L'Ultimo Desiderio

di Breed 107
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


L’ultimo desiderio

di Breed 107

 

Una preghiera prima di cominciare: per favore leggete anche il Carla’s corner alla fine del capitolo, è importante!

 

 

Prologo.

 

Non era mai stato in un dojo. O meglio, non era mai stato in uno così…

Lo avrebbe definito accogliente se avesse conosciuto quell’aggettivo, ma non lo conosceva; l’unica parola che sapeva per descrivere la sensazione che provava era calore, un gran tepore intorno al petto.

C’era silenzio lì, ma non quel silenzio brutto, di quello che ti avvolge la notte quando non puoi dormire, o quel silenzio ancora più brutto quando sei triste. No, non era così… era un silenzio buono, gentile. Sì, gentile. Gli piaceva quella parola: suo padre avrebbe detto che era azzeccata.

Il parquet era lucido, pur se non privo d’imperfezioni, anzi, qui e là vi erano dei segni che sembravano cicatrici per quella vecchia palestra, ma non vi era incuria (altra parola difficile) né abbandono. Era un posto vissuto, quello sì: persino lui riusciva a percepirlo osservando le assi tirate a nuovo, i pannelli con la carta leggermente ingiallita e l’altarino, molto sobrio con quell’unico fiore. Proprio un omaggio alla frugalità giapponese…

Si grattò una guancia, il naso ancora volto all’insù: non conosceva il significato dei kanji impressi sopra all’altare, magari avrebbe chiesto a suo padre di leggerglieli.

I grandi occhi vagarono per la sala, rapiti anche dalle minuscole particelle di polvere che danzavano nella luce solare: era divertente guardarle, provare ad afferrarle e osservare come fosse facile farle vorticare con un semplice soffio. Fece un passo verso la parete dell’altare e battendo le palpebre osservò una cicatrice più profonda di altre, una screpolatura che lasciava intravedere il legno vivo sotto la superficie patinata, posta proprio all’altezza del suo sguardo. Doveva essere recente, chissà chi era stato a colpire la parete tanto forte da incrinarla? Aveva una strana forma a vu, come gli uccellini disegnati da Ryoko... Degli uccellini alquanto immobili ed improbabili, ma lui non era certo il più adatto a criticare le doti artistiche della bambina.

Si addossò alla parete, poggiando la fronte contro il legno tiepido accanto alla fenditura e sorrise brevemente per la piacevole sensazione che lo pervase, poi abbassò lo sguardo sui suoi piedi; mosse l’alluce destro, scrutando attento il movimento del calzino: non ricordava dove avesse lasciato le pantofole, ma non era un problema. Avrebbe chiesto a suo padre di aiutarlo a ritrovarle, prima di restituirle alla signora dal sorriso gentile.

Ecco, il sorriso della signora! Era proprio così che era quel posto: caldo e gentile come il sorriso della signora!

Uhm, la cosa non aveva molto senso. Chiuse un attimo gli occhi, stanco per quell’inutile arrovellarsi (altra parola complicata!) e fece aderire la guancia rovente al legno, sentendone anche il leggero profumo di cera: era un buon odore, gradevole e conosciuto. Dove l’aveva sentito? Forse in camera del nonnino, prima che lui e il suo futon sparissero per sempre.

La mamma aveva sempre un sorriso triste quando le chiedeva del nonno per cui aveva smesso, ma a lui sembrava proprio strano che un nonno sparisse così, all’improvviso. E poi era sempre stato a letto, dove poteva esser andato?

Sentiva il suo cuore più forte ora che teneva l’orecchio premuto alla parete e contò distratto alcuni battiti, fermandosi a sette… faceva ancora un po’ di confusione a quel punto: dopo veniva l’otto o il nove?

“Ti sei perso?”

Batté le palpebre e si scostò di scatto dal momentaneo appoggio, voltandosi verso la voce alle sue spalle.

La prima cosa che notò fu che quel bambino aveva grandi occhi castani e che la sua voce era garbata; come lui era costretto ad indossare un abito elegante, ma a differenza sua sembrava trovarsi a proprio agio con quegli abiti da grande, in ogni caso molto più di quanto lo fosse lui.

Scosse il capo e un po’ in imbarazzo abbassò lo sguardo puntandolo sul primo bottone che chiudeva l’odiosa giacca che i suoi gli avevano messo senza nemmeno chiederglielo. Aggrottò le sopracciglia sottili e cominciò a giocherellare proprio con quel bottone scuro “Non mi sono perso…” disse, trovando poi il coraggio di guardare l’altro bambino.

Era più grande di lui, anzi quando lo vide avvicinarsi, i suoi movimenti così sicuri gli rammentarono proprio quelli di un adulto. Arrossì senza sapere nemmeno il perché e tornò a tormentare l’incolpevole bottone: era vero che non si era perso, ma forse quel ragazzino avrebbe pensato che se n’andava in giro a curiosare in casa altrui.

“Ti annoiavi di là?” domandò ancora l’altro e senza pensarci si ritrovò ad annuire. Il ragazzino sorrise e con la stessa fluidità che tanto l’aveva colpito, incrociò le mani dietro al collo: non l’aveva notato prima, ma aveva un codino, una piccola treccia che racchiudeva i capelli scurissimi e lucidi.

“I grandi sono davvero noiosi… Però più tardi ci sarà la torta: sarà di sicuro buona, visto che l’ha preparata la mia mamma.”

“Davvero?”

Il ragazzo annuì con il capo, poi alzò lo sguardo al cielo “Mio padre dice che è l’unica cosa decente che sa preparare. Oh, non dirlo però, la mamma lo prende sempre a martellate quando lui dice così!”

Il piccolo annuì ancora, un po’ confuso: una mamma che prendeva a martellate un papà? Era strano: sua madre non avrebbe mai fatto una cosa del genere, anche quando era arrabbiata per le sparizioni del marito.

“Ti piace qui?”

“Sì, è bello. E’ tuo?” domandò, dimenticandosi all’istante della storia delle martellate. Fu il turno dell’altro annuire.

“Il mio papà è un maestro d’arti marziali, lavora qui dentro… insegna anche a me” asserì prima di guardarsi intorno visibilmente soddisfatto “E’ il mio posto preferito.”

“Perché hai il codino? Non ho mai visto un maschio con un codino” il bambino più piccolo non poté proprio evitarsela quella domanda; se fosse stato più grande forse avrebbe temuto di peccare di sfacciataggine, ma a cinque anni di certe cose non si conosce nemmeno il significato. L’altro non parve essersi offeso, si strinse nelle spalle con tranquillità ed afferrò l’estremità della corta treccia, come a mostrargliela meglio.

“Mio padre la portava. Quando sarò grande come lui la toglierò, ma a mia madre piace.”

“La tua mamma è la signora con il sorriso gentile?”

“Uhm? Non lo so, forse. Anche la zia Kasumi sorride gentilmente, ma forse lo fa perché si è sposata oggi, chissà… Senti, ti va di giocare con me?”

>Gli occhi del bambino s’illuminarono di pura gioia e troppo emozionato per rispondere annuì con il capo: non gli capitava spesso di giocare con altri bambini. Alla fattoria non c’era che Ryoko e lei era una femmina, fissata con le bambole per di più, la cosa più obbrobriosa dell’universo. Una volta aveva provato a giocarci insieme, ma lei s’era messa subito a piangere quando, mimando un attacco da parte d’alieni super cattivi, lui aveva staccato la testa ad un orsacchiotto che aveva proclamato essere il comandante supremo delle forze intergalattiche. Le bambine erano una tale lagna!

Sua madre diceva che ora avrebbe avuto molti amici, visto che finalmente il loro peregrinare era finito… Presto avrebbe frequentato la scuola del villaggio e lì, assicurava la mamma, c’erano un sacco di bambini impazienti di giocare con lui.

“Bene! Però dobbiamo uscire da qui, mio padre dice che questo è come un posto sacro e che non bisogna giocarci – il viso del ragazzino aveva assunto un’aria compunta che lo rese ancora più adulto agli occhi ormai adoranti del più piccolo – anche se io penso che lo dice perché ha paura che rompa ancora qualcosa” aggiunse con una smorfia che strappò una risata all’altro.

“L’hai fatto tu questo uccellino allora!” il più piccolo indicò la fenditura che gli ricordava i disegni della sorella e l’altro annuì, l’espressione un po’ impacciata.

“Sì, con un calcio. Mio nonno Genma sembrava contento quando l’ho fatto, ha detto che somiglio molto a mio padre… Sai che è vero? Sembra proprio un uccellino! Allora, andiamo?” indicò l’uscita e si avviò, il suo ospite gli trotterellò dietro contento. Forse quella festa non era poi tutto ‘sto strazio…

“Come ti chiami?” gli domandò il padrone di casa mentre uscivano dal dojo, osservandolo da sopra la spalla.

“Ryo Hibiki e tu?”

“Arashi Saotome. Ho sette anni, quasi otto anzi” aggiunse poi, a completare la presentazione “E tu, quanti anni hai?”

“Così.” Ryo sventagliò una manina aperta, tutto orgoglioso: erano un traguardo niente male tutte quelle dita alzate! Un’intera mano per indicare la propria età, roba da grandi… o per lo meno da più grandi rispetto a quando, facendo un po’ di fatica, era costretto a mostrare sole quattro dita paffute.

“Hai la stessa età di mia sorella Hotaru.”

“Anche mia sorella Ryoko ha così – mostrò ancora una volta una mano aperta – siamo nati lo stesso giorno. A lei piace giocare con le bambole…”

Quella frase così apparentemente slegata dal discorso non stupì affatto Arashi che annuì e, con fare saggio, sospirò “Piace un po’ a tutte le bambine. Ad Hotaru non piacciono tanto a dire il vero, ma lei non conta: non è come una vera femmina. Cioè, è una femmina, ma le piacciono anche le cose che piacciono ai maschi, tipo fare la lotta… E’ strana.”

A Ryo sarebbe piaciuto avere una sorella così con cui fare la lotta o che si allenasse con lui e suo padre, ma poi pensò che se avesse cambiato Ryoko con una femmina strana, non avrebbe più rivisto la gemella. Era un pensiero triste, a ben vedere: lei poteva essere una lagna con le sue bambole, le sue trecce infiocchettate ed i suoi pianti per gli orsi decapitati, ma non era poi così brutto averla intorno. Non lo avrebbe detto a nessuno, ma gli piaceva quando lei gli stringeva la mano perché aveva paura o quando gli chiedeva di catturarle delle lucertole per poi farle scappare via veloci veloci. Insomma, si sentiva un fratello maggiore in quei momenti.

“Ti piacciono le arti marziali?” domandò di punto in bianco Arashi, distraendolo da quei pensieri che gli avevano fatto venire uno strano nodo alla gola.

“Sì, sono la cosa che più preferisco al mondo! Anzi, nell'universo!”

Il bambino più grande gli sorrise: non si era aspettato una risposta diversa. Infatti, cosa c’era di meglio al mondo? A lui non veniva in mente nulla.

 

 

Capitolo primo.

 

La stoffa era leggera, più di quanto rammentasse. Il tono di blu carico invece lo rammentava bene, come dimenticarlo del resto? Per tre anni i suoi occhi non avevano quasi guardato altro… Non avevano desiderato altro.

La visione che violenta risalì alla sua memoria quasi scacciò quella che ora gli volteggiava davanti; il ricordo prepotentemente chiedeva il suo spazio al presente, sovrapponendo le due immagini, le due ragazze, quella di tanto tempo prima e quella di adesso.

Quasi venti anni prima l’amore della sua vita aveva indossato quella stessa divisa, quasi identica in ogni particolare. Corti capelli scurissimi scossi dal vento, occhi color miele e sorriso capace di sciogliergli l’anima, una dolce ragazzina scorbutica che usava malmenarlo per parlargli d’amore… Ed ora un’altra dolce, dolcissima ragazzina volteggiava felice per la camera ammirandosi con quella divisa che con tanta prepotenza lo richiamava al suo passato.

Ranma sorrise e tentò con tutte le proprie forze di non farsi vincere dalla nostalgia: Akane lo avrebbe preso in giro fino allo sfinimento se solo avesse sospettato che si era commosso al ricordo di lei, così come era nei suoi gloriosi 16 anni.

La ragazza finì l’ennesima giravolta e divertita osservò la gonna sfiorarle le ginocchia; ecco, quello forse era l’unica concessione alla modernità della divisa del Furinkan, quei centimetri di stoffa mancanti che a Ranma non andavano proprio giù. Anche quello però non l’avrebbe confidato ad Akane, di certo l’avrebbe etichettata come una moina da padre geloso.

“Che ne pensi papà?”

“Come sospettavo,sei orribile.”

Hotaru assottigliò gli occhi scuri e lo fissò dallo specchio “Io invece credo che mi stia bene. Ah, non vedo l’ora che arrivi domani!”

Tutto quell’entusiasmo non riusciva proprio a capirlo. Non gli spiaceva che nessuno dei suoi figli avesse ereditato il suo disinteresse per la scuola, ma tanto trasporto per il Furinkan era davvero insensato. “Non capisco che ci trovi in quella gabbia di matti… Il Furinkan non è ‘sto granché.”

“Ma è una delle scuole più famose di Nerima” gli fece notare la ragazza tornando a guardarsi e a stirare con le mani delle inesistenti pieghe dalla camicia candida.

“Più che famosa io la definirei famigerata. E poi con i tuoi voti avresti potuto frequentare una scuola più prestigiosa” le ricordò lui di rimando, avvicinandola fino ad affiancarla. Guardando allo specchio i loro riflessi così vicini, la commozione tornò di nuovo a tormentargli la gola, serrandogliela quasi del tutto.

Hotaru non era molto alta, ma avendola accanto con quella divisa addosso Ranma non poteva fingere che la sua piccola non fosse cresciuta. Tanto accanimento a frequentare il Furinkan contro la manifesta opposizione dei propri genitori non era forse una pretesa d’autonomia?

Indipendente Hotaru lo era sempre stata, così cocciutamente determinata a seguire la propria strada a costo d’errori e tanto insofferente alla disciplina da ricordargli se stesso quasi alla perfezione, ma adesso lo era in maniera diversa: Hotaru voleva scegliere da sola perché stava crescendo e voleva che fosse ben chiaro a tutti.

“Oh papà, non mi tirerai fuori la storia del Saint Herbekeke, vero? E comunque è tardi per discuterne ancora, credo… Mmm – la ragazza inclinò la testa di lato, osservando critica l’orlo della gonna – forse dovrei chiedere alla mamma di accorciarla ancora un po’…” mormorò, per poi scoppiare a ridere di fronte all’espressione infastidita del padre.

“A me pare già abbastanza corta! Uff, spero solo che a te non tocchi combattere con un branco di maniaci ogni mattina…”

“Eh?”

“No, nulla. L’orlo è perfetto così com’è.”

 

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Arashi batté le palpebre un paio di volte. Era pure peggio di quanto si fosse aspettato.

Sospirò e si volse a guardare la donna alle sue spalle, l’espressione divertita ed esasperata al tempo stesso. “Non posso andarci così, a meno che non voglia farmi ridere dietro da tutta la scuola” commentò con lieve ironia.

“Forse se scuciamo gli orli…” azzardò la madre con espressione colpevole, ma non aveva nemmeno finito di pronunciare quelle parole che uno dei bottoni faticosamente chiusi sul petto del ragazzo schizzò via, subito imitato da un altro che ridicolamente colpì lo specchio per poi rotolare a terra e sparire sotto l’armadio.

Arashi si strinse nelle spalle ed il terzo bottone mandò un sinistro gemito “Io dico che non basterà.”

Con un sopracciglio inarcato osservò i cinque centimetri buoni di caviglia che sbucavano dai pantaloni scuri della divisa, quegli stessi pantaloni che sembravano anche ridicolamente attillati. La giacca s’innalzava ad un palmo dalla vita e i rimanenti bottoni sul davanti sembravano esser in procinto di schizzar via al primo respiro più profondo proprio come gli altri due.

Akane si coprì la bocca con entrambe le mani per celare il tremore commosso delle labbra e batté gli occhi di colpo lucidi “Sei cresciuto ancora, Arashi...” mormorò con voce vibrante ed emozionata.

Il ragazzo scosse il capo, un sorriso intenerito sulle labbra “Non ci provare mamma. Nemmeno un fungo crescerebbe tanto in così poche settimane.”

La commozione sparì e una smorfia sostituì il labbro tremulo con incredibile velocità. Imbronciata, la donna incrociò le braccia sul generoso seno e si strinse nelle spalle “E va bene, forse avrò sbagliato il programma della lavatrice. E comunque parlando di funghi, guarda che ne esistono di ben strani, credimi!”

“Sì, ti credo, ma a scuola così non posso andarci comunque.”

Akane sospirò e tornò a guardarlo, stavolta la tenerezza era sincera nei suoi occhi, quando incontrarono quelli così simili del figlio. “Però sei davvero cresciuto…” mormorò quasi con rammarico.

Le emozioni che provava a cospetto del suo primogenito erano contrastanti. E fortissime, così forti da lasciarla quasi sbigottita. Ricordava di aver amato solo Ranma con tale e tanto trasporto, con quella violenza che ora anche lei ammetteva esser parte di lei…

Orgoglio e paura combattevano in lei, lasciandola spiazzata; orgoglio per lo splendido ragazzo che le stava dinanzi con sguardo limpido, così sincero e aperto da farla sentire quasi inadeguata, quasi eccessiva nelle sue passioni. Paura che un giorno quello stesso splendido ragazzo non sarebbe più esistito.

Con sgomento aveva già visto sparire il bimbo vivace e sveglio, il piccolo Arashi che sorridente si allenava con lei nel dojo o che guardava i film del terrore al suo fianco, stringendole le mani per la paura e un domani avrebbe visto affacciarsi un uomo da quello sguardo. Un uomo intelligente e gentile, così come lo era adesso e come lo era sempre stato, ma pur sempre un uomo che non avrebbe avuto bisogno di lei. Non come quando da bambino chiamava spaventato il suo nome per paura dei mostri nascosti sotto il letto.

La vita era davvero triste nella sua spietata inevitabilità.

Cercando di scacciare la mestizia che l’aveva inopportunamente avvinta, Akane si domandò se anche Hotaru avrebbe un domani suscitato in lei tali sentimenti. Al momento, la piccola di casa Saotome era così impegnata a diventare grande da avere per assurdo ancora bisogno di lei e Ranma. Contro chi misurarsi altrimenti nella sua strenua e testarda lotta per lasciarsi alle spalle l’infanzia? In questo soprattutto suo padre stava dimostrandosi uno straordinario avversario, pensò con tenerezza la donna, poggiando una mano sulla spalla di suo figlio.

Il giorno in cui Ranma Saotome si sarebbe reso davvero conto che la sua Hotaru era una donna, sarebbe stato ben triste per lui… e anche per lei, ovviamente. Ma Hotaru aveva ancora 16 anni, forse era presto per preoccuparsi per certe cose.

Arashi osservò il bel volto assorto della madre e capì che stavolta l’emozione che le colmava gli occhi non era frutto di una finzione. In quei giorni gli capitava spesso di vederle quell’espressione malinconica e assorta; l’intuito gli diceva che l’approssimarsi dei suoi 18 anni e la fine della scuola avevano molto a che fare con quello sguardo commosso.

“Mamma… - la richiamò con dolcezza e le sorrise quando lei alzò lo sguardo ancora velato verso di lui – forse è il caso che porti l’altra divisa in tintoria, che ne pensi?”

“Mmm, sì, direi di sì. Spero solo che quella di tua sorella sia a posto: non oso immaginare cosa farebbe tuo padre se la gonna dovesse sembrargli troppo corta!”

Risero entrambi a quelle parole e finalmente Arashi poté togliersi quell’affare ridicolo.

Il primogenito dei Saotome non condivideva l’entusiasmo di sua sorella minore riguardo alla scuola. Il giorno dopo avrebbe iniziato il suo terzo ed ultimo anno all’istituto superiore del quartiere, terzo anno che si prevedeva essere molto più tranquillo che per i suoi compagni, per lui infatti non si profilavano i massacranti esami per l’ammissione all’università. Nonostante fosse un ottimo studente, aveva deciso da tempo di non continuare gli studi, ma di intraprendere fin dal diploma l’unica attività che lo avrebbe reso felice, vale a dire proseguire l’eredità dei suoi genitori. Già da quell’anno avrebbe cominciato ad insegnare ad alcune classi del dojo e un domani avrebbe portato avanti la tradizione di famiglia con entusiasmo.

Amava le arti marziali con tutto se stesso, con quell’amore viscerale e a volte persino un po’ cieco che ancora animava suo padre. Che fosse lui ad ereditare il dojo Tendo-Saotome era parso a tutti la cosa più ovvia, soprattutto ai due arzilli nonni che fin da bambino lo avevano all’unanimità eletto loro erede e allievo prediletto: Ranma era stato sorpreso da come quell’incapace di suo padre Genma fosse diventato un nonno attento ed un maestro quasi decente. Quasi

Un giorno si era presentato al dojo con alcuni gatti e, ancora più sospetto, del cibo per i suddetti felini nascosto tra le pieghe del suo onnipresente gi bianco: qualche pugno ben assestato da parte sua e altrettante martellate ugualmente convincenti di Akane avevano fatto desistere il vecchio dai suoi insani propositi.

Fu così che Arashi scampò alla fatale ailurofobia(*) paterna.

 

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Ryoko sospirò per la stanchezza e si lasciò cadere sul letto, allargando le braccia. Era stanca morta; risistemare una casa dopo un trasloco era sempre una gran fatica.

I grandi occhi scuri fissarono il soffitto di quella che sarebbe diventata la sua camera, ma che sentiva ancora estranea. L’odore di vernice era ancora penetrante e probabilmente quella notte avrebbe dovuto lasciar la finestra aperta e permettere che l’aria di Nerima stemperasse quell’odore.

Nerima…

Le sembrava di aver sempre conosciuto quel nome; le era familiare quanto quello di una persona cara, pur non ricordando di esservi mai stata. I suoi genitori avevano sempre pronunciato quel nome con evidente affetto, soprattutto sua madre, ma per lungo tempo quello non era stato altro che un suono vuoto, una parola priva di senso per lei.

Poi, quando tutto era cambiato quel nome era svanito, come se non fosse stato mai pronunciato. Come se il vuoto fosse divenuto reale, almeno fino ad una sera di un paio di mesi prima, quando suo padre all’improvviso aveva detto loro che si sarebbero trasferiti a Nerima. Di nuovo quel suono, ma stavolta non era più vuoto.

Era una promessa. Una speranza. Lo aveva capito dallo sguardo che suo padre aveva quella sera.

Una speranza per Ryo. Ma forse anche per lei…

La porta si aprì e per nulla sorpresa la ragazzina vide il padre con quell'espressione stupita che scorgeva molto spesso sul suo volto. “Scusa! Cercavo la camera di Ryo… E’ quella accanto, vero?” le domandò imbarazzato, stringendo convulsamente la maniglia nella mano ancora poggiatavi su.

Ryoko scosse la testa, poi alzandosi con un sospiro si avvicinò all'uomo e prendendolo per mano, lo guidò alla stanza posta proprio di fronte alla propria. Con un sorriso gentile gli mostrò infine la targhetta su cui con caratteri occidentali era scritto il nome del gemello.

Ryoga rise, sempre più impacciato e la ringraziò “Ci sarò passato avanti un mucchio di volte, che sciocco!” lei gli sorrise con indulgenza ed intenerito le restituì il sorriso, carezzandole una guancia.

“Va’ pure a riposare ora. Non preoccuparti: non uscirò da casa per oggi, perciò non ci sono pericoli che mi perda nei dintorni” la rassicurò. Lei annuì ed alzandosi sulle punte, depositò un leggero bacio sulla sua guancia per poi tornare in camera.

Ryoga la guardò fino a quando fu sparita oltre la soglia poi sospirando, bussò alla porta del figlio ed entrò senza aspettare risposta.

Il ragazzo era seduto sul davanzale della finestra aperta, lo sguardo perso nella contemplazione del panorama nuovo per lui; probabilmente non si era accorto nemmeno della sua presenza, preso com’era in chissà quali pensieri.

“Ryo” lo richiamò gentile e lui si voltò, i begli occhi castani leggermente annebbiati.

“Papà… non ti ho sentito entrare.”

“Ho anche bussato, eri distratto.”

Il giovane gli sorrise e si volse del tutto verso di lui, lo sguardo più attento “Bell'affare per un esperto di arti marziali” ironizzò, strappando al padre un sorriso divertito.

“Già – ne convenne Ryoga andandogli più vicino – in effetti. Tutto bene?” gli domandò, scrutandone con attenzione il viso, come a cercare lì una risposta.

“Sì. Nerima sembra carina e questa stanza è più grande di quella che avevo… prima” aveva esitato come se si fosse reso conto troppo tardi di quello che stava dicendo, ma suo padre non sembrò farci caso o per lo meno finse molto bene. Lanciò un’occhiata al panorama che il ragazzo stava osservando fino a poco prima e annuì, un sorriso tirato sul volto.

“Già, è una bella casa, siamo stati fortunati a trovarla. Sai che anni fa trascorrevo molto tempo in questa città?”

“Sì me l’hai detto… - Ryoga pensò che forse gliene avesse parlato fin troppo – Volevi chiedermi qualcosa?”

“Sì, riguarda Ryoko. Domani sarà il vostro primo giorno di scuola e vorrei che tu stessi particolarmente attento a lei.”

“Lo faccio sempre” non fu stupito di avvertire una nota dura nella voce del ragazzo. Era sempre sulle difensive quando si trattava di sua sorella.

“Lo so, ma vedi quella scuola, il Furinkan, è un vero e proprio manicomio! Hanno quel preside completamente folle e… ed io non potrò venire con voi domani, quindi vorrei che fossi tu a spiegare ai professori il problema di tua sorella.”

Ryo serrò la mascella in uno scatto nervoso, mostrandogli poi le spalle improvvisamente irrigidite “Ryoko non ha alcun problema” disse con voce ancora più tesa di prima e Ryoga pensò che non fosse il momento di litigare.

Non amava discutere con lui, soprattutto quando l'argomento in questione era sua figlia… Beh, in verità era l'unico motivo per cui gli capitava di discutere con quel ragazzo e con amarezza pensò che era anche l'unica occasione in cui lui pareva uscire dal suo guscio. Ryo si era costruito una vera e propria armatura dalla quale non lasciava trasparire nulla.

Era incredibilmente maturo per la sua età, assennato come chiunque costretto a crescere in fretta, ma era così chiuso! A ben vedere, non vi era molta differenza tra lui e Ryoko: anche lei si era riparata dal mondo, anche se il modo scelto sembrava più eclatante rispetto a quello del fratello.

“D’accordo, però tu stalle vicino anche più del solito, intesi? So che non ho bisogno di dirtelo, ma credimi, quel posto non è proprio l’ideale per lei.”

“E’ per questo che volevi iscriverla a quella scuola per sole ragazze?”

“Lei però non ha voluto separarsi da te, perciò… Ok, non c’è altro, vado a preparare il pranzo.”

Ryo inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il padre, fissandolo da oltre la spalla “Così presto?”

“Devo ancora trovare la cucina. Questa casa è così dannatamente grande!” sbottò Ryoga, avviandosi verso la porta…

“Ehm, papà, quello è l’armadio. La porta è l'altra.”

“Ah, ah, ah, ci sono ricascato – scherzò Ryoga, anche se non c’era reale divertimento nella sua risata forzata – speriamo di non uscire per sbaglio da casa… Ah, a proposito, mi faresti un favore?”

“Certo.”

“Ecco, servono alcune cose, potresti andare a comprarle? Ci andrei io, ma…”

“Ma rischieresti di ritrovarti ad Osaka. Credi che Ryoko voglia venire con me?”

Ryoga ripensò al volto pallido della ragazza e ad i suoi occhi stanchi e scosse il capo “Meglio lasciarla riposare. Puoi approfittare dell’uscita per visitare i dintorni, così domani troverai subito la scuola.”

Ryo annuì e sorrise con genuino divertimento. Al contrario del padre, possedeva un senso dell’orientamento eccezionale. Anche se si ritrovava in luoghi sconosciuti, riusciva ad orientarsi in poco tempo e non si era mai perso; scherzando sua madre una volta gli aveva detto che quel dono era un risarcimento delle divinità per compensare il totale disorientamento paterno.

“Farò un giretto allora, cosa ti serve?”

 

 

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“Mamma, più tardi andiamo dagli zii?” la bambina se ne stava aggrappata quasi al bancone lasciando penzolare le gambe, mentre la madre era impegnata a ripulire la grande piastra.

“Certo Yuri, perché no? Scommetto che Hotaru e Arashi saranno felici di giocare con te.”

La bimba rise e poggiò il mento sulle manine incrociate “E lo zio Ranma mi farà volare di nuovo?”

La donna le puntò contro un dito, fissandola con cipiglio “Se Ranma riprova di nuovo a lanciarti in aria come l’altra volta, giuro che lostendo con la mia spatola!”

“Ma è divertente, mamma!”

Ukyo sospirò, l’animosità svanita all’istante e scosse rassegnata la testa “Sei proprio un maschiaccio Yuri, eppure hai sei anni quasi, sei una ragazzina ormai.”

“Anche lo zio mi chiama maschiaccio, però ride quando lo dice” commentò la piccola per nulla oltraggiata.

Stavolta Ukyo sorrise ed alzò gli occhi al cielo “A tuo zio Ranma sono sempre piaciuti i maschiacci. Ora però basta poltrire, peste: dobbiamo aprire il ristorante! Va’ a prendere l’insegna, così la metterò fuori” la bambina annuì, facendo sussultare i riccioli scuri.

“Sì, mammina!” disse, saltando poi giù dalla sedia. Ukyo la guardò sparire sul retro del locale ed il suo sorriso divenne più triste.

La sua bambina doveva sentirsi molto sola, pensò mordendosi le labbra; era davvero una fortuna che Hotaru ed Arashi le volessero bene come se fosse davvero una loro parente.

La famiglia di Ranma aveva in pratica adottato lei e sua figlia, accogliendoli tra loro con affetto e di questo lei non poteva che essere felice, ma non era la stessa cosa per Yuri, lo sapeva bene: le mancava una vera famiglia, una famiglia che fosse tutta sua. Sospirò e si sforzò di nascondere la propria tristezza visto che la piccola stava rientrando, tenendo l’insegna del suo locale tra le mani. “Mamma?”

“Sì?”

“Quando andiamo dagli zii?” Ukyo sospirò: di tutti i propri difetti, certo Yuri aveva ereditato la testardaggine.

“Non essere impaziente, andremo stasera dopo aver chiuso.”

“Speriamo che la zia Akane prepari la torta, è così buona!”

A quelle parole la cuoca rise e scosse la testa, sinceramente divertita “Già, incredibile, ma vero!” disse ridendo più forte, mentre la piccola la guardava curiosa, chiedendosi che ci fosse di così divertente.

 

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Ryo sistemò meglio il pacco sotto al braccio e dopo aver salutato la gentile commessa, lasciò il negozio. La strada principale di Nerima era particolarmente affollata soprattutto di ragazzi che sfruttavano quell’ultimo giorno di vacanza per divertirsi prima dell’inizio della scuola.

Guardando i gruppetti di ragazzi e ragazze, Ryo si chiese quanti di loro sarebbero poi potuti essere suoi compagni di scuola; non gli importava granché a dire il vero, così come non gli importava della scuola.

Era un bravo studente, ma questo non significava che lo studio l’appassionasse. Nulla lo entusiasmava granché ora, nemmeno le arti marziali, anzi, quelle meno di tutto.

C’erano stati giorni in cui nulla gli era sembrato più importante e in cui nulla poteva competere con l’amore per l’Arte, ma quei tempi erano andati.

Continuava ad allenarsi con suo padre più per fargli piacere, per dargli qualcosa a cui aggrapparsi dopo quello che era successo, ma anche Ryoga si era reso conto che non c’era più passione in suo figlio. E questo era uno dei motivi per cui si erano trasferiti a Nerima, anche se il ragazzo non lo sapeva ancora.

C’erano stati anche altri motivi, cause dolorose per le quali la famiglia Hibiki non avevo più potuto restare nella loro vecchia casa. Ricordi soprattutto, che nessuno di loro tre poteva più sopportare.

Tentando di scrollarsi di dosso quei pensieri, Ryo consultò la nota scrittagli da suo padre per verificare cosa dovesse ancora comprare.

‘Uhm, non m’è rimasto molto da prendere: devo ritirare le divise scolastiche dalla tintoria e poi posso tornarmene a casa… Ma dove sarà la tintoria?’ si guardò intorno, ma del negozio non c’era traccia.

Il suono di una risata lo fece voltare; alle sue spalle un gruppetto di tre ragazze stava ridendo tra loro, ferme davanti ad una vetrina. Una delle tre indicava qualcosa alle altre due scatenandone l’ilarità. ‘Potrei chiedere a loro…’ si disse, avvicinandole.

“Scusate.” Le tre amiche si voltarono all’unisono, guardandolo poi curiose.

“Sì?” chiese una di loro.

“Sapreste dirmi dove si trova la tintoria Refresh?”

“Non è molto lontana da qui – una delle ragazze, proprio quella al centro del gruppetto che aveva fatto ridere le altre, gli si avvicinò con fare sicuro – devi andare dritto fino al banco delle ciambelle, quello lì in fondo e poi girare a destra, la tintoria è il terzo negozio.”

Ryo annuì e s’inchinò leggermente davanti alla ragazza “Ti ringrazio, ho capito. Arrivederci.”

Lei gli sorrise di rimando, poi appena si fu allontanato tornò dalle sue amiche rimaste qualche passo indietro.

Le due la guardarono stupite “Hotaru!”

La ragazza batté le palpebre, confusa dal tono accusatorio della loro voce “Cosa ho fatto?” chiese, mettendosi istintivamente sulla difensiva.

“Come cosa?!Ma l’hai visto o no?”

“Visto chi?”

Midori la prese sottobraccio “Quel ragazzo! Quello della tintoria!”

“Quello? Sì, certo che l’ho visto, gli ho parlato, no? Che c’è di male?”

L’altra amica sospirò scuotendo la testa, carica di rassegnazione “Sei senza speranze, Hotaru Saotome! Non hai notato che quel ragazzo era molto carino?”

La suddetta senza speranze inarcò un sopracciglio “Eh? Davvero?” in effetti l’aveva guardato appena…

“Proprio vero, Hitomi, è senza speranze! Hai avuto un’occasione d’oro, razza di sciocca! Potevi farci amicizia, era così carino!” la ragazza sospirò alzando gli occhi al cielo con aria sognante subito imitata dall’altra, mentre perplessa, Hotaru si limitava a fissarle. “Potevi offrirti di accompagnarlo, di mostrargli la strada…”

“E poi strada facendo gli chiedevi come si chiamava e ce lo presentavi! Hotaru, tu non capisci proprio nulla di ragazzi!”

“Midori ha ragione, sei ancora una bambina per queste cose.”

La giovane Saotome si strinse nelle spalle, affatto toccata da quelle parole “Siete voi che siete fissate. A me non interessano i ragazzi per il momento e non m’interesseranno fino a quando non ne troverò uno in gamba” spiegò sicura.

Midori fece una smorfia, arricciando il grazioso naso “Come se non lo sapessimo, ma tu sei troppo viziata in questo senso: dove lo trovi uno che possa sembrarti appena decente con certi termini di paragone? Se io vivessi sotto lo stesso tetto con uno come tuo fratello, gli altri mi sembrerebbero dei primati come minimo. Arashi è meraviglioso!” Hotaru gongolò intimamente a quel complimento, anche se in tutta sincerità non condivideva tanto entusiasmo riguardo suo fratello maggiore.

“E’ vero, ma dovresti comunque cercarti un ragazzo che abbia tra le sue qualità non solo l’esser carino – continuò Hitomi con aria saccente – Come la gentilezza, l’educazione, la sensibilità… Quel ragazzo sembrava molto gentile.”

“Oh, basta smettetela voi due! E poi ora quel tizio se n’è andato e probabilmente non lo vedrò più, perciò è inutile parlarne… Piuttosto, pensavo di prenderlo proprio quel peluche – indicò l’animaletto che prima aveva scatenato le loro risate – è davvero uguale al nonno” disse, ridendo di nuovo.

Il peluche, un morbido e tenero panda, teneva un cartello tra le zampette con su scritto ‘Sono un adorabile panda’… Sarebbe stato perfetto per donarlo a sua nonna Nodoka!

 

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Note:

(*)ailurofobia: è la fobia per i gatti. Dal greco àiluros, gatto.

 

Carla’s corner:

Salve gente! Lo so, sono letteralmente sparita dall’etere, nonostante avessi promesso di non farlo… sigh, che dire se non che, naturalmente, mi spiace tantissimo? Odio non mantenere le promesse e anche se qualche scusante ce l’ho, non voglio sottrarmi alle mie responsabilità, per cui se volete scagliarmi addosso pomodori e ortaggi vari, prego, accomodatevi pure.

In segno di buona volontà, ho pensato di postare non uno, ma ben quattro capitoli nuovi in una sola volta: il tanto atteso capitolo 13 di ITMH e i primi tre della nuova fiction, L’Ultimo desiderio (titolo che nel sondaggio proposto tempo fa a stravinto a mani basse). In realtà c’è un motivo valido per questa sbornia, per cui vi prego di non aspettarvi aggiornamenti così sostanziosi tanto spesso ^_^;. Il fatto è che avendo disdetto il mio fornitore ufficiale di internet, tra poco potrei restare senza linea per un po’, motivo per cui ho pensato di inviare tutto il materiale corretto in una sola volta, ma mi raccomando, centellinatelo con cura! Io proverò a non sparire più, ho anche rinnovato il mio abbonamento all’intenet-point che in un recente passato mi ha permesso di non esser tagliata fuori dal mondo virtuale in seguito a varie rotture tecnologiche. Per ora vi auguro buona lettura e vi chiedo ancora scusa.

Ah, dimenticavo: saluto tanto la mia beta, la somma Cri aka Tiger eye, la dolcissima Mikki (hai ripreso il lavoro con i marmocchi?) e tutti coloro che mi hanno commentato, anche quelli del sito di manganet: vi assicuro che leggo con attenzione tutti i commenti postati, anche quelli per le mie fictions più vecchie! Un saluto anche all’ultima arrivata, si fa per dire, cioè Flavia. Dedico questi capitoli a tutti voi che avete avuto la pazienza di aspettarmi e a tutti coloro che con gentilezza mi hanno chiesto che fine ho fatto. Grazie, infinitamente grazie.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


L’ultimo desiderio

di Breed 107

 

 

Capitolo secondo.

 

Hotaru lanciò un’occhiata in tralice a suo fratello “E’ proprio necessario?” gli domandò con voce annoiata.

Arashi la guardò curioso “Cosa scusa?”

Lei sospirò esasperata “Come cosa? Andare a scuola insieme! Devono proprio saperlo tutti che sei mio fratello?”

Il ragazzo si fermò, guardandola divertito e si strinse nelle spalle “Pensavo ti avrebbe fatto piacere non esser sola il primo giorno… E poi, mi spiace darti questa notizia Hotaru, ma il fatto che siamo fratello e sorella è abbastanza risaputo, visto che a Nerima tutti conoscono i nostri genitori.”

Hotaru sbuffò, facendo dondolare la cartella con fare annoiato “Con tutti i danni che hanno fatto da ragazzi… Quello che mi da fastidio è che tutti non faranno altro che farmi domande su di te e non voglio nemmeno pensare a quello che succederà con le ragazze! La mia vita scolastica alle medie è stata completamente rovinata dalla tua popolarità!” lo accusò, il volto graziosamente imbronciato, ma lui non parve farci troppo caso.

“Tu esageri sempre e non è nemmeno vero che sono tanto popolare, credimi, soprattutto con le ragazze” le disse con sincera modestia.

“E poi sarei io l'ingenua della famiglia? – commentò lei sarcastica, guardandolo con la coda dell’occhio – D’accordo, per oggi ti concedo di accompagnarmi, ma muoviamoci, non voglio fare tardi il primo giorno di scuola” accelerò il passo, subito seguita da Arashi.

“Io non capisco tutta questa voglia di andare al Furinkan… Lo fai solo per far arrabbiare i nostri genitori?”

“Certo che no!” rispose lei oltraggiata.

Ovvio che non fosse solo per quello! In realtà uno dei motivi era proprio la presenza di suo fratello in quella stessa scuola. Nonostante fino a qualche istante prima si fosse lamentata di quella parentela apparentemente scomoda, a Hotaru non dispiaceva frequentare la stessa scuola.

Non avevano un rapporto conflittuale come spesso capitava tra fratelli, come se qualcuno potesse davvero desiderare litigare con Arashi, si disse la ragazza osservando ancora il ragazzo che le camminava accanto. Certo, le punzecchiature e le prese in giro erano frequenti, ma anche se non l’avrebbe confessato ad anima viva, Hotaru stimava molto Arashi ed era compiaciuta del fatto che lui la stimasse altrettanto, almeno tanto da fargli evitare alcuni atteggiamenti protettivi tipici di alcuni fratelli che avrebbe trovato irritanti.

Da bambina aveva sofferto di profonde crisi d’invidia per quel fratello tanto perfetto e amato da tutti, capace di conquistare con un sorriso e dotato di un carisma naturale che lei era fin troppo conscia di non possedere; era irritante paragonarsi a quel concentrato di virtù, in apparenza messo al mondo prima di lei affinché i suoi difetti venissero ingigantiti. Ogni carezza di sua madre, ogni lode di suo padre per quel figlio adorato, ogni elogio dei nonni le sembrava ingiustamente rubato a se stessa e cocciutamente aveva sempre dato la colpa di ciò proprio ad Arashi.

Crescendo però il rancore si era sfaldato sotto il peso dell’affetto che, inevitabilmente, lui era stato capace di risvegliare anche in lei. Era rimasta vittima del suo fascino persino lei!

Forse, si era detta Hotaru quando era stata abbastanza grande da metter da parte la cieca gelosia, forse quel ragazzo che il destino le aveva dato come fratello non era tanto male. E assurdamente lo aveva capito nel momento in cui lo aveva visto fallire platealmente per la prima volta. In quello che lui amava di più, addirittura.

Per quanto naturalmente dotato, per quanti estenuanti allenamenti lui potesse sottoporsi c’era qualcosa in cui il perfetto Arashi non era riuscito e che forse non gli sarebbe mai riuscito: superare il padre.

Era abile, molto più di qualsiasi ragazzo della sua età, forte ed agile come pochi e dotato di perseveranza anche più di Ranma Saotome, ma nonostante questo Arashi non era ancora riuscito a superare il maestro. Suo padre restava ancora un esempio da imitare, un modello da raggiungere, ma ancora così fuori portata da far sospettare che forse non l’avrebbe raggiunto mai.

Da quasi sei mesi Arashi stava cercando di impadronirsi della portentosa tecnica che proprio suo padre aveva ideato anni prima, quella MokoTakabisha che più di un successo gli aveva garantito, ma per quanto impegno potesse metterci, ogni tentativo era vano.

Osservando la frustrazione del fratello, Hotaru gli si era sentita incredibilmente vicina: era stato quasi sorprendente scoprire che anche lui aveva delle carenze. E cosa sorprendente, al contrario di lei che avrebbe reagito con rabbia, lui si era gettato ancora con più impegno negli allenamenti, deciso a riuscire. Era lodevole, si era detta la ragazzina, scoprendo che dopotutto non c’era nulla di strano a voler bene a qualcuno di tanto ammirevole, anche se si aveva la sfortuna di averlo come fratello.

“Il Furinkan è una scuola diversa dalle altre.”

Arashi annuì “Questo è poco, ma sicuro. Una vera gabbia di matti, capeggiata dal più folle di tutti… Spero tanto che il preside quest’anno prenda di mira qualcun altro, anche se non mi ritengo così fortunato, quello ce l’ha con me.”

“Dovresti ignorarlo.”

“Come se questo bastasse! Lo sai che vuol dire essere sfidato da quel pazzo solo perché sono figlio di Ranma Saotome?! Quasi non passa giorno che non trovi un pretesto per provare a sbattermi fuori! Me lo dici come faccio a non mettermi nei guai?”

Hotaru fece un sorrisetto chiaramente ironico e alzò gli occhi al cielo limpido di quel mattino privo di nubi. “Parli come se non ti divertisse essere sfidato da lui… e poi riesci sempre a vincere, no?”

Il ragazzo sbuffò e scosse il capo “In verità mi eviterei un simile divertimento con piacere. Non porto più il codino da anni, ma continua a perseguitarmi con i suoi maledetti rasoi.”

Hotaru si scostò una ciocca dei lunghi capelli scuri e si strinse nelle spalle, con fare sufficiente “Deve solo provarci ad accostarsi ai miei capelli: potrebbe essere l’ultima follia che fa.”

Arashi non commentò, ma quasi provò un po’ di simpatia per il preside Kuno. Quasi.

 

--- --- ---

 

Ryo sbadigliò, strofinandosi gli occhi per cacciare via i residui di sonno. “Uhm, che nottataccia – sbuffò e si volse verso la sorella – tu hai dormito bene?” le domandò.

La ragazza lo guardò appena, annuì e poi tornò a fissare il canale, apparentemente attratta dalle macchie iridescenti che il sole creava sulla superficie.

Ryo strinse le labbra, osservandola camminare quietamente al suo fianco; osservò il bel profilo, valutando il colorito piuttosto pallido del viso: gli aveva mentito, naturalmente. Era chiaro che non avesse dormito bene e non certo perché non era riuscita ad abituarsi al nuovo letto, come invece era stato per lui. Era tempo che la ragazza non dormiva molto… Circa tre anni.

Chissà se nella nuova casa, finalmente lontana da tanti brutti ricordi avrebbe riacquistato la tranquillità. Ryo lo sperava. Ormai era la sua unica speranza, la sua unica aspettativa, l'unica cosa a cui desse ancora importanza: che sua sorella tornasse quella di un tempo.

“Hai preso l’obento(*)?” le domandò ancora e lei tornò a guardarlo, sorridendogli e annuendo. “Spero che quello che ho preparato ti piaccia, Ryoko. Se avessi lasciato fare a nostro padre, ora starebbe ancora vagando per la casa in cerca del frigorifero.”

Il sorriso della ragazza si allargò, così come il cuore di suo fratello; quello era davvero l’unico aspetto positivo del completo disorientamento del padre, riusciva sempre a farla sorridere di cuore.

“Siamo quasi arrivati… Ryoko, guardami. – la ragazza lo fissò, attenta – Se qualcuno dovesse osare farti del male, dirti qualche cattiveria per… per quello che sai, non devi tenertelo per te, capito?”

Lei distolse lo sguardo, ma Ryo le prese il mento con una mano, costringendola a guardarlo “No, dico sul serio. Voglio che tu mi faccia sapere ogni cosa, capito? Nessuno deve mancarti di rispetto, nessuno. Lo sai, non amo attaccar briga, ma non permetterò a nessuno di offenderti… o altro. Siamo intesi? Non mi terrai nulla nascosto, vero?”

La ragazza sospirò e dopo averlo guardato di nuovo negli occhi per alcuni istanti annuì, volgendo poi lo sguardo a terra. Ryo si ritenne soddisfatto e la lasciò andare “Bene, ora andiamo.”

Così, in silenzio, continuarono ad incamminarsi verso la loro nuova scuola. Era uno dei primi passi della loro nuova vita… o almeno Ryoko sperava che fosse una nuova vita.

 

--- --- ---

 

Ryoga batté le palpebre, esterrefatto.

Quasi senza che se ne rendesse conto, sentì gli occhi inumidirsi e dovette faticare per non mettersi a piangere come un bambino, lì in mezzo alla strada, lì… davanti al dojo dei Tendo.

Una marea inesorabile di ricordi lo assalì, lasciandolo quasi senza fiato. Ricordi brutti, ma soprattutto belli, ricordi di una gioventù che solo attraverso le sofferenze dell'età adulta poteva finalmente considerare spensierata.

Già, in fondo quando ancora frequentava il dojo, quali erano i suoi pensieri più grevi? Che Akane scoprisse il suo segreto, la sua maledizione, e che s'innamorasse di Ranma… Beh, entrambe le cose erano accadute eppure la sua vita non era affatto andata in pezzi, anzi.

All’inizio, quando la verità su P-Chan era venuta a galla, Akane si era infuriata con lui e per un po’ non aveva voluto vederlo, ma poi i rapporti si erano rinsaldati… Già, si era rappacificato con lei e la loro amicizia era risorta su basi nuove, tanto che lei e Ranma erano poi stati i suoi testimoni di nozze, le sue nozze con Akari.

Deglutì nervoso, non doveva rimettersi a pensare a lei e a quello che era successo; non adesso che era tornato al dojo dopo tanti anni, ora voleva riportare a galla solo i bei ricordi e lì ne aveva molti, tutti legati a quell’idiota di Ranma ammise con un mezzo sorriso…

Ranma, il suo unico rivale. Il suo unico vero amico.

Deglutì ancora una volta e guardò l’insegna, l’unica cosa che sembrava essere cambiata; non c’era più scritto infatti Dojo Tendo, ma “Dojo Tendo-Saotome”. Sorrise ancora, pensando che un tempo quella scritta lo avrebbe fatto infuriare, mentre ora gli unici sentimenti che provava erano gioia e la piacevole sensazione d’essere come tornato a casa.

Facendosi coraggio Ryoga Hibiki oltrepassò il cancello del dojo, dopo più di dieci anni.

 

--- --- ---

 

“Ragazzi, la maggior parte di voi credo che si conosca già. Provenite tutti dalle stesse scuole ed abitate in questo quartiere, molti di voi saranno già amici.”

Hotaru lasciò vagare lo sguardo per l’aula, dovendo ammettere che il professore aveva ragione e che conosceva tutti gli altri, chi più, chi meno. Alcuni erano stati suoi compagni alla scuola media, mentre altri li conosceva almeno di vista. Le dispiaceva però che le sue migliori amiche, Hitomi e Midori, non fossero in classe con lei.

Il professore sorrise con entusiasmo. Era molto giovane e probabilmente quella era una delle prime classi che gli venivano affidate. “Voglio presentarvi due studenti che invece si sono trasferiti da pochi giorni a Nerima e che quindi non conoscono ancora nessuno. Mi raccomando, siate gentili facendoli sentire a loro agio in questa nostra cittadina” un brusio si levò tra i banchi mentre l’uomo si avvicinava alla porta per poi aprirla “Prego, ragazzi, entrate.”

Ryo fu il primo ad entrare, lo sguardo tranquillo per nulla intimidito, mentre a distanza di qualche passo lo seguì Ryoko, visibilmente in difficoltà. Odiava essere al centro dell’attenzione ed essere presentata ad un’intera classe era imbarazzante da morire.

Quando suo fratello si fermò vicino alla cattedra, lei gli si mise accanto, alzando il capo solo per un momento prima di tornare a fissare i propri piedi, le guance inizialmente pallide ora infuocate.

“Come vi ho detto, loro sono appena arrivati a Nerima. Sono fratello e sorella… ma forse Ryo, è meglio che tu faccia le presentazioni” il giovane professore si sistemò gli occhiali a disagio, guardando appena la ragazzina: temeva di essere indelicato e Ryo lo ringraziò con un sorriso, poi si volse verso il resto della classe, per nulla infastidito da quegli sguardi curiosi; preferiva che guardassero lui piuttosto che Ryoko.

“Mi chiamo Ryo Hibiki ed ho sedici anni. Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti a Nerima un paio di giorni fa. Lei è mia sorella gemella, anche se non ci somigliamo granché.” In effetti non sembravano nemmeno fratelli, pensò Hotaru guardandoli con non meno curiosità degli altri.

Lui era alto, più di un ragazzo della sua età; aveva occhi molto belli, di un caldo castano chiaro che quasi sembravano sfumare in un verde profondo, ombreggiati da lunga ciglia scure; i capelli scurissimi erano un po’ lunghi sulla fronte, infatti gli finivano quasi sugli occhi in ciocche disordinate. Sua sorella invece era minuta, decisamente esile anche se ben proporzionata, non troppo alta ed in apparenza molto gracile.

Aveva un viso delicato, dai lineamenti dolci e gentili, meno spigolosi di quelli del fratello e l’ovale del volto era incorniciato da lunghi capelli dai riflessi castani che le coprivano le spalle fino a metà della schiena, perfettamente lisci.

A parte il colorito sulle guance, il suo incarnato appariva niveo, mentre suo fratello aveva la pelle più ambrata, come se fosse abituato a passare molto tempo all’aria aperta.

“Si chiama Ryoko ed è più piccola di me di tre minuti. E’ molto timida – la guardò un istante, prima di tornare a rivolgersi alla classe – e non parla” aggiunse con l’unica nota d’esitazione che gli sentirono in quella breve presentazione.

Ryoko strinse impercettibilmente le mani intorno alla cartella, non trovando il coraggio di alzare gli occhi verso gli altri, verso quell’aula dove sembrava essere piombato il silenzio più assoluto. Ryo al contrario lasciò vagare lo sguardo, sfidando chiunque a dire qualcosa di poco gentile o di stupido: in fondo gli era accaduto altre volte e non se ne sarebbe stupito più di tanto. Ma quella volta non accadde nulla, nessuno almeno per il momento commentò la cosa e lui ne fu sollevato.

Si volse verso il professore che gli sorrise, altrettanto sollevato “Bene, potete prendere posto, ragazzi e… cominciamo le lezioni!”

 

--- --- ---

 

Arashi trattenne a stento un’imprecazione tra i denti; quell’anno scolastico sarebbe stato lunghissimo, ora ne era certo. Lo aveva capito appena entrato in aula quando aveva visto tra i suoi compagni anche Kuno, che ora se ne stava comodamente seduto su uno dei banchi, la solita smorfia arrogante sul bel viso.

‘Naturalmente si è seduto sul mio banco.’

Arashi gli si mise di fronte e lo guardò, tentando si assumere un’espressione il meno contrariata possibile: sembrava che la missione nella vita di quel ragazzo fosse infastidirlo. “Scusa, Kuno, potresti spostarti?” gli domandò con ostentata gentilezza.

Ken Kuno inarcò un sopracciglio e fingendosi stupito guardò il banco sul quale era seduto “Oh, dici davvero Saotome? Questo è il tuo banco? Scusami, non lo sapevo” disse con aria innocente, non facendo però il minimo cenno di muoversi.

“Credi che io possa sedermi ora che lo sai, Kuno?”

“Hai così tanta voglia di metterti a studiare, Saotome? Il professore non è ancora arrivato e stare in piedi per qualche minuto non ti farà male, sei un atleta, no?”

Arashi strinse un pugno: anche alla sua pazienza c’era un limite. Erano anni che con il suo comportamento irritante quel ragazzo cercava in tutti i modi di stuzzicarlo, quasi sembrava una mania di famiglia importunarlo!

“Senti un po’…”

“Ehi, Arashi! Siamo in classe insieme!” la voce squillante dietro di sé lo interruppe e, riconoscendola, Arashi dimenticò momentaneamente Kuno.

Si voltò verso la ragazza alle sue spalle e la guardò stupito “Suzume…”

Suzume Nogata era la vera celebrità del Furinkan. Famosa per la sua grande bellezza, ma soprattutto per una spiccata abilità che le aveva guadagnato la stima, o meglio, il timore reverenziale di tutti: Suzume sapeva sfruttare ogni occasione e ricavarne profitto.

Era abile, astuta e determinata, oltre che fredda e calcolatrice. Ed era cugina di Arashi Saotome, il che non faceva che aumentare la sua popolarità; Suzume infatti era la degna figlia di Nabiki Tendo, da cui aveva ereditato non solo i bei lineamenti, ma anche le sue particolari doti.

Lei ed Arashi non erano molto amici, lui infatti non sopportava essere l’oggetto preferito delle contrattazioni della cugina, ma di Suzume stimava molte cose, come il fatto che fosse estremamente sveglia e, ciliegina della torta, che fosse nemica giurata di Ken Kuno. Probabilmente il ragazzo odiava lei persino più di quanto odiasse lo stesso Arashi, forse perché al contrario di quest’ultimo lei sapeva metterlo nel sacco egregiamente.

“Ciao cuginetto – lo chiamava sempre così, vantandosi di essere più grande, se pur di soli quattro giorni – è la prima volta che siamo nella stessa classe.”(**)

“E’ vero… E’ da un po’ che non ti si vede al dojo.”

Lei si strinse nelle spalle e gli si avvicinò scostando i lunghi capelli dalle spalle con un gesto molto aggraziato “Sono stata molto impegnata durante le vacanze… Oh – si era appena accorta della presenza di Kuno, come la smorfia di disappunto se pur fulminea dimostrò – ci sei anche tu. Che piacevole sorpresa” commentò posando uno sguardo glaciale sull’altro ragazzo che la fissò con altrettanta ostilità.

“Mi hai rubato le parole di bocca, Nogata.”

“Che ci fai ancora qui? Credevo che fossi partito per l’America per andare da tua madre, o almeno così si vociferava.”

Ken sembrò un po’ stupito “Un giorno mi spiegherai come fai a conoscere tutti i fatti miei, Nogata… e soprattutto mi dirai perché t’interessano tanto.”

Lei inarcò un sopracciglio “Interessarmi? Per tua norma e regola io non m’interesso di ciò che accade nella tua eccitantissima vita di ricco rampollo. Il fatto è che speravo di essermi liberata della tua presenza” gli schioccò un’ultima occhiata fredda e dopo un cenno col capo rivolto ad Arashi andò a sedersi, muovendosi con la solita grazia.

Ken la seguì con lo sguardo, un’espressione talmente pensierosa che osservandolo ad Arashi parve quasi persino assumere un’aria intelligente, tanto era assorto. “Saotome – Ken tornò a fissarlo, alzandosi dal banco – senti…”

Arashi assottigliò gli occhi, aveva la curiosa impressione che tanto per cambiare volesse chiedergli qualcosa di serio “Ecco…” si zittì nuovamente, per poi sospirare e volgere lo sguardo altrove “Non importa. Siediti pure” disse infine, allontanandosi con aria afflitta.

‘Che cavolo gli prende?’ si chiese il giovane Saotome, ma non ebbe molto tempo per pensarci perché proprio in quel momento faceva il suo ingresso in aula un altro degli incubi del giovane Saotome, la professoressa Hinako.

Arashi era la sua vittima preferita, così come lo era stato suo padre anni prima. Il povero ragazzo sospirò e si lasciò cadere sulla sua sedia: quel terzo anno sarebbe davvero stato lunghissimo!

 

--- --- ---

 

Akane sentì bussare alla porta e stupita guardò l’orologio: chi poteva essere così presto?

Si asciugò le mani, lasciando perdere i piatti che stava lavando e sfilandosi il grembiule andò ad aprire. Ranma era al dojo impegnato nei suoi soliti kata e in quei frangenti non avrebbe sentito un colpo di cannone.

Ryoga trattenne letteralmente il respiro udendo i lievi passi avvicinarsi; deglutì nervoso ed attese. Attese di guardare in faccia il suo passato, quel passato che tutto sommato era stato così piacevole.

Finalmente la porta si aprì e lui la vide; Akane…

Non era affatto cambiata o meglio, era diventata una donna, una donna matura e ancora incredibilmente bella. I capelli scuri le scendevano dolcemente sulle spalle, li portava più lunghi rispetto a quando era una ragazzina vivace piena di energie, ma i suoi occhi, quegli incredibili occhi caldi come il cioccolato, erano gli stessi.

“Ciao…” la salutò, usando quel poco fiato che riuscì a trovare.

Akane spalancò gli occhi, sorpresa. Quell’uomo che le sorrideva timidamente e chiaramente emozionato era… “Ryoga!”

Immobilizzata dalla sorpresa, lo fissò per alcuni istanti. Era la prima volta che lo rivedeva da… Santi numi, erano passati 10 anni! In tutti quel tempo lui aveva raramente telefonato, ma aveva sempre scritto ed inviato cartoline, regali, almeno fino a tre anni prima, poi non ne avevano più saputo nulla. Ed ora era lì, davanti alla sua porta. Quell'uomo che ora stava sorridendole era il ritratto del ragazzo che aveva visto l’ultima volta, in occasione del matrimonio di Kasumi. Ryoga…

Nel rivedere l’uomo, Akane improvvisamente avvertì tutta in una volta la mancanza del ragazzo che era stato, di quel ragazzo timido, del suo amico, del suo confidente… Certo, aveva ricoperto quella veste più sotto le spoglie del suo animaletto domestico, però… Era Ryoga. Il gentile e dolce Ryoga…

Si morse le labbra e gli sorrise, gli occhi luminosi di pianto a stento trattenuto, così come lucidi erano gli occhi di lui “Sei identico ad allora!”

Lui si strinse nelle spalle “Non credo. Tu invece sei sempre la stessa, sempre bellissima…” si complimentò, incredibilmente con poco impaccio.

“Oh Ryoga, che gioia rivederti! Ma che sciocca, ti sto lasciando sulla porta! Entra, ti prego, Ranma non crederà ai suoi occhi!”

“Come sta l’idiota?”

“Meglio di te di certo, eterno disperso.”

Quella voce…

Ryoga volse lo sguardo verso le scale e Ranma era lì. L’aria beffarda di sempre, il solito sorriso strafottente e spavaldo. Ranma Saotome, l’invincibile rivale di un tempo. Era un uomo ora, ma a Ryoga non parve cambiato e quello gli diede una tale gioia da ridurlo davvero sull’orlo delle lacrime: perché se Ranma era lo stesso, allora forse anche lui poteva illudersi, anche se solo per un momento, d’essere lo stesso di un tempo. >Lo stesso ragazzo forte e determinato di allora e non l’uomo intimamente piagato dalla sofferenza.

Ranma notò l’emozione dell’amico e gli si avvicinò “Stavolta ti sei perso davvero per un bel po’…”

“Da come lo dici sembra che ti sia mancato, Saotome.”

“Chi, tu? Scherzi?! Perché dovevi mancarmi? Ho il frigo pieno di becon, P-chan!”

“P-chan a chi?!” Ryoga lo afferrò per la canotta che Ranma portava per i suoi esercizi e finse di volerlo colpire, ma il suo pugno si fermò a metà strada. “Non mi sei mancato nemmeno tu, idiota…” sussurrò, la voce rotta dall’emozione.

Ranma avvertì le lacrime serrargli il fiato e imprecò mentalmente contro se stesso, dandosi della femminuccia. Però, a chi la dava a bere? Quel testone con la spiccata propensione a perdersi anche nel salotto di casa sua gli era mancato. E gli era mancato come rivale, ma soprattutto come amico.

Abbassò lo sguardo ed il suo sorriso divenne più dolce, carico di nostalgia. Era certo che anche Ryoga stesse provando le stesse sensazioni, perciò restò in silenzio, conscio che non c’era bisogno di parlarsi per esprimerle.

Akane sorrise e si avvicinò ai due immersi in quel silenzio emozionato e un po’ dispiaciuta di doverlo infrangere, li esortò ad entrare in casa “Cosa penserà Ryoga di noi se lo teniamo qui nell’ingresso? Su Ranma, accompagnalo dentro mentre preparo il tè.”

Seduto di fronte a Ranma, Ryoga guardava il grazioso giardino dei Tendo, ripensando a quante volte era stato in quella casa, in quella stessa stanza, poi il suo sguardo cadde sul piccolo stagno ed un sorriso spontaneo gli alzò gli angoli della bocca. Ranma lo guardò curioso “Ecco, pensavo a quante volte ci sono caduto dentro” spiegò, scoppiando poi a ridere, subito imitato dal padrone di casa.

“A chi lo dici! Per fortuna da quando mio padre non vive più con noi, non mi capita più.”

“Come sta il signor Genma?”

“Oh, benissimo! Il vecchio e mia madre vivono in una nuova casa, proprio accanto a quella di Kasumi e il dottor Tofu.”

“Ed il signor Tendo?”

“Vive ancora con noi, anche se è più il tempo che passa dai miei, credo voglia rimanere vicino a mio padre, sai le loro partite a shoji. Ancora non hanno stabilito chi sia il più bravo a barare.”

Ryoga annuì comprensivo “Ricordo… Questa casa non è molto cambiata” commentò, tornando a guardarsi intorno ed assaporando appieno la sensazione di familiarità che quel luogo gli dava.

“Infatti, io e Akane abbiamo deciso di mantenerla così. E poi da quando te ne sei andato non dobbiamo più riparare mura e soffitto.”

L’ospite fece una smorfia ed incrociò le braccia al petto “Sei spiritoso come sempre, Saotome. Piuttosto, che ne è stato degli altri? Li vedi ancora?”

“Uhm, Shan-po e Mousse tornano in Giappone almeno una volta l’anno e non sono cambiati granché, nonostante il matrimonio e i figli: lei cerca ancora di accalappiarmi, lui di uccidermi. Ukyo vive ancora qui, il suo ristorante è ancora uno dei più conosciuti di Nerima.”

Ryoga si morse le labbra; a Ranma era parso che quasi fosse sussultato a sentire il nome della vecchia amica ed anche il suo sguardo si era fatto sfuggente, carico di rimorso. Si domandò il perché, ma fu questioni di pochi istanti, poi Ryoga tornò a sorridere con nostalgia “Ucchan… Non la vedo da un’eternità.”

“Allora ti basta restare qui, viene a trovarci praticamente ogni giorno. Lei ed Akane sono diventate inseparabili come sorelle.”

“Che ironia! Se penso al passato…”

Ranma si strinse nelle spalle e poggiò il viso ad una mano “Le cose cambiano. Guarda noi: ci detestavamo, ma siamo diventati amici.”

“Già, le cose cambiano…”

La tristezza con cui pronunciò quella frase non sfuggì a Ranma che fissò pensieroso il suo amico; c'era qualcosa in lui che non riusciva a definire… Un alone di tristezza, anzi, c’era nei suoi occhi come un’ombra di vera e propria disperazione che nonostante tentasse di dissimulare, gli offuscava lo sguardo. Come quando aveva imparato quella stupida tecnica, la Shishi Hokodan. “Pratichi ancora le arti marziali, Ryoga?”

“Certo, anche se con meno impegno di prima. Sto tentando di insegnarle a mio figlio, ma lui non… non ci trova tanto interesse.”

“Peccato, se ricordo bene hai avuto un maschio ed una femmina.”

“Sì, è vero, Ryo e Ryoko. Ora hanno sedici anni.”

“Ed Akari? Come mai non è venuta con te?”

“Ecco il tè!” Akane entrò nella sala prima che Ryoga potesse rispondere e lui gliene fu intimamente grato: aveva bisogno di un po’ di tempo per poter trovare le parole adatte a spiegare cosa era successo. Il tempo necessario a dominare il dolore che gli si agitava dentro ogni volta che era costretto a raccontare.

Akane sedette accanto al marito e porse ai due le loro tazze fumanti “Ho portato anche dei biscotti, forse ne gradite. Li ho fatti io.”

Ranma quasi scoppiò a ridere, quando notò lo sguardo sgomento del loro ospite, anzi il vero e proprio sguardo di terrore che aveva rivolto ai biscotti bellamente sistemati in un piatto. Sapeva che Ryoga non avrebbe mai espresso i suoi timori sulla cucina di Akane, anzi, avrebbe mangiato ugualmente almeno uno dei biscotti pur sapendo di rischiare la vita, ma quando lo vide prenderne uno con mano tremante, decise di rassicurarlo “Tranquillo, Akane ha imparato a cucinare… quasi.”

Lei lo fulminò con lo sguardo “Quasi? Come sarebbe a dire?!”

“Beh, che hai imparato a preparare dolci fantastici, l’ammetto, ma per il resto… voglio dire, niente arriva al gusto dei tuoi dolci superlativi!” aggiunse Ranma, quando notò lo scintillio omicida negli occhi della moglie e sorridendole prese un biscotto e lo mangiò avidamente.

Ryoga si rilassò un po’ e ne gustò anche lui uno, rimanendone piacevolmente sorpreso “E’ davvero buono! Non… non che prima non lo fossero…” aggiunse, imbarazzato per lo sguardo contrito di Akane che però gli sorrise con calore.

“Non c’è bisogno di mentire, lo so di essere stata una cuoca pessima, ma s’impara e grazie ad Ukyo ho imparato moltissimo. Ecco, non tutto mi riesce bene, però i dolci sono la mia specialità! E poi tu sei sempre stato l’unico che assaggiava tutto ciò che cucinavo senza mai lamentarti, eri davvero gentile.”

Lui arrossì e sorseggiò il tè. A quei tempi era talmente innamorato di Akane che se pure lei gli avesse dato del veleno lo avrebbe accettato senza batter ciglio e qualche volta ciò che aveva cucinato era stato davvero simile al veleno.

Ranma scosse il capo, intuendo i suoi pensieri “Prima non mi hai risposto, Akari è a Nerima con te?”

Ryoga poggiò la tazza sul tavolo prima che i suoi amici potessero notare il lieve tremito alle mani, poi li guardò per qualche istante come per cercare le parole adatte. Ma non c’erano parole adatte, lo sapeva bene. Quando il dottore gli aveva detto cosa era successo si era chiaramente sforzato d’essere sensibile, ma l’effetto era stato lo stesso che se gliel’avesse urlato in piena faccia…

“Akari è morta.”

 

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Note:

(*)obento: è il cestino del pranzo, inteso nel suo complesso, cioè contenitore e cibo. Di solito è una piccola scatola divisa in vari reparti dove viene sistemato il cibo e può essere preparato a casa o comprato. A volte viene anche chiamato bento, ma questa forma è considerata maleducata soprattutto se detta da ragazze… ^_^;

(**) in Giappone si cambia ogni anno la formazione delle classi, che non restano le stesse nel corso degli studi.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


L’ultimo desiderio

Di Breed 107

 

 

Capitolo terzo.

 

L’unico suono che seguì quella semplice frase fu un’esclamazione strozzata di Akane, un’esclamazione di sorpresa e addolorato stupore; la donna si portò una mano sulla bocca, quasi volesse rimangiarsi quel singulto, ma Ryoga non sembrò farci caso. Ranma invece era rimasto in silenzio, gli occhi sgranati, la tazza a metà strada tra il tavolo e le labbra.

Doveva dire qualcosa, doveva! Non poteva restare in silenzio, doveva trovare le parole per confortarlo. ‘Avanti, idiota, digli qualcosa! Avanti!’ gridava la sua mente, ma non riusciva a pensare a nulla, assolutamente a nulla. Fu proprio Ryoga ad interrompere il silenzio.

“E’ successo tre anni fa, un incidente d’auto. Allora vivevamo ancora a Yokohama.”

“Ryoga, è…” Akane non riusciva a trovare una parola adatta: terribile? Sì, certo, ma era più di questo. Lo guardò, guardò quel sorriso pieno di contrizione come se quello che lo facesse soffrire più di tutto fosse il dover raccontare a loro gli eventi, come se la cosa peggiore fosse proprio dare un dolore a degli amici appena ritrovati.

Devastante, ecco la parola adatta, ma non la disse, la tenne per sé mentre le lacrime che prima non aveva pianto le illuminarono di nuovo gli occhi.

“Lo so, Akane.”

“Come… come ti senti ora?” domanda sciocca, ma Ranma voleva saperlo sul serio.

Lui si strinse nelle spalle, esitando. “Io… beh, i primi tempi ero furioso. Già, sembravo un folle, poi ho pensato che arrabbiarmi non sarebbe servito a ridarmela e la rabbia non avrebbe potuto aiutare i miei figli.” Non aveva davvero risposto alla domanda di Ranma, ma sperava che lui s’accontentasse di quelle parole scarne per il momento.

In realtà Ryoga non avrebbe saputo descrivere all’amico come si sentisse… Era una domanda troppo vaga: cosa dirgli, che c’erano giorni in cui si sentiva così debole da non riuscire a lasciare il proprio letto? O altri in cui segretamente desiderava che qualcosa, qualsiasi cosa, alleviasse il dolore, spazzandolo via dal mondo perché non aveva il coraggio di fare anche questo ai suoi bambini? No, Ranma non avrebbe voluto sentirlo.

Akane deglutì, quella parte la conosceva fin troppo bene. Lei era un’orfana, sapeva cosa significasse “Poveri ragazzi…” Ryoga annuì e nervosamente giocherellò con il bordo della tazza: ora veniva il peggio.

“Loro erano in auto con lei.”

“Cosa?!” sbottarono all’unisono i due Saotome.

“Sì, erano con lei. Per fortuna ne sono usciti incolumi, o quasi… Ryo si ferì abbastanza seriamente, Ryoko invece fisicamente non si fece nulla, ma da allora lei non ha più parlato. Non ha più pronunciato una parola da allora.”

 

--- --- ---

 

Il suono della campanella interruppe il professore di storia, ma il brav’uomo non parve prendersela troppo. Raccolse il registro e dopo aver salutato gli studenti con un cenno del capo lasciò l’aula, chiedendosi tra sé e sé cosa avrebbe potuto mangiare. Era infatti ora di pranzo e sperava che non ci fosse la solita ressa alla mensa.

Ryoko tornò a sedersi e si volse verso Ryo, seduto qualche fila dietro di lei. Era lieta che le avessero permesso di stare nella stessa classe; per quanto adorasse suo padre, nessuno sembrava capirla quanto suo fratello: con lui il proprio silenzio non pesava affatto.

Ryo non l’aveva mai spinta a parlare, non le aveva mai dato consigli né ordini, si era solo sforzato di capirla sempre più, di interpretare i suoi desideri solo guardandola negli occhi.

“E’ una bella giornata, che dici se mangiamo fuori?” ancora una volta lui sembrava averle letto dentro. Non voleva restare in quell’aula dove sentiva gli sguardi curiosi degli altri seguirla e scrutarla in ogni movimento. Annuì e prese il suo pranzo; stavano per lasciare l’aula, quando un’imprecazione li fece voltare stupiti.

“Accidentaccio!” Hotaru fissava interdetta il suo obento, l’aria afflitta. Non si era nemmeno resa conto di aver praticamente urlato; sbuffò e richiuse il cestino con aria sempre più mogia.

Che disastro! Avrebbe dovuto aspettarselo, come aveva fatto a non pensarci? Era logico che sua madre le avrebbe cucinato qualcosa di speciale per il suo primo giorno di scuola. Già, qualcosa di speciale, d’elaborato, di ricercato… e di completamente disgustoso. Era bastata un’occhiata al suo pranzo per capire quanto fosse immangiabile, per tacere dell’odore!

Sbuffò e frugò nella sua cartella alla vana ricerca di qualche spicciolo, ma come si era aspettata non aveva l’ombra di uno yen… Guardò i suoi compagni già impegnati a mangiare allegramente i loro cestini e lasciò perdere l’idea di chiedere loro un prestito. Già, però poteva chiederlo a qualcun altro, ad Arashi ad esempio; lui non avrebbe mai permesso che la sorella patisse la fame, no?

Si alzò e correndo via veloce lasciò l’aula, sperando che suo fratello fosse ancora nell’edificio e che non avesse deciso di mangiare fuori. Lesta come una saetta attraversò il corridoio, superando gli altri studenti che la guardarono stupiti. Ryo era tra questi “Però, è veloce…” commentò vedendola sparire in fondo al corridoio.

Arashi intanto aveva appena fatto la stessa scoperta della sorella riguardo al pranzo amorevolmente preparato da Akane e la sua reazione fu identica a quella di Hotaru “Accidentaccio!” sbottò osservando il riso ridotto in immonde pallottole e le verdure in salamoia dall’odore nefasto. Scuotendo la testa richiuse il cestino e lo ripose sotto al banco.

“Problemi?” Suzume lo stava guardando curiosa.

“Mamma ha cucinato qualcosa di speciale” bastò dirle questo perché lei capisse, infatti annuì comprensiva.

“Non ti resta che sperare che la mensa non sia troppo affollata.”

“Non ho un soldo, ho speso tutto ieri… Che stupido, dovevo pensarci!”

Suzume inarcò un sopracciglio, poi gli sorrise, ma il modo in cui lo fece non piacque affatto al ragazzo che sospettoso attese “Posso farti un prestito.”

“Ci avrei scommesso… Che vuoi in cambio? Oltre agli interessi salatissimi, ovvio, che ti ripulisca di nuovo la soffitta? Devo rastrellare le foglie dal tuo immenso giardino? Mettermi in posa per delle foto in modo che tu non debba più farmele di nascosto come al solito?”

Lei scosse il capo e sedette morbidamente sul banco del cugino, guardandolo con affabilità e Arashi capì di essere nei guai. “Nulla di faticoso o pensante, cugino. Ecco, c’è una mia amica che…”

“No, non se ne parla, scordatelo! Preferisco restare digiuno piuttosto che farmi incastrare da te in un altro appuntamento al buio! L’altra volta è stato un vero tormento!”

Lei batté le palpebre “Ma perché? Yukari è una ragazza così carina… ed è una delle ragazze più ricche di Nerima, non vedo perché tu ti lamenti così tanto. Inoltre non mi pare che tu abbia una fidanzata… al momento.”

“Due ore a parlare di scarpe e borse! Due ore! Il peggior pomeriggio della mia vita!” Arashi ignorò volutamente le ultime parole della ragazza. Non voleva parlare di Minami, meno che mai con quel concentrato di malizia.

“Uhm, come vuoi, io volevo solo essere gentile. Beh, vado a mangiare con le mie amiche, vorrei augurarti buon appetito, ma… Ci si vede!” lo salutò con un gesto mellifluo della mano e lasciò l’aula, raggiungendo un gruppetto di ragazze- seguaci che stavano aspettandola.

Arashi sbuffò e pensò che se proprio doveva digiunare, era meglio farlo all’aperto, magari avrebbe potuto chiedere un prestito a qualcun altro, qualcuno meno esoso di sua cugina. Così, sconsolato ed imbronciato, si avviò fuori dall’aula.

Era quasi giunto alla fine del corridoio, quando una saetta bruna l’oltrepassò per poi fermarsi qualche passo più in là “Arashi!”

Bastò che i due fratelli si guardassero per capire di essere nella stessa barca. “Stavi andando alla mensa?” chiese lei speranzosa, andandogli vicino.

“Magari, ma non ho soldi. Non dirmi che volevi farti offrire il pranzo da me… – l’aria afflitta di lei fu una conferma adeguata – Che roba! Mi raccomando, non dire nulla alla mamma, ci resterebbe troppo male.”

“Sì, sì, però che facciamo? Io ho fame!”

“Se uscissimo da scuola? Il ristorante di zia Ukyo non è lontano.”

“E se ci scoprono? Non mi va di essere punita il primo giorno di scuola… se invece chiedessi a Suzume?”

Arashi scosse la testa “Te lo sconsiglio, a me ha proposto un appuntamento al buio.”

“Alle solite… Uffa! Non mi resta che chiedere alle mie amiche. Andiamo, ora saranno giù in cortile.”

“D’accordo, mi dovrò accontentare di un panino, poi all’uscita potremmo andare all’Ucchan.” Hotaru annuì e mogiamente i due si avviarono verso l’uscita, parlottando della loro sfortuna.

 

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“Sei sicura di non voler venire con me?” Ryoko annuì “Non ci metterò molto, ma non mi piace il pensiero di lasciarti qui da sola.”

Erano seduti sotto ad uno degli alberi del cortile che circondavano il campo da calcio della scuola; gli era parso uno dei posti più tranquilli del liceo e Ryo l’aveva scelto sia per quel motivo, sia perché vicino al luogo dove gli avevano detto trovarsi il preside.

La ragazza scosse la testa e con fare sicuro gli fece segno di allontanarsi con la mano e lui parve arrendersi “D’accordo, vado a parlare con quel mezzo svitato. Non ci metterò molto, tu non muoverti da qui… a meno che qualcuno non venga a infastidirti: in quel caso vieni a cercarmi subito, capito?”

Lei annuì nuovamente e dopo aver alzato gli occhi al cielo fingendo insofferenza sorrise, divertita dalla sua espressione buffa. “Che impertinente… Allora vado.”

Ryo si avviò, ogni dieci passi però si volgeva indietro a guardarla, preoccupato. Se avesse potuto non si sarebbe allontanato, ma il preside aveva mandato a chiamarlo, chissà cosa voleva? Da quello che aveva sentito dire in giro, non c’era mai da aspettarsi nulla di buono da quel tipo; anche suo padre gli aveva ripetuto proprio quella mattina che era completamente suonato. Sbuffò e con le mani in tasca si avviò verso l’ufficio, sperando di sbrigarsi in fretta anche per poter mangiare con calma.

Ryoko lo guardò allontanarsi e quando il ragazzo sparì all’orizzonte, sospirò. Si sentiva persa senza suo fratello, ma a volte il senso di colpa la soffocava.

Se non fosse stato per lei, la vita di Ryo sarebbe stata migliore o almeno lei così pensava. Non era giusto che gli facesse da balia, gli era costantemente accanto preoccupato affinché nulla le accadesse ed intanto non aveva più una sua vita. Non aveva amici tanto per dirne una, non che ne avesse cercati… Dopo la morte della mamma, Ryo era diventato chiuso e se non era con lei preferiva starsene da solo in camera.

Le arti marziali erano l’unica eccezione, anche se Ryoko sospettava che Ryo continuasse a praticarle per non dare un dispiacere al loro padre, per dargli qualcosa a cui aggrapparsi.

Era ironico per un certo verso: suo padre avrebbe voluto che le arti marziali fossero lo stesso per suo figlio; sperava che dessero al ragazzo uno stimolo per venire fuori dal suo isolamento. Quante speranze suo padre nutriva ancora? E quanto ancora sperava che lei riuscisse una volta per tutte a superare l’orrore che aveva visto?

 

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“Ryoko era seduta alle spalle della madre quando accadde. Il TIR che li precedeva sbandò e la parte posteriore si ribaltò, Akari dovette provare ad evitarlo, ma il terreno era troppo bagnato e l’auto slittò proprio contro il cassettone rovesciato.” Akane strinse le mani che teneva in grembo. Ryoga, sedutole di fronte, sembrava calmo mentre raccontava dell’incidente; la sua voce era tranquilla, così come la sua espressione, mai suoi occhi erano così vuoti da stringerle il petto!

Sussultò percettibilmente quando un ricordo improvviso le si affacciò nella mente, un ricordo di tanti, tanti anni prima. Il giorno in cui lei aveva scoperto l’identità di P-chan… Si morse le labbra, sconcertata dall’assurda coincidenza: Akari era stata uccisa nelle tragiche circostanze a cui era riuscita a sfuggire quel pomeriggio. Il destino poteva essere davvero così beffardamente crudele?

“Quello che uccise Akari fu lo schianto, ma non ebbe la fortuna di spegnersi subito… Insomma, fu una morte straziante. Il dottore non ha potuto rassicurarmi sul fatto che sia spirata subito e senza soffrire. Ryo le era seduto accanto e per certi versi è stato il più fortunato: il dolore per le ferite gli ha fatto perdere i sensi al momento dell’urto, non si è accorto di nulla fino al risveglio in ospedale. Si è ritrovato con un braccio rotto, una commozione celebrale ed un assortimento vario di ferite di diversa entità, per fortuna tutte guaribili; Ryoko invece ha battuto la testa contro il poggiatesta, ma si è fatta solo un bernoccolo e lievi escoriazioni, quando sono arrivati i soccorsi lei era seduta sul marciapiede. Non ha mai detto quello che… che ha visto” Ryoga sorseggiò il tè, ormai al limite delle forze: non sapeva per quanto avrebbe resistito a recitare quel controllo di se stesso.

“Quando la vidi in ospedale mi chiese solo se Ryo fosse sopravvissuto e credo che siano state le sue ultime parole prima di richiudersi nel suo silenzio assoluto. I dottori lo definiscono mutismo elettivo(*) e non è poi così raro in caso di forti choc, anche se non è frequente all'età di Ryoko… e anche il suo perdurare non è usuale, però sembrerà assurdo, ma oltre questo lei è una ragazzina normale, timida forse, ma lo è sempre stata e nella sua anormalità conduce una vita tutto sommato regolare. Quello che invece mi preoccupa è proprio Ryo ed è per lui soprattutto che sono tornato a Nerima” alzò lo sguardo verso Ranma, ancora sconvolto per il racconto dell’amico.

Era uno sguardo che non gli aveva mai visto, implorante, di chi chiedeva aiuto. E Ranma si ritrovò ad annuire senza nemmeno sapere cosa volesse chiedergli, ma non importava. Qualsiasi cosa, avrebbe fatto davvero qualsiasi cosa per il figlio di Ryoga se lui riteneva potesse farlo.

“Lui pratica le arti marziali, è bravo, anche più bravo di quanto lo sia mai stato io. Tanto per cominciare è incredibilmente veloce, scommetto che imparerebbe la tua tecnica delle castagne se volesse. Ed è questo il punto: ha perso ogni interesse per le arti marziali, da quando ha avuto l’incidente lui ha smesso di amarle. Ci si dedica per pura abitudine, per farmi piacere… Apparentemente si allena con zelo ed è molto migliorato in questi ultimi tempi, si è rafforzato fisicamente, ma quando ci alleniamo insieme non scorgo in lui più alcuna traccia della passione di un tempo, anzi ho il sospetto che cominci a odiare le arti marziali che prima erano la sua unica ragione di vita. Ora non gli interessa che prendersi cura di Ryoko, solo questo conta per lui.”

“Ma forse è una reazione momentanea…” provò Akane, ma il dubbio era palese nella sua voce.

Ryoga si strinse nelle spalle “Non lo so, può darsi” anche lui non sembrava molto convinto di quanto appena detto.

“Vuoi che lo alleni io?” Ranma pensava di aver compreso: non sapeva perché, ma Ryoga credeva che solo lui potesse restituire al ragazzo l’amore per le arti.

Ryoga lo guardò per alcuni istanti, l’espressione tirata e seria, poi un bellissimo sorriso gli distese i tratti del viso “Sai Ranma, quando mi battevo con te c’era qualcosa che t’invidiavo più di tutte, non la velocità o la tua capacità di saper sempre sfruttare le debolezze del tuo rivale pur combattendo lealmente. – Ranma era esterrefatto, era la prima volta che Ryoga gli faceva dei complimenti così diretti – Io invidiavo il tuo spirito combattivo così positivo. Non era distruttivo come il mio. No, tu eri arrogante, sicuro di te e dannatamente pieno di forza combattiva, bastava guardarti negli occhi per capire che per te le arti marziali erano tutto. Io voglio che quello stesso sguardo ritorni di nuovo negli occhi di Ryo.”

Akane guardò fuggevolmente il marito, poi tornò a fissare preoccupata l’amico “Ma come credi che… Insomma, se non ci riesci tu che sei suo padre…”

“Proprio perché sono suo padre non posso fare nulla. Lui continua ad allenarsi per darmi qualcosa a cui sostenermi, che mi aiuti a… ad andare avanti, ma sono sicuro che dentro di sé non abbia perso tutta la passione. Vedi, se fosse solo una pura questione d’amore per le arti marziali lascerei perdere: sarà strano sentirvelo dire, ma ho capito che nella vita c’è qualcosa in più oltre a praticarle, ma lui ormai si è talmente chiuso che… che nulla lo tocca, nulla lo anima. E’ peggio del mio animo depresso per lo Shishi Hokodan, almeno avrebbe ancora qualcosa dentro. Ecco, credevo che magari facendogli frequentare il dojo, allenandosi con te o tuo figlio… E’ un tentativo che devo provare.”

Ranma strinse le mani che teneva poggiate sul tavolo richiudendole a pugno. “Va bene Ryoga, lo farò: allenerò tuo figlio” disse con voce determinata e l’amico non poté far altro che sorridergli con gratitudine e sollevato, sospirò come se si fosse tolto un macigno dal petto.

 

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Ryoko assaggiò il riso e sorrise: era perfetto! Suo fratello era un gran cuoco per fortuna, almeno non pativano la fame! Lei era una frana, la sua cucina era quasi venefica, però stranamente ogni qualvolta provava a cucinare qualcosa, suo padre le sorrideva quasi con aria nostalgica e dopo aver assaggiato il primo boccone, ed essersi ripreso dallo svenimento causato dal disgusto, le diceva puntualmente la stessa cosa. “Tu non sai quanto questo mi rammenti la mia gioventù!”

Proprio non capiva come poteva un piatto dal sapore orripilante rammentargli la giovinezza. Era un mistero che forse ora avrebbe trovato risposta visto che si trovavano in un luogo dove suo padre aveva vissuto proprio da giovane. Era lì che aveva conosciuto sua madre.

Prima dell’incidente le aveva raccontato sommariamente del loro incontro, ma poi… poi era sceso il silenzio, in ogni senso nel suo caso.

“Scusa, ti spiace se ci sediamo con te?” la voce le giunse alle spalle così all’improvviso da farla sobbalzare; si volse verso la ragazza che aveva parlato e la guardò, incerta. L’altra sorrise inclinando leggermente la testa di lato, i begli occhi scuri che sorridevano con lei. “Sono in classe con te, mi chiamo Hotaru Saotome” il cognome non le era nuovo, dove poteva averlo sentito?

Comunque, la ragazza, che stava qualche passo davanti ad altre due ugualmente sorridenti, era ancora in attesa di una risposta. Ryoko scostò il proprio cestino e fece loro segno di sedersi: non sapeva perché, ma si fidava di quel sorriso e di quegli occhi.

 

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Ryo inarcò un sopracciglio, incredulo. “Cosa?” chiese sperando di aver capito male.

Sfoderando un sorriso accecante, quell’uomo assurdo serrò le dita attorno alle due paia di forbici che teneva in mano, facendole scattare minacciose “Hai problemi di udito, pupil? Oh, che disdetta, poverino!” piagnucolò, prima di avventarsi sul ragazzo.

Ryo non si fece sorprendere e scattò agilmente di lato, senza perdere d’occhio il preside “Io ci sento benissimo!” disse, mentre l’uomo tornava a precipitarsi verso di lui, con quella specie di palma che gli spuntava dal centro del capo che ondeggiava vistosamente, altro esemplare del campionario di stranezze di quell’essere.

“E allora, sonny, mi hai capito: devo tagliarti la frangia! E’ troppo lunga! Too long!” urlò l’invasato, facendo scattare nuovamente le forbici.

Ryo non era abituato a protestare con gli adulti, ma non ci teneva che quel pazzo si avvicinasse ai suoi capelli! Era pure più folle di quanto gli avessero detto… ed anche dannatamente agile per essere un vecchio pallone gonfiato!

Lo scansò nuovamente una seconda volta, ma quello con un gesto rapido puntò una delle forbici dritta alla sua testa; il ragazzo allora agì di istinto e prima che le lame si facessero ancora pericolosamente vicine, bloccò il polso del preside con una mano e lo colpì al petto con un calcio tanto ben assestato da fargli fare un vero e proprio volo all’indietro.

La fragile porta dell’ufficio (assurdo quanto il suo occupante, a parere di Ryo) non resse all’impatto e non frenò il volo dell’uomo che rovinò lungo e disteso nel piazzale che circondava l’edificio immenso. Beh doveva essere per forza immenso, si era detto Ryo entrando, visto che doveva contenere una piscina ed una spiaggia finta…

Arashi batté le palpebre e curioso si avvicinò al corpo che aveva visto letteralmente volare fuori dalla palazzina del preside, o del manicomio come veniva dai più chiamata. Si piegò un tantino poggiando le mani alle ginocchia e, sopracciglio inarcato, osservò il preside privo di sensi.

Tra le mani teneva ancora le sue famigerate forbici, gli occhiali scuri ora gli stavano di sghimbescio sul naso ed aveva la bocca aperta in un sorriso ebete e pietrificato, ma quello che più attirò l'attenzione del giovane Saotome fu l’impronta piazzata proprio al centro del petto del preside e che gli imbrattava vistosamente una di quelle orripilanti e kitsch camicie hawaiane. ‘E’ stato steso con un solo colpo?’ si domandò stupito, notando l’assenza di altri segni di lotta e subito la curiosità cominciò a montare in lui.

Alzò gli occhi verso il ragazzo che con espressione corrucciata stava uscendo dalla presidenza. Non lo conosceva, quindi non era di Nerima: se uno capace di stendere quell’esaltato con un solo calcio fosse stato del posto, lui l’avrebbe conosciuto di certo.

Lo osservò con attenzione, notando che era alto quasi quanto lui e che probabilmente si trattava di uno studente del primo anno.

“Non volevo, mi è saltato addosso all’improvviso ed ho reagito d’impulso” spiegò lo sconosciuto, più disturbato che dispiaciuto.

“Lo hai steso davvero tu?” gli domandò Arashi e quando questi annuì, si rimise dritto e gli sorrise compiaciuto. “Ti sei appena conquistato il benvolere della Furinkan!”

Ryo era sempre più stupito: lanciò un’altra occhiata al preside sempre svenuto e sospirò “Mi sono messo nei guai il primo giorno di scuola, mio padre mi ucciderà” borbottò, pungolando il fianco dell’uomo esanime con la punta del piede, sperando che si riprendesse.

“Nei guai per aver steso il preside? Tranquillo, io sono costretto a farlo quasi tutti i giorni, non ti caccerà certo per questo.”

Quella cosa voleva capirla: aveva preso a calci il preside e non l’avrebbe pagata?! Scrutò il ragazzo più grande, perplesso “Come, scusa?”

“E’ tutto a posto. Vedi, questo tizio non è per nulla un uomo normale, è completamente squilibrato ed ha un codice di regolamento assurdo. Rende la vita un inferno ai suoi studenti, ma poi non li allontana mai dall’istituto, altrimenti chi torturerebbe? Però sarà meglio se ce ne andiamo, prima che rinvenga o ci toccherà stenderlo di nuovo.”

Ryo si avviò seguendo lo strano ragazzo; ogni tanto lanciava occhiate alla figura immota e sempre più sconcertato, notò come nessuno degli studenti che passava di lì sembrasse preoccupato o per lo meno stupito di vedere quella sagoma in terra. Anzi, qualcuno arrivò a passargli sopra, nemmeno facesse parte della normale pavimentazione del cortile…

“Io mi chiamo Arashi Saotome, del terzo anno. Tu sei nuovo di qui, vero?” Ryo annuì e lanciò un’ultima occhiata alle sue spalle, poi scosse la testa e decise di non pensarci più.

“Sono al primo anno, sono arrivato a Nerima due giorni fa. Senti, il preside mi ha detto che devo tagliarmi i capelli a zero. Diceva sul serio?”

“Ci avrei giurato! Ci prova con tutti, è una sua mania, non darci peso… Tu pratichi le arti marziali, vero?” gli chiese di punto in bianco e Ryo lo guardò stupito.

“E se fosse? – Arashi inarcò un sopracciglio, perplesso dal suo tono improvvisamente restio e lui sospirò – Un po’…” ammise poi vago.

“Il preside non è tipo da farsi stendere da un principiante e con un sol calcio” commentò Saotome, scrutandolo con curiosità.

“Tu le pratichi?”

“Abbastanza… beh, tutta la vita credo sia abbastanza, no? Sono bravo, anche se non come mio padre. Lui è davvero imbattibile… per chiunque” asserì Arashi convinto, un sorriso quasi mesto accompagnava quella considerazione. Già, nessuno era all’altezza di Ranma Saotome, nemmeno lui. Ryo comunque non parve particolarmente impressionato dalle sue parole.

“Buon per lui. Scusa, devo andare da mia sorella” lo salutò di colpo con un cenno della mano e si allontanò.

Arashi era davvero perplesso: quel tipo non aveva fatto una piega. Come poteva restare tanto impassibile? Se qualcuno gli avesse detto le stesse cose, come praticante di arti marziali si sarebbe come minimo incuriosito.

Lo rincorse e lo affiancò, per nulla intenzionato a lasciarlo andare senza aver soddisfatto la propria di curiosità “Ehi, ti andrebbe di farmi vedere qualche tecnica delle tue? Che stile preferisci?”

Ryo lo guardò con la coda dell’occhio “Chi ti ha detto che le arti marziali mi piacciono?” domandò freddamente, sperando che questo smontasse l’insistenza del senpai(**). Non aveva fatto i conti con la leggendaria testardaggine dei Saotome.

“Allora perché le pratichi?”

“Perché dovrei dirtelo? Non credo t’interessi.”

Arashi sospirò e gli sorrise dispiaciuto “Sì, scusa, sono stato indiscreto. Il fatto è che non riesco a credere che uno che pratichi le arti marziali non provi nulla per esse, mi è quasi inconcepibile, ma forse sono io ad avere una visione distorta delle cose.”

“Dovrei presentarti a mio padre, vi capireste a meraviglia. Scusa, ma non hai altro da fare che venirmi dietro?” gli chiese, stavolta leggermente irritato, ma l’altro scosse la testa.

“Non ti sto venendo dietro, è solo il caso… Facciamo la stessa strada.”

“Vai anche tu da mia sorella?” gli domandò ironico Ryo indicandogli l’albero dove sapeva esserci Ryoko ad aspettarlo.

“No, vado dalla mia” gli rispose pronto l’altro indicando nella stessa direzione. Stupito Ryo si volse e vide che in effetti Ryoko non era più sola.

 

--- --- ---

 

Hotaru guardò il suo panino e sospirò, gli occhi lucidi “Ahimé! Che magro pranzo…”

Midori inarcò un sopracciglio “E’ inutile farla tanto lunga, non attacca Hotaru. Ti abbiamo prestato i soldi per il panino, non divideremo con te il nostro cibo.”

Lei sbuffò, l’espressione afflitta e indifesa di prima completamente sparita “Uffa! Che belle amiche… Ehi! Hibiki, il tuo obento è favoloso!” Hotaru era stupefatta, oltre che affamata. Non aveva mai visto un obento preparato con tanta cura! “E’ così… ordinato… Te l’ha preparato tua madre?” chiese osservando i piccoli onigiri(***), le piccole frittatine tutte uguali disposte in bell’ordine e le verdure sistemate accanto a delle rondelle di pesce dai colori per lo meno affascinanti, un vero capolavoro!

La ragazza scosse la testa “No? Allora sei stata tu?” tornò a chiederle la piccola dei Saotome; l’altra scosse la testa di nuovo, sorridendo al solo pensiero: figurarsi se era capace di cucinare un simile pranzo!

Hotaru incrociò le braccia al petto, per nulla demoralizzata dal silenzio e parve riflettere su qualcosa, poi ebbe un’idea. Afferrò la borsa del cestino della sua amica Hitomi senza molta grazia e frugò tra i vari oggetti provocando un grugnito di disapprovazione da parte di quest’ultima, fino a trovare quello che cercava.

Soddisfatta porse alla ragazza stupita un blocco per appunti ed una penna “Hitomi scrive poesie ogni tanto e porta sempre il necessario con sé” spiegò allegra.

“E’ vero, non ci avevo pensato! Hibiki, se vuoi puoi scriverci quanto vuoi, te lo do volentieri” acconsentì la legittima proprietaria sfoderando il suo sorriso più convincente.

Ryoko guardò perplessa il piccolo blocco; una parte di sé non voleva comunicare con quelle ragazze, ma… ma ripensava a ciò che Hotaru le aveva detto appena sedutale accanto.

“Scusa se ti disturbiamo, ma ho pensato che visto che sei nuova della città non avrai nessuna amica con cui pranzare. Forse ti sembriamo un po’ impiccione, ma non è bello mangiare da sola… Beh, io non ce l’ho un vero e proprio pranzo, ma ho un povero, semi-vuoto, misero panino” un’occhiataccia delle altre due l’aveva convinta a finirla con quell’argomento con cui aveva cercato di impietosirle affinché dividessero con lei il loro di pranzo. “Ma se lo mangiassi da sola sembrerebbe ancora più povero, semi-vuoto e…”

“Hotaru la stai annoiando.Se la finisci dopo ti do un po’ del mio dolce, ok?” si era arresa Midori scuotendo la testa e facendo penzolare la lunga coda castana che le pendeva tra le scapole.

Hotaru aveva sfoderato un sorriso meraviglioso e le aveva fatto l’occhiolino, facendola ridere. Con gli estranei non lo faceva spesso, invece quella ragazza l’aveva fatta ridere con tanta naturalità…

Non era stata la pietà a far avvicinare la compagna di classe; non sapeva perché ne fosse certa, ma sapeva che era così: Hotaru Saotome l’avrebbe cercata anche se lei avesse parlato, per il motivo per cui l’aveva avvicinata adesso, perché credeva fosse triste starsene da soli.

Ryoko non aveva alcun problema con la solitudine, in generale, ma riusciva a comprendere che non per tutti fosse lo stesso. Probabilmente per la vivace Hotaru non era così.

Prese il blocco e con scrittura chiara e ordinata rispose alla domanda fattale prima “E’ stato tuo fratello a prepararti il pranzo?! – la giovane Saotome sembrava stupita – Davvero? Mio fratello non lo farebbe per nulla al mondo, l’idiota… Come sei fortunata!”

“Chi sarebbe l’idiota, scusa?” le ragazze si voltarono verso la voce che improvvisa era risuonata alle loro spalle; Arashi squadrò la sorella e lei gli cacciò la lingua, mentre Midori ed Hitomi arrossirono contemporaneamente.

Arashi Saotome era uno dei ragazzi più popolari e corteggiati della scuola, alla pari con Kuno e anche se erano le migliori amiche di sua sorella, non avevano molte occasioni di imbattersi in lui. Era davvero un guaio che al momento non fosse interessato a trovarsi una fidanzata… “E’ troppo impegnato con le arti marziali per pensarci” aveva spiegato loro soddisfatta Hotaru, appoggiando evidentemente in pieno questa scelta. Certo, circolavano altre voci in giro, pettegolezzi per cui le arti marziali non avessero nulla a che fare con la decisione del ragazzo di non trovarsi una fidanzata, per lo meno non quanto una graziosa ragazza di nome Minami. Minami Kuno, per la precisione. Unica figlia di Kodachi Kuno e unico amore di Arashi Saotome a detta dei soliti bene informati.

Quel giorno comunque Arashi Saotome non era solo. Le due si scambiarono un’occhiata d’intesa, entrambe avevano riconosciuto il ragazzo con lui: era quello della lavanderia che avevano incrociato il giorno prima!

“Sei l’unico fratello che ho, quindi… Cosa voleva il preside?”

Arashi si strinse nelle spalle “Non lo so, prima che ci parlassi lui l’ha steso. – fece un cenno con il capo al ragazzo al suo fianco – Dove hai preso quel panino?” domandò poi con finta noncuranza.

Hotaru eclissò immediatamente il sandwich dietro la schiena e alzò lo sguardo alla chioma dell’albero “Panino? Quale panino?” domandò, facendo la gnorri.

“Quello che stai nascondendo. Non eravamo d’accordo che avremmo diviso tutto quello che saremmo riusciti a trovare? Su, dammi la metà che mi spetta.”

“No! E' già così piccolo, semi-vuoto e misero e…”

Fu il suono di una risata a zittirla. Una risata strozzata e malamente trattenuta.

Ryo guardò sua sorella e di certo fu il più sorpreso di tutti: Ryoko stava ridendo! Non uno di quei sorrisi che concedeva agli estranei, no, Ryoko stava ridendo di cuore, come quando a casa rideva perché suo padre per sbaglio entrava nel ripostiglio invece che nel salotto!

Teneva il volto nascosto tra le mani come se si vergognasse di farsi vedere in quello stato, ma era chiaro che stesse ridendo e poi pur non emettendo alcun suono, la sua risata era comunque fragorosa, emotivamente rumorosa.

Contagiata da quello scoppio di riso tanto silenzioso ma travolgente, Hotaru cominciò a ridere a sua volta. Le due andarono avanti per un pezzo come se fossero incapaci di smettere, sotto lo sguardo allibito degli altri.

“Tu hai capito che c’è da ridere?” domandò Arashi a Ryo, che scosse la testa. Non l’immaginava proprio.

 

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Akane sorrise, finalmente rasserenata. Cambiare discorso dopo le tragiche rivelazioni di Ryoga non fu facile e poi c’erano tante cose che avrebbe voluto chiedergli, ma si trattenne comprendendo che avrebbe dovuto dimostrargli il proprio affetto in un altro modo; così quando lui le aveva chiesto dei suoi figli, aveva asciugato le lacrime che ancora le illuminavano gli occhi e aveva sospirato tentando di scacciare la tristezza.

“Il maggiore mi somiglia, in un certo senso. Vero Ranma?”

“Sì, però per fortuna la sua abilità di combattente proviene dal lato paterno… ohi!” comparso chissà da dove, un mini-martelletto si era materializzato tra le mani di Akane che, dopo aver punito le parole del marito con un colpetto, pallido ricordo di quelle che erano state le gloriose martellate della sua adolescenza, lo fece sparire nella tasca del grembiule e continuò a rispondere alla domanda dell’amico.

“E’ un ragazzo tranquillo, pacato e molto maturo, sono molto fiera di lui. Mette molto impegno in quel che fa, compreso lo studio.”

“Uhm, scommetto che questo non l’ha preso dal lato paterno” commentò Ryoga sorridendo sardonico all’indirizzo di Ranma, che finse indifferenza.

“Infatti! Per fortuna per quanto riguarda lo studio anche la più piccola sembra aver preso da me, anche se devo ammettere che Hotaru è una specie di Ranma versione femminile… Cioè, non nel senso di come quando lui si bagna con l’acqua fredda… No, lei è più femminile, è una donna del resto, già!” Akane si morse le labbra, stava cominciando ad incartarsi con le sue stesse parole “E’ una ragazza vivace ed intelligente, una vera forza della natura a volte… è volitiva quanto suo padre e spesso non si rende conto di metterci troppo slancio nelle cose, però ha un gran cuore. Ed è la cocca del padre: riesce a rigirarsi Ranma con un dito.”

“Non è vero!”

“Certo che è vero! Hotaru riesce sempre a spuntarla con te!”

Ryoga poggiò il mento ad una mano “Proprio il tipo che vorrei diventasse amica della mia Ryoko.”

“Perché no? Sarebbe magnifico! E poi saranno compagni di scuola, no? Li hai iscritti al Furinkan, vero?”

“Sì, Akane. Avevo qualche dubbio per Ryoko con quel preside, ma poi ho pensato che Ryo non avrebbe permesso a nessuno di farle del male. Almeno per quest’anno il Furinkan sarà la loro scuola.”

“Per quest’anno? Ci hai detto di aver comprato una casa a Nerima e credevo volessi stabilirti qui definitivamente” Ranma lo guardò perplesso.

“Non lo so, se le cose miglioreranno per i miei figli potrei decidere di restare. Mi sono dato un anno di tempo per provare a dare un po’ di serenità a quei ragazzi e se non ci riuscirò nemmeno qui con il vostro aiuto, dovrò provare qualche altra soluzione.”

“Noi cercheremo di aiutarti il più possibile, Ryoga” asserì Akane, guardandolo negli occhi e lui arrossì imbarazzato, suo malgrado.

Non poteva dimenticare che lei era stata il suo primo amore, nonostante quello che ora provava per lei fosse un altro tipo d’affetto…

Desiderava ardentemente riallacciare l’antica amicizia, lo voleva con tutte le forze. Forse perché ne aveva bisogno o forse perché per lui era naturale desiderarlo, ora come ora. E non voleva solo riallacciare l’amicizia con Akane, ma anche con Ranma. Ora che la loro rivalità gli sembrava una cosa totalmente positiva e non più aggravata dai sentimenti che aveva provato per la ragazza, sentiva che la sua amicizia con lui poteva dargli solo dei benefici.

“Perché non resti a pranzo qui, Ryoga? Non preoccuparti, Akane non cucinerà del maiale, così non ti sentirai a disagio.”

Ryoga lo fulminò con lo sguardo e rimangiò quanto appena pensato: Ranma Saotome era il solito idiota! Però…

Però forse quella battuta era proprio quel che ci voleva. Dopo aver raccontato loro la sua storia un po’ temeva che i due avrebbero cambiato il loro atteggiamento nei suoi confronti. Molti lo facevano, chi sapeva cominciava a trattarlo con una deferenza ed una delicatezza snervante, nemmeno potesse andare in pezzi al minimo scossone. Invece con Ranma questo rischio non lo correva e gliene era grato.

Pensò di dirlo ad Akane che stava martellando di nuovo il suo educatissimo e sensibile maritino, ma decise che poteva pure godersi la scena per quella volta, anzi, a dirla tutta non si sarebbe mai stancato di assistere ad un tale spettacolo!

 

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Dopo molte insistenze e parecchie reiterate accuse d’egoismo, Hotaru si arrese e divise il suo misero panino con il fratello, sedutole accanto. Sbuffando gli porse la parte più grande e cominciò a mangiare mogiamente la sua.

Ryo intanto si era seduto accanto alla sorella, ancora stupito per la scena di prima. La guardò con la coda dell’occhio. Ryoko sembrava il ritratto della serenità, mangiava con calma osservando le altre ragazze, o meglio osservava quella sedutale vicino, evidentemente era incuriosita da lei, si disse Ryo osservandola velocemente: aveva una faccia conosciuta. Ora che ci pensava… chi erano quelle ragazze?

“Ehm, Hotaru, tu sei l’unica che sembra conoscere tutti, non dovresti fare le presentazioni?” le guance in fiamme, Midori implorò con lo sguardo la sua amica, che come il solito non si preoccupava di farle conoscere quel ragazzo fantastico!

“Uhm? Loro sono in classe con me, si chiamano Ryo e Ryoko Hibiki. Loro due invece sono le mie migliori amiche, Harada Midori e TanakaHitomi… lui è il mio ingordo fratello, Arashi.”

Ryo era sempre più perplesso “Davvero sei in classe con noi?” le domandò guardandola con maggiore attenzione.

“Come?! Sono seduta al banco accanto al tuo! Mi chiamo Hotaru, Hotaru Saotome! Eppure non sono un tipo che passa inosservato, di solito!” l’altro si strinse le spalle, completamente disinteressato; si poggiò all’albero ed aprì il proprio cestino.

‘Mi sento un po’ osservato…’ alzò lo sguardo dal proprio obento e stupito notò che effettivamente tutti gli sguardi, tranne quello dell’altro ragazzo, erano puntati su di lui, o meglio sul proprio cibo.

“Che… che c’è?”

Hotaru sospirò, un’occhiata languida ed insieme invidiosa al pranzo accurato del suo compagno di classe “Ryoko mi ha detto che sei stato tu a prepararle il pranzo. Devi essere molto bravo, ha un aspetto squisito!”

Quella ragazza non aveva ritegno, pensò fuggevolmente Ryo a disagio, ma quello che attirò la sua attenzione fu altro. “Ryoko te l’ha detto?”

“Non proprio…” Ryoko gli mostrò il blocco per gli appunti. “E’ stata una mia idea!” gli fece sapere Hotaru, chiaramente soddisfatta di sé. Ryo tornò ad osservarla per alcuni istanti: c’era qualcosa di travolgente in quella tipa. Qualcosa di talmente irruente che lo disorientava. Soprattutto lo disorientava il fatto che Ryoko fosse chiaramente incuriosita da tutta quella vitalità.

Ryoko scrisse qualcosa sul suo notes e lo porse a Hotaru che curiosa lo lesse; i suoi occhi s’ingrandirono per la sorpresa e la felicità, mentre la curiosità torturava gli altri “Cosa?! Sul serio?!” le chiese stupita.

La ragazza annuì convinta e Hotaru l’abbracciò di slancio “Tu sei un angelo disceso dal cielo!” esclamò, al culmine dalla gioia mentre Ryo assisteva esterrefatto a quella scena incredibile: Ryoko odiava essere toccata dagli estranei, eppure quando quella mezza svitata l’aveva stretta non aveva battuto ciglio, anzi parve non farci nemmeno troppo caso, impegnata com'era a sorriderle.

“Si può sapere che succede?” chiese turbato.

“Tua sorella vuole farmi un prestito per poter comprare qualcosa in mensa, tu sì che sei una vera amica! – lanciò un’occhiataccia torva all'indirizzo delle altre due ragazze – Un vero angelo! Naturalmente ti restituirò fino all’ultimo yen, sia chiaro!”

Ryoko annuì e dopo aver frugato in una delle tasche, porse alla ragazza commossa alcune monete “Sono troppe!” lei scosse il capo e con un cenno indicò Arashi, che in tutto quel tempo era rimasto in silenzio ad osservare la scena, invidiando la sorella e la sua fortuna sfacciata.

Il ragazzo batté le palpebre, stupito e guardò la ragazza sorridente “Sono anche per me?” le chiese e lei annuì, poi dopo aver depositato il denaro tra le mani di Hotaru, tornò tranquillamente a mangiare. “Non posso accettare, però ti ringrazio.” Arashi chinò leggermente il capo in segno di riconoscenza: era stupito per il gesto di quella ragazza sconosciuta.

“Così la offendi, zuccone! Avanti, il grande Arashi Saotome non si degraderà accettando l’aiuto di una compagna di scuola.”

“Tu sei davvero senza vergogna, quando si parla di mangiare sei peggio di nostro nonno! Non ti è passato per la mente che la tua amica ti ha dato tutto il denaro che aveva con sé? Non possiamo prenderlo tutto! – Arashi sospirò cercando di calmarsi, sua sorella era capace di fargli perdere proprio le staffe – Ti ringrazio ancora, ma non posso accettare.”

Hotaru sussultò quasi a quelle parole, poi visibilmente mortificata restituì la maggior parte del denaro “E’ vero, scusa, non posso accettare che…”

“Non è un problema Saotome, ho con me il mio di denaro, in caso servisse – Ryo alzò lo sguardo verso l’altro ragazzo e gli fece un cenno incoraggiante con il capo – prendetelo pure.”

“Dici sul serio?”

“Certo… Arashi, vero? E comunque sarà meglio che vi sbrighiate, la mensa non resterà aperta ancora a lungo.”

 

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Come primo giorno di scuola non era poi andata così male. Anzi, si disse sorridendo Arashi Saotome, era andata molto meglio di quanto si fosse aspettato.

Per prima cosa, visto il gentile intervento di Ryo Hibiki, il preside era stato distratto e per ciò non lo aveva importunato come al solito. Seconda cosa, Kuno non lo aveva degnato delle solite attenzioni che gli erano state riservate gli anni precedenti, quali battutine acide e occhiate malevole.

Il motivo per cui avesse deciso di non degnarlo di un solo sguardo gli era ignoto, ma ad Arashi importava comunque poco il perché: sperava solo continuasse così. Aveva già a che fare con un paio di Kuno nella sua vita, e ciò gli bastava!

Terzo, ma non ultimo, aveva trovato degli amici.

Era contento di aver conosciuto Ryo e sua sorella. Lui sembrava un po’ riservato, ma quello non era un problema, anzi, e poi erano due persone gentili. Il gesto che avevano compiuto prestando a lui e a quella faccia tosta di sua sorella i soldi per il pranzo lo aveva molto colpito: in fondo erano degli estranei, non erano tenuti a comportarsi in maniera tanto cortese.

Lanciò uno sguardo al piccolo gruppetto che lo seguiva a poca distanza. Hotaru stava spiegando a Ryoko qualcosa su Nerima e lei la ascoltava con attenzione, mentre qualche passo più indietro Ryo le seguiva immerso nei propri pensieri.

“Dovete tornare subito a casa?” chiese rivolto proprio a quest’ultimo che si strinse nelle spalle.

“Perché?”

Arashi nascose a stento un sorriso: chissà perché quell’Hibiki rispondeva spesso alle domande con altre domande.

“Pensavo di sdebitarmi per il vostro prestito offrendovi la migliore okonomiyaki della città. Allora, vi va?” gli propose ancora entusiasta, l’altro inarcò un sopracciglio.

“Con che soldi, scusa?” ecco, l’aveva fatto di nuovo, una domanda in risposta ad un'altra. Un tipo decisamente sfuggente…

“Nel posto dove voglio portarvi io e Hotaru godiamo di un certo credito, per così dire.”

Ryo scambiò un’occhiata con sua sorella; in realtà non ne aveva molta voglia, gli sarebbe anzi piaciuto tornarsene a casa, ma Ryoko aveva un’espressione così felice che si ritrovò ad annuire senza nemmeno pensarci. “Bene! Allora si va all’Ucchan!” urlò Hotaru prendendo l’altra a braccetto e trascinandola letteralmente via.

Arashi gli sorrise, in chiaro imbarazzo per il comportamento di sua sorella e stringendosi nelle spalle, s'incamminò dietro le due. Ryo sospirò, inquieto.

Saotome era un tipo a posto, ma quell’altra squinternata… Quella non gli piaceva: aveva un modo di fare che lo stizziva e pure intuiva che era proprio quell’aspetto ad aver tanto colpito Ryoko. Gettò la cartella su una spalla e, pensieroso, seguì il resto del gruppo.

 

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A giudicare dalle lodi sperticate, soprattutto di Hotaru, Ryo si era aspettato un locale certamente diverso da quello davanti al quale si fermarono. Era un posto modesto, carino ma nemmeno troppo grande.

“Vedrete, le okonomiyaki che mangerete qui sono davvero insuperabili! Su, entriamo…” guidati dall’usuale energia della ragazzina, i quattro entrarono nell’Ucchan.

Era affollato all’inverosimile, ma quello non sembrò stupire i due Saotome che senza perder tempo si avventurarono tra la folla di studenti seduti ai tavoli e al bancone, alcuni mangiavano addirittura in piedi. Dopo un attimo d’incertezza, Ryoko li seguì e Ryo si accodò, chiedendosi dove avrebbero potuto mai sedersi in quella bolgia; fu stupito quando seguendo gli altri due si ritrovò in un’altra sala del locale, una stanza evidentemente adibita ad uso personale.

Era una piccola sala da pranzo molto sobria, con un tavolo basso in stile giapponese e dalla disinvoltura degli altri due ragazzi, Ryo comprese che quel posto era loro familiare.

“Allora aspettate qui, forse ci vorrà un po’ vista la folla, ma ne sarà valsa la pena” li rassicurò Arashi, uscendo nuovamente.

Hotaru intanto si era seduta al tavolo e fece segno loro di fare lo stesso “Non fate quelle facce, io ed Arashi(****) qui siamo di casa. La proprietaria del locale è una nostra zia o una specie, per lo meno.”

Ryoko e Ryo si scambiarono un’occhiata, poi sedettero anche loro al piccolo tavolo guardandosi intorno. Tranne il tavolo per l’appunto e qualche mobiletto basso, la stanza era vuota; alle pareti alcuni quadri rappresentanti scene floreali rendevano l’ambiente più vivace. Il chiacchiericcio della sala adiacente superava la protezione offerta dalle sottili pareti, ma la porta chiusa riusciva a smorzare la confusione affinché non fosse fastidiosa.

“Questa è la stanza che nostra zia ci ha messo a disposizione per quando il locale è pieno come adesso. Lei vive al piano superiore, anche se è più il tempo che passa al dojo che qui, quando non lavora.”

Ryo inarcò un sopracciglio “Dojo?”

Hotaru annuì e poggiò il mento alle mani incrociate “La mia famiglia ha un dojo di arti marziali indiscriminate. Mio padre è un vero maestro, il migliore!” aggiunse poi con chiaro orgoglio. Ryo pensò che quella non era la prima volta che sentiva una frase simile, quel giorno…

Ryoko guardò suo fratello con la coda dell’occhio sperando in qualche suo commento, ma lui restò in silenzio: evidentemente non aveva intenzione di far sapere alla loro compagna d’essere anche lui un praticante di arti marziali. Come a leggerle nel pensiero, Hotaru osservò il ragazzo di fronte a lei con aria seria. “Arashi dice che hai steso il preside. Come hai fatto?”

“Non lo so.Voleva tagliarmi i capelli” disse a mo’ di giustificazione.

“Ci prova con tutti, è una vecchia abitudine che conserva fin da quando i miei frequentavano il Furinkan. Come mai vi siete trasferiti a Nerima?”

“Non ti stanchi mai di fare domande?” sbottò lui infastidito, fingendo di ignorare l’occhiata di disapprovazione della sorella.

Hotaru però non parve offendersi per il tono ruvido e si limitò a stringersi nelle spalle “Tentavo di fare amicizia, sei un vero musone, Hibiki.”

“E tu una chiacchierona irritante, Saotome.”

“Meglio chiacchierona che musona!” precisò lei, più divertita che arrabbiata da quell’acceso scambio di battute.

Sbuffando Ryo capì che continuare a rimbeccarsi come bambini delle elementari sarebbe servito solo a fare il gioco di quella indisponente. “Senti, dov’è il bagno?” non ne aveva bisogno, ma voleva uscire da lì e scappare dal battibecco.

Lei gli indicò la sala da dove erano entrati “Devi tornare di là e girare sulla destra dell’entrata.”

 

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Ukyo sospirò scostandosi una ciocca di capelli dal viso: l’aiutante per cui aveva messo un’inserzione era davvero necessario.

Ora che le scuole erano ricominciate, l’Ucchan sarebbe stato sempre affollato come quel giorno e lei da sola certamente non poteva farcela. Yuri inoltre avrebbe presto cominciato anche lei la scuola; alzò lo sguardo verso la piccola che serviva le okonomiyaki ai vari tavoli e sorrise: per sua figlia lavorare era ancora un gioco. Le piaceva stare tra la gente ed era portata per tutto ciò che aveva a che fare con la cucina… un’eredità paterna, evidentemente.

“Ciao zia.”

Ukyo si voltò sorridendo verso l’allegra voce “Arashi, sapevo che saresti venuto! Una special?”

Lui annuì e dopo essersi fatto spazio tra i clienti, si poggiò al bancone “Fanne quattro per favore, ci sono due persone con Hotaru di là, due nostri amici.”

“Li conosco?”

“Non credo, si sono appena trasferiti a Nerima.”

“Oh, allora devo darmi particolarmente da fare, ci tengo a fare bella figura! Ve li porto appena pronte.”

“Grazie zia. Stasera verrai al dojo?”

Lei sospirò e si strinse nelle spalle, prima di rigirare con la solita maestria l’impasto che le sfrigolava davanti “Vorrei restare qui in verità, dopo una giornata come questa che si prospetta essere impegnatissima dovrei solo chiudere e buttarmi sul letto, ma non credo che Yuri mi lascerà scelta – alzò gli occhi al cielo, assumendo una finta espressione corrucciata – perciò credo proprio che verrò a bere il disgustoso tè di tua madre.”

Arashi sorrise divertito e stava per ribattere, quando qualcuno gli si gettò contro afferrandogli la vita in una morsa stretta “Ah! Ti sono arrivata alle spalle senza che te ne accorgessi! Sei un pappamolle, Arashi!”

“Mi arrendo Yuri, hai vinto tu!”

La bambina lo affiancò ridendo soddisfatta, poi però lo guardò, il dubbio nei suoi grandi occhi chiari, del tutto simili a quelli della madre “Di’ la verità, ti eri accorto di me, vero?” il ragazzo mentì, scuotendo il capo e lei ritornò a ridere “Artista marziale dei miei stivali! Hotaru non c’è?”

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“E’ nella saletta con due amici.”

“Vado a salutarla!”

“Prima però porta queste al tavolo tre, per favore…- Ukyo sospirò porgendo un paio di piatti alla figlia – uff! Quasi, quasi chiudo prima! Non è che… ecco, ci mancava anche il telefono!” alcuni squilli sfacciati riuscirono infatti a superare il chiacchiericcio dei clienti e sempre sbuffando Ukyo lasciò momentaneamente il suo posto dietro la piastra per andare a rispondere all’apparecchio proprio accanto all’entrata.

“Pronto? Sì, sono io… per l’inserzione? Uhm sì, domani mattina le va bene? Se arriva qui intorno alle 10 posso dedicarle il tempo necessario ad un colloquio. Sì, certo, a domani allora!” attaccò e sorrise: era la sesta telefonata da quando aveva messo l’annuncio, c’erano buone speranze di trovare un’assistente che fosse in gamba.

Soddisfatta, si voltò per ritornare a lavoro, quando la porta del bagno si aprì ed un ragazzo ne uscì; curiosa lei l’osservò, notando l’uniforme del Furinkan e poi lo guardò in viso.

Ryo richiuse la porta alle sue spalle e alzò lo sguardo verso la donna dinanzi a lui; lo stava fissando e a giudicare dalla sua espressione, sembrava stupita di vederlo. Aggrottò le sopracciglia e istintivamente si diede una veloce occhiata cercando di capire perché lo guardasse ad occhi spalancati: che avesse qualcosa di strano?

“Hibiki!” prima che potersi stupirsi, lei gli saltò letteralmente al collo, stringendolo con una forza quasi inaspettata per una donna tanto esile. Confuso, il ragazzo restò immobile arrossendo per gli sguardi curiosi che da tutta la sala si erano ora appuntati su di loro. Tra questi il più curioso era senz’altro Arashi.

“Ehm, mi scusi” provò, mentre la sconosciuta si separava da lui per guardarlo con maggiore attenzione “Io non la conosco…” le disse, sempre più imbarazzato.

Lei batté le palpebre e come se capisse solo in quel momento cosa avesse fatto, si allontanò definitivamente da lui con uno scatto e s’inchinò in segno di scuse “Perdonami! Il fatto è che sei identico ad una persona che… Scusami! Che sciocca, come ho potuto scambiarti per lui?! Ormai è una persona adulta e… e chissà in che parte del mondo si sarà perso ora!”

Ryo la guardò confuso “Lei conosce mio padre? Ryoga Hibiki…”

“Tu… tu sei suo figlio?! Ma… Gli somigli in maniera impressionante! E'… ma allora vuol dire che P-chan è tornato a Nerima!” Come faceva quella donna a conoscere il più grande segreto di suo padre?! “Scusami ancora per prima, ma non vedo tuo padre da una vita! Che bello! Era ora che lui ed Akari tornassero a casa!”

Ora Ryo era veramente confuso: da quando Nerima era… casa? E poi perché se quella donna era una vecchia amica di famiglia non sapeva nulla di quanto era accaduto?

Intanto Arashi non resistendo alla curiosità si era avvicinato “Conosci Ryo, zia? E’ uno degli amici che ti dicevo.”

La donna lo guardò stupita “Certo che lo conosco! Lui è il figlio di Hibiki… Arashi, possibile che tu non sappia di cosa sto parlando?!”

“Veramente no…”

“E nemmeno io” aggiunse Ryo, scatenando un’inspiegabile risata nella cuoca. I due ragazzi si guardarono incerti, mentre Arashi si stringeva nelle spalle.

Se pur a fatica, Ukyo represse la propria ilarità e asciugandosi gli occhi invitò i ragazzi a tornare nella sala dove li avrebbe serviti “Ed insieme alle okonomiyaki vi racconterò anche una storia che v’interesserà senz’altro!”

 

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Qualche minuto dopo, Ukyo entrò nella sala dove i ragazzi la stavano aspettando, tra le mani un vassoio con le quattro okonomiyaki fumanti. Il suo sorriso già radioso si allargò guardandoli.

“Eccomi! Ero così sorpresa che ne ho bruciate un paio!”

“Zia, Arashi dice che conosci i loro genitori, com’è possibile?”

Ukyo depositò il vassoio sul piccolo tavolo e vi sedette, mettendosi accanto a Hotaru e proprio di fronte ai due gemelli.

“In verità conosco anche voi, ma l’ultima volta che vi ho visto eravate dei bambini! Un adorabile maschietto – i suoi occhi si poggiarono su Ryo – ed una graziosa femminuccia. Sono anni che non vedo i vostri genitori, o per lo meno non li vedo insieme, di solito venivano a trovarci separatamente in modo che uno dei due restasse sempre con voi. Siete diventati così grandi!” guardò Ryoko che arrossì, abbassando lo sguardo.

“Ci vuoi spiegare meglio?” la incitò Arashi, mentre Hotaru dimenticandosi momentaneamente della curiosità si era lanciata sulla propria okonomiyaki.

“Beh, loro due sono i figli di Ryoga Hibiki, il più grande rivale di vostro padre Ranma.”

“Cosa?!”

“Già. Tra loro esisteva una rivalità molto accesa e non facevano che battersi di continuo!”

“Naturalmente era papà a vincere, vero?” asserì convinta la più piccola dei Saotome, beccandosi un’occhiataccia da Ryo, occhiataccia che ricambiò in pieno.

“Sì, però Ryoga era uno dei pochi che potesse dargli filo da torcere, tra gli umani, naturalmente…”

Arashi e Hotaru non conoscevano molto delle incredibili battaglie che il loro padre aveva sostenuto contro personaggi mitici: Ranma non ne parlava molto volentieri, soprattutto di uno. Era stata Akane a raccontargli a grosse linee la lotta contro Sa-fulan in Cina, facendo comprendere che quell’episodio rappresentava per entrambi un ricordo poco piacevole ed anche Ukyo non amava parlarne, adducendo il pretesto di non poterlo fare perché non presente a quegli incredibili avvenimenti.

“Ryoga venne qui a Nerima molto prima che ci arrivassi io, naturalmente per trovare il suo nemico… e da allora fino al suo matrimonio quasi si può dire che il dojo dei Tendo sia diventata casa sua. Beh, anche questa okonomiyakeria gli ha fatto da casa per un po’, a dire il vero!” Ukyo sorrise e poggiò il viso ad entrambe le mani incrociate “Nonostante i suoi rapporti con Ranma non fossero in apparenza così amichevoli credo che lui sia il miglior amico che Ryoga abbia mai avuto. In più di un’occasione hanno anche lottato insieme, uno al fianco dell’altro. Quando ogni motivo di rivalità scomparve, Ryoga non restò a lungo qui, però per quasi tutti questi anni lui e i vostri genitori sono rimasti in contatto.”

“Anche la mamma?” chiese Hotaru, che aveva già spazzolato la sua okonomiyaki, divorandola con gusto e con una velocità poco consona ad una ragazza ben educata, ma che tanto, tanto rammentava suo padre…

“Soprattutto vostra madre. Lei e Ryoga erano molto amici, lui era il suo confidente, in un certo senso… Avete presente tutti quei souvenir che Akane conserva accanto all’altare votivo di vostra nonna? Sono tutti doni di Ryoga, era un gran viaggiatore!”

“Un gran disperso, direi… E’ strano, nostro padre ci ha detto di avere degli amici qui a Nerima, ma non ci ha mai parlato di questo Ranma Saotome.”

“Nemmeno papà, perché zia? Se sono così amici…”

“Beh, il fatto, Arashi, è che in verità tu hai già sentito parlare di Ryoga, solo che non lo hai sentito chiamare con questo nome.”

“Eh? Che significa?”

“Ecco, il nome P-chan ti è familiare?” Arashi annuì, mentre Ryo e Ryoko si scambiarono un’occhiata perplessa “Beh, Ryoga è P-chan. Colpa di Jusenkyo.”

“Cosa?! Anche lui come papà…?”

Ukyo annuì ed il suo sorriso divenne più dolce “Ricordo perfettamente il giorno in cui scoprì la sua maledizione… del resto come dimenticarlo? Alcune cose dette quel giorno mi fecero molto male…” Non era stato proprio quel giorno che Ryoga le aveva anche detto dell’amore di Ranma per Akane, costringendola a guardare in faccia alla realtà?

Hotaru parve riflettere su qualcosa poi spalancò gli occhi “Ma certo! La foto!” sbottò, come se avesse appena ricordato qualcosa d’importante.

“Che hai da urlare così all’improvviso, ora?” le chiese Arashi che come tutti gli altri era sobbalzato nel sentirla gridare.

“La foto della mamma! Quella che ha accanto al letto! L’ho vista migliaia di volte e… e tra i ragazzi ce n’è uno che ti somiglia moltissimo! – puntò l’indice verso Ryo – Ha una bandana gialla… E’ suo padre, vero zia, è lui?”

“Sì, infatti. C'era anche Ryoga sull’isola delle illusioni dove fu fatta quella foto. Per mia fortuna che c’era! Se non ci avesse pensato lui a liberarmi con lo shishi hokodan…” la donna fece una smorfia ironica “Con vostro padre completamente assorto dalla ricerca di Akane, forse ora sarei ancora lì, sposata ad una specie di scimmione!”(****)

Ryoko osservò ancora una volta suo fratello. Era confuso proprio come lei, ma qualcosa nelle ultime parole della donna lo aveva colpito più del resto: lo shishi hokodan.

Suo padre gli aveva parlato di quella tecnica e, prima della morte della mamma, gli aveva detto che prima o poi gliel’avrebbe insegnata, ma dopo l’incidente si era rifiutato persino di mostrargliela, non dando alcuna spiegazione per quell’ingiustificato cambio di idea. Ryo aveva insistito appena, ma poi il disinteresse aveva cominciato ad impadronirsi di lui e…

“E’ davvero una gioia riavere Ryoga ed Akari qui a Nerima! Sarà bello rivederli dopo tanto, però prima darò a Ryoga una di quelle lezioni che non dimenticherà! In tutti questi ultimi anni non si è fatto sentire per nulla!” sbottò irritata la donna, ma il suo sguardo tornò a riempirsi di mestizia mentre si posava di nuovo sui due ragazzi “Guardandovi mi accorgo di quanto tempo è passato… e tu ragazza mia sei davvero una gran bellezza, proprio come tua madre.”

Ryoko sorrise appena e chinò il capo in segno di ringraziamento “Dovreste aver compiuto 16 anni da poco, vero?”

“Ryoko non parla zia” spiegò Hotaru con semplicità, sorridendo poi con gentilezza all’indirizzo della timida ragazzina.

Ukyo batté le palpebre, poi annuì e sorrise “Ryo e Ryoko: Ryoga non ha certo fatto uno sforzo di fantasia per i vostri nomi!” Fu chiaro a tutti loro del suo sforzo per non sembrare troppo colpita da quanto Hotaru le aveva appena detto. Un riguardo di cui soprattutto Ryo le fu grato, perché non se la sentiva di rispondere a domande che avrebbero richiesto risposte dolorose anche per quella donna.

Completamente ripresasi dalla sorpresa, la cuoca si rialzò sospirando “Ora devo proprio andare o perderò tutti i clienti! E’ stata una vera gioia conoscervi ragazzi, sul serio e spero di incontrare presto anche i vostri genitori, anzi, se mi dite dove abitate, stasera potrei…”

Non aveva nemmeno finito quella frase che Ryo si alzò di scatto “Ora dobbiamo andare Ryoko, nostro padre ci aspetta. La ringrazio ancora per le sue okonomiyaki, signora, ma è tardi” disse in fretta, raccogliendo la sua cartella a sguardo basso; Ryoko lo affiancò e il suo sorriso triste fu l’ultima cosa che videro prima che, senza dargli tempo di provare a fermarli, lasciassero il locale.

Ukyo stupita batté le palpebre, il vassoio stretto tra le mani “Ho detto qualcosa di strano?” domandò, confusa da quella vera e propria fuga.

Arashi si strinse nelle spalle, mentre Hotaru sorrideva contenta “Non hanno nemmeno toccato le tue okonomiyaki, zia Ukyo, è un peccato buttarle via.”

“Tu sei davvero senza vergogna!” l’accusò suo fratello, ma lei lo guardò con sguardo innocente.

“Sarebbe un vero spreco buttarle via solo perché quel ragazzo ha qualche problema di socializzazione… Tu la tua la mangi?”

 

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“Siamo a casa!” la voce allegra di Hotaru ruppe il silenzio di casa Saotome; Akane andò loro incontro, accogliendoli nel piccolo ingresso.

“Ben tornati! Allora com’è andato il primo giorno di scuola?” domandò sorridendo con dolcezza.

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“Benissimo!”

“E tu Arashi, che mi dici?”

“Mmm, tutto bene: non ho avuto nemmeno problemi con il preside oggi” sapeva in fondo che era quello che realmente le interessava sapere.

“Davvero? Strano… Meglio così! Ora venite, devo presentarvi una persona, è in giardino con vostro padre.”

I due ragazzi si guardarono curiosi, seguendola poi attraversarono la casa silenziosa e tranquilla per raggiungere il giardino, dove videro il loro padre accovacciato su una delle rocce del piccolo stagno; in piedi accanto a lui c’era un uomo che volgeva loro le ampie spalle.

“Sono arrivati!” urlò Akane, richiamando i due che si volsero nella loro direzione. Hotaru ed Arashi si guardarono stupiti: quell’uomo non poteva essere altri che…

“Il signor Hibiki!” dissero all’unisono, scoppiando poi a ridere per l’espressione sorpresa di Akane.

“Ma come…”

 

“Così avete conosciuto i miei ragazzi, ne sono contento.”

I tre adulti ed i due ragazzi si erano seduti attorno al tavolo, dove Arashi aveva spiegato come avessero riconosciuto Ryoga.

“Suo figlio le somiglia moltissimo, zia Ukyo aveva ragione!”

“Siete stati all’Ucchan?”

“Sì, mamma – Hotaru annuì energicamente – avevamouna tale fame che… ahi! Che ti salta in testa?! Mi hai fatto male!”

Arashi sospirò scuotendo il capo: sua sorella era senza speranze! Le aveva dato un pizzico nel vano tentativo di farla tacere, ma era troppo tardi, Akane infatti li guardava perplessa.

“Fame? Ma se vi ho preparato un pranzo speciale, lo avete mangiato vero?” li guardò sospettosa e non parve accontentarsi del fatto che annuissero energicamente; in loro soccorso intervenne Ranma.

“Avete portato i figli di Ryoga da Ukyo allora, bene. Lei cos’ha detto?”

“La sua prima reazione è stata strana: ha abbracciato Ryo chiamandolo Hibiki!” spiegò Arashi, suscitando le risa degli altri.

“Tuo figlio deve proprio somigliarti tanto se Ukyo lo ha scambiato per te, Ryoga!”

“Lui è un po’ più alto di quanto fossi io alla sua età.”

“La somiglianza è davvero tanta – Hotaru osservò l’uomo sedutole dinanzi – però suo figlio mi è sembrato più muson… ahi! La vuoi smettere? E’ la seconda volta che mi dai un pizzico!” Arashi scosse il capo e nascose il viso dietro una mano: perché gli era toccata una simile sciagura?

Ryoga sorrise riconoscendo in quei ragazzi, soprattutto nella femmina, l'impronta di Ranma. “Non preoccuparti, è tutto a posto. Ryo è un ragazzo introverso, lo so benissimo.”

“Sì, però Ryoko è stupenda! Ed è stata tanto gentile, mi ha prestato i soldi per la mensa, eppure ci conoscevamo appena!” stavolta Arashi non fece in tempo a fermare la boccaccia di Hotaru e con la coda dell’occhio osservò la reazione di sua madre, che come previsto li stava guardando dubbiosa.

“La mensa? Perché sei stata in mensa? Hai detto di aver mangiato il mio pranzo…”

La ragazzina strabuzzò gli occhi riconoscendo il proprio sbaglio e tentò un mezzo sorriso “Infatti, ma avevo così fame! Davvero tantissima!”

Ranma represse a stento una risata, mentre sua moglie annuiva “Bene, allora vuol dire che domani vi preparerò una razione doppia del mio pranzo speciale.”

I due giovani si guardarono allarmati, poi Hotaru si rivolse a sua madre, le mani giunte in un chiaro segno di preghiera “No, ti prego mamma! Perdonami, ho detto una bugia! Il fatto è che il tuo pranzo era schif…”

“Troppo speciale! – il ragazzo stavolta la interruppe in tempo, prima che peggiorasse la situazione – Ecco, non l’abbiamo mangiato, ma se preparerai qualcosa di semplice come solo tu sai cucinare andrà benissimo!”

Ryoga assisteva divertito alla scena, ma qualcosa in quella serenità familiare gli opprimeva il petto. Non era invidia vera e propria, ma rimpianto per quello che aveva avuto e che ora non sarebbe più tornato. Con la morte di Akari non aveva perso solo la sua compagna, ma anche quella serenità che ora vedeva nella famiglia di Ranma ed Akane. Doveva andarsene, prima di non riuscire più a sopportarlo.

Mentre Akane borbottava qualcosa sulla mancanza di buon gusto che i suoi figli avevano ereditato dal padre, Ryoga si alzò e sorridendo pensò di congedarsi. “Non puoi restare ancora un po’? Potresti fermarti per cena, così rivedresti sicuramente anche Ukyo.”

“Ti ringrazio Akane, ma devo tornare. Non ho la più pallida idea di come rientrare a casa! Probabilmente c’impiegherò delle ore e non voglio che i ragazzi si preoccupino… e poi non voglio lasciarli soli.”

“Ma non sono soli, sua moglie è con loro, no? Come ha detto zia Ucchan?… Ah, sì, Akari! E’ così che si chiama, vero?”

Il silenzio che calò nella stanza fece capire a Hotaru di aver parlato troppo anche questa volta, anche se proprio non capiva cosa avesse detto di strano o inopportuno; nemmeno Arashi lo aveva compreso, visto che non si era precipitato a pizzicarla come il solito.

Akane si morse le labbra e scambiò un’occhiata imbarazzata con Ranma, chiedendogli tacitamente di dire qualcosa pur di sbloccare quella situazione così difficile, ma fu Ryoga a parlare per primo, interrompendo quel silenzio così compatto “Io sono vedovo, Ryo non ve l’ha detto?”

“No… Mi spiace, sono mortificata, signor Hibiki, io non…”

“Non preoccuparti Hotaru, non c’è nulla di cui scusarsi. Ora però devo proprio scappare o non farò in tempo.”

“Posso accompagnarla io! Ryo ha accennato al fatto che… che il suo senso dell’orientamento non è il massimo – Arashi cercò di essere il più diplomatico possibile – così, se non le spiace… e poi è tornato qui dopo tanto tempo, è logico che non ricordi bene le strade.”

Ryoga batté le palpebre incredulo, poi si volse verso Ranma “Non ti assomiglia per niente.”

“Che vuoi dire con questo?”

“Che non ha preso nulla da te, per sua fortuna!”

“Madavvero? Vuoi insinuare che io non so essere gentile, P-chan?”

Gentile e Ranma Saotome non possono stare nella stessa frase!”

Ranma scattò in piedi, fronteggiando il suo amico “Ma se ti ho aiutato un sacco di volte!”

“Aiutato?! Io ho aiutato te più di quante volte ti piaccia ammettere, Saotome! E quelle poche volte che hai mosso un dito per qualcuno non hai fatto che farlo pesare, vantandoti come tuo solito!”

“Evidentemente hai la memoria corta del porcellino che sei, razza d’ingrato!”

La focosa discussione continuò sotto gli occhi stupiti dei due ragazzi e quelli divertiti di Akane “Non preoccupatevi, è il loro modo di volersi bene, credo, però ora sarà meglio farli smettere prima che comincino a combattere.”

“Ah è vero! Signor Hibiki, scusi se la… ehm, interrompo, ma è vero che lei è un combattente come mio padre?”

“Scherzi?! Lui è una schiappa, non è certo a me che si può paragonare!”

“Il solito modesto! Devi ammettere che in un paio di occasioni ti ho sconfitto!”

“Ma non erano sfide ufficiali e una di quelle volte il merito era tutto di quel disgustoso e ridicolo scarabocchio!”

“Però ti ho fatto volare con un solo dito o te l'hai dimenticato, Saotome?”

Hotaru incrociò le braccia al petto, osservando i due adulti discutere “Comincio a capire cosa intendesse dire zia Ukyo riguardo alla loro amicizia particolare…”

Centinaia di insulti e accuse dopo, finalmente Ryoga lasciò il dojo gentilmente scortato da Arashi.

 

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Ryoko guardò l’orologio della cucina nuova e poi i suoi grandi occhi si puntarono sul fratello. Era arrabbiato per qualcosa. Da quando avevano lasciato il ristorante, non aveva detto una parola; non che questo la deprimesse, in fondo aveva scelto lei per prima il silenzio… e poi Ryo non era mai stato un gran chiacchierone. Però qualcosa stava angustiandolo, era ovvio.

Prese il block-notes e in fretta vi scrisse qualcosa porgendolo poi al ragazzo sedutole di fronte. Lui lesse la chiara scrittura e dopo averla guardata per alcuni istanti scosse il capo “No, non sono dispiaciuto per aver conosciuto quei due ragazzi, almeno non Arashi. Scusami, non ho detto una parola da… Ryoko – la fissò negli occhi, chinandosi più verso di lei – a te non ha dato fastidio sentire quella donna parlare dei nostri genitori?”

Lei aggrottò le fini sopracciglia e scosse il capo.

“Era così felice! Sentirla parlare di un passato che non conosci davvero non ti ha dato fastidio?” la ragazza abbassò lo sguardo riprendendosi il suo blocco. Parve esitare qualche istante poi scrisse in fretta, evitando di guardare nella sua direzione.

Quando gli porse nuovamente il notes, ritornò a guardarlo. Ryo lesse ciò che lei aveva scritto e per un istante ebbe voglia di andarsene da quella cucina nuova fiammante immersa nella penombra pomeridiana così tranquilla, così assurdamente quieta.

“Sì, forse è vero. – mormorò poi con voce debole – Non volevo essere io a dire a quella donna di nostra madre, anche se prima o poi lo scoprirà comunque… Se è davvero così amica di nostro padre che sia lui a spiegarle tutto, a raccontarle tutto! Perché non le ha detto nulla? Poteva scriverle, così come poteva parlare a noi della vita che ha vissuto qui! Non mi aveva mai detto di questo Saotome, della sua rivalità con lui ed ora ecco che ci porta qui, nella città dove ha vissuto da ragazzo, dove ha incontrato nostra madre! Poteva anche dircelo, avvertirci che qualcuno avrebbe potuto farmi domande, mi sarei preparato… e…” stava urlando quando si bloccò, il fiato mozzo in gola.

Come sempre, ogni volta che parlava con Ryoko da solo, il cuore pareva schiudersi e le parole prima contratte sembravano sciogliersi e fluire via della sua bocca senza controllo, senza ordine e mettendo a nudo i suoi timori, i suoi sentimenti. Era come se il silenzio di sua sorella lo proteggesse, come se gli assicurasse che ogni sua parola sarebbe stata serbata con cura.

Poteva parlare in modo sconclusionato, lasciando correre le parole, lasciandole libere di seguire i pensieri che gli si affastellavano caotici nella testa, ma che una volta detti a lei sembravano poter trovare una loro logica. Parlare con Ryoko rendeva sensati i suoi controsensi…

Alzò lo sguardo verso la ragazza e lei gli sorrise con garbo, ottenendo dopo alcuni penosi attimi un sorriso simile in risposta “Sto dicendo delle cavolate. Ah, quella signora deve aver pensato che Ryoga Hibiki ha messo al mondo un figlio screanzato! – si passò una mano tra i folti capelli e sospirò, il petto più leggero – Dovrei scusarmi con lei per essere scappato ed averti trascinato via in quel modo. E poi quelle okonomiyaki avevano un aspetto così buono, scommetto che ci siamo persi un ottimo pasto, gratis per giunta!”

 

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Ryoga osservò il canale che scorreva placido in quel tardo pomeriggio e con un sorriso ripensò alle volte che c'era cascato dentro. Sospirò, distogliendo lo sguardo da quei ricordi e posandolo sul ragazzo che gli camminava accanto.

Davvero non somigliava molto a Ranma. O forse era la sua espressione tranquilla a dargli quella sensazione. “Tuo padre mi ha detto che pratichi le arti marziali” disse interrompendo il silenzio, loro compagno da quando avevano lasciato il dojo.

Arashi annuì, sorridendo “Sì, e da quest’anno comincerò ad insegnarle, nulla di serio, solo un paio di classi di bambini, tanto per cominciare. Non sono all’altezza di mio padre, naturalmente” Ryoga ebbe l’impressione che il sorriso radioso del ragazzo si fosse affievolito. Da come l’aveva detta, sembrava abituato a ripetere quella frase. Era… triste? Arrabbiato?

“E chi lo è?” mormorò quasi a se stesso. Chi meglio di lui sapeva cosa volesse dire non essere all’altezza di Ranma Saotome? Un motto di sincero affetto, di simpatia spontanea lo animò nei confronti di quel giovane. “Non è detto che sarà così per sempre, no? Potrai superarlo un giorno, se lo vuoi” lo rassicurò, ottenendo in cambio un sorriso sincero e quasi accecante. Gli occhi di Arashi si animarono a quella considerazione e fu in essi con un po’ di nostalgia che Ryoga riconobbe finalmente il suo antico rivale.

“Anche Ryo le pratica, vero? Quando gliel’ho chiesto mi ha risposto vagamente, ma dal modo in cui ha steso il preside non…”

“Ryo ha fatto cosa?!” Ryoga era davvero sbalordito: suo figlio non era né un attaccabrighe, né uno che si metteva nei guai, il primo giorno di scuola poi!

Arashi sorrise divertito “Quel vecchio pazzo voleva tagliargli i capelli a forza, è una fissazione… Non si preoccupi, signor Hibiki, avere a che fare con quell’uomo non è una novità e sono ancora al Furinkan, Ryo non avrà problemi per questo. Lo ha steso con un solo colpo! Avrei tanto voluto vederlo!”

“Uhm, se tutto va bene, forse avrai davvero occasione di vederlo: ho chiesto a tuo padre di allenarlo.”

“Davvero? Bene! Però… – Arashi aggrottò le sopracciglia – Ryo ha detto che le arti marziali non gli interessano.”

“Ha detto così?” Ryoga sorrise per nulla sorpreso, ma il suo era un sorriso privo di divertimento, colmo di tristezza. “Proprio per questo ho chiesto a tuo padre di allenarlo, spero che lui riesca a riaccendere in mio figlio l'amore per le arti marziali. Fino a qualche anno fa, Ryo la pensava proprio come te: nulla era più importante, nulla l’appassionava di più e vorrei che tornasse a pensarla così.”

“Papà riuscirà a fargli tornare l’entusiasmo, vedrà signor Hibiki, ne sono certo.”

“Lo spero sul serio… Nerima non è cambiata granché, a quanto pare” Ryoga preferì cambiare discorso, non voleva fare capire a quel ragazzo tanto giovane quanto disperata fosse la propria situazione.

Non voleva che quel ragazzo tanto entusiasta comprendesse che per lui ormai Ranma costituiva l’ultima speranza. E così, parlando della tranquilla cittadina i due si avviarono verso quella che da pochi giorni era casa Hibiki.

 

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Suzume pose delicatamente la spazzola sulla toletta e alzò gli occhi verso la propria immagine. Si osservò alcuni istanti, prima che la voce profonda di sua madre la spingesse a volgere altrove lo sguardo “Ho saputo che il figlio di Kuno Tatewaki è di nuovo in classe con te.”

La ragazza annuì, voltandosi verso l’elegante donna alle sue spalle “Infatti.” Non c’era da stupirsi che l’avesse scoperto: lei scopriva sempre tutto.

Nabiki sorrise e con grazia quasi felina sedette sul letto della figlia “Che fortunata coincidenza! Così potrai divertirti ancora un po’ alle sue spalle.”

Suzume alzò gli angoli delle labbra in un sorriso non molto convinto, poi si strinse nelle spalle “Non ne sarei tanto sicura, mamma.”

Nabiki Nogata inarcò una delle sottili sopracciglia “Cosa significa?”

“Ecco, non credo che lui sia ancora interessato a me come allora. Oggi mi ha ignorato.”

“E’ solo tattica… Fino ad un anno fa era perdutamente innamorato di te, non può aver dimenticato così presto, è impossibile.”

Suzume si strinse nelle spalle e tornò a specchiarsi; non era ugualmente certa quanto sua madre sul perdurare dei sentimenti del giovane Kuno, anzi, nutriva seri dubbi sul fatto che lui potesse provare alcunché nei suoi confronti, se non odio. Di sicuro non amore, non dopo quello che era accaduto.

I suoi occhi spalancati, i suoi occhi chiari colmi di amaro stupore… Il vento gli accarezzava i capelli chiari così insoliti e portava via il suono della propria risata, crudele e sprezzante.

Quando avrebbe dimenticato, si domandò Suzume leggermente oppressa, ma fu un’emozione passeggera. Ora sua madre le era accanto, dritta alle sue spalle e le carezzava il capo; sul suo viso c’era un bellissimo sorriso, colmo di tanto orgoglio che sentì il cuore stringersi per la gioia. “La mia bellissima principessa… Quello stupido ragazzo non si libererà mai della vergogna e con lui quel borioso di suo padre.”

Suzume deglutì, mentre guardava gli occhi della madre così belli da ricordarle quelli di una gatta e li scorgeva così pieni di un sentimento indefinibile, si sentiva quasi… persa. “Mamma…” la richiamò, con voce vibrante di una paura quasi palpabile, ancorché sconosciuta.

“Sì?”

“No, niente… sai che anche Arashi è in classe con me? E’ la prima volta.”

“E’ una fortuna, se quello stupido ragazzo provasse a farti qualcosa, tuo cugino non ci penserebbe due volte a dargli una lezione. Non poteva andare meglio, Suzume. Ora però preparati per la cena, stasera abbiamo ospiti.”

“Oh, mamma, ancora? E’ la sesta volta…” s’interruppe, notando l’espressione stupita di sua madre e sorrise, recuperando la solita aria sicura e spavalda. “Dovrò essere semplicemente elegante o mozzafiato?”

Nabiki rise e dopo averle depositato un leggero bacio sul capo, si avviò verso la porta “Non esagerare, sono solo amici di tuo padre di passaggio in città. Ti aspetto tra un’ora giù nella sala” e dopo un ultimo sguardo, la seconda delle sorelle Tendo lasciò la grande e bellissima camera di sua figlia. Suzume sospirò e dopo aver scosso la testa, si avvicinò al suo fornitissimo armadio per scegliere tra i numerosi abiti cosa indossare.

La sera intanto scendeva placida su Nerima.

 

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“Cosa?!” il rumore di un piatto che andava in frantumi fece da eco a quella esclamazione stupefatta. Akane abbassò lo sguardo, incapace di guardare negli occhi l’amica a cui suo marito aveva appena detto della morte di Akari.

Quando Ukyo e Yuri erano arrivate al dojo come quasi ogni sera, la donna era sembrata poco meno che euforica. Ancora prima di entrare in casa aveva chiesto ad Akane se per caso i due dispersi, come scherzosamente definiva Ryoga ed Akari, fossero lì e quando lei aveva scosso la testa, Ukyo non aveva potuto reprimere un’espressione delusa. “Credevo che quel prosciutto in miniatura si precipitasse qui!” aveva borbottato seguendo poi la padrona di casa in cucina. Lì aveva trovato anche Ranma.

Per un istante aveva pensato che ci fosse qualcosa di strano nel comportamento dei due amici: si scambiavano occhiate veloci e soprattutto Ranma sembrava esser sulle spine.

“In verità… Ecco, Ryoga è già passato di qui, è andato via un paio di ore fa” aveva detto poi Akane.

“Davvero? Potevano pure fermarsi un altro po’, avevo preparato le okonomiyaki speciali che piacciono tanto ad Akari nella speranza di vederla già da stasera” aveva mostrato loro il piatto che aveva con sé.

Akane aveva abbassato gli occhi di colpo, incapace di sostenere il suo sguardo. Un fosco presentimento a quel punto aveva serrato quasi il respiro ad Ukyo, che si era rivolta a Ranma “Cosa… cosa c’è? Non avrete discusso ancora con Ryoga vero?” le sembrava improbabile, ma la reazione di Akane non era quella che ci si aspetta da chi rivede un amico dopo tanti anni!

Ranma aveva scosso la testa “No, niente affatto. Ryoga è venuto qui, gli abbiamo chiesto di restare, ma… ecco, doveva andare. Non voleva lasciare i ragazzi da soli a casa.”

“Da soli? Ranma, non tirarla per le lunghe, dimmi che diavolo succede e perché avete queste facce da funerale!” aveva sbottato lei stizzita. E Ranma gliel’aveva detto. Senza preamboli, proprio come Ryoga aveva fatto con loro quel pomeriggio.

“Akari è morta.”

Solo quello…

In principio Ukyo aveva quasi fatto fatica a recepire quella notizia semplicemente assurda, poi la realizzazione l’aveva colpita. “Cosa?!” aveva urlato, senza rendersene conto. Il piatto le era caduto di mano, ma anche a quello non aveva fatto caso.

Akane rialzò gli occhi lucidi di pianto su di lei, ora non c’era più motivo di nasconderle le lacrime “Ukyo…”

“Aspetta, non… non è vero! Insomma, lei come…” completamente sconvolta, Ukyo farfugliava incoerentemente sopraffatta dalle emozioni che quella notizia aveva portato con sé. Impiegò alcuni istanti per porre una domanda logica “Quando è successo?” chiese con un filo di voce.

“Tre anni fa, per un incidente d’auto” le rispose Ranma, anticipando anche quella che sarebbe stata la sua domanda successiva. Ukyo si sfiorò la fronte, avvertendo il gelo della propria pelle e tremante richiuse gli occhi per alcuni istanti, per non essere sopraffatta dal dolore improvviso che stava provando.

Ecco perché il ragazzo aveva reagito in quel modo, quel pomeriggio!

“Dove vive ora Ryoga?” Ranma si strinse nelle spalle, non capiva il perché di quella domanda in quel momento.

“Non lo so, Arashi lo ha riportato a casa per esser certo che…” non aveva nemmeno finito di parlare che l’amica era corsa fuori dalla cucina; fece per seguirla, ma Akane lo fermò trattenendolo per un braccio.

“No, lasciala andare” gli disse con calma, pregandolo con gli occhi.

“Arashi!” Impegnato in una avvincente partita a shoji con la piccola Yuri che stava letteralmente stracciandolo, il ragazzo sobbalzò nel sentire la voce furiosa della zia irrompere improvvisamente nella sala. La donna, dritta ora dinanzi a lui, sembrava essere furiosa per qualcosa ed inconsciamente si chiese cosa avesse fatto per farla irritare tanto.

“S-sì?”

“Dov’è?”

Perplesso, lanciò un’occhiata a sua sorella sdraiata a terra poco distante da loro che, interrompendo la lettura di un manga in cui era impegnata, lo guardava perplessa a sua volta.

“Dov’è cosa?”

“Il maledetto P-chan! Dove lo hai portato?”

“Vuoi dire il signor Hibiki?”

“Sì! Sì! Lui! Dove vive?”

“Beh, non è stato facile ritrovare la sua, il suo orientamento è…”

“Dove. Diavolo. Vive. Il. Maledetto. Hibiki?” Ukyo scandì ogni parola quasi con tono minaccioso.

“E’ a Oizumi, a nord della stazione di Ozumigakuen. Dopo aver attraversato il fiume devi voltare alla terza a sinistra dopo il tempio buddista. All’angolo c’è la bottega di un barbiere. La casa ha due piani, di color giallo ed è circondata da un giardino abbastanza grande”(******) disse in tutta fretta. Arashi sapeva che non era saggio far arrabbiare le donne, soprattutto quelle come Ukyo Kuonji.

Soddisfatta per la risposta, Ukyo uscì di corsa e dopo poco i tre ragazzi attoniti sentirono il tonfo del portone che veniva sbattuto violentemente.

 

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Il campanello sembrava essere impazzito. Ryoko scambiò un’occhiata preoccupata con suo fratello, intento a preparare la cena. Chiunque fosse a suonare, sembrava avere il diavolo alle calcagna, a giudicare dalla vera e propria furia che stava mettendoci.

Infastidito, il ragazzo si avviò verso la porta deciso a ricordare l’educazione allo scocciatore magari a suon di calci, ma il proposito fu presto messo da parte appena, una volta spalancata la porta, scoprì l’identità del rompiscatole.

La donna che Arashi e Hotaru Saotome gli avevano presentato quel pomeriggio come loro zia era davanti alla sua porta, ansante come per una lunga corsa e lo sguardo più inferocito che avesse mai visto. Troppo stupito per dire qualcosa, Ryo si limitò a guardarla, mentre questa riprendeva fiato.

Stupita quanto lui, Ryoko lo affiancò, però parve riprendersi prima del fratello dalla sorpresa e sorridendo gentilmente fece segno alla scarmigliata donna di entrare in casa. Ukyo entrò e mentre il respiro tornava normale si guardò intorno, come se cercasse qualcosa… o qualcuno. “Dov’è Hibiki?” domandò, la voce appena tremula per il fiatone.

Ryo inarcò un sopracciglio: era impossibile che quella donna avesse fatto una corsa per una semplice visita di cortesia, con quell’aria infuriata, poi! “E’ di sopra, sta facendo un bagno e… ehi!” appena saputo ciò che le interessava, Ukyo prese le scale e senza esitazioni salì al piano superiore, tallonata dal ragazzo e qualche passo più indietro da Ryoko altrettanto certa che non si trattasse di una visita cordiale. La signora Kuonji era visibilmente alterata, furibonda a dirla tutta.

A grandi passi Ukyo si avvicinò a quello che intuì essere il bagno ed ignorando le proteste di Ryo, ne spalancò la porta.

Ryoga si voltò verso l’uscio che veniva spalancato e stupito osservò la donna che si ritrovò improvvisamente dinanzi; il primo incoerente pensiero fu di puro sollievo: quella sconosciuta aveva fatto la sua entrata proprio il momento dopo che lui aveva infilato i pantaloni! Due secondi prima e lo avrebbe trovato in mutande!

Non aveva riconosciuto subito la donna dall’aria truce, poi ne osservò i grandi occhi chiari, i lunghi capelli portati sciolti sulle spalle, anche se non erano più lunghi come quando era una ragazzina di sedici anni dalla battuta pronta. Il suo bel viso… era cambiata, ma era ancora la fidanzata carina di Ranma. Quella era Ukyo!

Appena l’ebbe riconosciuta, le sue labbra si curvarono spontaneamente in un caldo sorriso “Ucchan…” bisbigliò stupito, poi provò ad avvicinarla, ma lei stese un braccio dinanzi a sé e aprì la mano per bloccarlo.

“Hibiki – la sua voce vibrava come se stesse faticando a trattenere la rabbia, ma non solo… - perché?” chiese con durezza. Confuso, Ryoga batté le palpebre, non aveva infatti compreso a cosa alludesse con quella domanda; sentì lo sguardo sconcertato di suo figlio su di sé, il ragazzo infatti era ritto accanto ad Ukyo e probabilmente si stava chiedendo cosa dovesse fare.

La guardò negli occhi, i suoi occhi così particolari e vide le lacrime, ciò che le aveva fatto vibrare la voce prima oltre alla rabbia; scorse anche lo sforzo che stava compiendo per non lasciarsi sopraffare… e finalmente comprese. Capì perché lei era lì, tanto arrabbiata.

“Perdonami” sussurrò, guardandola dritto in quegli occhi sofferenti, mentre nel suo animo il senso di colpa andava ingigantendosi.

Ukyo gli andò vicino e senza esitare lo colpì al viso. Un sonoro e brutale schiaffo, tanto violento da farlo vacillare, lui però restò in piedi e tornò a guardare la vecchia amica che aveva ora perso la sua battaglia contro le lacrime. “Perché ho dovuto saperlo da Ranma?! Perché… tre anni! Tre anni, accidenti a te, Hibiki!” gli urlò contro, cercando di asciugare alcune lacrime con il dorso della mano.

Ryo raggelò, ora capiva anche lui il motivo di tanta collera. Quella donna era furiosa con suo padre per non averle fatto sapere prima della morte della moglie. Abbassò lo sguardo, ricordando che poco prima anche lui aveva provato un senso di frustrazione per lo stesso motivo.

“Io avrei dovuto, lo so, ma non ne ho avuto la forza” confessò Ryoga candidamente. Del resto era sempre stato così: con Ukyo non aveva mai celato nulla.

A lei aveva sempre confidato ciò che anche ad Akari, ai delicati inizi del loro rapporto, aveva nascosto per orgoglio. Non aveva forse confidato ad Ukyo il suo amore per Akane, cosa che non aveva avuto il coraggio di fare con la diretta interessata? E non era stata proprio Ukyo quella a cui aveva raccontato le proprie amarezze quando aveva rinunciato al suo amore per la stessa Akane, quando cioè aveva capito quanto quest’ultima e Ranma fossero innamorati?

Era stata poi sempre lei a scuoterlo. Che fossero pugni o parole, Ucchan lo aveva sempre scosso… Con un mezzo sorriso triste rammentò che fu per merito di un altro dei suoi schiaffi che aveva deciso di sposare Akari.

Ukyo notò quel sorriso colmo di mestizia e scosse il capo, combattuta sul da farsi. Chiuse gli occhi sulle lacrime che non ricordava di aver versato ormai da anni e li coprì con una mano. Avrebbe voluto continuare a picchiarlo per sfogare la propria frustrazione, il proprio risentimento per non aver potuto dire addio alla sua amica, ma d’altra parte sapeva che per quanto dolore lei provasse, esso non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello che Ryoga e i suoi figli dovevano ancora provare.

Sospirò e tornò a guardare l’amico dinanzi a sé, soffermandosi solo in quel momento ad osservare l’uomo che era diventato “Rivestiti. – gli ordinò con voce asciutta riferendosi alla camicia che lui teneva ancora aperta sul petto – Certi spettacoli non sono degni di una signora.”

Ryoga le sorrise “Nemmeno certi schiaffi.”

Lei provò a sorridere, ma non ci riuscì: sembrò esitare, torturandosi le mani, poi scosse il capo. “Razza di…” non finì l’insulto, ma proprio come aveva fatto con Ryo quel pomeriggio gli andò incontro e l’abbracciò con tutta la forza che aveva, scoppiando a piangere a dirotto e non provando nemmeno più a trattenere quel pianto disperato che aveva nel cuore.

Ryo sentì la gola serrarsi nel sentire quella donna piangere così dolorosamente e per istinto quasi si volse verso Ryoko. La ragazza però gli sembrò serena; osservava i due adulti da oltre la sua spalla ed il volto era tranquillo, quasi sorridente… Ryo non comprese subito il perché di quella quiete, poi però tornando a guardare i due adulti, capì: Ryoko era lieta per suo padre. Per la seconda volta in tutta la loro vita, i due ragazzi lo videro piangere.

Non era certo un pianto dirotto e straziante come quello di Ukyo, ma alcune lacrime stavano rigando il volto dell’uomo stretto nella vera e propria morsa di quelle braccia. Più volte Ryoko gli aveva detto a modo suo di temere che suo padre serbasse troppo la sofferenza dentro di sé, preoccupato forse di non farla pesare troppo su loro due, mentre lei era certa che se solo si fosse lasciato andare, probabilmente ne avrebbe provato un enorme sollievo.

 

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Ukyo sospirò. Sentiva ancora le palpebre pesanti e brucianti per il pianto convulso di prima. Accidenti, da quanto non piangeva in quel modo? Da anni, sicuramente, forse da quando Tetzuya aveva lasciato Nerima. Al pensiero dell’uomo che aveva amato anni prima, la donna si scosse.

Tolse il fazzoletto bagnato che Ryoga le aveva dato per tenerlo premuto sulle palpebre arrossate e guardò la famiglia Hibiki radunatele intorno. Ryoga le stava di fronte, seduto sul bordo di una sedia; era protesto verso di lei e le sue ginocchia sfioravano le proprie. Ryoko invece le stava seduta accanto, una tazza fumante tra le mani. La ragazza le sorrise con grazia e le porse il tè, che accettò grata.

Ryo era in piedi poco discosto da loro, poggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate e sul viso un’espressione seria. Era incredibile quanto somigliasse a suo padre, si disse ancora Ukyo sorseggiando la calda bevanda ambrata. Osservandolo bene poteva notare delle differenze naturalmente, ma il giovane Hibiki era davvero il ritratto di suo padre alla sua età, forse un po’ più alto… e poi, nei suoi lineamenti, c’era anche qualche tratto gentile che le rammentò Akari.

Tornò a dedicare la sua attenzione all’uomo sedutole di fronte. Era cambiato, com’era logico in tutti quegli anni, come probabilmente lo era lei stessa, però meno di quanto si fosse aspettata. Chissà, si chiese di sfuggita, se anche lei sembrava ai suoi occhi ancora simile alla ragazzina di un tempo.

“Va meglio?” anche la sua voce era cambiata, era diventata più profonda o forse era per la tristezza che aveva assunto quella sfumatura, chissà.

“Sì, il tè è ottimo, grazie” ringraziò la ragazza credendone l’artefice, ma lei scosse la testa ridendo imbarazzata.

“E’ Ryo il cuoco di casa – spiegò Ryoga lanciando un’occhiata al ragazzo alle sue spalle – Ryoko… beh, Ryoko non è al momento molto brava in cucina.”

“Diciamo che non sarebbe capace di cucinare decentemente nemmeno se ne andasse di mezzo il bene dell’umanità” scherzò Ryo, mentre sua sorella gli dedicava una linguaccia indispettita per quella battuta.

Ukyo sorrise, poi fissò l’amico negli occhi “Scommetto però che tuo padre apprezza molto la sua cucina” disse e Ryoga annuì.

“Già, bei ricordi…”

I due adulti si fecero pensosi per alcuni istanti, poi inspiegabilmente cominciarono a ridere.

I ragazzi si guardarono confusi, stupiti da quel repentino cambio d’umore. Ukyo si mordeva le labbra e la tazza vibrava pericolosamente tra le sue mani scosse per il riso, mentre ugualmente ilare, Ryoga teneva il capo basso e le sue spalle sussultavano. “Ricordi… quando… quando cucinò per te, poco prima che lasciaste Nerima per andare alla fattoria?” chiese la donna.

“Altrochè! Credevo volesse avvelenarmi!”

“E tu, con quella faccia scioccata a dire: ‘Ma Akane, credevo mi avessi perdonato!’ Ah, ah, ah, quante martellate vi beccaste quel giorno tu e Ranma!”

“La colpa fu di Saotome come sempre, mi aveva detto che aveva imparato a cucinare!” e giù a ridere, incapaci di smettere. Sembrava che quel riso avesse lo stesso potere taumaturgico del pianto di poco prima. Ukyo infatti sentì il proprio animo risollevarsi, come se quelle risate spazzassero via la parte più irrazionale e violenta del dolore che prima l’aveva completamente accecata. Non che fosse pentita, non era donna da pentirsi anche delle scelte più impulsive.

Ryoga sospirò sollevato, appena l’eccesso di riso scemò e con gli occhi lucidi la osservò “Certo che anche tu – si carezzò la guancia ancora dolente – a momenti mi staccavi la faccia.”

“Ringrazia che non avevo con me la mia spatola, altrimenti non te la saresti cavata così a buon mercato, P-chan.”

“Erano anni che non venivo malmenato da una donna. L’ultima a farlo fosti tu…” assottigliò gli occhi al ricordo.

“Davvero? Non stento a crederlo… Io – esitò. Il suo viso parve incupirsi per alcuni istanti, poi però un caldo sorriso spazzò via ogni nube – io ora devo andare. Ho mollato il dojo così di fretta, Yuri si starà chiedendo che fine abbia fatto la sua sventata madre!” Ryoga sospettò che Ukyo volesse dirgli dell’altro, forse porgli delle domande su Akari e la presenza dei ragazzi doveva averla fatta desistere. Ne fu lieto, ci sarebbe stato tempo per parlarle con più calma, per spiegarle anche meglio perché non aveva avuto la forza per riavvicinarsi a loro tutti dopo quello che era successo.

La donna si alzò riconsegnando la tazza a Ryoko “Domani passa al ristorante” era un vero e proprio ordine, si disse Hibiki divertito dal tono autoritario tanto familiare “Porta anche loro: oggi non hanno potuto assaggiare le mie okonomiyaki. E poi, senza il loro aiuto, non credo riusciresti a trovarlo, mi hanno detto che il tuo senso dell’orientamento è sempre lo stesso: un disastro.”

“D’accordo, agli ordini, signora, così potrò anche salutare Konatsu.”

Ukyo batté le palpebre, stupita “Konatsu?! Per Buddha, saranno quasi 5 anni che è andato via! Ranma non te l’ha detto?”

“No, ma io credevo che… ecco – Ryoga si grattò la nuca, confuso – che tu… e lui…” la donna scoppiò a ridere, quasi quel pensiero fosse troppo assurdo e ridicolo.

Ryoga incrociò le braccia, urtato da quella risata irriverente “Non è il caso di ridere così!”

“Sì, sì, ora però devo andare, ne parleremo meglio domani! Vi aspetterò, tutti e tre.”

 

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Akane ripose la spazzola sul ripiano lucido ed ordinato della sua toletta; osservò gli oggetti ormai familiari che l’occupavano, soffermandosi su ognuno di essi con un’aria insolitamente greve. Quegli oggetti, piccoli ed insignificanti, quelle creme, i piccoli ninnoli, la ceneriera, orgogliosa opera di suo figlio alla scuola materna di cui ricopiava le paffutelle forme della piccola manina… gli orecchini, dono di Ranma, il porta-pillole datole dalla signora Nodoka… la sua vita era anche in quegli oggetti che lei sfiorava di tanto in tanto con lo sguardo, senza mai vederli veramente perché abituata alla loro presenza.

Alzò lo sguardo verso la propria immagine riflessa nello specchio e non fu stupita di scorgere un’espressione triste; spostò una ciocca che le carezzava una guancia e la fissò dietro un orecchio per poi osservare meglio i propri occhi. Erano ancora tremendamente lucidi, segnati, proprio come segnato era il suo animo.

“Akane…” quasi trasalì nel sentirsi chiamare, poi dopo un ultimo sguardo al suo volto, si alzò dal comodo sgabello su cui era stata seduta negli ultimi dieci, assorti minuti e spense la piccola abat-jour che illuminava da sola la loro camera. Si avvicinò al letto e sedette al suo posto senza scostare le lenzuola, le mani abbandonate in grembo.

“Tutto bene?” le chiese Ranma e lei scosse la testa; no, non tutto andava bene. Lo sentì muoversi e inginocchiarsi alle sue spalle, ma quando fece per voltarsi lui la strinse, spingendola contro il proprio petto. La presa era tanto forte che quasi le fece male, ma non protestò. Come poteva lamentarsi di essere tra le sue braccia?

Avvertì il suo respiro sul collo e non fu stupita di scoprirlo leggermente accelerato. “Ranma…” lui la strinse ancor di più, le sue dita forti quasi affondarono nella tenera pelle delle sue spalle e Akane avvertì il petto di suo marito aderire completamente alla propria schiena.

“Io non… non ce la farei senza di te.”

L’aveva vista pettinarsi con lentezza, lo sguardo lucido e triste di chi prova compassione e mentre l’osservava, una domanda atroce aveva cominciato a tormentarlo: se ci fosse stato lui al posto di Ryoga, cosa avrebbe mai fatto? Senza Akane, come sarebbe mai sopravvissuto?

Aveva rischiato di perderla anni prima sul monte Hooh, ma come sarebbe stato perdere la donna che amava dopo aver creato una famiglia con lei? Dopo aver vissuto tanto a lungo con i suoi sguardi, aver imparato ogni suo gesto… dopo aver avuto il tempo di imprimere in testa e nel cuore ogni centimetro della sua pelle, aver scoperto il piccolo neo all’attaccatura dei capelli, il suo modo di inarcare un sopracciglio di fronte ad una richiesta assurda, il suono della sua voce che chiamava i loro figli. Dopo aver avuto il suo calore ogni notte accanto a sé, per così tanto tempo… senza il suo sorriso che ancora lo sorprendeva per il fatto che illuminava ogni suo giorno, anche quello più tetro e cupo…

Come avrebbe vissuto senza più tutto questo?

Akane gli coprì una mano con una delle sue piccole e nivee al confronto, lasciando una lieve carezza al suo passaggio. “Ti amo anch’io Ranma…” Sussurrò, poi chiuse gli occhi e lasciò che le braccia di lui la cullassero in quella notte che scivolava sui tetti di Nerima.

 

 

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Ryoga incrociò le braccia dietro alla nuca, rassegnato all’insonnia. Non era abituato a quella casa, ma più di tutto non era abituato a quel letto. Perché poi si ostinava a dormire ancora in un letto matrimoniale, si chiese senza una vera volontà di rispondersi.

Si voltò verso il lato alla sua destra completamente intatto; un paio di volte aveva provato a sistemarsi al centro del letto, per ingannare se stesso e non avvertire più quel vuoto, ma dopo pochi agitati minuti aveva avuto l’impellenza di spostarsi, di ritornare sul fianco sinistro. Akari preferiva il destro, sceglieva sempre quello, quando per qualsiasi motivo dormivano in un letto diverso dal loro alla fattoria.

Allungò il braccio e carezzò il cuscino accanto, chiedendosi se ad Akari sarebbe piaciuta quella abitazione. Forse sì, ma anche in caso contrario non si sarebbe lamentata, ne era certo.

“Questa è casa perché tu riesci a tornarci” aveva detto una volta, quando lui si era scusato per l’ennesimo smarrimento che però era stato insolitamente lungo, quasi tre giorni.

Lei era la sua casa perché era da lei che tornava. Non aveva avuto il coraggio di dirglielo allora, ma sperava con tutto se stesso che l’avesse compreso. Supponeva di sì: Akari pareva capirlo anche meglio di se stesso.

Sorrise e carezzò ancora distrattamente il cuscino, poi sospirò, un dolore al cuore non affatto sconosciuto a fargli compagnia. “Notte tesoro…” mormorò, infischiandosene se così poteva sembrare patetico. C’erano ancora quei piccoli, forse insignificanti gesti che compieva affinché la solitudine non gli stritolasse il cuore. Augurare la buona notte al ricordo di lei, per esempio, o carezzare il cuscino che avrebbe dovuto accogliere i suoi capelli morbidi… Piccoli riti che lo aiutavano a non sentirsi perso ed irrimediabilmente solo, che importava se erano patetici?

Si voltò sul fianco ed attese che il sonno finalmente arrivasse.

 

 

You, You never said goodbye

Sometimes our tears blinded the love

We lost our dream along the way

But I never thought you’d trade your soul to the fates

Never though you’d leave me alone

Time through the rain has set me free

Sands of time will keep your memory

Love everlasting fades away

Alive within your beatless heart

 

(Dry your tears with love-- X-Japan)

 

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Note:

(*) mutismo elettivo: o più propriamente detto, mutismo selettivo. E’ un disturbo ansioso infantile che comincia a manifestarsi intorno ai 3 anni di età, per poi conclamarsi e diventare evidente in età scolare. I bambini soggetti a tale disturbo sono molto riservati, non comunicano con l’esterno tranne che in rare eccezioni, parlando con uno dei genitori soltanto, ad esempio; non sono affetti da alcun ritardo psicologico od intellettivo, ma non parlano e se lo fanno, nella maggioranza dei casi, preferiscono bisbigliare (potete trovare maggiori informazioni sul MS in rete. Chiedo scusa per la scarsità di informazioni, ma non sono molto esperta e non vorrei dire cose errate su un argomento tanto serio). Il mutismo di Ryoko, in questa fiction, è dovuto ad una precisa scelta della ragazza, quindi forse è scorretto parlare di mutismo elettivo nel suo caso, vista soprattutto la sua età non più infantile. La sua è più che altro una reazione alla perdita della madre.

(**)senpai: è un compagno di scuola, un collega più grande.

(***) onigiri: sono quelle specie di polpettine di riso, normalmente di forma triangolare. Il ripieno può essere il più vario, dalla carne al pesce e sono ideali per un pranzo veloce.

(****) io ed Arashi: Cri, hai azzeccato in pieno il senso di questa frase! Era proprio quello che intendevo, far risaltare l’egocentrismo di Hotaru, dopotutto è figlia di Ranma, no? ; )

(*****) Nel film “La sposa dell’isola delle illusioni” Ukyo viene catturata insieme alle altre ragazze e portate sull’isola vagante del principe Toma che cerca una sposa. Ukyo viene destinata a diventare la sposa di uno dei soldati di Toma, una sorta di scimmiotto antropomorfo che rammenta un po’ il Son Goku della leggenda di Saiyuki ^_^;. Sarà proprio Ryoga a liberarla dall’indesiderato spasimante…

(******) Oizumi è una zona residenziale realmente esistente a Nerima e pare che sia proprio lì che si trovi il dojo dei Tendo ^_^. Casa Hibiki si trova, per maggiore esattezza, tra Nishi-oizumi e Higashi-oizumi e nel posto da me descritto in realtà si trova una piccola guest-house. Se vi và, date un'occhiate e Google map. Riguardo Nerima, essa è una vera e propria cittadina, visto che nel 2000 la Dieta (il Parlamento Giapponese, in pratica) ha modificato il suo status, cambiandolo da “quartiere speciale” a “città”, insieme agli altri 22 quartieri speciali che circondano Tokyo e che ne formano una sorta di periferia. Nonostante questo, Nerima continua ad essere definita come Nerima-ku, dove la particella ku sta appunto per “quartiere”, più o meno.

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