti rendi conto di quello che sarebbe
potuto succedere? E se fosse caduta, o se si fosse fatta male, ed era
da sola? Se fosse successo qualcosa al bambino e lei non poteva
chiedere aiuto a nessuno?»
Abbassai il capo, con le lacrime pronte a uscire. Mi sentii
tremendamente in colpa, in quel momento, perché non avevo badato alle
conseguenze che poteva comportare quella mia azione. Non avevo
considerato il fatto che ero da sola, con un bambino in grembo... non
avevo pensato a quello che sarebbe potuto accadere.
«Non mi sarebbe successo nulla, papà...», tossii infreddolita. Quelle
parole scatenarono ancora di più l'istinto protettivo di Charlie.
«Questo lo dici tu! Ma non sempre le cose vanno come vorremmo noi,
Bells! Ci pensi se davvero fossi scivolata e avessi battuto la testa?
Cosa avresti fatto?»
Nascosi il viso sotto alla coperta, respirando più profondamente per non scoppiare a piangere come una bambina.
«Davvero, Renée... Non può comportarsi in questo modo, adesso. Non è più una bambina, è adulta ormai, e aspetta un bambino!»
«Char, per favore.»
Mio padre sbuffò e io alzai lo sguardo. «Posso andare in camera o no?»
Mi sentii tanto un'adolescente dopo un litigio con i propri genitori.
Quando raggiunsi la mia stanza, caddi sul pavimento, piangendo come mai
prima di allora. Tutto quel peso, tutti quei problemi erano troppo, per
me.
In quel momento, davanti ai miei occhi vidi il campo di battaglia.
Pieno di colonnine di fumo che salivano verso il cielo, rendevano tutto
offuscato. Non mi fu difficile trovare Edward.
Mi venne da vomitare quando, con la mia immaginazione, vidi il suo
volto, pieno di sangue e ferite aperte. Aveva gli occhi aperti, tesi
all'indietro. Le iridi verdi scomparivano oltre le palpebre.
La divisa a chiazze era macchiata di colore rosso, un po' ovunque. Sul
petto, sulle gambe, accanto al collo... in mano, teneva ancora un'arma.
Non trattenni un urlo, anche se sapevo benissimo che era tutto frutto della mia mente.
«Non ci sei... Non ci sei...», sussurrai, la fronte appoggiata al pavimento. «Perché non sei qui? Perché, amore mio?»
La calca all'aeroporto era
incredibile. Decine di famiglie, la mia compresa, erano stipate in un
angolo nell'attesa dell'arrivo di quel dannatissimo aereo, che avrebbe
riportato a casa i soldati, dopo mesi di lontananza.
«Chissà come sta Edward...»,
sussurrai, con le mani congiunte sotto il mento. Alice sorrise della
mia impazienza e mi carezzò la schiena.
«Starà bene. Non è la prima volta che si allontana, lo sai. Se la cava sempre.»
Per lei era facile. Da quando suo
fratello si era arruolato, lo avevano chiamato tre volte prima che io
lo conoscessi e quella era la prima vera occasione che stavamo così
lontani. Era vero, forse solo due mesi non erano nulla in confronto
all'anno intero che Esme e Carlisle avevano vissuto senza sapere se
loro figlio sarebbe tornato in patria... vivo.
Per loro non era stato facile
appoggiare il desiderio di Edward, ma dopotutto, quale genitore avrebbe
voluto vedere il proprio bambino in guerra?
Eppure loro avevano detto di sì,
avevano visto Ed salire su quell'aereo e avevano pregato notte e giorno
affinché non gli succedesse nulla. E la gioia che avevano provato
vedendolo correre verso di loro era indescrivibile.
«Lo spero, Ally.», sussurrai, e il
mio cuore iniziò a battere freneticamente. Mezz'ora dopo l'intero
reggimento ci raggiunse, e non resistetti quando vidi Edward in mezzo a
loro.
Gli corsi incontro e lui mi prese al
volo, stringendomi a sé. Le lacrime furono incontenibili, i singhiozzi
inarrestabili. Era lì, con me, era di nuovo tornato a casa.
«Edward...», continuavo a bisbigliare sulla sua spalla, mentre lui mi circondava con le sue forti braccia.
«Sono qui, amore mio, sono qui.»,
mormorò, catturando il mio viso fra le mani. I suoi occhi erano lucidi,
le iridi verdi brillavano per la felicità, e sembravano urlare al mondo
intero che anche quella volta ce l'aveva fatta.
Posò le labbra sulle mie e il bacio
che ne seguì fu il vero contatto che mi fece capire che non stavo
sognando. Il mio soldato, il mio Edward, era di nuovo con me, e mi
stava stringendo con tutta la forza che aveva in corpo.
«Mi sei mancato tantissimo...», dissi
sulla sua bocca e lui sorrise fra le lacrime, vedendo che indossavo il
suo bracciale. Me lo aveva regalato una settimana prima che partisse,
ed era stato terribile vederlo ogni giorno al polso senza avere la
consapevolezza se lui sarebbe tornato.
«Non potevo non fare ritorno, lo
sai...», rispose e si asciugò il viso con la manica della divisa. «Mi
sei mancata da morire pure tu...»
Gli carezzai la mano e mi accorsi che
si era chinato su un ginocchio, issandosi sull'altro. Aprii la bocca
per dire qualcosa ma non uscì neanche una parola e il suo viso comparve
un sorriso, il suo sorriso. Dio, come mi era mancato...
«Cosa... cosa stai facendo?», confabulai confusa, e lui mi fece segno di stare in silenzio. Stavo andando in iperventilazione.
Non so come ci riuscì, ma estrasse dalla tasca una scatolina blu, e quando l'aprì, il fiato mi si mozzò.
«Isabella Swan, prometto qui,
solennemente, davanti a tutte queste persone, di non lasciarti mai più
sola a soffrire. Ti amo e ti amerò fino a che questo pazzo cuore non si
fermerà, perciò vuoi farmi lo straordinario onore... di diventare mia
moglie?»
Annuii confusamente e ripetutamente e lui mi accolse sul suo petto. «Sì, sì e ancora sì...»
Mi baciò dolcemente, e capii che le mie preghiere, a qualcosa, erano servite.
«Non ti lascerò mai più, te lo prometto. Non rimarrai mai più sola, sarò sempre qui al tuo fianco, per sempre.»
Con quelle parole, sigillò il suo
giuramento sulle mie labbra e tutta la tristezza, la rabbia, il dolore
e la paura scomparvero dal mio corpo, lasciando solo il posto alla
cognizione che il mondo ora poteva anche finire, perché Edward era
accanto a me.
«Rimarrò sempre qui...», sussurrò
ancora, e sì, nulla ormai poteva separarci, nessuno poteva dividerci,
niente poteva spezzare il nostro amore senza prima distruggerci.
Angolino tutto mio :3
Io avevo avvisato sui fazzoletti, eh. Sono serviti?
Strano, ma vero, sono riuscita a scrivere questo capitolo in 4 gg :o
Be', anche se sono successe un paio di disavventure, come ad esempio il
pc che ha deciso bene di lasciarmi per sempre a piedi, dicendo alla sua
scheda madre di bruciarsi per non farmi scrivere -.- Fortuna volle che
avevo salvato tutto su un archivio (dovevo formattare) e quindi eccomi
qui :D
E poi, vi do un consiglio spassionato: NON INSTALLATE PER ALCUN MOTIVO LINUX. Mai.
È uno schifo, non lo sopporto. Mi ha cancellato mezzo capitolo (5
pagine) e ho dovuto riscriverle in un'ora... Se non è sfiga la mia.
Allora, cosa dire? Vedere ben 34 persone che hanno messo Be Still fra
le seguite solo per il primo capitolo... è emozionante. Non pensavo
facesse così tanto "clamore", in qualche modo... E poi ci sono le 14
personcine che l'hanno messo fra le preferite e le 2 fra le ricordate
<3
E poi le sette recensioni.. awwwwwwwwwwwww brodo di giuggiole proprio!
Comunque, davvero, mi avete reso una persona felicissima. Questo
progettino è importante per me, molto, e vedere che c'è gente che lo
apprezza... Be', dire che mi fa felice è insulso, e non renderebbe a
sufficienza l'idea.
Non so quando aggiornerò all'ultimo capitolo (OMG, mi fa strano dirlo
çWç). Sicuramente nel 2013 :) Peenso, mal che vada, il 2 o il 3, quindi
abbastanza presto :)
So, attendo ancora le vostre recensioni, che mi fanno taaaanto felice
(a chi non lo fanno? lol) e niente :) Spero che vi sia piaciuto questo
capitolo (come al solito mi è nato dal profondo del cuore).
Ci si legge ;)
BUON INIZIO 2013, CON LA SPERANZA CHE SIA UN ANNO MIGLIORE PER TUTTI. (iniziamo magari con qualche foto robsten, che dite? lol)
Un bacione, alla prossima,
Giulia.
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Capitolo 3 *** Heaven ***
Be still
Be
still
Capitolo tre: Heaven
“Si vede che lo ami.”
“Da cosa?”
“Dagli occhi. Lo guardi come se potesse
cadere in pezzi da un momento all’altro.
Lo guardi per salvarlo”.
Bella.
«Buon Natale, amore.»
Una
leggera pressione sulle labbra mi fece aprire lentamente gli occhi. Il
viso di Edward era a poca distanza dal mio, e sopra vi era stampato un
sorriso sghembo. I suoi occhi erano ancora lucidi dal sonno e la sua
bocca impastata.
«Mh... Buon Natale.», sussurrai, stiracchiandomi per bene contro il suo petto.
«Oggi dobbiamo fare il grande annuncio.», mormorò Ed, svegliandomi così completamente e mettendomi in ansia.
«Sarai con me, a dirlo?»
Mi carezzò dolcemente a guancia, sorridendo. «Io ci sarò sempre per te...»
Nessun “buongiorno, amore”,
nessun bacio o carezza, nessuna luce che filtrava appena dalle
tapparelle, nessun Natale uguale agli altri.
Quel pensiero martellava la
mia testa da ore, e non avevo chiuso occhio quella notte, piangendo
sotto l'onda di ricordi sulle feste in cui Edward aveva partecipato a
partire dal primo anno di fidanzamento.
Il primo cenone il giorno del Ringraziamento a casa dei suoi.
Il primo albero decorato assieme l'otto dicembre.
La prima vigilia fuori con gli amici.
Il primo Natale passato con le nostre famiglie ancora scettiche sul nostro rapporto.
Il primo Capodanno per i locali, a ridere e a pensare a come quell'anno fosse passato in fretta.
Il primo San Valentino, con il viaggio a Los Angeles, lontano da tutti, da soli.
Le nostre prime esperienze, le risate nate da uno sguardo solo, i fugaci tocchi in pubblico...
Quanto mi mancava tutto quello? C'era un modo o una parola per descriverlo?
Mi sfiorai la guancia e mi
accorsi che era umida. Stavo piangendo, di nuovo, dopo poco tempo che
ero finalmente riuscita a smettere.
La cosa più difficile da
assimilare, oltre all'assenza di Edward, era il fatto che io non
diventavo forte, dopo tutto quel tempo. Ogni volta che mi passavano
davanti agli occhi immagini di me e lui, insieme, mi ritrovavo a
singhiozzare per poi non finire più. Era snervante.
«Devo essere forte.», mormorai a me stessa, vestendomi per scendere al piano di sotto. «Non starà via in eterno, tornerà.»
Ma quella convinzione mi morì
sulle labbra quando accesi il cellulare e mi accorsi che non aveva
risposto al mio messaggio inviato la sera precedente.
A Kabul è
già Natale, e in realtà non so che augurio scrivere, vista la
situazione. Spero che tornerai presto a casa, perché io e il bambino
non vediamo l'ora di vederti, e lui vorrebbe conoscere il suo papà. Ti
amo, sii prudente, come sempre.
B.
Arrivai al punto di pensare
che la mia “presenza” e preoccupazione gli dessero fastidio. Erano
quattro dannati giorni che non si faceva sentire, ai miei SMS non
rispondeva, agli squilli non richiamava, su Skype era sparito... Al
campo dicevano che stava bene, quando riuscivo a contattare il suo
ufficiale, ma mai una volta gli passarono il telefono per farlo parlare
con me, mai.
Quindi, i fatti erano due: o
era molto occupato, oppure... Oppure qualcosa fra noi era cambiato. La
lontananza poteva eccome distruggere un rapporto, sgretolarlo e
soffocare gli amanti fino a farli morire...
Ci saremmo ritrovati così, prima o poi? Sarebbe successo?
«Buongiorno, tesoro. Buon
Natale.» Mia madre mi baciò la guancia quando arrivai in cucina e
meccanicamente risposi con un «Anche a te» appena sussurrato.
«Vuoi aprire i tuoi regali o poi vuoi farlo stasera quando torniamo da casa di Esme e Carlisle, cosicché sei più tranquilla?»
Alzai le spalle e le scossi un poco, cercando di dare importanza alla questione. «È uguale.»
«Allora facciamo con calma stasera, dai. Ora mangia qualcosa, okay?»
Mi carezzò i capelli e mi mise
davanti una tazza piena di tè fumante. Subito dopo, al richiamo di mio
padre in garage, si sistemò la vestaglia e lo raggiunse.
Si sarebbe prospettata così,
la giornata? Con finti abbracci, sorrisi, sentimenti non reali? E poi?
Saremmo tornati alla solita calma ricca di indifferenza?
Sospirai e guardai le foto
sulle pareti, accanto a me. Renèe aveva deciso di appendere alcuni
ricordi riguardanti me da bambina... in realtà aveva sepolto i muri di
casa nostra.
Lì, vicino a me, c'erano
immagini della vacanza che avevano organizzato i miei genitori il
secondo anno in cui io e Edward eravamo fidanzati... E ovviamente
avevano fatto di tutto per far partecipare anche lui, sebbene volessimo
passare due settimane da soli.
Quelle foto riscossero in me ricordi che non volevo tornassero a galla, sebbene fossero felici.
Il cellulare davanti a me vibrò per un lungo secondo e in quel lasso di tempo sperai fosse Edward, ma purtroppo non fu così.
Buongiorno, stellina! Buon Natale! Ti aspettiamo a casa nostra per pranzo ;)
Alice
Come ci riusciva? Come poteva
vivere tutta la gioia natalizia quando suo fratello non c'era?
Evidentemente, solo io mi facevo i complessi mentali, e non pensavo
altro che a Edward...
Finii la colazione e poi
ritornai in camera mia, almeno per cercare qualcosa di carino da
indossare, nonostante la mia allegria fosse sotto i piedi...
Ma proprio quando passai
davanti allo specchio, mi fermai di colpo. Qualcosa attirò la mia
attenzione come mai prima d'ora, e lo avevo sempre avuto davanti ai
miei occhi.
Mi soffermai su quella pancia
che ogni giorno cresceva sempre di più, dove dentro custodivo il bene
più prezioso che mai avessi potuto avere.
In quei nove mesi, mai davvero
mi ero accorta di quanto fosse... meraviglioso proteggere una vita
dentro di sé. Mi vergognai del fatto che, alla fin fine, non mi ero
occupata così tanto di mio figlio, tanto ero preoccupata per Edward..
E, come lui, mi ero persa, in qualche modo, tutte le bellissime
emozioni che si potevano provare.
«Oh... Ehi, ciao, amore...»,
sussurrai, tirando su la maglia del pigiama fin sotto il seno.
Accarezzai il punto in cui la pelle formava un bozzo, e istintivamente
sorrisi. «Buon Natale anche a te, piccolino...»
Rimasi per una mezzora
abbondante a fissare quell'immagine allo specchio e a fotografare da
ogni angolazione ogni centimetro di pelle testa, per catturare quegli
istanti e non lasciarli mai più andare via.
«Bella, tesoro? Tutto bene?»
Renée comparve sulla porta, e un sorriso fece capolino sul suo volto
quando mi vide sussurrare parole dolci al mio bambino.
Arrossii quando mi accorsi
della sua presenza e cercai di sembrare il più naturale possibile.
«Ehm... Sì, va tutto bene. Stavo cercando qualcosa da mettermi...»
In un secondo, tornai bambina,
quando all'età di quattro anni io mi sedevo sul letto e mia madre mi
proponeva i vestiti per la festa. Sebbene fossero passati vent'anni, la
situazione in quel momento era la stessa: scartavo senza pietà tutte le
idee di Renée, che rideva delle mie espressioni abbastanza disgustate
per i suoi abbinamenti dell'ultimo minuto.
Alla fine, optammo per una
camicia bianca e un paio di jeans, cadendo così nella banalità ma
rimanendo sempre il più comode possibile... O, per lo meno, io lo ero,
visto il pancione terribile che avevo.
«Sei bellissima, Bells!», sussurrò quando finii di vestirmi. «Ma c'è qualcosa che non va?»
Scossi il capo e lasciai che mi pettinasse i capelli, fissandola attraverso lo specchio. «Va tutto bene, mamma.»
Sorrise. «Ti conosco, tesoro, so come sei fatta, e so che adesso sei giù di morale.»
«Sto...»
Non terminai la frase e abbassai il capo, sentendo le lacrime pungermi gli occhi.
«Ehi...» Renée mi strinse al
suo petto e come d'incanto mi lasciai completamente andare fra le sue
braccia, come facevano i bambini dopo aver combinato un guaio o detto
una bugia, e si sentivano tristi.
«Mi manca, mamma, mi manca
terribilmente. È come se una parte di me fosse stata strappata via e
ora avessi un vuoto dentro. Mi sembra di urlare e nessuno mi
sentisse... è straziante. Voglio che torni, voglio che ritorni qui, da
me. Sono sola, sono persa.»
Sono persa.
Ero così da troppo tempo.
Mi sentivo persa come un giocattolo dimenticato.
Mi sentivo persa come una lettera in mezzo a un mucchio di cartacce.
Mi sentivo persa come una collana al fondo di un cassetto.
Mi sentivo persa come delle parole dette senza un'intenzione seria.
Ero persa, letteralmente.
«Ma tu amore non sei sola, c'è il tuo bambino.», mormorò mia madre, asciugandomi le lacrime, un tentativo che fu invano.
«Non è la stessa cosa, mamma!
Non è la stessa cosa! Edward non c'è, non so quando tornerà, e nessuno
mi può assicurare che arriverà a casa sano e salvo, nessuno!», sbraitai
osservandola negli occhi. Dentro quelle pozze grigie potevo vedere
tutto lo strazio che stava provando vedendomi in quello stato, e il suo
cuore si stava penando perché non poteva fare nulla per aiutarmi.
«Ora basta... Sttt, amore... La mamma è qui, la mamma è qui.»
«Dove ti sei fatta male, piccola?»
Avevo
quasi sei anni ed ero caduta dalla bicicletta quella mattina di aprile.
Erano i primi tentativi di andare in bicicletta senza le rotelle di
sicurezza; fino a che Charlie rimaneva al mio fianco, non mi succedeva
niente, ma quella volta avevo deciso di provare da sola, perché mio
padre era a lavorare, e mia madre era indaffarata a finire i
preparativi per il compleanno della nonna.
«Al ginocchio. Mi fa tanto male, mamma!», piagnucolai, pulendomi il viso con i pugni sporchi di terra.
Renée mi acconciò una ciocca ribelle dietro all'orecchio e mi carezzò la guancia. «Stt, non è nulla, gioia.»
«Ma mi fa
male!», esclamai, ricominciando a piangere. La donna mi prese fra le
sue braccia, stringendomi al petto e accarezzandomi i capelli. «Stt,
amore. La mamma è qui, la mamma è qui.»
Erano bastate quelle parole per farmi calmare nel giro di pochi minuti. «Ora do un bacino alla bua e passa tutto, okay?»
Annuii e lei posò le labbra sulla piccola sbucciatura sulla gamba, per poi baciarmi la fronte.
«È passato, scricciolo. La mamma è qui.»
«Ora passa tutto, ci sono io qui.»
Nonostante fossero passati
anni, sapere che la situazione non era cambiata mi faceva capire che
l'amore di Renée era sempre lo stesso, non era mutato.
Ero ancora la sua bambina
innocente e indifesa, il bocciolo di rosa che doveva essere custodito
come un gioiello prezioso. Nella sua mente, quando mi guardava, vedeva
ancora la piccola che borbottava nella culla, la bimba di quattro anni
al corso di danza, che si muoveva come una paperella, la peste che
correva per casa strillando come un aquilotto, la ragazzina impacciata
alle prese con i primi amori, la donna che si sposava con un militare.
Ma ero sempre la sua bambina.
«Ora, ascoltami: rinfrescati il viso, sciacquatelo, poi magari ti trucchi un pochino mentre io mi vesto, okay?»
Annuii poco convinta e mi
asciugai le guance con il dorso della mano, provando a sorriderle.
Forse quel periodo di menefreghismo era solo stato una mia
immaginazione, tutti si erano preoccupati davvero per me anche se non
me n'ero più accorta stufa com'ero...
«Dai, vado a prepararmi. Voglio trovarti pronta e con un sorriso stupendo stampato in viso.»
Uscì dalla stanza con la
stessa velocità con cui era arrivata e dietro di sé lascio il suo
profumo. L'odore di mamma, di amore, di compassione, di tenerezza...
Tutto ciò che poteva servire a descrivere la donna perfetta qual era
Renée.
La gioia del Natale mi penetrò
la pelle poco per volta a casa di Esme e Carlisle, dove le canzoncine a
tema riempivano l'aria, accompagnate dalle risate dei bambini che
ospitavano.
L'animo dei miei suoceri era
infinito, l'amore che donavano per dei bambini ogni anno era
indescrivibile. Non erano loro nipoti, ma bambini di un orfanotrofio
della zona, bambini senza genitori, senza l'affetto di qualcuno che li
amasse davvero. Abbandonati perché classificati come errori, come
sbagli da non ripetere mai, come oggetti da buttare via senza degnarli
di uno sguardo.
Come si poteva? A quel
pensiero mi carezzai il grembo, pensando a mio figlio. Io... non avrei
mai fatto una cosa del genere, non quando si trattava del sangue del
mio sangue, l'unione e il cuore di ciò che avevo creato con la persona
che più amavo sulla Terra. Ma non l'avrei mai fatto neanche se non
fosse stato lui, perché un neonato non si poteva gettare via come se
nulla fosse. Non si poteva, quale essere umano ci sarebbe mai riuscito?
«Terra chiama Bella.»
Sbattei più volte le palpebre e mi accorsi che Alice mi stava fissando di sbieco. «Tutto okay?»
«Sì, va tutto bene, stavo solo
pensando.», sussurrai e presi il piatto che mi stava sporgendo. «Lo
porto a tavola, così poi possiamo sederci.»
Annuì e mi sorrise, per poi
tornare ai fornelli. Quando entrai in sala da pranzo, vidi Esme e
Carlisle ballare sulle note di una vecchia canzone, che probabilmente
aveva segnato la loro giovinezza. Accanto a loro, Renée e Charlie
sorridevano abbracciati l'uno all'altra.
Non era la prima volta che
assistevo a una scena del genere, però ogni volta l'effetto era lo
stesso: l'amore, nonostante gli anni, non si rompeva ma si rafforzava
sempre più, fino a diventare un anello indissolubile.
Mio padre era visibilmente a
disagio: odiava ballare, o almeno questo diceva lui, dato che mia madre
mi raccontava sempre che quando erano fidanzati spesso e volentieri era
lui a portarla sulla pista.
Li lasciai fare e finii di apparecchiare il tavolo. Non mancava nulla, o almeno così mi sembrava.
«Bella, vuoi aprirli dopo i regali?»
Perché lo chiedevano proprio a me? «Sì, ora mangiamo che poi si raffredda tutto.»
Quando tutti ci sedemmo ai
nostri posti, mi accorsi che davvero qualcosa di diverso c'era, e da
brava masochista capii che era Edward.
Quel pensiero mi perseguitò
per tutto il pranzo e quasi non toccai cibo, tanto ero giù di morale.
Perché non poteva essere un Natale uguale agli altri? Che male avevo
fatto?
Più volte mia madre mi incitò
a mangiare qualcosa, ma appena avvicinavo la forchetta alla bocca un
senso di nausea mi risaliva la gola e dovevo fermarmi.
Mi estraniai dal gruppo quando
il piccolo Nick mi richiamò a giocare con lui. Era un bambino
bellissimo, i capelli neri erano una cascata di ricci su quel viso così
candido e innocente e gli occhi azzurri impreziosivano il suo volto.
«Tochiamo?»
Mi sedetti accanto a lui e lo
ascoltai parlottare fra sé e sé. Ogni tanto si girava verso di me e mi
sorrideva, oppure posava la manina aperta sul mio pancione per
ascoltare i movimenti del piccolo.
«Ma il bibbo ti muove?», domandò dopo un po', guardandomi con gli occhioni spalancati.
«Sì, guarda.» Appoggiai la sua
mano accanto al punto in cui poco prima era arrivato un calcetto, e
quando il bambino percepii un movimento sotto la sua mano, ridacchiò
stupito. «Ti muove! Ma mi vede?»
Sorrisi, carezzandogli i capelli. «Vederti no, ma ti sente.»
«Mi tente?» Sul suo viso vidi tutta la curiosità e le mille domande che gli invadevano la testa. «Quindi se pallo, mi tente?»
«Certo.» Si avvicinò alla pancia e borbottò qualcosa contro la maglietta, attendendo una risposta.
«Ma non lipponde!», disse dispiaciuto. Era così tenero... Come si poteva considerare errore un angelo come quello?
Qualche minuto dopo, mentre ero ancora immersa nei miei pensieri, tutti gli altri arrivarono in salotto, ridendo e sorridendo.
«Iniziamo con i regali per i
bambini.», esclamò Esme e Nick e la sorellina, Ania, strillarono
avvicinandosi all'albero. Li osservammo scoppiare in lacrime quando
scartarono i pacchetti e trovarono i doni che avevano desiderato. Forse
mai avrebbero provato quella gioia, in orfanotrofio...
Dopo toccò a Esme e Carlisle,
e successivamente ai miei genitori, che mi abbracciarono commossi.
Avevo deciso di regalargli un viaggio per solo loro due, visti i
sacrifici che avevano fatto per me i quei mesi per starmi accanto, per
aiutarmi nel percorso e per farmi sentire meno sola.
«E ora tocca a Bella.» Alice
si avvicinò a me e mi sussurrò all'orecchio che era necessario ciò che
stava per fare... E mi bendò.
Mi preoccupai leggermente per quello che stava succedendo. Perché rendermi cieca? Cosa c'era che dovevano nascondermi?
«Si può sapere il perché?», chiesi scettica e mia madre mi zittì carezzandomi i capelli.
«St, tranquilla.»
Attorno a me qualcuno iniziò a trafficare e a spostare mobili, e sentii Charlie e Carlisle ridere per chissà quale motivo.
Passarono altri minuti e la benda che mi avevano legato attorno agli occhi fu sciolta.
Davanti a me trovai un enorme
pacco di cartone, quelli che si usano durante i traslochi, con
tantissime scritte stampate sopra. Lo scotch chiudeva tutte le fessure
e guardai i presenti come per chiedere una risposta, che non arrivò.
«Non lo apri? È il tuo regalo, su!», mi incitò Alice, battendo velocemente le mani sulle gambe.
Sospirai e ripresi a fissare
quel pacco. Pensai che contenesse l'intero arredamento per la stanza
del bambino, però chi poteva dirlo?
Con un paio di forbici tagliai
l'adesivo che chiudeva il lato davanti a me. Non c'era carta da
imballaggi o polistirolo dentro, ma il vuoto. Era uno scherzo?
Poco dopo, quando provai a
sforzare il cartone ma qualcuno all'interno della scatola mi afferrò le
mani, fermandomi e facendomi sussultare. Il pacco cadde a terra e
trovai a pochi centimetri dal mio viso degli occhi verdi lucidi.
I suoi occhi verdi.
«Edward.», mormorai e il mio respiro si fermò.
E poi fu come incontrarlo una
seconda volta. Fu di nuovo come se il centro della gravità
cambiasse nuovamente, sballottandomi e confondendomi. Fu come se
il sangue scorresse in senso opposto nelle vene, come se il cervello
non rispondesse più ai miei comandi e come se il tempo si gelasse.
Vedere i suoi occhi fu la
goccia che fece traboccare il vaso. Risentire il suo viso sotto le dita
era la più bella sensazione e niente il mondo avrebbe potuto
eguagliarla, in quel momento. Il suo profumo era sempre lo stesso, non
era cambiato e ora mi carezzava la pelle come stavano facendo le sue
mani.
«Sei qui...»
Le sue labbra sfiorarono le
mie, e la sua pelle ritornò realtà, tutto divenne reale. Tutto era
tornato normale, perché lui era lì, Edward c'era di nuovo.
«Ti avevo promesso che sarei
tornato...», mormorò e mi accorsi che stava piangendo esattamente come
me. La sua fronte era a contatto con la mia, i nostri nasi si
sfiorarono e le sue mani si posarono al lato del mio viso.
«Hai mantenuto la promessa...»
Le parole mi scorrevano sulla bocca e scivolavano via assieme alle mie
lacrime. La felicità era a livelli indescrivibili, incontenibile.
«Dovevo tornare, dovevo...» Si
chinò all'altezza della mia pancia e nascose il viso fra le mani,
singhiozzando ancora più forte.
Tutta l'angoscia che aveva
vissuto in me per mesi in un instante sparì, lasciando posto a svariate
emozioni contrastanti. Non mi curai del fatto che avevo alcune piccole
contrazioni, che tutti ci stavano guardando e nemmeno se avessi potuto
fare qualcosa di errato.
In quel momento non c'era
nient'altro che noi, solo noi due, nella nostra bolla felice, estranei
alla tristezza, all'odio e a tutte le altre cose negative che avrebbero
potuto dividerci.
Edward. (Suggerimento musicale, ascoltatelo on repeat u.u)
L'aria che si respirava in
America era formidabile, ancora meglio se si trattava di Jacksonville,
a casa mia, con la donna che amavo, soprattutto se l'ossigeno aveva
l'odore dei suoi capelli e della sua pelle, se sapeva di amore e di
speranza... Di Bella.
Sembrava un sogno essere in un
posto dove non c'erano spari, urla, pianti, bombe, sabbia che volava...
Essere lontano da lì, dalla morte.
Ogni giorno, a Kabul, mi
svegliavo e ringraziavo Dio se ero ancora vivo, se qualcuno non aveva
attentato alla nostra tenda, se non c'erano stati attacchi nel cuore
della notte.
Essere sul filo del rasoio
sarebbe stato più confortante rispetto a tutto quello. Non avere la
speranza di potersi svegliare ancora dopo essersi coricati era
tremendo, perché in un secondo potevi perdere tutto, pure te stesso.
Bastava meno di un minuto per farti dimenticare tutto, per farti finire
all'altro mondo, per renderti cenere.
Era un pensiero che trovava
sempre posto nella mia mente e spesso mi chiedevo cosa avrebbero fatto
a casa sapendo che non c'ero più.
«Non dire mai una cosa del genere», mi ripeteva sempre Bells, quando parlavamo al cellulare e le dichiaravo quello che pensavo.
«Non potrebbe succedere niente di più brutto.»,
continuava sulle lacrime. Non riuscivo mai a finire davvero un
discorso, soprattutto se lei si metteva a piangere; non potevo neanche
rimanere lucido sapendo che stava male per me, per una mia decisione.
Allontanarmi da lei a marzo fu
problematico, ma lo fu ancora di più non tornare indietro e ritirarmi
quando mi inviò un sms, una sera, mentre io mi stavo preparando per una
nuova giornata.
Averti qui adesso, sarebbe la cosa più bella del mondo. Dovrei parlarti, chiamami appena puoi.
B.
Inutile dire che smisi subito ciò che stavo facendo e digitai il suo numero, con il groppo in gola e l'ansia a mille.
Appena sentii la sua voce, capii che era incrinata e c'era qualcosa sotto.
«Adesso però non ti arrabbiare, e non decidere di lasciare il tuo posto, okay?»,
aveva sussurrato e io avevo solo chiesto di dirmi cosa c'era che non
andava. Le sue parole furono un colpo al cuore e dovetti tenermi al
letto per non cadere,
«Sono incinta. Aspetto un bambino...»
Il respiro mi si era mozzato in gola e non sapevo più cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
«Però sto
bene! Stiamo bene... Domani prenoto una visita, devi solo stare
tranquillo, okay? Andrà... tutto bene, sono fiduciosa.»
Non avevo più la forza per
risponderle, perché in quel momento mi sentii come preso sotto da un
treno a centinaia di chilometri all'ora, percepivo il mio corpo
maciullato.
La mia risposta non fu quella
che veramente desideravo comunicarle. Sembrai un mostro, mi sentii tale
tanta era la cattiveria e la rabbia che fecero trapelare le mie parole.
«Cosa?
Cristo santissimo, Bella! Ma come? Come fai a dire che andrà tutto
bene? COME FAI?! Io sono qui, a rischiare di morire, non so se il
giorno dopo sarò ancora qui o meno... E tu mi dici che sei incinta?
Dio, non ci posso credere! Ti amo, io voglio un figlio, ma non ora! Non
quando non ho la sicurezza di poterti abbracciare di nuovo! Come potrei
tirare avanti i giorni qui sapendo che dentro di te cresce mio figlio e
io non lo potrò vedere, seguire le visite, sentire i suoi primi
movimenti.. nascere? Come potrei, come?!»
Un animale, messo a confronto, avrebbe avuto più amore e delicatezza.
«Tu... non lo vuoi?», aveva mormorato lei, singhiozzando. «È questo?»
Dopo quelle frasi, non sapevo se aveva ancora un senso dirle davvero quello che pensavo.
«Certo che lo voglio! Dio, ho sempre voluto una famiglia con te, lo sai... Ma non in questo modo. Non ora.»
Aveva continuato a ripetermi
che tutto sarebbe andato bene, che quella volta non sarebbe successo
niente. Io avevo chiuso la conversazione capendo che non ero nulla, in
quel momento. Non potevo diventare padre se mi perdevo la prima
gravidanza e la nascita di mio figlio, non lo sarei davvero stato.
Erano passate notti in cui
pensavo di finirla e fare ritorno a casa, tornare ad abbracciare Bella
e condurre con lei una vita normale, passare con lei ogni attimo di
quell'attesa. Però spesso mi dicevo che comunque non avrei fatto la
cosa giusta, se avessi mollato il mio lavoro, il mio incarico. Lei non
sarebbe stata felice, e non volevo ferirla ancora di più.
Ancora mi chiedo come avessi fatto a passare otto mesi lontano da lei, da loro... Dalla mia stessa vita.
«A cosa pensi?»
Averla nuovamente vicino,
sentire la sua voce non solo attraverso un telefono, percepirla
finalmente sotto il mio tocco sembrava irreale, ancora non potevo
immaginare di essere di nuovo accanto a lei.
Scossi il capo, sorridendole e
sfiorandole con la punta delle dita la guancia ancora umida. L'idea del
regalo era stata mia, non avevo trovato modo migliore per presentarmi
davanti a lei, ed era stato un pensiero carino. Avevo fatto ancora
centro, perché aveva passato le due ore seguenti a piangere
ininterrottamente. «A nulla.»
«Ancora non riesco a crederci
che sei di nuovo qui, accanto a me.», mormorò e strusciò il viso contro
la mia spalla. Era un vizio che mai si era tolta, e adoravo quel suo
particolare che la faceva sempre arrossire.
«Mi sei mancata
tantissimo...», sussurrai baciandole la fronte, assaporando di nuovo il
suo profumo, che per mesi mi aveva fatto lottare per riaverla.
«Pure tu, amore... Pure tu.»
Dolcemente, avvicinò le labbra alle mie e lasciai che quel contatto
continuasse fino all'infinito, anche se dopo qualche secondo dovette
staccarsi per riprendere fiato.
Le sue mani erano intrecciate
alle mie, legate sopra quel pancione prominente. Per tutto il tempo,
non avevo fatto altro che guardarlo e chiedermi se davvero potesse
esserci qualcuno lì dentro.
«Voglio andare a casa...»
Le carezzai i capelli, aiutandola ad alzarsi. «Sei stanca?»
Annuì e mi sorrise raggiante. «Colpa tua e della tua folle idea.»
Fu difficile riuscire a uscire
da casa dei miei genitori. Esme e Carlisle ci misero venti minuti
abbondanti a lasciarmi andare, dato che continuavano ad abbracciarmi, e
Alice... Be', Alice non smetteva di sorridere, fissandomi. Era stata la
mia complice, lei sapeva tutto da mesi ormai. Era stata la prima
persona a venire a conoscenza del mio progetto, era rimasta attaccata
al filo del telefono per ora a parlare con me per dirmi che ero un
pazzo, che non potevo farlo davvero. Eppure avevo convinto i caporali e
gli ufficiali, e insieme avevano deciso un grande piano per me, che
però ancora tenevo segreto.
Arrivare a casa nostra –
nostra, com'era strano dirlo, fu l'apice della giornata. Tutto era come
l'avevo lasciato: la cucina era ancora l'angolo speciale con
quell'odore onnipresente di cannella, il salotto brillava alla luce del
caminetto, la nostra camera profumava ancora di tutte le notti passate
insonni ad ascoltare il respiro dell'altro, a rincuorarla e ad
asciugarle le lacrime... Il nostro paradiso era sempre lo stesso.
Quando entrai nella nostra
stanza mi accorsi che sul comodino dalla parte di Bella c'era il mio
braccialetto, le nostre foto e una piccola collana con un angelo e la
Madonna.
«Hai...»
«È stato un modo, per me, per
sentirti ancora vicino. Non... sapevo come aiutarti, e guardarti mi
sembrava un ottimo metodo per salvarti, per farti rimanere forte
laggiù.»
La strinsi a me, cullandola dolcemente. «È... una cosa meravigliosa. Anche io avevo al campo, accanto al letto, una tua foto.»
Sorrise contro il mio petto e
poi si tirò su, come scottata. «Cosa c'è?», domandai allarmato, e lei
spostò il proprio sguardo verso la porta che dava sul corridoio.
«Posso farti vedere una cosa?»
Annuii deciso, e lasciai che
mi trascinasse fino al mio studio, o almeno quello che era fino a otto
mesi prima. «Non arrabbiarti però, okay?»
Spalancò l'uscio e davanti a
me si parò una stanza vuota, senza finestre alle tende, il soffitto e
le pareti bianche, un parquet chiaro poggiato a terra, decine di
scatoloni, piccoli e grandi, che seminavano l'intera camera.
«Avevo... avevo pensato di
arredarla per il bambino, ma ogni volta che entravo qui mi mancava la
forza. Non ci sono mai riuscita, non ho fatto nient'altro a parte
riempire le scatole delle tue cose, ma non volevo farle sparire. Volevo
rendere questo posto perfetto per il nostro bambino, però appena
prendevo in mano qualcosa di tuo, non trattenevo le lacrime e dovevo
scappare da qua dentro. Ho versato così tante lacrime su questo
pavimento... Non puoi immaginare.»
Il mio sguardo vacuo vagava
lungo i muri, per terra, accanto a tutte quelle cianfrusaglie che
l'avevano ferita ancora più di me...
«E... ora manca poco tempo
alla nascita del bambino, e potrebbe accadere anche stanotte... Non
abbiamo un posto adatto a lui, non abbiamo le cose necessarie per la
sua cura. Okay, abbiamo i pannolini, le tutine... ma ci mancano i
biberon, i ciucci, il carosello con le apine da appendere sopra la
culla... Non abbiamo nulla, ci manca tutto. Non siamo pronti.»
I suoi occhi rimbalzarono
contro i miei e d'impulso le presi le mani. «Ma non ci manca la forza
di volontà, amore. Possiamo ancora fare tutto, forse arriveremo un po'
in ritardo, ma con lo spirito giusto ci riusciremo, siamo in grado di
riuscirci.»
Il suo sorriso mi fece capire
che le mie parole avevano fatto breccia dentro di lei. «Posso sempre
chiedere alle ostetriche di tenerlo un po' di più dentro, non è un
problema.»
Ridemmo entrambi, lei contro di me, e mi fermai quando vidi in un angolo un oggetto che per me era di grande valore.
«Non hai... Perché non hai
impacchettato la chitarra?», domandai incuriosito, aggrottando le
sopracciglia. Senza accorgermene, mi ero già diretto verso lo strumento
e Bella mi fissava interdetta.
«Non.. non ne avevo il
coraggio.», ammise, stringendosi nelle spalle. «Lasciandola lì mi
sembrava di avere un pezzo di te sempre vivo in questa camera, come a
badare che nessuno ci entrasse.»
Presi la chitarra in mano e con lei mi diressi di nuovo in camera da letto, dove ci sedemmo e le dissi di stare in silenzio.
Mi sorpresi di quanta
naturalezza mi nacque quando feci scorrere le dita contro le corde,
lungo il legno scuro e presi a suonare. Guardavo Bella sorridere
davanti a me, ammirata, con le lacrime sul bordo degli occhi, a
stringersi le mani tremanti contro la pancia.
In quelle note racchiusi tutto
ciò che provavo per lei, tutto il mio dolore per la lontananza, tutto
la paura di poter perdere lei e il bambino, tutta il terrore di
lasciarla per sempre, tutto l'amore che provavo e avevo provato durante
quel lungo periodo, tutta la speranza di rivederla ancora, tutta la
gioia di riaverla fra le braccia.
Non mi lasciò terminare il pezzo che si era rifugiata sul mio petto singhiozzando e tremando come una foglia.
«Oh, Edward...», sussurrò e il
suo bisogno d'affetto la spinse a fermare le lacrime posando le labbra
sulle mie. Sotto le dita riuscivo a sentire tutta l'angoscia che aveva
tenuto dentro di sé uscire fuori e farla finalmente sfogare. «Ho avuto
tanta paura di perderti...»
«Ehi, stt... Amore, Bella, ora
sono qui, sono qui...» Le massaggiai la schiena con gesti lenti e
circolari, percependo la calma crescere in lei.
«Non mi abbandonare più...», mi implorò. La sua fu una supplica, un appello, un richiamo di aiuto, un bisogno. Una necessità.
«Non lo farò mai più. Non ti lascerò mai, per niente al mondo. Sarò sempre con te, al tuo fianco.»
Tirò su con il naso e mi guardò intensamente oltre la coltre di lacrime. «Me lo prometti?»
«Te lo giuro su cosa ho più
grande al mondo. Non mi allontanerò mai più, non ho bisogno di tutto
quell'odio per capire cosa sia davvero l'amore.»
Strofinò gli occhi sulla mia camicia, mormorando un grazie appena udibile.
«Se ci sei tu, non ho bisogno del paradiso.», risposi e nei suoi occhi vidi una luce brillare come poche volte era successo.
«Tu
sei il mio paradiso... Sei tutto quello che ho sempre voluto.»,
continuai e sulle sue labbra lasciai traboccare tutti i miei sentimenti
verso di lei.
Era lei, era nostro figlio,
era la nostra vita assieme. Era tutto ciò che ci riguardava ad essere
il mio posto perfetto, e se avessi potuto scegliere un luogo dove
passare il resto dei miei giorni, sarebbe stato quello.
«Sono
qui... Per sempre.», promisi, e in quell'istante tutto divenne eterno e
perfetto, soprattutto se c'erano in ballo Bella, mio figlio... la mia
stessa vita, la mia stessa anima.
Angolino tutto mio :3
Oddio... Oddio oddio oddio...
Sto piangendo, è la prima volta che pubblico l'ultimo capitolo di una ff, devo farci l'abitudine, vah.
Avete vistooooo? EDWARD IS BACK! Mi pareva un po' ovvio che l'avrei fatto tornare a casa u.u E ora sono insieme *^*
Io avevo avvertito dei fazzoletti, eh eh u.u
Sono serviti? A me sì, taaaaaaaaaaaaaaaanto. Ho pianto come non so cosa
scrivendo il capitolo, non è stato facile, ma ci sono riuscita.
Che dite, com'è? Ditemi ditemi ditemi *^* Magari con una recensioncina?
A proposito... Vi rendete conto di quanto siete cresciuti? ç__ç
Insomma, venti persone nelle preferite, più di 40 nelle seguite...
Incredibile! Vedere così tanto entusiasmo per questa schifezzina qui... wow! Davvero. Non saprei come sdebidarmi!
Allora, io non vi so dire quando posterò l'epilogo, spero molto presto
- prima dell'inizio della scuola (cavolo). Però domenica è il mio
compleanno quindi xD Un po' di riposo posso meritarmelo, vero? u.u
Btw, spero che abbiate letto il pov Edward con il suggerimento musicale
(non molto indicato, i know) perché mi ha aiutato a scriverlo (:
Ora... niente. Siamo quasi giunti alla fine, e per questo aspetto numerose le vostre recensioni... PLEEEEEEEEEEEEEEASE!
Cmq, ci leggiamo all'epilogo (che brutta parola çWç)
Attendo i vostri commenti <3
Besos,
Giulia.
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Capitolo 4 *** Love of a Life ***
Be still
Be
still
Capitolo quattro: Love of a life
Edward.
Aprii gli occhi con il fiatone e la fronte madida di sudore. Mi toccai il petto e trovai il mio cuore che batteva come non mai.
Sto bene, okay. Solo... Devo calmarmi.
Guardai il buio che mi sovrastava, cercando di tranquillizzarmi. Era
stato solo un brutto sogno, ero a casa mia, nel letto, con la donna che
amavo al mio fianco.
Mi girai verso Bella, che dormiva tranquilla, il viso rilassato, le man
strette a pugno attorno alla pancia. Finalmente faceva sogni
tranquilli, perché da quanto aveva detto Renée, per molte notti non
aveva chiuso occhio, oppure si era svegliata urlando.
Ma da cinque giorni a parte, finalmente dormiva tranquillamente, senza avere incubi.
Al contrario, sembrava che qualcuno si divertisse a far girare nella
mia testa le immagini terribili che avevo visto con i miei stessi occhi
in Afghanistan. Nel sonno, rivedevo i bambini senza genitori piangere e
chiedere aiuto, le donne che per strada recuperavano i cadaveri di
mariti e figli persi in guerra, strillavano sopra i corpi e chiedevano
al loro dio dove fosse in quel momento di disperazione. Rividi tutti
gli abitanti scappare urlando terrorizzati, le anime innocenti prese
dai mitra senza un perché.
Mi chiesi il perché di quella mia scelta. Perché avevo deciso di
arruolarmi, sapendo bene quello che mi attendeva? Quando ero bambino,
il padre di Carlisle, Joseph, veniva spesso a farci visita; era un
soldato e quindi per lui era più che naturale parlare delle guerre a
cui aveva partecipato, facendomi così appassionare al campo. Un
compleanno ricevetti un aeroplano da appendere, che era un modellino di
uno militare. Al compimento dei diciotto anni, feci domanda per
l'arruolamento, che fu accolta qualche mese dopo.
E ora però mi stavo nettamente pentendo di tutto, soprattutto del fatto
che mi ero allontanato per troppo tempo da Bella e mi ero perso la cosa
più importante del momento: nostro figlio.
«Ehi... Stai bene?»
Non so come, ma Bella riuscì a svegliarsi e mi stava guardando di sbieco, con gli occhi assonnati.
«Sì, è tutto a posto.», mentii, carezzandole i capelli. Mi sorrise appena e si tirò leggermente su, issandosi sul gomito.
«Oh...», mormorò, massaggiandosi il fianco. Subito mi allarmai e mi sedetti davanti a lei, aiutandola a tirarsi su.
«Amore, che succede?»
Corrugò la fronte e si toccò la pancia, proprio appena sopra l'osso del bacino. «Mi.. mi devo alzare un attimo.»
La seguii fino in bagno, dove si aggrappò al lavandino prendendo
respiri profondi. Teneva gli occhi chiusi, la testa reclinata
all'indietro, la fronte corrucciata.
«Mi puoi dire che succede?», chiesi allarmato, provando a scostare i
capelli dal viso. Cacciò la mia mano, facendomi segno di rimanere in
silenzio e di aspettare.
«Era... una contrazione, diversa dalle altre... Ha fatto più male del
solito.» Si massaggiò la schiena, accucciandosi sulla mia spalla.
«Ora è passata?», sussurrai sui suoi capelli e lei annuì. «Sì... Ogni
tanto capita, ma mai così... è la prima volta, che strano.»
Alzai le spalle e mi chinai all'altezza della pancia, sollevando il maglioncino da notte.
«Ehi, piccoletto... Vedi di fare il bravo, intesi?» Bella rise,
carezzandomi la testa. «Non fare del male alla mamma. È vero che non
vediamo l'ora di conoscerti, ma se aspettiamo l'anno nuovo è meglio.»
Quando mi risollevai, le labbra di Bella catturarono le mie. «Magari se
sta ancora un po' lì dentro, darebbe ancora un po' di tempo a mamma e a
papà per preparare tutto.»
«Mh...», sussurrai e lei mi carezzò la guancia.
«Ti amo... E grazie per essere qui...»
«Edward, sei in casa?»
Quando percepii la voce di mia moglie nell'ingresso di casa nostra, mi
alzai così di scatto da prendere in pieno la porta in faccia.
«Cazzo!», imprecai, probabilmente così forte che riuscì a sentirmi.
«Va tutto bene?»
Mi massaggiai la fronte, e fui sicuro che presto sarebbe spuntato un bernoccolo. «Sì! Tutto a meraviglia!»
Uscii da lì in un batter d'occhio e raggiunsi Bella in cucina in pochi
secondi. Quando vidi che indossava la maglia che avevamo comprato poco
tempo prima, un sorriso nacque spontaneo sul mio viso.
«L'hai messa.», mormorai orgoglioso, e quando capì a cosa stessi riferendo, si toccò orgogliosa il pancione.
«Mh, già.» Rilesse la frase in stampatello che c'era scritta sul tessuto chiaro – arrivo a gennaio,
e mi guardò negli occhi. «La commessa mi ha chiesto quanto manca ed è
stato strano dire che il termine è fra poco più di due settimane.»
Le baciai dolcemente le labbra, carezzando con la mente l'idea che,
davvero, ormai la nascita era vicina. «Fra poco stringeremo il nostro
bambino...»
«O bambina.», aggiunse lei, sorridendo. «Ti ricordo che ancora non sappiamo nulla su di lui.»
«O lei.», scherzai e mi diede un pugno affettuoso sul petto.
«Sbruffone. Ehi, mi dai una mano con la spesa? Ho preso un paio di
cosine carine.»
Svuotammo le borse e Bella mi fece vedere tutti gli oggetti che aveva
preso per il bambino, tra cui il primo ciuccio. Mi incantai a vedere
quanto fosse piccolo e mi chiesi se sarebbe stato così anche mio figlio.
«Cosa guardi?» Bells mi carezzò una guancia e con gli occhi lucidi gli feci notare il ciucciotto che avevo in mano.
«Stavo pensando... a quanto voglio averlo qui, a quante cose mi sia
perso...», mormorai, con la voce incrinata, e lei appoggiò il
succhiotto sul pianale della cucina e mi abbracciò.
«Ehi...» Mi fissò con uno sguardo addolcito e mi baciò il palmo della
mano, per poi posarsela sul pancione. «Non sentirti in colpa...»
«Invece lo sono... Devo esserlo. Io... è stupido, ma è come se non conoscessi il mio bambino...»
Posò entrambe le mani ai lati del mio viso, allacciando i miei occhi ai
suoi. «Ora ascoltami bene, chiaro? Le ecografie, gli esami, le
visite... tutto questo, era solo una piccola parentesi. Quando arriverà
il piccolo, quando lo sentiremo piangere per la prima volta, le notti
insonni che passeremo... Quello sarà l'inizio, il vero inizio di tutto.»
«Comunque sei rimasta sola ad affrontare tutto.», le feci notare e lei
sorrise. «Sarà anche vero, ma me la sono cavata egregiamente. Quindi,
non tirati giù, okay? Ora sei qui, questo conta davvero.»
Sviai il resto del discorso e le baciai la fronte. «Appena hai finito, devo farti vedere una cosa.»
Aggrottò la fronte, osservandomi. «Cioè?»
«Tranquilla, non devi preoccuparti.», sorrisi e tornai nella stanza accanto, lasciandola con un enorme punto interrogativo.
«Dai, me lo dici?»
La sua voce sembrava quella di una bambina capricciosa e quando voltai
il capo verso la porta, la trovai lì, ferma, a guardarmi. Gli occhi
erano sgranati e sbatteva velocemente le palpebre.
«Sarebbe una sorpresa...»
Sbuffò. «Sai che le odio. Perché sei così fissato?»
«E tu perché non riesci mai a farmi contento, accettandole?»
Ci ritrovammo faccia a faccia, nella medesima posizioni: mani sui fianchi, visi seri e sguardi che fissavano l'altro.
«Le accetto, ma non sono capace a stare buona... E tu non sai mantenerle segrete.»
Risi ironicamente e le pizzicai il braccio. «Certo. Mi pare che una volta però ci riuscii.»
Capii cosa stavo intendendo e divenne tremendamente rossa. L'unico
regalo di compleanno che ero riuscito a darle, un anno, fu renderla
finalmente una donna, ma soprattutto la mia Bella.
«Sbruffone. Comunque ho finito, ora posso sapere?»
Sospirai e la feci girare, per poi metterle le mani sugli occhi. «Non dire niente.»
«No, ti prego!», brontolò, provando a scrollarsi di dosso. «Potrei cadere!»
Ma ormai stavamo salendo gli scalini che portavano al piano di sopra e non aveva molto da lamentarsi.
«Se cadi, ti prendo io.»
«Uff... Mi fai almeno vedere?»
Sorrisi sulla sua spalla e scossi il capo. «Neanche per sogno. Adesso stai brava.»
Percorremmo il piccolo corridoio e mi fermai all'improvviso, facendola barcollare.
«Pronta?»
Bella.
«Pronta?»
Evidentemente, in più di cinque anni di relazione, Edward ancora non aveva ben capito cosa intendessi per “Odio le sorprese”.
Ogni volta che mi riservava qualcosa, finivamo sempre per discutere.
Come al solito, era tutta colpa sua, perché era lui a decidere tutto
quanto.
Forse erano state le brutte esperienze del passato a portarmi verso
quell'odio ricorrente per i regali inaspettati. C'era stato un anno,
forse per il mio decimo compleanno, dove Charlie mi portò a fare un
giro per i boschi. Adoravo passare il tempo con mio padre, e quella
volta non fu tanto diverso, all'inizio. Mi portò sulle spalle,
nonostante il mio non gracile peso, e ridemmo per tutto il sentiero.
Giunti al torrente, mi aveva lasciato giocare con l'acqua, ma sui sassi
scivolai e battei violentemente la testa. Risultato: commozione
cerebrale e un braccio rotto, proprio il giorno del mio compleanno. E
mio padre aveva fatto tutto di nascosto.
Da quel momento iniziai a odiare le feste e le sorprese, peccato che Edward non ne tenesse mai conto.
«Posso aprire gli occhi?»
«Tu prima rispondimi.», disse mio marito, e potei sentire il suo sorriso contro il mio orecchio. «Sei pronta?»
Annuii e le sue mani si allentarono sul mio viso, per poi sparire del
tutto. Ci trovavamo davanti alla porta della cameretta di nostro
figlio, ancora a soqquadro. Ci mancavano pochi passi per terminare il
lavoro, e in due giorni avevamo pitturato le pareti, appeso i chiodi
per delle future fotografie e disposto tutte le luci notturne.
«Che ci facciamo qui?», domandai, allacciando i miei occhi ai suoi. Sul
suo volto ricomparve il solito sorriso sghembo e prese a giocare con le
mie dita.
«Non ti arrabbiare, okay?»
«Perché dovrei?» Tutto diventava sempre più sospetto, eppure il suo viso mi ingannava.
Indicò la porta. «Basta che non diventi una furia.»
Alzai le spalle, non capendo, e unì la mia mano alla sua e abbassò la
maniglia, prendendomi poi per i fianchi e spingendomi leggermente
all'interno della stanza.
In pochi secondi passai da una situazione di totale confusione a una di stupore e incredulità assoluta.
«Ma cosa...»
Le lacrime risalirono gli occhi, pungendo sui bordi e rendendo l'immagine davanti a me sfocata.
Tutto sembrava un paradiso. C'era la culla, il fasciatoio, la sedia a
dondolo con la coperta, le tendine verdi in tinta con il resto della
stanza...
«Edward...», singhiozzai, portando le mani alla bocca. Non avevo parole
per descrivere quello che mi si parava di fronte. Fino alla sera prima
la stanza era vuota, fatta eccezione per le lucine e il lampadario, ma
la culla, il cassettone con i vestitini e i pannolini, le lozioni sopra
il fasciatoio, il carillon non c'erano.
Dal vuoto incontrollabile alla vita, letteralmente. Quella stanza ora pullulava di vita e gioia.
«Ma come hai fatto?» Intanto mi ero avvicinata al lettino, che avevamo
scelto pochi giorni prima in negozio e subito portato a casa con
l'aiuto dei miei genitori. Ora il legno bianco risplendeva sotto la
luce chiara del lampadario, il paracolpi con gli orsetti cucito da
Renée brillava e sotto le copertine già mi immaginai nostro figlio
riposare tranquillo, con i pugni stretti e il respiro regolare.
«Ho approfittato del fatto che ero da solo in casa. E tua madre
comunque è un'ottima aiutante, dovrò tenerlo presenta ancora di più
dopo il mio ritorno.»
Sorrisi fra le lacrime e accarezzai il carillon appeso sopra la culla.
Aveva i personaggi di Winnie the Pooh appesi, che penzolavano dai
cordoncini colorati. Pensai già alla melodia che si sarebbe espansa in
tutta la camera quando sarebbe giunto il momento della nanna...
«Un giorno se la vedrà con me... Com'è possibile che con la lingua
lunga che si ritrova riesce sempre a tenersi buoni tutti i segreti? Non
è giusto.», mi lamentai scherzosamente e Edward rise. Rideva come un
tempo, era di nuovo lui, lo stesso uomo prima dell'ultima partenza.
Mi sedetti sulla sedia a dondolo, cominciando a oscillare. La mia mente
vagò ancora, disegnando una delle immagini del mondo più dolce che
potesse esistere: io e nostro figlio accoccolati una vicino all'altro,
nel cuore della notte, ad ascoltare i nostri respiri. Lui attaccato al
seno e io ad accarezzargli i capelli rossicci, come quelli di suo
padre.
«È perfetta, è come l'avevamo sempre immaginata...», mormorai quando Ed
mi strinse fra le sue braccia. Il legno bianco dei mobili era divino
accostato al verde chiaro delle pareti e all'azzurro del soffitto.
«E sarà perfetta anche per lui...», aggiunse lui fra i miei capelli, osservando il capolavoro che aveva compiuto da solo.
«Sarà tutto perfetto, quel giorno.»
«Allora, vediamo un po' questo bambino.»
Non ero mai stata così agitata in
vita mia prima di allora. Edward stringeva convulsamente la mia mano,
tremando, e io aspettavo solo di vedere mio figlio sullo schermo di
quel computer.
«C'è qualcosa che non va?», chiese la
dottoressa, vedendo tutta la nostra preoccupazione manifestarsi
all'improvviso. Scuotemmo in capo in contemporanea, per poi sorridere.
«Edward è la prima volta che vede il bambino... Dal vivo, attraverso un'ecografia.»
La donna annuì e posò l'ecografo sulla mia pancia.
«Ehi, calmati.», sussurrai a Ed,
carezzandogli la guancia con la mano libera. Posò il capo accanto alla
mia spalla, e poi sentire il suo fiato spezzarsi a intervalli
irregolari.
«Allora, eccolo qui.»
Pochi secondi dopo, sul monitor
comparve mio, nostro figlio. Ormai ero abituata a vederlo, per via
delle visite mensili, ma Edward... Edward rimase totalmente fulminato.
Smise di respirare e le sue lacrime mi inumidirono i capelli. «Ehi...»
Gli baciai le labbra, portandogli
rassicurazione e lui sorrise, e fu uno di quei sorrisi di commozione, i
più belli che potesse mostrarmi.
«È lui...», mormorò e io annuì convinta. «È il nostro bambino.»
«Qui c'è la testa, già in posizione. Poi queste sono le braccina, la colonna vertebrale, le gambe e i piedini.»
«Sono enormi!», commentò ridendo Ed e mi unii a lui. In effetti, non era tanto uno scricciolo, nostro figlio.
«Be', bisogno anche contare che siamo
alla trentottesima settimana. Nelle ultime quattro settimane il bambino
acquista anche più di un chilo di peso.»
La fissammo allarmati, già pensando alla nascita di un vitello, e non di un neonato di normali proporzioni.
«Ma non è la situazione di questo feto, potete stare tranquilli.»
Prese tutte le misure, dicendoci che erano nella norma, e poi girò la tanto agognata rotellina.
Per quanto possibile, Edward cominciò
a piangere più violentemente di prima, ascoltando il suono del cuore
del bambino. Ora per lui il pensiero era diventato quasi reale, non più
un sogno remoto. Non doveva più vederlo attraverso un computer,
ascoltare la mia voce o vederlo crescere con in sottofondo gli spari e
altri rumori. Adesso c'eravamo solo noi e nostro figlio, tutto stava
diventando concreto.
«Bella addormentata...»
Il naso di Edward percorse il profilo della mia mandibola, e la sua barba mi fece solletico.
«Mh...»
Provai a girarmi dall'altra parte ma lui mi bloccò con le sue braccia, baciandomi il collo. «Devi svegliarti.»
«Ma ho tanto sonno...»
Rise e mi carezzò la guancia mentre io aprivo lentamente gli occhi. Mi
ero sdraiata sul divano e avevo pensato di risposarmi un secondo solo,
e invece mi ero addormentato...
«Lo so, amore. Ma dobbiamo andare a casa di Rosalie e Emmett.»
«No...», confabulai, con sguardo triste. «Possiamo rimanere a casa? Non me la sento.»
«Dai, un piccolo sforzo.»
Sbuffai e mi alzai goffamente. «Se proprio dobbiamo...»
Quando feci per tirarmi su in piedi, ebbi un capogiro e quasi caddi a
terra, se Edward non fosse stato tanto rapido da prendermi.
«Ehi, che c'è?»
Scossi il capo, confusa. «Non penso di riuscire a raggiungere il bagno da sola...»
Mi cinse i fianchi e, una volta in bagno, mi fece sedere sulla seggiolina accanto alla vasca. «Ora va meglio?»
Annuii appena, sorridendo. «Sì...»
«Hai qualche contrazione?»
«Un paio, ma è normale, lo sai ormai...», sussurrai, accarezzandogli i capelli.
«Te la senti di vestirti?», domandò e mi aggrappai alle sue braccia,
sollevandomi lentamente. Qualche secondo dopo, lo fissai intensamente
negli occhi, irrigidendomi.
«Che succede?»
Qualcosa di viscoso e caldo mi colò lungo la gamba e mi pietrificai, con me ogni singola cellula del mio corpo. «Edward.»
Si spaventò, vedendo il mio volto impallidire, e mi scostò i capelli dalla fronte. «Parlami, che succede?»
«Penso... Penso si siano rotte le acque.»
Silenzio.
«Non sono sicura, però... Ma mi sa che si è rotto qualcosa, qui
sotto.», mormorai spaventata, e i nostri occhi si puntarono verso la
piccola pozza d'acqua ai miei piedi.
Mi fece risedere sulla sedia, visibilmente agitato. Andava da una parte
all'altra della stanza, con le mani fra i capelli; sudava freddo,
tremava e borbottava qualcosa sotto voce.
«Edward!» Il mio urlo lo fece tornare alla realtà e tornò vicino a me,
porgendomi le mani da stringere. Ah, no, quella contrazione non era per
niente leggera, proprio per nulla.
«Sotto... Sotto il letto, c'è il borsone. Prendilo, lì dentro ci sono i
miei cambi e quelli per il bambino. Poi vieni a riprendermi, e andiamo
subito all'ospedale.»
Feci come aveva detto e io mi abbandonai contro lo schienale, guardando
che ora fosse. Le diciannove e cinquanta, e mi sembrò veramente troppo
presto per far nascere mio figlio.
Nella mia mente si affollarono migliaia di domande: era sano, era grande abbastanza, avrebbe avuto bisogno di aiuto...
Però mancavano solo due settimane al termine... C'erano neonati che
nascevano anche al settimo mese e sopravvivevano benissimo, ma mio
figlio ci sarebbe riuscito?
All'ospedale mi diedero subito una stanza, facendomi cambiare velocemente, e tre infermiere furono pronte a controllarmi.
«Ascolta, tesoro, adesso devi aprire le gambe, okay? Così noi controlliamo a quanto sei.»
Strinsi spasmodicamente la mano di Edward, terrorizzata, e obbedii mantenendo il controllo.
Essere esposta agli sguardi di tutte quelle persone era tremendo, ma imbarazzarmi era pressoché impossibile.
«Unisci le caviglie e divarica le gambe, così. Potrai sentire un pochino di pressione, ma sarà una cosa momentanea.»
Come avevano previsto, percepii una pressione dolorosa che mi fece gemere, ma dopo pochi secondi svanì.
«Sei di quattro centimetri! Quasi a metà, andrà tutto bene. Se hai bisogno, chiama.»
Nelle ore seguenti, non feci altro che suonare il campanello per
chiedere di spostarmi, dato che stare sdraiata mi era impraticabile.
«Stai andando benissimo, amore. Sei bravissima.», mi mormorava
all'orecchio Edward, ma io non gli davo molta retta, presa com'ero da
assecondare i respiri al dolore.
«Fa troppo male...», sussurrai, asciugandomi la fronte. Ed mi strinse le mani, baciandomi le guance.
«Lo so, amore...», rispose, inginocchiandosi davanti a me. Non mi mollava un secondo, teneva sempre lo sguardo fisso su di me.
«Aspetta...» Puntellai le mani sulle ginocchia, incurvando la schiena
all'indietro. L'espressione di Edward mi fece capire che da fuori
doveva sembrare una bruttissima situazione, e in effetti lo era sul
serio.
«Sta andando tutto bene, sei bravissima.», disse mio marito, carezzandomi le braccia. «Sei bravissima.»
Gli sorrisi nonostante la contrazione e mi concentrai ancora di più. «Che ora è?»
«Le dieci e mezza, stai tranquilla.»
«Hai avvisato Rosalie ed Emmett? Solo in quel momento mi ricordai del
nostro impegno e subito Ed mi tranquillizzò. «Sì, hanno detto di godere
appieno di questo momento.»
Emm e Rose avevano già potuto vivere l'esperienza di diventare genitori
ancora prima di noi, e sapevano perfettamente come mi sentissi in quel
momento.
«Allora, ricontrolliamo questa mamma?» L'infermiera entrò nella stanza
battendo le mani, quasi come se si trattasse di un grande evento.
Strinsi la mano di Ed quando ricominciò il dolore. «Fa troppo male!»
«Lo so, cara, lo so, ma ricordati che tutto questo serve per far nascere il tuo bambino.»
«Inventassero il teletrasporto!», grugnii e qualcuno nella stanza rise, ma io non la pensavo allo stesso modo.
«Ascolta, sei di cinque centimetri. Lo so che sembra che tutto vada
lento, ma è del tutto normale, okay? Cammina un pochino, usa la
palla... Fai qualunque cosa ti aiuti, va bene?»
Annuii un paio di volte, anche se mi sembrarono solo parole al vento.
Tutto, per conto mio, stava andando veramente male, non potevo
sopportare ancora tante ore di dolore.
«Torniamo fra un'ora.», promisero e ci lasciarono di nuovo da sola.
Guardai Edward negli occhi e sentii le lacrime salire. «Ed...»
«Ehi, ehi.»
Cominciai a piangere e singhiozzare sempre più forte, mentre le sue braccia mi circondavano. «Ehi, perché fai così?»
«Ho paura, Ed, ho tanta paura...»
«Di cosa, amore?» Mi massaggiò la schiena dolcemente, posando le labbra sul mio collo.
Tossii. «E se fosse ancora troppo piccolo? Se qualcosa andasse pronto? E se non fosse pronto?»
«Hai paura di non essere tu quella pronta?», mormorò e le sue parole mi colpirono, ma forse era proprio quello il suo intento.
«Cosa intendi?» Corrucciai le sopracciglia e lui sorrise. «Sembra che
tu abbia paura... per te stessa. Stai andando benone, sei bravissima.»
«Lo dici tanto per farmi piacere.», mugugnai, tirando su con il naso.
«No, invece. Quante donne pensi che vivano questo momento con i tuoi
stessi timori? Hai sentito la dottoressa ieri, ha detto che il piccolo
è totalmente formato e se dovesse nascere non ci sarebbero problemi.»
«E se qualcosa andasse storto?», domandai scettica. Era impressionante
come fossi diventata pessimista: per tutta la gravidanza ero sempre
stata di ottimo umore e avevo sperato per il meglio... E all'improvviso
la situazione si era capovolta in extremis...
«Perché devi pensare al peggio?» La sua voce divenne bassa ma seria al
punto da farmi capire che stavo ragionando nel modo sbagliato.
«Perché non mi aiuti?», ribattei. «Cosa dovrei fare per aiutarti?»
«Smetterla con queste domande.», sibilai fra i denti e sentii il viso
diventare bollente. La sua mano si arpionò alla mia immediatamente,
stringendola.
«Respira, amore, respira.», sussurrò sulla mia fronte. «Come hai imparato al corso.»
Guardarlo negli occhi mi dava sicurezza, vederlo accanto a me era una
prova che non mi aveva abbandonata. Non avrei mai pensato che lui
sarebbe stato vicino a me in quel momento, perché troppo spesso lo
immaginavo ancora lontano, in quella terra che procurava solo morte e
distruzione.
«Hai visto? Sei bravissima.», ripeté ancora. Stava diventando una nenia, una specie di ninna nanna per le mie orecchie.
Gli carezzai una guancia appena mi sentii meglio. «Ti amo.»
Mi posò un bacio leggero sulle labbra. «Anche io, amore. Devo continuare a dirti che hai la situazione sotto controllo?»
Scossi il capo, ridendo, e Edward sorrise. «Voglio vederti così, sei bellissima.»
Alzai gli occhi al cielo e con il suo aiuto mi alzai in piedi. «Uh, mi
reggono.», mormorai stupita, quasi fosse una specie di miracolo.
«Ce la fai?»
«Basta che mi stai vicino e non mi fai cadere.», risposi. La sua espressione fu rassicurante, quasi come a dirmi “Questo mai”.
«Magari faccio un giro nel corridoio...», sussurrai, ma non appena feci un passo percepii altro liquido colarmi lungo le cosce.
Guardai Edward con faccia disgustata e lo scacciai. «Che schifo, Dio mio... Continuo a lasciare acqua ovunque.»
«Vuoi che chiamo qualcuno?»
Scossi il capo. «No, no, adesso mi asciugo.»
Mentre mi ripulivo con un pezzo di carta, il cellulare di Ed cominciò a vibrare contro il legno del tavolino.
«Chi è?»
Guardò il display. «È mia madre.»
«Rispondi.», mormorai soltanto, sedendomi sul lettino. Strinsi la
sponda quando arrivò l'ennesima contrazione, e Edward mi guardò
impotente.
«Ciao, mamma. No, non sono a casa.»
In quell'istante mi feci sfuggire un lamento che dopo pochi secondi divenne un urlo incessante.
«Sono in ospedale, Bella è in travaglio. No! Rimanete dove siete, non
so per quanto ne avremo ancora. Come vuoi che stia? Le fa male tutto,
hanno detto che deve sopportare. Sì, se c'è qualche sviluppo ti chiamo,
stai tranquilla.»
Chiuse la conversazione e subito accorse accanto a me. «Sono qui, amore.»
Inclinai la testa all'indietro, picchiandomi il ginocchio. «Fa male, fa male...»
Di nuovo un altro grido prese posto nella mia bocca e non riuscii a
trattenerlo. Il volto di Edward divenne pallido e si inginocchiò
davanti a me, con gli occhi lucidi.
«Cosa devo fare?», chiese. Lo aveva già fatto per non so quante volte,
e capii che si sentiva inutile lì, forse perché capiva che non poteva
darmi una mano.
«Che ore sono?»
Si asciugò la fronte e guardò l'orologio. «Sono adesso le undici e mezza.»
«Solo? Non ce la faccio più!», piagnucolai e lui mi carezzò il ginocchio nudo. «Sì che ce la fai.»
«No, invece! Sono stanca, ho sonno, non ho mangiato nulla, e non c'è traccia di miglioramento!»
Nel giro di pochi secondi iniziai a singhiozzare e Edward schizzò in
piedi, uscendo dalla stanza. Rimasi per qualche minuto da sola e quando
tornò, era violaceo in viso e si scortava un'infermiera.
«È stravolta, non vede? Non potete darle nulla?»
Passai il dorso della mano sugli occhi, mentre la donna mi guardava. «Lei come si sente?»
«Come vuole che stia?», strillai, afferrando la mano che Ed mi stava
porgendo. Lasciai che la contrazione passasse, mentre loro mi fissavano.
«Mi fa troppo male! Mi sta spaccando in due!»
La donna sospirò e mi fece distendere. «Ora controlliamo, e vediamo cosa fare.»
Lasciai che facesse il suo dovere e Edward posò la fronte sulla mia. «Va tutto bene.»
«Voglio solo dormire.», mormorai e altre lacrime presero a scorrere.
«Ehi ma qui ormai siamo quasi alla fine! Chiamo la ginecologa!», esclamò e con ancora i guanti corse fuori.
Mi spaventai e iniziai a respirare più velocemente, mentre mio marito mi massaggiava la schiena. «Hai sentito? Manca poco.»
«Allora, cosa succede a questa mamma?» La ginecologa entrò nella
stanza, indossando i guanti. «Mi hanno detto che bisogna fare in
fretta.»
«Tiratelo solo fuori!», borbottai stringendo gli occhi. Perché il dolore non passava? Non avrei sopportato ancora molto.
«Avanti, controlliamo e...»
Si bloccò e Edward accanto a me si irrigidì. «Che succede?»
«Forse è il caso di andare in sala parto, questo bimbo ha deciso che è giunto il momento di nascere.»
Nei minuti dopo tutto divenne confuso. Attorno a me si erano proiettate
cinque infermiere ed eravamo in un'altra stanza. Edward continuava a
chiedere quanto ci sarebbe voluto e gli rispondevano solo di svestirmi
e di calarmi nella vasca, perché ormai il tempo era alle strette.
«Ascolta, Bella, sei di quasi nove centimetri. Adesso appena senti il bisogno di spingere, fallo, nessuno ti ferma. Adesso c'è?»
Scossi il capo, accasciandomi sul bordo della vasca. «Voglio dormire...»
«No, ora devi rimanere sveglia, tesoro. Se facciamo in fretta, poi puoi dormire quanto vorrai.»
Le mani di Edward impugnarono le mie e mi guardò. «Abbiamo quasi finito, fra poco conosceremo nostro figlio.»
«Voglio solo che stia bene...»
Scostò una ciocca di capelli dai miei occhi. «Starà bene, siete forti entrambi.»
Stavo per sorridere quando una fitta risalì la pancia e percorse la schiena. «Cazzo, cazzo, cazzo...»
«Spingi, Bella!»
Incatenai i miei occhi a quelli di Ed e con tutte le forze feci come mi
avevano detto. Da fuori dovevo sembrare un mostro, avevo il viso
contratto in una smorfia terribile.
«Benissimo! Stai andando perfettamente!», dissero le infermiere e Ed annuì. «Cosa ti dicevo?»
Chiesi di girarmi, così da appoggiare la schiena contro il bordo della
vasca. Edward non mi mollava un secondo, e teneva le mani sulle spalle,
allacciate alle mie.
Il dolore era tanto intenso da annebbiarmi completamente. Non so quanti
minuti passarono, ma a ogni spinta sentivo solo le forze mancarmi e
sprofondare.
«Bella, svegliati!»
«Sono sveglia...», mugugnai con la voce impastata. Le labbra di Ed si posarono sul mi orecchio. «Sveglia, amore, dai.»
«Ca... Canta per me...», mormorai e presi a tremare, mentre una
contrazione crebbe dentro di me. Un'infermiera, vedendo il mio colorito
diventare paonazzo, mi diede una pacca bonaria sul ginocchio piegato.
«Se vuoi urlare, fallo! Se ti aiuta, puoi fare tutto ciò che vuoi.»
Mi lasciai andare e tutti sussultarono, tranne Edward. «Bravissima, amore.»
«Ti prego... ca... canta.», lo implorai e sottovoce cominciò a mormorare la mia canzone preferita.
«Be still and know that I am with you.»
Sorrisi nonostante il dolore. «Sei con me, lo sarai sempre...»
Mi carezzò una guancia. «Be still and know that I am here.»
«Sei qui... Sei qui per noi.»
«Be still and know that I am with you.»
La ginecologa mi incitò a spingere di nuovo, perché mi stavo rilassando
forse fin troppo. «Avanti, Bella, si vede la testa. Vuoi farla nascere
negli ultimi istanti dell'anno vecchio o nei primi dell'anno nuovo?»
Sgranai gli occhi ma subito dopo li richiusi e strillai. Urlai così
tanto che la voce mi si mozzò a metà e strinsi senza controllo la mano
di Ed, che non dette segno di cedimento. Lo stavo massacrando, ma più
il dolore aumentava, più capivo che non avevo ancora sentito nulla di
quello che mi aspettava.
«Perfetto, dai! Questa è l'ultima!»
«Io scommetto che non è vero...», scherzai e Edward sorrise. «Avanti!»
Obbedii e qualcuno rise quando la dottoressa mi sfiorò il braccio. «Dai, Bella!»
«Io lo sapevo che non era l'ultima...», dissi e quando ripresi ad urlare, mi resi conto di non essere l'unica a farlo.
Dall'acqua riemersero le mani della ginecologa che tenevano un
corpicino rosso e ricoperto di roba bianca. Me lo posò sul petto e in
quell'istante tutto il dolore svanì.
Il sonno sparì e guardai il bambino, che aveva gli occhi appena aperti.
Lo sfiorai, e divenne reale. Non fu solamente più un mio sogno, una mia
immaginazione, il sogno di una vita. No, era diverso, in quel momento.
La sua pelle non fu un disegno tracciato dalla mia mente; il suo viso,
così perfetto, ebbe finalmente una forma, ed era ancora più bello di
come me l'ero sempre immaginato.
«Sei stata bravissima!»
Edward, al mio fianco, mi prese il viso fra le mani. «Sono così orgoglioso di te.»
Piangeva, e mi resi conto che non era l'unico a farlo. Sui nostri
volti, rigavano lacrime, per la prima volta in tutta la serata, di
felicità.
«Ci ha messo più di mezz'ora a nascere, con quattro ore di travaglio
alle spalle, ma guardate che capolavoro!», esordì la dottoressa e
sorrisi. Sorrisi perché era vero: non era stato il dolore, le spinte, i
pianti, le contrazioni, le strette, la paura a farmi capire che stavo
diventando madre. La consapevolezza divenne tale quando avevo visto mio
figlio, nostro figlio uscire dal mio corpo e posarsi su di me.
Gli occhi di Edward lo fissavano come solo una volta aveva guardato un'altra persona: me.
Ad un certo punto, rise di gioia fra le lacrime. Sul suo viso comparve un sorriso di amore e stupore allo stesso tempo.
«Cosa c'è?», sussurrai stremata, perché proprio non capii cosa c'era da ridere.
Posò le labbra sulle mie, con urgenza, e rimasi esterrefatta. «I miei presupposti non sono stati vani, dopotutto...»
Ancora non intesi e la dottoressa mi accarezzò il braccio. «È una splendida bambina, Bella.»
Sgranai gli occhi e il mio cuore si fermò nell'istante in cui la sua voce, la voce di mia figlia, si propagò nella stanza.
«E che voce che ha la signorina!»
Guardai il suo corpicino che si dimenava, i pugnetti che si agitavano a
pochi centimetri da mio petto. Fu come un colpo di fulmine improvviso,
quello che mi colpì. Il mondo smise di girare per un attimo infinito,
tutti gli orologi smisero di rintoccare, i fuochi d'artificio fuori
dalla clinica si spensero all'istante. Mai come in quell'istante capii
quanto forte potesse essere l'amore di una madre verso la figlia, non
avevo mai percepito tutta la gioia che i miei genitori scoprirono
quando mi videro nascere. Non c'erano parole per descrivere come il mio
cervello e il mio corpo si sentissero in quel momento, ma i miei occhi
non mollavano quelli di mia figlia, che forse già aveva capito chi
fossi.
Era straordinario vedere come una cellulare composta da due parti
diverse di due persone che si amano potesse fondersi, formarsi e dare
vita a un bambino.
«Sei stupenda, amore mio...»
La voce mi mancava e forse quella frase gliela avevo detta con il
pensiero. Non smise di strillare e le labbra di Edward si appoggiarono
ancora una volta sulle mie. Rividi quel bagliore nei suoi occhi che
c'era stato in pochi momenti della sua vita, dal nostro primo incontro
alla sorpresa il giorno di Natale.
“L'amore di una persona non si divide, ma si moltiplica ogni volta che qualcuno di nuovo le fa battere il cuore.”
Avevo letto spesso quella frase sulla cornice portafoto che mia madre
mi aveva regalato, e in quell'istante, come una scossa, compresi
ancora. Era la stessa sensazione che avevo vissuto quando Edward mi
aveva guardata intensamente negli occhi per la prima volta, come quando
avevo capito di amarlo più di ogni altra cosa. E ora sapevo cosa voleva
dire dare la vita a un'altra persona, mia figlia ne era la prova. Il
battito del mio cuore, in quel momento, era la prova di tutto il mio
amore, di tutti i tentativi, le lacrime, la paura, la forza, la
speranza che avevo racchiuso in me mentre attendevo il ritorno di Ed.
Il tempo era passato inesorabile, e nella mia mente rividi l'immagine
di quel test positivo, la prima ecografia dove lei era grande quanto un
fagiolino, i primi vestitini, la pancia crescere passo per passo...
Erano tutti ricordi che si erano fusi in nostra figlia, erano attimi
che mai sarebbero andati persi.
«Sono così orgoglioso di te...», mormorò di nuovo Ed. La sua bocca
sapeva di sale, così come probabilmente la mia. Le sue mani si posarono
ai lati del mio viso, ma le mie non lasciarono andare il corpo della
bambina che adesso si stava tranquillizzando.
«È stupenda...», dicemmo in coro e la dottoressa si avvicinò a noi, con le forbici in mano. «Vuole tagliare il cordone?»
Stranamente, oltre le mie aspettative, Edward si fece avanti e con mano
tremolante spezzò quel legame che aveva tenuto collegate me e la
piccola per nove mesi.
«Ti amo, ti amo, ti amo.», sussurrò una volta tornato accanto a me. «Mi hai reso l'uomo più felice di tutta la Terra, oggi.»
Sorrisi. «Devi dire grazie a lei, non a me.»
«No, dico grazie a te perché sei tu che l'hai messa al mondo. Sei tu la sua mamma, l'altra parte inestimabile di lei.»
Ripresi a piangere e contai le dita della sua mano. «Cinque dita per manina...»
«Due occhi grandissimi sul viso...»
«Tutto al posto giusto... È perfetta, è esattamente...»
«È lei, è nostra figlia.», concluse Edward per me. «Però non possiamo chiamarla Perfect.»
Ridemmo insieme, come due bambini spensierati. «No, in effetti direi di no.»
«Volete una foto assieme, così magari poi pensate ben bene al nome?»,
propose un'infermiera e non ce lo facemmo ripetere due volte.
«Può farci una foto mentre la bacio?», chiese Ed dopo il primo flash. Alzai un sopracciglio. «Cosa?»
«Ti prego.», sussurrò, posando le labbra sulle mie nell'istante in cui la fotocamera scattò per la seconda volta.
«Siete perfetti! E direi che questa bambina ha scelto proprio il giorno
giusto per nascere. Il primo gennaio a mezzanotte e tre minuti!»
Ancora una volta mi meravigliai e rimasi senza parole. Una sorpresa dopo l'altra...
«So esattamente che nome darle.», mormorò Edward, carezzando il braccio, così piccolo, di nostra figlia.
«Cioè?»
Il suo sguardo fu così intenso da farmi capire in un istante solo cosa
intendesse, lasciandomi poi sola per andare a sbrigare le pratiche
burocratiche.
Mi chinai verso l'orecchio della bambina, carezzandole la testa piena di capelli scuri.
«Benvenuta, amore mio. Sei la nostra vita, la nostra meravigliosa gioia.»
Angolino tutto mio :3
Allora, ora spiego. Questo doveva essere l'epilogo, ma sin dall'inizio sapevo che sarebbe venuto lunghissimo.
Perciò ho allungato Be Still di un captiolo, l'epilogo sarà il 5 :)
Che dire? Mi sono emozionata tantissimo nello scrivere questo capitolo
perché è quasi interamente la chiave di tutto. Spero di aver
risvegliato in voi lo stesso effetto :)
Stasera sono di poche parole... Anche perché sto continuando a piangere ueueeueu ç___ç Una bella bimba, awwwww!
Il nome non ve lo dico MUAHAHH no, vabbé, lo saprete nell'epilogo :) Perciò do l'inizio al TOTO NOME!
Sparate un nome che secondo voi sarà quello della bambina u.u
Piccolo indizio: è racchiuso nell'ultima parte del capitolo u.u
Ringrazio Simona che mi ha aiuata con il titolo, di sua invenzione... Sappi che però non ti perdono -.- Ancora u.u
Come al solito (bla bla bla) dedico il capitolo alle persone a me più importanti <3
Spero di ricevere tante belle recensioncine :3
Un bacione,
Giulia <3
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Capitolo 5 *** Epilogo ***
Be still
Be
still
Epilogo
Bella.
«Dobbiamo per forza?»
Guardai Edward che rideva davanti a me, con quella cinepresa in mano.
«Mi pare ovvio. Dobbiamo immortalare tutti i primi attimi di vita di
questa signorina.»
Risi con lui e quel movimento scosse per qualche secondo nostra figlia,
che dormiva tranquilla fra le mie braccia. «Allora fai in fretta, non
vedo l'ora di riposarmi.»
Sorrise e accese la videocamera. «Saluta!»
Mi sembrava tanto una farsa da commedia, così alzai gli occhi al cielo. «Ti prego.»
«Dai, non fare la scorbutica!», borbottò, puntando l'aggeggio verso di me. «Di' qualsiasi cosa.»
Sbuffai. «Inizia tu, sei il più bravo in certe cose.»
Sospirò e girò la cinepresa verso di sé. «Da dove comincio? È l'una e
mezza del primo gennaio duemila e tredici, siamo al Memorial Hospital
di Jacksonville e be... Oggi è avvenuto il miracolo più grande che
potesse capitarmi.»
Guardai la nostra piccola, accoccolata sul mio petto, che respirava velocemente.
«Lei», sussurrò, indirizzando la telecamera verso di me. «È mia moglie, la donna più bella del pianeta.»
Ridacchiai, sminuendo il fatto. «Che ora sembra per lo più uno zombie, dato che non dorme da quanto, sette ore?»
«Stt, rovini il filmino!», mugugnò, per poi tornare a riprendere.
«Stavo dicendo. Lei è la donna che oggi ha saputo rendermi la persona
più felice del mondo.»
Zoommò il più possibile sul viso della figlia, con un sorriso sul volto
che non si poteva decifrare se non si conosceva il perché. «Lei, mia
moglie, mi ha reso padre di questo gioiellino qui. E lei... è Zoe
Nevaeh Joy Cullen...»
«Sai vero che ci odierà quando sarà grande?», intervenni io, sapendo
già come la pensavo su quel nome lungo metri. «Dovrà firmare tutti quei
nomi... Poverina.»
«Penso taglierò tutte le parti in cui parlerai a sproposito.», disse
Edward, visibilmente infastidito. «Riprendiamo, e ora non dire altro.
Dicevo che lei è la nostra Zoe, la signorina che stanotte, a mezzanotte
e tre minuti, mi ha rubato il cuore come la sua mamma ha fatto quasi
sei anni fa.»
Mi sciolsi a quella frase e accarezzai i capelli di nostra figlia.
«Bisogna spiegare che dietro a questo nome c'è un suo significato.»,
mormorò Ed, totalmente rapito. «Non riuscivamo a metterci d'accordo,
prima del parto, perché a me piaceva Joy, a Bella Nevaeh... Che poi mi
spieghi come ti è venuto in mente?»
«Hai detto che non posso più intervenire.», borbottai sarcastica.
«Che pizza... Comunque. Alla fine, quando l'abbiamo vista per la prima
volta, quando ha deciso di farsi conoscere, ho capito quale nome era
perfetto per lei. Zoe è... divino. Significa vita, ed è quello che è
per noi questa bambina stupenda. Nevaeh, anche se può sembrare strano,
è uno dei nomi che più amo, proprio perché l'ha scelto Bella. È
l'acrostico di Heaven, paradiso. E Joy... Be', questo è abbastanza
chiaro.»
«Rettifico: ci odierà quando diventerà più grande.»
Borbottò qualcosa sottovoce. «Ti ricordo che ho fatto mettere le
virgole fra un nome e l'altro, così per la legge lei potrà firmare con
solo Zoe.»
Sorrisi e mi adagiai nei cuscini. «Zoe è... l'amore. È stupenda, morbida, profumata e incredibilmente...»
«Perfetta.», conclusi io, sfiorandole le guance piene.
«Pesa tre chili e cinquecentoventi grammi ed è lunga cinquanta centimetri. È perfetta in tutto.»
«Credimi, il peso si è sentito eccome quando è dovuta uscire.», confabulai e Edward rise. «Su, non fare la melodrammatica.»
«Fai uscire un'anguria da un limone.», constatai e lo feci ancora sorridere.
«Devi essere sempre volgare.», ridacchiò e i suoi occhi brillarono quando Zoe, tra le mie braccia, si svegliò.
«Ecco, l'abbiamo svegliata. Non ha neanche due ore e già le rompiamo le scatole.»
Era così piccola fra le mie braccia... Sembrava essere leggera come una piuma, altro che tre chili e mezzo...
«Ciao, amore.», sussurrai contro il suo naso e le sue labbra si
arricciarono. Ben presto la sua voce si espanse per tutta la stanza e
in tutti i modi tentai di tranquillizzarla.
«Dici che ha fame?», sussurrai, vedendo che ogni tentativo era invano.
Edward fece spallucce e provai a ricordarmi come avevano detto le infermiere, sebbene fossi molto impacciata.
Slacciai la camicia da notte tanto da scoprire il seno e ben presto la piccola trovò il capezzolo e prese a succhiare.
«Sì, direi che ha molta fame.», mormorò Edward, filmando tutta la
scena. Fino a qualche ora prima, glielo avrei proibito, forse per uno
stupido fatto di imbarazzo. Ma ora, con Zoe finalmente tra le braccia,
era diverso. Essere madre mi rendeva diverso, anche se lo ero da
relativamente poco.
Ed spense la videocamera appena vide che cominciavo ad abbandonarmi al mondo dei sogni e mi posò un bacio sulle labbra.
«Vi amo.»
Sorrisi. «Anche noi.»
Zoe, tra di noi, si era un attimo staccata e aveva cominciato a gorgogliare.
«Be', direi che anche lei approva.», rise lui e baciò la testolina della figlia.
«Ma quanto è piccola!»
«Amore, ma sei stupenda!»
«Posso tenerla un po'? Ce l'hai da tutto il tempo.»
«Ma se l'ho appena presa!»
Osservai sorridendo quella scena che ormai da qualche ora si ripeteva
senza sosta nel salotto di casa nostra. Le nostre famiglie si erano
quasi accampate da noi, e tutti volevano tenere in braccio per molto
più tempo Zoe.
«Spero non la facciano cadere.», borbottò Edward al mio fianco, che guardava quelle persone spupazzarsi sua figlia.
Gli sfiorai la spalla, appoggiandoci il mento. «Rilassati. Penso che i nostri genitori abbiano un po' di esperienza, no?»
«Mi preoccupo di più di Emmett: è grande e grosso... E se la schiacciasse?»
Risi e vidi il suo migliore amico girarsi con Zoe tra le braccia. «Ti ho sentito!»
Sembrava essere così sicuro di come tenere un bambino... Be', ovvio.
Anne aveva ormai un anno e mezzo e ancora ricordavo i primi periodi a
casa loro, quando la piccola piangeva e lui si fiondava nella culla per
consolarla.
«Hai visto? È quasi il grande gigante gentile.», mormorai ma comunque Ed non si tranquillizzò.
«La stanno sballottando troppo...», borbottò e capii che avrebbe voluto
tenersi la figlia solo per sé. Anche per me era difficile vedere Zoe
fra le braccia degli altri, perché... Perché era mia, era nostra, ero
gelosissima della nostra bambina. Ancora dovevo abituarmi a non averla
dentro di me, e soprattutto non potermela sempre tenere sul petto.
Nonostante tutto, era nata da solo un giorno, e forse non era stata
un'ottima idea portarla già a casa...
«Ancora mi chiedo come abbiate fatto a creare un simile capolavoro!», esclamò Rosalie, carezzando il viso paffuto della neonata.
Stavo per dire qualcosa, ma Emm mi anticipò. «Eeeh, Rose, come pensi che ci siano riusciti?»
Tutti scoppiarono a ridere e quel trambusto scombussolò Zoe, che iniziò
a piangere. Io e Edward ci alzammo assieme e subito prese la piccola
fra le braccia.
«Sttt», le sussurrò all'orecchio, cullandola. «Amore, sttt...»
«Probabilmente c'è troppo rumore, e tutto questo la spaventa.», fece
mia madre, massaggiandomi le spalle. Dio, ero rigida come un manico di
scopa... Ogni volta che Zoe piangeva, mi saliva l'ansia, perché non
riuscivo a capire cosa avesse.
E se aveva caldo o freddo, o aveva fame oppure doveva fare il ruttino,
oppure aveva sonno o se era solo infastidita da qualcosa...
«Cos'ha?», chiesi allarmata e piano piano il pianto della piccola scemò. «Probabilmente si è solo spaventata.»
Annuii e mi sentii solo inutile. Perché non capivo cosa avesse mia
figlia? Tutte le madri avevano una specie di sesto senso e intendevano
al volo di cosa avesse bisogno il piccolo. Ma perché io no?
«Quando ha mangiato?», chiese Esme. «In auto, prima di arrivare qui.»
Sì, tre o quattro ore prima, più o meno.
«Allora è probabile che abbia fame... Forse è meglio se andiamo a casa.»
«No!» La mia voce si alzò di qualche ottava e Zoe sussultò. «Non ci dà fastidio, anzi.»
Edward mi posò la bambina fra le braccia, che subito formarono una
culla per accoglierla. Quando avevo la piccola, tutto diventava
naturale, ma quel pensiero nella mia testa ancora non mi dava pace.
«Ti fa male?», chiese Renée, vedendo la mia espressione corrucciata. «No, no, anzi.»
Guardai mia figlia che teneva una manina sul mio seno. Le guance piene
erano segno che, comunque, qualcosa mangiava, dato che quando era nata
avevo avuto anche quel timore.
«È proprio una bambolina...», sussurrò Charlie e vidi nei suoi occhi la
stessa luce che aveva brillato nei miei occhi quando avevo visto Zoe
nascere.
Ebbi l'impressione che la bambina avesse il dono di far innamorare
tutte di sé, e come non poteva? Sembrava una bambola di porcellana, con
quella pelle così candida, le gote rosate, le mani così piccole...
«In ogni caso, è tardi... Dobbiamo tornare a casa.» Tutti si alzarono e
uno per uno vennero a salutarmi, per poi dare un bacio sulla testolina
di Zoey.
«Se hai bisogno, tesoro, chiamami.», mormorò mia madre, accarezzandomi
i capelli. Io annuii, sorridendo. «Spero che vada bene, la prima notte
a casa.»
In casa nostra, all'improvviso, calò il silenzio, rotto solo dai gorgoglii prodotti da Zoe che ciucciava come una forsennata.
«Sono tutti innamorati di lei.» Edward sorrise e si sedette accanto a
noi. Ricambiai il gesto, posando il capo sulla sua spalla. «Eh già...»
«Sono un po' geloso, devo ammetterlo.», ridacchiò e mi baciò la tempia. «Vorrei che fosse solo mia...»
«Pensi che anche per me non sia così? È strano non averla più dentro di
me... Prima potevo sentirla solo io, adesso tutti la desiderano.»
«La rinchiuderò in una torre fino ai quarant'anni.», bisbigliò contro i
miei capelli e insieme ridemmo, per poi tornare a osservare nostra
figlia. Ci guardava incuriosita, con gli occhietti spalancati.
«Ha i tuoi occhi...», sussurrai convinta e un sorriso di Edward sfiorò la mia guancia.
«Amore, tutti i bambini nascono con gli occhi grigi, o azzurri. Secondo me diventeranno come i tuoi.»
Scossi il capo, convinta. «Sono certa che no, avrà i tuoi bellissimi
occhi verdi. I capelli sono chiari... Be', io da bambina ero quasi
bionda, quindi.»
Ed mi scostò una ciocca di capelli da davanti al volto e mi baciò la
spalla. «Sei stanca?», mormorò, vedendo il mio sguardo assonnato. Be',
in ospedale avevo dormito ben poco, ma mi avevano avvisato le
infermiere, dato che i neonati dormono di raro i primi giorni.
«Mh, un po'.», ammisi, carezzando a folta peluria chiara di Zoe. Si era
staccata e ci fissava, anche se il suo viso trapelava l'imminente
bisogno di dormire.
«Ciao...» Quella frase uscì in un sussurro, contro la fronte della
bambina. Con una mano sola riallacciai la camicia e iniziai a cullarla,
ma Edward la prese con sé.
«Perché non vai a dormire? Finisco io con lei.», mormorò amorevolmente.
Gli sorrisi. «Anche tu avresti bisogno di dormire, sai?»
«Tu sono tre giorni che non dormi, e hai ancora addosso tutta la
stanchezza del parto. Io al massimo ho una mano un po' gonfia, ma cosa
vuoi che sia?»
Non so come avevo fatto, ma durante il travaglio le mie contrazioni
erano state tanto forti che l'unico modo per scaricare la tensione fu
di stringere la mano di Ed... Che si era gonfiata in modo improponibile.
«Dai, vieni.» Presi la mano che Edward mi stava porgendo e
salimmo le scale che portavano nella nostra stanza. Posò Zoe nella
culla, accanto al letto, e mi aiutò a indossare il pigiama. Riusciva a
essere così dolce anche con poche ore di sonno arretrate...
Mi sdraiai a pancia in su e lui mi adagiò Zoe sul petto. La circondai
con le braccia, e sembrava ancora più minuta nell'oscurità.
«Siete bellissime...», disse, accarezzando prima il mio viso e poi quello della neonata. «Ora però dormite.»
Prese a canticchiare la sua ninnananna e dopo pochi secondi mi ritrovai nel mondo dei sogni.
Edward.
La vita, nei miei ventotto anni, non aveva ancora smesso di riservarmi
tutte le sorprese possibili. Da quando ero tornato a casa, avevo
cominciato a sentire dentro di me formarsi qualcosa simile a una gioia
indescrivibile, e neanche io ero riuscito a decifrarla.
Ogni volta che guardavo il pancione di Bella deformarsi sotto i calci
della bambina sorridevo, e capivo cosa mi ero perso. Ma in quella
settimana avevo recuperato alla grande, avevo fatto tornare a Bella la
voglia di vivere la fine di quella gravidanza nel migliore dei modi.
L'avevo portata in giro per negozi, le avevo fatto scegliere tutti i
vestitini per la bambina e soprattutto le prime tutine: una blu con un
camioncino se fosse stato maschio, e una rosa con gli orsetti se fosse
stata femmina.
Avevamo preso alla leggera l'idea che il parto potesse anticiparsi,
perché tutto era tranquillo e non c'era bisogno di preoccuparsi
inutilmente. E invece... Invece la situazione era andata per il verso
opposto.
Fu strano vedere Bella stare male, per giunta per colpa mia... Le
facevo stringere la mia mano, cercando di darle più conforto possibile
nonostante il dolore.
Ma tutto divenne reale per me quando la vidi per la prima volta. Avevo
intravisto solo le mani della dottoressa uscire dall'acqua tenendo un
corpicino coperto di sangue, pieno di grinze e piegoline, per poi
posarlo sul petto di Bella. In quel momento tutto prese il posto giusto
nella mia vita.
Sentire la voce di mia figlia per la prima volta, vedere i suoi occhi
aprirsi, i pugnetti agitarsi nell'aria... Tutto aveva finalmente un
senso, la mia vita aveva acquistato un senso.
Ero nato per amare Bella, e per creare con lei la mia più grande soddisfazione: mia figlia.
La prima volta che incrociai i suoi occhi capii che era mia, era parte
integrante di me, lei era metà me, geneticamente. L'avevo guardata così
intensamente da intendere che il mio dovere, ora, era proteggerla, così
piccola e fragile contro il mondo intero. Il mio cuore si era
improvvisamente sdoppiato per una nuova persona, la mia seconda donna.
Ogni fotogramma l'avevo custodito avaramente, nei minuti dopo; avevo
fotografato tutto di lei: la prima pesata, le infermiere che la
vestivano, Bella che mi sorrideva nonostante il dolore appena
passato... Erano i primi passi della nostra grande avventura.
Averla stretta tra le mie braccia, qualche minuto dopo la sua nascita,
era stata un'emozione incredibile: era così minuta, così morbida,
profumata... così mia, così nostra.
«Benvenuta al mondo, amore mio.» Erano state delle parole che mi erano
nate spontanee prendendola in braccio. Ancora non mi capacitavo di
essere diventato padre, e anche Bella ancora non assimilava l'idea.
Un pianto cominciò ad espandersi dal baby phone, segno che Zoe aveva deciso di aver dormito fin troppo, forse.
«Ma quanto è passato dall'ultima poppata?» Bella era in uno stato di catalessi e non aveva neanche aperto gli occhi.
«Due ore, ma stai tranquilla, vado io.» Le baciai la fronte e scesi dal
letto, per poi dirigermi nella cameretta di Zoe. Piangeva a pieni
polmoni, gli occhi pieni di lacrime, le guance umide.
«Ehi, ehi, principessa.», le mormorai, alzandola dal materassino e
posandomela sul petto. Più la cullavo, e più i suoi lamenti si
abbassavano, fino a diventare un rantolo.
«Brava, amore di papà, brava.» La mia voce doveva suonarle quasi come
una nenia, perché si calmò e potei portarla fuori dalla cameretta,
arrivando poi nel piccolo soggiorno al fondo del corridoio.
Guardai fuori dalle finestre: il cielo era limpido, senza una nuvola, e
potevano vedersi benissimo le stelle, che trapuntavano tutto come
minuscoli puntini bianchi.
«Guarda, Zoey, guarda quante stelle.» Mi posizionai in modo che anche
la piccola potesse guardare fuori. La leggera luce dei lampioni esterni
le illuminarono il viso, e ancora una volta mi persi a rimirarla: gli
occhi così chiari, il naso perfetto, le guance paffute, quella piccola
bocca a cuore, uguale a quella di sua madre... Ero innamorato, ero
innamorato di mia figlia.
«Vedi quelle stelle lassù, amore? Su una di loro, c'è un angelo che ti
osserva e veglia su di te, una persona che per noi era speciale ma che
ora è lassù... Ma, anche se tu non l'hai conosciuta, tua zia era la
persona più dolce sulla terra. Si chiamava Joyce, e il tuo nome deriva
da quello, solo che è un'abbreviazione. Era la sorella più grande di
papà, oggi avrebbe trent'anni, sai?»
Un groppone mi salì in gola, guardando mia figlia e pensando a quello
che era successo. «La mamma l'ha conosciuta e... Anche lei sa che
persona meravigliosa era. Purtroppo la zia è volata in cielo quando era
giovane, aveva solo vent'anni... Una brutta malattia l'ha portata via,
ma ora sta meglio, e da là ti osserva e prega per te, amore mio.»
Un singhiozzo dall'altra parte della stanza attirò la mia attenzione, e
quando mi girai trovai Bella sulla soglia della porta che si asciugava
le lacrime.
«Ehi, amore...» La chiamai e mi venne vicino, nascondendo il volto sul mio petto. «Stavo.. Stavo ascoltando quello che dicevi.»
«Scusa se ti ho fatta piangere.», mormorai, baciandole la fronte. «È che Joyce mi manca, e tanto anche.»
La mano di Bella si posò sulla mia schiena. «Lo so, amore... Però ora è lassù che veglia su di noi, giusto?»
Annuii. «Spero che le faccia piacere che Zoe abbia il suo nome, anche se un po' storpiato.»
«Ne sarebbe felicissima, tesoro.» Le sue labbra si posarono sulle mie, dolcemente, e sapevo che era un bacio di conforto.
«Spero che continui a guardarci da lì, soprattutto che protegga Zoey...»
Bella mi carezzò la guancia. «Lo farà, lo aveva promesso.»
È passato un altro giorno, e ancora non ci sono notizie.
Ormai attendevo solo di ricevere risposte, un segno, qualunque cosa. Mi
sentivo strano, quasi estraniato dal mondo. Improvvisamente, neanche
Zoe riusciva a rendermi spensierato e cancellare dalla mia mente ogni
traccia di preoccupazione.
«Ehi, Edward, stai bene?»
Bella mi posò una mano sulla spalla. Aveva in braccio Zoey, che continuava a piangere ininterrottamente ormai da un'ora.
Annuii e lasciai che si sedesse. I suoi occhi erano contornati da
occhiaie livide, i capelli erano arruffati e aveva l'aria di uno zombie.
«Vuoi darla un po' a me?», chiesi e fece segno di no. «Non si calma in
nessun modo... Ho provato a cantarle qualcosa, farle ascoltare la
musica, farle i massaggi alla pancia... Nulla, non funziona nulla!»
«Magari ha solo fame...», mormorai e mi lanciò un'occhiataccia. «Ha mangiato solo un'ora fa! »
«Cosa vuol dire? Ha due giorni, quanta fame vuoi che abbia?»
Sospirò. «Ti prego...»
«Riattaccala, vedi se ho ragione!», sbuffai e attaccò Zoe al seno.
Secondo i miei presupposti, quella bambina aveva fame, e anche molta.
«Mi prosciugherà, ne sono certa.», borbottò costernata e mi avvicinai a
loro. Quella scena ormai si presentava davanti a noi ogni tre ore da
due giorni, eppure, nonostante fosse normalissima, continuavo a
perdermi davanti a mia figlia e a mia moglie.
«Mi fa male tutto. E meno male che le infermiere avevano detto:”Vada a
casa e si riposi!”. E certo, con una figlia che non fa altro che
mangiare è facile.»
Risi e Bella mi dette uno scappellotto sulla nuca. «Zitto tu, non ridere.»
«Rido perché penso che se qualcuno entrasse adesso, ci prenderebbe per pazzi.»
«Già, è... Dorme!»
Quella frase le uscì in un sussurro e quando abbassai lo sguardo mi
accorsi che la bambina aveva chiuso gli occhietti e aveva lasciato
andare il seno di Bella.
«Prima ha fatto a mo' di ventosa.», mugugnò e lentamente infilò un dito
nella boccuccia di Zoe, che prese a succhiare la pelle della madre.
«Tienila un pochino tu. Mi è sembrato di sentire il postino.»
Accolsi Zoe ben volentieri e mi persi nell'ascoltare il suo respiro
regolare contro il mio petto. Passava dalle urla di totale disperazione
al silenzio... Incredibile.
«C'è qualcosa per te.»
Alzai lo sguardo verso Bella, che fissava interrogativa la busta
bianca. Già sapevo, e il mio cuore cominciò a correre come mai prima.
«Aprila.», sussurrai e lasciai che si appoggiasse sulla mia spalla.
«Viene dall'esercito.» La sua voce si ruppe, temendo già il peggio.
«Cosa dice?» Cominciò a leggerla velocemente, corrugando sempre di la fronte.
«Allora?»
Il suo sguardo si posò sul mio. «Cosa diavolo è?»
Le tolsi di mano il foglio, e subito capii. «Quello che c'è scritto.»
Mi guardò ancora una volta e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Vuol dire... Vuol dire...»
Posai Zoe nella carrozzina, aspettandomi che Bella mi saltasse fra le
braccia. «Vuol dire che sono in congedo a tempo indeterminato.»
Intese alla perfezione le mie parole e si lasciò andare in un pianto
liberatorio. Ben preso la mia maglia fu inzuppata ma poco mi importava:
ora Bella sapeva, e io ero felice, leggero.
«Cosa vuol dire?»
Le presi il volto fra le mani, con un sorriso per metà di felicità e
per l'altra... Non sapevo neanche come definire quel sentimento così
strano.
«Vuol dire che rimarrò, rimarrò qui, con te, con Zoe, con voi.»
Le sue labbra ritrovarono le mie e tutto si scatenò dentro di esso.
Felicità, amore, sollievo, liberazione, rabbia, rassegnazione...
Centinaia di emozioni contrastanti, che avevano preso posto nelle
nostre anime per troppo tempo.
«La vedrò crescere, sorriderci, fare le prime pappe, i denti spuntare,
gattonare, parlottare, camminare... Tutto, questa volta non mi perderò
nulla. Starò qui per sempre.»
«Sul serio?»
Annuii, accarezzandole i capelli. «Per sempre, amore mio. Questa volta è una promessa.»
E, da buon gentiluomo che ero, quella volta l'avrei mantenuta. Non le avrei mai abbandonate.
Sul mio viso nacque un sorriso che trapelava tutta la verità di quelle parole.
Eravamo una famiglia: io, Bella, Zoe...
Ero un soldato, ma prima di tutto ero un uomo, un marito, un padre. Eravamo solo noi: fatti per amarci, per rimanere uniti.
«Per sempre.», ripeté Bella, sulle mie labbra. E in quel momento, dentro di me, di noi, nacque una consapevolezza.
Ora avremmo vissuto sapendo che non ci saremmo mai più divisi.
Il “Per sempre”, adesso, era stato marchiato, divenne incancellabile, e dopo tanto tempo, poté essere considerato tale.
Angolino tutto mio :3
È
strano, lo ammetto. Non ho mai scritto un epilogo in vita mia, questa è
stata la mia prima volta e... sono leggera, sono felice.
È una sensazione stramba, davvero. Ogni giorno dicevo: oggi posto
l'epilogo!, eppure mi mancava sempre la forza per cliccare quel tasto
"la tua storia è completa?", per dire addio...
Ma so che tanto non ha senso rimandare, prima o poi avrei dovuto farlo, perciò eccomi qui.
Come dicevo, è strano, per me, scrivere dei ringraziamenti, e aver
completato una storia per la prima volta. Ho passato giorni a chiedermi
se quello che faccio è buono, serva a qualcosa o se fa emozionare
qualcuno... Ancora adesso, mentre scrivo, me lo sto chiedendo.
In qualche modo, con questa storia, ho voluto farvi provare quello che
provavo io, quello che centinaia di famiglie, là fuori, sono costrette
a sentire, perché qualcuno di caro si è allontanato per amore della
Patria, e proprio come questi Edward e Bella non smettono di amarsi
anche se li dividono migliaia di chilometri.
Ho amato, ho pianto, mi sono arrabbiata, ho pensato di mollare tutto,
scrivendo Be Still, però mi sono ripresa, ho capito che non dovevo
essere così, perché a voi, a quanto mi è parso - correggetemi, in caso
contrario, è piaciuta.
Se è così, ditemelo e sappiate che mi farete piangere come mai prima!
Però penso che siano dovuti dei ringraziamenti, perché senza alcune persone, ora non sarei qui.
Innanzitutto, voglio dire un immenso grazie alla mia Sanya,
la mia dolce e tenera Sanya. Tesoro, tu sai perché ho scritto Be Still,
sei stata una delle prime persone a venire a conoscenza del progetto, e
sai quanto ci tenevo a portarla a termine. So che per te è difficile
leggere questa storia, e non so neanche se passeranno mesi prima che tu
arrivi qui, ma non importa. Voglio dirti grazie perché tu mi hai
ispirata, tu mi hai dettato inconsciamente tutte le vicende di Edward e
Bella di questa fanfiction, tu mi hai fatto vivere emozioni mai provate
prima. Metà del merito e dei complimenti spettano a te, tesoro. Ti
voglio bene.
A seguire, Simona, Bianca, Lulu, Jess, Aurora e Camilla.
Ragazze, grazie a voi sono arrivata qui, perché mi avete incoraggiata a
non mollare, a non cancellare tutto solo per un mio dispetto; avete
passato ore a ripetermi quanto ci tenevate a Be Still, a quanto vi
eravate emozionate e perciò non c'era motivo per mandare all'aria
tutto. Voi mi avete sostenuta moralmente per tutto questo tempo, e so
che ancora lo farete... O meglio, lo spero! HAHAHAAH. Voi mi dite
sempre che quello che faccio è importante e se ho bisogno di scrivere,
lo devo fare, non devo fermarmi, non devo lasciare che sia qualcuno a
dettarmi le mie scelte. Voi siete le mie muse, siete le mie
ispiratrici: parlo con voi, e io so che qualunque cosa scriva, è merito
vostro, perché con il vostro amore nei miei confronti, mi date il
coraggio di tirare avanti e di tirarmi sempre su, qualunque cosa
accada. Vi voglio bene, lo sapete perfettamente.
Ad Ania, che legge assiduamente tutto ciò che scrivo, sebbene non ami moltissimo questo pairing AHAHAHAH ti voglio bene tesoro.
A Mary Fely, perché con lei ho sclerato ore HAHAAHAH grazie tesoro, ti voglio tanto bene.
Alle mie compagne di classe Martina, Erica, Lucrezia e alle altre perché,
nonostante mi vergogni da fare schifo, mi seguono e mi dicono sempre
che sono brava e non devo mollare mai... Sappiate che mi vergogno
tutt'ora! AHAHAHA vi voglio bene :)
A tutti voi altri che
avete letto Be Still e magari vi siete emozionati davanti a un monitor
- lo spero, e che mi avete seguito fin qui. Vi sono debitrice, e anche
se non vi conosco, sappiate che tengo a voi veramente tanto, siete la
mai certezza per andare avanti :)
E ovviamente un GRAZIE enorme per avermi seguita nonostante le
avversità, anche se i miei aggiornamenti arrivano a ogni morte di papa
LOL
Nulla... Non so che dire, in realtà sto piangendo...
Proprio ieri, 7 febbraio, sono
passati 3 anni da quando cliccai il tasto "Registrati" qui, su EFP... E
quale modo migliore se non completare, dopo così tanto tempo, la mia
prima storia?
Ovviamente, aspetto le vostre recensioni, anche di chi non si è mai
fatto sentire: sarebbe importante per me perché mi fa capire che il mio
non è tempo sprecare e non sono parole al vento.
Detto questo, mi ritiro. Grazie, di tutto, di cuore, dal profondo della mia anima. Mi fate sentire bene, voi.
Un bacio enorme,
Giulia.
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