L'orologio

di Love_in_idleness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Berlino ***
Capitolo 2: *** Kemi ***
Capitolo 3: *** Londra ***
Capitolo 4: *** Dublino ***
Capitolo 5: *** Mosca ***
Capitolo 6: *** Milano ***
Capitolo 7: *** Tokyo ***
Capitolo 8: *** New York ***
Capitolo 9: *** Parigi ***
Capitolo 10: *** Bergen ***
Capitolo 11: *** Copenhagen ***
Capitolo 12: *** Pavia ***



Capitolo 1
*** Berlino ***


Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare

Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare. La storia non è una storia, ma un insieme di one-shot che come avrete capito sono collegate soltanto dalla stessa durata temporale, e precisamente un minuto, cioè le 17.58 del

Ventuno Novembre, che poi cambiano per il fuso orario... ho messo come avvertenze shonen-ai e drammatico perché sono due cose che possono scoraggiare la lettura, ma riguardano solo particolari capitoli, precisamente il X e il II. Se preferite saltateli. Per il resto specificherò il genere del capitolo prima di cominciare. Questo è molto generale e non ha controindicazioni di nessun tipo, credo ^_^, quindi buona lettura.

I.

[Berlino; Ventuno Novembre 2006, 17.58]

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una fredda giornata di Novembre, soffusa, nebbiosa, sfocata dai tratti della foschia depositata sull’orizzonte già buio. Sulle strade rimaneva ancora un po’ della neve caduta all’inizio del mese, illuminata dai repentini abbagli delle macchine e dallo sfavillio dei grattacieli moderni.

Hanse guardò il suo orologio. Erano le quasi le sei. Le cinque e cinquantotto.

Reclinò la testa contro la poltrona di velluto rosso impolverata e sospirò profondamente, immerso nell’oscurità e nella desolazione di quella sala solitaria, fatiscente, decaduta. Il cinema chiuso, il Metropolitan Theater, gli era sempre piaciuto per quel tocco raffinato di belle époque che trasmetteva con la sua semplice presenza, come a testimoniare la precarietà di un’epoca lussuosa ormai trascorsa, quando si trasmettevano i film muti in bianco e nero e le grandi pellicole parlavano di amori sinceri e profondissimi. Ogni volta che aveva bisogno di tranquillità sapeva di poterla ritrovare nel silenzio e nell’imperturbabilità di quella sala fredda e abbandonata.

Per questo l’aveva portata lì. Aveva aperto la porta rovinata, ceduta da chissà quanti anni, e l’aveva guidata all’interno come se le stesse mostrando casa sua. Ma non era stato sufficiente. Lei non aveva capito lo spirito di decadenza, la bellezza dimenticata e sussurrata di quel luogo segreto e personalissimo. Non aveva voluto condividere la meravigliosa stanza nascosta agli occhi frenetici del mondo. Aveva portato nell’equilibrio di quell’epoca lontana la luce disarmonica della modernità e della superficialità; aveva infranto con la sua sola presenza la delicata bolla di vetro che preservava intatta, in una semplice stanza inaccessibile del mondo, l’ultima cosa viva, morente, di una decade passata.

Aveva rovinato tutto. Con quegli occhi e quella voce pieni di banalità aveva distrutto un piccolo, sofisticato sogno. Poi se ne era andata. Dopo un anno, aveva semplicemente deciso di prendere le sue cose –la sua borsetta, la sua sciarpa profumata, il suo rossetto rosso, il suo cappotto di flanella- e di tornarsene a casa senza di lui.

Hanse non pensava seriamente di amarla. Non come si amava nei film del 1910, totalmente, enfaticamente, appassionatamente. Ma sapeva, credeva davvero di volerle bene, di essere, in fondo, legato a lei da un sentimento di tenerezza, di fiducia e di rispetto che era qualcosa di molto simile all’amore nel suo stato primordiale. Forse si era sbagliato. Su quella poltrona polverosa, al buio della sala, aveva riflettuto per due ore sulle illusioni più malvagie dell’innamoramento, aveva pianto, si era domandato come avesse potuto essere così cieco, si era arrabbiato. Gli sembrava di aver sacrificato molto della sua vita per poterle stare accanto.

In un tempo così dilatato ed immobile non si accorgeva di nulla. La moquette cremisi stesa ancora sul pavimento nel corridoio centrale attutiva il rumore dei passi. Florian si sedette di fianco a lui senza dire una parola, respirando il più dolcemente possibile. Tremava ancora del freddo della sera, chiusa all’esterno del teatro, e da un senso di irrequieta ansietà.

Hanse si voltò in uno scatto d’ira e di sensi di colpa. Fino all’anno precedente, ricordò in un attimo, lui e Florian entravano sempre insieme nel loro posto segreto. Erano più piccoli, erano appena adolescenti, si nascondevano dentro quella struttura fatiscente le prime volte che fumavano, o quando dovevano parlare di pensieri troppo intimi per essere divulgati al resto del mondo. Tra quei muri rimbombava il sussurro della loro amicizia infranta, ed il ricordo li pitturava di un alone di dolcezza malinconica. Florian aveva in mente tutto, ogni dettaglio. Florian era sempre stato tacitamente presente, anche quando Hanse aveva cominciato ad andare da solo al teatro per pensare dopo gli appuntamenti con ‘la sua ragazza’.

“Hansi, missà che questa sera non hai niente da fare, vero?”

Hanse notò il tono stranamente gentile della sua voce, la morbidezza di poche parole così banali, eppure così intense. Sembrava volergli dire che era passato solo un giorno, solo un’ora da quella litigata orribile, che la gelosia era uno stupido punto di vista, che un legame tranciato dall’orgoglio può essere riallacciato in un nodo strettissimo con una frase tanto semplice.

“No,” Rispose.

“Vieni a berti una birra? Mi annoio un po’. C’è il basket.”

“D’accordo.”

“Mangiamo qualcosa da qualche parte, non so. Alla Stube, o dove vuoi tu.”

“D’accordo, Flo.”

Sorrise lievemente. Non capiva come Florian potesse essere arrivato lì in quel momento, con quell’idea. Florian, alla fine, c’era sempre nei momenti peggiori e anche in quelli migliori. Si era dimenticato della sua precisione.

“Flo?” Hanse intuiva di aver perso qualcosa di relativamente importante, ma di aver rimediato ad un errore enorme.

“Mm?”

“Flo, mi sei – mancato.”

Hanse si sentiva felice nonostante tutto. Nonostante un addio doloroso. Nonostante un pianto imbarazzante. Nonostante la polvere del Metropolitan, nonostante il freddo pungente di quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, con la sua nebbia, con la sua neve scintillante, con la sua notte precoce caduta sulla città come un dio addormentato.

[Happy Ending]

__

Questi capitoli saranno tutti molto brevi. Spero vi sia piaciuta, e in ogni caso, per favore, lasciatemi un commento, mi piacciono tanto *___*... Grazie a tutti e alla prossima.

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Capitolo 2
*** Kemi ***


Nuovo capitolo

Nuovo capitolo ^_^ Come preannunciato, avrà un finale drammatico, anche se è talmente breve che non riuscirete ad affezionarvi ai miei due protagonisti.

Ringrazio tantissimo Fuuma per la recensione che mi ha lasciato. Grazie, grazie, grazie. Mi hai fatto un piacere immenso. Spero apprezzerai anche questo e i prossimi capitoli. Per il resto buona lettura a tutti.

 

II.

[Kemi; Ventuno Novembre 2006, 18.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una gelida sera di Novembre, avvolta nella neve e nella prospettiva di intangibilità delle cose. Erano soltanto le sette, ma così a Nord, oltre la linea del circolo polare artico, era notte già da molte ore.

Eija guardò distrattamente l’orologio analogico del cruscotto che luccicava rosso nella densità del buio quasi totale che respirava. Erano le sei e cinquantotto. Pensava che quella coltre nera perenne lo infastidiva molto, lo metteva in agitazione ed impigriva le sue giornate. Entro qualche settimana non ci sarebbe stato nemmeno più un abbaglio del giorno lontano nei ricordi, la notte avrebbe inghiottito col suo buio qualsiasi momento della vita quotidiana. Sarebbe andato a dormire col buio e si sarebbe svegliato col buio. Avrebbe preso il treno al buio fino ad Helsinki, avrebbe trascorso le poche ore di luce del Sud in università, e poi se ne sarebbe tornato a casa per venire di nuovo assorbito dall’oscurità dell’inverno.

Odiava la notte con tutto se stesso. Non la notte, in generale. Ogni tanto credeva che la notte, in un'altra parte del mondo, potesse anche essere bella, poetica, luccicante, affascinante con le sue stelle, i suoi silenzi, le sue desolazioni interiori e la sua idea di infinita eternità disegnata nel tessuto della volta celeste. Quelle erano probabilmente notti serene. Erano le notti che uno vedeva se abitava a Parigi, o a Roma, o a Stoccolma, o in qualsiasi posto immerso nella civiltà e più o meno inclinato sulla superficie terrestre rispetto al piano dell’eclittica. Ma Kemi era una pozza vuota. Era in cima al mondo eppure non vedeva niente. La sua altezza latitudinale stordiva chiunque. Per questo odiava la notte artica – perché in inverno conquistava tutto, stendendo un sottile velo di oblio sulle cose del mondo, e d’estate trasmigrava a Sud, lasciandolo perpetuamente in balia della luce accecante.

Päivi continuava a cambiare canzone. Per quanto alzasse il volume del lettore cd non riusciva mai a tenersi abbastanza sveglio. E poi anche lui cominciava ad essere insofferente ed irrequieto per tutto quel nulla a cui andavano incontro. Non si ricordava cosa ci facesse in macchina col suo migliore amico. Aveva bevuto? Sì. Vodka. Per scaldasi. Perché quel Ventuno Novembre, alle sette di sera, a Kemi faceva già così freddo, che uno doveva trovare dei rimedi alternativi per non dimenticarsi di vivere e chiudersi tutto il giorno nel buio tenue della propria casa. Eija non aveva bevuto vodka. Non aveva bevuto proprio nulla a casa di quel loro amico, doveva guidare in mezzo ad una bufera di neve.

“Sai Eija, sono un po’ felice.”

“Perché?” Rispose Eija voltando appena la testa nella sua direzione. “Nii, katu on jässää.”

Stavano uscendo dalla zona d’ombra per rientrare finalmente nella città, che era almeno un po’ più sicura e calda rispetto al vuoto desolato del deserto di ghiaccio. Il buio gli trasmetteva sonnolenza e sentiva il volante scivolare assieme alle ruote sulla lastra di ghiaccio in cui la strada si era trasformata.

“Domani prendiamo il nostro treno e ce ne andiamo al sole disperato! È qualcosa di meraviglioso. Promettimi che a Dicembre passiamo una settimana nell’Oceano Pacifico. Tutto questo freddo mi ha scavato un solco dentro. Potrei morire assiderato.”

“Päivi, sei ubriaco!” Rise. Päivi lo faceva sempre ridere nella maniera buffa in cui si ubriacava diventando rubicondo in faccia ed ancora più gioviale.

“Oh, lo so che succede anche a te. Ti svegli la mattina, scosti le tende dalla finestra ed è ancora così buio che non puoi vedere nemmeno il tuo giardino morto. I lampioni sono distanti. Guarda la neve come danza stranamente sul tuo parabrezza! Attento, Ei –!“

Eija non ricordava che in quel punto della carreggiata ci fosse una curva. Qualcosa di accecante abbagliò la sua vista per un secondo, prima di dileguarsi in una sfumatura da sogno. Fu un istante panico, sospeso nel vuoto, come se entrambi si fossero trasformati in quei fiocchi di neve danzante e si fossero cristallizzati in fantasie surreali, cadendo nella stessa maniera caotica, imprevedibile, precipitosa. L’attimo era atroce. Non ebbe nemmeno il tempo di trasformasi in consapevolezza. Un rumore di sterzo riempì i loro cuori con la forza di mille campane. Ma la strada, Eija l’aveva detto, era ghiacciata. Anche se non era lui ad essere ubriaco, intuiva quella corsa frenetica con la stessa percezione distorta di Päivi. Uno schianto fragoroso, due, tre, si abbatterono su di lui, trafiggendolo di orrore e di una sofferenza così insopportabile da togliergli il fiato. Sentì la violenza di un frammento di vetro gelido penetrargli il petto ed il cuore sospinto con forza al centro della cassa toracica aggrovigliata, frantumata, distrutta. In un ultimo abbaglio di lucidità capì che doveva trattenere il respiro, perché quando l’avesse lasciato andare avrebbe cominciato ad essere ricoperto dalla neve che continuava a cadere. Prima di scivolare nel sonno obliatico, vide il parabrezza completamente ricoperto di sangue e gli occhi di Päivi sbarrati, bianchi, già vuoti. Päivi era stato felice, un momento prima. Non poteva credere che la morte sopraggiungesse così inaspettatamente, così improvvisamente per una persona felice. Ora cosa restava?

Avrebbero giaciuto così, giovani, muti, inermi, spezzati, coperti da un soffice strato candido di quiete, sotto l’imperscrutabile notte artica che aveva odiato, in quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre che con molta tristezza cancellava ogni loro traccia di vita.

 

 

[Frammenti]

___

 

Katu on jässää: la strada è ghiacciata

 

Sapete, ho una venerazione per il Finlandese, e mi piacerebbe studiarlo seriamente... a parte queste cose senza senso, ringrazio tutti quelli che leggono. Baci ^_^

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Capitolo 3
*** Londra ***


Nuovo capitolo

Nuovo capitolo ^_^ leggermente Angst... ma non preoccupatevi, vi spiego una cosa: questo insieme di one-shot è costruito con una struttura simmetrica, per la quale ad ogni tema negativo ne corrisponde uno positivo. Perciò verranno i capitoli leggeri. By the way - Capitolo tre.

 

III.

[Londra – White City; Ventuno Novembre 2006, 16.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una tristissima, cupa, maledetta giornata di Novembre, un pomeriggio che avrebbe potuto essere semplicemente un momento qualsiasi in una vita qualsiasi, e che invece col suo suono di campane a morto e col suo odore di incenso le sarebbe rimasto inciso nella memoria come una lapide tombale che reca il nome di una persona perduta.

Il campanile tuonò fragorosamente le cinque. Meredith alzò lievemente il braccio abbandonato sul suo grembo e con gli occhi ancora un po’ storditi guardò il quadrante dell’orologio. In realtà erano le quattro e cinquantotto. La funzione sarebbe cominciata entro pochi minuti.

Meredith non si accorgeva di quello che stava succedendo accanto a lei, o se il mondo avesse preso a girare vorticosamente e freneticamente attorno alla sua figura immobile e nera come una notte invernale. Tutta la sua visuale era abbagliata dal riflesso accecante della piccola bara bianca che stava proprio lì, a pochi metri da lei, messa a giacere dinnanzi all’altare con un bambino dentro, stretto, infreddolito, morto. Fissava quella macchia bianca con un’insistenza sviata, affascinata, ammaliata da una lucentezza simile, e le pareva che quel chiarore purissimo, quel colore così vicino allo splendore, si stesse ingrandendo e stesse conquistando progressivamente tutta la chiesa. Sarebbe uscito dalla porta ed avrebbe soggiogato il mondo nella sua luce abbacinante e nel lutto incommensurabile che si portava dentro.

Le campane continuavano a suonare. Lei rimaneva immobile nella sua posizione rigida, severa. Quei tumultuosi pensieri si riannodavano in un filo nero e deleterio che la sospingeva fino ai confini della pazzia, fino all’orlo del territorio dove la realtà malvagia si confonde nell’indefinitezza dei sogni e degli incubi atroci. Forse era davvero solo un incubo. Il fazzoletto che stringeva tra le mani era bagnato delle sostanze oniriche della sua mente, quella stoffa nera e quella bara bianca erano soltanto proiezioni intelligibili della sua angoscia più radicata. In fondo, sapeva di non potersi svegliare.

Meredith pensava vagamente. Non esisteva più nulla di chiaro nella sua vita. Tutto ero stato improvvisamente rovesciato, rivoltato, sconvolto. In un istante fatale le era sembrato di cominciare a vedere le cose al contrario, come sospese in un limbo misterioso, in una dimensione estranea alla sua comprensione e all’abitudine che aveva di abitare su questo pianeta, in questa città, in questa via, in questa casa. Necessariamente c’era uno sbaglio, un dettaglio distorto. Non capiva ancora, non realizzava cosa avesse potuto infrangere bruscamente l’equilibrio di quella lineare esistenza, e cosa fosse stato il motore di quella rivoluzione copernicana. Il suo centro era decisamente deviato. Persino quei rintocchi insistenti, quei suoni sordi, rimbombanti, potenti, le sembravano non avere alcun senso rispetto al bianco che stava investendo la sua vista e che stava totalizzando la sua ragione. Uno sciame di persone andava e veniva da lei. Le dicevano parole che non capiva nel loro suono, le ascoltava distrattamente e non le guardava nemmeno, continuava a fissare gli occhi sulla piccola bara bianca luccicante.

Sapeva che se non avesse compreso in fretta il motivo di quella strana sensazione di dolore, di soffocamento, di spasimo, sarebbe impazzita e deperita. Ma, davvero, non distingueva più nulla. Suo marito era alla sua destra, il suo bambino alla sua sinistra. Provava una pena profonda per la madre che doveva guardare la bara bianca intuendo il corpo di suo figlio sigillato tra piccole le assi. Se le avessero strappato suo figlio –

Poi, in un attimo, ricordò ogni cosa. Ricordò quelle scale. Ricordò il rumore ovattato della caduta. Rivide il sangue contro lo spigolo di marmo.

E fu tutto perfettamente chiaro. Volse lo sguardo a sinistra, ed osservò il vuoto pieno di orrore.

Il bambino dentro quella bara,

era il suo bambino.

Si alzò in uno slancio inaspettato e protese tutta se stessa verso il feretro coperto da una soffice coperta di fiori candidi. Sentiva il respiro mancare ed il cuore fermarsi per un istante disperato mentre lanciava un urlo pieno di angoscia, pieno di terrore, pieno di stupefacente lucidità.

Si piegò convulsamente sbattendo contro il pavimento freddo, e rimase così, gli occhi sbarrati, il bianco vuoto nell’anima, finché qualcuno non raccolse il suo corpo inerme.

Non avrebbe vissuto mai più come una persona sana, come una donna.

Il buio della sera penetrava dalle ampie finestre policrome della chiesa decorata a lutto. La luce dei ceri e delle preghiere sussurrate rifletteva sui quei vetri i mille colori della sciagura e della devastazione. Tra le sue navate si sarebbero celebrati due mesti funerali. Seppellivano il piccolo, e dentro la stessa bara seppellivano anche lo spirito morto di Meredith.

Si compiva così un sacrificio feroce ed inesorabile. Meredith sentiva di dissolversi pezzo dopo pezzo, lentamente, con agonia, sul lastricato di quella chiesa, in un’ora qualsiasi, in un giorno qualsiasi di Novembre che con la sua disgrazia ed il suo buio funesto avrebbe per sempre leccato via la sua felicità e prosciugato ogni traccia di umanità dal suo cuore.

 

 

[Una Bara Bianca]

 

___

Uh, è quasi Natale e quasi il mio compleanno. La cosa che amo di più dei regali di Natale è fare i pacchetti, sapete, con la carta speciale e tutti i nastri colorati e luccicanti. E poi sono in vacanza, ma solo apparentemente. Comunque vi faccio tantissimi auguri di buone feste, e ringrazio tutti coloro che hanno letto il capitolo due anche se è stato una strage... lasciatemi una recensione! Per favore! Fatemi un regalo di Natale e di compleanno... Grazie & alla prossima

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Capitolo 4
*** Dublino ***


Quarto capitolo

Quarto capitolo! Questo non mi entusiasma particolarmente, vi avverto, ma è sulla linea di tutti gli altri...

Spero vi piaccia. Rinnovo i ringraziamenti a Fuuma per i suoi commenti & buona lettura & buon Capodanno

 

IV.

[Dublino; Ventuno Novembre 2006, 15.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un triste pomeriggio di Novembre, freddo, ventoso, desolato. Il giorno sembrava fatto apposta per riflettere: una strana, lancinante consapevolezza si era fatta strada nella sua mente con la stessa progressiva, invisibile velocità del buio che conquista le strade del mondo.

Mary Anne alzò gli occhi verso la pendola della sala che oscillava costantemente nella vita e nei suoi sogni sopra la sua testa affaticata, come una ghigliottina. Erano le tre e cinquantotto.

Non sapeva nemmeno perché fosse a casa, a quell’ora in cui solitamente si trovava in ufficio a lavorare. Probabilmente avrebbe passato dei guai per la sua fuga improvvisata nella città, via dal suo spazio e dalla sua contingenza, ma, davvero, per un istante, chiusa tra le mura grigie dell’agenzia ed imprigionata da pile di fogli e mucchi di doveri, si era sentita soffocare da un’ansia inspiegabile. Sentiva nell’aria un vago presentimento. Questo fremito misterioso la colpiva da tempo come una puntura leggera ma fastidiosa, e la angustiava nella sua continuità. Si svegliava la mattina con la sensazione che la sua vita intera si stesse trasformando in un prolungamento del suo ufficio grigio e squallido. Il suo malessere la tormentava il giorno intero deconcentrandola, non si acuiva nemmeno quando alle sei e mezza tornava a casa, stanca e provata, e cominciava a cucinare per la cena. Cucinare la rilassava, specialmente quando creava dolci deliziosi e speziati. Ultimamente anche quella piccola passione le sembrava vuota, vanificata di ogni significato. Il profumo della cannella non le piaceva più perché non le arrivava in quel punto del petto che la rendeva felice in una maniera tanto semplice ed infantile; il gusto soffice della marmellata non scioglieva dentro di lei alcuna emozione ingenua, solo una pacata, grigia indifferenza. Grigia come le pareti dell’ufficio.

La pendola di sua nonna continuava ad oscillare. Mary Anne pensò che fuori della sua piccola casetta molta gente stava scorrendo nelle strade affollate e fredde di vento, molti uomini, molti bambini, molte persone contente e soddisfatte. Pensò anche che la felicità era davvero un fatto semplice, come tutti i sentimenti – solo qualcosa di interiore, come una bolla che si espande e riempie il corpo di una certa frenesia. La noia, invece, era uno stato di completa vacuità. Era distante dall’odio come dall’amore, dalla passione come dalla sofferenza. Si trovava nel mezzo di un deserto di ghiaccio. Era grigia dello stesso grigio di un ufficio di periferia scarsamente illuminato, come le mura di casa sua sulle quali la carta da parati si stava lentamente logorando, consumata dalla macchia sordida in espansione. Il grigio le stava corrodendo tutto.

Eppure Mary Anne credeva di avere una vita normale, per certi versi invidiabile. Aveva un marito premuroso e gentile che tornava a casa alle otto e mezza di sera, due bambini dolcissimi dai capelli biondi, una casetta piccola e graziosa, un lavoro part-time, molte amiche e molte confidenti con le quali uscire di tanto in tanto per un tè o una cena tra donne. Nonostante ciò, continuava a sentire questa insoddisfazione. Le sembrava ingiusto e decisamente stupido, quasi egoista. – Sono davvero scema, – si diceva, – Se  comincio a lamentarmi. C’è gente che soffre per motivi gravi. Io mi sento solo un po’ stanca e un po’ delusa. –

La verità la conosceva. Osservando il lento e costante ondeggiare della pendola, le sembrava di essere ancorata allo stesso movimento perpetuo e ripetitivo, alla stessa esasperante oscillazione. Aveva quarant’anni e molte rughe, le sue scarpe ed i suoi vestiti erano vecchi, logori, fuori moda, i suoi capelli erano aridi e disordinati. Il cassetto della cucina era pieno di bollette e saldi non ancora pagati per i quali bastavano appena i soldi guadagnati col suo lavoro modesto ed insoddisfacente.

L’insofferenza che provava si annidava tutta lì, in quella graffiante sensazione di assoluta mediocrità.

In quel momento lo ammise. Allora le pareti della sua vita divennero definitivamente grigie e monotone.

Le finestre della sala erano chiuse. Mary Anne era seduta al tavolo, le mani raccolte in grembo, sotto la pallida luce del lampadario, e si chiedeva cosa valesse la pena di essere faticosamente trascinato avanti.

C’era un’idea che la sconvolgeva ancora di più. Quel pomeriggio aveva finalmente trovato la prova che cercava – suo marito, il suo adorato, affettuoso marito, usciva di fabbrica alle sette di sera, e durante l’ora trascorsa prima del ritorno a casa si intratteneva con la sua bella amante. Non era disperata. Non era nemmeno arrabbiata. Era semplicemente indifferente. La cosa che la logorò più del tradimento in sé fu la subitanea consapevolezza che ormai anche quel legame così importante era diventato un contenitore completamente vuoto. Di suo marito non le importava più nulla. Pure la sua figura un tempo cara era immersa nel grigio dominante, non si poteva più distinguerne il contorno. Il suo amore era sfiorito, deperito, morto.

Era questa la vera tragedia di Mary Anne. Si consumò nel silenzio e nella desolata frustrazione di una casa anonima della periferia di Dublino, in un’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi di Novembre, scavando nella sua anima sola un’amarezza ed un vuoto incolmabile.

 

[Bitterness]

 

Da ieri sono maggiorenne è____é. In realtà non è cambiato nulla della mia vita, tranne che d'ora in avanti sarà solo colpa mia. Come regalo di compleanno vado a teatro XP. Per poco stasera manco Roberto Bolle, peccato...

Spero vi sia piaciuto il capitolo! Commentate ^_^

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Capitolo 5
*** Mosca ***


Primo aggiornamento dell

Primo aggiornamento dell'anno! Il 2007 porterà molti cambiamenti nella mia vita, speriamo in positivo ^_^...

Per Fuuma come al solito un grazie particolare, Grazie per il commento! La prossima città è---

Москва. E' una delle ultime un po' tristi, lo giuro. Il tema del Giorno: Solitudine.

 

V.

[Mosca; Ventuno Novembre 2006, 19.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una confusa sera di Novembre che sembrava fondere il blu del suo cielo con l’abbaglio delle luci colorate della città, accese e palpitanti ai bordi delle immense strade affollate.

Ekaterina camminava barcollando per le vie del centro, aggrappandosi alle cose e alle persone che scorrevano veloci attorno a lei. Guardò l’orologio e non capì molto bene. Credeva fossero le sette e cinquantotto, ma non poteva dirlo con assoluta sicurezza, perché ogni dettaglio reale della città e della gente che incontrava le sembrava estremamente vago, confuso, dilatato, fuori posto. Aveva la strana sensazione di stare oscillando come una nave in piena tempesta, eppure non lo voleva, non lo desiderava, si diceva solo di camminare dritta per tornare a casa – sempre avanti per quello stradone, giù nel sottopassaggio senza scivolare dalle scale, il primo treno verso una meta che, al momento, le sembrava di aver dimenticato.

Non sapeva nemmeno più cosa le fosse successo. Si era scordata ogni cosa? Scuoteva un po’ troppo la testa. Aveva la strana, disarmante sensazione, di non essere in grado di arrivare a casa da sola.

In quel momento scendeva i gradini della scala maestosa. La sua mente aveva perfettamente chiaro il piano della Novoslobodskaja, ma questa esaustiva visione si fermava dentro le sue mura. Era una costruzione grandiosa, questo lo sapeva. Una delle più vecchie stazioni di Mosca e una delle più vecchie metropolitane del mondo. Ricordava vagamente di averla studiata in qualche corso di architettura. Non era strano. Le stazioni della metropolitana moscovita sono quasi sempre delle opere d’arte grandiose. Percorse pochi metri della galleria buia che si incuneava nella terra e sentì di lontano, ovattato dal rumore della gente che le scorreva accanto senza fermarsi, senza conoscerla, senza guardarla, lo sferragliare stridente dei treni che andavano e venivano come la sua memoria.

Possibile che nessuno si accorgesse del suo malessere? Avrebbe voluto gridare, ma non ne aveva la forza. Si accasciò con un rantolo contro il muro freddo, rassegnata all’idea di non ricordare dove dovesse dirigersi.

Gli occhi della gente erano freddi e vuoti. Ekaterina aveva la paura di folle di essere schiacciata da un treno che all’improvviso deragliasse dal suo percorso ordinario, o dal soffitto della stazione che sembrava così solido, eppure sprofondava nelle viscere della terra di molti metri raggelanti. Sotto quelle volte chiuse si sentiva quasi seppellita in una maniera improbabile ed imprevista. Era come una gigantesca oltretomba scintillante popolata da mille spettri trasparenti che scivolavano via nell’indifferenza più totale e disarmante.

Aggrappata a quel muro, agonizzava. Le pareti della stazione la confortavano modestamente col loro blu violento e le loro vetrate simili a quelle di una chiesa cattolica. Proprio come nelle cattedrali che aveva visto in Europa, quelle dove non esistevano icone dorate e tutte uguali, e dove la messa era celebrata per tutti su un altare rialzato, non all’interno di una strettissima, celata iconostasi. Nel vuoto annegamento della sua ragione si aggrappava alle figure ammantate di splendore e tutte uguali della tradizione ispirata ortodossa. Aveva sempre pensato che emanassero una luce più pura ed una magnificenza sconosciuta ai marmi candidi di Michelangelo e alle tinte sfumate di Leonardo. Quell’alone di sacralità e di staticità ieratica le sembrava un piccolo, fulgido punto fermo in un mare turbolento.

La sua testa scoppiava. Ekaterina non vedeva più nulla. Mille persone le passavano davanti come trascinate via dalla corrente di un fiume che scorre in piena, e se ne andavano senza aiutarla, senza compatirla. Le mancava il respiro. Allora le sembrava già di soffocare. La testa le girava ed il cuore le batteva forsennatamente nel petto, sentiva il corpo pulsare ed un calore innaturale invaderle le membra. Appoggiò la fronte al marmo freddo sperando di ricevere conforto.

Un blu accecante le penetrò gli occhi, il cervello. Non ricordava – niente. Non capiva – niente. E nessuno si accorgeva della sua piccola, disperata battaglia condotta contro il pavimento di una scintillante stazione della metropolitana, così piena di persone, eppure così deserta di anime.

Urlò con tutto il fiato che aveva in gola quando la sensazione di orrore raggiunse il suo culmine e si accorse di non riuscire più ad aprire gli occhi. Cadde contro il pavimento in un tonfo sordo coperto dall’insopportabile stridio del treno che arrivava. Il deliquio si impossessava di lei. Sentiva tutto, anche se il suo corpo non si muoveva, non si alzava, non rispondeva alle sue sollecitazioni. Sentiva anche che, finalmente, qualcuno le si stava avvicinando per scuoterla.

Ekaterina aveva imparato una lezione fondamentale. Nell’agonia della sua inerzia aveva scoperto un dolore terribile, una sofferenza lancinante prodotta dalla svogliatezza, e questo peccato si chiama solitudine. La solitudine aveva bussato alla sua testa distrutta e l’aveva abbandonata lì, sul pavimento gelido della Novoslobodskaja, in un’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi di Novembre, che con la sua indifferenza e la sua noncuranza le scivolava addosso e la dimenticava dentro agli abissi dell’incubo.

 

[Oh, Solitude]

 

___

Ho scelto la stazione di Novoslobodskaja (Credo si scriva Новослободская) perché ha queste pareti che mi hanno ricordato le nostre chiese. Le chiese mi piacciono in un modo paradossale dal punto di vista artistico. Le vetrate soprattutto. Così era piuttosto vicina alla mia immaginazione, anche se il suo nome è immenso. E poi mi piace la Russia, il Russo e tutte queste cose. Studierò il Russo, credo.

Oh, Solitude è una canzone di un gruppo strano di cui non ricordo più il nome, scusate...

Buona Befana a tutti XP

 

 

 

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Capitolo 6
*** Milano ***


Ehi

Ehi, se c'è ancora qualcuno sintonizzato... ciao! ^_^ Nuovo capitolo. Un po' malinconico. Come potete vedere è il primo capitolo dopo la metà, il che significa che ora cominciano i collegamenti. Questo va di pari passo col primo, è la situazione speculare e contrapposta.

 

VII.

[Milano; Ventuno Novembre 2006, 17.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un piovoso pomeriggio di Novembre celato da una nebbia opalescente e perlacea. Fuori dalle imponenti vetrate di Malpensa la visuale era interrotta dalla coltre di foschia impenetrabile che sembrava incantare ogni cosa.

Andrea guardò l’orologio del tabellone. Erano le sei. Le cinque e cinquantotto. Ora Vittorio doveva proprio andare, aveva procrastinato fino all’ultimo minuto. Andrea aveva sempre pensato che l’aeroporto fosse molto freddo, ma non immaginava potesse diventarlo fino a quel punto. Rabbrividiva di una sensazione penosa e disperata. In un certo senso si vergognava del malessere che lo scuoteva e lo squassava, trascinandolo quasi sull’orlo del pianto. Ma  non poteva farci nulla. Non riusciva davvero a reprimere quello sconforto, quella sofferenza pungente che si insinuava ora nei suoi occhi, nel suo petto, e che si manifestava finalmente nel suo cervello. Andrea era sicuro che ci fosse sempre stata. Da quando aveva saputo la data, non aveva fatto altro che pensarci, ritornarci con la testa sempre un po’ più vuota e pesante. Ma non era mai stato il momento. Tutto quello che lo aveva spaventato si era sempre mantenuto a una certa precaria distanza. Anche solo un’ora, anche solo un giorno in più, un giorno di distacco, un giorno ancora. Non c’era più tempo ancora. Vittorio doveva prendere quel maledetto aereo e lui non poteva nemmeno passare la barriera per accompagnarlo fino alla fine del percorso.

Guardò per l’ennesima volta in pochi secondi lo schermo che segnalava l’avviso di imbarco per il volo delle sei e ventidue diretto a Monaco. L’altoparlante scandiva quella stessa struggente condanna con voce distante mille anni luce ed indifferente ad una lacerazione tanto profonda.

- Idiota! – Si disse Andrea. – Va solo a Monaco. È vicino. È molto più vicino di altre città in Italia. Cretino, cretino, cretino. Non emozionarti. Cretino. –

Si era già emozionato. Aveva gli occhi lucidi. In fin dei conti, pensava, con Vittorio aveva trascorso praticamente tutti i diciannove anni della sua vita. Salivano persino le stesse scale insieme. Abitavano nello stesso condominio, allo stesso pianerottolo, dietro le due porte vicine numero 123 e 124. Dopo una sorta di convivenza forzata così duratura la sola idea che lui se ne andasse a Monaco forse per sempre lo destabilizzava e lo sconvolgeva. Vittorio era un fratello. Non è giusto dire addio ai propri fratelli.

In quel minuto speso in silenzio, tra sguardi imbarazzati e parole sospese nell’aria, circondati dal rumore di gente che scorre e se ne va, immersa nelle proprie faccende, nelle proprie priorità, nella propria frenesia, Andrea rivisse teneramente molti bei momenti di quell’amicizia strana, un po’ morbosa, forse, e decisamente insormontabile. Si ricordò quando erano piccoli ed andavano all’asilo insieme, si ricordò il primo giorno di scuola quando si vergognava per il fiocco blu del suo grembiulino, quando avevano fumato insieme la prima sigaretta e quando per la prima volta si erano ubriacati sulle scale del loro palazzo. Si ricordò di tutte le altre persone a cui aveva voluto bene, ma che inevitabilmente erano scorse accanto a lui, accanto a loro, senza causare un minimo di quella sofferenza atroce, senza lasciare ricordi scintillanti, malinconici, nostalgici, tristi, senza scavare quel vuoto e quello stordimento infantile. Molti, rifletteva, erano entrati nella sua vita come un abbaglio, e se ne erano usciti in silenzio. A volte lasciavano un messaggio importante, a volte sbiadivano dalla memoria sostituiti da qualche nuova passione. Ma non Vittorio. Lui era una di quelle amicizie immortali, così aveva creduto fino ad allora, con le quali si condivide ogni cosa nuova per una strana, inspiegabile alchimia. Era un punto fermo della sua esistenza, la persona che aveva avuto di fianco quasi ogni giorno della sua vita, col suo tocco confortevole e la stessa sensazione di familiarità.

“Ehi, guarda che vengo a trovarti, ogni tanto.” Gli disse alla fine.

“Non è la stessa cosa.” Andrea guardava verso il basso.

“Anch’io vorrei tornare.”

“Ma se non sei nemmeno partito!”

“Allora non vorrei partire.”

“Non si può.” Ammise pesantemente.

“Ma ci si può sforzare di sistemare le cose in fretta. Ti prometto che cercherò di scappare da mio padre il prima possibile. Lo giuro.”

“Devi Andare.” Andrea non si spiegava neanche perché stesse cercando di sembrare laconico ed indifferente. Quel viso avrebbe potuto ferirlo nel momento peggiore, durante un addio così doloroso. Non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare, lasciarlo uscire dalla sua vita con idee sbagliate.

“Lo so.” Alzò le spalle.

Lo abbracciò. In quell’ultimo momento di calore confortevole Vittorio gli sussurrò: “Torno a trovarti tra un mese.”

Poi lo salutò. Definitivamente.

Andrea lo guardò allontanarsi dissolto da un mare di folla insignificante. Lo cercò con lo sguardo e, quando lo vide, lo salutò agitando la mano, disperato. Ora sapeva di stare per cedere alle lacrime, ma si trattenne finché lui non fu completamente sparito dai suoi occhi amorevoli e distrutti.

Si sentiva così – trascinato, sballottato, schiantato da una corrente invisibile e disumana. Quando si sedette su quella stupida poltrona scomoda, davanti a quello stupido schermo, in preda a quello stupido sentimento, capì di aver perso il legame forse più importante della sua vita per un semplice capriccio di estranei. Odiava quelle lacrime. Odiava quella stanza fredda. Odiava gli aeroporti, odiava la nebbia, odiava le città distanti e i chilometri che separavano gli amici. Odiava quella maledetta ora qualsiasi di Novembre di quel giorno qualsiasi di Novembre per aver rovinato con la sua impassibilità mortificante la cosa che con più cura si era costruito in una vita intera, e che ora giaceva in frantumi sul pavimento di Malpensa.

 

[Distanze]

 

___

Dedico il capitolo al mio Raggio-di-sole, che mi ha ispirata inconsciamente per questa storia triste. Con lei ho frequentato asilo, elementari, medie, superiori, scuola guida (anche se solo per due settimane) e sicuramente saremo insieme pure in università. Quindi capisco questo genere di legami stabili. Sono un po’ triste. Grazie Lisa per avermi sopportata diciotto anni –forse di più-. Tu sei davvero coraggiosa.      

E grazie a tutti voi se avrete letto, se commenterete ecc ecc ecc

 

AVVISO - sposto di nuovo la storia nella sezione Generale. Se la cercaste qui e non la trovaste più sapete perché XP. Scusate se continuo a muoverla, ma non so neanche io dove stia meglio.

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Capitolo 7
*** Tokyo ***


Questo capitolo sta esattamente a metà della storia è

Questo capitolo sta esattamente a metà della storia è___é. Sono già a metà, che tristezza. Oggi c'è una nebbia che non si vede a dieci metri, è molto deprimente. Non so se qualcuno di voi abita nelle lande lomelline come me, ma è così freddo e così grigio... A parte questo, mille grazie a FaN_nOe per la sue recensione, e mille grazie anche a chi legge e basta.

 

VI.

[Tokyo; Ventidue Novembre 2006, 05.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un’ora antelucana di una mattina di fine autunno, così presto che nemmeno la luce solare dipingeva l’orizzonte dei bagliori rosa e arancioni dell’alba. Il buio si espandeva ancora per le vie di Tokyo, stendendo il suo sudario di sonno e di quiete sui grattaceli moderni, sulle strade illuminate, sul cemento addormentato.

Tsugumi si voltò su un fianco, abbagliata dalla luce blu delle sveglia analogica che segnava le sei di mattina. Le cinque e cinquantotto. Entro poco tempo si sarebbe alzata per studiare letteratura.

Venne assalita da un’irritazione convulsa e schiacciò il cuscino contro il suo volto. Odiava l’insonnia. Odiava quelle notti in cui si sdraiava talmente stanca nel suo letto che non riusciva a prendere sono nemmeno per un istante. Odiava ritrovarsi a fissare il soffitto e a rigirarsi per ore tra le pieghe delle lenzuola sempre più disfatte e sempre più scomode, pensando fino a stordirsi, un senso di fastidio crescente nel petto che la punzecchiava e la manteneva desta contro la sua natura e la sua volontà, quell’ansia che le impediva di tranquillizzarsi e rimanere ferma nella stessa posizione. Odiava chiudere gli occhi, esasperata, ed aprire la mente ad ogni ricezione, ad ogni minimo rumore – il suono dell’orologio, la sirena di un allarme, il chiasso di un’auto in corsa, lo sferragliare di un treno, il tintinnare le chiavi del vicino che rientra tardi la notte. Ogni cosa la urtava cento volte più del normale.

In certi momenti, però, l’insonnia non era solo frustrante. Durante le sue infinite notti in bianco, spaventosamente dilatate in una percezione temporale che si dilegua nell’ubiquità e nell’immensità dell’alone notturno, rapita da quell’indefinita incoscienza e dal leggero delirio sfocato che sta alla base del sogno, ma che non è ancora riposo, Tsugumi poteva pensare fino a farsi venire il mal di testa. La sua mente procedeva in maniera lenta e contorta, scopriva territori che la notte rende sconosciuti ai dormienti. In un certo senso si sentiva più fantasiosa. Era come se avesse immense opportunità di riflettere, di immaginare, di dissipare, di creare. Per questo sentiva di poter penetrare più a fondo le cose, in una maniera molto soffusa, quasi pazzesca, folle, vincolata all’assurdità e alla vaghezza del sogno. Quel dono sottile confortava le sue notti bianche. Le piaceva pensare che se non avesse sofferto di insonnia non avrebbe scoperto per sé molte cose: non si sarebbe mai appassionata alla letteratura, non avrebbe capito di essere affascinata dall’arte e dalla filosofia semplicemente perché non avrebbe avuto il tempo materiale di fermarsi a respirare e a pensare ciò che nell’arco di una giornata frenetica non trova spazio. Un po’ provava pena per tutte quelle persone che non riuscivano a ritagliare un minuto per dedicarsi alle loro passioni, sommerse dai doveri e dalle contingenze. Lei non riusciva a dormire ma poteva inseguire sogni ad occhi aperti.

C’erano molte cose su cui Tsugumi rifletteva con attenzione – in particolare le piaceva cercare di analizzare il Tempo. Il Tempo, davvero, era un argomento che la affascinava con quel gusto tutto oscuro dell’ignoto, dell’insondabile, dell’imprescindibile, con quella parvenza di mistero che disegna le entità metafisiche sopra la testa dell’umanità. Si chiedeva se a volte il Tempo non scorra in modo diverso per ciascuno, a seconda della propria predisposizione, o se fosse già stato stabilito in un certo disegno escatologico. Si domandava se esistesse un Tempo univoco o semplicemente tanti diversi Tempi quanti sono gli esseri umani, se il Tempo  fosse un meccanismo indefinito ed interno oppure una realtà misurabile e quantificabile.

In quel momento Tsugumi pensava che miliardi di persone nello stesso istante stavano respirando, stavano vivendo lo stesso Tempo. Persone che non avevano nulla a che fare l’una con l’altra, persone che non si sarebbero mai viste e mai incrociate durante una vita intera e che, magari, provavano la stessa emozione agli angoli del mondo, senza poter venire a sapere di questa straordinaria comunanza. Pensava che nello stesso istante, forse, in America stava nascendo un bambino e a Seul stava morendo un nonno. Pensava che, per compensazione, qualcuno era splendidamente felice, qualcun altro si stava suicidando. Pensava che per un uomo dimenticato ce n’era necessariamente un altro riscoperto, e che per tutte queste cose ne esistevano un milione di altre, un miliardo di altre, dipinte ognuna dalla stessa sfumatura di umanità. Forse, in qualche letto, rannicchiata sotto le lenzuola calde, una ragazza sul confine tra la veglia ed il sogno stava pensando proprio le medesime cose.

A Tsugumi sembrava grandioso. Un gigantesco meccanismo era appeso ai confini del mondo e muoveva ogni persona, ogni essere, in direzioni del tutto impreviste verso un progresso inarrestabile, verso un futuro che divora il presente e che dimentica il passato. Forse era Dio, forse era semplicemente l’Eternità. Questo non lo poteva sapere. Capiva solo che gli uomini erano legati tutti quanti dallo stesso filo sottile, rosso, fragile, e poggiavano sulla stessa base di cristallo delicato.

Alla fine Tsugumi non credeva che quella mattina fosse stata davvero inutile. Nell’indifferenza del suo stordimento aveva per una volta riflettuto su un disegno così vasto da oscurare il cielo. Non aveva idea di cosa stesse succedendo nel resto del mondo, di quale magia lo stesse incantando. Non si immaginava quanti sentimenti battessero nel cuore di Tokyo che si destava lentamente, di quanto amore e di quanta morte si stessero riversando per le strade in quell’ora qualsiasi di quel giorno qualsiasi di Novembre, col suo mistero, col suo attimo bloccato, col suo vincolo strettissimo tra ogni creatura vivente.

 

[Drowsiness]

 

Brr... nebbia agli irti colli...

Commentate eh!

Love-in-idleness

 

 

 

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Capitolo 8
*** New York ***


Sono tornata

Sono tornata, ahah! Ho avuto qualche problema col piccy, che in realtà è ancora irrisolto, per cui il compuetr è ora gentile disponibilità del mio fratellaccio (che me lo ha concesso solo perché è a letto con trentanove di febbre, povera stella..)

By the by - il nuovo capitolo. Luce Artificiale. E' la morte vissuta in maniera totalmente inversa rispetto a quella del capitolo II, qui è tutto dominato dalla luce, mentre prima c'era solo notte (Vi ho fatto l'analisi del testo, scusate). Commentate, per favore ^_^

VIII.

[New York; Ventuno Novembre 2006, 08.58]

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una mattina trasparente di Novembre, durante la quale il cielo, trapassato dalle guglie moderne degli enormi palazzi, si dipingeva lentamente di etere e di chiarore.

Beth guardò il suo orologio. Erano le nove. Le otto e cinquantotto, e zero secondi.

- Esprimi un desiderio: - Si disse. – Vorrei scappare dalla mia prigione di luce artificiale. – Giunse le mani in un gesto di distratta preghiera, e, ridendo frivolamente, si lasciò cadere sul letto.

Invidiava un po’ le persone che potevano passeggiare nel parco avvolte dalla luce diafana delle otto di mattina, scosse dalla brezza pungente, dirette chissà dove, chissà per quale scopo. Una cosa che avrebbe da sempre voluto fare era uscire in camicia da notte dall’ospedale, scendere al chiosco che vedeva sotto la sua finestra, comprare un caffè e berselo leggendo un giornale, seduta silenziosamente su una panchina qualsiasi. Se lo immaginava spesso come un piccolo sogno naturale – si vedeva sorridere timidamente, il volto illuminato dal suo pallore, le chiome dei grandi alberi scosse da aliti di vento freddo e mille foglie colorate che piroettavano sospese nell’aria fino a posarsi sul suolo umido della notte appena trascorsa.

Ritornò curiosa a spiare il mondo dalla sua piccola finestra. Socchiuse gli occhi, scrollando un po’ il capo. All’improvviso si ritrasse con orrore e si sedette sul letto disfatto.

La visione del paesaggio quieto sotto la sua finestra era stata abbacinante, l’aveva colpita ed accecata con una violenza che non si sarebbe mai aspettata dai raggi di sole freddi e limpidi della prima mattina autunnale. Fuori, li aveva visti cadere e schiantarsi sui colori delle foglie e del prato, così violenti, così investiti di una forza e di una vitalità misteriose, ed al contempo così caduchi e prossimi alla morte. In un certo senso, legata a quel letto ed abbandonata in quella stanza, si sentiva quasi come una foglia sul far dell’autunno, debole e rossa, fragile e bellissima.

Si rialzò di nuovo, si avvicinò alla tenda, la scostò con delicatezza, e, socchiudendo gli occhi stanchi sull’esterno scintillante, sorrise ancora con una certa dolcezza. Forse aveva visto un colore che le piaceva più degli altri, forse, dall’alto della sua torre d’avorio, aveva scorto un volto tra le moltitudini che transitavano sotto di lei, che per un istante l’aveva fatta innamorare. Un’estasi misteriosa la trascinava fuori dalla sua piccola stanza claustrofobica e le faceva esplorare un mondo precluso. Si ricordò una frase all’improvviso, una frase particolare e magari senza senso, si ripeté nella testa: Homme, la saison de ta migration n’est pas encore venue. O forse per lei era arrivata?

Beth era piuttosto sconvolta. Sapeva perfettamente dove la portava questa corrente di pensieri, ci aveva riflettuto molto tempo stancandosi fino ad addormentarsi. Ma quella mattina si era svegliata con il desiderio impellente, irrefrenabile di uscire dalla sua gabbia, di riguadagnare la sua libertà, la sua vita. Come una foglia sbattuta dal vento sul terreno bagnato di un prato autunnale.

Trattenne il respiro per un secondo che gli sembrò eterno. Il suo cuoricino stanco batteva paurosamente forte. Tra i corridoi della clinica si espandeva solo un denso, pesante silenzio.

- Non vogliono farmi uscire? – Si diceva, -Allora cercherò una via, una strada alternativa che mi porti ad esplorare nuove regioni del mio spazio. -

Gli occhi le scintillavano con lo stesso barlume di pazzia delle sue crisi. Solo che non c’era più un medico. Non c’era più un’infermiera. Non c’erano più nemmeno i suoi genitori amorevoli. C’erano solo Elisabeth e la sua urgente voglia di caffè, di sole, di aria aperta.

“Non posso più –” Mormorò. “Non vedi che non posso più sopportare questa luce artificiale? O no? – No. La stagione della tua migrazione non è ancora arrivata! Allora devi rimanere qui ed aspettare un segno che spalanchi per te le porte della conoscenza ed i cancelli dell’eternità – Ma io non riesco a sperare ancora, e ancora, mentre tutto il mondo scorre sotto il mio sguardo assente e vive anche la mia vita! Io sono come quelle foglie che stanno sugli alberi ma sono già morte, e che raggiungono la loro massima bellezza, la loro gloria suprema solo nel momento della loro caduta! – Tu non sei come le foglie.” Beth si prese la testa scossa tra le mani e strinse gli occhi quasi dolorosamente. Sembrava che il bianco nitido ed asettico di quella camera d’ospedale la stesse ferendo interiormente e spezzasse un incantesimo importante per la sua preservazione. Gridava, ormai, in preda a qualche delirio: “Tu non sei come una foglia che muore! Non cadrai in questa vertigine! – io sì, posso cadere, e posso liberarmi dalla mia prigione d’avorio. Posso ricominciare a vivere ed essere immensamente bella nel momento in cui il mio corpo prenderà il volo verso l’ignoto – la tua migrazione – “

Beth fu interrotta. Il dottore entrò di corsa assieme a due infermiere nella camera della ragazzina gracile e sofferente, traslucida nella sua malattia come una sfera di alabastro. Ma lei non li vedeva più. Li guardava sospesa sul cornicione, ma passava loro attraverso, come se non fossero lì, o fossero solo dei miraggi lontani di qualche parvenza astratta. Sorrise di nuovo con quel suo sorriso gentile e un po’ frivolo, dicendo: “Non posso vivere qui. Io non sopporto più la vostra luce artificiale.”

Si lasciò scivolare oltre l’orlo estremo, e cadde con un tonfo sordo contro il prato verde, macchiato qua e là dei colori delle foglie autunnali. In quell’istante, mentre pensava alla sua elevazione, alla sua liberazione, Beth si sentiva veramente felice –aveva trovato una vita in quella morte perfetta, silenziosa, aggraziata, esteticamente bella, si era liberata della sua prigione e della sua esistenza simulata. Ricominciava a respirare, si disse, in un’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, trafitta dall’aria fredda dell’autunno newyorkese e dalla luce vera del sole del mattino.

[Lux Artificiale]

___

"Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora venuta" - Chateaubriand, Réné.

Fine del capitolo... io non lo vedo come drammatico, questa mi sembra una happy ending, ma è un parere personale. Grazie a Federico che lo ha letto e ha detto che di tutti e dodici è il migliore. E scusate se continuo a cambiare sezione, ma sono una disordinata mentale. Questa è l'ultima volta, lo giuro, lo giuro, lo giuro.

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Capitolo 9
*** Parigi ***


ACHTUNG

ACHTUNG! – Da fan spassionata dello slash questo capitolo non poteva che essere più lungo degli altri. Niente cose scabrose, sorry. Ma credo sia abbastanza dolce. Siete avvertiti, quindi. Saltatelo se la cosa vi infastidisce, leggete solo questo se preferite, in ogni caso ^ ^ per favore ^ ^ lasciatemi un commentino. Grazie mille.

 

L’orologio

 

X.

[Parigi; Ventuno Novembre 2006, 16.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un ventoso pomeriggio di Novembre che con la sua aria fredda spazzava in vortici fruscianti dal selciato del Lungosenna le foglie colorate cadute dagli alberi.

Julien guardò l’orologio per l’ennesima volta, segnava le quattro e cinquantotto, quando finalmente vide Audric avvicinarsi sorridendo in mezzo al traffico e ad una moltitudine di gente sconosciuta. Il giorno stava quasi declinando nello splendore immaginifico della stagione pitturata di mille tinte violente e vagamente allegre – per questi ambivalenti giochi di luce, per questo suo calore crepuscolare, per questa aria frizzante e viva, per questo fascino di misteriosa decadenza Julien amava l’autunno, e tra le sue spire si sentiva a proprio agio.

“Scusa!” Gridò Audric dall’altra parte della strada, tentando di attraversare. Julien lo freddò col suo sguardo glaciale non appena fu accanto a lui, accusandolo con gli occhi: sei in ritardo!

“Scusa,” Ripeté più a bassa voce Audric. “Lo so. Mi sono fermato un attimo sul Montebello – ho visto tutti quei libri e sono impazzito. Guarda!” Gli mostrò due vecchi libri usati dalla copertina logora e dalle pagine disfatte, ingiallite, consunte. La rilegatura era inesistente. “Oh, quel bouquiniste aveva delle cose straordinarie, tutte delle opere favolose, e un Contratto Sociale che secondo me valeva un sacco –  ho preso Condillac perché era un prezzo buonissimo e – aspetta – e Le due fonti della morale e della religione – lo so che non c’entrano niente tra loro, ma –“

“Audric!” Lo richiamò.

“Cosa c’è! Potrei trovare anch’io un Jacques le fataliste tra quegli scatoloni. Non prendermi in giro.”

“Audric è stupido comprare più libri di quanti tu abbia il tempo materiale di leggere.”       

Audric lo guardò vagamente accigliato appoggiandosi al parapetto che dava sul fiume. Julien conosceva perfettamente la sfrenata passione che lui aveva per i libri e l’impeto col quale si cimentava nella lettura.

Julien si sentiva anni luce diverso e quasi incompatibile a lui –austero, distaccato, calcolatore, irreprensibile, infuocato solo dalla politica e dalle questioni sociali; mentre Audric era il perfetto compendio tra le sue idee e la moderazione del dialogo, sempre sorridente, gentile, dolce e disponibile. Tra loro c’era la differenza che passa tra un giornalista ed un filosofo, o tra uno studente di giornalismo e uno studente di filosofia. Per tutta questa sua affabilità Audric riusciva a metterlo a suo agio. Julien si rendeva perfettamente conto di essere una persona difficile, talvolta scostante. Era fiero di sé fino alla vanità più orgogliosa.

Lo squadrò per un secondo mentre, distratto dai pensieri soffusi dei veri sognatori e dei convinti idealisti, posava con noncuranza il suo sguardo su qualche dettaglio remoto della strada. Il sole calante, ancora vivo nel cielo di una certa luce, spandeva sui suoi capelli castani riverberi d’oro e rischiarava i suoi occhi di un bagliore quasi infantile. Le guance erano arrossate dal vento pungente, le labbra nascoste dall’ingombrante sciarpa verde, le sue belle mani chiuse nelle tasche del cappotto per ripararsi dal freddo, i libri sempre amorevolmente sottobraccio. In quel momento Julien credeva che il suo amico potesse amare quei suoi due nuovi tesori molto più di quanto amasse lui.

Non sapeva neanche cosa dire. Si sentiva tremendamente in imbarazzo per la pesantezza delle parole che gli riverberavano in testa con un’eco agghiacciante. Allora si limitò a guardarlo appoggiato di fianco a lui sul parapetto. In realtà lo stupiva molto vederselo accanto. Non era veramente arrabbiato per il suo ritardo, Audric era svogliato e distratto, ed era sempre in ritardo; era già abbastanza contento che fosse arrivato. Fino al giorno prima si erano sempre trovati lì, davanti al Petit Ponte, dopo le lezioni in università, per passare un po’ di tempo in qualche caffè del Quai St. Michel e studiare insieme argomenti interessanti, o semplicemente discutere. Ma dopo quello che era successo la sera precedente non si aspettava veramente più nulla. Mentre attendeva immobile e bello come una statua una persona che forse non sarebbe mai arrivata, si diceva che doveva davvero essere uno stupido per sperare di rivederlo spuntare tra la folla con quella sua foga un po’ buffa e divertente, e corrergli incontro con qualche nuovo libro.

Però Audric era arrivato davvero. Questa consapevolezza l’aveva colpito con una strana sensazione di gioia inesprimibile. Non voleva rovinare un altro momento con delle parole vuote, vane, inutili, che si sarebbero perse tra i flutti gorgoglianti della Senna. L’ultimo minuto gli era sembrato abbastanza complicato anche nel silenzio.

Forse Audric si accorse dello sguardo dolce posato su di lui. Si voltò lentamente, quasi imbarazzato, ancora più rosso sulle gote di quanto non lo fosse per il freddo. “Senti –“ Sussurrò in un tono così basso che non era da lui. “Io – riguardo a quello che mi hai detto ieri sera –“

Julien si colpevolizzava e nell’arco di cinque pesantissimi secondi di pausa formulava le ipotesi più tragiche e devastanti che potessero venirgli in mente: si aspettava un’accusa, una predica, una derisione. Abbassò gli occhi sul marciapiede.

Audric continuò: “Io non so se – insomma, tu sei sempre così freddo e sembri insensibile, indifferente a ogni sentimento umano e –“

“No!” Esclamò all’improvviso. “Non è vero.”

“Ora lo so.”

Tacquero per qualche secondo ancora. Le campane della cattedrale battevano le cinque, ma Julien, nella sua precisione smodata, sapeva che era ancora quello stesso lungo, interminabile, soffocante minuto dilatato.

Audric si avvicinò lentamente. Julien rimase fermo. Non poteva credere a nulla. Aspettò che l’altro appoggiasse la mano libera sul suo fianco e le labbra sulle sue. Solo quando sentì il fiato di Audric sulla sua pelle poté finalmente decidersi che, no, quella non era una delle sue tante illusioni, ma il suo migliore amico che, dopo tutto ciò che era successo, lo stava baciando – e lo stava baciando in riva alla Senna, in mezzo ad una marea di gente curiosa. Sapeva di cioccolato. – Non si è fermato solo dai bouquinistes. – Pensò, prima di abbandonare totalmente la sua razionalità.

Audric non si rese conto di niente. Anche lui aveva dimenticato ogni cosa – dove si trovasse, con chi fosse, perché era lì, come ci era arrivato, cosa avesse in mano. Alzò il braccio sbadatamente e i suoi magnifici libri gli caddero dalla presa affettuosa.

“No, no, no!” Gridò interrompendo il bacio per lanciarsi sui suoi tesori. Afferrò Condillac per l’angolo della copertina. “Il mio Bergson!” Piagnucolò appoggiato al parapetto, vedendo il libro cadere dalla banchina e scomparire inghiottito dalle acque tumultuose del fiume.

A Julien girava la testa in un modo che fino a pochi minuti prima avrebbe considerato patetico, e che ora gli sembrava soltanto meraviglioso e scintillante. Anche se guardando Audric disperato, pensava: - Davvero ama i suoi libri più di me. -, si sentiva felice in una maniera che aveva conosciuto poche volte nella sua esistenza. Capiva che per lui era nata una prospettiva del tutto nuova, che si era insinuata dolcemente e candidamente nella sua vita in quell’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi di Novembre, mentre la Senna trascinava via del tempo futile e delle indecisioni ormai dimenticate.

 

[Baiser]       

___

Ok, ok, lo ammetto. Questi due fanciulli sono spudoratamente ispirati da Enjolras e Combeferre, per chi abbia letto Les Misérables. Scusatemi, ma sono davvero triste. Una non si legge milleduecento pagine di libro per veder morire tutti i suoi personaggi preferiti nel giro di sei righe. È qualcosa di frustrante. Comunque qui vorrei aggiungere due note: i bouquinistes sono i venditori di libri usati e stampe che hanno bancarelle soprattutto sulla la Rive Gauche, cioè il centro di Parigi, davanti all’Île de la Cité. I libri citati sono tutti francesi. Audric è un gran nazionalista. Quel Jacques le fataliste è un manoscritto di Diderot ritrovato inedito proprio in una di queste bancarelle, per ciò Audric dice che tra le scartoffie si possono anche trovare dei tesori (e comunque i libri sono tesori a prescindere).      

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Capitolo 10
*** Bergen ***


Nuovo capitolo

Nuovo capitolo! Questa volta parliamo ancora dei Morti... Buona lettura.

IX.

[Bergen; Ventuno Novembre 2006, 15.58]

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un pomeriggio come molti altri in autunno – fosco, ventoso, precario sul cielo di Norvegia.

Marja guardò distrattamente il suo orologio mentre percorreva il Sundts Gate – erano le quattro, le tre e cinquantotto, ed il sole sbiadito e labile dell’inverno del suo Nord le splendeva sulla faccia facendo scintillare i suoi capelli biondissimi di strani riflessi cangianti. Il vento si rinforzava. In quel momento svoltava l’incrocio alla sua destra e scendeva dalla bicicletta che parcheggiava davanti alla Nykirke.

Si fermò per un istante, respirando a pieni polmoni l’aria che il gelo purifica e rende più lucida, più intensa. Guardò la muratura della chiesa solenne pensando che tutto un breve viaggio affrontato per arrivarvi le era parso una trasmigrazione infinita, un pellegrinaggio senza meta, senza traguardo. In un certo senso avrebbe voluto mantenere tra sé e quell’edificio la più grande distanza possibile, ma una parte del suo cuore ne era attratta con una veemenza, con un desiderio, con un bisogno che non riusciva mai a frenare. Così, perdendosi nelle sue idee e nei suoi bisogni, si era ritrovata un’altra volta per le strade della città, segretamente cosciente della direzione che stava prendendo: un itinerario che molte volte percorreva senza spiegarsi, ma che ricordava in maniera perfetta. Negava il bisogno fisico di quella chiesa anche a se stessa. Si diceva: - Vederla mi fa male. – Eppure ci tornava sempre, perché trovava rannicchiata dentro di essa una consolazione più grande di tutte quelle che il mondo avrebbe mai potuto offrirle.

Entrò nel recinto del cimitero guardando le nuvole scorrere veloci nel cielo, sospinte da una forza irresistibile, e quasi senza accorgersene si trovò davanti alla tomba di Magnus. Lei lo aveva sempre chiamato Magnus perché non era il suo vero padre, ma gli aveva voluto bene proprio come se l’avesse generata. Specialmente negli ultimi anni della sua malattia. Aveva cominciato a chiamarlo affettuosamente papà solo nel momento in cui l’avevano seppellito sotto strati di terra fredda e morta, nel prato prospiciente alla chiesa. In quel momento, Marja ricordava, le era sembrato di morire. Una strana sensazione di soffocamento si era impadronita di lei, un’angoscia miserevole si era abbattuta sul suo cuore, superiore a quella provata nel momento del decesso, quando aveva deciso di rimanergli comunque accanto, e di tenergli la mano per confortarlo fino alla fine.

Visitare la tomba di Magnus, non se lo diceva per vergogna, le piaceva. Le regalava un senso di gioia ed intimità che donano solo certe parole sussurrate in legami indissolubili. Ma ammettere di provare felicità nel parlare con una tomba la spaventava un po’, come se fosse una cosa morbosa, un’idea macabra. Spesso gli portava dei fiori, li posava sull’erbetta soffice e verde sotto cui riposava, e rimaneva incantata a guardare la pietra del suo epitaffio come se stesse scorgendo il suo viso scavato dalla malattia. Dolcemente sorrideva al suo nome inciso e ne accarezzava i tratti con la gentilezza che avrebbe adoperato per scostargli una fastidiosa ciocca di capelli dagli occhi.

Era una loro comunione particolare ed intima. Marja sapeva che il suo papà non la vedeva, che non avrebbe mai potuto sentire i suoi passi sopra la testa morta, ovattati da metri di terra desolata. Sapeva che non udiva le sue parole e che non avrebbe mai potuto risponderle quando gli chiedeva consiglio per le piccole cose di tutti i giorni. Magnus, lei se ne rendeva conto, era morto. Ma aveva conservato qualcosa di sé così lucente e così impressivo da lasciarla tutte le volte senza fiato – come se Marja potesse ancora intuire la sua immagine sotto il velo del sarcofago.

Si chiedeva spesso se quella strana corrispondenza fosse una vera sfaccettatura dell’amore più alto.

In realtà Magnus le mancava incredibilmente. Si calmava soltanto quando vedeva il sorriso familiare cesellato nelle lettere del suo nome. Ma non poteva farci nulla. Aveva imparato che le cose vanno e vengono, e la felicità è solo una sfera di cristallo scintillante e fragilissima. Le lapidi, invece, resistono per secoli. Nel cimitero fuori della Nykirke ce n’erano di molto vecchie. Alcune epigrafi della Mariakirke erano addirittura antiche.

- Le tue ossa scompariranno prima del ricordo sbiadito tracciato su questa pietra, - Si disse allora Marja, chinandosi sopra i resti di Magnus con infinito affetto e devozione. – E fino ad allora io sarò qui a parlare con te, a rivivere in questo incantesimo un po’ della pace che c’eravamo faticosamente ritagliati. -

Magnus non sarebbe più tornato caldo. Prima o poi anche una lapide si sciupa e si consuma. Ma per Marja quel tempo era ancora molto, molto lontano dalla visione del suo cuore, così vicina alla rimembranza, così prossima al dolore.

Nonostante il pensiero della sua mancanza prematura riusciva a sentirsi, in quel momento, cautamente felice. Non era pazza a parlare con una lapide. Era solo disperata. Si inginocchiò sul praticello umido e rimase a chiacchierare con della cenere in quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, finché molte nubi non furono transitate sopra la sua testa e non furono mutate in qualche altro paesaggio meraviglioso.

[Through the Grave]

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Un bacio a Crystal che ha commentato, e, sì, pure a me piace molto il capitolo due, anche se è deprimente. Grazie a tutti quelli che leggono. Il prossimo capitolo è il mio preferito *___* Andate a leggere la mia nuova fan-fic shonen-ai! Scherzo... Al prossimo capitolo, ne mancano solo tre!

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Capitolo 11
*** Copenhagen ***


Penultimo capitolo

Penultimo capitolo. La mia testa sta per esplodere sapete...

 

XI.

[Copenaghen; Ventuno Novembre 2006, 17.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un pomeriggio di fine Novembre che l’autunno dipingeva di un’oscurità prematura, avvolgendolo del rosso, del rosa, del giallo e dell’ocra di una tramonto infuocato sul Mare del Nord.

Sedendosi sulla panchina e lasciandosi andare alla vista aperta sul canale di Nyhavn, Eike guardò distrattamente l’orologio. Erano le cinque e cinquantotto minuti appena, e quelli erano gli ultimi secondi di luce di una giornata come tante altre.

Decise di rimanere su quella panchina, davanti a quel panorama, anche se non si sentiva più stanca, e di attendere nel suo posto ventoso e freddo un crepuscolo che sarebbe presto arrivato. Non lo voleva davvero. Desiderava il giorno perpetuo. Per quanto si sentisse romantica e per quanto, in certi versi, amasse il tramonto e la notte più di altri momenti della giornata, non poteva non constatare che Nyhavn raggiungesse la sua bellezza più grande nello splendore fulgido del sole, specialmente durante quei giorni rannuvolati, quando la luce filtrava lievemente scurita da una patina di grigiore evanescente – non del blu straordinario che si può ammirare nei cieli del sud, sopra i mari caldi, ma del blu cangiante, sfumato di malinconia che dipingeva i cieli sopra gli Oceani. - Questo colore mesto, opaco, - Pensava lei. – E’ più vivo sulla mia terra che un cielo turchino sul Mediterraneo. È come se lì fosse tutto secco, tutto prosciugato da un nitore abbacinante, mentre il nostro cielo Scandinavo, sfumato dalla pioggia, pulisce ogni cosa che tocca e regala al suo mondo uno splendore ed una riverberanza sconosciuti alle coste calde. –

In un certo senso era vero. Della sua Copenaghen, Friederike amava soprattutto i colori vivissimi. Era come se il cielo coperto e burrascoso e le piogge frequenti spazzassero via la polvere e la patina di offuscamento che a volte si depositava sulle cose. Non solo il cielo era più vivido. Le case erano più vivide, i parchi erano più vividi, le persone erano più vivide con quei capelli biondi e quegli occhi azzurrissimi, e una pelle tanto rosea e fresca.  

Tutto ciò impressionava molto la sua fantasia sfrenata. Quelle stesse tinte penetravano nella sua mente e vi rimanevano, diventando ricettacolo dei momenti della memoria. Eike collegava molte sensazioni e molti ricordi alle percezioni esterne, specialmente i colori così forti e luminosi della sua Danimarca. Non poteva non pensare all’azzurro sfocato senza essere colta da brividi di freddo, o al bianco totale senza sentire dentro di sé una sorta di perdita ed una vacuità misteriosa.

Per questo Nyhavn era così bella, splendida, scintillante nella sua testa – perché era magnificamente colorata. Ognuna delle facciate di quelle case di legno particolari e storiche, coi loro gialli, coi loro rossi, coi loro blu, coi loro verdi, le risvegliava una sensazione speciale, un senso caratteristico dentro il quale lei poteva perdersi con una facilità estrema.

Certe volte si fermava sola per quella strada affollata. Mille persone le scivolavano accanto senza curarsi della sua figura fragile immersa in contemplazioni profondissime. Le transitavano vicino e se ne andavano via senza disturbarla. Li amava per questo. Per la loro discrezione. Per la loro svogliatezza. Per il modo indifferente in cui si allontanavano e la lasciavano sola coi colori del mondo. Perché nonostante tutto Eike pensava fosse indispensabile, almeno una volta al giorno, ritagliarsi un momento di assoluta solitudine, di inesprimibile autarchia, e con questo vago distacco osservare al di fuori per riscoprirsi un po’ dentro.

Allora poteva fermarsi lì, su quella panchina, su quella strada, e credere di essere sola in un universo alternativo dominato da giochi di luce. Poteva guardarsi intorno e ricordarsi di quando era bambina, o immaginare del suo futuro, o semplicemente riflettere sul presente, nell’astrazione dolcissima dei sogni e delle aspettative ancora piene di fiducia.

Tutto questo, effettivamente, andava compiuto alla luce del sole. Nyhavn di notte era molto bella, era splendida, ma perdeva la veemenza magica insita nella sua luce fantasmagorica. Quando i lampioni si accendevano, si spegneva l’immaginazione di Eike. Allora lei prendeva le sue cose e si alzava distrattamente per tornare nella sua casetta tutta variopinta.

Per il momento rimaneva lì, sul limitare del giorno, intenta a godersi ogni attimo di quel fulgore in declino. Lasciava correre i suoi pensieri senza nessun freno e senza nessuna imposizione. Voleva solo respirare l’aria fredda.

Eike si sentiva decisamente bene. Quel minuto che si concedeva di tanto in tanto era come una zona immacolata della sua vita che, nonostante tutti i dolori, tutte le frustrazioni, tutta la felicità, preservava intatta la sua straordinaria, quieta serenità. Ed era così anche quella volta, in quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, che con la sua solitaria luminosità rischiarava, ancora per poco, il canale macchiato di mille colori indelebili.

 

[Contemplazione]

 

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Non so se avete presente Nyhaven. E' la via centrale di Copenhagen attraversata da un canale, e tutta colorata. Mi ha sempre affascinata...  

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Capitolo 12
*** Pavia ***


Sono una deficiente

Sono una deficiente, perdonatemi. Pensavo di avere finito. Lo giuro, ne ero convinta, e mi sentivo felice per avercela fatta prima della fine della scuola e delle vacanze.

Ma -

mancava un capitolo.

Scussaaaaaaaaaate Y____Y

 

 

XII.

[Pavia; Ventuno Novembre 2006, 17.58]

 

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un freddo pomeriggio di fine Novembre, imbiancato da un velo di nebbia soffusa che sembrava addormentare ogni cosa sotto una patina di sogno. Pensavo che quello strato bianco, perlaceo, sbiadito, potesse trasformarsi in un incantesimo millenario e preservare ciò che copriva dalla consunzione del tempo e del cambiamento.

Seduta sulla panchina fredda di granito ancora bagnata dalla condensa appesa nell’aria, aspettando qualcosa, qualcuno che non sarebbe mai arrivato, o, forse, semplicemente scappando un po’ dalla finitezza di certe situazioni, guardai l’orologio con una svogliatezza casuale. Il campanile della chiesetta si alzava davanti ai miei occhi e batteva le sei di pomeriggio, ma il quadrante del mio orologio segnava ancora le cinque e cinquantotto. Il mio orologio era giusto. Sicuramente. Era regolato non solo da una perfetta media tra le ore esterne, ma anche dalle mie contingenze e dai miei ritmi naturali. Ormai quell’ora, che non cambiava di nemmeno un secondo da anni, era entrata a far parte delle mie percezioni sino a condizionare i miei risvegli ed ogni altra azione della mia giornata; non come quel Ich che una volta si perse nella città, perché era sehr früh am Morgen.

In quel momento, in quel precisissimo istante, io non ero schiava di nessun concetto e di nessuna idea. Pensavo a una cosa pazzesca, banale da una parte, enorme dall’altra, abbastanza vasta da riempire le sale del mondo. Pensavo di stare vivendo quel minuto, quel minuto preciso, quei canonici sessanta secondi, in una maniera che mi sembrava individuale e personale, quasi intima, immersa nella solitudine della nebbia evanescente del mio paese, eppure, senza nemmeno accorgermi di rompere un guscio inesistente, condividevo con miliardi di altre persone la stessa irrefrenabile corsa verso il futuro, lo stesso inesprimibile slancio verso la vita, la stessa transizione fino alla morte.

Non era una concezione pessimista, o macabra, o distorta. Era una cosa semplice e perfettamente naturale, tanto chiara da non sconvolgermi nemmeno un po’. C’era un’idea che legava me e, inconsapevolmente, tutta l’umanità, tutto l’Universo – ed era il Tempo. Il minuto. Quel minuto: le cinque e cinquantotto.

Io non so se il Tempo sia solo la percezione umana di una coscienza dilatata all’infinito, o un’insieme di segmenti quantificabili posti uno accanto all’altro fino all’eternità, o un’impressione di esistenza intrinseca della nostra mente, non conosco nemmeno il modo in cui il resto del mondo concepisce il Tempo, se esista un Tempo, dieci Tempi, mille Tempi, tanti Tempi quante sono anime che vivono, e respirano, e avvertendo la loro esistenza si delimitano in una sfera temporale definita. So solo che si potrebbe bloccare un istante e trovare al suo interno la perennità, così come si potrebbe scoprire l’universo dentro ad un atomo infinitesimale. Allora sapevo anche che quel minuto cristallizzato nella mia testa avrebbe potuto produrre migliaia di risvolti inaspettati.

C’era una cosa che mi stupiva. Io ero seduta tranquilla ed infreddolita sulla mia panchina, semplicemente immersa in pensieri insignificanti – eppure, in quello stesso istante, sei miliardi di persone stavano vivendo sensazioni, emozioni, patimenti del tutto diversi dai miei. Forse semplicemente indifferenze lontane dalla mia atarassia. Era una sorta di humanitas tutta particolare.

Credo che questo meccanismo gigantesco sia regolato da una “Legge dei Contrasti”, una sorta di bilanciamento per ognuno. Non so se si chiami Giustizia o semplicemente Compensazione, ma senza contrari non c’è progresso. Mi sembrava plausibile che qualcuno condividesse i miei pensieri nello stesso momento in cui io li formulavo un po’ annebbiati e pieni di sonno e noia, come se ogni meditazione, ogni introspezione potesse viaggiare attorno al mondo attraverso il vento e toccare un milione di menti separate.

Probabilmente, in un angolo del pianeta, un’amicizia cominciava ed un’altra si spezzava; qualcuno portava il lutto, qualcuno ricominciava a vivere nel coraggio; qualcuno moriva, qualcuno nasceva; qualcuno si innamorava, qualcuno si dimenticava la passione; qualcuno viveva incubi abissali e solitudini incolmabili, qualcuno contemplava un paesaggio nell’assoluto isolamenti se stesso; e tutto ciò accadeva proprio lì, in quell’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi di Novembre, col suo autunno, con la sua nebbia, con la sua empatia e coi suoi pensieri dirompenti.

 

[Thinkin' Shift]

  

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