Fuoco nelle Tenebre

di Himenoshirotsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piano Folle ***
Capitolo 2: *** Assalto ***
Capitolo 3: *** Imprevisto ***
Capitolo 4: *** Frammenti di memoria- Arrivo a Sheelwood ***
Capitolo 5: *** La caduta e l'alleanza ***
Capitolo 6: *** Sopravvivenza ***
Capitolo 7: *** Verso l'epicentro ***
Capitolo 8: *** L'oscurità ***
Capitolo 9: *** Nella capitale ***
Capitolo 10: *** Fuori controllo ***
Capitolo 11: *** Frammenti di memoria- In difesa degli innocenti ***
Capitolo 12: *** Rivelazioni ***
Capitolo 13: *** Nuovi incontri ***
Capitolo 14: *** La guerra del centesimo solstizio ***
Capitolo 15: *** Nelle fauci del lupo ***
Capitolo 16: *** Frammenti di memoria- Vecchi legami ***
Capitolo 17: *** Rintocchi ***
Capitolo 18: *** Festa ***
Capitolo 19: *** Inseguimento ***
Capitolo 20: *** Il Cristallo ***
Capitolo 21: *** Identità ***
Capitolo 22: *** Sentimenti ***
Capitolo 23: *** Combattere ***
Capitolo 24: *** Lotta per la Vita ***
Capitolo 25: *** Il Male Minore ***
Capitolo 26: *** Frammenti di memoria- Giustizia ***
Capitolo 27: *** Risveglio ***
Capitolo 28: *** Nelle Mani del Destino ***
Capitolo 29: *** Il Mio Destino ***



Capitolo 1
*** Piano Folle ***


Boilerplate per Pagine storia

1

Piano Folle

"Corri, corri o ti prenderanno!" questo sussurrava la vocina nella sua testa.
Aminta obbedì e corse più in fretta che potè, cercando di non pensare ai tre inseguitori che le stavano alle calcagna. La distanza tra lei e loro era veramente insignificante e si accorciava di minuto in minuto, metro dopo metro. Ormai poteva sentire i loro respiri sul collo.
Destra.
Il corpo si inclinò pericolosamente, ma riuscì a non cadere. I muscoli delle gambe si irrigidirono per la fatica, ma doveva continuare, doveva, ad ogni costo.
Le tornarono alla mente le immagini di poche ore prima: gli abitanti del suo villaggio che fuggivano di qua e di là nell'intento di sottrarsi alle spade dei loro aguzzini, gli sguardi imploranti delle sue sorelle mentre quei mostri - sì, perché quello erano, mostri - profanavano i loro corpi. E poi le urla, i lamenti, i gemiti e infine le fiamme, che alte si erano alzate dai fienili, avvolgendo ogni cosa, distruggendo quel che era stato il suo mondo fino ad allora.
Sopra i cadaveri e il suo felice passato, una luna fredda e lontana rifulse di un lugubre alone.
Lo sguardo di Aminta si offuscò. Se non fosse stato per l'oscuro terrore che la spronava a proseguire, si sarebbe fermata a piangere tutte le lacrime che non aveva potuto versare per le anime dei suoi cari. Una mano gelida le scese sul cuore, stringendolo in una morsa soffocante, mentre i lunghi capelli venivano catturati dai rami che si allungavano sul sentiero. Avvertiva i polmoni in fiamme, i battiti accelerati, la fatica che pian piano le dilaniava la milza, ma non poteva indugiare, ormai era vicina.
Asciugandosi le lacrime, aguzzò tutti i sensi per riuscire a penetrare quell'oscurità opprimente. All'orecchio le giunse lo scrosciare delle acque di una cascata e, alla fine, quella che era la sola ancora di salvezza che le restava si materializzò: davanti a lei si estendeva in tutta la sua maestosità il fiume Tabor, confine naturale che divideva la terra di Ferya da quella di Eleuterya.
Nonostante fossero quasi totalmente avvolte dalla morsa del ghiaccio, la cascata e le sue acque restavano uno spettacolo meraviglioso. Se non fosse stata in gioco la sua vita, Aminta sarebbe stata tentata di arrestarsi a rimirarla, come quando la sofferenza e l'efferatezza della guerra non erano che un pericolo lontano.
“Quando tutto questo sarà finito, tornerò.” pensò fugacemente, risoluta più che mai, mentre cominciava a saltare da una roccia all'altra.
Udì un tonfo alle sue spalle, seguito da una serie di improperi. Senza voltarsi capì che uno dei suoi inseguitori doveva essere caduto.
Gioì in silenzio, man mano che si avvicinava alla riva opposta. Sentiva l'acqua gelida lambirle la pelle, penetrando attraverso le scarpe in pelle leggera, e il cuore sembrava perdere un battito ogni volta che i piedi slittavano sulle pietre in parte ghiacciate.
“Ce la faccio, ce la faccio...”
Sapeva che poco distante da lì si erano accampate le truppe dell'esercito imperiale per accogliere tutti i superstiti scampati alle incursioni elfiche. L'aveva sentito dire da un gruppo di guardie, prima che si scatenasse l'inferno. Quando era stata costretta a scappare, si era fiondata nella foresta senza pensare a dove stesse andando, facendosi guidare solo dall'istinto di sopravvivenza. Non osava pensare cosa le sarebbe successo, se si fosse sbagliata...
Vide in lontananza alzarsi delle sottili linee di fumo, oltre le cime degli alberi.
Un sorriso di sollievo le attraversò il volto.
Pochi metri. Aminta prese slancio e saltò verso l'ultima pietra.
“Sono salva.”
Il suo corpo si inclinò all'indietro e i piedi persero la presa sul ghiaccio. Allungò le mani nel vuoto, le lacrime che già le rigavano le guance. Batté violentemente la schiena contro la gelida lastra. Al dolore che si irradiava violento dalle gambe se ne aggiunse uno nuovo alla testa e in quel momento la stanchezza si impadronì di lei, togliendole la forza di alzarsi.
Gli inseguitori le furono immediatamente addosso. La afferrarono, la trascinarono di nuovo sull'altra sponda e la inchiodarono a terra, le labbra storte in un ghigno perverso. Non li fermarono le urla, né le preghiere o le lacrime; le loro mani non ebbero rispetto della sua giovane età, né pietà davanti alla sua innocenza di bambina. Niente li trattenne.
Intorno a lei solo una foresta inospitale e fredda e in alto un cielo ancora coperto dai fumi degli incendi, illuminato appena dalla gelida luce di una luna irraggiungibile.

Airis si svegliò nel cuore della notte. Le era parso di aver udito qualcosa, forse un grido lontano. Si tirò su a sedere sulla branda e affondò il viso nelle mani.
Ormai erano trascorse più di due settimane da quando le armate elfiche avevano preso d'assalto la città di Edon, costringendo l'esercito umano a retrocedere. Per quanto avessero affrettato la ritirata, molti soldati erano caduti in quella battaglia, imbevendo il terreno del loro sangue. Dopo quell'atroce battaglia, nonostante i rinforzi dalla capitale, Airis era ben conscia che i suoi uomini non erano nelle condizioni di combattere.
Inspirò profondamente, le iridi bianche fisse davanti a sé.
“Anche se volessimo tentare un'offensiva, sarebbe troppo rischioso.”
Negli ultimi giorni c'era stata una grande affluenza di civili all'accampamento: uomini, donne e bambini scampati agli eccidi di Edon e Meera. Erano arrivati a centinaia, animati dalla speranza di ricevere protezione e sicurezza.
"Invece, l'unica cosa che hanno trovato è un esercito a pezzi, senza più alcuna voglia di combattere." constatò amaramente.
Strofinandosi gli occhi, ripensò alla decisione di pochi giorni prima.

- Non se ne parla proprio! -
- Airis, calmati... -
- Ma ti rendi conto di quello che sta dicendo?! Di quello che ha intenzione di fare? È un suicidio, ci sta condannando a una morte certa! -
Eigor la prese per le spalle e la scosse.
- Ora calmati. Siamo qui per decidere per il meglio e lo faremo tutti insieme. -
Poi costui scoccò uno sguardo a Ignus che, sprezzante, sorrideva dall'altro lato della tavola.
- Adesso vediamo di... analizzare la sua proposta. -
Airis sospirò e si sedette. Da quando era giunta all'accampamento tre mesi prima, non aveva mai discusso così aspramente con gli altri due generali. Certo, Ignus non le era mai piaciuto e probabilmente neanche lui nutriva una grande simpatia nei suoi confronti, ma in qualunque situazione erano riusciti sempre ad accordarsi su come dirigere le azioni belliche. Invece, ora, nella tenda pesava un'atmosfera carica di tensione.
Concentrò la sua attenzione nella direzione in cui supponeva trovarsi Eigor Felther, Cavaliere del Drago. Anche se il suo aspetto non incuteva alcun timore, l'uomo emanava una forza d'animo a dir poco straordinaria e più e più volte negli ultimi tempi aveva dimostrato di possedere un grandissimo sangue freddo e una capacità d'analisi che avevano cambiato le sorti della battaglia. Non un cedimento, non un'esitazione, mai la sua voce aveva tremato. Eppure, ora sembrava indeciso sul da farsi. Anche se non lo dava a vedere, era sconvolto tanto quanto lei dalla proposta che era stata avanzata.
Dopo un silenzio interminabile, Eigor distolse lo sguardo da quello vitreo di Airis e con la sua voce fredda e distaccata si rivolse al loro interlocutore: - Allora? Stiamo aspettando. -
Con fare teatrale, Ignus si alzò dalla sua sedia e, fissando Airis, disse: - Quando si parla di vera guerra, di sacrificare gli uomini per un fine più grande, il guardiano della città Imperiale, protettore dei deboli e degli oppressi, l'esimio Cavaliere del Lupo esita. -
Il sorriso sprezzante che le aveva rivolto poco prima gli si ridipinse sul volto. La giovane, sebbene non potesse vederlo, lo percepì senza fatica, ma si astenne dal commentare per non dare soddisfazione al generale.
- Si vede che nella capitale la guerra è solo un'eco lontana. Comunque, - mise le braccia dietro la schiena e iniziò a camminare attorno alla tavola, sulla quale era stesa una mappa di tutto il Mondo di Esperya, - Da quando è iniziata questa guerra? Quaranta, cinquant'anni? È passato così tanto tempo che non ricordo più cosa significhi la parola “pace”. - si passò la mano sul pizzetto biondo, pensoso, poi riprese imperterrito, - Sono convinto che anche voi la pensiate come me. - quindi allargò le braccia e inspirò profondamente, - I nostri uomini sono stanchi di tutta questa devastazione, di tutte queste morti e di questo conflitto. È giunta l'ora di mettere la parola fine e di far capire al popolo elfico chi deve dominare su chi. -
Airis fece per alzarsi, ma Eigor la trattenne. Dovevano finire di ascoltare quel che aveva da dire, era la regola dei consigli di guerra.
Ignus la squadrò nuovamente e riprese il suo discorso.
- Ora, da quando siamo qui, nessuna delle due fazioni è riuscita a prevalere sull'altra. Tutte le precedenti battaglie hanno solo messo in luce che gli elfi sono dei dannati codardi, incapaci di sostenere uno scontro in campo aperto, mentre noi umani ci siamo limitati ad una strategia di inutile guerriglia. E per cosa, poi?! - fissò gli altri due e con una voce che a malapena tratteneva la rabbia continuò, – Per non conquistare neanche mezzo centimetro di terreno?! Ci siamo comportati come dei conigli. E i vostri stupidi piani di indebolire il nemico non sono serviti a nulla! Assolutamente a nulla! - sbatté il pugno sul tavolo, – Io, Ignus Adelon, propongo di andare nella foresta di Llanowar, attaccare direttamente gli elfi per spingerli fuori dai loro nascondigli e poi massacrarli senza pietà! -
Aveva superato il limite. Senza pensarci un secondo, Airis sguainò la spada e gliela puntò alla gola.
- Come ti permetti di darci degli incompetenti? Ricordati che siamo tuoi pari. I nostri piani erano volti a preservare quante più vite possibili. Hai visto cosa è successo a Mera ed Edon? Hai visto com'è ridotto il campo? - strinse l'elsa fino a far sbiancare le nocche, - Quella che tu definisci “inutile strategia di guerriglia” ha permesso a tutte le persone là fuori di scampare ad una morte certa! -
Eigor fece per aprire bocca, ma subito dopo la richiuse, conscio che sarebbe stato uno sforzo vano cercare di placare la collera di Airis in quel momento. Era testarda quando voleva e bisognava armarsi di infinita pazienza per farla ragionare quando si infiammava così.
- Sono venuta qui per aiutare queste popolazioni, per dare loro l'opportunità di andarsene, non per abbattere le armate elfiche. Non dopo quello che è successo, almeno. - sputò ed esercitò una leggera pressione sul pomo d'Adamo di Ignus, sufficiente a provocargli una piccola ferita.
Anche con i suoi occhi senza luce, Airis poteva fiutare il puzzo della paura del Cavaliere del Leone, insieme al suo battito accelerato, al sudore che lentamente colava lungo la schiena e al suo continuo deglutire, e questi erano solo gli indizi più evidenti. Ma sapeva che ciò che gli incuteva più terrore era un'altra cosa.
Fu questione di attimi. Nella tenda echeggiò un clangore di spade e poi calò di nuovo il silenzio.
Eigor strabuzzò gli occhi, meravigliato, poi lentamente si girò. La spada che impugnava un istante prima giaceva in un angolo a pochi metri da lui, mentre Airis, senza distogliere lo sguardo da Ignus, stava puntandogli contro una seconda lama. La studiò, alternando lo sguardo da una parte all'altra della tenda, cercando di capire dove la donna avesse preso la nuova arma. In pochi secondi nella sua mente si fece spazio un'idea assurda, una supposizione che gli gelò il sangue. Respirando con apparente calma, lanciò un'occhiata al fianco del Cavaliere del Leone, dove normalmente teneva la sua spada dorata, scorgendo il meraviglioso fodero vuoto.
“Impossibile...”
Trattenne un sussulto, mentre un brivido freddo gli attraversava la colonna vertebrale. In un battito di ciglia, la donna aveva disarmato il Cavaliere del Drago e si era appropriata della spada di Ignus, dando prova di un'agilità e una destrezza stupefacenti.
“Non dirmi che...”
Deglutì e un'ombra di timore mista ad ammirazione attraversò il volto di entrambi gli uomini: era dunque quella, la leggendaria bravura del Cavaliere del Lupo, che durante ogni battaglia le aveva garantito la vittoria su ogni nemico? Era quella, la famosa mano che padroneggiava con grazia mortale l'arte della spada?
- Potresti essere condannata per questo tuo gesto. - nella voce di Eigor si avvertiva un leggero tremolio, - Se veramente vuoi risolvere la situazione, sai meglio di me che la violenza non è il migliore dei modi. - le si fece più vicino, - Rispetta il regolamento. -
Con una certa riluttanza, Airis rinfoderò la lama e con malagrazia riconsegnò l'altra arma nella mani del suo proprietario, imponendosi la calma. Mentre tornava a sedersi, udì il risolino soddisfatto di Ignus.
”Dannazione, era a questo che puntava.”
Volse gli occhi ciechi nella direzione di quella risata odiosa, mordendosi le labbra a dandosi della stupida.
Come se nulla fosse accaduto, il Cavaliere del Leone riprese la parola: – Questa tua reazione così istintiva, mio carissimo Cavaliere, ha messo in luce quello che già da tempo pensavo: sei inadatta a prendere le decisioni di guerra. Tutti i piani da voi sostenuti sinora sono stati dettati dall'inesperienza. Per questo motivo, chiedo al generale e Cavaliere del Drago Eigor Felther di esonerarti dal voto in questa sede. - si rivolse all'altro, – Dopo quello che è successo pochi attimi fa, non pensi che sia la soluzione migliore? -
Airis implorò Eigor tacitamente, spalancando le iridi bianche nel vuoto, e per un attimo l'uomo sembrò tentennare, indeciso tra il dovere e l'amicizia.
Alla fine, senza esitazione disse: - Sono d'accordo con Ignus. Airis Lullabyon sarà esclusa dalle prossime decisioni. -


All'improvviso, il vocio fuori dalla tenda si interruppe bruscamente e il movimento che caratterizzava la vita frenetica del campo si arrestò. Qualcosa non andava.
Airis si alzò subito e, una volta indossato il mantello blu, uscì. L'aria fredda della notte le sferzò le guance e per un secondo rabbrividì. Fuori regnava uno strano silenzio: era come se tutti quanti fossero spariti senza lasciare traccia, eppure erano ancora lì, ne avvertiva la presenza. In qualche modo sembrava che i loro respiri fossero rimasti in sospeso, mozzati dalla visione di qualcosa di terribile.
Udì un soldato avvicinarsi correndo verso di lei.
- Generale! Generale, dovete venire subito! -
Era affannato, come se avesse percorso una distanza enorme in pochi istanti. Dalla voce Airis arguì che doveva trattarsi di ragazzo abbastanza giovane.
- Cosa sta succedendo? -
- Dovete... dovete vedere con i suoi occhi... -
Poi senza perdere tempo tornò da dove era venuto.
Airis svelta lo seguì per un centinaio di metri e quando sentì i suoi passi rallentare si fermò.
Il silenzio a quel punto si fece quasi assordante, diventando molto simile a quello che aleggiava sui cimiteri. Il vento le scompigliò i capelli e le portò alle narici un odore acre che conosceva fin troppo bene. Davanti a lei percepiva la presenza di un essere piccolino, dal respiro irregolare, che le si avvicinava a fatica. Non poteva sapere che davanti a lei c'era una bambina di dodici, forse tredici anni, con lunghi capelli neri, che avanzava strascicando i piedi pieni di tagli e calli. I vestiti che a malapena coprivano il suo corpo puerile erano ridotti a brandelli e penzolavano dalle braccia e dalle gambe, incrostati di sangue, terra e neve. I suoi grandi occhi azzurri, cerchiati da occhiaie scure, erano vuoti, senza più alcun barlume di luce. I soldati radunatisi intorno a loro assistevano inorriditi alla scena, incapaci di muoversi. Non sapevano come fosse arrivata lì e nessuno ci aveva fatto caso, credendola una delle tante orfane che pullulavano nel campo, fino a quando una donna non aveva urlato vedendo il sangue raggrumato che le imbrattava le cosce.
- Una bambina... -
- Cosa le hanno fatto... -
Airis poté cogliere solo qualche frammento di frase in quel basso vociferare. Si avvicinò con circospezione, cercando di non spaventarla, protendendo le braccia in avanti per invitarla ad accostarsi di più. Nel momento in cui non udì più i passi della ragazzina, si arrestò anche lei.
- Non avere paura, non voglio farti del male. - le tese la mano, sorridendole.
Sentì sulla pelle uno sguardo colmo di diffidenza e terrore, che pareva volerle scavare nell'anima.
“Anche io sono un nemico per lei.” pensò tristemente, trattenendosi dal correrle incontro, ”Non la si può biasimare, se esita ad avvicinarsi.”
Rimasero ferme per un periodo di tempo indeterminato a fissarsi, in attesa. Poi la bambina continuò a camminare con passo incerto, finché, sfinita, cadde sulle ginocchia a pochi passi dalla guerriera.
Senza esitazione, Airis azzerò le esigue distanze e la strinse a sé, accarezzandole il volto sudicio e rigato di lacrime.
- Va tutto bene, ora sei al sicuro. - le scostò un ciuffo di capelli dalla faccia, - Ce l'hai fatta, sei arrivata all'accampamento. Sei stata brava... veramente brava... -
Nonostante non potesse vederla, si accorse che il suo corpicino magro tremava, accaldato per la febbre e per la lunga camminata in mezzo a quella landa innevata. Non aveva idea se fosse stata opera degli elfi, ma in cuor suo ne era abbastanza certa.
- Un guaritore, qui serve un guaritore! - urlò in direzione dei suoi soldati.
Subito dei passi frenetici si allontanarono. La bambina si fece piccola piccola tra le sue braccia.
- Come ti chiami? - chiese Airis in un sussurro.
- Aminta... mi chiamo Aminta... -
- Chi ti ha fatto questo? Da dove vieni? -
- Gli... elfi... -
- Tranquilla, tranquilla. Rimani con me, Aminta... tra poco starai meglio... - le passò le dita tra i capelli e la coccolò come farebbe una madre, - Devi resistere, va bene? -
Avvertiva il suo respiro farsi sempre più fievole, mentre il battito rallentava minuto dopo minuto.
Aminta allungò la mano verso il volto di Airis, sfiorando il collo di pelo del mantello. La luna, quella stessa luna che l'aveva accompagnata per tutta la sua fuga, si stagliava alta nel cielo, impedendole di vedere chiaramente chi la stesse abbracciando così delicatamente, se un umano o uno spirito. Di quella figura, poteva solo scorgere gli occhi, bianchi con dei riflessi azzurri. Occhi feroci e fieri, simili a quelli di un lupo.
Sorrise un'ultima volta, verso quell'essere dallo sguardo pieno di preoccupazione, tentando di parlare. Voleva rassicurarlo e dirgli che andava tutto bene, ma le parole le rimasero in gola.
- Lu-lupo... - rantolò.
Poi chiuse le palpebre, rannicchiandosi tra quelle braccia forti e gentili, e la mano cadde a terra, priva di vita.
Passi concitati annunciarono l'arrivo del guaritore, ma, prima che questi potesse avvicinarsi, Airis si alzò, consegnandogli il corpo ancora tiepido della bambina. Girò il capo come per scrutare tutti gli astanti, immaginando lo sgomento e la rabbia che si stavano dipingendo sui loro visi.
- Penso che questo basti a dimostrare l'efferatezza e la crudeltà degli elfi. - proferì Ignus, facendosi largo in mezzo alla folla.
Era stato richiamato dal trambusto e un soldato gli aveva spiegato cosa era accaduto. Niente di meglio, quella era un'occasione che non poteva lasciarsi sfuggire e l'avrebbe sfruttata a suo vantaggio.
- Vi serve che qualche altro innocente muoia per causa loro? -
Le parole di Airis riecheggiarono nel silenzio: - Hai ragione, abbiamo visto tutti di cosa sono capaci. -
Avanzò verso di lui con lo sguardo ostile e lo fronteggiò con decisione.
- Per questo dobbiamo assolutamente ritirarci. Nell'accampamento ci sono troppi civili e tutti hanno bisogno di cure e assistenza. Se gli elfi attaccassero, non avrebbero alcuna possibilità di sopravvivenza e tu, in quanto generale e Cavaliere del Leone, verresti meno al tuo primo dovere. - i due visi erano vicinissimi, – Quello di difendere i deboli e gli oppressi. -
La sua voce era diventata quasi un ringhio.
Ignus si scostò e ridendo sommessamente rispose: – Oh, Airis, mia cara Airis... forse tu non hai ben capito come stanno le cose. Ormai non puoi più decidere nulla. -
Si volse verso gli uomini e li squadrò tutti, uno ad uno, con occhi ardenti e pieni di rabbia.
- Voi, soldati, miei prodi soldati, non siete stufi di questa guerra? -
Un brusio di assenso si diffuse tra le fila.
- Un'altra innocente è stata uccisa da quegli esseri senza cuore. E voi vorreste lasciarli impuniti? Volete davvero disertare il fronte senza combattere? - scrutò i loro volti, – Chi vi dice che un giorno la loro orda diabolica non arriverà fino alle vostre case, fino alle vostre famiglie? Chi vi garantisce che i vostri figli e le vostre mogli saranno al sicuro per l'eternità? Se ora ci ritiriamo, gli elfi marceranno mettendo a ferro e fuoco ogni villaggio che troveranno sulla loro strada e alla fine occuperanno tutta Esperya! E voi volete lasciarglielo fare?! -
I soldati alzarono le armi in alto e gridarono la loro indignazione.
Ignus, toltosi il mantello arancione, aprì le braccia e sguainò a sua volta la spada. I rubini incastonati sull'effige leonina scintillarono sotto le stelle del firmamento, emettendo un bagliore sanguigno.
- E allora glielo impediremo! -
Un urlo di folle eccitazione salì verso il cielo notturno.
Airis si guardò intorno, spaesata e sorpresa dall'entusiasmo che improvvisamente si era impadronito dei suoi uomini. Tentò di dire qualcosa, ma le sue parole vennero coperte da quel frastuono infernale. Tiratasi sul volto il cappuccio di pelliccia, si recò alla sua tenda a passi lenti. Aveva bisogno di dormire.
Se davvero Ignus aveva intenzione di attuare il suo piano, sarebbe dovuta essere nel pieno delle forze per poter limitare il più possibile le perdite.
Ascoltando le esclamazioni di gioia e la rinnovata speranza dell'esercito, conscia che di lì a pochi giorni le radici degli alberi ghiacciati sarebbero state bagnate dal sangue dei suoi soldati, Airis cadde in un sonno senza sogni.

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Capitolo 2
*** Assalto ***


2

Assalto

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Aveva il cappuccio calato sul viso e il mantello blu che ondeggiava dietro di lei. Gli stivali affondavano nello spesso strato di neve che ricopriva il terreno, mentre i lembi della pesante cappa svolazzavano ad ogni passo. 
Il freddo in quei giorni era stato implacabile ma, almeno, aveva smesso di nevicare. Sarebbe stato difficile arrivare a destinazione se si fosse scatenata una bufera, e lei sicuramente si sarebbe arrabbiata se avesse mancato quell'appuntamento. Aveva il cuore ancora pesante e l'animo turbato per quello che era accaduto nelle ore precedenti. Aveva visto i soldati seppellire il cadavere della bambina nella fredda terra, lontano dai suoi cari e dalla sua casa. Nessuno sarebbe venuto a pregare per lei, nessuno avrebbe pianto per quella vita spezzata nel fiore degli anni. Le lacrime, in quella terra fredda e silenziosa, erano un privilegio che nessuno poteva più vantare di avere. Si morse il labbro e si portò una mano al petto, aumentando il passo.
Si mosse lentamente, ombra tra le ombre, avanzando sicura attraverso le tende dell'accampamento, diretta verso il confine del campo. Il tragitto lo conosceva bene, avendolo percorso tante volte, e nonostante non potesse vedere, gli altri sensi l'aiutavano ad orientarsi senza alcuna difficoltà. Quando vi giunse, una raffica di vento gelido le investì il volto. Serrò le palpebre infastidita e senza troppi indugi ricominciò a camminare. Dopo qualche passo, udì in lontananza lo scrosciare delle acque del Tabor e capì di star procedendo nella direzione giusta. 
La foresta di Noumenasse distava meno di quattro miglia: era un enorme agglomerato di alberi sempreverdi che sorgeva sulle rive del fiume e si estendeva per miglia fino a quasi alla sua foce. Si diceva che all'interno vi abitassero alcuni esseri fatati, gli stessi di cui molte leggende popolari parlavano, ma nessuno che vi fosse passato ne aveva mai avvistato uno. 
L'unica cosa che a lei importava era che non ci fossero gli elfi. Avrebbe potuto andare a cavallo, ma il rischio di svegliare qualcuno e diventare bersaglio di domande scomode era troppo alto. Rimaneva comunque quello che scoprissero la sua assenza in qualche modo, ma se avesse fatto in fretta, sarebbe stata di ritorno poco dopo l'alba. Era ancora notte fonda; aveva tempo a sufficienza.
Camminò spedita per qualche ora, fermandosi talvolta per assicurarsi di non essere stata seguita. Quella era una zona sicura, lo sapeva, ma preferiva essere prudente. Girò la testa da una parte all'altra, concentrandosi sui suoni che riempivano l'ambiente intorno a lei. Distinse il vento tra le fronde, lo sciabordio dell'acqua che accarezzava la pietra, e verso Nord udì anche l'ululato di un lupo. Sorrise, compiaciuta per quella melodia così sottile. Poi riprese la sua marcia.
Non appena l'intenso odore dei pini le penetrò nelle narici aumentò l'andatura. Oltrepassò i primi alberi in poche falcate e, dopo alcuni istanti, venne avvolta da una calma assoluta. Sconcertata da quella tranquillità innaturale, si appoggiò ad un tronco, mentre una sensazione di angoscia le contraeva le viscere. Era come se il mondo fosse stato improvvisamente inghiottito dal vuoto. Mosse il capo a destra e a sinistra, cercando di orientarsi. Si chinò, tastò il terreno e ne studiò la consistenza con le dita. Poi, nel silenzio più totale, imboccò un sentiero sterrato e si inoltrò nel fitto sottobosco. Per fortuna aveva avuto la geniale idea di spedire qualche soldato a fare un sopralluogo nei giorni precedenti, giusto per farsi un'immagine mentale di dove dovesse andare e che tipo di conformazione avesse il bosco. Però era certa che, anche se si fosse persa, lei l'avrebbe guidata.
“Cosa vorrà stavolta?” 
Sospirò e davanti al suo viso aleggiò una piccola nuvoletta di vapore. Non doveva pensarci, tra poco lo avrebbe saputo.
Procedette per un tempo che le parve infinito e per un attimo dubitò di star camminando davvero, ma i leggeri fruscii e i versi degli animali notturni che le giungevano attutiti alle orecchie erano reali. Ogni tanto udiva il tonfo della neve che scivolava via dai rami, ma per il resto il solo suono chiaro che percepiva era il rumore dei suoi passi.
Un refolo d'aria fredda le si insinuò sotto la pesante tunica di lana, ma il suo corpo quasi non reagì, abituato a climi ben peggiori. 
Ad un tratto si fermò e la sensazione di essersi smarrita la pervase in maniera repentina. Abbassò gli occhi vacui e li fissò su un punto indefinito. Si concentrò, acuì l'udito, ma i rumori erano troppo flebili per permetterle di capire dove stesse andando. Era come camminare nel buio più nero. E lei odiava il buio, sebbene ormai fosse costretta a viverci da anni.
Di qua, mio dolce bocciolo.
A quelle parole la ragazza rabbrividì, stringendosi il mantello sulle spalle. Quella voce dolce e femminile che le aveva appena sussurrato nella mente possedeva un tono melodioso e suadente insieme. Se non avesse saputo a chi apparteneva, l'avrebbe trovata meravigliosa. Si sentì avvolgere da un abbraccio caldo e, senza nemmeno accorgersene, le sue gambe ripresero a camminare. Imboccò una stradina anonima che non ricordava nemmeno essere segnata sulle mappe. Percepì il terreno inclinarsi sotto i suoi piedi e rami simili a dita scheletriche l'accarezzarono, impigliandosi nella stoffa del mantello come artigli rapaci. La ragazza si liberò con un gesto brusco della mano e inveì a denti stretti. Non che le importasse molto di rovinarsi le vesti, ma preferiva evitare domande scomode al suo ritorno all'accampamento. 
“Lei a questi particolari non pensa mai.” rifletté con stizza.
Proseguì ancora per mezzo miglio, poi si fermò improvvisamente. L'aria era ferma, come se l'intera foresta stesse trattenendo il respiro. Si inginocchiò, sfiorando appena i timidi ciuffi d'erba che erano miracolosamente sopravvissuti alle ultime nevicate, e appoggiò i palmi delle mani, incurante del gelo che le penetrava nelle ossa. Tastò di nuovo il terreno attorno a lei e sfiorò le leggere inclinazioni della terra e i piccoli sassi che la ornavano. 
"Forse una radura? Uno spiazzo di qualche genere? Ma lei dov'è?” 
Si alzò, fissò un punto nel vuoto e attese impaziente. 
Realizzò quanto fosse una preda facile in quel momento: privata della vista e con gli altri sensi ovattati, accompagnata solo dalla sua spada e dall'armatura, persino il soldato più inesperto avrebbe avuto almeno una possibilità di ucciderla. Ma, forse, la morte sarebbe stata preferibile alla schiavitù che era obbligata a subire.
Quando udì dei passi stava già cominciando a perdere la pazienza. Sapeva che non si trattava di un nemico, poiché nessuno con un minimo di buonsenso l'avrebbe affrontata a viso aperto, ma detestava profondamente sentirsi così inerme, cieca.
- Piccola, finalmente sei arrivata. - la stessa voce di prima le accarezzò le orecchie, - Ero sicura che ti saresti persa. Questa foresta è molto grande e per una persona come te è difficile orientarsi, vero? -
- Perché mi hai chiamata qui? - replicò e riuscì a malapena a celare il fastidio che aveva provato di fronte a quel palese insulto.
- Oh, niente di che. - 
Percepì la mano dell'altra allungarsi e tirarle delicatamente giù il cappuccio. La luna illuminò una cascata di capelli sanguigni, un volto pallido, delle labbra carnose e ben disegnate e due iridi spente adornate da ciglia lunghe. 
- Per tutti gli dei, sei così bella, Airis. Perché ti devi sempre nascondere? - chiocciò esasperata e le accarezzò una guancia. 
Al contatto con quelle dita gelide, la ragazza scattò indietro e i lineamenti del suo viso si deformarono in una maschera d'odio e disgusto. Sentì gli occhi della sua interlocutrice addosso e una piccola parte di lei sperò che non si fosse arrabbiata, altrimenti la punizione sarebbe arrivata più crudele che mai e non avrebbe potuto far niente per sfuggirvi. Soppesò il silenzio che era piombato su di loro, cercando all'interno di esso un significato da cogliere. Non avvertì alcuna vibrazione ostile nell'aria, quindi era probabile che quella donna maledetta si stesse gustando con un ghigno beffardo la sua espressione rabbiosa.
Fece un lungo respiro e s'impose di calmarsi. Si spostò i capelli sulla spalla destra e compì qualche passo avanti.
- Te lo richiedo, Lysandra. Perché hai voluto incontrarmi? -
- Ho un incarico per te, ovviamente. - cominciò a girarle intorno, come un cacciatore che studia la sua preda, - Però stavolta non dovrai uccidere nessuno. Sei contenta? -
Airis sospirò rasserenata. L'ultima volta non era stato per niente facile eseguire i suoi ordini, ma li aveva portati a termine. Tuttavia, non le veniva in mente chi altri potesse essere un possibile bersaglio. Erano al Nord, in mezzo alla neve e al nulla. Chi mai poteva costituire una minaccia?
Dita fredde giocherellarono con una ciocca dei suoi capelli, ne districarono i nodi con facilità e la sollevarono leggermente verso l'alto. 
- E allora, cosa vuoi che faccia? - tentò di allontanarsi, ma le mani di lei si strinsero attorno alle sue spalle e le unghie affondarono nella sua pelle, scavandovi piccole mezzelune rosse e bloccandola sul posto.
- Non. Fuggire. - scandì pacata. 
L'abbracciò da dietro e affondò il viso nella folta chioma rossa. Airis si sentì avvolgere da una fragranza di fiori d'arancio e cannella e ne rimase stordita, come assuefatta. Sbatté le palpebre più volte, cercando di tornare in sé.
- Devi trovare una persona, un elfo. - le mormorò Lysandra all'orecchio. 
Un leggero brivido corse lungo la schiena della ragazza.
- Sarà difficile...- balbettò.
- Lo so, ma tra tutti i miei servi devoti ho scelto te. - le mordicchiò il lobo e strusciò il naso contro la sua guancia, - Ma alla prossima battaglia devi trovarlo. É di vitale importanza, capisci? -
- S-sì. - deglutì, - Ma è comunque complicato. Io... -
La sentì staccarsi improvvisamente da lei e una risata cristallina risuonò nell'aria. Airis rimase sconcertata.
- Oh, per quel tuo piccolo problema non ti preoccupare. - chiocciò, applaudendo soddisfatta, - Quando lui sarà vicino, vedrai un fuoco. -
- Un... fuoco? Lo vedrò? Come? -
- Vedrai una fiamma davanti a te, una fiamma talmente intensa che ti sembrerà scaturire dai meandri più remoti degli abissi e per un solo istante spazzerà via le tenebre che ti circondano. - le si fece vicino e le sfiorò le labbra con le proprie, - Per te non dovrebbe essere un problema, no? -
Un sorriso amaro si formò agli angoli della bocca di Airis. Ovvio che non era un problema e, anche se lo fosse stato, non avrebbe potuto in alcun modo obiettare.
- Capisco. - si limitò a rispondere, - Una volta catturato, cosa devo farne? -
- Oh, te lo dirò in seguito. Per ora... - schioccò la lingua e si allontanò, - beh, non è importante il dopo. -
Airis annuì. Non le piaceva non ricevere tutti i particolari della missione, ma d'altronde sapeva che se avesse domandato qualcosa di più non avrebbe comunque avuto risposta.
- Per quella cosa, invece? - chiese la ragazza.
- Oh. - Lysandra tacque, come se stesse pensando, - Anche per quello non ti preoccupare. Non appena lo avrai preso penserò a tutto io, mio tenero e dolce sogno. -
- Perfetto. -
Airis stava già per andarsene, quando la voce melliflua dell'altra la bloccò.
- Vedi di non deludermi. Non vorrei diventare cattiva... -
La ragazza rimase immobile e poi, senza neppure voltarsi, continuò a camminare, conscia che in qualunque caso lei l'avrebbe sentita.
- Lo so. - borbottò.
Le fece eco una risatina divertita appena accennata. La guerriera ebbe un brivido, ma continuò a percorrere il sentiero. Pochi secondi più tardi venne inghiottita dalla fitta vegetazione.
 
Quando Airis si svegliò, udì dei rumori provenire da fuori la tenda. Senza neanche indossare l'armatura, uscì per controllare cosa stesse succedendo.
Il campo era in fermento, non c'era nessun uomo fermo a oziare. Tutti correvano di qua e di là, i visi animati da una determinazione che non si era più vista dalla rovinosa battaglia al Tabor. I soldati si allenavano con una lena fuori dal comune, con il fiato che si condensava in quel gelido mattino. I loro ansiti e il clangore metallico dell'acciaio delle loro lance e spade che cozzavano le une sulle altre riempivano l'aria, spezzando il silenzio che regnava nella steppa. A quanto pareva il discorso di Ignus aveva sortito l'effetto voluto e ora ogni uomo era deciso a portare a termine l'impresa. 
Forse avrebbe dovuto nutrire un po' più di fiducia nel piano che, per quanto folle e disperato, aveva una qualche probabilità di riuscita. Doveva riuscire.
Coprendosi con il mantello si avviò verso est, in direzione di uno specchio d'acqua poco lontano da lì.
“Questo attacco ha una percentuale troppo bassa di successo così com'è stato esposto e, più che a una vittoria, condurrà l'intero esercito al massacro.”
Man mano che si allontanava dall'accampamento, i suoni giungevano al suo orecchio sempre più attutiti, come se stesse camminando in un mondo onirico.
“ Ci mancava poi la sua richiesta. In tutto quel caos sarà impossibile...”
Inspirò a pieni polmoni l'aria fredda e un fresco profumo di resina, trasportato da una lieve raffica di vento, le stuzzicò il naso, annunciandole che era ormai vicina. Affondando fino a metà stinco nella neve, giunse a una fonte coperta da una spessa lastra di ghiaccio. Intorno a lei, una foresta di abeti e pini che si estendeva a perdita d'occhio.
A poche leghe da lì sorgeva l'immenso altopiano di Rashar, e su, nella parte più settentrionale del continente, la sconfinata foresta di Llanowar.
Airis ruppe il ghiaccio con un colpo di spada e, inginocchiatasi, si gettò quell'acqua gelida sul volto.
"Già, Llanowar..." 
Sospirò e si sfregò il volto con le mani, mentre ormai perdeva la sensibilità nelle dita. Con la memoria tornò indietro a cinque mesi prima, quando era iniziato l'attacco vero e proprio per impossessarsi di una delle più grandi roccaforti elfiche. Ignus e Eigor pensavano che sarebbe stato facile, sicuri com'erano della loro supremazia nelle battaglie campali. Eppure, in tutto quel tempo, nessuno dei due Generali era riuscito a conquistare un solo ettaro della foresta, anzi avevano perso terreno.
Si deterse le braccia, per poi asciugarsi con un panno che si era portata dal campo. 
Dopo circa due mesi, il Gran Consiglio della città di Sershet le aveva ordinato di partire immediatamente per la regione di Ferya, prima che la situazione precipitasse, ma, nonostante i suoi sforzi, era giunta troppo tardi: Edon era caduta, trascinando con sé le vite di migliaia di soldati.
Benché non percepisse quasi più né il freddo né il caldo, si coprì comunque col mantello, fissando la superficie azzurra del laghetto.
Quella volta gli elfi erano stati veramente astuti: dopo aver preso d'assalto una carovana, si erano travestiti e, giunti alla città, erano entrati senza che nessuno li riconoscesse. Nel momento stesso in cui gli abitanti avevano chiuso le porte, erano saltati giù dai carri ed era esploso il caos. I cittadini, terrorizzati, avevano cercato di allontanarsi più in fretta possibile, mentre i soldati avevano cominciato a cadere sotto i fendenti e le frecce degli elfi. Nessuno era stato in grado di fare nulla per impedire quel massacro. Le urla di donne e bambini avevano riempito l'aria, e gli uomini che avevano tentato di opporsi erano stati brutalmente uccisi. L'esercito, incapace di organizzare una difesa, aveva cercato di portare in salvo quante più persone possibili, in una disperata corsa contro il tempo.
Quando Airis si era presentata col suo contingente, ad attenderla c'erano state solo macerie: i canali, prima limpidi e cristallini, avevano assunto un intenso color cremisi e la luce del giorno conferiva a quelle acque dei macabri riflessi purpurei. Cumuli di cadaveri, riversi negli angoli delle strade, marcivano sotto il sole di quel freddo mezzogiorno, impestando l'aria di un pungente tanfo di putrefazione. Addentrandosi sempre di più nella città, i corpi erano aumentati vertiginosamente, rendendo difficile il cammino. Airis, a quel punto, aveva fiutato un altro odore, che si era fatto sempre più denso e penetrante ad ogni passo, e quando era giunta insieme ad un drappello di commilitoni nella piazza centrale, il terrore si era dipinto sui volti dei suoi uomini: la splendida e antica fontana, orgoglio della città, era stata ricoperta da una marea di cadaveri carbonizzati, le orbite vuote e la pelle che ancora pendeva dai bianchi teschi. I soldati più giovani erano indietreggiati fino ad appoggiarsi ai muri delle case, tremando di fronte a quel macabro spettacolo. Persino i veterani, che avevano visto quanto atroce potesse essere la guerra, non avevano saputo cosa dire o pensare. Mai, in cinquant'anni di scontri e battaglie, gli elfi avevano compiuto un simile atto.
Da quel momento, con l'assenso degli altri due Generali, avevano unito le loro forze per far evacuare tutti i civili dai villaggi attorno ad Edon e Mera, ma evidentemente non era stato abbastanza.
Airis sbatté più volte gli occhi, riemergendo dai suoi pensieri, e si incamminò di nuovo verso l'accampamento.
Se voleva impedire che un massacro del genere si ripetesse in futuro, doveva pensare a un piano migliore, che limitasse le perdite al minimo e che garantisse una maggiore possibilità di vittoria.
L'odore di sudore e gli ansiti di fatica la riaccolsero nell'accampamento. Nonostante fosse ormai mezzogiorno inoltrato, il freddo non accennava a placarsi ed ora soffici fiocchi di neve cadevano silenziosi, depositandosi leggeri al suolo. Indugiò vicino ad una tenda, dove due soldati, sfiniti dal duro allenamento mattutino, si stavano riposando scaldandosi al fuoco di un grande falò. Questi accostarono le mani livide e callose alle fiamme e sbuffarono per scacciare i brividi.
Uno di loro, che doveva essere giovane a giudicare dalla voce, disse ridendo: - Salkoz, ti sei rammollito negli ultimi tempi, eh? Ammettilo, la vecchiaia è una brutta bestia. -
Airis udì un colpo secco e poi un “ahia” mugugnato.
- Come ti permetti, pivello? Se non fosse per me, ora saresti uno spiedino elfico. -
- Non è vero! Non sono una mammoletta come credi tu! -
-Oh, sì che lo sei. Anzi, sei pure inutile! Ci hai messo una marea di tempo ad accendere due ceppi! Poco ci mancava che congelassi, imbranato che non sei altro! -
L'altro soldato sospirò sconsolato: - Lo so, lo so. É che questa era l'ultima legna rimasta ed era umida. Questo tempo non aiuta per niente. Ti ricordi come invece bruciavano bene quelli alla festa del raccolto di due anni fa? Era fantastico! -
Airis smise di ascoltare, colta da una rivelazione improvvisa, e si diresse con passo veloce verso il centro del campo.
"Ma certo, il fuoco!" 
Come aveva fatto a non pensarci prima?
Quella che inizialmente era una semplice marcia, divenne una corsa forsennata.
Era un progetto difficile da mettere in pratica e serviva una pianificazione perfetta, ma era possibile.
Con uno strattone aprì la tenda, la stessa dove venti giorni prima gli altri due Generali l'avevano esonerata da qualunque decisione di guerra, ed entrò con il fiatone. All'interno percepì la presenza di Ignus e Eigor, probabilmente riunitisi lì per decidere il da farsi.
Una voce arrogante che conosceva fin troppo bene le diede il benvenuto.
- Cosa ci fai tu qui? Non hai alcun diritto di interrompere la nostra riunione. -
La ragazza sorrise.
- Non sono venuta per parlare di quello che posso o non posso fare, Ignus. -
Avanzò fino al tavolo dove c'era la mappa del continente, tastando le superfici a portata di mano per orientarsi meglio. Si appoggiò al bordo e, dopo aver ripreso fiato, espresse la sua opinione con onestà.
- Il tuo piano, Ignus, non va per niente bene. -
-E perché mai!? - sbottò l'interpellato.
Airis incrociò le braccia al petto e puntò lo sguardo vitreo là dove ipotizzava dovesse trovarsi Ignus.
- Stai per mandare allo sbaraglio le truppe e speri solo che gli elfi non si accorgano che un intero esercito sta marciando contro di loro, cosa che reputo poco probabile, visto che i nostri soldati non viaggiano propriamente “leggeri”. -
Un risolino trattenuto interruppe il discorso della guerriera: il Cavaliere del Drago aveva gradito l'umorismo.
La guerriera represse un sorriso compiaciuto e continuò con voce seria: - Comunque, su una cosa avevi ragione: gli elfi non sono forti nelle battaglie a campo aperto. L'unica cosa intelligente da fare è attirarli fuori da Llanowar e poi schiacciarli con la nostra fanteria, e il solo modo per fare questo è incendiare la foresta. -
Un silenzio tombale cadde nella tenda.
Il primo a parlare fu Eigor: - Come idea va bene, ma hai già pensato a come realizzarla? E' tutto ricoperto di neve, il fuoco non attecchirà. -
Airis sondò la superficie del tavolo con le dita, finché non sfiorò la mappa, una di quelle che aveva tutti gli elementi geografici in rilievo. Almeno con quella non faceva fatica ad orientarsi.
- Dunque, Llanowar copre una buona parte del territorio di Ferya e si estende da nord verso sud-ovest, confinando con la catena dei monti Nores, giusto? - illustrò e tastò con attenzione la foresta e il rilievo montuoso.
Ignus e Eigor si avvicinarono, incuriositi.
- Mi avete detto che già altre volte avevate provato ad attuare questo tipo di piano, ma gli elfi vi hanno sempre intercettato e respinto. -
La voce fredda del Cavaliere del Drago rispose dalla sua sinistra: - Sì, abbiamo già tentato, ma senza alcun risultato. -
- Il problema è che avete mobilitato l'intero esercito. Centomila uomini, armati di spade, lance e fiaccole fanno un rumore enorme. Ma se noi mandassimo in avanscoperta due drappelli, passando per uno dei sentieri dei monti, con un po' di fortuna nessuno li noterebbe. -
Delineò con il polpastrello le cime delle montagne.
Ignus, per la prima volta concentrato su quel che gli stava dicendo, osservò la mappa meditabondo.
- Sì, ma poi? Non bastano così pochi soldati. - obiettò, - Andrete incontro a morte certa con una strategia del genere.-
“Sempre meglio del tuo piano suicida e senza senso.” gli lanciò un'occhiata stizzita e scosse la testa.
- Mi assumo la responsabilità della mia proposta, Generale.- ticchettò le dita sul tavolo e poi fissò un punto davanti a sé, - Andrò io. Mi occuperò personalmente di portare a termine quest'impresa.- disse, decisa.
- E' un suicidio, Airis.- la voce greve di Eigor le giunse all'orecchio.
- Infatti, qui interverrete voi. -
I due uomini la guardarono interrogativi.
- Voi sarete il nostro diversivo. Mentre le fiamme divamperanno, gli elfi saranno costretti a dividere le loro forze per far fronte a entrambi gli attacchi. - spiegò la giovane.
Ignus inspirò a fondo e chiese: - Cosa ti fa pensare di riuscire in un'impresa che altri Comandanti prima di te hanno provato senza alcun esito? -
Airis esitò un attimo prima di rispondere: - Perché, come hai detto tu, quelli erano Comandanti, non Generali di grande esperienza come noi. - lo adulò.
“Certo, se fossimo stati solo io e Felther le cose sarebbero andate in modo diverso fin dall'inizio.” aggiunse nella sua mente.
- Inoltre, i miei uomini sono meglio addestrati. Alcuni mi seguono da quando ho iniziato la mia carriera militare e posso garantire che sono degli ottimi elementi. - sospirò e fissò nella direzione degli altri due, – Lo so che mi avete esonerata dalle decisioni di guerra e so perfettamente che non ho alcun potere in questa sede. Però, credetemi, ci tengo tanto quanto voi a porre fine a tutto questo. Vi chiedo di dare fiducia a me e ai miei soldati e di darci la possibilità di aiutarvi. -
Il Cavaliere del Drago inspirò profondamente, scambiandosi qualche occhiata con l'altro Generale e riflettendo sulla proposta della guerriera.
- Presumendo che riusciate a infiltrarvi nella foresta senza intoppi, - esordì Ignus, - come pensate di appiccare il fuoco? Felther ha detto bene prima: nevica da troppo tempo e la legna è così umida che è impensabile anche solo sperare che le fiamme attecchiscano. -
Prima che Airis potesse controbattere, Eigor prevenne la sua risposta: - Useremo il “Respiro del Drago”. -
Incrociò le braccia al petto e serrò le labbra, sfoggiando un'espressione dura e severa.
Ignus lo guardò sbalordito e anche Airis non riuscì a trattenere il proprio stupore, tanto che sgranò gli occhi nel vuoto e si pietrificò.
- E' pericoloso... - balbettò il Generale, scuotendo la testa, - Quelle fiamme sono impossibili da estinguere. Se anche solo una scintilla venisse in contatto con una qualunque superficie, questa prenderebbe immediatamente fuoco. -
Airis si massaggiò le tempie, valutando la proposta di Eigor. Lo conosceva bene, era un ottimo stratega e vagliava sempre tutte le possibilità prima di lanciarsi in qualunque impresa. Se persino lui aveva proposto di usare il “Respiro del Drago” allora voleva dire che non c'era altra possibilità. Oppure che aveva un'idea su come evitare di restarci tutti secchi una volta che la sostanza avesse ridotto in cenere qualsiasi cosa.
“Con un tempo così inclemente, è l'unica via possibile. Delle normali fiamme sarebbero inutili.”
Si morse il labbro e assunse un'aria assorta. Il pensiero di ricorrere a una sostanza alchemica così poco controllabile non l'entusiasmava, ma, se tutto fosse andato per il meglio, il fuoco inestinguibile generato dal liquido avrebbe garantito a tutti loro la vittoria.
- E' rischioso, Cavaliere... - convenne Eigor e la fissò intensamente, cercando di cogliere le emozioni nascoste dietro quegli occhi ciechi, - Ma, ora come ora, è l'unica cosa che possiamo fare per realizzare la tua proposta e concludere questo conflitto senza troppe perdite. -
Un mezzo sorriso increspò le labbra della guerriera: - Benché le incognite siano ancora molte e benché nessuno possa prevedere come andrà a finire, se continuiamo a tirarci indietro potrebbero ripetersi episodi come quelli di Mera ed Edon. É arrivato il momento di combattere e questa volta vinceremo. Vi chiedo solo di accordarmi la vostra fiducia ancora una volta. -
Un silenzio carico di tensione cadde all'interno della tenda.
I due uomini la scrutarono a lungo, senza rispondere. Alla fine, Ignus scambiò un rapido sguardo con l'altro Generale.
- Va bene. Sarai tu a occuparti dell'incendio della foresta. -
- Sappi che le scorte del "Respiro del Drago" sono poche. - aggiunse il Cavaliere del Drago con tono grave, - Molto è stato usato dai soldati per riscaldarsi durante l'inverno e i rifornimenti dalla capitale arriveranno tra forse tre settimane. -
- Non preoccuparti. - scherzò la guerriera, - Ce lo faremo bastare. -
Prima che potesse aggiungere qualcosa, Airis chinò leggermente il capo e uscì a passo di marcia.
 
La battaglia venne fissata al solstizio d'inverno, esattamente la settimana seguente alla riunione. Fino a quel momento, tutti gli uomini continuarono ad allenarsi senza sosta, insensibili al gelo tagliente di quella regione inospitale.
Airis si occupò personalmente di scegliere tra i suoi uomini coloro che l'avrebbero accompagnata nella missione. Non fu facile: i veterani erano pochi e gli altri erano tutti giovani. Lo capiva da come parlavano, dal loro tono pieno di entusiasmo e speranza. Sebbene avesse combattuto qualche battaglia negli ultimi tempi, nessuno di loro conosceva veramente la guerra o di quali atrocità fosse portatrice. Sorrise triste, immaginando i volti dei familiari di quei ragazzi quando il messaggero avrebbe bussato alle loro porte annunciando che il loro figlio, marito o fratello non sarebbe mai più tornato.
Le giornate si susseguirono una dietro l'altra. La neve lentamente si sciolse, lasciando libere le fronde degli alberi dalla morsa del gelo.
Il giorno prestabilito i soldati si schierarono alle prime luci dell'alba. Un timido sole illuminava le loro corazze, facendole rifulgere dei riflessi dorati. In quel cielo azzurro si stagliarono presto delle nuvole grigie, portatrici di una bufera. Un forte vento soffiò attraverso i rami degli abeti, accarezzò il suolo, scivolò sugli elmi degli uomini e fece svolazzare i mantelli dei tre generali, immobili in testa all'esercito.
Ignus alzò il viso maledicendo quel clima così ostile.
- Con questo vento le fiamme si propagheranno molto velocemente. Siete fortunati. - batté una pacca sulla spalla di Airis, - Contiamo su di voi, Cavaliere del Lupo. -
La ragazza rimase interdetta: era la prima volta che il Generale le si rivolgeva con tale rispetto e reverenza. Infatti, dopo la loro ultima riunione, Ignus aveva cominciato a guardare con stima quella giovane spadaccina, abile come pochi.
Assieme ai suoi soldati, Airis si avventurò su quei tortuosi sentieri fino a giungere a una sporgenza rocciosa nascosta da bassi alberi. I pochi arcieri che avanzavano nelle retrovie portavano appeso sul fianco una piccola borraccia in pelle piena del liquido alchemico.
Si passò una mano sul cuore, ingoiando il groppo che le si era formato in gola.
“E' la nostra unica possibilità. O la va o la spacca.”
Inspirò profondamente l'aria fredda e svuotò la mente da ogni pensiero. Il battito cardiaco rallentò e una placida calma le pervase le membra. Si abbassò, attendendo il segnale dell'attacco. Chiuse gli occhi, concentrata su ogni suono proveniente dalla pianura. Intorno a lei l'aria era satura di tensione. Gli uomini guardavano fissi davanti a loro, immersi nei tipici pensieri di qualcuno che non sa se sopravviverà fino al giorno successivo: chi ripensava alla propria casa, chi ai propri cari, chi alla propria amata, chi con il cuore in mano pregava perchè gli fosse concesso di ritornare nella propria terra.
Airis fiutò la loro paura. Sorrise indulgente e si scostò la lunga chioma rossa sulla schiena. Giurò a se stessa che li avrebbe riportati alle loro famiglie, a qualunque costo.
In lontananza risuonò il corno da guerra, seguito poi dal marciare di tanti piedi che parevano far tremare quella terra desolata e fredda. L'esercito si dispiegò su tutta la pianura di Rashar e gli uomini alzarono le armi verso il cielo, in onore di tutti coloro che erano caduti negli scontri precedenti e che erano stati pronti a dare la vita per la loro patria e per le persone che volevano proteggere.
I soldati insieme ad Airis rimasero in posizione. La guerriera chiuse gli occhi, rimembrando le parole di Lysandra.
“ Ti troverò.”
Il corno suonò per la seconda volta.
Gli elfi li osservarono immobili dalla foresta, accovacciati sui rami e seminascosti dal fogliame. Il sole illuminava a malapena i loro archi e le loro lunghe spade, ma l'esercito umano percepiva comunque la loro presenza, senza aver bisogno di vederli chiaramente. 
Un grido si levò, alto e potente.
Airis attese. Il fiato si condensava in piccole nuvolette di fronte alla sua faccia, il cuore palpitava veloce nel petto e il sangue ribolliva nelle vene. Diede un ultimo saluto agli dei e ai compagni che sarebbero caduti in quella battaglia.
Aprì le palpebre e, nel momento stesso in cui i due eserciti cozzarono, diede il segnale.

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Capitolo 3
*** Imprevisto ***


3

Imprevisto

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

La notte era scesa su Llanowar. Dai falò al centro del villaggio elfico danzavano delle spirali di fumo che si disperdevano nell'aria, mentre uno stuzzicante odore di cibo passava attraverso le finestre delle case per poi diffondersi tra gli alberi. Le voci gioiose dei bambini che giocavano a nascondino nella neve riempivano l'atmosfera di una quieta serenità e le madri e le donne più anziane si affannavano a intorno a bracieri e camini, dove la carne sfrigolava sul fuoco. 
Tutti erano tranquilli e al contempo una grande euforia serpeggiava tra gli abitanti della foresta. Non era né una ricorrenza particolare né tanto meno una festa, semplicemente celebravano la recente vittoria contro gli umani. Anzi, le vittorie: sia Edon che Mera erano state conquistate e l'esercito avversario annientato. Si sentivano meno spaventati ora che non dovevano più subire i costanti attacchi dei nemici e non erano più costretti a montare la guardia notte e giorno. 
Negli ultimi anni la guerra si era inasprita e non era passato un giorno in cui le urla di dolore di fratelli e sorelle non fossero risuonate nella foresta.
I guerrieri che stavano raccogliendo la legna da ardere vennero chiamati dalle mogli per la cena, così, avvolti in pesanti tuniche e coperti da folte pellicce, si avviarono verso le proprie case, dove si sedettero aspettando che venisse servita loro la razione di carne e verdure. In seguito, accorsero anche tutti gli altri che erano di pattuglia, attirati da quel delizioso profumo. Raccolti lì attorno al fuoco, i bambini ascoltavano le storie dei vecchi, leggende di antichi eroi ed epoche gloriose in cui elfi e umani esercitavano il potere con giustizia e magnanimità, epoche che loro non avevano mai vissuto.
Da lontano, su una sporgenza rocciosa immersa nel folto degli alberi, un'ombra li osservava in silenzio, beandosi delle loro voci, triste per non poter prendere parte al raduno. Si sistemò il pettorale in modo da coprire perfettamente il cuore, come se il suo dolore fosse stato visibile e desiderasse nasconderlo, celando finanche il battito sordo e disperato del cuore. Tuttavia, ciò che tentava di seppellire brillava nei suoi occhi verde muschio, carichi di rimorso, solitudine e amarezza.
Continuando a scrutare quelle facce felici, appoggiò la faretra ai suoi piedi, deciso a rilassarsi per quei pochi attimi di tregua che gli dei avevano deciso di concedere al popolo di Llanowar.
Il suo nome era Ledah, ma per quelli che ora si scaldavano attorno al fuoco lui non era più nulla, solo un fantasma che si aggirava ai margini delle loro esistenze, inconsistente, privo di voce e di odore. Anche lui un tempo era appartenuto a quella gente ed era sceso al loro fianco sui campi di battaglia facendo strage di umani, falciandoli sotto i colpi delle sue daghe e trafiggendoli a morte con le sue frecce. Era stato il più bravo tra gli arcieri. Certo, allora il suo plotone era considerato il più temibile, ma lui possedeva comunque un grande talento, superiore a quello di chiunque altro. 
Era nato quando la guerra già imperversava e prima di rendersene conto aveva già abbracciato l'arte di uccidere, come se fosse naturale mietere vite, come se facesse parte di lui, come se fosse normale quanto respirare e nutrirsi; ed era giusto, necessario, indispensabile per proteggere i suoi fratelli. Assieme a molti altri aveva giurato di vegliare sul suo popolo e anche ora, nonostante fosse stato rinnegato, continuava a combattere per loro, sperando un giorno di venire perdonato per i propri errori e ottenere così la possibilità di spiegare cosa fosse successo veramente. 
Un sorriso amaro gli si dipinse sul volto: nonostante fosse passato così tanto tempo, lo credeva ancora possibile.
”Illuso. Non ti hanno accettato sul serio sin dal principio, perché mai dovrebbero riaccoglierti adesso, dopo il male che hai fatto?” 
Eppure, guardando quei visi così distesi e assaporando da lontano la gioia che li illuminava, realizzò che avrebbe davvero voluto tornare. 
Rimase lì per altri minuti, in immobile e sospesa contemplazione, mentre le risate dei piccoli lo cullavano elargendo alle ferite del suo animo un po' di sollievo, e al medesimo tempo si infilzavano nel suo cuore come chiodi sotto i colpi di un martello brandito da un aguzzino particolarmente sadico. Si sentiva spezzato a metà, in bilico su uno strapiombo e in costante, precario equilibrio, impossibilitato a sbilanciarsi da un lato piuttosto che dall'altro per il terrore di cadere giù, in quella voragine buia sotto di sé che desiderava solo divorarlo. Senza più una casa, amici, affetto, famiglia, eccetto che per una sorella lontana, la tetra oscurità in agguato dentro di lui avanzava piano piano, passo dopo passo, inesorabile, camuffandosi come la più abile delle spie, in attesa del momento giusto per imprigionarlo per sempre.
A un tratto, un lieve rumore lo mise in allerta. Le sue orecchie guizzarono appena e gli occhi saettarono febbrili da un ramo all'altro, in cerca della fonte. Abbandonò la sporgenza su cui si era appollaiato e iniziò ad arrampicarsi su un albero, senza fare alcun rumore e senza curarsi della neve che gli si appiccicava ai palmi, gelida e bianca. Raggiunta la sommità, si aggrappò saldamente a delle frasche e aguzzò lo vista in direzione dell'accampamento umano.
Strano che ci fosse un così gran trambusto, dato che di norma a quell'ora scattava il coprifuoco. Da quando gli uomini avevano perso Edon e Mera, non avevano più cercato di attaccare Llanowar. Aveva creduto che il morale dei soldati fosse talmente a terra da preferire una strategia di difesa invece che tornare all'attacco, stanchi e prostrati dai recenti scontri, terminati con la loro sconfitta. 
Ma allora perché l'aria vibrava, come pervasa da una sorta di elettricità? Perché la foresta bisbigliava satura di tensione e gli animali erano così silenziosi?
Guardò meglio, concentrandosi sulle ombre che si muovevano veloci fra i tendoni. 
Se pensavano di poterli prendere di sorpresa, si sbagliavano di grosso. Si sarebbero fatti trovare preparati. D'altronde, era risaputo che era quasi impossibile cogliere un elfo alla sprovvista. 
Si sedette su un ramo abbastanza robusto da sorreggere il suo peso, obbligandosi a ignorare il brivido di freddo che gli risalì la spina dorsale, e rivolse l'attenzione alla falce di luna che brillava nel cielo limpido punteggiato di stelle. Tutto pareva quieto, fin troppo.
“Ho uno strano presentimento, come se stesse per accadere un qualcosa di veramente terribile.” 
Sospirò stanco, scacciando inutili pensieri. Si impose di restare calmo e di non lasciar libera la fantasia. In più era esausto, quindi era più che probabile che fosse solo colpa della fatica, che gli giocava brutti scherzi e alterava le sue percezioni. Dopo altri minuti trascorsi a convincersi che tutto era come doveva essere e che il peggio era passato - sebbene una parte di sé ancora si ostinasse a lanciargli moniti allarmanti - chiuse gli occhi, abbandonò la schiena sul tronco e scivolò in un sonno inquieto.
A strapparlo dall'oblio fu un rumore assordante, che gli rimbombò nel petto e nelle ossa. Sussultò e si alzò di scatto, rischiando di cadere sfracellato al suolo. Ma all'ultimo secondo riuscì ad aggrapparsi ad un ramo e i suoi polmoni rilasciarono un sospiro di sollievo, che però durò giusto un battito di ciglia. Si affacciò oltre il fogliame e scrutò verso l'orizzonte, oltre le cime innevate degli alberi, dove una linea compatta e scura lentamente si ispessiva, delineandosi fin nei più preoccupanti dettagli. 
In poco tempo la pianura di Rashar, antistante Llanowar, fu invasa dal brillio di centinaia di migliaia di spade e lance, sulle quali si riflettevano i raggi del sole.
L'esercito degli umani stava avanzando deciso con a capo due Generali e sembrava in procinto di attaccarli.
“Non ci credo. Pensano davvero di poter penetrare nella foresta? Stupidi.” 
Ghignò, scalò l'albero agile e leggero, attento a non scivolare nulla neve, e atterrò di nuovo sulla roccia che lo aveva ospitato la sera prima, al fianco della quale aveva lasciato la faretra. La raccolse e se la riallacciò alla cintura, poi imbracciò l'arco con gesti esperti, conscio dell'orda che si stava avvicinando velocemente ai loro confini, mentre dalle case del villaggio uscivano i guerrieri, già pronti allo scontro, di sicuro allertati dal gran baccano della marcia dell'esercito avversario. 
Non avrebbe mai compreso gli esseri umani, così teatrali e incauti da sferrare un attacco frontale agli elfi annunciandosi in pompa magna, come se anelassero in modo malato a diventare i bersagli delle sue frecce. Non che a lui dispiacesse, beninteso. Se proprio ci tenevano a morire come mosche sotto una raffica di dardi, chi era lui per non accontentarli? Però se avesse continuato ad elaborare strategie di quel genere, non sarebbero sopravvissuti a lungo davvero, non contro l'armata elfica almeno, di certo più prudente, silenziosa e organizzata.
All'ordine dei Generali, i nemici si gettarono alla carica. 
Gli elfi, schierati al riparo nella fitta vegetazione, aspettarono con espressione imperturbabile, quasi volessero far credere agli altri di essere stati colti impreparati e di non avere idea di come procedere nella difesa. Poi dalle profondità della foresta, in maniera del tutto inattesa, uscirono dei giganteschi lupi dal pelo folto e irsuto, con occhi lampeggianti di furia, che si scagliarono contro i soldati dell'avanguardia sfondando la barriera di lance e scudi con selvaggia ferocia. Azzannarono direttamente alla gola i cavalieri che tentarono di difendersi, oppure puntarono alle caviglie per farli sbilanciare e cadere nella polvere, e quando i primi corpi giacquero a terra privi di vita le armate elfiche partirono all'attacco. Grida di morte si alzarono da entrambe le parti. 
Un sorriso malvagio si dipinse sul volto di Ledah, le iridi verdi animate da una luce sinistra e assetata di sangue. 
“Oggi ci sarà da divertirsi.”
Si inoltrò tra gli alberi diretto verso la battaglia nell'attimo preciso in cui i due eserciti cozzarono col fragore di un tuono e, muovendosi agilmente, giunse in poco tempo su uno stretto sentiero nascosto nella boscaglia. Udì lo stridio metallico delle spade, il suono cavo provocato dal tonfo delle armi sugli scudi, gli sbuffi affaticati, i gemiti, le urla agguerrite, e aumentò il ritmo della corsa con un obiettivo ben chiaro nella mente. Quando fu abbastanza vicino al campo, in una posizione non eccessivamente esposta, si arrampicò nuovamente su un tronco e si sedette a cavalcioni di uno spesso ramo, dal momento che dall'alto godeva della visuale perfetta per compiere il suo lavoro: vide elfi e umani che combattevano con violenza, senza esclusione di colpi, le facce deformate in maschere grottesche di sangue e rabbia. 
Protese l'arco e incoccò. La corda si tese. Prese la mira, i muscoli già pronti a rilasciare la tensione. Lo sguardo gli cadde su un guerriero piuttosto giovane che duellava a poca distanza da lui, armato di un pesante spadone. Questi stava per sferrare un colpo mortale ad uno dei suoi fratelli che annaspava ai suoi piedi con il viso sporco di fango, ma Ledah era ben deciso a non lasciarglielo fare. La sua freccia fendette l'aria e, pochi secondi dopo, l'umano crollò a terra trafitto dritto al cuore.
“Troppo facile.”
Schioccò la lingua deluso e perlustrò il paesaggio intorno a sé, in cerca di una sfida che gli facesse ribollire il sangue nelle vene. 
Ed ecco che in mezzo alla bolgia scorse un soldato rivestito da un'armatura lucente piena di fregi e sopra di essa un mantello arancione che svolazzava sulla schiena larga e possente. In mano impugnava una spada preziosa e, grazie alla sua vista sviluppata, Ledah notò la figura di un leone campeggiare sull'elsa. Già da lontano quell'uomo emanava un'aura regale e fiera, quella di un vero veterano che era sopravvissuto a innumerevoli massacri, e di certo era proprio uno dei due Generali che aveva scorto in testa all'esercito, ma poco importava. Quell'impressione di apparente valore e invincibilità non fece che stuzzicarlo, alimentando la sua voglia di vederlo morto. Lo osservò ancora con i suoi occhi muschiati, poi incoccò e scoccò rapido. Una leggera raffica di vento gli scompigliò i lunghi capelli neri trattenuti in una coda bassa e una ciocca gli finì sulla guancia. Il dardo attraversò sibilando la distanza che lo separava nel tempo di un respiro e infine si conficcò nel punto esatto che Ledah aveva pensato di colpire. 
Il corpo dell'uomo venne scosso da un sussulto e i suoi occhi si sbarrarono di genuina sorpresa. Sollevò una mano per portarla a toccarsi la fronte, ma prima che potesse raggiungerla si accasciò al suolo esanime, mentre un rivolo cremisi colava fuori dal foro nel suo cranio. 
Ledah girò la testa a destra e a sinistra, cercando un'altra vittima, quando un uomo calamitò la sua attenzione: come l'altro, pure questo incuteva soggezione, segno evidente che si trattava del secondo capo. Indossava un lungo mantello verde sopra l'armatura di ottima fattura e brandiva una spada con l'effige di un drago. Tese nuovamente l'arco, umettandosi le labbra per tenere a bada l'eccitazione. La freccia non mancò il bersaglio e trafisse la spalla del Generale, ma l'uomo non cedette, continuando la sua avanzata nelle fila elfiche, falciando i nemici con la lama affilata. Pareva quasi che il colpo non lo avesse scalfito, né nell'animo, né nella concentrazione o nella corazza di acciaio lucido, che gli proteggeva la carne morbida e vulnerabile. 
Quello scandagliò il marasma che lo circondava con estrema minuzia, anche se ci impiegò solo pochi istanti, fino a puntare gli occhi collerici sull'arciere, accovacciato tranquillo sul suo ramo al limitare della foresta di Llanowar, con ancora il braccio proteso innanzi a sé e la mano che impugnava l'arco. Ledah si avvide che era troppo tardi per nascondersi o negare di essere stato lui a scoccare. 
Senza distogliere gli occhi da lui, il Cavaliere del Drago cominciò a marciare nella sua direzione facendosi largo a colpi di spada, lo sguardo fiero e determinato.
“Cosa accidenti crede di fare? Ha del fegato, però.” 
Schioccò di nuovo la lingua, amareggiato per non essere riuscito a ucciderlo subito. Ma a sua discolpa si doveva dire che quel guerriero si era mosso all'ultimo istante in una traiettoria che non aveva considerato. 
Più in basso la terra e l'erba erano già ricoperti di cadaveri, e il nevischio che scendeva pigro dal cielo plumbeo, mescolandosi al sangue, rendeva il suolo fradicio e scivoloso. Spade, lance e scudi cozzavano senza sosta, coprendo ogni altro suono, e nuguli di frecce imbrattavano il cielo come tante minuscole macchioline nere in perpetuo movimento. Gli umani si gettavano contro gli elfi con odio, faticando però a penetrare quella selva di alberi e lame. 
Con il braccio dolorante e il sangue che gli imbrattava l'armatura, Felther arrivò a pochi metri dall'albero su cui era rifugiato Ledah, ma prima che potesse pensare di sferrare un qualunque attacco un soldato elfico gli si parò davanti, puntandogli la lancia alla gola. Il Generale lo aggirò con grazia sorprendente, per poi staccargli il braccio destro in un unico, poderoso fendente. A quel punto in altro elfo sbucato fuori dal nulla lo caricò impugnando una freccia come se fosse un pugnale. Non appena fu a meno di un braccio, il Cavaliere gli trafisse il torace, affondando la spada fino quasi alla guardia. Si voltò poi verso Ledah con un sorriso spavaldo, alzando il corpo del nemico a mo' di scudo, mentre le due frecce scagliate dall'abile arciere si conficcavano nel cadavere. A un tratto, un lancinante dolore alla spalla sana pervase il Generale, che si ritrovò a boccheggiare incredulo. Abbassò lo sguardo e notò che un terzo dardo aveva trapassato le carni del suo scudo improvvisato fino a penetrare oltre l'acciaio della propria armatura. L'arma gli scivolò via di mano, lasciandolo completamente scoperto e inerme. In quel momento per Felther il tempo sembrò rallentare fin quasi a fermarsi e il passato e il presente cessarono di esistere, portando via con loro la paura di morire e la sensazione di avere un corpo. Infine altre tre frecce si piantarono nel suo petto e il coraggioso Cavaliere del Drago cadde sulle ginocchia, gli occhi azzurri rivolti verso il cielo. Annaspò in cerca d'aria, ma dalla sua bocca fuoriuscirono rivoli cremisi. Posò per l'ultima volta lo sguardo su quell'abile arciere che lo aveva sconfitto, poi si accasciò al suolo senza dire una parola, cadavere tra cadaveri.
Ledah, indifferente, continuò imperterrito a mietere vittime tra i nemici, quando inaspettatamente avvertì uno strano odore, stonato, del tutto fuori luogo in un contesto simile e soprattutto in presenza della neve.
“Ma cosa...? Cos'è che sta bruciando?” 
Un pensiero lo folgorò mozzandogli il fiato. Impallidì e puntò le iridi verdi in un punto indefinito. 
“Aspetta... i Generali degli umani sono tre, non due...” 
Un brivido gli corse lungo la schiena e fece fatica a trattenere un grido. 
Dall'altro lato della foresta si alzò presto un'enorme nube di fumo nero, che ammantò le cime degli alberi e riempì l'aria di un tanfo insopportabile. Anche altri elfi se ne accorsero e allarmati si misero a correre a perdifiato, battendo in ritirata. 
“Dannazione! Hanno dato fuoco alla foresta!” 
Ledah saltò giù dall'albero e li seguì tenendosi a debita distanza. 
Alle sue spalle, la battaglia continuava a infuriare, le urla della sua gente arrivavano alle sue orecchie. Vide uno degli umani perforare il torace di un elfo, mentre alla sua sinistra il corpo di un'arciera si accasciava a terra, il cranio spaccato a metà da un colpo d'ascia. Strinse con rabbia l'arco, accelerando ulteriormente, con il cuore che forte gli batteva nel petto. 
Capì che era il loro piano sin dall'inizio. L'attacco frontale era solo un diversivo per dividere le forze. Se non fossero riusciti a fermarli in tempo, Llanowar sarebbe caduta.
Gli animali si precipitarono al riparo nelle loro tane, i mastodontici lupi loro alleati si gettarono alle calcagna dei guerrieri elfici per aiutarli e tutto intorno si scatenò il caos. 
Sopra la sua testa uno stormo di corvi si alzò in volo, spaventati dall'incendio, anche se quella zona era ancora sicura. Ma per quanto lo sarebbe stata? 
Il cattivo presentimento della sera prima tornò a gravargli sull'animo e si pentì di non aver dato ascolto al proprio istinto, che fino ad allora non lo aveva mai tradito. 
Chiuse gli occhi concentrandosi, cercando sgusciare il più rapidamente possibile attraverso la fitta vegetazione. 
Da ovest il forte vento trasportava l'odore di legna bruciata, ma dal cuore della foresta Ledah percepiva un'enorme quantità di potere magico. Ipotizzò che gli Anziani, i più saggi fra gli elfi, stessero elaborando un incantesimo per placare le fiamme, ma non si soffermò a riflettere troppo. Ora la priorità era un'altra. 
Riprese la sua corsa con addosso una nuova inquietudine. Man mano che avanzava, il terreno si faceva sempre più arido e l'aria sempre più calda, finché davanti a lui non si stagliò un paesaggio divorato dal fuoco, che si innalzava oltre le sommità degli alberi lambendo un cielo grigio come la cenere. In mezzo a quell'inferno si era accesa un'altra battaglia: da una parte un manipolo di forse duecento uomini armati combatteva furiosamente cercando di aprirsi un varco, dall'altra c'erano gli elfi, che, assieme ai fratelli che conoscevano la magia, tentavano disperatamente di spegnere le fiamme e di respingere l'assedio. Ma l'acqua evocata dalle loro arcane parole non riusciva a fermare le lingue di fuoco inarrestabili che si stavano propagando ovunque.
Ledah incendiò una freccia e, rimanendo lontano, iniziò a uccidere a uno a uno tutti gli umani che poteva. 
Il calore diventò sempre più insopportabile e il sudore cominciò a colargli in piccole stille salate sulla fronte e sugli occhi, ma lui non ponderò nemmeno per un attimo di arrendersi, rifiutandosi persino di prestare attenzione alle dolorose piaghe che gli si stavano aprendo sulle mani, mentre l'aria diventava sempre più irrespirabile. Intanto le spade degli altri elfi che erano accorsi insieme a lui tagliavano, recidevano, squarciavano e grondavano sangue, bagnando le radici riarse degli alberi. 
Al centro della strage, soltanto uno tra gli umani, una donna, continuava a combattere senza fermarsi, incurante delle fiamme e della desolazione che aveva intorno. I soldati elfici la attaccavano da ogni parte, ma nessuna delle loro lame riusciva anche solo a sfiorarla. 
Ledah la osservò: indossava una semplice armatura leggera, i lunghi capelli del colore delle braci le ondeggiavano attorno in una danza ipnotica ad ogni colpo di spada. Si muoveva con una grazia che non aveva mai visto, assorta nel duello come in un frenetico ballo. Incoccò una freccia e mirò alla testa, quando la sensazione di angoscia di poco prima gli ostruì la gola: l'energia che aveva percepito prima stava crescendo e continuava a scaturire a ondate dal cuore di Llanowar.
Un ultimo urlo interruppe i suoi pensieri: la guerriera dai capelli rossi aveva ucciso tutti gli elfi che l'avevano attaccata e ora si ergeva trionfante sopra i loro corpi. Prontamente, Ledah scagliò il dardo, ma lei si voltò fulminea, sin troppo rapida per essere umana, e con un fendente lo tagliò perfettamente a metà. Dopodiché, posò il suo sguardo vacuo su di lui e l'arciere notò che quegli occhi erano bianchi, vuoti, ciechi. 
Improvvisamente i lineamenti della ragazza si contrassero in una smorfia sbigottita e la bocca si dischiuse leggermente, come sul punto di esalare un'esclamazione. Una luce strana attraversò quelle iridi chiare, veloce come un lampo, tanto veloce da far dubitare a Ledah di aver effettivamente visto qualcosa. Poi tutto tornò alla normalità e la osservò riassestarsi, pronta a combattere.
Un terzo brivido lo scosse da capo a piedi e non seppe spiegarsi perché d'un tratto provasse soggezione di fronte alla sconosciuta, insieme ad uno strano disagio misto al desiderio di fuggire. 
Cominciò a indietreggiare, intimorito dall'aura austera e dall'espressione algida del terzo Generale delle truppe umane. 
La guerriera avanzò come se lo vedesse perfettamente, l'elsa della spada che pendeva dalla sua mano e un'aria indecifrabile. Le fiamme si riflessero sull'acciaio dell'armatura e inondarono di bagliori rossastri l'emblema di un lupo inciso sul pettorale: era lei, la Morte Bianca, Airis Lullabyon, Cavaliere del Lupo. 
“Allora è vero che è cieca!” 
Una voce calma e pacata ruppe il silenzio. 
- Ti offro due possibilità, elfo: puoi tornare da dove sei venuto, incappare nei miei soldati e farti ammazzare, oppure mi affronti e muori comunque. - sorrise divertita, - A te la scelta. -
- Morire per mano dei tuoi sarebbe troppo umiliante, Generale. Preferisco portarti nella tomba con me. - rispose Ledah, ostentando una spavalderia fasulla in contrasto con la tensione e la paura che gli annodavano lo stomaco.
Tuttavia, senza esitare si liberò dell'arco e sguainò le daghe, gettandosi all'attacco. Sgusciò di lato e scattò in avanti, tentando un affondo al ventre. Airis attese finché non fu abbastanza vicina per parare il colpo, e dall'urto delle due spade scaturirono delle scintille. 
- Tutto qui, elfo? - 
Procedette subito al contrattacco, ma Ledah si allontanò prima che la lunga lama violasse le sue carni.
- Agile, - constatò l'umana riprendendo fiato, - ma non abbastanza. -
Si scagliò contro di lui, menando un fendente frontale. Ledah scattò veloce indietro e uno sfrigolio metallico vibrò nell'aria satura di fumo. Quando fu a debita distanza, l'elfo si portò la mano al cuore, dove la lama della guerriera aveva scavato un profondo solco nel freddo acciaio del pettorale.
“Come fa a combattere così bene? È cieca, dannazione!” 
Roteò le daghe, imprecando, e le girò attorno silenzioso, sforzandosi di trattenere anche il respiro per non rivelarle la sua posizione. Cercò di cogliere una falla nella sua difesa, la studiò con attenzione, analizzò la sua postura, i muscoli appena visibili sotto la corazza; esaminò pure il ritmo del suo respiro, che era regolare e calmo, come se non fosse minimamente spaventata da lui, conscia di essere più forte. Però, nonostante fosse sicuro di non stare provocando alcun rumore, Airis lo seguì lo stesso con lo sguardo vuoto, la spada abbassata fingendo riposo.
“Che arroganza. Non si è messa nemmeno in posizione difensiva.”
Camminò sempre più piano, rallentò e infine si arrestò. Trattenne il fiato e a un tratto fu come se avesse cessato di esistere. Non appena gli parve di cogliere un lampo di smarrimento in quelle iridi opache, partì in pesante carica, vibrando un colpo al ventre. La guerriera, contro ogni previsione, si riprese in fretta e fece scivolare la lama sulla sua, costringendolo ad abbassare la guardia, e allora la punta della spada gli perforò lo spallaccio, penetrando nelle carni.
- La tua avanzata finisce qui. - sibilò Airis vittoriosa.
Con l'elsa lo colpì al volto, scaraventandolo a terra. L'impatto col suolo fu talmente violento che l'elfo perse una delle due daghe. Si rialzò subito, prima che un affondo potesse raggiungere il suo cuore, e con uno sgambetto la fece cadere, per poi bloccarla. Con un ghigno di trionfo sulle labbra, le puntò la lama alla gola. 
Airis rimase immobile per alcuni secondi e nell'attimo stesso in cui Ledah ritirò la daga per affondare nel collo di lei, lo colpì violentemente alla tempia con l'elsa della spada. L'arciere istintivamente lasciò cadere anche l'altra lama e indietreggiò, ma il Cavaliere gli fu subito addosso. Gli assestò un altro colpo deciso alla spalla e un suono di ossa che si spezzano lo raggelò. Un dolore acuto pervase l'elfo e il braccio destro si adagiò inerte al suo fianco. 
“Dannazione...”
Non fece in tempo a finire di pensarlo, che un altro calcio gli venne sferrato alla bocca dello stomaco e poi un altro e un altro ancora, finché l'ultimo lo scagliò contro un'enorme masso. Ledah tentò di rialzarsi, ma i muscoli doloranti non rispondevano ai suoi comandi. Airis avanzò fino a lui, la determinazione dipinta sul viso dai lineamenti dolci. Quando furono l'uno di fronte all'altra, con un gesto brusco strappò gli strappò il pettorale e poggiò la spada al centro del suo torace. Tuttavia, la lama non trapassò mai il cuore dell'elfo, perché all'improvviso nella foresta piombò un silenzio surreale, elettrico, che fece venire a entrambi la pelle d'oca. 
“Qualcosa sta per accadere.”
Non seppero di averlo realizzato in contemporanea, ma servì a poco.
Un fischio acuto squarciò l'aria e si diffuse per tutta Llanowar e annientando qualsiasi altro suono. 
Dopodiché la luce li avvolse.

 

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Capitolo 4
*** Frammenti di memoria- Arrivo a Sheelwood ***


4

Frammenti di memorie-Arrivo a Sheelwood

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Erano una decina e si muovevano agili e sinuosi attraverso l'erba alta. Sopra di loro, un sole morente illuminava le faretre di lucido legno, facendo risplendere il filo dell'arma come fosse d'argento. Erano elfi arcieri, i migliori che l'esercito possedesse.
Uno di loro correva più veloce degli altri, talvolta voltandosi per essere sicuro di non aver seminato i compagni: era alto, longilineo, i muscoli allenati e tonici coperti da una tunica, stretta in vita da una fascia blu scuro. Aveva due occhi muschiati, verdi come gli aghi dei pini. Una brezza leggera fece fluttuare i suoi capelli neri, legati in una lunga coda. Accanto a lui stava un elfo di poco più giovane, dalla carnagione diafana. I capelli corti e fulvi incorniciavano un volto spruzzato di lentiggini e i due occhi grandi e azzurri gli conferivano un'aria quasi infantile. Questi sorrise, notando lo sguardo serio e concentrato del suo compagno.
- Ledah, sembri un corvaccio del malaugurio. - rise divertito, - Cerca di essere un po' più rilassato. Andrà tutto bene, come al solito. - 
Gli spallacci della sua armatura leggera brillarono sotto gli ultimi raggi.
- Tu sei sempre troppo ottimista per i miei gusti. Sembra che tu stia andando a fare una scampagnata. - sbuffò. - E sei pure un mio superiore! -
Il ragazzo lo guardò senza perdere il sorriso: – Un bravo comandante, mio caro corvetto, non deve assolutamente mostrare la sua ansia e la sua preoccupazione, altrimenti i suoi soldati ne risentirebbero. -
- Innanzitutto, non chiamarmi in quel modo, o ti prometto che non appena torniamo ti faccio nero, Brandir. - disse Ledah, guardandolo di traverso, - E poi il problema è che tu... sei troppo calmo. Per te andare sul campo di battaglia o a trovare la tua amata Aiwen è la stessa cosa. -
Brandir fissò il paesaggio davanti a sé, rimanendo sovrappensiero. Poi, sempre sereno, continuò: - Beh, Ledah, essere pessimisti non ha mai portato a nulla, quindi preferisco sorridere e pensare che torneremo al nostro villaggio sani e salvi. - 
Un'ombra attraversò i suoi occhi, per poi sparire veloce come era arrivata. 
- Questa guerra... tutto il sangue versato negli ultimi anni... mi ha sfiancato, lo ammetto. Però, se penso che lo faccio per garantire un futuro a me e ad Aiwen, ritrovo la forza. Quando hai qualcuno per cui combattere, riesci a superare qualunque ostacolo. -
Ledah incrociò lo sguardo dell'altro elfo e sul suo volto si dipinse un sorriso sghembo e divertito.
- Certo che tu sei proprio strano. Prima mi dici di non fare il musone e poi diventi serissimo e inizi con i tuoi discorsi filosofici. - rise di cuore. 
Brandir si unì a quell'insolita e inaspettata risata. Poi entrambi si volsero verso la foresta di Sheelwood che si stagliava maestosa davanti a loro. 
Due giorni prima era arrivata una soffiata secondo cui un piccolo contingente di umani si era stanziato nella parte orientale e l'Assemblea degli Anziani di Llanowar aveva deciso di mandare una squadra a controllare. Dapprincipio, Ledah era rimasto sorpreso nel vedere che i componenti scelti erano i guerrieri più forti dell'esercito, ma aveva deciso di tenere le proprie domande per sé. Era solo un arciere e c'erano dei limiti riguardo cosa gli fosse concesso o meno fare. Indagare sulle ragioni dei capi non rientrava fra i suoi compiti, quindi se n'era rimasto zitto, anche se dentro smaniava per ottenere qualche risposta, o almeno uno straccio di indizio.
-Oltretutto, ora stiamo andando a unirci con un altro gruppo di guerrieri. - aggiunse il rosso, poi si fece scuro in volto. 
"Continuo a credere che tutto ciò non ha senso.”
A pochi metri dai primi alberi si fermarono. Quattro elfi, ricoperti da pesanti armature e muniti di lunghe lance, vennero loro incontro. Il sole ormai era calato oltre l'orizzonte e le ombre giganti che si allungavano dai quei corpi possenti parevano le sagome di qualche bestia infernale. 
Quello che sembrava essere il capo li scrutò con attenzione e dopo un rapido cenno le due guardie che sbarravano loro il passaggio si scostarono, permettendo loro di procedere oltre. Il quarto guerriero, invece, li seguì silenzioso, come se volesse tenerli d'occhio. 
Ledah si guardò attorno. Sheelwood, a differenza di Llanowar, aveva un clima molto più mite, grazie alla catena montuosa dei monti Ettra che fermava i gelidi venti del nord. Nell'aria si respirava un forte odore di fiori e una brezza gentile carezzava i loro volti stanchi. Cipressi odorosi contornavano il sentiero che stavano percorrendo e i rami degli ippocastani, intrecciati sopra le loro teste, filtravano la luce lunare, donando a quella foresta un'atmosfera sacrale. Il silenzio che regnava attorno era interrotto dal frinire delle cicale o dal battito d'ali di un qualche uccello notturno, ricordando loro la vita che impregnava quel luogo. Luogo che, sino a pochi mesi prima, nessun umano era riuscito a vedere. 
Ledah camminava in rispettoso silenzio, colmando gli occhi e il cuore di tutta quella meraviglia che lo circondava. I suoi compagni si guardavano in giro, ancor più meravigliati di lui dalla varietà di flora e fauna. Soltanto Brandir sembrava non subire il fascino del panorama e, completamente immerso nei suoi pensieri, procedeva lungo il sentiero. Il suo sguardo solitamente pieno di gioia e vitalità si era fatto torvo e le sopracciglia erano aggrottate in un'espressione accigliata. 
Ledah gli si accostò: - Stai bene? Mi sembri più pensieroso del solito... -
L'amico si riscosse subito: - No, figurati. È solo una tua impressione. - 
Fece per accelerare il passo, ma Ledah lo trattenne. 
- Dimmi cos'hai. Puoi ingannare loro, - indicò col capo i loro compagni, - ma non me. Ti conosco da troppo tempo. -
Brandir scrutò per alcuni attimi avanti a sé, poi espirò stancamente, come se avesse trattenuto il fiato fino a quell'istante. 
- Questa storia non mi convince, ci deve essere qualcosa sotto. - bisbigliò, attento a non farsi udire, - Anche ai piani alti erano inquieti e la cosa mi ha insospettito. Benché sia una semplice missione di ricognizione, hanno insistito non solo che andassimo noi, ma addirittura che ci unissimo a un altro contingente. Ho chiesto informazioni anche ai membri del Consiglio, ma mi hanno detto poco e nulla. L'unica cosa che sono riuscito a scoprire è una diceria, secondo cui quel manipolo di uomini accampato a oriente possiede un'arma segreta. -
Ledah lo osservò incuriosito: - Che genere di arma? -
- Si mormora che il loro Comandante sia veramente molto abile. Ho sentito dire, oltretutto, che quel guerriero è colui che ha causato la caduta di molte delle foreste che abbiamo perso. -
- Allora non avevo notato solo io che qualcosa non andava. - Ledah fece scrocchiare il collo, - Anche a me è parso strano, ma visto che tu non dicevi nulla ho pensato di tenere i dubbi per me. - 
Tacquero entrambi, poi Brandir con fare scherzoso gli diede un pugno sulla spalla. 
- Dai, siamo noi che ci stiamo preoccupando per niente. - tornò a sorridere, – E poi sarei io quello che pensa troppo! Detto da un corvetto sempre corrucciato mi sembra quasi un complimento. - 
Si scambiarono uno sguardo complice e scoppiarono a ridere, come quando erano piccoli. Gli altri si voltarono fulminandoli e facendo loro segno di tacere. La guardia, che nel frattempo li aveva superati, li squadrò con fare altezzoso. 
- Vedete di piantarla, voi due. Sapevo che gli elfi di Llanowar non erano propriamente un modello di disciplina, ma non pensavo fino a questo punto. - 
Ledah stava già per rispondergli a tono e domandargli cosa mai avessero fatto di male, quando giunsero a destinazione. Tutti rimasero a bocca aperta davanti al supremo spettacolo che si offriva ai loro occhi. Quel luogo era il regno del verde. La pianura che si estendeva sino all'orizzonte era di un intenso colore smeraldo, l'acqua limpida e cristallina dei tre ruscelli che vi scorrevano pareva nascere dal nulla, come se scaturisse dai meandri della terra, e sugli argini levigati antichi salici vi intingevano le loro lussureggianti foglie. Ma la cosa che colpì i guerrieri di Llanowar fu il gigantesco e maestoso albero che si ergeva al centro della piana. Le sue fronde immense coprivano quel paradiso come le braccia di un padre benevolo e sui suoi rami così poderosi e robusti erano state costruite delle piccole case, all'interno delle quali si potevano scorgere intere famiglie.
- Quello è il Padre della Foresta, la nostra dimora. - spiegò la guardia, inspirando il profumo dei gelsomini, - Noi viviamo qui. Lui ci offre tutto: cibo, acqua e protezione. - 
Ledah continuava a guardarsi intorno, mentre camminava a seguito dei suoi compagni. Gli tornarono in mente le fredde piane di Llanowar e il quasi eterno inverno della sua terra: due luoghi completamente diversi, eppure splendidi nella loro unicità. Giunsero ai piedi di quell'imponente dio arboreo, alla base del quale vi era una rientranza custodita da altre guardie dall'espressione vigile e severa. 
- Ma quante ce ne sono?! Hanno proprio uomini da sprecare, qui. - mormorò Ledah a bassa voce. 
Non sapeva che quello stesso pensiero passava anche nella mente dei suoi commilitoni. L'unico che non sembrava sorpreso era Brandir. 
- Ora capirai perché c'è una così alta sorveglianza. - disse rivolto all'amico e ammiccò. 
La guida fece loro segno di fermarsi, poi procedette avanti.
Dopo aver sussurrato qualcosa alle orecchie delle guardie, queste si scostarono. L'insenatura li immise in un corridoio illuminato dalla fioca luce delle fiaccole. Mentre camminavano, Ledah si accorse che a costituire le pareti di quella galleria erano le radici dell'albero stesso. 
- Se non chiudi la bocca, ti entrerà qualche moschino, Ledduccio caro. - Brandir lo redarguì con tono canzonatorio, - Oggi ti stupisci spesso, vedo. - 
Rimase perplesso nel notare che l'amico non gli rispondeva. 
- Ledah? Mi stai ascoltando? - 
Ma l'elfo dai capelli neri e dallo sguardo sempre impassibile non gli dava più retta, affascinato com'era dalla magia di quel luogo: davanti a loro il passaggio si era allargato sempre di più, aprendogli la vista su una vera e propria città. Le case, semplici e rustiche, sorgevano su piani sopraelevati che parevano nascere dall'albero stesso. I primi erano collegati tra loro da enormi funghi, ai piedi dei quali giocavano gruppi di bambini affiatati e rumorosi. Dal terzo piano in su erano stati costruiti dei ponti in quella che sembrava ambra. Mentre salivano, le case diminuivano, lasciando il posto a ville eleganti e solenni, abitate da elfi vestiti in modo quasi principesco. Arrivati in cima non vi era più nulla, soltanto un alto portone in ebano, intagliato con le sagome degli eroi delle leggende che avevano popolato l'infanzia di ogni guerriero lì presente.
La guardia bussò agli enormi battenti. Dopo un paio di secondi venne ad accoglierli un anziano elfo, vestito con una lunga tunica bianca impreziosita da rifiniture bianche.
- Prego, seguitemi. Vi aspettavamo con ansia. - sul suo volto si dipinse un sorriso contornato da mille rughe, rivolto solo a Brandir. 
Ledah sussurrò: - Fanno le preferenze anche nei saluti? Poi dicono che siamo noi i maleducati. - 
L'amico fece spallucce e riprese a camminare. Furono immessi in una sala illuminata da fiammelle azzurre, sostenute dalle mani delle statue degli antichi dei. Con passi malfermi il vecchio passò attraverso quella colonna di sculture, fino a un'ultima scala che si volgeva su se stessa come le spire di un serpente.
Stavano per avvicinarsi, quando il vecchio li fermò: - Solo il vostro capo può essere ammesso al Consiglio di guerra. -
- Cosa?! Io non lascio solo il mio comandante! - sbottò uno degli arcieri di Llanowar. 
Alla sua protesta se ne unirono altre, finché Brandir fece loro segno di tacere. 
- Non preoccupatevi. Domani mattina vi metterò al corrente di quello che verrà detto. Ora andate. - la sua voce non ammetteva repliche. 
Dopo averli guardati ad uno ad uno, cominciò a salire. 
Ledah ascoltò i suoi passi risuonare nel silenzio e nell'oscurità, gradino dopo gradino, fino a quando, giunti alla fine della scalinata, furono coperti dal tonfo di una porta che si chiudeva. Mentre i suoi compagni si avviavano verso gli alloggi che gli ospiti avevano messo a disposizione per loro, Ledah si appoggiò a una di quelle statue, si accasciò sul pavimento e chiuse gli occhi, scivolando nel dormiveglia e aspettando il ritorno del suo migliore amico.


 

 

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Capitolo 5
*** La caduta e l'alleanza ***


5

La caduta e l'alleanza

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Buio. Qualcosa di duro sotto la schiena. Attorno solo oscurità, nera e opprimente. E soprattutto dolore, cieco dolore. 
“Sono morto?” 
Mosse le dita intorpidite e lentamente aprì gli occhi. L'azzurro del cielo era accecante. Ledah tentò di coprirsi con una mano, ma una lacerante fitta alla spalla attraversò ogni sua fibra, bloccando il braccio a mezz'aria: la ferita inferta da Airis pulsava.
Quanto era rimasto incosciente? 
Provò ad alzarsi, ma il suo corpo a malapena rispondeva alla sua volontà. Ogni muscolo gemette e dalle sue labbra uscì un grido: sembrava che ciascun osso si fosse frantumato. Battè le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco il panorama. Davanti a sé si estendeva un lungo corridoio scavato nella terra, pieno di sassi ricoperti di muschio. 
“Un letto di un fiume...?” 
Non ricordava che nelle vicinanze ce ne fosse uno. Prese un ramo che giaceva ai suoi piedi e con uno sforzo immane si tirò a sedere. Si chinò per toccare le pietre, ma un forte capogiro lo costrinse a sdraiarsi di nuovo. Tentò di scandagliare i ricordi alla ricerca di un indizio, un nome che lo aiutasse a capire, e qualcosa emerse dai recessi della memoria, un frammento di un passato dimenticato: il fiume Raal. Lui e Brandir, quando ancora la guerra non era arrivata a Llanowar, giocavano proprio lì vicino.
“Sono certo che l'ultima volta che ci sono passato era ancora in piena. Ma allora... cos'è accaduto qui?” 
Si mise in piedi barcollando e dopo vari tentativi recuperò l'equilibrio sulle gambe. Compì un passo, aiutandosi con il ramo per sostenere il peso del proprio corpo. 
Ricordava vagamente che stava combattendo in mezzo alla neve quando c'era stata un'esplosione ed era stato avvolto da una luce abbagliante. Poi il nulla. 
L'ombra di un albero si stagliò pigramente su di lui, concedendogli una tregua contro il sole che gli batteva sulle spalle. 
“Sarò stato scaraventato contro qualcosa e... e dopo essere caduto... avrò perso i sensi.” 
Chiuse gli occhi e accennò portarsi la mano sinistra alla testa quando una nuova fitta di dolore lo investì. Guardò il braccio che aveva tentato di sollevare: le vene erano tutte in rilievo ed era piegato in una posizione innaturale, troppo innaturale. 
“E' rotto, maledizione!” 
Doveva concentrarsi e trovare un modo per medicarlo. Volse lo sguardo intorno, cercando un appiglio al quale aggrapparsi per uscire dal letto del fiume, e poco più in là vide delle radici robuste che fuoriuscivano del terra. Si accostò ad esse, stringendo i denti più che poteva, e con le poche forze che gli rimanevano si arrampicò facendo affidamento sull'unico braccio sano. Non seppe quantificare quanto tempo ci mise, ma non appena percepì il terreno sotto il palmo si accasciò sfinito. 
Successivamente un acre odore di bruciato gli pizzicò le narici. Tastò tutto attorno e si avvide che qualunque cosa toccasse gli si sbriciolava tra le dita. Allarmato, sollevò la testa e osservò incredulo la cenere che ricopriva la vegetazione. Si diresse gattonando verso una sporgenza e a quel punto il cuore parve fermarsi nel petto. Trattenne il fiato, incapace a un tratto di incamerare ossigeno nei polmoni, troppo sconvolto ed esterrefatto per ordinare a quegli organi di svolgere a dovere il loro lavoro. Dappertutto regnava la più sconcertante desolazione che avesse mai visto ed era uno scenario che cozzava in maniera inquietante e sbagliata con l'immagine che possedeva di Llanowar. Non c'era più la tipica, rigogliosa e florida vegetazione, ma solo una landa deserta e arida, piena di alberi secchi e anneriti che protendevano i loro rami al cielo, simili alle dita scheletriche dei martiri. Inoltre, i cadaveri carbonizzati di elfi, uomini e animali ricoprivano tutta la piana. 
L'aria era satura di morte e il cielo era pieno di uccelli, corvi soprattutto, che si aggiravano in circolo come impazziti, forse in cerca dei loro nidi. 
- Ma cosa... che diavolo è successo? Llanowar... è... - rantolò con gli occhi fuori dalle orbite.
Non ebbe il coraggio di continuare la frase. Rimase impietrito in quella posizione per interminabili minuti, tentando di capire cosa avesse potuto ridurre una delle foreste più antiche e potenti dell'intero continente in una steppa sterile e vuota.
Il sole era ormai alto quando tornò dove si era svegliato, sperando di trovare ancora le sue armi. Accanto ad un albero lì nei pressi vide il suo enorme arco nero e sospirò di sollievo.
Lo strinse tra le mani accarezzando le incisioni sopra di esso e se lo rimise in spalla. Non che temesse di trovarlo rotto, il legno in cui era stato intagliato era magico, ma la possibilità che nell'esplosione fosse stato scaraventato chissà dove non era trascurabile.
“ Forse anche le daghe sono qui attorno.”
Scandagliò le scabre piante fino a che non notò lo scintillio dell'acciaio delle sue amate armi sotto quella che doveva essere stata una quercia, il cui tronco carbonizzato era precipitato al suolo. Si accinse a recuperarle, ma un attimo più tardi si ricordò della guerriera contro cui stava duellando appena prima che il disastro si abbattesse su Llanowar. Rapido rinfoderò una delle daghe, tenendo l'altra ben stretta nella mano sana mentre scandagliava i cespugli e le ombre nella boscaglia, ma non scorse nulla a parte arbusti ed erba bruciati. 
“Probabilmente sarà morta nell'esplosione.” 
L'ennesima fitta di dolore gli ricordò del braccio rotto. Doveva immediatamente steccarlo, pulsava in maniera insopportabile, tanto da fargli desiderare di staccarselo a morsi per trovare un rimedio a quel tormento. Solo che poi si sarebbe lamentato della perdita di sangue e di un altro tipo di sofferenza, forse ancora più forte, perciò optò per tenersi stretto l'osso danneggiato.  
Digrignò i denti e si avviò verso una macchia di alberi morti. Lo scricchiolio del legno incenerito sotto i suoi piedi riecheggiava in quel luogo desolato. 
A un tratto intravide una figura umana nascosta riversa sulle radici di una quercia e lì per lì non si fece troppi problemi a scambiarla per un cadavere. D'altronde, Ledah era circondato dai corpi bruciati e senza vita di amici e nemici, perciò non gli passò neanche per l'anticamera del cervello che quel soldato, di cui non vedeva nulla a parte un pezzo di schiena, fosse ancora vivo. Chissà che non avesse qualcosa di utile. Si avvicinò, ma dopo poco dovette fermarsi per concedere alla figura uno sguardo sbigottito: il cadavere del terzo Comandante degli umani, il Cavaliere del Lupo, giaceva supino a pochi metri da lui, tutt'intorno i pezzi della sua argentea armatura: del pettorale rimaneva soltanto qualche piastra, la sottoveste era quasi completamente bruciata e dei gambali non era praticamente rimasto nulla eccetto le cavigliere, che ancora  le avvolgevano i piedi. La cosa che più di tutti stupì il giovane elfo fu che sul corpo di Airis non vi era alcun taglio o ustione; solo lo stato in cui versava la sua corazza testimoniava che anche lei era stata colpita, che si trovava lì quando tutto era accaduto. Ma allora perché era rimasta completamente illesa?
“Un'armatura magica?” ipotizzò, ma persino a lui quell'idea parve improbabile. Anche gli umani sapevano usare la magia, ma non era così sicuro che fossero in grado di temprare l'acciaio con un incantesimo capace di contrastare un'esplosione di quella potenza.
Si avvicinò con circospezione e strinse la daga nell'unica mano che poteva ancora difenderlo. Ora che la osservava meglio, si accorse che il viso di Airis era completamente rilassato, come se stesse dormendo. I lunghi capelli rossi, che incorniciavano un ovale perfetto, mettevano in risalto il candore della pelle e dei lineamenti dolci, quasi infantili, che stonavano con l'immagine dell'efferata guerriera di poche ore prima. Si accovacciò sui talloni, ben attento a mantenere i sensi vigili e all'erta, ma non poté fare a meno di notare le curve nascoste malamente dalla sottoveste. Delle bellissime curve. Scrollò il capo e spostò l'attenzione sulle mani piccole e le dita affusolate, non così callose e malridotte come si era immaginato. Delle bellissime mani. Stavolta si diede un pizzicotto. 
Rimase a fissarla per un po', dimentico dei propri piani di fuga, quando a un certo punto lei emise un mugugno infastidito. 
Stava dormendo sul serio? 
Ledah accostò il viso al suo per verificare se respirava ancora e accertarsi che non era stato vittima di qualche allucinazione. 
- Cinque minuti... - farfugliò Airis dandogli poi le spalle e durante il movimento Ledah adocchiò la striscia di bava che le macchiava una guancia. 
L'elfo passò da un'espressione di meraviglia a una di sdegno in meno di dieci secondi.
- Ehi! Svegliati! - la scosse, - Svegliati ho det... - 
Però non fece in tempo a finire la frase che qualcosa si arpionò alla sua casacca e lo tirò giù. Con grande stupore, in un baleno si trovò schiacciato contro il corpo della guerriera dormiente, che lo stava abbracciando come se fosse il suo orsacchiotto di pezza, addirittura con la faccia compiaciuta affondata nell'incavo del collo di Ledah. L'elfo cercò di districarsi da quella morsa ferrea, ma Airis aveva una forza formidabile e l'arciere aveva già avuto modo di appurarlo. Tuttavia, se stava tentando di soffocarlo facendo finta di sognare, ci stava riuscendo egregiamente. Boccheggiò a corto di fiato e, facendo leva sul braccio sano, tentò invano di alzarsi con lei attaccata come una sanguisuga. Da quella posizione non riusciva neanche a maneggiare la daga. Era in trappola. 
Una spinta improvvisa lo scaraventò di lato, contro uno degli alberi lì intorno, incrinandogli dolorosamente le ultime costole rimaste intatte. Avvertì anche un colpo di frusta alla schiena, ma decise di non badarci, altrimenti si sarebbe messo a urlare insulti piangendo come un bambino. Sbatté le palpebre confuso, intenzionato a capire cosa diamine lo avesse scagliato con inaudita violenza contro un maledetto tronco, quando sentì un leggero movimento a qualche metro di distanza e lo scricchiolio di arbusti calpestati. In pochi istanti, una Airis sconcertata, allibita e un po' tremante entrò nel suo campo visivo.
- Che cosa avevi intenzione di fare, elfo? - indagò con voce carica di rabbia, raggiungendolo e arrestandosi ad appena un paio di passi, torreggiante su di lui come una dea vendicativa. 
Ledah schiuse le labbra e si incantò ad ammirare nuovamente quelli occhi bianchi, troppo opachi per riflettere la luce del sole. Si ridestò dalla contemplazione inopportuna e provò a schiarirsi le idee, mentre con estrema lentezza cercava la posizione seduta, la daga ben salda nel suo pugno. Ma le fitte che gli spedivano ossa e muscoli inibivano i suoi movimenti e lo rallentavano, e alla fine si abbandonò ad una smorfia.
- Non credevo ci saremmo rivisti. È una piacevole sorpresa, sommo Cavaliere. - replicò ironico. 
Con uno scatto repentino, tentò di colpirla al basso ventre, ma Airis lo distanziò prima che la lama violasse le sue carni.  Poi gli saltò addosso, bloccandogli entrambe le braccia al tronco dell'albero. Ledah digrignò i denti e ringhiò: la ferita alla spalla aveva ricominciato a sanguinare e a protestare per la rudezza con cui veniva bistrattata. Per quanto tentasse di liberarsi, non aveva energie sufficienti per far fronte alla forza della guerriera, quindi si arrese e smise di lottare: non aveva senso sprecare energie inutilmente, quello messo peggio era lui. In più, giunto a quel punto, non aveva più carte da giocare e l'unica soluzione intelligente era rassegnarsi.
- Non fare scherzi, elfo. Non ti conviene. -
Airis strinse la presa in modo da impedirgli un qualunque movimento, non che ce ne fosse realmente bisogno. 
- Cos'è stata quell'onda d'urto? - lo interrogò. 
- Ne so quanto te, umana. - volse il capo attorno a sé, scrutando cupo e pensieroso il cimitero arboreo che li circondava. 
- Non mentire. So che sai qualcosa. Noi umani non siamo in grado di incanalare così tanta energia in un unico attacco, perciò è sicuramente opera vostra. - fece scivolare la mano fino all'altezza del livido violaceo che gli macchiava la spalla e strinse.
Dalle labbra di Ledah uscì un gemito strozzato e serrò prontamente le palpebre per celare le lacrime che gli appannarono la vista.  
- Se non parli, ti spezzo il collo qui ed ora. -
Un sorriso sarcastico si dipinse sul viso dell'elfo.  
- E cosa pensi di risolvere uccidendomi? Anche se sapessi qualcosa, la verità morirebbe con me. - tornò a fissare la donna, stavolta con maggiore determinazione, - Probabilmente siamo gli unici superstiti. - 
Sul viso di Airis si disegnò un'espressione accigliata: - Gli unici superstiti? Impossibile. C'era un intero esercito a combattere. -
- Ma non vedi ciò che è successo? Non vedi che... - la frase rimase nell'aria.
“Non può. E' cieca.”
L'elfo fissò i suoi occhi incolori.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzante, poi la guerriera annusò l'aria e rimase in ascolto per alcuni minuti, lo sguardo fisso di fronte a sé e tutti i sensi tesi per percepire ogni suo movimento. 
- Quindi, questo odore di bruciato...? -
- Sì, non si è salvato nulla. A parte la tua e la mia presenza, non percepisco alcun altro segno di vita. - sospirò Ledah, ricacciando indietro le lacrime, - La foresta è stata spazzata via dall'esplosione. La mia casa... -
- Sono morti tutti? - chiese Airis con voce titubante, una voce simile a quella di una bambina spaurita.
Ledah si guardò nuovamente intorno e si imbatté ancora nella triste devastazione che regnava dappertutto. Quel mondo verdeggiante, pieno di colori, magia e vita si era trasformato in un limbo grigio ricoperto di cenere e morte. 
- Non è detto. Se noi siamo sopravvissuti, non escludo la possibilità che anche qualcun altro lo sia. - non aggiunse altro, si sentiva sempre più debole. 
Le ferite e il combattimento lo avevano sfinito. Perché lei invece era ancora completamente in forze?
"E' come se l'onda non l'avesse nemmeno sfiorata. Eppure eravamo insieme."
- Senti, propongo un'alleanza momentanea. - proseguì l'arciere ingoiando un gemito roco.
- Alleanza, dici? E perché mai dovrei allearmi con un elfo come te? Chi mi dice che alla prima occasione non mi tradirai? - si oppose con tono sprezzante, tornando ad essere la feroce guerriera che prima era quasi riuscita ad ucciderlo.
Ledah scoppiò in una grassa risata, pentendosene subito dopo a causa delle fitte lancinanti che gli arrivarono dritte al cervello.
- Sono ridotto ad uno straccio, non so neanche se mi è rimasto qualche osso intatto in tutto il corpo. Oltretutto... - sbuffò contrariato, - beh, d'accordo, riconosco la tua superiorità in combattimento. Se non fosse stato per l'esplosione, probabilmente mi avresti ammazzato. - 
Gli era costato molto fare quel discorso, ma preferiva di gran lunga accantonare il suo orgoglio piuttosto che finire con la testa staccata dal corpo.
Airis si avvicinò fino ad arrivare ad un palmo dal suo naso, però i suoi occhi rimasero fissi nel vuoto. 
- Non probabilmente: ti avrei ucciso di sicuro. - ghignò. 
Il braccio di Airis cadde rilassato lungo il proprio fianco, segno che non aveva più intenzione di trucidare Ledah. Sul volto dell'elfo si disegnò un'altra smorfia di sofferenza, ma dalle sue labbra stavolta non uscì nemmeno un gemito: non voleva darle ulteriore soddisfazione. Vero, non poteva vederlo e una parte di lui gioiva per questo, ma non aveva intenzione di mostrarsi debole. Aveva solo qualche osso rotto, e allora?
- Comunque hai ragione, anche se tu volessi non potresti farmi nulla. - concluse lei spavalda, poi gettò la daga ai piedi del suo proprietario, - Beh? Cosa hai intenzione di fare? -
- Propongo di dirigerci per prima cosa verso all'epicentro dell'esplosione, voglio capire che cosa è accaduto. Successivamente vorrei andare a Shellwood. -
- Shellwood? E perché proprio lì? -
- Perché ho la sensazione che lì troveremo delle risposte. - illustrò Ledah senza esitare.
“Ed è dove si trova mia sorella. Devo parlarle. Lei sicuramente saprà qualcosa o avrà qualche teoria.”
La guerriera rimase un attimo perplessa, ma alla fine scrollò le spalle: - Immagino di non avere scelta. Andiamo. Ma prima devo trovare qualcosa da indossare al posto di questi stracci. -
Ledah scrutò nella penombra, poi si avvicinò carponi ad un cadavere riverso supino a fianco di un'enorme roccia, a circa tre passi da lui. Un colpo d'ascia gli aveva fracassato il cranio rendendolo quasi irriconoscibile, ma le orecchie appuntite confermarono che era un elfo. Il suo braccio destro era stato completamente divelto dalla spalla, mentre l'altro rimaneva attaccato solo grazie agli ultimi legamenti rimasti integri. Doveva trattarsi di un mago, perché al posto dell'armatura portava una tunica nera. Dato però che il corpo non era carbonizzato, considerò che il masso aveva funto da scudo. Gli sfilò con attenzione il capo d'abbigliamento impolverato e logoro ai bordi e poi tornò da Airis.
- Vieni qui, prendi questa. Al momento non credo che troveremo di meglio. - disse porgendogliela. 
La guerriera non replicò. Si limitò ad afferrarla con uno strattone e ad indossarla sopra i resti della sottoveste. Mentre la ragazza si vestiva, Ledah si rese conto di non essere nelle migliori condizioni per camminare. Le ferite sanguinavano ancora e la spalla pulsava dolorosamente.
“ Devo farlo...”
Gettò un'occhiata alle sue spalle e, dopo essersi accertato che la guerriera stava ancora lottando per mettersi la veste, mormorò una frase a mezzavoce. Un piacevole calore si irradiò nelle sue membra martoriate e lentamente i tagli superficiali si rimarginarono, mentre sotto la pelle Ledah sentiva le ossa e i tendini lacerati saldarsi nuovamente. Quando il dolore si fu definitivamente placato, l'elfo aprì e chiuse le mani più volte, osservandole con occhio critico: alcune ferite, soprattutto quella sulla spalla, formicolavano ancora, ma almeno così camminare non sarebbe stata una tortura. “Inoltre, anche se l'osso non è completamente guarito, se non compio sforzi immani dovrebbe andare a posto anche più in fretta del previsto.” pensò sollevato.
- Muoviamoci, elfo.- la voce stizzita della guerriera lo riportò brutalmente alla realtà. Ledah alzò gli occhi al cielo e in poche falcate le fu difronte. Quanto avrebbe voluto toglierle quell'espressione sprezzante dal viso, ma ingaggiare un combattimento in quelle condizioni sarebbe stato un suicidio.
- Puoi almeno smetterla di chiamarmi solo “ elfo”?- sospirò, - Io un nome lo avrei.-
- Oh, per gli dei, abbiamo dimenticato di fare le presentazioni. Ma dove mai ho dimenticato le buone maniere, elfo?- lo provocò la ragazza, senza curarsi di nascondere il tono sarcastico, - E allora dimmi, quale sarebbe il tuo nome, elfo?-
L'arciere si impose di mantenere la calma, anche se aveva la tentazione di tagliarle di netto la testa. O provarci, almeno.
- Ledah, mi chiamo Ledah di Llanowar.- rispose infine, cercando di non far trapelare l'irritazione. Cercare di essere civile con quella donna si stava rivelando un estenuante esercizio di pazienza.
- Bene, io sono Airis Lullabyon. Adesso che mi hai riferito questa informazione essenziale, possiamo andare?- gli scoccò un'occhiata gelida e senza aggiungere altro si incamminarono.
Si misero in marcia che il sole stava già iniziando la sua parabola discendente. Ovunque volgesse lo sguardo, Ledah vedeva solo devastazione: sembrava che la vita avesse ormai abbandonato quel luogo e lo sconforto minacciò più volte di farlo crollare. Strinse il pugno cercando di scacciare il senso di impotenza che si stava lentamente impadronendo del suo animo, anche se si rivelò un'ardua impresa. Percorsero un paio di miglia nella speranza di scovare altre forme di vita, ma a parte i resti degli alberi e dell'antica vegetazione non trovarono nessun altro. I segni della battaglia erano ancora evidenti: spade e scudi giacevano abbandonati ovunque, sparpagliati o conficcati nel terreno, e rifulgevano in maniera macabra sotto i timidi raggi invernali. Molti dei cadaveri erano ormai irriconoscibili a causa delle beccate dei corvi, che avevano portato via loro la maggior parte della faccia; altri presentavano una vasta gamma di ferite diverse, da profondi tagli slabbrati sul petto o sulla gola a veri e propri arti amputati. Grovigli di intestini e viscere giacevano tra la cenere, essiccati come carta bruciata.
Nonostante fino a poche ore prima il vento freddo fischiasse tra le fronde e un sottile strato di neve ammantasse le foglie e i rami, l'aria si era fatta stranamente torrida e non faceva altro che tormentare le loro gole riarse. Mai in tutta la storia di Llanowar c'era stata una tale afa. Addirittura, lontani dal refrigerio elargito dall'ombra, il sole appariva caldo come se fosse estate inoltrata. Fortunatamente alcuni torrenti, quelli più distanti dall'epicentro dell'esplosione, si erano salvati. Altri, invece, anche se non erano spariti, si erano comunque ridotti a causa delle fiamme che li avevano attraversati. Decisero dunque di fermarsi sulla sponda di un ruscello per darsi una rinfrescata e lavare via il fango che imbrattava le loro facce.
- Credi che troveremo mai qualcuno? - domandò Airis rompendo il silenzio, mentre si passava l'acqua sul viso con un sospiro appagato, - Sì... insomma... non ci siamo ancora imbattuti in alcun superstite. -
- Perché tu pensi davvero che ci siano dei sopravvissuti? Sii realistica. - la schernì Ledah. 
Avevano camminato per miglia, incontrando solo cadaveri mutilati e alberi sradicati. Le probabilità che qualcuno fosse uscito indenne da quel disastro erano praticamente nulle.
- No. Però non capisco il perché di tutto questo. Non riesco ad immaginare quante vite siano state spezzate via oggi... e non solo umane. Avrei capito il gesto se i tuoi fossero stati risparmiati, ma così non è stato. Per quale ragione degli elfi avrebbero scagliato una magia così potente col rischio di falciare anche i propri alleati? È stata un'azione suicida. - rifletté ad alta voce, puntando gli occhi vacui di fronte a sé.
- Sicura che voi non c'entrate niente come vuoi farmi credere? Non mi stupirei che qualche umano abbia fatto il passo più lungo della gamba. Siete famosi per la vostra tracotanza e impulsività, non sarebbe strano se... -
- Ti sbagli. - lo ghiacciò, - Se proprio ti interessa, noi ci siamo limitati ad usare il Respiro del Drago per provocare un incendio in una parte della foresta e costringervi a venire allo scoperto. Però un disastro di una simile portata non è opera di un semplice miscuglio alchemico, ne conosco gli effetti. È chiaro che c'è ben altro sotto e intendo scoprire cosa. -
- Non pensarci troppo, sicuramente troveremo qualche traccia. È probabile che, come noi, chiunque abbia avuto la fortuna di sopravvivere stia andando a vedere cosa diavolo è successo. Forse li incontreremo lungo la strada. - concluse Ledah, cercando di rassicurarla. 
A quelle parole gli venne da ridere: un elfo rinnegato che rincuora il Generale dei nemici.
"Che situazione paradossale."
Proprio in quel momento una figura canina si gli avvicinò: era un lupo dal pelo bianco come la neve e dagli occhi color delle fiamme. L'elfo gli posò una mano sul muso, come per accarezzarlo, quando questo scomparve come se fosse stato fatto d'aria pura. Airis non aveva notato né percepito niente. O almeno, così gli pareva.
Ledah gettò uno sguardo attorno a sé, improvvisamente serio: - Abbiamo visite. -
- Visite? - ripeté, senza curarsi di nascondere la sorpresa. 
Fino a qualche secondo prima era rassegnata all'idea di essere l'ultima superstite del suo contingente, ma adesso una debole scintilla di speranza si riaccese nel suo cuore. Aguzzò tutti i sensi, cercando di capire chi o cosa si stesse avvicinando, e la mano corse alla propria spada. 
In mezzo al silenzio tombale risuonò in lontananza un leggero scalpiccio, che via via, col passare dei secondi, si fece sempre più concitato. Airis e Ledah rimasero immobili, le orecchie tese a cogliere anche il più insignificante rumore. Poi fu questione di pochi attimi: cinque esseri dalle sembianze umane, che un tempo dovevano essere stati soldati, li accerchiarono. La pelle completamente bruciata pendeva dai loro crani, lasciando intravedere le ossa e i muscoli sottostanti; alcuni pezzi delle armature si erano fusi col corpo e le loro braccia parevano un tutt'uno con le armi che impugnavano, come se fossero diventati prolungamenti degli arti. A due di loro erano stati mangiati gli occhi. 
Airis fissò a lungo nella direzione di quegli esseri, come se potesse vederli.
- Identificatevi! - ordinò secca, ma l'unica risposta che ricevette fu un suono gutturale, animalesco, simile a una risata. 
Il cerchio attorno a loro si strinse. 
Ledah imprecò. 
La sua voce poi giunse forte e chiara alle orecchie della ragazza: - Ora come ora ne posso fronteggiare al massimo due. - 
Non ebbe il tempo di finire la frase, perché tre di quei mostri caddero a terra con un enorme squarcio aperto sul petto. Si voltò verso Airis e la guardò come se le fossero spuntate le corna. Lei, con espressione granitica e determinata, se ne stava in posizione di difesa, leggermente piegata sulle gambe e il busto proteso in avanti, ignara delle occhiate a metà tra l'ammirato e l'oltraggiato che Ledah le scoccava, con la spada che grondava sangue fresco. 
-Oh... come non detto! - borbottò l'elfo, rodendosi il fegato per la bravura e i riflessi sviluppati dell'umana. 
Grugnì indispettito e si girò verso i due esseri rimasti dietro di lui.  
Sguainò la daga e in pochi istanti fu pronto a scattare. Osservò le pupille nere degli avversari, che non avevano più nulla di umano, e represse un brivido. Respirò a fondo e si concentrò sul battito del proprio cuore, cercando di controllarlo. I mostri attaccarono, le spade scheggiate alzate verso l'alto, assetate di morte. Strinse l'elsa della sua arma, aspettando che i suoi nemici divorassero i passi che li separavano. Il dolore al braccio sinistro si acuì e pervase ogni fibra del suo corpo, ma Ledah lo ignorò. Non poteva permettersi cedimenti. 
Il mondo circostante perse i suoi contorni e in un attimo contò solo il presente. Qualcosa fendette l'aria proprio sopra la sua testa e l'elfo rotolò a destra schivando la lama nemica, che tagliò il vuoto. Il mostro si voltò a guardarlo, già pronto ad un altro assalto. Le gambe di Ledah si tesero, scattarono e azzerarono la distanza. Le fauci dell'essere si aprirono per emettere un urlo di furia, ma ne uscì solo un sussulto, mentre la gola si riempiva del suo stesso sangue. Il braccio della creatura ebbe un ultimo fremito, poi la spada scivolò via dalle sue dita, ma prima di toccare il suolo l'elsa era già nelle mani di Ledah. Si girò per parare il fendente dell'altro mostro proveniente dalla sua sinistra e il colpo fu talmente forte che dall'incontro delle due lame si generarono delle scintille. L'elfo colpì nuovamente con tutta la foga, costringendo il mostro a indietreggiare.
Dopo un paio di affondi si sentì uno scricchiolio, poi un secondo, e la spada dell'essere si spezzò come se fosse di vetro. Ormai la creatura non aveva più nulla con cui difendersi, perciò la daga di Ledah accarezzò la sua gola e vi aprì un profondo squarcio. Il sangue imbrattò copioso quella terra arida e sterile. Non appena il mostro cadde a terra, ci fu solo silenzio.
- Allora... - esordì Ledah, dando un calcio alla spalla del cadavere per voltarlo supino, - Non siamo gli unici. -
- Io non li considererei vivi. Sembravano... posseduti. Le sensazioni che mi hanno trasmesso sono sbagliate... non so come descriverlo. - rispose Airis pacata.
- Comunque, da qui fino alle prossime dieci miglia non penso ci sia alcuna traccia di vita, quindi ritengo sia meglio accamparci da qualche parte prima che faccia buio. -
- Aspetta!- gli afferrò la spalla sana e lo bloccò sul posto, - Prima, quando eravamo ancora nella...- si morse il labbro, - nella foresta ho percepito una presenza per qualche secondo e anche ora, poco prima della battaglia. Cos'era? - la guerriera gli si affiancò, lo sguardo pieno di curiosità.
“Ah, se n'era accorta!”
- Era il mio famiglio, uno spirito elementale che nasce dalle forze primigenie della natura. Grazie a lui potremo stare tranquilli per eventuali imboscate, mi avvertiranno qualora fossimo in pericolo. - spiegò rapidamente l'elfo. La guerriera inclinò la testa, come se cercasse di assimilare l'informazione. Poi scrollò le spalle e fece ricadere il braccio lungo il fianco.
- Capisco.- assentì infine, ma all'elfo non sfuggirono le sopracciglia corrucciate e l'espressione dubbiosa sul suo volto.
- Non si stupiva più di tanto che non riuscisse a comprendere fino in fondo di cosa parlava -in fin dei conti era una guerriera non una maga- ma il fatto che si fosse resa conto della loro presenza gli faceva emergere molte domande. Gli gettò un'occhiata indagatrice, ma rinunciò a intavolare una conversazione: anche se avesse voluto, aveva la certezza matematica che la guerriera non si sarebbe scucita.
Si diressero verso est e sotto la luce lugubre della luna Ledah finalmente intravide una grotta dove passare la notte. Il muschio ne ricopriva le pareti e i tralci dell'edera si insinuavano nelle cavità delle pietre come serpenti. Entrò, imitato subito dalla ragazza, e si sedette esausto, assaporando quell'odore di fresco che gli era mancato nelle ore addietro. Il dolore al braccio era ancora presente, ma era troppo stanco per sentirlo. L'esplosione, la battaglia con Airis e lo scontro con quelle creature lo avevano sfiancato. Adesso doveva preoccuparsi di recuperare le forze, al resto avrebbe pensato l'indomani.
“Domani andrò a cercare delle erbe per velocizzare la guarigione...” 
Chiuse gli occhi e lentamente scivolò nel sonno, incurante del fatto che al suo fianco, a montare la guardia e a vegliare su di lui, c'era un'umana.

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Capitolo 6
*** Sopravvivenza ***


6

Sopravvivenza

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
I suoi occhi fissarono nell'oscurità a lungo, in attesa. Poi Airis percepì un respiro sempre più regolare e, anche se non poteva vedere, era consapevole che l'elfo era sprofondato nel sonno: le sue orecchie avevano ormai sostituito la vista da molto, molto tempo. Distese leggermente le gambe per mettersi in una posizione più comoda e si godette il tepore sprigionato dal fuocherello che avevano acceso quando erano arrivati, lasciando che le scaldasse le membra. 
Nonostante l'aria si fosse fatta torrida in seguito dell'esplosione, dopo che il sole era calato oltre l'orizzonte il freddo aveva avvolto nuovamente Llanowar. Da fuori non proveniva alcun suono, niente che potesse rivelare la presenza di forme di vita. La natura pareva essersi ammutolita, o semplicemente era stata falciata via da quel cataclisma di origini ignote. Il silenzio e la morte avevano reso la foresta un angosciante cenotafio. Se fosse stata  una normale ragazza, Airis avrebbe sicuramente avvertito i brividi correrle lungo la schiena e lo stomaco contorcersi dalla paura. Se fosse stata una normale ragazza, appunto. 
Si scostò un ciuffo di capelli dal viso e sorrise malinconica quando rapide immagini del suo passato le attraversarono la mente. Fin dal giorno in cui si era allontanata dal suo villaggio non aveva mai abbandonato la via della spada. Quando era entrata nell'esercito, l'unica cosa che le avevano fornito era stata una casacca di lino nera, un paio di stivali in pelle logori e una raccomandazione: mai tremare, mai temere la morte. E lei non l'aveva temuta, né durante gli estenuanti allenamenti né sul campo di battaglia. Neppure quando aveva  ucciso il suo primo nemico aveva avuto paura. Se fosse rimasta nella sua terra natia, senza dubbio avrebbe condotto una vita tranquilla come quella di una semplice donna del popolo, ma evidentemente non era quello il suo destino.
Scrollò la testa e la piegò nella direzione dove sapeva trovarsi Ledah. Lo sentiva ansimare e agitarsi, in preda a chissà quale incubo. Si avvicinò, allungò la mano e incontrò la stoffa ruvida e logora dei suoi abiti. Risalì piano, in punta di dita, sino a raggiungere la fronte madida di sudore: l'elfo aveva la febbre, forse la ferita alla spalla si era infettata. Tastò con attenzione finché non scovò il punto in cui la sua spada aveva penetrato la leggera armatura dell'arciere e disegnò con i polpastrelli i bordi del piccolo squarcio, sincerandosi che almeno avesse smesso di sanguinare. Il corpo di Ledah tremò ancora e il respiro si fece più affannoso. Airis slacciò le cinghie dello spallaccio e un forte odore di sangue le provocò una smorfia di disgusto, costringendola a voltarsi: a giudicare dal lezzo, la ferita era ormai in suppurazione. Si morse le labbra, indecisa sul da farsi. Benchè gli elfi possedessero spiccate capacità di rigenerazione, di questo passo Ledah non avrebbe visto l’alba. 
Si staccò per prendere delle erbe medicinali dalle tasche dei suoi vestiti, ma trovò solo cenere e polvere. Era andato tutto bruciato nell'esplosione. 
Un'espressione di dolore si dipinse sulla faccia dell’arciere, ma Airis non se ne accorse. 
- Svegliati! - lo scosse, ma non ricevette risposta.
Gli tirò su il capo e il suo corpo sussultò, scosso dall'ennesimo spasmo. 
Durante gli anni trascorsi nell’esercito, Airis aveva assistito alla morte di centinaia di soldati, molti dei quali erano stati condotti alla tomba proprio da un'infezione dopo giorni o settimane di atroci sofferenze. In quei casi, di solito i sacerdoti e i guaritori somministravano ai feriti una miscela di latte e fiori di papavero in modo da attenuare l'agonia, ma nulla potevano contro quel male. 
Lo scosse ancora, mettendoci più vigore.
- Ledah! Ledah, svegliati! - 
Gli occhi dell'elfo si aprirono debolmente. Le pupille erano dilatate a causa della febbre e le labbra erano secche e screpolate. Tentò di parlare, ma le parole gli rimasero incastrate in gola. Comunque, riuscì ad emettere un debole gorgoglio, che segnalò alla guerriera il suo risveglio.
- Ascoltami, rimani con me, va bene? Assolutamente, non devi chiudere gli occhi. - 
Ledah mosse appena la testa su e giù, ma ricordandosi che Airis era cieca diede fondo alle ultime energie per grugnire un assenso. Aveva sete, tanta sete. 
- Hai la febbre molto alta e se non troviamo qualcosa non sopravviverai alla notte. Hai delle erbe mediche con te che ci possano dare una mano? - chiese preoccupata.
Sentì la mano dell'elfo scivolare e cadere a terra con un tonfo. 
"Dannazione, ha perso conoscenza!" 
Lo schiaffeggiò, lo scrollò per le spalle con veemenza, cercò in tutti i modi di svegliarlo, ma ogni tentativo fu vano. Sferrò un pugno alla parete rocciosa della grotta, ferendosi le nocche con la fredda pietra. Inspirò profondamente e si impose di restare calma. Ripensò a tutte le nozioni apprese durante l'addestramento nell'esercito e sul campo di battaglia, finché non fu colta da un'idea. Si girò verso il fuoco, che ardeva vivace a un paio di passi, sfoderò la spada, infilò la lama sotto la brace ardente e attese che  diventasse incandescente. Non si curò degli eventuali danni che avrebbe potuto subire il metallo; l’arma era in argento alchemico e l'artigiano che gliela aveva forgiata le aveva detto che ci aveva messo cento giorni per farlo raffreddare e che ce ne sarebbero voluti altrettanti per farlo fondere. Quando ritenne che fosse trascorso tempo a sufficienza, avvicinò la punta, che ora ardeva di un bagliore aranciato, alla ferita di Ledah, ringraziando gli dei che fosse svenuto. Appena il metallo sfiorò la pelle, un grido disperato risuonò nel silenzio della notte e un forte odore di carne bruciata invase la caverna. 
Dopo che il taglio venne cauterizzato, Ledah perse di nuovo i sensi. Airis posò la mano sulla sua fronte e notò che la febbre era ancora troppo alta per considerarlo fuori pericolo. A tentoni sfilò la borraccia che l'elfo portava alla cintola e l'agitò, constatando con grande delusione che era vuota. L'unica soluzione era uscire a cercare una fonte d'acqua nei dintorni, sperando di non essere costretta ad allontanarsi troppo: non voleva lasciare solo Ledah a lungo e non perché la sua incolumità le stesse a cuore. Il motivo era assai diverso, molto più oscuro.
Poche ore prima, durante la battaglia, quando l'elfo aveva incrociato per caso il suo cammino, le parole di Lysandra si erano avverate: le tenebre dei suoi occhi erano state spazzate via per un fugace attimo e aveva scorto delle fiamme bruciare attorno alla figura che si stagliava innanzi a sé, come un'aura rossa, delineandone in modo netto i contorni. Le era subito apparso chiaro che l'elfo che cercava era lui, per questo non l'aveva ucciso. Inoltre, quando si era svegliata dopo l'esplosione, il terrore di aver perduto la sua preda le aveva stritolato le viscere e mozzato il fiato, ma si era tranquillizzata appena si era accorta che Ledah era sopravvissuto come per miracolo, proprio come lei. E così aveva deciso di rimanere con lui e fingere di non avere altri interessi a parte scoprire da dove era scaturito quel lampo di luce distruttivo, quando invece lo avrebbe sorvegliato in attesa del prossimo ordine di Lysandra. Ma se quello si fosse azzardato a spirare tra le sue braccia, lo avrebbe resuscitato e ammazzato lei una seconda volta, per poi riportarlo ancora in vita. Peccato solo non avesse i poteri per fare una cosa simile. Come se non bastasse, il pensiero della punizione che si sarebbe abbattuta sulle sue fragili ossa non appena Lysandra fosse stata messa al corrente della dipartita dell'obbiettivo la faceva rabbrividire da capo a piedi. Meglio impegnarsi il doppio per mantenere in vita Ledah, piuttosto che sottovalutare la situazione e lasciarlo morire.
Non appena uscì dalla grotta si tolse quel che rimaneva delle cavigliere e dei gambali per muoversi più agilmente nel sottobosco, e al contempo tentò di penetrare il silenzio sepolcrale che l'avvolgeva. Da sud-est, a qualche centinaio di passi da dove si trovava, le sembrò di udire un mormorio. Si mise in cammino, attenta a non far rumore con gli stivali. Seguì quel  flebile suono finché l'odore di fango e muschio non le invase le narici. L'allegro sciabordio dell'acqua del torrente in quel momento le parve la musica più soave che avesse mai sentito. Raggiunse la sponda e si accovacciò, per poi strappare un pezzo della veste nera che le aveva dato Ledah e immergervela. Si concentrò sui suoni ritmici che la circondavano, senza osare distrarsi nemmeno per un secondo: il fruscio del vento tra le foglie, lo zampillio dell'acqua, il proprio respiro calmo e regolare. Quando la stoffa fu completamente bagnata, se la passò sul viso, beandosi della sensazione di refrigerio. Dopo un minuto si rese conto di avere la gola secca, talmente secca da farla tossire. Uno strano calore si insinuò nei suoi polmoni e l'unico pensiero che fu in grado di elaborare fu "Ho sete".
Si portò dell'acqua alle bocca, ma il liquido cristallino non sortì alcun effetto. Bevve ancora e ancora e ancora. Conosceva quella voglia, quello spasmodico bisogno, e il solo realizzarlo le provocò ribrezzo, sia per la brama che l'aveva colta sia per se stessa. Assaporò l'amarezza della bile sul palato, ma ricacciò indietro il conato che le era risalito prontamente su per lo stomaco, continuando imperterrita a ingurgitare acqua. Si passò la lingua sulle labbra e, prima che la coscienza registrasse di che tipo fossero le fantasie che d'un tratto le ottenebrarono al mente, immaginò il collo di Ledah; ricordò la consistenza della sua pelle, ruvida e al contempo delicata, e le parve di averla sotto le dita, da stringere e accarezzare; disegnò persino la linea della carotide e le vene pulsanti, mentre davanti ai suoi occhi ciechi le vedeva aprirsi e rigurgitare sangue a fiotti. Sangue delizioso. Presto quelle immagini si confusero e dalla memoria riemersero i ricordi delle sue vittime, le loro urla agonizzanti, il disperato scalpiccio dei loro piedi, la fame che le aveva annebbiato la ragione e il gusto del prezioso fluido vitale, caldo e denso, che le aveva macchiato le labbra e riempito la pancia.
"No!" 
Scosse la testa e la immerse nell'acqua, sperando che il freddo placasse quel fuoco e la purificasse. Tremava come una foglia, come ogni volta che combatteva contro quell'istinto animale che pareva volerla divorare dall'interno. Strinse i pugni, concentrandosi sul battito frenetico del suo cuore. Trascorsero alcuni istanti che sembrarono un'eternità. Non appena riemerse inspirò a pieni polmoni e roteò lo sguardo verso la volta celeste, forse sperando di intravedere la rassicurante luce della luna, ma irrimediabilmente si scontrò contro un fitto velo di tenebra. Era da anni che non godeva più della vista dell'astro notturno e si chiedeva se dopo tutti quegli anni fosse ancora come la ricordava, splendida e lontana come la più bella delle dee.
Riprese contatto con la realtà e si accorse di aver indugiato fin troppo. Stava riempiendo le due borracce che si era portata dietro, quando percepì distintamente un brivido correrle lungo la schiena. Poi udì una voce che la chiamava.
Airis, vieni...
Le sue gambe si misero in moto da sole, senza che lei ne avesse il comando, e procedettero verso un punto imprecisato. Airis non tentò nemmeno di opporre resistenza, sapeva che era perfettamente inutile, così si fece guidare. Il silenzio che la avvolgeva, interrotto solo dallo scalpiccio dei suoi stivali sul terreno, le rendeva impossibile capire dove stesse andando. Camminò per svariati minuti, finché il potere che si era impadronito delle sue membra non l'abbandonò. Tese le orecchie e lo scrosciare dell'acqua del torrente le giunse alle orecchie, debole e lontano, ma non così tanto: non si era allontanata molto. Volse il capo in ogni direzione, i sensi acuiti e vigili. 
Dopodiché sentì una gelida fitta al petto. 
"Non temere e non tremare davanti alla morte." 
Un freddo innaturale le invase le ossa, poi una carezza leggera come un soffio di vento le sfiorò la pelle delle braccia e una voce femminile le sibilò all'orecchio: - Buonasera, mia piccola e dolce guerriera. - 
Delle unghie lunghe come artigli scivolarono lungo il suo collo, all'altezza della gola.
- Ti stai prodigando molto per quell'elfo, quasi come una dolce mogliettina. Non ti credevo capace di tanta gentilezza. -
- Non è certamente la tua ammirazione che voglio, Lysandra. Cosa vuoi ora? - ribatté Airis sprezzante. 
La donna affondò il viso nella folta chioma della ragazza, inalandone a fondo il profumo selvatico.
- Te l'ha mai detto nessuno che hai un odore terribilmente eccitante? - scostò una ciocca di capelli bagnati dalla fronte della guerriera, - Lui potrebbe impazzire per te. - chiocciò contenta. 
Airis si allontanò bruscamente. Il fatto di non poterla vedere la rendeva enormemente nervosa.
- Ti ho chiesto cosa vuoi da me. - ripeté con fermezza, cercando di mascherare il tremolio della voce.
Lysandra avanzò verso di lei, accorciando al distanza che le separava con tutta la calma del mondo, come una predatrice. 
Airis avvertì il suo sguardo diabolico che la scrutava fin nei più intimi anfratti dell'anima e ancora una volta non poté che sentirsi esposta, orribilmente vulnerabile. Era una sensazione che odiava, non le piaceva venire violata in quel modo, ma era consapevole di non poterlo evitare. 
Dopo un tempo che non seppe quantificare, la voce della donna le arrivò suadente alle orecchie, quasi la stesse pregando.
- Voglio che continui a prenderti cura di lui finché non sarà pronto. Sfortunatamente, il fatto che lui si ostini a combattere la sua vera natura non permette al suo vero essere di liberarsi in tutta la sua potenza. Per questo motivo dovrai provare a fargli abbassare la guardia, il tanto necessario da dare modo al suo "Io" di emergere. - 
In quel momento una mano afferrò Airis per il collo e la sollevò da terra come se fosse priva di peso. La guerriera sentì le unghie stringersi attorno alla gola e penetrarle nella carne. Si dimenò in cerca di ossigeno, ma ogni sforzo per liberarsi da quella presa d'acciaio si rivelò vana. Una lingua ruvida le leccò la pelle fin sotto l'orecchio. 
- Non provare a tradirmi, Airis, non pensarlo neanche. Non sei nella condizione per farlo. Rimanimi fedele e avrai quel che desideri. - 
Lysandra la gettò a terra come se fosse una bambola e Airis tossì tastandosi la gola per verificare se ci fossero lesioni. Forse aveva qualche livido, ma non aveva possibilità di appurarlo.
"Non tremare, non tremare."
L'altra tornò ad accarezzarle la guancia con fare quasi materno, ma alla giovane quel tocco fece rivoltare lo stomaco.
- Hai paura, bambina mia? Tranquilla, se farai la brava non ti farò alcun male. Anzi... - abbassò la voce e baciò le ferite sul collo, strappandole un piccolo gemito di sorpresa, - Farò tutto quel che è in mio potere per farti sentire meglio. - 
Airis udì una specie di fruscio, poi qualcosa di soffice si posò ai suoi piedi. Con dita tremanti strinse quella che era una veste talmente leggera da sembrare della stessa consistenza dell'aria. 
All'improvviso la mano di Lysandra premette dietro la sua nuca, costringendola ad abbassare la testa fino all'altezza del suo seno. Airis si allontanò da lei come se si fosse scottata. 
- Cosa stai facendo, demone? - la sua voce non era più velata da alcuna paura. 
Guardò avanti a sé senza vedere niente, trattenendo a stento la rabbia. 
- Non sono una bambina. Dammi quel che mi devi dare e finiamola qui per stanotte. - 
Per alcuni attimi non percepì alcun movimento, poi la fragorosa risata di Lysandra ruppe il silenzio.
- Quanto mi fai divertire, Airis! Cerchi sempre di essere forte e imbattibile. Si vede che sei... - ridacchiò e si morse le labbra, - anzi, eri un ottimo Cavaliere. -
- Sono ancora un Cavaliere. - la voce di Airis divenne gelida e tagliente.
- Ah, sul fatto che tu sia un valoroso guerriero non ci sono dubbi, mio dolce bocciolo. - 
Delle mani invisibili la stritolarono, obbligando la ragazza a inginocchiarsi davanti alla sua interlocutrice. 
- Ma ormai devi accettare la realtà dei fatti e smetterla di aggrapparti ai tuoi vecchi ideali. - Lysandra le tirò i capelli facendole alzare il capo, - Se non mi obbedirai, ti lascerò morire di fame, e tu sai cosa succede quando non bevi per troppo tempo, vero? - un sorriso crudele le si dipinse sul volto. 
Airis era piena di rabbia e frustrazione. La donna la sospinse lentamente verso il suo petto nudo e allora la guerriera titillò il capezzolo turgido e poi lo morse, finché i suoi denti non penetrarono nella carne. Lysandra le premette ancora di più la nuca, ansimando vicino al suo orecchio. Non appena il sapore del sangue le bagnò le labbra, un'improvvisa sete si impadronì di Airis, una sete innaturale, famelica. Strinse il seno del demone fino a graffiarlo, gustandosi ogni singola goccia di quel nettare ferroso. Non riusciva più a pensare, la ragione aveva ceduto di fronte a quell'impulso animalesco. 
Lysandra abbandonò la testa all'indietro in un gemito di piacere, sospirando in modo lascivo, mentre Airis artigliava la morbida pelle della schiena per trarla più vicino a sé. In seguito una stretta ben salda la costrinse ad allontanarsi e cessare di abbeverarsi a quella fonte squisita. Boccheggiò e subito dopo collassò a terra, ancora incapace di intendere e di volere. Un artiglio disegnò il profilo delle sue labbra sporche di sangue e alle orecchie le giunsero parole indistinte. Infine Lysandra sparì, così come era apparsa. 
Airis rimase riversa al suolo per alcuni minuti, aspettando che il velo rosso che vedeva si dipanasse per lasciare spazio alla familiare oscurità. Si alzò in piedi a fatica e con passo incerto tentò di ritrovare la strada per il torrente, dove si era dimenticata le borracce. 
La sensazione di intorpidimento le impediva di affidarsi ai suoi sensi, le sembrava di essere stata catapultata in un mondo onirico, in cui i suoni erano ovattati e gli odori inesistenti o distorti, difficili da interpretare. Camminò per un bel po' prima di riuscire ad orientarsi, ma alla fine recuperò le borracce e tornò alla caverna. 
Il respiro irregolare di Ledah la ridestò dallo stato di trance in cui era piombata. Immediatamente prese il pezzo di stoffa ancora umido e lo pose sulla fronte dell'elfo febbricitante, poi si appoggiò alla parete rocciosa e si passò una mano sul viso stanco, rifiutandosi di analizzare gli eventi e costringere il cervello a lavorare. Era sfinita, aveva esaurito le forze, e adesso tutto ciò che desiderava era dormire. Si umettò le labbra, scoprendo dei residui di sangue agli angoli, e con un polso si pulì meglio che poté, sperando che Ledah non notasse niente al suo risveglio. Si concesse un sospiro stremato e puntò lo sguardo nel vuoto, mentre dentro di sé ritrovava quella determinazione che credeva perduta. 
Doveva sbrigarsi a portare a termine la sua missione se non voleva impazzire.

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Capitolo 7
*** Verso l'epicentro ***


7

Verso l'epicentro

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche


Il giorno successivo, in tarda mattinata, la guerriera annunciò a Ledah che sarebbe uscita per cercare del cibo. L'elfo era a malapena consapevole di dove si trovasse e di cosa fosse successo, perciò nemmeno si sprecò a rispondere, limitandosi a fissare con aria assente il soffitto della grotta. 
Della sera precedente conservava solo alcuni frammenti: il piacevole torpore in cui era scivolato, la voce dolce che lo chiamava, il tocco delicato di qualcosa sulla fronte bollente. Ricordava che era stato sul punto di lasciarsi andare, quando poi qualcosa l'aveva riscosso e riportato alla realtà. Aveva aperto gli occhi, ma aveva fatto fatica a mettere a fuoco i contorni delle cose. Il mondo era sfocato, immerso in una specie di nebbia, come se lo stesse osservando attraverso il vetro appannato di una finestra. Come in un sogno, aveva incrociato lo sguardo cieco del Cavaliere del Lupo, uno sguardo colmo di disperazione e paura. Gli stava dicendo di non dormire. Avrebbe voluto rassicurarla, dirle che stava bene, ma aveva sentito le forze venirgli meno. 
"Sto per morire" aveva pensato prima di piombare di nuovo in quel dolce sonno. Poi una fitta di dolore alla spalla l'aveva riportato brutalmente con i piedi per terra. Aveva urlato, si era divincolato per quanto gli permettessero le esigue forze, cercando di scostare quella cosa rovente che gli stava bruciando la carne, ma non era riuscito a liberarsi dalla presa di Airis. Infine, vinto dalla stanchezza, si era riaddormentato.
Non seppe per quanto era rimasto incosciente, il tempo in quella dimensione onirica non sembrava esistere. Sentiva solo la perenne presenza della sua inaspettata, e alquanto improbabile, compagna di viaggio e nei pochi momenti di lucidità l'aveva vista stesa di fronte a lui, gli occhi bianchi che non tradivano alcuna emozione. 
Ora Airis stava per andare a caccia e Ledah si ritrovò a sorridere malinconico senza rendersene conto.
"Se ne sta andando. Sono diventato un peso e sta per lasciarmi." 
Airis si avvicinò e depose al suo fianco una borraccia piena d'acqua. 
- Tornerò, non ti lascerò morire. - gli disse, come se gli avesse letto nel pensiero, - Cercherò di fare più in fretta che posso. -
Poi si alzò e si diresse verso l'uscita della grotta. La luce accecante del sole graffiò gli occhi socchiusi dell'elfo mentre lei spariva, come inghiottita da quel bagliore. Ledah sbatté le palpebre sforzandosi di restare sveglio, ma il torpore che lo accompagnava da giorni non accennava a lasciarlo. Era come in uno stato di dormiveglia perenne e spesso l'incoscienza lo avviluppava come una soffice coperta prima che se ne accorgesse. 
Il tempo passò e di Airis nessuna traccia. Ogni tanto la paura che lei avesse utilizzato la scusa di andare a procacciare del cibo per abbandonarlo a se stesso tornava a far capolino nei suoi pensieri febbricitanti, tormentandolo in maniera insistente e dolorosa. D'altronde, era un'umana, no? Non ci si deve fidare degli umani: la menzogna, il tradimento e l'egoismo fanno parte della loro natura. Era una verità che tutti gli elfi imparavano sin da piccoli e Ledah l'aveva più volte avvalorata. 
Il crepuscolo sopraggiunse più velocemente di quanto si aspettasse, accompagnato dal venticello fresco della notte. L'afa portata dall'esplosione stava svanendo, per cedere di nuovo il posto al freddo invernale. 
Ledah guardò pigramente verso l'entrata della caverna per l'ennesima volta e sbuffò, in un rituale che aveva collaudato nelle ore precedenti, sempre uguale a se stesso.
"Come volevasi dimostrare: Airis è scappata."
Eppure non capiva perché si sentisse così deluso. Insomma, non avrebbe dovuto aspettarsi nulla da quella giovane donna, non erano mica compagni d'armi. Avevano fatto un patto, tutto qui, ma non si erano giurati eterna fedeltà, né avevano stretto alcun legame di sangue, come fratello e sorella. Ledah non era sua responsabilità e Airis non era responsabilità di Ledah. Ognuno faceva quello che reputava giusto o comodo per i propri interessi, l'amicizia non era minimamente contemplata da nessuna delle due parti. Però l'elfo non riusciva a scrollarsi di dosso la stizza e l'amarezza per essere stato abbandonato senza remore in quelle condizioni, malato e ferito, in un grotta in mezzo al nulla. Almeno gli aveva lasciato dell'acqua. Che pensiero carino...
Borbottò infastidito e farfugliò qualche insulto rivolto ad Airis, poi provò a mettersi a sedere, ma un attacco di vertigini lo fece accasciare di nuovo sulla nuda pietra con un grugnito. La sonnolenza non tardò a farsi sentire e, proprio mentre stava ponderando di concedersi un altro pisolino, udì un rumore di passi sempre più vicino. Il suo cuore prese a battere un po' più forte, un po' più veloce, ma rifiutò categoricamente di etichettare quell'emozione come "felicità", anche se l'espressione che si dipinse sulla sua faccia tradì il sollievo. Forse Airis stava tornando.
"E se non fosse lei?"
Il calore che gli aveva scaldato il petto svanì in un lampo, rimpiazzato dal terrore dell'approssimarsi di un nemico. La vista si annebbiò, ma si obbligò a raccogliere le poche energie che gli scorrevano nelle vene e allungare una mano verso la daga vicino al fuoco. Tuttavia, quando era sul punto di afferrarla, essa sparì, come se si fosse trattato di un'allucinazione. 
A tentoni cercò la lama gemella e per fortuna la trovò assicurata alla propria cintura. Strinse l'elsa, sfoderò l'arma con un movimento goffo e si allontanò dall'entrata della caverna strisciando all'indietro. All'esterno il sole morì oltre gli alberi della foresta e le prime stelle fecero la loro comparsa nel cielo. Ledah scrutò nell'oscurità, cercando di distinguere le ombre. Sbirciò nella vegetazione, fra gli alberi rinsecchiti, e a un tratto vide una figura con in mano una spada lunga, di un metallo lucente come l'argento fuso, farsi largo tra i pochi cespugli sopravvissuti alla devastazione. Rinsaldò la presa attorno alla daga fino a farsi sbiancare le nocche, forse sperando che quel leggero dolore potesse risvegliare il suo corpo intorpidito. 
La figura si avvicinò lentamente pronunciando delle parole confuse, incomprensibili, forse un incantesimo offensivo. Un'estemporanea reminiscenza dello scontro con le creature risalente al giorno prima distolse l'elfo da ogni proposito di provare a capire quelle frasi sconnesse. Facendo appello a tutte le sue forze, si alzò e scattò in avanti tentando un affondo al cuore. La sua lama scivolò su quella del nemico, ma questi si scostò all'ultimo secondo, deviando il colpo e facendogli perdere l'equilibrio con una facilità disarmante. Ledah rotolò di fianco e si mise carponi, senza mai distogliere lo sguardo dalle pupille bianche e vuote dell'avversario. Ignorando i crampi causati dai movimenti bruschi a cui aveva appena costretto i proprio muscoli, tentò un secondo attacco. Il suo avversario parve sorpreso e indietreggiò nell'istante in cui la daga morse la leggera stoffa della sua veste. 
"Non è ancora giunto il mio mome-" 
Non riuscì a concludere il pensiero, perché un dolore improvviso allo sterno gli strappò il respiro dai polmoni. Nell'attimo stesso in cui le sue ginocchia cedettero, una forte presa sul polso lo costrinse a lasciar cadere la daga. Dopodiché, la figura sconosciuta avvicinò la sua spada alla gola dell'elfo e fu in quel momento che Ledah guardò nuovamente in quelle iridi spente. Fece per dire qualcosa, ma le sue labbra non scandirono alcuna parola. Infine, ogni cosa perse consistenza e l'oblio si impadronì di lui. 
Quando riaprì gli occhi, l'alba del nuovo giorno era ormai sorta da un pezzo e l’arciere era disteso sulla dura pietra, all'interno della grotta. Si sentiva tutto ammaccato, come se gli fosse passato addosso una mandria di buoi. Osservò l'ambiente che lo circondava, trovandolo familiare, e ripescò dalla memoria spezzoni di immagini confuse, finché i ricordi relativi al combattimento con il nemico ignoto non gli fece sbarrare le palpebre nel vuoto. Si tastò il corpo, incredulo e spiazzato nel trovare tutti i pezzi al loro posto.
- Quindi non sono morto. - constatò.
- Certo che non sei morto, brutto pezzo d'idiota, elfo stupido e autolesionista! -
Quella voce carica di sarcasmo lo fece sussultare. Airis era davanti a lui, appoggiata al muro, e lo osservava con uno sguardo assente, anche se il cipiglio assunto dalla ragazza esprimeva fastidio. Gli si avvicinò e gli sollevò il mento con un gesto stizzito. 
- Se volevi farti ammazzare, ci stavi riuscendo benissimo. Avresti potuto dirmelo prima che tenevi così poco alla vita, mi avresti risparmiato un sacco di fatiche. -
L'elfo la fissò sbigottito e confuso per alcuni secondi, poi si difese: - Non stavo cercando di farmi ammazzare. Uno di quegli esseri stava avanzando verso la caverna e io l'ho preventivamente attaccato. -
“E sono stato sconfitto in pochi secondi.”
Ma questo non lo disse. Ci teneva alla reputazione, soprattutto davanti a una donna. E a maggior ragione una donna umana. 
Ripensò a quello che era accaduto. La spada argentea del guerriero, lo scontro, la sua lama che sembrava danzare al chiaro di luna e poi quegli occhi bianchi...
La ragazza si morse le labbra, forse per reprimere un attacco di rabbia oppure una risata, impossibile stabilirlo. 
E allora Ledah capì. 
E si sentì immensamente stupido.
- Oh. - non gli uscì nulla di più intelligente.
Airis schioccò la lingua e sbuffò. Si allontanò, tornò ad appoggiarsi alla parete e incrociò le braccia al petto, tornando seria e algida come la guerriera che era. 
- Mi spieghi cosa ti passava per la testa? Se non ti avessi riconosciuto, a quest'ora la tua testa sarebbe cibo per lupi. E non so davvero come ho fatto, è stato un colpo di fortuna. -
- Non era mia intenzione ucciderti, davvero. È solo che al buio non sono riuscito a riconoscerti. Probabilmente ho avuto un'allucinazione e ho creduto fossi una di loro.-
Airis sospirò. 
- Ho immaginato. Comunque... - gli indicò un sacchetto alla sua sinistra. 
Era in tela, chiuso alla buona da una nastro nero piuttosto slabbrato, come se fosse stato strappato da un abito, e nella parte sottostante era sporco di terra. Ledah lo aprì e vide che all'interno c'erano alcune radici e delle bacche di un rosso acceso. 
- Non ho trovato altro, purtroppo. Ho camminato per ore cercando qualcosa di più prelibato, ma è stato tutto distrutto. Dovrai accontentarti. E stai tranquillo, ho già assaggiato tutto, non sono velenose. -
Ledah tirò fuori uno di quei piccoli frutti e annusò il loro odore dolce e invitante. 
- Non fa nulla, vanno bene. Grazie. -
Addentò una bacca e ne gustò il sapore dolciastro sulla lingua: mai in vita sua gli erano sembrate così deliziose. Ne porse una anche ad Airis, ma questa scosse il capo in segno di diniego. 
Mentre affamato divorava una radice, le domandò: - Senti, come sta la ferita? Quella che ti ho fatto ieri notte, intendo. - 
La guerriera si accigliò: - Non mi hai nemmeno sfiorata, a dir la verità. -
- No, impossibile. Sono sicuro di averti colpita. - insistette l'elfo.
Se lo ricordava perfettamente quel momento: l'aveva colta con la guardia abbassata ed era penetrato nelle sue difese.
Airis negò. 
- Vedi delle ferite da qualche parte? - si avvicinò allargando le braccia. 
In effetti, sembrava completamente indenne e la tunica pareva intatta, a parte poco sotto il costato, dove un taglio piuttosto largo lasciava scoperto un frammento di pelle. Ledah lo artigliò con un dito, facendo trasalire la guerriera. 
- E questo? Che mi dici di questo? Sembra opera di una spada e potrei giurare che non c'era quando l'ho raccolta dal cadavere di quel mago. - indagò sospettoso.
Per un attimo la maschera d'impassibilità della guerriera parve incrinarsi: - E' vero, l'hai presa dal cadavere di uno dei vostri, che potrebbe essere stato ferito in battaglia. Non è così strano essere pugnalati mentre si combatte, sai? -
- Io non l'ho notato. Ti stava a pennello quando l'hai indossata e, a parte un po' di povere, non era sciupata. -
- Allora, forse, è accaduto quando ci siamo scontrati con quei non-morti. La smetti di impuntarti su queste sciocchezze, per favore? - 
L'elfo ignorò la frecciatina, ma evitò di ribattere, tanto sarebbe stato inutile insistere sapendo che lei non avrebbe mai ammesso nulla. Ricominciò a mangiare rimuginando tra sé e sé, lanciando qualche occhiata furtiva di quando in quando alla guerriera. A vedersi sembrava una normalissima umana, eppure possedeva una capacità rigenerativa fuori dal comune, persino più rapida della sua. Sì, se n'era accorto. E poi c'erano quegli occhi opachi, così simili a quelli delle creature che li avevano attaccati: occhi incolori come quelli dei cadaveri, non dei ciechi. Sospirò e scosse la testa sconsolato. Troppi interrogativi gli frullavano nel cervello e a nessuno di questi ora come ora poteva fornire una risposta. 
Però doveva ammettere che era veramente bella, per essere un'umana.
"Quel corpo è sprecato in guerra." 
Richiuse il sacchetto e glielo restituì ringraziandola.
Il senso di intontimento lo aveva finalmente abbandonato e ora era totalmente presente a se stesso e la febbre pareva essere scesa. 
Raccolsero le poche cose che avevano e si misero in marcia. In un certo qual modo il clima stava lentamente tornando alla normalità e non era da escludersi che prima o poi avrebbe anche nevicato. A Ledah la cosa non sarebbe affatto dispiaciuta, aveva sempre amato i paesaggi innevati tipici di Llanowar, però con quei pochi abiti che avevano addosso e la scarsa quantità di cibo reperibile nei paraggi non sarebbero stati in grado di sopravvivere. 
- Sarà meglio sbrigarsi. Non possiamo farci sorprendere dalla neve in questo stato. -
Airis fece un lieve cenno del capo e si mantenne a breve distanza da lui. Camminarono per tre lunghi giorni in un susseguirsi di paesaggi tristi e desolati, tra foreste di alberi morti e steppe di erba riarsa, che erano ormai diventati un panorama onnipresente. Gli argini dei fiumi prosciugati erano ferite slabbrate nella terra sterile che li circondava. Nulla era più devastante e doloroso per Ledah che vedere la propria foresta ridotta al solo ricordo di ciò che una volta era.
Alla fine del terzo giorno giunsero a destinazione. Di fronte a loro si estendeva un'immensa città elfica edificata direttamente nei tronchi di alberi millenari, che affondavano le loro radici nel terreno ancora fertile, non toccato dall'esplosione, mentre i rami nodosi si arrampicavano sui muri delle case di legno fino ai tetti, coprendoli con le loro lussureggianti fronde illuminate dagli obliqui raggi del sole. Tutto intorno alla città di forma circolare correva un grande fossato, dentro il quale, in passato, confluivano le acque degli affluenti del fiume Tabor. 
Ledah si avvicinò al bordo e sbarrò gli occhi: le pareti rocciose dello strapiombo precipitavano dentro una densa coltre di nebbia e sembravano proseguire fin nei meandri della terra, e il ponte che collegava le due sponde del fossato era sparito, lasciando al loro posto solo un buco nella roccia. Imprecò e si grattò la nuca frustrato. 
- Perché ci siamo fermati? - chiese Airis.
- Aspetta, facciamo il giro. Voglio verificare una cosa e spero vivamente di sbagliarmi. -
camminarono per ancora mezza giornata e alla fine si ritrovarono esattamente nel punto da cui erano partiti, dopo aver girato intorno alla città.
- Adesso mi dici che succede? - ripeté la ragazza per la decima volta, esasperata dal silenzio teso dell'elfo.
- Tutti i ponti per raggiungere Alfheim sono andati distrutti. Non so se sia stata l'esplosione. È difficile credere che sia arrivata fin qui, visto che la natura non ha subito danni, eppure... non so, è strano. Se questo è davvero l'epicentro, qui non dovrebbe esserci più niente. Invece le case e gli alberi sono ancora integri. - spiegò.
La guerriera inclinò la testa di lato con un'espressione interrogativa: - Alfe-che? - 
Ledah sospirò, si era dimenticato che stava parlando con un'umana: - E' la capitale di Llanowar. -
- Avete delle città, voi? Pensavo viveste solo in piccoli villaggi. -
- Diciamo che il mio popolo ha sempre preferito vivere in piccole comunità. Però, dopo che l'esercito degli umani è riuscito a penetrare fin quasi alla zona sacra della foresta, il Concilio ha deciso di isolarla per difenderla. Così è stata costruita Alfheim. È stata un'ottima idea creare un fossato... - si sporse di nuovo e una raffica di vento gelido penetrò sotto gli abiti leggeri, - Ora come ora, però, non possiamo passare. -
- Sicuro non ci sia un qualche altro modo? Sì, insomma... non posso pensare che quando la città è stata progettata nessuno abbia considerato l'eventualità che potesse accadere una cosa simile. Non esiste, per esempio, un passaggio nascosto? -
- Che un'ondata di magia distruttiva radesse al suolo Llanowar, eliminando ogni collegamento con la capitale? Mi sa proprio che nessuno dei costruttori ci ha mai pensato. Già di per sé l'idea è assurda. Certo che ne dici di sciocchezze. -
La guerriera lo colpì con un pugno sulla schiena, evidentemente non aveva gradito. Massaggiandosi la zona lesa, Ledah si girò verso di lei e sbuffò: - Beh, fatto sta che non possiamo passare. - 
Airis si sedette sul ciglio del fossato e lasciò le gambe a penzoloni nel vuoto, assorta nelle sue riflessioni. Ledah la squadrò preoccupato e anche lievemente stupito.
"Non ha paura che la possa spingere giù? Si fida così tanto di me?" 
Dopo un paio di minuti le parole della ragazza risuonarono nel silenzio: - Dobbiamo assolutamente andare a vedere. - 
- Lo so, lo so. Però non mi viene in mente nulla. A meno che... -
- A meno che... cosa? Non riesci a finire una frase almeno una volta? -
- Stai calma. Intorno ad Alfheim c'erano dieci ponti che la collegavano al resto della foresta e di essi non ne resta nemmeno uno. Però si racconta che ci fosse un undicesimo ponte, il primo ad essere costruito, che conduceva direttamente alle prigioni. Teoricamente dovrebbe essere ancora lì, perché su di esso era stato posto un sigillo di protezione, però non ne sono certo. Sai, visto che è protetto dalla magia, non è facile individuarlo, e solo gli elfi con una notevole conoscenza magica possono farlo. Ora, non per vantarmi, ma io... -
- Se è l'unica via, non ci resta che tentare. - lo interruppe Airis.
Ledah sospirò e alzò gli occhi al cielo, richiamando a sé tutta la pazienza di cui era capace.
La ragazza si alzò lentamente in piedi, mentre il vento le scompigliava i serici capelli rossi. 
"Vivi come il sangue, belli come il fuoco." 
- Allora? Dove dobbiamo andare? -
Ledah si riscosse dai propri pensieri e distolse lo sguardo dalla chioma vermiglia del Cavaliere del Lupo.
- Seguimi. - si allontanò da lei con passo spedito, cercando di mettere una distanza tra loro due, come se il solo fatto di camminare a meno di due metri gli provocasse imbarazzo. 
Proseguirono per un centinaio di metri verso destra, fin quando l'elfo non si arrestò, richiamando l'energia magica e incanalandola davanti a sé per aprire una crepa nel velo invisibile che nascondeva il passaggio. Poi si sporse oltre il bordo del fossato esalando un sospiro di sollievo: il possente ponte in pietra era ancora lì, protetto dal sigillo. Per chiunque non avesse gli occhi di un elfo allenato sarebbe parso di camminare nel vuoto, ma Airis non poteva vedere e la vista di Ledah bastava per entrambi. Lo attraversarono e in un paio di minuti raggiunsero i confini di Alfheim. 
Ledah alzò il capo e scorse la sagoma di un dissestato torrione di mattoni, ricoperto da muschi, licheni e piante rampicanti. Fece per indicarlo ad Airis, ma ritirò subito la mano con una smorfia e si diresse direttamente lì, mentre la guerriera lo seguiva in silenzio come un'ombra. Giunti di fronte all'antica piazzaforte, la ragazza si fermò in ascolto.
- Hai sentito qualcosa? - domandò l’arciere.
La guerriera scosse la testa: - E' questo il problema: non sento nulla. Alfheim costituisce l'ultima difesa di Llanowar, no? Allora perché non avverto alcun suono? Anche se l'onda magica avesse travolto ogni cosa, la popolazione dovrebbe essere stata messa al sicuro all'interno delle mura... - 
Un brivido gelido corse lungo la spina dorsale dell'elfo. Che fossero...? No, impossibile, non era neanche immaginabile. 
- Si staranno nascondendo. Forse stanno celando la loro presenza con un qualche incantesimo, sarebbe comprensibile. - proferì con calma, cercando di convincere più se stesso che lei.
Una volta in prossimità del grande e pesante portone d'ingresso delle prigioni, Ledah si concentrò e pronunciò delle parole in lingua elfica. Dalla serratura dell'antico lucchetto posto sui battenti si levò un rumore meccanico e lentamente le ante massicce si aprirono con un cigolio sinistro. Dinanzi a loro c'era una rampa di scale intagliate nella pietra, che scendeva giù e si immergeva nel buio.
- Andiamo. - la esortò Ledah.

 

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Capitolo 8
*** L'oscurità ***


8

Oscurità

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Airis non sapeva da quanto tempo stessero camminando e il buio che l'aveva sempre avvolta non le permetteva di capire in che direzione stessero andando. Dopo essere entrati nel torrione, Ledah le aveva detto che al termine di quella scalinata avrebbero raggiunto ufficialmente il cuore delle prigioni di Alfheim. Peccato che quella rampa pareva non finire mai. 
In quel momento sentì più che mai la mancanza della vista: l'allenamento che il suo vecchio maestro le aveva impartito era efficace solo quando poteva sfruttare al massimo uno degli altri sensi, come nella caccia o nelle battaglie, dove grazie all'udito, all'olfatto e al tatto era in grado di orientarsi. Ma in quel passaggio interminabile tutti gli odori erano stati alterati dal tempo e dall'umidità, e gli unici suoni che percepiva erano il rimbombare dei loro passi e lo scricchiolio di alcuni sassolini e detriti staccatisi dagli scalini. 
"Odio questa oscurità, odio queste stramaledette scale e odio gli elfi che hanno distrutto quegli stramaledetti ponti!" 
Poggiò il piede sull'ennesimo gradino, quando un improvviso scricchiolio la ghiacciò sul posto. Nella pietra si aprì una crepa profonda e cedette di botto, così che all'improvviso, senza neanche sapere come, si ritrovò incastrata in un buco fin quasi alla cintola. Presa dal panico, agitò le braccia alla ricerca di un appiglio, ma le sue mani scivolarono sugli scalini ricoperti di muschio. Imprecò tra sé e sé e fece leva con tutte le forze per riemergere dal foro, quando Ledah le agguantò il polso con riflessi pronti e la tirò su con un rude strattone. 
- Tranquilla, ti aiuto io. Devi stare più attenta. Queste scale non sono particolarmente stabili. Se vuoi, puoi appoggiarti a me, così evitiamo altri incidenti di questo tipo. - 
Senza attendere una risposta, l'elfo intrecciò le loro mani e ricominciò a scendere. 
Sorpresa da quell'improvviso contatto, la guerriera sussultò, ma non si ritrasse, anche perché non ci teneva a spezzarsi l'osso del collo un'altra volta a causa di un capriccio o per l'imbarazzo. Il calore irradiato dalla pelle di Ledah la rassicurò, ma il disagio le impedì di abbandonarsi docilmente alla sua guida. Rimase rigida, combattendo contro la tentazione di allontanarsi, e rifletté sulla bizzarra situazione in cui era finita. 
"Sono in un passaggio sottoterra che dovrebbe portarmi in mezzo alla città dell'esercito nemico, probabilmente piena di chissà quali delizie mostruose pronte a farci a pezzi e a mangiarci come spuntino serale. Ah, e tanto per cambiare sono in compagnia di un elfo sbruffone, incapace persino di tenere in mano una spada. Perfetto, davvero geniale. D'accordo, quanto meno lui riesce a vedere qualcosa. Magari abbiamo una qualche possibilità di arrivare interi alla meta."
In effetti, a differenza sua, l'elfo non sembrava avere problemi a muoversi e avanzava con sconcertante sicurezza, come se conoscesse la strada a memoria. 
Camminarono ancora per un po', quando una folata gelida le accarezzò il volto, mentre l'aria fresca le riempiva i polmoni. Compì un passo in avanti per assaporare meglio quella piacevole sensazione di refrigerio, ma si sentì tirare bruscamente indietro.
- Stai dietro di me, Airis, non osare superarmi. Ricordati che sei cieca. - la redarguì.
- Non sei mio padre. - borbottò la ragazza, ma dentro si vergognò per la propria impulsività.
Ledah aveva ragione, doveva lasciarsi guidare e fare la brava.
Dal canto suo, l'elfo soffocò un brivido. Uno strano formicolio gli serpeggiò lungo la spina dorsale, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Non disse niente e non infierì, ma non negò di aver sudato freddo. Per un istante il suo cuore aveva cessato di battere, proprio quando aveva scorto Airis a pochi centimetri da una voragine che si apriva oltre il bordo sinistro della scalinata, forse attirata dalla corrente piacevolmente fresca che risaliva dall'abisso.
La spinse ad addossarsi alla parete rocciosa sulla destra e ne approfittò pure lui per riacquisire il controllo sulle proprie emozioni. Intanto, non perse l'occasione di unire di nuovo le loro mani.
- Siamo a metà strada. - la informò, - Dobbiamo scendere ancora, poi alla fine della rampa arriveremo all'ingresso delle prigioni. Lì troveremo altre scale, che invece ci riporteranno su. È l'unica via. -
- Il che è un modo come un altro per dire che dovrò starti incollata fino a destinazione, nemmeno fossi una bambina col moccio al naso. Ottimo. Non poteva andarmi meglio! - commentò la guerriera con sarcasmo.
- Se tu non fossi... -
- Se non fossi cieca, sarebbe tutto molto più semplice, lo so, grazie. - sibilò acida, - Però non possiamo farci molto, sono obbligata ad affidarmi a te. Ho capito che non vuoi uccidermi, altrimenti lo avresti già fatto. Hai avuto un sacco di occasioni e alcune te le ho offerte spontaneamente, ma tu non le hai colte e io sono ancora viva. Dubito che la tua mente sia così malata da orchestrare un assassinio così elaborato... insomma, portarmi qui e ammazzarmi nelle prigioni o da qualche parte nei dintorni... non avrebbe senso. Questo per dirti... cioè... grazie per avermi salvata. Ecco, tutto qui. Ma non montarti la testa! -
L'elfo rimase basito ad ascoltare quel monologo, mentre il suo ego gongolava compiaciuto. Dopo che Airis terminò, Ledah si schiarì la gola, imbarazzato e felice di essersi fatto valere come uomo. Finora la sua autostima e il suo orgoglio avevano subito ingenti danni e smacchi, ma in quel frangente ebbe la netta impressione di essersi redento e aver riacquistato un briciolo di dignità.
- Come vuoi. - mormorò con voce roca, - Hai visto che non sono così male? Però ammetto che sarà difficile farti da balia fino in cima, la tua cecità è un ostacolo. -
Airis, a quell'affermazione, si mise sul piede di guerra, ma Ledah pose la mano libera sulle sue palpebre e quando lei accennò a ritrarsi la trattenne. 
- Devi fidarti di me. Non è possibile procedere in questo modo, lo sai anche tu. Per una mia distrazione o errore di calcolo potremmo morire entrambi. - le passò delicatamente le dita attorno agli occhi, accarezzando le cicatrici che li contornavano, - Fidati. - 
Il cuore della ragazza accelerò improvvisamente, ma non per la paura come all'inizio di ogni battaglia. Era qualcosa di diverso, un calore che da tanto, troppo tempo non percepiva. Il suo corpo si rilassò ancor prima che lei se ne accorgesse. In quell'istante, se l'elfo avesse tentato di colpirla, non l'avrebbe scampata. Rimase in attesa, in balia del fato. 
Le parole di Ledah, appena un bisbiglio nel silenzio, sfiorarono le sue orecchie. Riconobbe la lingua elfica e subito pensò che l'altro si stesse preparando a sferrare un incantesimo di qualche sorta. Avvertì le sue dita callose accarezzarle le palpebre chiuse, poi un leggero formicolio le punzecchiò la pelle intorno alle orbite. Un universo tinto di ogni sfumatura di rosso si spalancò innanzi a lei e un soffice tepore la avvolse come l'abbraccio di una madre. 
La bassa litania cessò e l’elfo lasciò scivolare via entrambe le mani, adagiandole lungo i fianchi.
Airis aprì gli occhi. Al rosso si sostituì un bianco accecante, che la fece boccheggiare in cerca di ossigeno. Fu come recuperare i sensi tutti insieme, come essere catapultata in un mondo onirico, pieno di colori terribilmente accesi. Persino il nero era abbagliante. Un irritante ronzio le assediava le orecchie e scrollò la testa per scacciarlo come si scacciano le mosche. 
Sopraffatta da quel caos informe, serrò di nuovo le palpebre, sperando di ritrovare le tenebre confortanti e familiari a cui era abituata. In seguito, si portò le mani al viso, tastandolo con cautela, timorosa di scoprire deformità o piaghe, ma tutto sembrava normale. Raccolse il coraggio, spalancò gli occhi una seconda volta e pian piano un bagliore soffuso la accolse, un chiarore strano che non scaturiva da alcuna fonte di luce materiale. In esso andò a disegnarsi il profilo di un braccio pallido cosparso di cicatrici: il suo braccio. Alzò lo sguardo, sbalordita e frastornata, e incontrò un paio di pupille color muschio e un ghigno arrogante e soddisfatto, incorniciati da un ovale regolare e una cascata di capelli corvini legati stretti in una coda. Saltò all'indietro e protese le mani avanti, deglutendo più volte per disfarsi del groppo di saliva che le ostruiva la gola, ma che al contempo bloccava il grido spaventato che premeva per uscire.
Ledah scoppiò a ridere sguaiatamente e si portò le mani sulla pancia. 
- Sembri l'incarnazione di un gufo! Te li ho appena curati, perciò assicurati di non far cadere quei bei bulbi oculari dal cranio. Allora, come ci si sente a poter vedere di nuovo? -
La guerriera glissò sul paragone di Ledah e si osservò nuovamente le mani, incapace di pensare ad altro o prendersela per tristi battutine. 
- Come... come hai fatto? -
- Non è una magia poi così complessa. - si schermì,- Ho evocato un antico incantesimo, che si manifesta sotto forma di aquila, ed ha il potere di curare qualsiasi ferita, ma purtroppo non è permanente. Non so quanto durerà, dipende dal tipo di lesione. - tornò serio e la fissò grave, - Mi dispiace, non sono in grado di guarirti completamente. Queste cicatrici... come te le sei procurate? - fece per accarezzarle la guancia, ma lei si ritrasse di scatto.
- Da qui la strada è ancora lunga? - deviò il discorso e i tratti del suo viso si indurirono.
- N-No... - balbettò Ledah, colto alla sprovvista dal repentino cambio di argomento.
- Bene, allora proseguiamo. -
Prima che Ledah potesse ribattere, Airis gli voltò le spalle e lo superò impettita, scendendo le scale da sola. All'inizio procedette con la massima cautela e provò in tutti i modi a mascherare il tremore delle mani e il fiato corto, dovuti allo shock di scorgere nuovamente dopo tanti anni le forme della realtà. Era stato inaspettato e si era trovata impreparata di fronte a quel dono prezioso, elargito dall'ultima persona da cui si sarebbe immaginata di poter ricevere qualcosa, per di più senza chiedere nulla in cambio. Era destabilizzante e terrificante insieme, ma per ogni gradino che si lasciava dietro quelle emozioni negative venivano scalzate via di pari passo dall'euforia e dall'impazienza. Si sarebbe quasi messa a correre dalla gioia, ma non voleva mostrarsi infantile davanti all'elfo.
La gratitudine che nutriva nei suoi confronti era aumentata esponenzialmente nell'arco di quei pochi minuti e davvero non riusciva a spiegarsi perché mai un nemico come Ledah si prodigasse in quel modo per una come lei, un Generale delle truppe umane. Certo, l’elfo aveva addotto come scusa il fatto che sarebbe stato complicato continuare la marcia con una cieca appresso, ma in fondo non era obbligato a portarla con sé o prendersi cura di lei. Fino ad allora si era sempre imbattuta nel lato più spregevole e selvaggio degli elfi, senza mai fermarsi a considerare che forse anche loro erano capaci di atti di gentilezza e bontà, che forse conoscevano sentimenti come l'amicizia e persino l'amore. Era assurdo anche soltanto ponderarlo, eppure i gesti parlavano chiaro.
Airis lo aveva vegliato e accudito mentre era ferito e febbricitante, si erano salvati la pelle a vicenda e avevano combattuto fianco a fianco. E poi questo. La guerriera non sapeva più cosa pensare e segretamente una parte di sé già reputava quell'elfo un amico.
''Un elfo amico. Certo. Poi lupi volanti e asini rosa. Occhi sulla missione, Airis, non distrarti. Ledah è un bersaglio, Lysandra è interessata a lui, quindi probabilmente è destinato a morire. Stai attenta e non farti coinvolgere emotivamente.''
Le aveva restituito la vista, però. Solo temporaneamente, va bene, ma non poteva prendere alla leggera una cosa simile. Il suo onore di Cavaliere le impediva di accantonare l'accaduto come se niente fosse ed esigeva un equo scambio di favori. Di sicuro avrebbe pagato presto il suo debito, dato che era più brava con la spada, e adesso poteva anche vedere. 
- Lo ripagherò, costi quel che costi.- si disse tra sé e sé.
- Airis? Hai detto qualcosa?-
- Niente. - sbottò secca e si lanciò letteralmente sul pavimento di pietra più in basso.
- Sei davvero strana... tutti gli umani sono strani come te? -
- Sta' zitto. Dove dobbiamo andare ora? -
La guerriera si avvide di essersi inoltrata giù per una specie cilindro molto profondo, un vero e proprio buco scavato nella terra, e di essere scesa per delle scale disposte a spirale, intagliate direttamente nei muri di pietra. Se guardava su riusciva a malapena a scorgere un puntino più luminoso, là dove c'era l'entrata del torrione. Ma la visione che si spalancò di fronte ai suoi occhi di nuovo vedenti le mozzò il fiato.
Pochi passi più avanti notò un fossato largo circa sei o sette metri e quando si affacciò si stupì di non vederne la fine. Pareva sprofondasse sin nelle viscere della terra. Un brivido le attraversò la schiena appena immaginò di caderci dentro.
Il fossato aveva il compito di isolare una piattaforma circolare di pietra, sopra la quale si ergeva una torre altissima, costellata da piccole finestrelle quadrate piazzate a distanza regolare l'una dall'altra. Ma il buio che regnava nei sotterranei non le permetteva di cogliere altri dettagli. 
Ledah, quasi avesse udito i suoi pensieri, mormorò un incantesimo a bassa voce e un secondo più tardi un alone di luce soffusa rivestì le pareti delle prigioni, dando modo a entrambi di orientarsi meglio.
Erano circondati da migliaia di celle, che si arrampicavano su per il cilindro roccioso come un alveare, sprangate con cancelli di ferro. Non pareva esserci qualcuno dentro, anzi Airis ebbe l'impressione che quel posto fosse completamente deserto, il che era piuttosto insolito. In quelle prigioni ci sarebbe stato posto per l'intera popolazione elfica e sembrava in tutto e per tutto un rifugio perfetto. Era costruito sottoterra, l'aria era fresca e non stantia, pur con un lieve sentore di umidità, e c'era spazio a sufficienza per stipare provviste e persone. 
''Forse hanno fatto evacuare persino i detenuti...''
- Dentro quella torre c'è il passaggio che ci ricondurrà in superficie, vicino al cuore della città. - illustrò Ledah.
- Benissimo. Da dove si passa? -
- Ehm... in teoria avrebbe dovuto esserci un ponte, ma pare sia crollato. -
- Che fortuna. Sai, Ledah, non lo dico per offenderti, ma credo che porti iella. -
L'elfo si girò a guardarla di scatto e avvertì le ossa del collo scricchiolare per il movimento brusco. La fissò a bocca aperta, palesemente oltraggiato.
- Aspetta, fammi capire: io ti salvo la vita, ti restituisco la vista, ti faccio dono della mia compagnia e del mio impareggiabile umorismo e tu mi insulti?! Che razza di ringraziamento è? Bah, di che mi sorprendo alla fine? La maleducazione ha radici umane, lo sanno tutti. -
- Strano, io avrei detto il contrario. -
Si scrutarono in cagnesco per qualche istante, poi entrambi, nello stesso momento, sbuffarono e distolsero lo sguardo.
Il ponte che collegava le due sponde del fossato era effettivamente messo male: del vecchio camminamento erano rimaste solo la parte iniziale e quella finale, ma nel mezzo non v'era più nemmeno una pietra a testimoniare la sua esistenza. Airis rimase sovrappensiero, studiando il percorso più semplice per arrivare in fretta dall'altra parte, ma semplicemente non c'erano altre strade.
Potevano saltare.
''E sfracellarci sul fondo, chiaro.''
Ledah poteva lanciarla dall'altra parte.
''E poi lui rimarrebbe bloccato.''
Potevano cercare una fune o una catena da ancorare ad una delle celle e dondolarsi su di essa come se si fosse trattato di una liana, per poi atterrare sulla piattaforma.
''Può funzionare.''
Si voltò verso Ledah per proporglielo, ma lui l'anticipò: - Potremmo attraversare il fossato volando. -
Airis lo guardò come si guarda un pazzo: - Ovvio, volando. Come mai non ci ho pensato prima? -
- Sì, voglio dire, - si affrettò a spiegare l’elfo, - l'incantesimo di levitazione funziona, ma è applicabile solo alla persona che lo recita. Se avessimo una corda, potrei tentare di rafforzarla, ma sarebbe rischioso comunque. -
- Insomma, mi stai dicendo che non c'è modo di andare avanti? - il tono della guerriera si era fatto via via sempre più aggressivo.
- Non ho detto questo. - replicò ostile, trattenendo a stento il fastidio, - Ho semplicemente constatato che con la magia non posso fare nulla. L'unico modo per passare dall'altra parte è uno solo e tu ne sei consapevole tanto quanto me. - sentenziò. 
Si avvicinò allo strapiombo e una leggera folata di vento gli scompigliò i capelli neri. 
- Non dirmi che... -
- Esatto, dobbiamo saltare. -
Il silenzio calò tra i due. Airis si avvicinò cercando di misurare la lunghezza tra i due moncherini di pietra. A occhio e croce dovevano essere cinque o sei metri. Ledah non avrebbe dovuto avere difficoltà, ma lei? Neanche se fosse stata in sella a un cavallo probabilmente ce l'avrebbe fatta.
"Ma perché deve essere tutto così dannatamente difficile?"
- Visto che non abbiamo altra scelta... - bofonchiò, per nulla convinta.
- Cos'è, hai paura? Dov'è finita la guerriera che non aveva paura di niente e di nessuno? - la punzecchiò l'elfo.
La ragazza lo fulminò con lo sguardo. 
- Non ho detto che ho paura. - ringhiò, - Dico solo che non muoio dalla voglia di spiaccicarmi al suolo. -
- Tranquilla: se cadrai, ti prenderò io. - disse Ledah.
Airis inarcò un sopracciglio e lo studiò corrucciata, mentre l'elfo mise su un'espressione a metà tra l'incredulo e l'offeso.
La guerriera indietreggiò di qualche passo, lo sguardo fisso davanti a sé. Tese tutti i muscoli e prese la rincorsa, bruciando la distanza in pochi attimi. Giunta sull'orlo del precipizio, stava per spiccare un balzo quando Ledah la fermò. 
- Aspetta! Mi è venuta un'idea! -
Airis gridò, piantò i talloni sul pavimento per frenare lo slancio e mulinò le braccia all'indietro per evitare la caduta, e quindi la propria prematura dipartita.
- Ma sei impazzito? Potevo precipitare e schiantarmi! Ma cosa diamine hai in quella zucca elfica? Segatura o escrementi di corvi? Anche se non so quale delle due sia meglio... non importa, quello che voglio dire è che ti ammazzo! Sul serio, potevo morire! Ma che diavolo... accidenti! Non ci credo, appena un secondo più tardi e sarei... -
Ledah ascoltò con aria serafica lo strepitare ininterrotto di Airis, mentre un ghigno divertito gli arricciava gli angoli della bocca. L'altra, appena se ne accorse, ammutolì.
- Perché sorridi? Dimmi perché. Subito. Oh... Oh! Lo hai fatto apposta! Stavo per crepare di infarto per colpa tua! Che ti salta in mente, eh?! - lo aggredì ancor più furiosa.
- Piccola e innocente vendetta per riscattarmi dai tuoi continui insulti. -
- Perciò continueremo a farci i dispetti come due bambini? -
- Scusa, ma credevi che veramente avrei incassato ogni colpo senza rispondere? Comunque, tornando a noi... -
- Io ti odio. - bisbigliò Airis con voce cavernosa, una scintilla risentita nelle iridi di un verde pallido.
- La cosa è reciproca. Ora ascoltami. Ti ho detto che l'incantesimo di levitazione funziona solo sulla persona che lo evoca, ma se io ti portassi in braccio non ci sarebbero problemi. - sorrise e sgranò gli occhi nel buio, carico di aspettativa mista ad eccitazione.
- Sembri un maniaco, smettila. - lo pregò la ragazza, strofinandosi le braccia come a volersi ripulire dalle mani il disgusto che provava dentro.
- Coraggio, non fare la ritrosa. Vieni qui, principessa. -
Airis valutò le varie opzioni: avrebbe potuto sferrargli un poderoso calcio in mezzo alle gambe e lasciarlo agonizzante per ore, avrebbe potuto far finta di non aver sentito niente e cominciare a cercare corde o catene per mettere in atto il suo piano di riserva, avrebbe potuto addirittura usare corde e catene per legare e appendere Ledah a testa in giù e prenderlo a mazzate con la spada. Di piatto. Oppure, avrebbe potuto ingoiare la bile e affidarsi a lui, di nuovo, magari minacciandolo di morte precoce se solo avesse osato palparla in posti inopportuni. Rifletté e si convinse che massacrarlo lì non era una buona idea, perché le serviva il suo aiuto per arrivare dall'altro lato del fossato. Avrebbe rimandato l'omicidio a dopo, quando quell'elfo da strapazzo non gli fosse più stato utile. 
- Ehm, perdonami, Cavaliere, ecco... -
- Sì? - la guerriera riportò l'attenzione su Ledah e smise di mordicchiarsi il labbro inferiore.
- Potresti evitare di pensare a voce alta? Sai, ho sentito tutto... e non è stato piacevole. - spiegò e mentre lo diceva si portò le mani a coppa sul cavallo, a mo' di protezione.
Qualche minuto dopo Airis si stringeva spasmodicamente al corpo dell'elfo, cercando di non tradire il terrore che le annodava lo stomaco. Ledah rinserrò la presa intorno alle gambe e ai fianchi di lei, preparandosi a pronunciare l'incantesimo.
D'un tratto, Airis avvertì l'aria danzare intorno a sé, infilarsi nei capelli e nella tunica, mentre il paesaggio mutava. Sentì il corpo farsi leggero, come se stesse galleggiando nel vuoto. Il cuore batteva rapido, mentre osservava la sponda della piattaforma avvicinarsi sempre di più. Trattenne il fiato e si arrischiò a gettare un'occhiata in basso: le tenebre più fitte minacciavano di divorarla e quasi le sembrava che un mostro vestito di buio fosse in agguato là sotto, pronto a ingoiarla. Poi, finalmente, giunse in prossimità dell'obiettivo, ma proprio quando erano ormai arrivati l'incantesimo si esaurì di botto e sia lei che Ledah caddero sulla pietra con un tonfo secco, in un intreccio scomposto di corpi. Airis rotolò su un fianco, il viso contratto in una smorfia di dolore, e l'elfo grugnì in risposta, una mano premuta sul ginocchio che aveva attutito l'impatto. Tuttavia, quest'ultimo scrollò le spalle, fece ricorso ad un altro piccolo incantesimo per scacciare le fitte e si rimise in piedi.
- Ma che cavolo! Ledah! - ringhiò la guerriera, ancora sofferente.
- Beh, è una fortuna che abbia retto fin qui. Te l'ho detto, l'incantesimo era per una sola persona. In due il peso raddoppia. Su, gioisci e mostrami un bel sorriso! Siamo vivi! -
Airis emise un verso esasperato. Gli pareva di essere la moglie che rimprovera la stupidità del marito. Possibile che, tra tutti gli elfi, a lei fosse capitato quello più idiota?
Ledah si incupì e incrociò le braccia sul torace: - Airis, stai di nuovo pensando a voce alta. -
La ragazza schioccò la lingua e barcollò per interminabili secondi prima di riappropriarsi di un briciolo di equilibrio. Le gambe tremavano ancora per l'adrenalina e solo mettere un piede davanti all'altro si stava rivelando uno sforzo titanico. Nel frattempo, Ledah si concesse il tempo di osservarla dall'alto in basso con espressione annoiata.
La giovane sbuffò scocciata, sbatté ripetutamente il piede intorpidito a terra per recuperare la sensibilità, e zoppicò verso la torre spolverandosi la tunica nera con gesti distratti.
Ledah sospirò, esasperato. Ormai aveva capito con che razza di donna emotivamente costipata aveva a che fare e immaginò che chiederle di essere gentile o dimostrarsi grata fosse soltanto uno spreco di fiato. E lui, se poteva, non sprecava niente.
Entrarono nella torre e intrapresero l'ascesa - con grande sollievo di Airis, che non ne poteva più dei luoghi chiusi - attenti a non scivolare sulle scale a chiocciola consumate dal tempo e da chissà quanti migliaia di stivali.
- Allora, se non ricordo male, appena varcheremo l'uscita delle prigioni entreremo nelle catacombe di Alfheim, un labirinto scavato nella terra proprio accanto al salone delle fornaci dove si bruciavano coloro che non volevano essere sepolti. Attraverseremo l'ossario, poi un cimitero elfico e infine saremo fuori. - si girò verso la ragazza, che arrancava alle sue spalle e le rivolse un sorriso serafico, - Contenta? -
- Catacombe? Ossari? Cimiteri? Ma sì, dai, si sta dimostrando una gita interessante. Maledizione, voglio il sole! -
- Stai ansimando, sembri stanca. Tutto bene? - le chiese con finta apprensione.
Airis tossì, appoggiò le mani sulle ginocchia per sostenersi e respirò a fondo, la gola riarsa e gli occhi irritati per via della polvere e dell'uso continuo che ne stava facendo.
- Le... le scale... -
Ledah fece spallucce. Riprese il cammino e riempì il silenzio raccontando le storie che conosceva su quel posto.
- Prima che cominciasse questa guerra, era usanza sotterrare i morti fuori dalle città, ovunque nella foresta. Si credeva che una volta liberi dai vincoli del mondo reale, i defunti potessero trovare la pace, e quale modo migliore per regalarglielo che seppellirli in mezzo alla natura selvaggia, priva di catene e costrizioni? Ma quando iniziarono le vostre incursioni, il Concilio decise di spostare le tombe all'interno di Alfheim, per proteggere le spoglie terrene degli elfi trapassati dalla barbarie degli umani. - il suo sguardo si incupì, - Molti resti sono andati perduti e molti elfi non sono più potuti andare a piangere i loro cari nel posto dove riposavano. Avete provocato innumerevoli danni con le vostre scorribande. -
- Oh, frena, aspetta un attimo! Mi stai dicendo che Llanowar sorge su un immenso cimitero? Che là sotto, sotto ogni albero, masso o cespuglio, o vicino ad ogni fiume sono stati seppelliti degli elfi? -
- Uhm, beh, sì. È una tradizione molto antica ed è stata portata avanti per generazioni. Credo risalga a qualche millennio fa, ma non sono sicuro di quanti, esattamente. -
- Millenni? - gracchiò sconcertata la giovane, - Stai scherzando! -
- No. -
Airis rifletté: - Da un lato è ironico, perché adesso non ci sono cadaveri solo sottoterra ma anche sopra. Forse era destino che un disastro simile capitasse a Llanowar. -
Ledah si pietrificò e la guerriera, non accorgendosene, andò a sbattere contro la sua schiena. L'altro si girò di scatto e le circondò il collo esile con le dita di una mano, incenerendola con uno sguardo folle e furioso, saturo di collera, tristezza e solitudine.
- Sei felice che il mio popolo sia stato spazzato via senza una ragione? Ci godi a camminare sui corpi dei miei fratelli? Godi a vedermi distrutto? Eh?! -
- Nell'esplosione sono morti anche i miei compagni, non dimenticarlo, elfo. E non dimenticare che le nostre razze sono nemiche. Abbiamo stretto un patto, io e te, ma ciò non significa che dobbiamo fare amicizia. - si divincolò e arretrò di un passo, massaggiandosi la gola, - Facciamo così: io sopporto te e tu sopporti me. Che ne dici? -
L’arciere non rispose, le diede le spalle e continuò a salire, mentre un muro di silenzio veniva a crearsi fra di loro, formato da cose non dette e rimorsi. Il tragitto attraverso le catacombe durò meno di quanto Airis avesse calcolato e in un battibaleno superarono anche il cimitero sotterraneo. Alla fine giunsero di fronte a un portone, identico a quello del torrione esterno. Esitarono per qualche istante, indecisi su come procedere.
- Almeno speriamo di non trovare altri esseri come quelli che abbiamo incontrato nella foresta. Secondo te, cos'erano? - chiese Airis pacata.
- Non ne ho idea. Non ho mai visto niente del genere prima d'ora. E ne ho viste di cose, credimi. Sembravano... morti, eppure camminavano come se qualcuno li avesse riportati in vita. -
La guerriera tacque pensosa, poi disse: - Burattini. -
- Sì, brava, proprio come burattini. -
- Se davvero è come dici, se davvero quelli sono dei morti viventi, forse dovrai combattere contro la tua stessa gente. - la sua voce non tradiva alcuna emozione, - Sei pronto anche a questo? -
Un barlume di esitazione lampeggiò negli occhi muschiati dell'elfo. 
- Sì, sono pronto. - dichiarò.
Entrambi spinsero sui battenti, insieme. I cardini stridettero sul ferro arrugginito e le ante ruotarono, mentre il venticello fresco accarezzava i loro visi. 
Tuttavia, quasi subito un odore che Airis conosceva fin troppo bene le diede il benvenuto, lo stesso odore che l'aveva accolta quando era entrata a Mera, Edon e in tutte le città che erano state passate a fil di spada dagli elfi.
"Ma cosa... cosa è successo qui?"
Osservò il panorama con gli occhi fuori dalle orbite, pallida come un fantasma, incapace persino di respirare, e non solo per il tanfo di putrefazione che appestava l'aria. Ledah cadde in ginocchio di fianco a lei come una bambola a cui erano stati tagliati i fili, lo sguardo vitreo, fisso sui corpi scomposti dei suoi fratelli, tutti ammassati lungo i bordi delle strade. Contemplò quel macabro scenario con il cuore in gola, soffermandosi sui cadaveri delle bellissime elfe, con i loro figli ancora stretti tra le braccia, su quelli degli anziani dalla pelle bluastra e i bulbi oculari divorati dai corvi, e infine su quelli dei soldati, falciati senza pietà da una piaga sconosciuta. 
Airis indietreggiò e si portò una mano alla bocca nel tentativo di soffocare un conato di vomito.
La morte aveva dato loro il benvenuto ad Alfheim, la più bella e florida città di Llanowar.

 

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Capitolo 9
*** Nella capitale ***


9

Nella capitale

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
- Hai trovato qualcosa? -
- No, nessuna traccia. - 
Ledah sospirò e si guardò nuovamente intorno, contemplando per l'ennesima volta la desolazione che li circondava.
Se non fosse stato per le immense costruzioni, tipicamente elfiche, intagliate dentro alberi millenari che si innalzavano fino al cielo, sarebbe stato difficile credere di trovarsi veramente nella capitale di Llanowar. Da quando erano giunti lì, circa tre giorni prima, non avevano fatto altro che girare per le silenziose strade di Alfheim, alla ricerca di un indizio che potesse fornire loro delle risposte. La città era devastata e semidistrutta, nient'altro che un'ombra rispetto al passato. Non c'erano mura a proteggerla, anche perché il fossato che girava tutto intorno era già una difesa di per sé assai efficiente, e solo pochissimi edifici erano stati costruiti facendo uso della pietra. Eccetto questi, le altre opere architettoniche erano tutte in legno, armoniche e amalgamate alla perfezione con la natura circostante. Sarebbe stato un posto da sogno se la rovina non fosse strisciata per le sue strade. Le case della parte bassa erano ammassate le une sulle altre, blocchi marroncini pieni di fenditure ricoperti da edere e licheni.
Passarono oltre alcune macerie, quando udirono un inquietante "crack" sotto i loro piedi, come di ossa rotte. Ledah fece un passo indietro, allontanandosi dal cadavere di un bambino, il cui viso presentava un gonfiore dovuto all'effetto dei gas sprigionati dal progredire della putrefazione. La mano sicura di Airis si posò sulla sua spalla e strinse appena per confortarlo, colpita tanto quanto lui da quell’orrore. Non importava che fossero di stirpe elfica o umana: quando i bambini morivano era sempre una tragedia. Camminarono ancora fino ad arrivare alla piazza del mercato, dove le sei strade principali confluivano a raggiera e si intersecavano. Peccato che l'avessero già attraversata poche ore prima. 
Si sedettero sui resti di un grande albero, esausti per la lunga passeggiata di ricognizione. Il loro fiato si condensava nell'aria gelida che era calata sulla città e finalmente l'inverno tornò ad essere reale, palpabile.
- Non possiamo continuare a girare a vuoto. - esordì Airis strofinandosi le mani, - Siamo qui da tre giorni e non abbiamo scoperto nulla. Sarebbe meglio se ci dirigessimo direttamente a Shelwood, prima di morire congelati. Qui non troveremo niente che possa esserci di aiuto e a te non fa bene indugiare ancora in questo cimitero. -
Ledah la fissò e studiò assorto la nuova armatura argentea che la guerriera aveva indossato. Durante il loro primo giorno di ricerca si erano imbattuti nella bottega di un armaiolo ed entrambi avevano potuto cambiarsi gli abiti logori che portavano addosso, sostituendoli con qualcosa di più adeguato. 
Lui aveva optato per una casacca nera che gli arrivava a metà coscia, stretta in vita da una cintura violacea dotata di cinghie per appendere le sue daghe, e abbinata ad un paio di pantaloni di tela. Gli schinieri di ferro e i guanti di ottima fattura calzavano a pennello, semplici e senza alcuna decorazione particolare, così come gli spallacci e la corazza che gli ricopriva il busto, di un metallo nero, leggero e flessibile, adatto alla corsa e al combattimento. Per ripararsi dal freddo aveva messo le mani su un mantello blu come la notte di doppia lana, famoso per essere resistente a qualsiasi intemperia. In più, aveva preso una nuova faretra e delle frecce, visto che, a parte l’arco, il resto del suo equipaggiamento era andato distrutto nell’esplosione.
Airis, invece, aveva quasi ritrovato i componenti del suo vecchio equipaggiamento: ogni parte della sua nuova armatura d'argento, dal pettorale agli schinieri, erano praticamente uguali a quelli che aveva prima, eccetto che la lavorazione elfica aveva reso il metallo molto più comodo e leggero per favorire i movimenti. Persino l'elmo raffigurante la testa di un lupo poteva essere lo stesso che aveva addosso il giorno della battaglia, più o meno.
- Lo so che non possiamo andare avanti così, però sono certo che qui ci sia qualcosa. Lo sento. - rispose a mezza voce, - La città è grande, come hai potuto constatare anche tu. Ci manca ancora la parte nord da esplorare. -
- Se pensi di trovare qualcuno vivo... -
- Non ho detto questo. - ringhiò, - Ho detto solo che non voglio andare via da qui senza prima aver appurato la causa di tale catastrofe. Come posso andarmene e far finta di niente?! -
- E con il cibo? Come faremo? Se rimaniamo qui ancora a lungo, diventeremo anche noi cadaveri. Qui è tutto morto, dannazione! Non possiamo nutrirci ancora per molto di bacche e radici. - sbottò Airis, esasperata.
A questo Ledah non aveva proprio pensato, anche perché aveva avuto lo stomaco chiuso e la fame era stata l'ultima delle sue preoccupazioni.
- Non possiamo rimanere qui un giorno di più, hai perfettamente ragione. - 
Con grande sorpresa di Airis, l'elfo si alzò. Il mantello svolazzò al vento, gonfiandosi al contatto con la corrente fredda. 
- Ci metteremo in viaggio ora, così da poter abbandonare la città per le prime luci dell'alba. -
- Quanto ci dovremmo impiegare, più o meno? -
- Qualche ora. Se potessimo seguire la strada principale, ci impiegheremmo anche meno, ma... - guardò alla sua destra, dove la via dalla quale erano giunti si inoltrava nell'intrico di case e palazzi, - ... non penso sia agibile. -
Anche Airis si volse nella stessa direzione: - Sì. Qualunque cosa sia successa, la maggior parte delle persone si sarà sicuramente ammassata su questo stradone per fuggire più in fretta. - 
Con un balzo si alzò anche lei, portandosi al suo fianco, e il suo profumo invase le narici di Ledah. La sera prima, quando si erano accampati nel giardino di una bellissima villa incassata nelle radici di un'enorme quercia, oltre a trovare dei viveri avevano anche avuto modo di lavarsi nel piccolo laghetto, la cui acqua si era conservata miracolosamente pulita e limpida. A turno si erano immersi, lavandosi via lo sporco e il sudore. Airis era andata per seconda, affondando le gambe nello specchio cristallino del laghetto, convinta che Ledah si fosse allontanato per concederle un po' di intimità, come lei aveva fatto a sua volta. Ma l'elfo non aveva resistito alla tentazione di spiarla e si era nascosto dietro un cespuglio particolarmente alto poco distante, col fogliame abbastanza fitto da celare la sua presenza. Da lì aveva accarezzato con gli occhi quella schiena nivea, i capelli color fuoco, i seni sodi e i capezzoli turgidi, bagnati dalla luce lunare. Un leggero rossore gli aveva imporporato il viso, mentre le osservava le mani passare lungo il corpo sinuoso, forte ma anche delicato. In quel momento gli era sovvenuta una strofa che aveva sentito cantare da un bardo. 
"Ho amato una fanciulla con il tramonto nei capelli e dalle labbra di petali."
Aveva scrollato il capo, per poi accennare a togliere il disturbo, ma la consapevolezza della natura del proprio desiderio l'aveva bloccato. Si era passato una mano sul volto, imbarazzato dai pensieri che gli avevano attraversato il cervello. Gli elfi non giacevano con gli umani, era un divieto non scritto, ma che entrambe le razze conoscevano.
- Mi stai ascoltando, Ledah? - la voce di Airis lo riscosse da quel ricordo.
- S-sì... certo, hai pienamente ragione. - balbettò, cercando di sfuggire a quegli occhi indagatori.
La donna incrociò le braccia al petto, senza distogliere l'attenzione da lui: - Quindi che cosa ho detto? -
Preso in contropiede da quella domanda, l'altro cominciò a guardarsi attorno, come alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo a uscire da quella situazione. Peccato che loro due fossero le uniche forme di vita rimaste in tutta la città.
La guerriera parve leggergli nel pensiero: - Guarda, siamo solo io, te e i sassi, e da quel che so io questi ultimi non parlano. -
- Stavi... stavamo discutendo su quale strada prendere... - biascicò.
- Questo l'ho detto una decina di minuti fa. - lo fissò coi suoi occhi di un freddo verde smeraldo, - Mi stai dicendo che ho parlato a vuoto, per caso? - il tono sempre più duro non prometteva niente di buono.
Ledah si concentrò per riportare alla mente la conversazione, ma nella sua testa c'era il vuoto più totale. La ragazza sospirò, scostandosi una ciocca di capelli ribelli dietro l'orecchio.
L'elfo era già pronto a una scenata, ma lei parlò con estrema calma: - Dicevo... non hai idea di cosa possa aver causato tutto ciò? Non abbiamo trovato da nessuna parte i segni di una battaglia e i cadaveri sono ancora perfettamente intatti, salvo quelle strane piaghe infette e purulente. -
Scosse la testa: - E' sicuramente opera di un qualche incantesimo, ma che io ricordi nessuno di quelli usati dal Concilio prevede un apporto di energia così elevato da dover sacrificare delle vite o provocare un simile scempio. A meno che non abbiano usato la magia nera o una qualche formula proibita. -
Volse lo sguardo verso un punto preciso della città, pensieroso. 
- Dobbiamo andare verso il Signore della foresta. Lì troveremo sicuramente qualcosa. - aggiunse.
Prima che Airis potesse porre delle domande, Ledah si era già avviato verso un vicolo parallelo alla strada principale. Anche questo aveva alcuni cadaveri che lo ostruivano, ma sicuramente ci avrebbero messo molto di più se avessero deciso di proseguire su una delle vie maestre. Scivolarono attraverso passaggi secondari e spesso l'elfo dovette fermarsi ad aspettare la guerriera, che faticava a seguire i suoi movimenti rapidi e veloci.
- Ti ho ridato la vista per facilitarti la vita, sai? - la sfotté, mentre si destreggiava agilmente in quel labirinto di pietra ignorando gli improperi dell'altra, sussurrati a mezza voce.
Stava scartando nell'ennesimo vicolo, quando si bloccò sul posto. Erano in mezzo a un piccolo crocevia. Sui lati si ergevano i ruderi di antiche case e le carcasse di due grandiosi alberi, ai piedi dei quali giaceva l'ormai familiare massa di cadaveri. Ledah annusò l'aria, i sensi tesi a captare ogni singolo movimento.
Airis fece subito aderire le loro schiene, sfilando con un sibilo metallico la spada dal fodero: - Non siamo soli, vero? -
- Sono ovunque. Qualunque cosa siano, ci hanno circondati. - 
Ledah incoccò una freccia, studiando l'ambiente con circospezione.
La neve cominciò a cadere, coprendo ogni cosa con un leggero velo di bianco, e il loro respiro si condensò nell'aria gelida in piccole nuvolette. 
Un ringhio spezzò il silenzio. 
Dai resti di una casa incendiata emersero delle figure canine dal pelo irto e nero. Uno di loro li fissò, digrignando le zanne umide di bava mista a sangue. Erano quei lupi giganteschi, che gli elfi avevano sguinzagliato durante la battaglia.
La giovane scrutò quelle ombre scure e minacciose farsi sempre più vicine.
"Ma non dovrebbero essere alleati degli elfi? Perché ci sono ostili? Potrei capire la loro avversione verso di me, ma come mai vogliono attaccare anche Ledah?"
Sbuffò disinteressata e fece roteare l'arma, assumendo la posizione di difesa.
Uno di loro ringhiò e partì all'attacco insieme ai suoi compagni. 
Ledah scartò rapido verso una trave di legno poco distante, staccatasi dal muro di una casa, e riuscì per un soffio ad evitare le fauci di una di quelle bestie. Si accucciò, tese il filo dell'arco e pronunciò una singola parola, lasciando che la magia fluisse e illuminasse i simboli incisi nel legno. Una decina di frecce piovve dal cielo sugli animali impazziti, conficcandosi nelle loro schiene. Alcuni caddero trafitti in più punti, eppure non smisero di guaire e ringhiare feroci. Un lupo tentò di alzarsi, ma la sua testa, mozzata prontamente dalla lama della guerriera, rotolò di lato, infradiciando il terreno. Ledah scoccò ancora, perforando il torace ad un altro. Intanto, Airis brandiva la spada con una destrezza e un'eleganza senza eguali, mutilando e sfondando i corpi di quelle bestie, morte nera ammantata da una corazza di luna. Molti lupi, però, continuavano ad arrivare da ogni parte, attirati dall'odore del sangue.
L'elfo girò la testa a destra e a sinistra, tentando di mantenere il sangue freddo.
"Dannazione, sono troppi."
Si voltò e senza esitare scagliò un'altra freccia, diretta al cranio di quello più vicino. Airis stava tenendo testa a tutti, la sua abilità era degna di lode, ma Ledah si avvide presto che i suoi movimenti diventavano sempre più lenti, i colpi sempre più deboli. Non avrebbe resistito ancora per molto. Sfoderò una daga e si lanciò nella mischia, conficcando la lama nella schiena di una bestia alle spalle di lei.
- Andiamo! - l'afferrò per una mano e insieme corsero attraverso i vicoli. 
La neve li rallentava vistosamente e la fatica cominciò presto a morder loro gli arti. Ledah sentiva la daga pesante e il braccio gli doleva.
Un lupo sbucò dal nulla, ma con un colpo trasversale Airis gli aprì la gola e ripresero a correre.
- Siamo quasi arrivati! - la incitò l'elfo.
Si fecero strada in mezzo ai cadaveri, cercando di non scivolare sulla melma che ricopriva le stradine sterrate, una miscela di sangue, neve e fango. Alle loro spalle i richiami animaleschi dei loro inseguitori si facevano sempre più vicini. Giunsero in una piazza enorme, dove si ergeva un alto palazzo ancora in buona parte intatto.
- Ci siamo! Dai, non mollare! Ce l'abbiamo fatta. - 
Ledah rinforzò la presa intorno alla mano libera di Airis e tirò ancora di più, aumentando la velocità di quella folle fuga. Ma, improvvisamente, le dita della ragazza scivolarono via, mentre questa veniva atterrata da un altro lupo, che le fu subito addosso, le zanne snudate in un ringhio famelico. Impugnando anche la seconda daga, l'elfo conficcò questa nel collo della bestia, mentre la gemella si apriva un varco dalla spalla all'ascella.
Infine, raccolse la spada di Airis, l'aiutò ad alzarsi e, strattonandola, azzerò quei pochi passi che li separavano dal palazzo. Salì gli scalini e assestò una spallata al portone di legno massiccio che sbarrava loro la strada. I cardini cigolarono, ma non cedettero. Ignorando i crampi della fatica, Ledah ne diede un'altra e un'altra ancora. 
I lupi erano ormai dietro di loro, poteva sentirne i ringhi sommessi. Ancora qualche istante e li avrebbero dilaniati. All'ennesimo colpo, il portone si aprì e senza esitare si precipitarono dentro. Con un ultimo sforzo e un grugnito l'elfo spinse di nuovo le ante nella direzione opposta, chiudendole con un grande schianto. 
Si accasciò al suolo esausto, la schiena appoggiata al legno, che da fuori veniva raschiato dagli artigli dei loro irriducibili inseguitori.
Si trovavano in una specie di tempio a pianta rettangolare, diviso in tre navate. Il pavimento era cosparso di cocci e frammenti delle statue che una volta adornavano quel luogo sacro. Le colonne in marmo bianco che catturavano la debole luce proveniente dall'esterno sostenevano degli imponenti archi a sesto acuto, sui quali dovevano essere stati dipinti degli splendidi affreschi della storia elfica, ma che ora era stati ridotti a macchie scrostate. Ampie vetrate ricoprivano i due muri laterali, filtrando gli ultimi raggi del sole in un caleidoscopio di colori. Alla fine della navata centrale, si ergeva in tutta la sua maestosità un albero plurimillenario: il Signore della foresta, il cuore stesso di Llanowar.
Ledah si accostò ad Airis, preoccupato di non averla sentita ancora emettere un suono. La scoprì addossata a una colonna, con le palpebre serrate, il fiatone e le gambe tremanti, come se restare in piedi fosse l'impresa più ostica mai affrontata fino a quel momento.
- Ti senti bene? - indagò.
- Sì... il combattimento è stato estenuante. - gli sorrise debolmente, - E mi ha portato via tutte le forze... -
- Sicura sia stato solo questo? Sei così pallida... - allungò una mano per sfiorarle una guancia, ma lei si ritrasse.
- Sì, sto bene, non ti preoccupare. -
Ledah la scrutò a lungo, cercando di capire se stesse mentendo o meno. 
- Va bene. Ce la fai a proseguire?-
Lei annuì: - Dove siamo? -
- Ci troviamo nel tempio dedicato al Signore della foresta. - 
Ledah indicò un punto in fondo alla navata, godendosi lo sguardo meravigliato di Airis.
Non aveva mai visto un albero così immenso, le cui robuste radici affondavano nel terreno ancora fertile. I rami nodosi si dispiegavano su tutto il soffitto, intrecciandosi gli uni con gli altri a formare una rete di fiori e foglie. La guerriera fece un passo in avanti, come per riempirsi gli occhi di tutta quella bellezza.
- È il vero cuore di Llanowar, è lui che mantiene l'equilibrio nella foresta e che ci permette di vivere in armonia con essa. - spiegò con voce solenne.
- Ma... perché non è bruciato assieme al resto? -
Ledah sospirò e un'ombra gli oscurò lo sguardo. 
- Non è bruciato perché la magia che scorre in lui l'ha protetto. Ma ora sta soffrendo. Soffre per tutte le vite che sono state stroncate, come una madre piange la morte dei suoi figli. - abbassò lo sguardo pieno di contrizione e inspirò profondamente, cercando di scacciare la malinconia, - Dai, andiamo a vedere se riusciamo a trovare qualcosa. - 
Svelto, si diresse verso una delle panche di legno rovesciate, che un tempo dovevano essere state allineate in perfetto ordine di fronte all'albero, come per accogliere gli elfi che desideravano pregare. La superò, insieme alle altre, e Airis lo seguì a ruota.
- Cerchiamo qualcosa in particolare? - gli chiese.
- Cercherò di essere breve. In natura esistono due tipi di magie: quella cosiddetta bianca e quella nera. Noi elfi solitamente usiamo quella bianca, che ci permette di sfruttare la natura a nostro vantaggio, senza però sottometterla con la forza al nostro volere. Quella nera, invece, viola tutte le leggi che regolano l'universo e le sovverte. Spesso richiede un sacrificio per essere utilizzata. -
- Mi stai dicendo che l'ondata magica...? -
- Esattamente, è opera di un qualche incantesimo proibito. Ne sono quasi completamente sicuro. E tutti gli abitanti di Llanowar sono stati il prezzo da pagare per attivarla. - 
Avevano appena raggiunto le radici del Signore della foresta, quando un applauso riecheggiò sui muri di pietra del tempio, un suono talmente stonato e fuori luogo da farli ghiacciare e impallidire entrambi. 
- Ma bravi, ci siete arrivati finalmente! - li schernì una voce nell'ombra, che Airis trovò terribilmente familiare, - Generale Airis Lullabyon... quanto tempo. Sono felice di rivederti. -
- Ignus... tu... tu dovresti essere morto! - la guerriera fissò ostile un punto nell'oscurità, verso destra, e brandì la spada con fare minaccioso, nonostante stesse cadendo a pezzi per la stanchezza. 
Un ghigno di compiacimento si dipinse sul volto dell'uomo, un volto martoriato dalle fiamme e da molte ferite in suppurazione, ma la scarsa illuminazione celava tutti gli sfregi ai loro occhi. 
- Oh, sono morto tanto quanto lo sei tu, carissima. E vedo che sei in dolce compagnia. - gracchiò, strascicando le sillabe come se avesse qualche problema alla lingua, - Da quando ti scopi un elfo, mio stimato Cavaliere del Lupo? Non pensavo avessi un così grande amore per l'orrido. -
Ledah si frappose tra i due, infastidito dalle parole al vetriolo che erano state rivolte alla ragazza. Il suo istinto gli suggeriva di proteggerla e difenderla dalle accuse, ma al contempo era curioso di scoprire chi fosse il loro interlocutore. Il nome ''Ignus'' non gli diceva niente.
- Airis, chi è? -
Una risata sguaiata e roca ferì le loro orecchie: - Ma come, questa puttana non ti ha parlato di me? Peccato... allora mi dovrò presentare da solo. - 
Uscì dal cono d'ombra in cui era rimasto nascosto e avanzò con la spada sguainata, la cui lama era rovinata e scheggiata in più punti. L'elsa finemente lavorata con l'effige di un leone ruggente brillò quando un timido raggio di sole si riflettè su di essa.
Airis inorridì di fronte all'aspetto deforme di quello che un tempo era un suo compagno d'armi e, senza volere, arretrò a corto di fiato. Ledah, invece, lo riconobbe come uno dei due Generali che aveva ucciso in battaglia. Ne era certo, aveva visto chiaramente la sua freccia ferirlo a morte.
- Io sono Ignus, terzo Generale della cinquantesima legione, nonché Cavaliere del Leone. E adesso vengo a prendere le vostre testoline... - posò lo sguardo su Ledah, - Tanto lei ha detto che l'importante è che ti catturi, non ha specificato se dovessi condurti al suo cospetto vivo o morto. -
L'elfo impugnò entrambe le daghe e ribatté: - Mi dispiace, ma non so di cosa tu stia parlando e non abbiamo tempo da perdere con uno come te. -
Ignus si scostò il mantello con noncuranza ed estrasse un oggetto da una delle tasche interne. 
- Per caso, cercavate questo? - domandò beffardo e mostrò loro un libro dalla copertina consunta e dalle pagine ingiallite dal tempo.
Ledah strabuzzò gli occhi e osservò allibito il prezioso volume.
''Come fa ad avercelo lui? Nessuno può prenderlo, nessuno che non sia un elfo...''
Il Generale sghignazzò, poi lo nascose di nuovo sotto la stoffa. 
- Se volete le vostre risposte, venitevele a prendere! -
Ledah scambiò uno sguardo eloquente con Airis e poi, senza pensarci due volte, si avventò su Ignus.

 

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Capitolo 10
*** Fuori controllo ***


10

Fuori controllo


E qui Ledah versione Artorias ci sta >.
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
- Airis! - Ledah urlò, mentre il corpo della guerriera si schiantava contro una colonna. La raggiunse correndo a perdifiato, frapponendosi tra lei e il suo avversario. Il loro avversario.
- Tutto qui, quello che sapete fare? E io che credevo di divertirmi almeno un po' con te, Airis. Dov'è finita la tua forza? - Ignus avanzò verso di loro, l'espressione del viso contratta in un sorriso grottesco, gli occhi accesi da un lampo ferale.
Il mantello arancione si muoveva sulle sue spalle a ogni suo passo, lasciando in bella vista il braccio coperto di sangue, scuro come il catrame. Ledah rimase immobile a fissare quell'essere, cercando di individuare una falla nella sua difesa. Scattò in avanti menando un fendente al basso costato.
- Uh... il nostro elfo ha riacquistato coraggio. - parò il colpo con estrema facilità, - Ottimo attacco, un po' deboluccio però. - un ghigno feroce si dipinse sulle sue labbra livide, – Ti insegno io come combatte un vero uomo. - lo colpì con il pomo della spada all'imboccatura dello stomaco, togliendogli il fiato dai polmoni.
Le gambe cedettero e Ledah si trovò agonizzante a terra, le braccia strette al ventre.
"Come può... come può essere così forte...?"
Un dolore improvviso al volto interruppe il filo dei suoi pensieri, mentre il sapore ferroso del sangue gli invadeva la bocca.
- E questa sarebbe la tua potenza, Ledah? Dai, perché non mi fai divertire? - una scarica di percosse lo fece rannicchiare in posizione fetale.
Tremando, allungò la mano verso una delle daghe, provando disperatamente ad afferrarla. La lama scheggiata di Ignus gliela trafisse, strappandogli un urlo che rieccheggiò nella cattedrale.
Affidati a noi, Ledah... noi possiamo aiutarti...
Ledah strizzò gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco ciò che lo circondava, ignorando quelle parole suadenti. "Non va affatto bene. Di questo passo, ci ammazzerà..."
- Allora? - Ignus girò la lama nella ferita, macellando la carne e i residui dei guanti ferrati, - Non vuoi lasciarti andare, vero? Cos'è, hai paura di perdere il controllo? -
L'elfo sussurrò un antico cantico e subito si ritrovò davanti alla colonna su cui Airis era stata schiantata.
- Portentoso! Nonostante tu abbia incassato così tanto, sei ancora in grado di usare la magia. - il guerriero mulinò la spada in una serie di fendenti, come se al posto di un duello si stesse semplicemente allenando, - Sei suo figlio, dopotutto. -
Guardò dietro di sé con la coda dell'occhio: Airis giaceva svenuta con la schiena appoggiata alla colonna. Quando avevano cominciato quel combattimento, aveva messo in seria difficoltà l'ex-comandante, ma lentamente aveva perso terreno, fin a quando Ignus era riuscito a sfondare la sua difesa con quell'ultimo, profondo affondo.
"E' come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata."
Sfoderò la seconda daga, mettendosi in posizione difensiva.
"Con Airis fuori gioco, sono nettamente svantaggiato e non posso avvalermi della magia ancora per molto. Inoltre," scrutò il suo avversario e il suo volto sfigurato dalle fiamme, "non sembra neanche umano."
- Chi ti ha mandato a cercarci? -
Nell'esatto momento in cui pronunciò queste parole, la spada di Ledah colpì quella di Ignus. Le due lame cozzarono, generando delle scintille. Il generale ridacchiò e senza il minimo sforzo respinse l'assalto dell'elfo.
– Mi manda la tua mammina. - tentò una stoccata al ventre, ma Ledah scartò indietro deviandola verso l'alto.
Un calcio in pieno petto fece volare il nemico contro il Signore della Foresta.
- Cosa vuole lei da me...? - avanzò verso di lui, stringendo spasmodicamente l'elsa. Sentiva la stanchezza logorargli i nervi, mentre lentamente perdeva lucidità. Lottò per rimanere sveglio, per non abbandonarsi a quella marea oscura che inghiottiva ogni sua resistenza.
Uccidilo... uccidilo... uccidilo, soffocalo nel suo stesso sangue...
Ledah si tappò le orecchie ansimando, il sudore che gli colava lungo il viso congestionato.
"Smettetela! Tacete!" si graffiò le tempie, le dita che martoriavano la pelle nel tentativo di scacciare quelle voci melliflue, suadenti.
La voce di Ignus gli giunse lontana, come se appartenesse a un'altra dimensione.
– Dev'essere difficile trattenersi, combattere costantemente contro quella parte di te che si divincola con violenza per liberarsi... -
Chi è lui per parlare...? Chi è lui per giudicarti...
"Tacete! Tacete!" la spada gli scivolò dalle dita, mentre quelle parole gli raschiavano la mente, le orecchie, la volontà. Premette ancora di più sulle tempie, gli occhi spalancati a fissare un punto nella stanza, il respiro sempre più concitato.
Il cavaliere gli si avvicinò: – Sarebbe molto più facile se ti arrendessi, sai? Guarda me! - indicò se stesso dall'alto in basso, - Sembro un damerino. Certo, i vestiti non sono il massimo, ma per il resto sto una favola. - ridacchiò e posò gli occhi sull'elfo scosso dagli spasmi, – Eppure sono morto durante l'esplosione, bruciato vivo dal calore di quelle dannate fiamme. O meglio... stavo per morire. É solo grazie a tua madre che la mia anima è stata nuovamente incatenata al mio corpo. -
- Non chiamarla così... - la voce di Ledah era simile a un ringhio.
- Oh beh... da quel che mi risulta, è stata lei ad aprire le gambe per Aesir. Eh... le donne... cosa non farebbero per avere un po' di potere. -
Potere... avrai tutto il potere che desideri... tutta la forza di cui hai bisogno, ti verrà concessa...
- STAI ZITTO! STAI ZITTO, STAI ZITTO! - l'elfo alzò lo sguardo, incontrando quello di scherno di Ignus.
Il verde dei suoi occhi era stato bruciato, lasciando il posto a due iridi rosse. Il viso era contratto in un'espressione a metà tra la ferocia e la sofferenza più assolute. Strinse la daga tremando, mentre le vene emergevano dalla pelle.
- Come fai a continuare a resistere? Eppure, dovrei averti indebolito a sufficienza... - sospirò profondamente, scocciato, - Tua madre mi aveva avvertito che eri molto testardo, ma non credevo fino a questo punto. Cosa ti trattiene ancora? - studiò l'ambiente intorno con noncuranza, finché la sua attenzione non venne calamitata da qualcosa, un corpo inerme contro una colonna: Airis.
Una risata sguaiata risuonò nella cattedrale.
– Non dirmi che sei innamorato di lei! Seriamente? - si asciugò le lacrime, divertito, - L'amore è l'arma che le donne usano per sottometterci a loro, per poi strapparci il cuore senza ripensamenti. - si avvicinò alla guerriera e si inginocchiò di fronte a lei, leccandosi le labbra in modo lascivo, - Sai, le uniche donne che io ho mai conosciuto sono state le puttane del mio paese. Mio padre era il duca di quel pezzo di terra e io ero il suo secondogenito. L'unica cosa buona della mia posizione sai qual'era? - passò le dite sulle labbra di Airis, schiudendole appena, - Che potevo avere tutte le donne che volevo, senza nemmeno pagare. D'altronde, chi si opporrebbe al volere del proprio futuro principe? - fece scivolare la mano lungo il collo niveo, per poi soffermarsi all'altezza della gola.
- NON LA TOCCARE! - Ledah si alzò in piedi furioso.
La faccia era madida di sudore e il corpo continuava a essere scosso da continui tremori. La voce della ragione stava perdendosi in mezzo a tutti quei sussurri incessanti, lasciando il passo al vortice nero che cresceva dentro di lui, corrodendo il muro della sua volontà.
Vuoi farlo tacere...? Vuoi che il suo sangue scorra sulla tua spada...?
Ignus lo guardò a malapena, poi tornò a concentrarsi su Airis. Serrò la mano sulla sua gola, mentre un ghigno perverso gli si dipingeva sulle labbra tumefatte. La donna strinse gli occhi come se fosse in preda a un incubo e, forse, lo era davvero.
- Stava filando tutto liscio, finché quella troia di Tieve non si è rifiutata di giacere con me. - mosse leggermente il viso di Airis, come per osservarla meglio, - Avevo perso la testa per lei... era così bella... non mi sembrava possibile che fosse davvero una donna di strada. Volevo salvarla, volevo darle una vita diversa. Così, una mattina andai da lei con un mazzo di fiori appena colti e le dichiarai il mio amore... - per un istante, Ledah ebbe l'impressione che gli occhi di Ignus fossero velati di lacrime, - Invece, sai cosa fece? Mi rise in faccia, dicendomi che non voleva l'amore di un ragazzino viziato. Ma smise di ridere quando le piantai la spada nel ventre e tu... tu non puoi immaginare quale godimento ho provato in quell'istante. - rinforzò la presa attorno al collo di Airis.
La ragazza spalancò le palpebre improvvisamente, nel disperato tentativo di respirare, mentre lottava per sottrarsi alla morte.
Un'espressione di pura follia distorse il volto di Ignus.
Ledah fece per scattare, ma le gambe cedettero, facendolo cadere in ginocchio. Poggiò la punta della spada sul pavimento senza distogliere lo sguardo da Ignus, dalla sua lama che ora accarezzava delicatamente il collo di Airis. Sentiva crescere l'odio dentro di sé, una furia cieca che stava dandogli nuova forza.
"Voglio il potere... "
Vuoi ucciderlo...?
"Voglio staccargli la testa... lo voglio morto!"
Vuoi che ti concediamo la nostra forza...?
Ansimò più forte, mentre una nube nera lo avvolgeva.
"Voglio tutta la vostra forza... voglio cancellarlo... distruggerlo..."
Diverse mani parvero accarezzarlo, i mille sussurri divennero un'unica voce, graffiante e volitiva.
Allora accettaci!
Ledah spalancò gli occhi e gridò. Sentì il cuore cominciare a battere impazzito, come se volesse bucargli il petto, mentre un calore intenso si diffuse in ogni fibra. La rabbia soverchiò tutto, divampò in in un grido di furore che rimbombò in tutta la cattedrale. L'aria stessa arse nei polmoni, li bruciò dall'interno, e alimentó il fuoco che gli pervadeva le vene, i nervi, risalendo fino al cervello. Quando la pazzia lo travolse, non ci fu più nulla.



 
Bianco.
Forse era caduta durante la fuga con l'elfo e ora i lupi stavano banchettando con le sue carni.
"No, impossibile." Quel pensiero folgorante riscosse leggermente la sua coscienza e assieme ad essa arrivò il dolore. Prima le dita, poi le braccia, le mani, i muscoli, infine ogni fibra del suo essere. Provò a muoversi, ma il suo corpo non rispondeva ai comandi.
Schiuse le palpebre. La sala intorno a lei aveva assunto dei contorni sfocati e i colori sembravano mischiarsi gli uni con gli altri. La voce di Ledah le giungeva lontana come un'eco. Improvvisamente, una presa poderosa le si serrò attorno alla gola, togliendole l'aria. Spalancò gli occhi, trovandosi di fronte il volto martoriato di Ignus contratto in una smorfia mostruosa. Annaspò in cerca di ossigeno, lottando contro quelle mani cianotiche. In un fuggevole attimo i loro sguardi si incrociarono.
"Un risvegliato... anche lui è un risvegliato..."
Fu questione di pochi istanti. Un urlo disumano rimbombò per la cattedrale e qualcosa si scagliò su di loro, scaraventando Ignus lontano da lei.
"Ma che diavolo...?" il filo dei suoi pensieri fu brutalmente interrotto. Davanti a lei si ergeva un cavaliere ricoperto da un'armatura nero pece che sembrava fusa col suo stesso corpo. Dagli spallacci a forma di ala di drago partivano delle catene che si incrociavano all'altezza del pettorale. Dai bracciali lunghi fino ai gomiti si allungavano delle lunghe lame, sulle quali risplendevano delle strane incisioni. Le due spade nere che impugnava già grondavano sangue.
Quando il cavaliere si volse verso di lei, Airis trasalì: sotto quell'elmo crestato riconobbe un viso a lei familiare.
"Non è possibile... non può essere lui!" lo scrutò meglio, cercando un qualcosa che la smentisse, appiattendosi sempre di più contro la colonna. Ogni traccia degli occhi muschiati dell'elfo era stata inghiottita dal rosso cremisi di quelle iridi di fuoco, piene di una furia senza fine.
Egli si volse nuovamente verso Ignus. L'ex-generale giaceva riverso a terra, il viso terreo per la paura, mentre cercava freneticamente la sua spada con l'unico braccio che gli era rimasto. L'altro, ancora caldo e pulsante, era ai piedi di Airis.
- E così... così ti sei lasciato andare, eh? - dalla voce di Ignus era scomparsa ogni ironia, – Ma non mi batterai... non ci riuscirai a battermi. - si tirò su a stento, stringendo l'arma e mettendosi in guardia, - Sei un aborto della natura, un essere nato da un'unione blasfema! -
Il cavaliere ruggì, mostrando una chiostra di denti acuminati come lame, e gli si gettò addosso. A nulla valse la resistenza opposta dal generale, che inesorabilmente retrocedeva davanti all'impeto del suo avversario: gli assalti serrati dell'elfo non solo costringevano Ignus a rimanere sempre in una posizione difensiva, ma continuavano a infliggergli tantissime ferite superficiali. In poco tempo, il sangue iniziò a scorrere sempre più copioso.
Airis era senza parole. Sebbene la maschera gelida non facesse trasparire alcuna espressione sul volto di Ledah, era certa che si stesse divertendo a far soffrire così il nemico. Per lui non era altro che un sacco di carne per la sua fame, sangue per la sua sete di morte. Un fendente della spada nera si abbatté senza pietà sulla lama scheggiata, mandandola in frantumi, e l'acciaio maciullò muscoli, spezzò ossa. Ignus urlò nuovamente, il viso contratto in un'espressione di orrore, mentre osservava la mano restante cadere a terra, la spada ancora stretta tra le dita.
- Non ti avvicinare, mostro! Non mi toccare! - si girò con le lacrime agli occhi verso Airis.
- Ti prego! Ti prego, aiutami! - la implorò.
Con un movimento fluido il cavaliere gli tagliò la gamba, facendolo rovinare a terra. Ignus strisciò verso di lei, facendo leva sui due moncherini sanguinolenti che gli erano rimasti.
- Ti... scongiuro... non voglio morire... non voglio... aiutami... - la fissò con gli occhi pieni sconcerto, - Tu sei come me... anche tu sei una... - non riuscì a terminare la frase che la sua testa mozzata rotolò di lato.
La lama nera trafisse il corpo esanime all'altezza del cuore. Poi, quello sguardo cremisi si posò su di lei.
Airis si appiattì ancora di più contro la colonna, portandosi istintivamente la mano poco sotto il cuore. Dove aveva già vissuto quella situazione? Perché quella paura che ora stava provando non le era nuova?
La creatura in cui Ledah si era trasformato estrasse la spada dal cadavere di Ignus e la puntò contro di lei. La guerriera lo fissò, nonostante il cieco terrore le attanagliasse le viscere.
"Mai tremare, mai temere la morte. Se devi lasciare questo mondo, fallo con onore." il monito del suo vecchio maestro le tornò alla memoria.
La lama del boia scattò in avanti, verso la sua gola. Airis chiuse gli occhi.
Un attimo.
Il suo cuore batteva sereno.
Un secondo.
Il suo respiro regolare.
Due secondi.
Un rimbombo e un acuto dolore.
Aprì leggermente gli occhi. La spada nera era conficcata nella colonna dietro di lei e un leggero graffio sullo zigomo prese a sanguinare.
Il cavaliere cadde in ginocchio, lasciando cadere anche l'altra arma. La sua maschera di gelida ferocia si era incrinata. Allungò la mano e le accarezzò la guancia, mentre le iridi rosse acquisivano di nuovo il loro vero colore. Ritrasse le dita macchiate di sangue, lo sguardo preoccupato e pieno di profonda tristezza. Si alzò e, dopo averla osservata un'ultima volta, le diede le spalle dirigendosi con passo sempre più concitato verso l'uscita, mentre l'armatura che aveva addosso si sgretolava come la roccia erosa dal mare.

 

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Capitolo 11
*** Frammenti di memoria- In difesa degli innocenti ***


11

Frammenti di memoria

In difesa degli innocenti

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

 
Era una bellissima giornata di sole. La piccola Caillean, disturbata da un timido raggio di luce, aprì leggermente gli occhi, per poi guardarsi intorno. Una leggera brezza si infilò tra le imposte consunte della finestra della sua cameretta, portando con sé un dolce profumo di gelsomini.
"Ah, già... è arrivata l'estate." 
Mugugnò qualcosa di indefinito e si rannicchiò sotto la coperta per continuare a dormire. Però, appena realizzò appieno ciò che aveva pensato, scattò a sedere.
- Aspetta... è arrivata l'estate! - 
La nuova constatazione dissipò completamente le nebbie del sonno, dando a quella bambina di nove anni un motivo per alzarsi definitivamente dal letto. Si liberò dalle coperte e corse in cucina tutta eccitata, trovando sua madre intenta a sbucciare le patate per il pranzo.
- Quante volte ti devo dire di non girare scalza per casa? - la redarguì subito Alicia e due iridi grigio-verdi scrutarono severe Caillean, - E poi dove credi di andare con quei capelli? Sembra tu abbia fatto la lotta con un gatto. -
La bambina roteò gli occhi esasperata e sbuffò, sedendosi poi a tavola per divorare la colazione a base di uova e carne essiccata. Trascorse un minuto scarso di silenzio, quando all'improvviso sua madre riattaccò con la predica su quanto la piccolina fosse un maschiaccio. Quest'ultima era sul punto di risponderle a tono, ma un attimo più tardi frenò le parole astiose e si morse le labbra: se voleva uscire a giocare nel bosco, doveva cercare di non far arrabbiare quella donna grassottella, dai capelli neri come la notte e ispidi come paglia. Ne guardò le mani callose, che, con una solerzia simile a quella di un cuoco professionista, tagliavano le rape e le melanzane.
- Posso uscire, mamma? -
- Certo, ma prima vai a pettinarti. Poi devi andare a prendere le carote nell'orto e dopo recarti al mercato in paese a comprare due cose. -
Caillean sbuffò di nuovo sonoramente, ma obbedì. Si diresse in camera e, con un pettine d'osso di coniglio, cominciò a districare i nodi che inselvatichivano la sua chioma fulva. 
Odiava andare in paese. Tutte le persone che la incontravano la fissavano con un misto di paura e diffidenza, mentre i bambini la scansavano come se fosse un'appestata. Tutto per i suoi capelli rossi come le fiamme, che aveva ereditato da sua nonna paterna.
Una volta terminato l'arduo compito, tornò in cucina più determinata che mai.
- Non ci voglio andare in paese, uffa! -
La madre sospirò e scosse la testa. 
- Va bene, va bene. A prendere quelle cose vado io, ma tu rimani qui e controlli che la minestra non bruci, chiaro? - sentenziò in tono leggermente più dolce, - Ora vai lavarti. Non voglio avere una figlia puzzolente in casa. -
Caillean sorrise e corse al pozzo sul retro della casetta, correndo veloce come una lepre. Tirò su il secchio, immerse il viso nel liquido cristallino e rabbrividì a causa dell'aria fresca, ma niente riusciva a darle più energia.
Suo padre le aveva raccontato che, quando era ancora un soldato, ogni mattina andava al fiume poco fuori dall'accampamento e si immergeva nelle sue rapide. Era convinto che il freddo lo aiutasse a purificarsi. I suoi commilitoni dicevano che era pazzo a farsi il bagno con quella temperatura così bassa, ma a lui non importava granché della loro opinione. 
Da quando le era stato riferito quell'aneddoto, anche Caillean aveva preso quell'abitudine. All'inizio non era stato per niente facile, soprattutto per lei che, a differenza di suo padre, era nata a Merite, vicino al Grande Mare, dove il clima era caldo e secco.
Da quel che sapeva, i suoi nonni si erano trasferiti lì da Sershet, capitale del sud, non appena sua madre era nata. Da quando era scoppiato il conflitto con gli elfi, la città era diventata uno dei più grandi avamposti dell'esercito umano, così chi poteva si trasferiva nelle campagne, dove la guerra era solo una semplice eco. 
La fragile pace che regnava in quel paesino assolato, lontano da tutto e da tutti, era più che sufficiente per la povera gente che vi abitava.
Caillean guardò la sua immagine riflessa. Se non fosse stato per quella zazzera rossa, sarebbe stata una bambina normale. Forse un po' troppo magra e ossuta, ma sicuramente la gente avrebbe smesso di additarla, e avrebbe avuto anche degli amichetti con cui uscire a giocare. 
Secondo un'antica leggenda, chi nasceva coi capelli rossi era un figlio di Aesir, divinità che governa le tenebre e il caos. Le donne che partorivano dei bambini con questa caratteristica erano considerate delle meretrici, che pur di avere un po' di piacere acconsentivano a mettere al mondo una stirpe maledetta. Per questo motivo Caillean e i suoi genitori venivano completamente emarginati dalla comunità, senza ricevere aiuti di alcun tipo.
Prese il cordoncino di spago che portava al polso e legò la fluente chioma in una semplice coda, mentre si tirava un'altra secchiata d'acqua in testa.
- Caillean! - 
La voce di sua madre la distolse dalle sue riflessioni, ricordandole quale era la priorità: accontentarla per poter poi andare a giocare nel bosco.
Si mise a correre in direzione della casa, le goccioline d'acqua che le rigano il volto. 
La mattina passò in fretta, scandita dallo scorrere della sabbia nella clessidra, posta su un cassettone vicino alla porta d'ingresso. Era un oggetto alto quasi mezzo braccio e molto pesante.
Caillean si tenne occupata per non pensare alla noia, cercando di adempiere a tutte le mansioni che le venivano assegnate. Ma era distratta dai continui giochi di luce dei raggi del sole sui vetri delle finestre, dal continuo frinire delle cicale e dal fruscio del vento tra le fronde degli alberi. Tutti quei suoni la rendevano ancora più smaniosa di uscire, anche se sapeva che fino a quando non terminava i suoi compiti, quel permesso le era completamente interdetto.
Un goccia di minestra schizzò fuori dalla pentola di rame, facendole ritrarre la mano dal mestolo con un "ahia" soffocato.
Alicia si voltò verso di lei: - Si può sapere dove hai la testa? Insomma, sei una signorina, ormai! Se non riesci a girare neanche una minestra, come credi di trovare marito? -
Caillean sospirò esasperata, mentre fingeva di ascoltare la solita tiritera.
"Ma chi vuole sposarsi? Io voglio diventare un soldato come papà, sconfiggere gli elfi e riportare la pace in tutta Esperya." 
Osservò le verdure amalgamarsi in una pappina verdognola, avvedendosi però di non far menzione dei suoi piani per il futuro. Sapeva che sua madre voleva semplicemente che lei fosse felice e che un giorno potesse andare a vivere in un posto dove finalmente sarebbe stata accettata, ma erano delle idee che si discostavano troppo da quello che desiderava. Caillean aveva stabilito che la vita coniugale non faceva per lei, che invece voleva calcare i campi di battaglia sopra un cavallo nero dagli occhi vermigli, che avrebbe chiamato Ciaran.
"Gli elfi tremeranno davanti a me e fuggiranno non appena mi vedranno apparire all'orizzonte e..."
Il rumore della porta di casa la distolse dalle sue fantasie eroiche, facendola voltare. Incrociò due occhi verdi come l'erba, identici ai suoi.
- Papà! -
Incurante dei rimbrotti di Alicia, gli saltò in braccio e gli cosparse la faccia di baci. 
Kale era un uomo alto, dalle braccia forti e muscolose, con mani piene di calli a causa del continuo uso della spada e dell'arco, la sua sua arma prediletta per quando andava a caccia. Il viso bonario, incorniciato da una cascata di capelli rossi tenuti a malapena stretti in una lunga treccia, era segnato da una profonda cicatrice.
- La mamma ti ha tenuto in prigione a pelare patate? -
La bambina annuì, afflitta.
- Beh, che ne dici allora di venire nel bosco con me? -
Un urlo di giubilo uscì dalle labbra di Caillean.
Mangiarono in fretta il pasticcio di patate e la minestra. La madre scosse la testa, spostando lo sguardo divertito alternativamente dal marito alla figlia.
- Siete uguali, voi due. - la bozza di un sorriso si disegnò su quelle labbra sottili.
L'uomo e sua figlia fecero spallucce e addentarono voraci due mele belle mature.
- E tu, Kale, dovresti smetterla di fargliele passare tutte lisce. Guardala! Si ingozza come un maiale e si comporta da maschiaccio! -
- Anche tu eri così, Alicia. Anzi, eri anche peggio di lei. Ti devo ricordare di tutti gli animaletti morti che portavi a casa per la tua collezione? - 
Alicia ammutolì, punta nel vivo, mentre le sue guance si imporporano di rosso.
- Davvero la mamma aveva una collezione di animali morti? - volle sapere la piccola.
Non si sarebbe fatta scappare un'occasione così succulenta per rispondere a tono a sua madre quando quella la rimproverava di essere poco femminile.
- N-non è vero! - esclamò l'interessata, - Ora andate fuori, prima che vi appenda per le orecchie! -
Il marito sorrise e si allungò per stamparle un leggero bacio a fior di labbra.
- A dopo, amore. - le accarezzò il volto mentre Caillean li guardava da dietro con un'espressione disgustata.
- Bleah! -
Prima che qualcuno dei due genitori potesse dire qualcosa, la bambina infilò la porta e corse fuori. Ad accoglierla ci fu lo spettacolo della natura in fiore: il sole illuminava un prato di campanule e gigli, che si estendeva a perdita d'occhio per miglia, le acque del ruscello che scorreva vicino al limitare del bosco erano limpide e fresche e i rami degli alberi sembravano protendersi verso il cielo alla ricerca di quel calore tanto agognato durante l'inverno e la tiepida primavera. Il vento le scompigliò i capelli, facendoli ondeggiare in sinuose spirali, come lingue di fuoco. 
Cominciò a correre e l'adrenalina non tardò a farle ribollire il sangue nelle vene. Qualche gocciolina di sudore le imperlò il viso. Si inoltrò nel bosco di antiche querce e cipressi odorosi, meta di numerose scampagnate e battute di caccia in compagnia del padre, con lo sguardo dritto davanti a sé e i piedi che scavalcavano con rapidi saltelli le robuste radici che sbucavano dal terreno. Lentamente le sagome degli alberi coprirono i raggi del sole, donandole un po' di refrigerio, mentre si lasciava alle spalle la sua casa. Con il cuore che le scoppiava nel petto arrivò nella radura dove di solito lei e il padre si fermavano a riposare. Una leggera brezza le portò alle narici il profumo delle margherite che costellavano il prato. Caillean vi si lasciò cadere, inspirando a pieni polmoni quell'aria fresca. 
Quanto le era mancata la sensazione dei fili d'erba tra i capelli e il caldo che preannunciava un'estate all'insegna dei giochi e del divertimento. 
A un tratto un'ombra si allungò sul suo viso. La bambina aprì gli occhi, per nulla spaventata, e incrociò quelli smeraldo del padre.
- Ti godi il sole, eh? - si stese accanto a lei a fissare il cielo terso, - Anche su al nord, in alcuni giorni, si poteva ammirare un azzurro così splendido. -
- Come facevi a guardare il cielo se eri sempre a combattere, papà? -
Kale sospirò, chiudendo gli occhi per rievocare i ricordi relativi a quel periodo.
- Lo facevo quando il mio plotone era accampato vicino al Tabor, un fiume immenso che divide Ferya ed Eleuterya. Durante le pause tra un combattimento e l'altro andavo a rinfrescarmi in quelle acque. Era come se il freddo potesse purificarmi da tutti i miei peccati. -
- Peccati? Ma di che stai parlando, papà! Tu eri un eroe! Hai ucciso tanti elfi e hai fermato la loro avanzata verso la capitale! - 
Caillean si voltò verso di lui, i loro capelli che si sovrapponevano e si mischiavano in un vortice rosso.
- Pensi che uccidere sia giusto, piccola mia? - sorrise mesto, accarezzandole la guancia paffuta.
Lei si mordicchiò il labbro inferiore, incerta su cosa rispondere: - N-no... uccidere non è giusto... ma se non l'avessi fatto, sarebbero morte tante persone... -
- Uccidere non è mai giusto, perché la vita è un dono che ci è stato offerto dagli dei e noi non possiamo arrogarci il diritto di essere i boia di un altro uomo. Certo, se non avessimo preso le armi, ci sarebbero state numerosissime vittime, però non devi pensare che gli elfi siano tutti malvagi. Io ne ho incontrati molti, sia mentre ero in battaglia sia mentre montavo la guardia alle celle dei prigionieri, e posso assicurarti che non sono quei mostri che ci descrivono. Sono dei guerrieri formidabili, soprattutto nell'uso dell'arco, e hanno un grande rispetto dei loro avversari. Uno di loro mi ha persino salvato la vita. -
Caillean strabuzzò gli occhi, incredula. Il padre si tirò su a sedere e la prese in braccio, come ogni volta che si accingeva a raccontarle una storia.
- Adesso ho sentito che hanno perso molti dei loro valori, che ogni volta che conquistano una città compiono delle brutalità che vanno al di là di ogni immaginazione. Forse è davvero così, ma non credo possibile che siano loro gli artefici di tutti quegli eccidi. Non sempre si riesce a distinguere il vero nemico. -
- Ma i Quattro Cavalieri dicono che... -
- Il Concilio dei Quattro Cavalieri è un organo corrotto. Coloro che siedono su quegli scranni secolari, ammantandosi di tante belle parole, sono solo uomini che pensano più al loro tornaconto personale che altro. Nessuno di loro ha mai calcato un campo di battaglia, nessuno di loro sa cosa significa lavare il sangue col sangue o assumersi la responsabilità di togliere la vita. - la strinse forte, affondando il naso nella stoffa che le ricopriva la spalla, - Ho sentito che non hai intenzione di sposarti, che vuoi arruolarti e diventare un soldato... -
Caillean sbiancò. Come faceva a sapere sempre tutto, suo padre? Eppure non l'aveva detto ad anima viva. Abbassò lo sguardo colpevole, cercando di sfuggire a quello tagliente dell'uomo. Sentì una mano prenderle delicatamente il mento e alzarlo. L'espressione di Kale era indecifrabile, la piccola non avrebbe saputo dire se fosse furioso o immensamente triste.
Quando finalmente riprese a parlare, la sua voce aveva perso ogni calore.
- Lo so che non vuoi seguire le orme di tua madre e non penso che sarebbe la strada adatta a te. Però, figlia mia, pensaci bene. La vita nell'esercito è dura, soprattutto per una donna. È un posto ancora pieno di pregiudizi, dove è difficile farsi strada, dove la gente tira fuori il peggio di sé. Ma soprattutto devi essere consapevole che, se vuoi diventare un guerriero, dovrai portare per tutta la vita il peso di aver ucciso. È un grosso fardello. Non importa per quale motivo tu lo faccia, non importa quante volte chiederai perdono: le tue mani rimarranno sempre le mani di un assassino, le tue dita saranno per sempre lorde del sangue dei tuoi compagni e dei tuoi nemici. - le strinse le spalle, la voce ridotta a un sussurro, - Dimenticati le ballate dei bardi e le storie che ti sono state raccontate: nella guerra non c'è niente di eroico. C'è solo un'effimera gloria che tramuta gli uomini più onesti in feroci carnefici. Sei pronta a tutto questo? Perché se è veramente ciò che vuoi, io ti sosterrò come ho fatto sinora. -
Caillean lo fissò, facendosi improvvisamente seria.
- Sì, è quello che voglio. Voglio combattere e riportare la pace su Esperya. Voglio poter vedere la gente felice, senza più la paura di viaggiare. Voglio non dover più sentire l'odore dei campi bruciati e le urla degli innocenti. Io diventerò un Cavaliere e metterò la mia spada al servizio della giustizia. Io diventerò come te, papà. -
L'uomo rimase immobile per alcuni istanti, poi le labbra si stesero nel solito sorriso che la bambina amava tanto.
- Va bene, piccola mia. Se tua madre verrà a saperlo, mi farà lo scalpo. -
Caillean rise divertita: - Ah, lo so. Ma non serve che mamma lo sappia, vero? -
- No, ci tengo alla vita! - ridacchiò anche lui, poi le lanciò una spada di legno, - Bene, ora in guardia! Vediamo quanto sei migliorata dall'ultima volta. -

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Capitolo 12
*** Rivelazioni ***


12

Rivelazioni

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Sognò il tanfo del sangue. L'aria intorno a lei era pregna di un fumo nero che le faceva lacrimare gli occhi. Quando tentò di muoversi, un dolore straziante le morse gli arti. Troppo debole persino per gemere, rimase immobile in quell'atmosfera opaca e senza luce. Un qualcosa si serrò attorno alla sua gola: due mani livide e fredde. Airis tentò di urlare, ma l'aria ardente le invase la bocca. Gli occhi feroci di Ignus la fissavano, le dita cianotiche continuavano a stringere, il viso gonfio scavato da vermi bianchi era piegato in un ghigno grottesco. L'aria cominciò a mancarle, mentre annaspava nel tentativo di liberarsi.
Un pensiero le graffiò il cervello.
"Non voglio morire, non ora!"
In quello spazio da incubo, rimbombò una risata suadente e crudele.
"Lei..."
Tentò di aprire gli occhi, ma le palpebre erano troppo pesanti. Ormai non riusciva più a respirare. L'unica cosa che riusciva a scorgere era il volto deforme dell'ex generale.

Erano calate le tenebre quando si svegliò. All'inizio non riusciva a distinguere nulla, poi lentamente mise a fuoco i vaghi contorni della cattedrale, le colonne in marmo bianco, i resti delle antiche statue, le panche in legno rovesciate. Le cose intorno a lei poco per volta cominciarono a riprendere forma, assieme ai ricordi di quello che era successo. Le immagini di Ignus e di Ledah si sovrapponevano le une alle altre, in un mosaico di urla e sangue senza un reale senso logico. Quando Airis cercò di rimettere in ordine quei frammenti sconnessi, lo stesso dolore che l'aveva tormentata nel sonno la colpì come una pugnalata. Un dolore che pulsava nel petto. Tremando, posò la mano all'altezza del cuore, alla ricerca di una qualche ferita, incontrando soltanto il freddo acciaio della corazza.
"Allora perché fa così male? Perché... Ledah... cosa è diventato Ledah...?"
A quel delirio mentale andarono ad aggiungersi ricordi ancora più vecchi: il sapore della minestra di patate, gli occhi onice della madre, le parole del padre, la promessa di cavaliere...
Si sentì tirare su come una bambola di pezza e poi qualcuno la costrinse ad alzare la testa. Airis sbatté le palpebre, incapace di opporsi a quella nuova forza. Due iridi rosse la fissarono.
- L-Ledah...? - balbettò con voce raschiante, la gola arsa dall'antica sete.
"No... no, non è lui..."
Quegli occhi cremisi, contornati da lunghe ciglia setose, appartenevano a una donna, una donna che conosceva fin troppo bene.
"Lysandra..."
Era la prima volta che la vedeva da quando l'elfo le aveva ridato la vista e rimase sorpresa nel constatare che non aveva l'aspetto mostruoso che si era immaginata fino ad allora: il viso dai lineamenti delicati era incorniciato da una cascata di serici capelli biondo cenere. Un'armatura succinta, decorata con arabeschi e simboli luminosi lasciava scoperta una buona porzione della pancia. Le labbra carnose erano piegate in un sorriso crudele.
– Oh... la nostra piccola principessa si è svegliata, finalmente. - le scostò i capelli dal volto sudato, - Desideri qualcosa? -
Airis sapeva che quella voce così melliflua non presagiva niente di buono. Il demone si avvicinò, sfiorandole la guancia.
– Allora... come ti è sembrato il mio ragazzo? Forte come la prima volta che vi siete incontrati? -
- I-incontrati...? Quando...? - sentiva il corpo in fiamme, persino parlare era una sofferenza.
Ogni volta che provava a muoversi, una lama rovente sembrava che le affondasse nel petto, impedendole di pensare lucidamente. La mano di Lysandra la accarezzò nel punto in cui il dolore era più acuto.
- Tranquilla, è normale che tu non riesca a ricordare. Quando le catene del corpo cominciano a infrangersi, l'anima tende a perdere tutti i ricordi della sua vita terrena... - slacciò le fibbie che tenevano chiusa la corazza e infilò la mano sotto la cotta di ferro.
Le dita affusolate percorsero il contorno di un'antica e profonda cicatrice.
- Sai, quando ti ho trovato morente nella radura di Llanowar, tre anni fa, non credevo fossi una guerriera così forte e obbediente. Stai compiendo il tuo lavoro a meraviglia. - le sfiorò il capezzolo con gentilezza, - Ora, da brava bambina quale sei, perché non mi dici dov'è il libro? -
"Di quale libro parla?"
Un lampo estemporaneo illuminò la cattedrale, gettando una luce spettrale in tutto l'ambiente. Per un attimo il mondo perse ogni colore e Airis credette di scorgere nei visi delle statue cadute le facce irrigidite di cadaveri inumani. Uno spiffero di vento le passò accanto, portando con sé un odore acre e intenso: nell'angolo alla sua destra, giaceva un cadavere riverso a terra in una pozza di sangue.
"Ignus... aveva un libro con sé e Ledah lo voleva a qualunque costo."
Si girò a guardare Lysandra, che la fissava in attesa di una risposta.
- Non so dove sia. Quando ho ripreso conoscenza, ho visto Ledah fuggire con qualcosa sotto braccio, probabilmente il libro che cercavi. -
- E come mai non l'hai seguito? -
Airis sapeva di star camminando su un ghiaccio estremamente sottile. Un passo falso e quella donna algida ed aggraziata si sarebbe trasformata in un mostro feroce.
"Soppesa ogni parola che stai per dire." si impose.
- Non ero nelle condizioni di correre. Durante il combattimento ho esaurito le forze. Avevo... - inspirò profondamente, - ... ho bisogno del tuo sangue... -
Lysandra sorrise, come Airis aveva sperato facesse. Evidentemente la risposta era stata di suo gradimento, soprattutto l'ultima parte. Poi improvvisamente le torse il capezzolo, strappandole un gemito di dolore.
- Non mi stai ingannando, mia amata bambina? - le sue unghie nere affondarono nella pelle, scavarono solchi nella carne viva, – Perché io non tollero i bugiardi tra le mie truppe. Ho impedito che la tua anima marcisse all'inferno, ma se scopro che stai mentendo ti farò desiderare di essere morta! -
Airis si morse le labbra e serrò i pugni. Quelle nuove ferite non erano niente in confronto al calore che dal petto divampava in ogni parte del suo corpo. Aveva bisogno del sangue del demone a qualunque costo.
- S-sì... sto dicendo la verità. Lo giuro! -
Parole a metà tra un rantolo e un ringhio rotolarono fuori dalla sua bocca. Sostenne lo sguardo gelido del demone, ignorando l'intontimento che le annebbiava la mente. Lentamente, Lysandra mollò la presa, lasciando una nitida traccia rossastra laddove aveva fatto pressione.
Una voce sibilante a metà tra il minaccioso e il suadente le sussurrò: – Ti credo, mio tenero bocciolo. - le passò una mano tra i capelli, impiastricciati di sangue e terra, – Però devo comunque punirti, poiché hai lasciato sfuggire il mio prezioso libro. -
Tenendola in braccio come se fosse una bambina, la portò vicino al cadavere.
- Ma tranquilla, ti darò da mangiare comunque. - la adagiò in quella pozza vermiglia.
In quel momento, Airis capì.
- No... no, non posso... era un mio compagno, non merita questo! -
- Oh... quindi preferisci rimanere a digiuno? -
"No che non lo voglio! Però non posso cibarmi di Ignus! Io sono un cavaliere, ho giurato sul mio onore! Non posso... non posso..."
Osservò le sue mani, ricoperte di quel liquido cremisi.
"Così invitante..." si leccò le dita famelica, "Così irresistibile..."
Lysandra girò il corpo supino. La corazza era squarciata, la maglia di ferro lacerata. In un impeto animalesco, Airis divelse quel che rimaneva dell'armatura e cominciò a strappare i lembi di carne ancora tiepida dal petto dell'ex generale. Il mondo si tinse di rosso, ottenebrando completamente i suoi ultimi residui di volontà. Dilaniò muscoli e pelle, mentre il dolore che fin ad allora non le aveva dato requie svaniva. Alla fine, di Ignus rimase soltanto un fantoccio di tendini e ossa spezzate.
Quando ebbe finito di cibarsi, riuscì finalmente ad alzarsi. Un fulmine squarciò il cielo, illuminando la sua corazza ricoperta di sangue e le gemme rosse che scendevano dalle sue labbra. Fissò le sue mani, incerta se ridere o piangere.
"Non importa per quale motivo tu lo faccia, non importa quante volte chiederai perdono: le tue mani rimarranno sempre le mani di un assassino, le tue dita saranno per sempre lorde del sangue dei tuoi compagni e dei tuoi nemici." 
"Mi dispiace, padre... mi dispiace..."
Si prese la testa tra le mani, incapace di versare lacrime. Si sentì abbracciare da dietro, mentre una lingua ruvida guizzava sulla sua guancia.
- Ricordati, Airis... se continuerai a servirmi, scioglierò le catene che ti tengono ancorata a questo mondo... -
- Chi mi garantisce che lo farai, demone? -
Lysandra ridacchiò. – Nulla, mia cara. L'unica cosa che puoi continuare a fare è obbedirmi. - si allontanò con fare teatrale, come un principe costretto a lasciare la sua amata. - Seguimi. Ti dirò cosa dovrai fare da ora in avanti. -
Si avviò verso l'ingresso. Airis raccolse la spada rimasta vicino alla colonna, stringendola con forza, senza mai distogliere gli occhi dal demone.
"Nell'esatto momento in cui avrò portato a termine la mia missione, ti pianterò questa lama nel cuore, giusto per farti assaporare la mia stessa sensazione."
Lysandra si voltò, sfoggiando un sorriso beffardo.
– Quello sguardo carico d'odio... lo sguardo di un mostro... lo amo. So che desideri la mia testa, mia amata bambina, ma non è ancora arrivato il momento della resa dei conti. E non penso che arriverà mai. Ora vieni. -
Reprimendo la rabbia, Airis la seguì fuori dalla cattedrale. Non appena uscirono, le accolse una pioggia scrosciante. La guerriera chiuse gli occhi, mentre quelle stille luminose le rigavano il volto. Sotto quel temporale anche lei poteva fingere di essere capace di piangere.
- Ordunque, per prima cosa dovrai trovare Ledah e recuperare il libro. Quando finalmente vi sarete ritrovati, vi dirigerete a Sheelwood. -
- Perchè non lo puoi cercare tu? É tuo figlio, dovresti riuscire a scovarlo in fretta coi tuoi poteri da demone. -
Lysandra fece una smorfia di disappunto e incrociò le braccia al petto. Il suo mantello nero e le piume ad esso attaccate contrastavano con quell'incarnato pallido e delicato, donandole un fascino magnetico straordinario.
- Il problema è che Ledah sa che lo sto cercando. Se mi mettessi sulle sue tracce, maschererebbe nuovamente la sua aura e io non riuscirei a trovarlo. - fece avanti e indietro pensierosa, - Certo, adesso che ha liberato un po' della sua forza potrei rintracciarlo, ma sono certa che riuscirebbe a svanire nuovamente. Se potessi, userei qualcun altro per farlo rinascere, ma purtroppo il corpo di mio figlio sembra essere l'unico in grado di ospitare il suo spirito. -
Airis la guardò perplessa. – Ma allora perché hai ordinato ad Ignus di attaccarci? Avrebbe potuto ammazzarci! -
"Perché tanto so che ce l'hai mandato contro tu."
Lysandra sospirò, passandosi una mano tra i cinerei capelli ormai fradici. – Ora come ora, Ledah non può essere il suo contenitore, perché la sua anima non è stata corrotta abbastanza. Più la sua parte malvagia aumenta, più lui perde umanità e tutti quegli stupidi buoni sentimenti che voi cavalieri tanto amate. Solo quando il suo io sarà completamente inghiottito dall'oscurità sarà pronto per il grande rito. -
"Grande rito? Cosa sta farneticando?" scosse la testa confusa, "Vabbè, non mi importa niente di Lysandra, né di Ledah, né di questo sporco mondo. Voglio solo che questa storia finisca."
Tornò a guardare la sua interlocutrice. – Devi darmi qualche altro ordine meno scontato? -
Il demone le si avvicinò nuovamente, fissandola con i suoi occhi purpurei: – Ho un altro favore da... chiederti. - si mordicchiò le labbra fingendo imbarazzo, - Lungo la tua strada dovresti incrociare un piccolo villaggio, dove vive una persona, come dire, scomoda. -
- Qual'è il nome del mio bersaglio? - domandò Airis con voce fredda.
- Te lo dirò quando sarà il momento, mia cara bambina. Dirigiti a sud, per ora. - si voltò e si incamminò per la strada maestra, l'armatura nera che riluceva di una lugubre luce, - Ah, tra poco tornerai ad essere cieca. Purtroppo, l'incantesimo che Ledah ti ha lanciato non è permanente. Però tu ce la puoi anche senza, vero? -
Sogghignò ancora e poi scoppiò a ridere. Partendo dagli arti, lentamente svanì come cenere al vento lasciando solo l'eco della sua risata.
Non appena non percepì più la sua aura minacciosa nei paraggi, Airis rientrò nella cattedrale. Attraversò la lunga navata, fino ad arrivare vicino alle radici del Signore della Foresta.
"Ledah ha detto che è stata compiuta una magia proibita in questo luogo. Dovrebbe essere rimasta una qualche traccia..."
Osservò il maestoso albero. Avvicinò il viso al tronco, accarezzandone la corteccia.
"E queste cosa sono?"
Tastò alcune chiazze nerastre. In quei punti il legno si sgretolava in piccole schegge, come se fosse marcio. Si sforzò di ricordare le poche nozioni di magia che aveva appreso da piccola.
"Allora, qualunque tipo di incantesimo necessita di una fonte di energia. L'onda generata era enormemente potente, tanto da distruggere un'intera foresta e i suoi abitanti. Potrebbero essersi serviti proprio della forza del Signore per realizzare il loro scopo."
Girò attorno all'albero e si ritrovò di fronte quello che rimaneva di una porta. I battenti erano stati completamente scardinati, lasciando quell'entrata scoperta. Airis compì alcuni passi all'interno, sbucando direttamente in un giardino circondato da portici ormai crollati. Il forte odore di umido si mescolava a quello delle piante marcescenti, che una volta dovevano essere il vanto di quel cortile. Gli alberi bruciati dalla potente ondata di calore si stagliavano nel paesaggio come scheletri spettrali. Al centro di tutta quella devastazione, c'era un enorme buco, attorno al quale giacevano una decina di corpi immersi nel fango.
"Sono stati loro gli artefici di tutto..."
Airis si avvicinò. A giudicare dalla tunica elegantemente ricamata e dalla testa parzialmente rasata, dovevano essere i sacerdoti che si occupavano di quel luogo sacro. Erano tutti di età differenti, ma nessuno di loro pareva dimostrarla. A una prima occhiata sembravano vecchi di secoli: i visi erano scavati, la pelle rugosa e cianotica si tirava a tal punto da fare intravedere le ossa, gli occhi vitrei parevano quasi sul punto di voler uscire dalle orbite.
"E' come se... come se qualcosa li avesse prosciugati..." rifletté, mentre si avvicinava alla voragine che si era divorata buona parte del terreno.
Sbirciò dentro, senza scorgerne il fondo.
- Impossibile... -
Prese un sasso e lo fece cadere in quell'oscurità. Aspettò per più di due minuti, ma non udì nessun tonfo. Un brivido le corse lungo la schiena, facendola indietreggiare.
"Questo non è stato causato dall'esplosione..." constatò, "Se solo Ledah fosse qui, sarebbe tutto molto più facile."
Ma l'elfo era scappato chissà dove a sud e lei doveva trovarlo.
"Come se Esperya fosse piccola..." pensò sarcastica.
Udì uno scricchiolio sotto i piedi.
- Uhm...? -
Si inginocchiò per capire cosa avesse pestato. Nascosto sotto il fango e i rametti, c'era un cristallo, legato con una semplice corda per crearne un ciondolo. Airis lo raccolse e lo studiò con attenzione. Una piccola luce emanava un leggero calore dall'interno di quelle pareti trasparenti, facendolo baluginare di un alone azzurrognolo.
"E questo a cosa doveva servire?" guardò indietro verso i sacerdoti, "Non credo fosse solo un ornamento. Probabilmente serviva per il rito. Peccato che, non sapendo il tipo di incantesimo che hanno lanciato, non possa capirci nulla."
Maledì nuovamente quell'elfo sclerotico e la sua ignoranza.
"Lo farò analizzare da qualche mago non appena arriverò in città."
Si legò il cristallo al collo e tornò nella cattedrale, dove venne accolta ancora dal tanfo della putrefazione.
"Devo farlo..." si morse il labbro inferiore, "è un mio dovere onorare i caduti..."
Si inginocchiò vicino al corpo di Ignus e ne fissò il volto. Uno squarcio lungo e slabbrato partiva da poco sotto il collo e terminava sul cuore, lasciando scoperta la carne rossastra. 
- Sono stata io. - sussurrò, - L'ho ridotto io così. -
Fissò la sua immagine riflessa nel pavimento lucido e si tolse dalla bocca un grumo si sangue, senza mai distogliere lo sguardo dal cadavere. L'Airis che aveva compiuto quello scempio la spaventava, la faceva inorridire, e nonostante la sua vista volesse fuggire quell'atroce visione, si impose di resistere. Doveva ricordare quel che aveva fatto, perché non riaccadesse.
"Io sono un cavaliere, ho giurato di proteggere gli innocenti e di seguire sempre la via della giustizia. Questo non dovrà più succedere." chiuse delicatamente gli occhi vitrei del generale, "Mai più."
Alzò gli occhi verso il Signore della foresta, l'enorme albero che costituiva il cuore di Llanowar. Posò la mano sulla corteccia, stringendo con l'altra il ciondolo. Rievocò tutti i momenti che aveva passato con Ignus, l'umiliazione durante il Consiglio di guerra fino alla stima prima della battaglia, chiedendo perdono per quell'uomo che, nonostante tutto, aveva combattuto al suo fianco. Sentì qualcosa di fresco sulla pelle: due gocce di rugiada le rigavano entrambe le guance, come se il grande dio arboreo stesse piangendo per lei. Sorrise amara, scuotendo la testa: quale divinità avrebbe mai ascoltato le parole di un assassino?
"Le mie suppliche non sono state ascoltate quando ero innocente, perché mai il dio del mio nemico dovrebbe accoglierle ora che la mia anima sta marcendo?"
Cominciò a tastare il corpo. A un certo punto le sue mani sfiorarono qualcosa di ruvido. Lentamente estrasse un libro, con i quattro spigoli istoriati con delle decorazioni dorate. Il titolo, inciso a fuoco su quella copertina di cuoio consunto, era praticamente impossibile da leggere, tanto era rovinato. Airis lo aprì e fece scorrere le pagine ingiallite dagli anni: era tutto scritto in elfico. Le lettere erano state vergate con una calligrafia elegante e in alcuni punti erano state disegnate delle persone. La guerriera si soffermò su un'immagine in particolare, dove vi era ritratto un elfo con una tunica da sacerdote. L'uomo abbracciava da dietro una donna incinta, anche lei appartenente alla razza elfica accarezzandole il pancione come se volesse proteggerlo, la lunga treccia che ricadeva giù lungo il seno di lei. Questa sorrideva felice, lo sguardo dolce rivolto al padre del bambino. L'unica cosa che era stata colorata erano gli occhi, quelli della donna azzurri come il cielo estivo, mentre quelli di lui color muschio.
Airis avvicinò scrutò bene quei visi. Le pareva di scorgere dei lineamenti familiari.
Sfogliò ancora. A un certo punto vide che alcune pagine erano state violentemente strappate, testimoni alcuni frammenti di carta sfilacciata.
"Chi mai vorrebbe strappare delle pagine da un semplice diario?" scosse la testa, stropicciandosi gli occhi. "La vista ha già cominciato a calarmi, maledizione!"
Chiuse il libro e si alzò. Le colonne oltre la terza fila di panche stavano già perdendo nitidezza.
"Ci penserò dopo. Adesso ho un altro problema."
Nascose il diario sotto l'armatura e si avviò all'uscita. Cominciava già ad albeggiare e i timidi raggi del sole illuminarono debolmente quella steppa desolata, piena di case distrutte e cadaveri insepolti.
Avvolta da un silenzio assordante, Airis si allontanò lasciandosi alle spalle Alfheim e gli antichi dei della foresta. Se per lei fossero mai esistiti, gli dei. 

 

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Capitolo 13
*** Nuovi incontri ***


13

Nuovi incontri

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Era una mattina fresca e tersa. Airis aprì gli occhi, si alzò sbadigliando e stiracchiò tutti i muscoli doloranti, per poi ripulirsi i vestiti dal terriccio. Si guardò intorno, cercando di fare mente locale su dove si trovasse.
Il giorno prima aveva camminato in direzione sud fino al calare della sera, poi si era accampata vicino ad un grosso albero, l'unico abbastanza massiccio da poter costituire un riferimento in mezzo al bosco. Aveva scelto quel posto anche perché nei pressi c'era un torrente, a cui avrebbe potuto abbeverarsi e fare rifornimento d'acqua per il giorno successivo. Le sarebbe bastato proseguire nella stessa direzione per ancora un paio di miglia e in poco tempo sarebbe stata fuori da Llanowar.
In quel paesaggio desolato, fatto solo di ombre e silenzio, la solitudine era presto diventata una presenza quasi tangibile e a tradimento aveva riportato alla memoria ricordi dolorosi, che Airis credeva di aver dimenticato. Durante il giorno riusciva ad ignorarli concentrandosi sulla strada che doveva percorrere e sui rumori della foresta, ma quando calava la notte gli antichi incubi tornavano a tormentarla. Sognava suo padre, la sua testa conficcata su una picca, i suoi occhi verdi mangiati dai corvi, e rivedeva il volto stravolto di sua madre, il suo corpo scosso dai singulti. Poi le sembrava di udire le urla di scherno delle persone, di vedere le loro facce crudeli distorte in un'espressione di sadica gioia.
Raggiunse il torrente e vi immerse la testa, mentre un leggero brivido freddo le percorreva le membra. L'unica cura contro quelle terribili memorie era mettere in moto il corpo e riposarsi quanto meno possibile.
"Non che ne abbia poi tanto bisogno. L'unica cosa buona dell'essere una Risvegliata."
Tornò in superficie e si scostò alcuni ciuffi bagnati che le erano rimasti appiccicati sulla fronte. Si sfilò il pettorale e la maglia di ferro, scoprendo il seno bendato da alcune fasce, ne svolse una ed espose all'aria fresca una piccola cicatrice poco sotto il cuore. Con le dita percorse la pelle ruvida, osservandola con aria quasi disgustata. Non sapeva chi gliela avesse inferta e di quel momento conservava solo una vaga reminiscenza. Rammentava di essere andata in ricognizione con altri suoi compagni nella foresta di Llanowar, anni addietro, e che a un certo punto aveva udito il rumore di una battaglia provenire da un punto poco distante. Ma appena uno del gruppo le aveva annunciato di essere giunti a destinazione, i ricordi si facevano confusi. L'ultima cosa che aveva sentito erano state le grida dei soldati e il clangore delle spade che cozzavano. Poi tutto si riduceva solo a dolore e sofferenza. Se si sforzava, poteva rivedere, in un certo senso, la familiare oscurità che regnava dietro gli occhi ciechi assumere fosche tinte cremisi, popolandosi di esseri mostruosi dalle fattezze grottesche. Aveva percepito nitidamente una lama perforarle la corazza e poi la sensazione del sangue che le imbrattava le vesti. Era rimasta incosciente per un tempo indefinito, finché la risatina odiosa di Lysandra l'aveva ridestata. Dal suo risveglio era stato tutto un susseguirsi di eventi di squallida quotidianità: la guerra, gli scontri con gli elfi e le assurde missioni che Lysandra le affidava in cambio del suo sangue, unica fonte di sostentamento e purtroppo estremamente necessario, perché se lei avesse smesso di concederglielo, Airis avrebbe finito col diventare una semplice non-morta. E, sinceramente, essere alla totale mercé di quell'essere non la entusiasmava particolarmente.
Indossò di nuovo il pettorale e il mantello e cominciò ad incamminarsi in direzione sud, rimanendo sempre assorta in quei cupi pensieri. Come al solito, intorno a lei regnava il silenzio più totale, interrotto solo dal rumore dei suoi passi e dal fruscio del vento tra i rami degli alberi. Quando un brivido le accarezzò la pelle, Airis si sfregò le braccia, infastidita dal gelo che pareva penetrarle sin dentro le ossa. Da un po' di tempo a quella parte aveva cominciato sempre di più ad odiare tutte quelle emozioni così dannatamente umane, perché le suggerivano che era fragile, più vulnerabile di quello che sarebbe dovuta essere. Quando si era piegata all'ordine della donna demone, si era sentita orribilmente impotente e la scelta obbligata a cui l'aveva sottoposta non era altro che la testimonianza della sua debolezza.
Per di più, Lysandra non era un semplice demone: era un Lich, un incantatore che aveva venduto la propria anima in cambio di un immenso potere.
"E io ho solo la mia volontà per contrastare la sua potenza, l'unica cosa che mi contraddistingue da un semplice non-morto." 
Sospirò e fece scorrere lo sguardo attraverso gli scheletri anneriti degli alberi. Riusciva a vederne il profilo fino a pochi metri più avanti, poi tutto diventava confuso e irriconoscibile, come se fosse stato avvolto da una fitta nebbia.
"Di questo passo, la vista mi abbandonerà prima del previsto."
Ora che si era abituata nuovamente ai colori e alla luce del mondo, l'idea di ripiombare nell'oscurità la sconfortava. Alzò gli occhi verso il timido sole, che rischiarava il cielo azzurro di quella mattina, ma un angoscioso pensiero fece capolino nella sua testa: da quando era rimasta coinvolta nell'esplosione, non aveva più ricevuto notizie di come stavano procedendo le azioni belliche. Beh, forse credevano che fosse morta come tutti gli altri. A quanto ne sapeva, lei e Ledah erano stati gli unici sopravvissuti, ma forse qualcun altro si era salvato ed aveva riferito alle alte cariche la disfatta. C'erano varie possibilità da vagliare.
"Eppure, sicuramente gli altri elfi avranno saputo cosa è accaduto qui. Come si saranno mossi, dopo aver appreso la notizia della caduta di Llanowar? L'ultima volta che una delle loro foreste è bruciata, ce l'hanno fatta pagare molto cara."
Il ricordo di come erano state ridotte le città di Mera ed Edon le fece montare una profonda rabbia dentro. Negli ultimi anni gli elfi si erano fatti più spietati e si erano vendicati nei modi più feroci sulla popolazione civile. Coloro che erano scampati a quei massacri avevano raccontato delle storie agghiaccianti, che dipingevano gli elfi come assassini a sangue freddo, incapaci di provare alcun tipo di compassione. Ogniqualvolta conquistavano una città, non facevano prigionieri: passavano a fil di spada ogni abitante, senza fare distinzioni di sesso o età. Suo padre, quando era ancora vivo, le aveva raccontato che quello non era un comportamento tipico della loro razza, che gli elfi erano dei valorosi guerrieri e rispettosi dei loro nemici. Airis ci aveva creduto fino alla fine, ma quando era diventata Generale aveva assistito solo ad atti che dimostravano il contrario. 
Un vecchio detto elfico recitava "un osso rotto per ogni ramoscello spezzato", ma evidentemente le mere ossa non erano un prezzo sufficiente. Si erano presi molto di più, purtroppo.
Giunse in uno spiazzo occupato da una polla d'acqua, contornata da enormi rocce di basalto nero, le cui ombre si allungavano sulla superficie, facendo apparire la pozza come una macchia d'inchiostro nel terreno. Airis si inginocchiò e bevve un po', quando un profumo di pini le arrivò alle narici. Si guardò intorno, spaesata da quell'odore insolito, si arrampicò su una delle rocce e perlustrò il paesaggio circostante. In un attimo assunse un'espressione incredula e sbatté più volte le palpebre per accertarsi che ciò che stava osservando fosse reale. Vide che, pochi metri più avanti, la desolazione lasciava il posto a una florida vegetazione, gli alberi si innalzavano in tutta la loro maestosità per miglia, fino a diventare un tutt'uno con l'orizzonte, e i loro rami si protendevano verso il cielo in un inno di tacita vittoria, quasi volessero sfidare gli dei a provare ad abbatterli. Quindi solo una parte di Llanowar era arsa nell'esplosione, mentre il resto era sopravvissuto. 
Airis sorrise e gettò un ultimo sguardo su quell'immensità verde. Ridiscese, appoggiò la schiena contro la roccia ed estrasse il libro dalla tasca interna del mantello, ricominciando a leggere da dove si era interrotta la sera prima. Studiò quelle parole vergate con una grazia sopraffina. Quando aveva iniziato la lettura, non aveva potuto reprimere lo stupore notando come le lettere le diventassero comprensibili man mano che passava da una frase all'altra. Perciò, a un tratto, aveva realizzato di essere in grado di leggere l'elfico e non riusciva a capacitarsi di come ciò potesse essere possibile, visto che non l'aveva mai studiato in vita sua. Di conseguenza, attribuiva quel fatto strano all'incantesimo che Ledah le aveva lanciato per ridarle la vista, era la sola spiegazione possibile. Oppure nella sua vita precedente era stata un'ambasciatrice.
Ridacchiò, immaginandosi nelle vesti di un'intellettuale di corte, con un corsetto intessuto di pietre e tessuti preziosi, una gonna ampia e i capelli legati stretti sulla nuca.
- Ma con i miei modi così raffinati ed eleganti diventerei sicuramente la migliore delle cortigiane. Poi, col mio modo di parlare così ricercato, mi farei amare dal re. - commentò sarcastica, a mezza voce, mentre le tornavano in mente le serate passate in taverna con i suoi commilitoni. 
E no, non era diventata famosa per il suo eloquio particolarmente signorile. Scosse la testa e si passò una mano sul volto. 
''Sto impazzendo... Lysandra tra poco si prenderà anche la mia preziosa sanità mentale.''
Rise divertita ancora per alcuni istanti, poi si concentrò e si sforzò di continuare a leggere. 
Fino a quel momento non aveva trovato nulla di speciale: era un semplice diario, in cui un elfo di nome Haldamir raccontava giorno per giorno la vita sua e di sua moglie Elladan, incinta del loro primo figlio. 
"Pensavo che fosse un libro pieno di incantesimi proibiti e magia nera, non che narrasse delle mirabolanti avventure di un futuro padre e le sue paturnie pre-parto. Fammi capire, ho bevuto il sangue di Ignus e rischiato la mia non-vita per una roba del genere?! E poi perché Lysandra vorrebbe avere questo maledettissimo diario? Penso che sia da escludere l'opzione che si sia addolcita e voglia finalmente fare la donna di casa." 
Sfogliò le pagine e tornò al ritratto dei due elfi. Osservò nuovamente i lineamenti aggraziati della donna, il suo sorriso dolce, gli occhi azzurri colmi di amore e speranze. Non sapeva come, ma Airis notò una certa somiglianza tra Elladan e Lysandra, nella forma del viso e delle labbra. Forse quello era l'aspetto del Lich quando ancora era in vita, così si spiegherebbe perché Ledah non presentava nessun carattere demoniaco. Poggiò il libro aperto sulle gambe e incrociò le braccia dietro la testa, proseguendo nelle riflessioni. 
"Se però ha avuto un figlio quando era ancora un'elfa, perché quell'idiota di Ledah ha quel potere spaventoso? Non penso che Lysandra abbia tradito Haldamir e non credo nemmeno che abbia ceduto la sua anima per diventare più forte... ma allora chi l'ha trasformata in un Lich?" 
Sbuffò frustrata. Il suo cervello era pieno di domande a cui non era in grado di rispondere e senza un briciolo di indizio non poteva trovare un modo per liberarsi dall'ingombrante presenza di Lysandra. 
Mentre giocherellava distrattamente con il frammento di cristallo azzurro appeso al collo, contemplò ancora quei volti felici ritratti sul manoscritto, scoprendosi a fantasticare su come sarebbe stata la sua vita se avesse seguito il consiglio di sua madre. Si immaginò in una casa accogliente, seduta vicino al focolare con due piccole bambine in braccio, e suo marito, un uomo onesto e coraggioso, che cucinava il cervo appena cacciato. Un leggero calore le invase il petto, un calore che non assaporava da quando l'avevano bandita da Merite. Non rimpiangeva le sue scelte, però, anche se per un breve periodo, avrebbe voluto provare un po' di quella felicità. E l'amore. 
Aveva sempre visto i soldati condurre nelle loro tende donne belle e formose e a volte aveva udito i loro gemiti, ma non credeva che solo nel mero atto carnale avrebbe trovato quel che cercava. 
Accarezzò quel pensiero delicatamente, sfiorandolo per qualche attimo, ripensando a quanto l'avevano disprezzata da bambina. Rimase assorta per qualche minuto a crogiolarsi in quei sogni, ma poi la certezza che probabilmente sarebbe stato il capo del suo villaggio a scegliere il suo futuro sposo la spense ogni entusiasmo. L'idea di dover rinunciare alla propria libertà la irritava e indisponeva non poco, soprattutto se avesse dovuto farlo per compiacere un uomo simile a un goblin.
Si concentrò sui pochi suoni che la circondavano. Nonostante si trovasse in territorio nemico, il frusciare del vento, le impercettibili vibrazioni della superficie dell'acqua e il suo respiro che si condensava in piccole nuvolette di vapore contribuivano a calmarla, a farla fondere con la terra sulla quale sedeva. Si lasciò incantare da quell'orchestra naturale e lentamente la testa le si svuotò del tutto, dissipando tutti i dubbi e i pensieri che le affollavano la mente. 
Ora il suo unico obiettivo era rintracciare Ledah. Al resto avrebbe pensato dopo.
Improvvisamente, il silenzio fu interrotto da un leggero brusio. Airis aprì gli occhi, infilò il libro sotto la corazza e avanzò nella vegetazione in punta di stivali, decisa a scovare la fonte di quei bisbigli. Pian piano si avvicinò ad una radura e, senza accorgersene, trattenne il fiato per non rischiare di tradire la propria presenza in alcun modo. Si acquattò dietro una roccia abbastanza grande da nasconderla, al limitare della radura, poi si affacciò leggermente oltre il bordo. Scorse tre figure: una era inginocchiata, intenta a scrutare il suolo, mentre le altre due stavano discutendo tra loro. Riconobbe subito nella figura più alta un umano e, a giudicare dal leone rampante inciso sull'armatura, doveva essere un soldato dell'esercito imperiale. L'individuo col quale stava parlando, che era la metà di lui, aveva una lunga e folta barba rossiccia e attorno alle braccia muscolose indossava delle fasce costellate di simboli runici.
"Un umano e un nano assieme? Da quando?"
I due popoli erano alleati, ma era una cosa ben nota a tutti che i nani non erano in buoni rapporti con le altre razze. In effetti, da come i due stavano discutendo, non sembravano riuscire a trovare un'intesa: il soldato imperiale guardava il nano con espressione dubbiosa, mentre quest'ultimo sembrava sull'orlo di una crisi isterica. 
L'unico apparentemente disinteressato al battibecco era il terzo del gruppo. A una prima impressione, Airis l'avrebbe definito un elfo, se non fosse stato per i capelli bianchi come la neve e la pelle color ebano. 
"Che diamine ci fa un Drow qui?" 
Era a conoscenza del fatto che da anni erano stati ridotti in schiavitù, venduti ai mercati della capitale, rinchiusi in gabbie e trattati alla stregua di animali. La legge imponeva loro di indossare sempre un collare di argento alchemico, così da sigillare i loro poteri, ma quel Drow innanzi a lei ne era sprovvisto. Decisamente, la faccenda era molto insolita e fece sorgere in Airis una marea di domande, prima fra tutte: cosa ci facevano un nano, un uomo e un Drow insieme? Sembrava quasi l'inizio di una barzelletta squallida. In più, il fatto che quell'elfo non indossasse il collare la metteva in apprensione, dato che era risaputo che quelli della sua razza fossero i cugini cattivi degli elfi comuni, dotati di un'indole ancora più oscura e violenta dei loro parenti “buoni”.
In quel momento il Drow si voltò nella sua direzione: si era sporta troppo. 
- So che sei lì! - esclamò scattando in piedi. 
Nell'attimo stesso in cui pronunciò queste parole, i due litiganti tacquero e cominciarono ad avvicinarsi al loro compagno. Il nano e il soldato gli si affiancarono immediatamente, domandandogli in silenzio qual fosse il pericolo. Il Drow elargì un vago cenno del capo a entrambi, come per intimare loro di rimanere all'erta nel caso fosse stato necessario combattere, poi compì ancora qualche passo verso l'intruso.
"Mi ero completamente dimenticata che ha gli stessi sensi sviluppati di un elfo, dannazione!" 
Si morse le labbra, maledicendo la propria imprudenza. Prese un profondo respiro, uscì cauta allo scoperto e scrutò i tre componenti di quella strana combriccola: erano tutti disarmati e malridotti. Anche se avessero tentato di assalirla, in quelle condizioni non avrebbero avuto molte possibilità di batterla.
- Non sono vostra nemica. - alzò le mani nel tentativo di tranquillizzarli, - E sono solo di passaggio. -
Il Drow la osservò per brevi istanti. I suoi occhi vermigli, simili a quelli di un demone, incutevano un certo timore. Sotto quello sguardo di fuoco, Airis si sentì nuda. 
- Chi sei? - la voce grave dell'elfo pervase quell'angolo di foresta. 
- Sono un soldato scampato al disastro di Llanowar. - rispose, mettendo nel suo tono di voce tutta la calma possibile. 
- Una donna? Le donne non combattono le guerre. -
- Io sì, è stata una mia scelta. -
Non le piaceva che quello sconosciuto la fissasse così, con quell'aria saccente, divertita e al contempo diffidente, anche se ne aveva tutte le ragioni. 
- Voi, invece? Chi siete? -
Il nano prese la parola: - Fenrir, taci. Non puoi dirle chi siamo, potrebbe essere una di loro. Io propongo di catturarla e sottoporla ad un bell'interrogatorio approfondito. -
"Oh, fantastico. L'inizio di una nuova amicizia! Se prova a toccarmi, gli farò leccare la lama della mia spada."
Il soldato, quasi avesse capito che la situazione stava per precipitare, posò una mano sulla sua spalla. Aveva un viso asciutto e degli occhi di un marrone caldo che trasmettevano sicurezza e forza. 
- Baldur, guardala bene. - disse pacatamente, - Ha un'armatura completamente differente da quella di un bandito. Inoltre, se avesse voluto attaccarci, l'avrebbe già fatto. -
Il nano lo guardò di traverso con un'espressione estremamente irritata. 
- Fate come vi pare. Se poi vi attacca alle spalle, sono affari vostri. - si girò e andò ad appoggiarsi ad un albero poco più in là. 
L'altro sospirò esasperato, poi tornò a volgere la sua attenzione verso di lei.
- Scusalo, siamo tutti molto stanchi. Il fatto è che sono giorni che ci braccano e siamo giunti quasi al limite. -
Airis abbassò le mani. 
- Non preoccuparti, sono abituata. Il mio vecchio Generale non era esattamente una persona molto trattabile. - affermò ironica, ricordandosi di tutte le feroci discussioni che aveva avuto con Ignus. 
Scrutò di sottecchi quel Baldur: stava a braccia conserte, assorto nei suoi pensieri, borbottando qualche imprecazione ogni tanto, ma la giovane era consapevole che in realtà, per quanto sembrasse distratto, non la perdeva di vista neanche per un secondo.
- Di quale legione facevi parte? - indagò il Drow.
- La cinquantesima, ero sotto il comando di Eigor Felther. - asserì, tornando a concentrarsi sui suoi interlocutori. 
"Per ora è meglio che non mi scopra molto. Non si sa mai che la stessa idea che ha avuto il nano prima trovi consenso negli altri due." 
- Di grazia, posso sapere il vostro nome? - chiese all'umano del gruppo.
Sul viso dell'interessato apparve un'espressione sorpresa, poi, sorridendo, le porse la mano. 
- Che maleducato, non mi sono presentato. Mi chiamo Alan e facevo parte della guardia cittadina di Amount-vinya. Come avrai capito, - si girò verso il Drow, - lui è Fenrir, mentre quello scorbutico lì è Baldur. Tu? Ci ha solo detto che sei un soldato. -
Presa in contropiede da quella domanda legittima, Airis esitò un momento. 
- Io sono... Caillean e vengo da Merite. - strinse caldamente la mano di Alan, nel tentativo di sembrare il più naturale possibile.
- E' proprio un bel nome. - Alan incrociò lo sguardo impassibile del Drow, come per cercare conferma, - Mi duole ammettere che non conosco la tua città natale. -
- E' normale, è un piccolo villaggio del sud, a poche miglia da Sershet. Penso che non sia neanche segnato sulle carte per quanto è minuscolo. - sorrise di rimando, - Comunque, ora posso sapere cosa vi è accaduto? -
- E' una storia lunga da raccontare così su due piedi. Ne parleremo meglio a stomaco pieno. - senza perdere il sorriso, Alan le fece segno di avvicinarsi. 
Quando Airis passò a fianco di Fenrir, percepì nuovamente il suo sguardo indagatore sulla pelle. Alzò gli occhi e li fissò in quelli infuocati di lui, senza alcuna incertezza. 
Per un lungo momento il Drow studiò il volto della guerriera, poi sussurrò: - Ti tengo d'occhio. -
Airis esaminò scettica quello strambo e improbabile gruppetto. Aveva la sensazione che sarebbe stato l'inizio di una convivenza molto, molto difficile.
 

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Capitolo 14
*** La guerra del centesimo solstizio ***


14

La guerra del centesimo solstizio

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Si svegliò di mattina presto, alle prime luci dell'alba. Si avvolse nel mantello di spessa lana nera e cominciò a raccogliere le poche cose che aveva con sé. Ripose nella sacca da viaggio le bacche che aveva trovato e fece per poggiarla vicino a un albero dietro di lui, ma non appena si chinò un forte dolore lo bloccò, riscuotendolo totalmente dal torpore del sonno. Si tirò su lentamente. Con le dita percorse la pelle gonfia e calda vicino alla profonda ferita che gli solcava la schiena, dalla scapola destra fino al basso costato, e con cautela si sfilò la tunica nera. Un soffio di vento gli procurò un piacevole brivido freddo, che attraversò ogni fibra del suo corpo longilineo e forgiato dai duri ed estenuanti allenamenti.
"Se solo potessi medicarmi, a quest'ora non avrei questo genere di problema." pensò Ledah, mentre si guardava intorno alla ricerca delle foglie con cui creare nuovamente l'unguento.
Non erano particolarmente difficili da trovare, erano erbe abbastanza comuni a Llanowar. Non appena le intravide spuntare dal terreno, ne staccò un paio e cominciò a masticarle, ignorando il loro sapore amaro e pungente. Dopo aver ridotto il tutto a una mistura verdognola, cominciò non senza difficoltà a spalmarselo sulla schiena. Per alcuni secondi fu tentato di smetterla con quel trattamento maledettamente fastidioso e di lanciare una semplice magia curativa, ma il ricordo del ghigno di Lysandra lo fece desistere. No, era assolutamente fuori discussione liberare anche solo un briciolo del suo potere e, se lo avesse fatto, si sarebbe ritrovato sua madre e chissà cos'altro alle calcagna in poco tempo. E lui di tempo ne aveva poco. Doveva attraversare il confine e in un modo o nell'altro arrivare a Shelwood, l'unico posto in cui avrebbe potuto trovare delle risposte.
- Ti fa ancora male, elfo? Sei piuttosto gracile per essere il protetto di Aasterian. Forse ti ho fatto un po' troppo male con quella ferita? - una voce profonda lo fece voltare.
Un lupo grosso quanto un cavallo gli si fece vicino, fissandolo coi suoi occhi ambrati. Anzi, un occhio soltanto era ambrato, l'altro era di un azzurro limpido come il ghiaccio.
- Raiza, se non la smetti, non avrai solo una cicatrice di cui preoccuparti. - sibilò Ledah, stizzito dal tono canzonatorio con cui la belva gli aveva rivolto la parola, - E poi ti ho battuto, mi pare. Non penso di essere poi così poco resistente come dici tu, sai? - aggiunse con astio.
Il lupo ringhiò snudando le zanne, come se volesse attaccare, ma l'elfo non si scompose e ricominciò ad applicare l'unguento, mentre il suo respiro si condensava in dense nuvolette di vapore.
- Non si danno mai le spalle al nemico... - latrò Raiza, con una voce che a stento tratteneva la rabbia.
- Lo so, - Ledah lo guardò di sottecchi, giusto per assicurarsi che non gli saltasse addosso, - ma tu non sei il nemico. Non ora, almeno. - si girò completamente, incrociando lo sguardo ferale del suo compagno di viaggio, – Sono perfettamente consapevole che non hai digerito la tua sconfitta, ma, credimi, non ho intenzione di vincolarti per l'eternità a me. Voglio solo che tu mi porti fino al confine di Llanowar. Da lì in poi me la caverò da solo. -
Il lupo lo fissò per alcuni istanti, poi lentamente ritrasse le zanne e tornò nella penombra dell'abete sotto il quale aveva dormito la notte precedente. Ledah sospirò, indossò di nuovo la tunica e si avviò a un ruscello poco distante. Da quando l'aveva battuto in combattimento, Ledah aveva ricevuto il diritto di vita e di morte su Raiza: era la legge dei branchi di Lycos, i grandi lupi che popolavano la foresta fin dall'antichità. L'animale era stato così obbligato a piegarsi al suo volere. Peccato che non accettasse molto volentieri il fatto di essere diventato la sua cavalcatura. Ogniqualvolta doveva montarlo, Raiza faceva di tutto per rendergli la vita impossibile, dal momento in cui saliva fino a quando non si fermavano. Ormai Ledah non riusciva più a smontare agilmente dalla groppa del lupo, ma veniva puntualmente disarcionato con violenza, come il peggiore dei cavalieri. Ripensando alla caduta del giorno prima, l'elfo si deterse il volto nel tentativo di scacciare quella fastidiosa sensazione di rabbia mista a frustrazione. Non gli faceva piacere continuare a mangiare la terra, né tanto meno l'atteggiamento ostile di quella palla di pelo con zampe enormi, tuttavia se voleva attraversare in fretta Llanowar rimaneva sempre il metodo migliore. Il lupo conosceva molto bene la foresta e vista la grande simpatia che provava nei suoi confronti, avrebbe sicuramente escogitato la via più veloce per sbarazzarsi di lui.
"Tra poco sarò al confine." considerò, mentre faceva cenno a Raiza di avvicinarsi.
Si scambiarono un rapido sguardo e subito il lupo si abbassò per permettergli di montargli sulla schiena. Con un rapido balzo, l'elfo gli fu in groppa e subito si immersero nella fitta boscaglia. L'animale prese velocità in pochi secondi e altrettanto rapidamente gli alberi si chiusero intorno a loro.
Il cielo era nero e l'aria carica di umidità. In poco tempo cominciò a scendere una pioggia lenta e costante, che cancellava ogni rumore e picchiettava con insistenza irritante sul volto di Ledah.
Come da sua indicazione, il grande lupo puntò verso sud, mettendo ancora più leghe tra lui e Alfheim. Nonostante il terreno poco stabile, Raiza non aveva problemi a correre, affondando le possenti zampe nel fango solo per qualche istante e dandosi poi di nuovo slancio, l'acqua che gli imbrattava la soffice pelliccia bianca.
"Chissà cosa direbbe Brandir, se mi vedesse in questa situazione..." un sorriso malinconico si dipinse sulle labbra di Ledah, "Probabilmente mi prenderebbe in giro, oppure mi pregherebbe di chiedere a Raiza di farsi cavalcare."
Ricordava che il suo migliore amico amava veramente tanto gli animali, tant'è che una volta gli aveva confessato che, una volta finita la guerra, avrebbe chiesto di entrare nell'ordine druidico. Ledah strinse la pelliccia della bestia fra le dita.
"Non era fatto per la guerra, non si sarebbe neanche dovuto arruolare, quello stupido. Almeno ora Alya avrebbe un padre e io avrei ancora un amico."
Si fissò la mano e la vide macchiata di sangue, mentre il viso gioviale di Brandir faceva capolino dalle nebbie della memoria. Un viso infantile, sempre sorridente, contornato da una zazzera rossa. Quel giorno di tre anni prima, quel sorriso si era spento all'ombra di un salice, rivolto al suo carnefice. Quel boia era lui.
Ledah diede di speroni, ignorando il ringhio infastidito del lupo. In quel momento non era stato in grado di fare nulla, aveva potuto solo guardare impotente l'atto che stava compiendo, come uno spettatore che assiste dall'esterno, ma ricordava nitidamente il pulsare del cuore di Brandir contro la pelle della mano e la sofferenza in quegli occhi verdi, innocenti. Era fuggito da Shelwood e aveva vissuto a Llanowar come un'ombra. Dopo tutto quel tempo pensava di essere finalmente riuscito a controllarsi, di poter sfruttare l'oscurità che albergava in lui.
"Evidentemente mi sbagliavo."
Mentre abeti e querce gli passavano accanto, Ledah non poteva fare a meno di guardarsi alle spalle, quasi si aspettasse di scorgere la folta chioma rossa della guerriera che lo aveva accompagnato per giorni: Airis. Si rendeva conto che era assurdo desiderare di avere qualcuno accanto e allo stesso tempo di volerlo allontanare, ma per quanto si sforzasse non poteva reprimere ciò che provava per quell'umana. Forse era solo voglia di sesso, in fin dei conti era da molto che era in astinenza, che non stringeva una donna tra le proprie braccia. Non poteva essere di più. I mostri non sono in grado di amare.

-Ho amato una fanciulla con il tramonto nei capelli e dalle labbra di petali- sussurrò a mezza voce la frase di quella vecchia ballata. 


Poi continuò a cantare con abiti preziosi e belli
e il mantello così verde
Dissi io: "Mia graziosa fanciulla,
volete venire con me?
Ci uniremo in matrimonio e 
saremmo sposati."

- Ehi, Ledah! Mi stai ascoltando? - 
Ledah sbatté le palpebre più volte, prima di riscuotersi completamente. Si massaggiò pigramente il collo, per poi voltarsi nuovamente verso Brandir.
- Scusami, ma sai com'è, ti ho aspettato per quasi quattro ore seduto su un pavimento non particolarmente comodo, mentre tu ti trastullavi con quei vecchi matusa. - 
L'amico scoppiò a ridere di gusto, perdendo l'espressione risentita che gli si era dipinta sul volto, – Allora sei scusato, soldato. - asserì alla fine, mentre buttava giù un sorso di birra, - Ma la prossima volta verrai punito severamente. -
- Ah, sì? E come, mio caro comandante? - lo punzecchiò con aria divertita.
- Uhm... - Brandir si passò pensoso una mano sotto il mento, aggrottando le sopracciglia, – Potrei farti fare il giro di Shelwood saltellando su un solo piede, mentre io ti cavalco vicino spronandoti a non battere la fiacca. -
- Ma ti sembra una punizione seria questa?!- sbottò Ledah e stavolta fu il turno del rosso di ridere. 
– Sei un corvetto senza alcun senso dell'umorismo. E comunque, quello che ti ho proposto è un castigo di tutto rispetto. Sei tu che non ne cogli l'intima crudeltà. - puntò i suoi occhi verdi in quelli muschiati dell'amico, cercando di rimanere il più serio possibile, ma alla fine una risata cristallina proruppe dalle sue labbra, - La tua faccia in questo momento è qualcosa di indimenticabile. - si asciugò una lacrimuccia e cercò di riprendere il controllo di sé. 
L'elfo dai capelli neri si poggiò allo schienale della sedia e sorseggiò un altro goccio di birra. Nonostante possedesse quel lato così infantile, Ledah non poteva fare a meno di amare quel ragazzo dai capelli rossi e dal viso lentigginoso. Certo, a volte gli avrebbe volentieri spaccato la faccia, ma doveva riconoscere che senza di lui si sarebbe sentito solo. Brandir era il suo unico, vero amico, l'unica persona che non lo giudicava per il sangue che gli scorreva nelle vene.
- Tornando alle questioni importanti... - si pulì la bocca col dorso della mano, – cosa ti hanno detto quelli del Consiglio? -
Il compagno d'armi si scostò un ciuffo ribelle dal volto, facendosi serio. 
– Nulla di che. Mi hanno aggiornato soltanto sulla missione. -
Ledah lo fissò in attesa. – Quindi? É davvero una banalissima missione di ricognizione come ci è stato detto? -
- Sì... - 
L'esitazione nella risposta di Brandir solleticò ancora di più la sua curiosità, ma decise di non insistere. Si scambiarono uno sguardo d'intesa e per il resto della serata parlarono del più e del meno, ascoltando quella romantica e malinconica ballata.

La dama sospirò e lo strinse
nell'aria della sera
"Mio amato, dove mi porti?"
"Al confine del tempo e del mare,
dove solo io potrò assaporare
le tue labbra di primavera."


Un refolo di vento gli penetrò nei vestiti e lo fece tornare al presente. Si girò a sinistra e vide un lupo avvolto da fiamme azzurre correre al fianco di Raiza. Le lingue celesti si allungavano seguendo la direzione del vento e sembravano divampare su quel corpo intangibile, fatto di energia pura. L'animale fissò i suoi occhi cremisi in quelli dell'elfo per alcuni secondi, poi sparì in un ululato così com'era apparso.
- Allora? - Raiza piegò leggermente la testa verso di lui, in attesa di una risposta.
- Nulla per oltre cinque miglia. Solo vegetazione e uccelli canticchianti. - disse Ledah, tornando a guardare avanti a sé.
- Tsk... un giorno mi devi spiegare come ha fatto una pulce come te a conquistarsi la fiducia di Aasterian fino a questo punto. -
L'elfo fece spallucce. – Gli stavo molto simpatico, forse. -
- Oppure hai usato una qualche stramberia magica e l'hai soggiogato a te. -
- Forse, chi lo sa? - gli diede una pacca sul fondoschiena, - Stai certo che lo farò anche con te, se non muovi questo tuo culo peloso. -
La pioggia smise di cadere, riprese e ricominciò un'altra volta. Il terreno disseminato di radici sporgenti e pietre si fece sempre più molle ed impervio, tant'è che da un certo punto in poi dovettero rallentare l'andatura e procedere con cautela. Scavalcando grovigli di arbusti e rovi e camminando attraverso dei sentieri invisibili, nei quali le foglie appesantite dall'acqua piovana frustavano loro il viso, continuarono a cavalcare fino a quando il cielo iniziò a schiarirsi, lasciando il posto a un tiepido sole. La vegetazione aveva cominciato a riappropriarsi dei suoi colori: gli alberi si ammantavano di un verde cupo, simile a quello delle foglie estive, i fiori si tingevano delle sfumature del rosso o del blu cobalto, virando talvolta anche verso il viola chiaro. Si fermarono in una piccola radura dove scorreva un allegro torrente, giusto per riprendere fiato ed abbeverarsi prima di riprendere quella marcia forzata. Mentre si rinfrescava, Ledah contemplò nuovamente la rigogliosa foresta che li circondava. Ancora stentava a credere che non tutto era stato raso al suolo dall'esplosione.
Raiza parve leggergli nel pensiero: – Quella maledetta ondata magica ha distrutto buona parte della foresta, ma non si è spinta oltre il fiume Tiade. - lo scrutò con uno sguardo carico di rabbia, - E' colpa vostra se Llanowar è ridotta in questo stato, vostra e degli umani. Se avessimo saputo che avreste fatto un cosa del genere, vi avremmo sbranati tutti quando siete venuti a chiedere asilo presso di noi. -
L'elfo si morse le labbra, incapace di ribattere. Secoli prima, il popolo elfico si era rifugiato nelle grandi foreste per scampare alle persecuzioni dei Drow, gli antichi e malvagi dominatori di Esperya. La leggenda raccontava che Arawan, il loro vecchio re, per farsi accettare dai Lycos dovette sottoporsi a delle prove quasi impossibili per un essere mortale, una delle quali lo costrinse a scontrarsi contro Aasterian, il loro capobranco. Dopo una lunga ed estenuante battaglia, l'elfo riuscì a battere il lupo. Inginocchiatosi ai piedi del re, Aasterian gli giurò fedeltà e promise che il popolo della foresta li avrebbe protetti dai loro nemici. Quando i Drow giunsero a Llanowar, i Lycos si prodigarono a difendere i loro alleati, combattendo al loro fianco come dei fedeli compagni. Durante quell'incursione, Aasterian morì per difendere il re elfico. Quando la sua salma venne data alla fiamme, il sovrano giurò vendetta contro quel popolo barbaro e crudele e vincendo il millenario odio strinse un'alleanza con umani e gnomi. Fu così che cominciò un'aspra guerra che vide i due eserciti combattere per il dominio di Esperya. Se i Drow avessero prevalso, non si sarebbero fatti scrupoli a passare a fil di spada tutti quelli che avevano osato sollevarsi contro di loro e contro il loro sovrano e dio, Aesir, e questo Arawan lo sapeva: quella guerra era stata combattuta per la libertà, una libertà che elfi, umani e gnomi si erano visti portare via secoli prima. Con al fianco lo spirito di Aasterian, lottò strenuamente assieme ai suoi soldati, trattandoli come se fossero dei fratelli, indipendentemente dalla razza a cui appartenevano. Furono anni bui, dove ad una vittoria seguiva immediatamente una sconfitta. Al compimento del centesimo solstizio, i due eserciti si schierarono sulla piana di Rashar per confrontarsi in quella che sarebbe stata la battaglia finale. Elfi, umani e gnomi con un ultimo impeto sbaragliarono le fila dei Drow, mentre Arawan conficcava la punta della sua spada dritta nel petto di Aesir. La leggenda racconta che, in punto di morte, il dio delle tenebre avesse guardato il sovrano vincitore e con tono sprezzante avesse dichiarato che sarebbe tornato per riprendersi ciò che era suo, e che nessuno sarebbe stato in grado di fermare la sua ascesa. Arawan era rimasto in silenzio per alcuni istanti, poi aveva risposto che ogni volta che sarebbe risorto, lui l'avrebbe fermato. Da quel momento, i Lycos e gli elfi avevano convissuto in armonia assieme agli altri popoli. Poi era venuto il tempo del sangue e di una nuova guerra. Nonostante tutti gli sforzi compiuti per difenderla, Llanowar era caduta e per mano di coloro che si erano sempre impegnati per salvaguardarla.
- Non posso discolpare me e il mio popolo per quello che è capitato, ma posso assicurarti che se hanno deciso di attuare quel piano estremo, ci doveva essere un valido motivo. - rispose alla fine Ledah. 
"Peccato che io, preso dalla foga di scappare, non sia andato a controllare."
Raiza lo fulminò, indignato. – Le scuse non possono far rifiorire Llanowar. - fece spaziare lo sguardo sulla vegetazione, - L'unica cosa che mi consola è che il Signore della foresta è sopravvissuto. Che Aasterian ci protegga. - il suo tono si era fatto più fievole, come se stesse parlando con se stesso. 
Ledah poteva percepire la tristezza e la rabbia che il lupo covava nel cuore e non poteva non capirla. Quando aveva ripreso i sensi dopo l'esplosione, aveva provato le medesime sensazioni, il medesimo senso di impotenza di fronte a quel macabro spettacolo. Allungò la mano e con delicatezza accarezzò il candido manto, cercando di infondere in quel gesto tutta la gentilezza di cui era capace. Quando Raiza si volse verso di lui, a Ledah parve di vedere in quegli occhi eterocromi uno scintillio, come delle lacrime a lungo trattenute.
- Non credere che con questo gesto sia tutto risolto, elfo. - asserì il lupo con stizza, - Per quel che mi riguarda, rimarrete sempre delle piccole e insulse pulci. -
- Quelle stesse pulci che voi avete protetto per secoli possono solo umilmente ringraziarvi. - rispose Ledah senza abbassare lo sguardo. Si inginocchiò difronte all'animale. – In nome di tutto il mio popolo, vi chiedo perdono per quel che è successo alla foresta. Era la nostra casa e non ne abbiamo avuto sufficiente cura, però... - inspirò profondamente, – sappiate che la amiamo tanto quanto la amate voi. Quando tutto questo finirà, vi aiuteremo a farla tornare florida e bella come un tempo. Lo giuro qui ed ora, davanti a te, che sei il successore di tuo padre e futuro guardiano di Llanowar. -
La bestia rimase in silenzio per alcuni minuti, lo sguardo imperscrutabile. Poi, con un gesto della testa lo invitò a salire in groppa. Ledah montò senza alcun intoppo. 
Fece per aprire bocca, ma Raiza lo procedette: – Ho solo fretta di liberarmi di te, orecchie a sventola. Non farti illusioni. - poi partì di corsa verso gli sottobosco.
Cavalcarono ancora per mezza giornata, finché da un punto imprecisato si alzò un grido. Ledah fermò bruscamente Raiza, volgendo la testa da una parte all'altra. 
- Quanto siamo vicini al confine? - domandò ansioso.
- Mancheranno sì e no tre miglia. - constatò il lupo.
Un altro urlo, stavolta più vicino. L'elfo aguzzò l'udito. Poteva distinguere chiaramente tre presenze, assieme a quella che ora stava correndo freneticamente nella loro direzione. Chiunque fosse, aveva bisogno di aiuto. Fece girare Raiza e con un colpo sui reni lo spronò di corsa verso il folto degli alberi.
- Proprio ora che potevo liberarmi di te, ti fai venire gli attacchi di cavalleria? - borbottò il lupo. 
Ledah gli indirizzò un sorriso sghembo. – Sai, se non intervenissi, una certa persona di mia conoscenza avrebbe da ridire. - gli rispose divertito. 
Poi prese l'arco e incoccò una freccia. 

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Capitolo 15
*** Nelle fauci del lupo ***


15

Nelle fauci del lupo

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Faceva caldo e l'aria era satura del fumo proveniente dal fuoco d'accampamento e del profumino delizioso del cinghiale arrosto. Dalle torce conficcate nel terreno divampavano allegre fiamme che rischiaravano il piccolo spazio, gettando dei bagliori rossastri sui volti degli uomini raccolti lì intorno. Alcuni di loro erano intenti a divorare la loro porzione di carne senza alcuna grazia, imbrattando le barbe ruvide di grasso animale, mentre altri tenevano lo sguardo fisso su una donna che danzava, come ipnotizzati: era giovane e le sue forme, fasciate da abiti succinti, lasciavano ben poco alla fantasia. Il suo corpo, qua e là costellato da vecchie cicatrici, si muoveva al ritmo di una musica bassa e sensuale, che ricordava molto le melodie orientali. Le ampie porzioni di pelle scoperta mettevano in mostra una carnagione chiara e gli occhi verdi come le foglie avevano il potere di ammaliare gli spettatori. 
Tutti avrebbero voluto giacere con lei quella notte, nessuno escluso, e questo Airis lo sapeva, anche se non era propriamente contenta di dover recitare la parte del diversivo.
Mosse il bacino avanti e indietro, percorrendo lentamente le curve del seno con le dita. Un uomo allungò la mano, tentando di afferrarla, ma lei con uno scatto rapido riuscì ad allontanarsi senza perdere il tempo della musica. Sculettò strisciando le cosce l'una contro l'altra e lasciò vagare lo sguardo su quello squattrinato esercito di briganti che costituiva il suo pubblico, null'altro che l'ombra dei soldati che avevano combattuto nella piana di Rashar.
Da quando era giunta lì quel pomeriggio, aveva avuto modo di farsi un'idea abbastanza precisa del numero e delle condizioni in cui versava il famigerato gruppo di predoni, che da giorni dava la caccia all'improbabile terzetto al quale si era unita. Dovevano essere all'incirca una sessantina in tutto, per lo più ex-combattenti della cinquantesima legione, seguiti da uomini che, in un modo o nell'altro, erano scampati all'ondata di devastazione portata dalla guerra, e pure da alcuni avanzi di galera, che per qualche ragione a lei ignota erano scampati ai lavori forzati sui Monti del Nord. 
"Se non fossero così tanti, potrei batterli. Oppure avrei potuto anche evitare di avvicinarmi a quell'assurdo trio e tirare avanti, mi avrebbe risparmiato una certa quantità di problemi." 
Airis scrutò di sottecchi quello che doveva essere il capo, un uomo piccolo dagli occhi porcini ravvicinati e un'unica arcata sopraccigliare che gli attraversava completamente la fronte. Stava seduto di fronte a lei e, attorniato da altri membri della banda, la fissava come se non avesse mai visto una donna in vita sua. Comprensibile, visto che madre natura non era stata generosa con lui. Anni prima, quando ancora riusciva a vedere, seppur solo vaghe ombre, non aveva mai scorto quel soldato tra i suoi. Ma forse la memoria la ingannava e aveva volutamente deciso di dimenticarsene, perché in un certo senso le ricordava Ignus: stessa espressione arcigna e saccente. Come quell'ometto fosse riuscito ad organizzare un'imboscata rimaneva un mistero. 
Rammentò ciò che Alan le aveva raccontato la sera prima, riguardo al motivo del loro viaggio. 
Erano partiti da Amount-vinya, una piccola cittadina portuale, a nord di Llanowar. All'inizio della guerra non si era rivelata di alcun interesse militare, così i suoi abitanti, grazie all'attività commerciale, avevano continuato la loro vita di sempre. Questo finché un qualcuno delle alte sfere non aveva avuto la brillante idea di renderla uno degli avamposti dell'esercito umano. Nella posizione in cui si trovava, Amount-vinya offriva continui rifornimenti, specialmente grazie agli scambi con le più grandi città del continente, e trovandosi proprio a ridosso del mare era sempre sotto stretta sorveglianza. 
Da Sershet era dunque partito un piccolo contingente, con l'ordine di fortificare la cittadina e trasformarla nel baluardo nordico delle forze umane. Nei primi tempi non era cambiato granché e, anche se il Consiglio dei cittadini non possedeva più la stessa autorità di prima, tutto era rimasto uguale. In seguito, i Generali avevano organizzato delle sortite, che però non erano mai andate a buon fine. Tuttavia, sebbene non fosse più possibile coltivare i campi, Amount-vinya era sopravvissuta senza grandi intoppi e le merci venivano sempre imbarcate al tramonto per poi partire al calare della notte verso i mercati di altre prestigiose città. 
Un giorno, però, gli elfi si erano accorti della strategia e i loro maghi avevano cominciato a distruggere ogni nave che solcava l'orizzonte che fosse in rotta verso Amount-vinya. Così, i granai si erano lentamente svuotati. A nulla erano valsi i messaggi di aiuto mandati a Sershet: la fame si era diffusa per le strade della città come la peste, riducendo gli abitanti a degli erranti fantasmi scheletrici. E con la fame era arrivata anche l'oppressione.
I soldati avevano fatto irruzione nella camera del Consiglio e, dopo aver ucciso ciascun membro, avevano instaurato un regime di terrore. Stupri, vessazioni e furti erano all'ordine del giorno e chiunque aveva provato ad opporsi o fuggire era stato impiccato nella piazza principale davanti a tutta la popolazione, un monito affinché ciascuno di loro imparasse la lezione. 
Qualche settimana più tardi si era presentato in città un forestiero, bardato in uno scuro mantello e con il volto semicelato dal cappuccio. Nessuno era stato in grado di capire quale espediente avesse utilizzato per raggirare la costante sorveglianza, per questo fu accolto con diffidenza e incredulità. Tuttavia, presto molti cittadini ormai rassegnati avevano riacquistato la speranza. Quando Alan aveva ricevuto la notizia, era corso incontro allo straniero per chiedergli delucidazioni sulla sua presenza, in cambio di una seppur fragile protezione. Ignaro della natura del nuovo arrivato, lo aveva ascoltato attentamente e così aveva appreso di un passaggio sfuggito ai controlli dei soldati corrotti, che attraversava il confine di Llanowar. In fretta e furia era stata formata una carovana, alla quale si erano uniti i pochi coraggiosi che avevano compreso che ormai nessuno sarebbe giunto ad aiutarli. Con le poche cose che avevano, erano riusciti ad evadere da Amount-vinya. Poi, pochi giorni dopo, la carovana era stata vittima di un'imboscata da parte del gruppo di briganti, alla quale erano scampati soltanto Alan, Fenrir, che altri non era che il forestiero, e Baldur. 
Dopo aver udito questa storia, Airis non aveva potuto fare a meno di offrire loro il suo aiuto.
"Uno dei tanti casi in cui dovrei evitare di dar retta al mio buon cuore.''
Si divincolò agilmente dalle braccia sudate di un uomo grasso e ubriaco e riprese a danzare.

Cantava la donna bionda,
all'alba della fiamma 
e degli steli d'oro,
muovendosi al chiarore della luna.
Delicata come una farfalla era la sua voce.


Airis puntò l'attenzione su un uomo dai capelli lunghi e grigi, con addosso un malridotto mantello di un rosso sbiadito, che sedeva a gambe incrociate poco distante da lei. Era stato lui ad aver intonato quelle strofe, una ballata che Airis conosceva: era “Il canto della farfalla”, molto diffusa tra i suoi soldati, e narrava dell'amore impossibile tra una giovane contadina e un re crudele. Subito altri briganti si unirono al canto del loro compare, dando vita a un coro stonato e incomprensibile. 
Nonostante il caos e l'allegria che regnava nell'accampamento, Airis poteva percepire chiaramente gli sguardi tristi e spenti dei cittadini di Amount-vinya, rinchiusi in celle sopra piccoli carri, legati a pali conficcati nel terreno o rannicchiati gli uni contro gli altri nel tentativo di scaldarsi contro il freddo notturno. Da una prigione all'altra, senza via di scampo. 
Un bambino con i capelli biondo scuro si avvicinò il più possibile a quella che doveva essere sua madre, una giovane donna mora, dagli occhi di un caldo color nocciola. 

Disse lei: "Ora, mio giovane
signore, mi dovete scusare,
perché io non sposerò nessuno;
per i boschi vagherò
ed eviterò la vista degli uomini."

"Se tu fossi qui, mia dama,
sarei pronto a morire."
E mentre lui giaceva morente,
udiva l'ultimo canto della farfalla.


- Ma guardate che bella pollastrella abbiamo qui! - 
Un predone le si accostò, il viso distorto in un ghigno feroce. La liberò dai lacci che le stringevano i polsi e la costrinse ad alzarsi, mentre si passava la lingua sulle labbra sottili.
- Per... per favore, lasciatemi andare... - pigolò tentando di allontanarsi, spaventata ed esausta.
- E perché dovrei? Sei così carina. - 
L'uomo la sbatté a terra e cominciò a passare le mani sporche e callose sotto gli abiti della donna, incurante delle sue suppliche e delle lacrime. 
- Se provi ad opporre resistenza, stacco la testa al tuo bel bambino, chiaro, puttana? Adesso, da brava, lasciati fottere. - la minacciò.
Poi premette i palmi sul suo seno e strinse finché un'espressione di dolore non apparve sul viso di lei, che chiuse gli occhi e, tutta tremante, attese l'inevitabile. Ma improvvisamente percepì il peso di un corpo esanime sopra il suo e un liquido caldo colare sulla sua veste. Allora spalancò le palpebre e fissò allibita la ballerina dai capelli rossi, che a sua volta la guardava con espressione glaciale. Teneva una spada lorda di sangue ben salda tra le dita, con una naturalezza disarmante, tale da dare l'idea di non aver fatto altro per tutta la vita. 
- Oggi non fotti nessuno, bastardo. - sibilò Airis.
A fatica la donna si tolse di dosso il cadavere del predone e biascicò frastornata: - Chi sei?
- Sono solo un'umile artista. - le fece l'occhiolino e le intimò di allontanarsi con un cenno della testa. 
Dopodiché si scrocchiò il collo e squadrò gli altri uomini, che lentamente stavano sguainando le armi, intontiti dal vino e dalla piega inaspettata che avevano preso gli eventi, incapaci di reagire. Dietro di loro, però, tre figure, due abbastanza alte e una molto bassa, stavano correndo di soppiatto verso i carri. Airis si mise in guardia, pronta per attaccare. Ad un tratto, udì la serratura di uno dei carri scattare e vide altre sagome scivolare fuori dalle gabbie sui carri. 
Presto il silenzio della notte venne spezzato dal clangore delle spade, insieme al vibrare dell'arco di Fenrir e il sibilare delle sue frecce. I briganti caricarono, mentre i cittadini di Amount-vinya, equipaggiati con ogni sorta di arma, rimasero immobili fino al segnale di Alan. Quando esso giunse, si lanciarono nella mischia. 
Airis mulinò la spada, squarciando il viso scoperto di un predone. Intravide Baldur che, stringendo un'ascia bipenne, sfondava i ranghi degli avversari menando fendenti a destra e a sinistra, e Alan che invece andava all'assalto di un uomo grande e grosso. La guerriera si fece largo, lo sguardo fisso nel punto dove aveva scorto il capo di quel piccolo esercito. Non appena fu abbastanza vicina, ingaggiò un duello. Tentò un affondo al basso costato, ma quello fece vorticare la sua mazza e deviò all'ultimo la stoccata. Prima che potesse contrattaccare, una freccia gli trapassò il collo. Boccheggiò sorpreso, un grido rimasto incastrato in gola, per poi afflosciarsi privo di vita sul terreno impregnato di sangue. I pensieri di Airis corsero immediatamente al Drow, ma scrollò la testa per non distrarsi. In seguito, serrò la presa sulla spada e si accinse ad affrontare uno dei nemici che la stava caricando. Impugnando l'arma con entrambe le mani, tracciò un taglio netto alla base del collo e scavò un profondo solco nella carne, deviando poi verso l'alto. Il brigante cadde agonizzante a terra, le mani che premevano sulla ferita nel tentativo di bloccare l'emorragia e gli occhi che parevano chiedere pietà. 
Uno dei prigionieri conficcò il pugnale nella carotide di un predone, per poi estrarlo con una violenza tale da aprirgli uno squarcio dalla gola fino alla clavicola. Un altro brigante riuscì a salire in groppa a un cavallo, forse sperando di mettersi in salvo, ma fu sbalzato via di sella. Ora giaceva sotto il corpo dell'animale, con una gamba rotta.
- Uccideteli tutti! - la voce di Alan sovrastò ogni rumore, dando nuova carica a tutti i cittadini di Amount-vinya. 
Uno di loro abbatté il predone che aveva di fronte, ma un altro lo pugnalò alla schiena senza lasciargli via di scampo. Airis gli fu subito addosso e lo colpì al ginocchio. Prima ancora che l'uomo potesse capire cosa stesse accadendo, la sua testa rotolò via schizzando di sangue la faccia della guerriera.
Lo scontro durò fino all'alba, quando un sole sorprendentemente caldo illuminò la foresta, portando via il freddo della notte trascorsa. I civili, stremati, deposero le armi e si lasciarono cadere a terra, respirando a pieni polmoni il nuovo profumo della libertà. 
Airis si appoggiò a un carro, osservando il paesaggio attorno a sé, soddisfatta della vittoria. Fenrir, invece, girava tra i corpi per sincerarsi che i briganti fossero tutti realmente morti, scoccando una freccia a tutti quelli che fingevano. Come ogni volta, il combattimento le era parso durare il tempo di un battito di ciglia.
Con la mente sgombra da qualunque pensiero, si avviò verso il torrente che scorreva lì nei pressi per lavare via il sangue. Ripensando alla baraonda che lei stessa aveva scatenato per un gesto di puro altruismo, si rese conto di quanto fosse stata fortunata: se Alan, Fenrir e Baldur non avessero liberato i cittadini nel momento in cui lei aveva ucciso il primo bandito, a quest'ora non avrebbe avuto tutti gli arti al posto giusto. Aveva rischiato di mandare all'aria il piano, però non avrebbe mai potuto permettere che quella giovane donna venisse stuprata. 
Si stropicciò gli occhi con due dita, sospirando. 
- Se te lo stai chiedendo, sì, hai fatto la cosa giusta. - 
Airis si girò. Appoggiato ad un albero, Fenrir la stava guardando. 
- Avrei agito anche io nello stesso modo. -
- Non penso che Baldur sia della tua stessa opinione. - rispose sarcastica, ricordando la faccia irata del nano.
- Non farci caso. Anche se tu avessi agito seguendo il piano alla perfezione, avrebbe avuto qualcosa da ridire. È scorbutico di natura. - asserì il Drow, avvicinandosi a lei e immergendo le mani nella corrente, - E smettila di preoccuparti: anche se non hai aspettato che aprissimo le porte le gabbie e armassimo quei poveracci, le cose sono andate comunque per il meglio. - sorrise incoraggiante, per poi sedersi a gambe incrociate, - Dove sei diretta? Noi andiamo verso la capitale. -
Airis si sentì smarrita e per qualche istante rimase a contemplare il nulla con aria attonita.
"Perché non ho chiesto a Lysandra dove si trova il bersaglio che devo uccidere?" 
Maledì nuovamente il Lich e le sue indicazioni tutt'altro che chiare. Facendo uno sforzo, tentò di riportare alla memoria il nome della città in cui avrebbero potuto imbattersi per prima dirigendosi a sud.
- Sono diretta a Luthien. - rispose alla fine.
- La città che si affaccia sul Logoss? - il Drow sfoggiò un'espressione confusa, - Come mai sei diretta in una cittadina di pescatori e contadini? Non avevi detto che la tua famiglia viveva a Merite? -
- Sto... sto cercando una persona. - rispose vaga. 
"Una persona che devo uccidere e di cui non conosco nulla, specifichiamo." 
Si alzò in piedi di scatto, desiderosa di chiudere lì il discorso prima di commettere un passo falso e smascherarsi da sola. 
- Scusami, ma devo andare a recuperare una cosa. - borbottò sbrigativa, già pronta a darsela a gambe.
- Oh, ti riferisci a questo? -
Fenrir le mostrò un mantello nero, piegato a formare una specie di fagotto. Non attese la risposta di Airis e le restituì i suoi averi senza chiedere niente. 
- Tranquilla. Ho notato che continui a consultare il libro che c'è qui dentro, immagino sia molto importante per te. - 
La guerriera lo guardò sbigottita. Nei due giorni in cui avevano organizzato il piano, aveva sfogliato il tomo solo di notte, mentre era sicura che gli altri dormissero, stando attenta a non farsi scoprire. Però, ancora una volta, aveva sottovalutato i sensi sviluppati di un elfo. Per fortuna pareva non essersi accorto del frammento di cristallo, ben nascosto tra le pagine del diario.
- Ricordati che vedo perfettamente anche al buio, Caillean. - le sorrise divertito, - Comunque, pure noi passeremo da Luthien per rifornirci di viveri. Quindi, se lo desideri, puoi restare. -
- Perché adesso ti fidi così tanto di me? Fino a pochi giorni fa non mi sopportavi. -
Fenrir la scrutò in tralice, poi, con voce pacata e soppesando le parole, disse: - Ho visto come ti sei comportata stanotte, come sei scattata quando hai visto cosa stavano per fare a quella donna. Un soldato qualunque avrebbe semplicemente eseguito gli ordini e lasciato che quel predone violentasse la ragazza per paura di esporsi. Nonostante tu non abbia rispettato le nostre direttive, ti sei dimostrata una persona di buon cuore. Quelle come te sono assai rare di questi tempi. Ovvio, non credo che tu sia chi dici di essere, ma non mi serve conoscere la tua vera identità per fidarmi di te. Non dopo il coraggio che hai dimostrato. -
Detto ciò, il Drow la salutò con un rapido cenno e tornò all'accampamento, abbandonando Airis in balia dei suoi pensieri.

 

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Capitolo 16
*** Frammenti di memoria- Vecchi legami ***


16

Frammenti di memoria

Vecchi ricordi

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te."
F. Nietzsche
 

Dopo che Brandir se n'era andato via dalla locanda, Ledah era rimasto lì a riflettere sul da farsi. Da una parte, quello che l'amico gli aveva detto circa le intenzioni del Consiglio non lo convinceva molto, dall'altra però non se la sentiva di mettere in dubbio le sue parole: Brandir non era solo il suo Comandante, ma anche il migliore amico. Non avrebbe avuto motivo di mentirgli. Eppure il suo istinto continuava a urlargli di non fidarsi, perché Brandir, stranamente, era stato fin troppo vago ed aveva evitato di soffermarsi sull'argomento più del dovuto. Era riuscito a deviare il discorso con una sorprendente maestria, ma a Ledah quel suo atteggiamento non era sfuggito. Si augurava di sbagliarsi. 
Si impose di ignorare il crescente disagio e sorseggiò l'ennesimo boccale di birra. Dall'inizio della serata ne aveva bevuti tre e ora era al quarto. L'alcool aveva già cominciato a penetrare nelle vene e invadergli il cervello, annebbiando quei tetri pensieri. Davanti a lui passò un'avvenente cameriera con i capelli scuri, il corpo fasciato da un corpetto di pelle nera e un paio di pantaloni marroni estremamente aderenti. Percependo lo sguardo di Ledah addosso, lei si girò nella sua direzione. Il viso aveva dei lineamenti spigolosi e gli occhi del colore dell'uva matura erano pieni di malizia, dettaglio che l'elfo trovò particolarmente eccitante. Gli si avvicinò e poi, chinandosi leggermente per prendere la pinta vuota, gli sussurrò di aspettare che finisse il suo turno. Non appena fu di nuovo lontana, Ledah si umettò le labbra con la lingua, fremendo di anticipazione.
Si mise comodo sulla sedia, ma ad un tratto sussultò e impallidì. Scrollò con veemenza la testa pesante come un macigno, nel tentativo di scacciare i brutti ricordi che erano riemersi all'improvviso, cogliendolo alla sprovvista: Elladan, il suo tradimento, la disperazione di Haldamir, il suo ultimo sacrificio, gli sguardi accusatori del suo popolo e la loro diffidenza. Chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli. 
"E' tutto finito ormai..." 
Ordinò un distillato di papavero e lo buttò giù in un soffio. Il liquido scese lungo la gola, per poi diffondersi come una vampata calda in tutto il corpo, azzerando i pensieri. Inspirò profondamente, mentre quegli stralci di passato sprofondavano ancora nell'oblio. Rimase a bearsi di quella sensazione per un tempo che non seppe calcolare, finché dita delicate si poggiarono sulla sua spalla. Fece spaziare lo sguardo intorno per la sala: nella locanda era rimasto soltanto lui.
- Andiamo da qualche parte? Oppure preferisci rimanere qui? Stasera chiudo io. - gli bisbigliò la cameriera di prima, alitandogli nell'orecchio con fare seducente.
Ledah la trasse a sé con urgenza, la spinse a cavalcioni sulle sue gambe e cominciò a slacciarle il corpetto, inspirando il suo dolce profumo.
"Lavanda... lavanda e cedro."
Liberò i seni dalla stretta della stoffa e vi affondò il viso, mentre le mani correvano sulla schiena liscia. 
- Non voglio andare da nessuna parte. Ti voglio qui. Ora. - rispose con voce roca e iniziò a leccarle i capezzoli, che si inturgidirono al primo tocco. 
La sentì sussultare sotto la propria lingua e ne fu compiaciuto. Percorse con le labbra il profilo dei seni e si riempì le orecchie dei gemiti sommessi della giovane elfa. Non sapeva neanche il suo nome.
- Come ti chiami? -
- Eladel... - sospirò lei.
- Eladel... - pronunciò scandendo le lettere, - Che bel nome. - 
La prese in braccio, la issò sul tavolo di legno e con delicatezza le divaricò le gambe, mentre la baciava e la palpava dappertutto. Eladel abbandonò la testa all'indietro, godendosi quelle gentili carezze. Poi il moro la strinse a sé con forza e affondò i denti nella pelle morbida di una spalla, quasi a volerla marchiare. Voleva possederla, voleva divorarla e voleva sentirsi amato, anche solo per un attimo, anche tra le braccia di una sconosciuta, che molto probabilmente non avrebbe più rivisto. Se solo avesse potuto assaporare la dolcezza e lo struggente sentimento dell'amore per una misera volta, era sicuro che la solitudine e l'angoscia che albergavano in lui da innumerevoli anni sarebbero svanite per un po', concedendogli la tanto agognata pace. Ne aveva abbastanza delle tenebre, del freddo e della desolazione, la sua anima bramava calore, un fuoco purificatore in grado di farlo sentire rigenerato, vivo, nuovo, ancora innocente e pieno di sogni e speranze.
Chiuse gli occhi, prese fiato e si immerse nel corpo accogliente di Eladel, come si stesse tuffando sott'acqua. Il piacere lo travolse all'istante e per un attimo si ritrovò in apnea, boccheggiante, a galleggiare in un universo ovattato in cui presto si sarebbe annullato. Per l'ora seguente si dimenticò di essere Ledah, l'elfo oscuro, l'Alfiere dalle Ombre, colui che aveva insultato la vita stessa nascendo dalla morte.

Ledah camminava per le strade di Sheelwood sotto la pioggia. Quella del sud era leggera e tiepida, una carezza liquida simile ai baci di un amante. A Llanowar, invece, era gelida e fitta. Nemmeno gli antichi maghi erano riusciti a contrastare il quasi eterno inverno della foresta, perciò a nessuno sarebbe mai venuta in mente la balzana idea di passeggiare all'aperto durante un temporale.
Una goccia più fredda delle altre si abbatté sulla sua testa. Si spostò con malagrazia i ciuffi bagnati dalla fronte e inspirò l'aria notturna, il profumo delle foglie e della terra bagnata, contemplando nuovamente il paesaggio che si presentava davanti ai suoi occhi. Le case rustiche della città-albero emergevano dal legno e così tutte le altre costruzioni: i ponti d'ambra, le statue, le grandi ville, ogni cosa in quel luogo era stata creata dalla natura nel corso dei secoli. Un dono di un genitore ai propri figli. Il dio della foresta aveva donato agli elfi di Sheelwood una casa dentro la sua stessa anima.
Osservò l'ambiente circostante e puntò lo sguardo in alto, sui palazzi più imponenti. L'oscurità avvolgeva ogni cosa e in giro non sembrava esserci nessuno. Le poche guardie che pattugliavano le strade non parevano aver notato la sua presenza. Oppure lo stavano volutamente ignorando, impossibile stabilirlo con certezza. 
Percorse un centinaio di metri, girò a destra in un vicolo e poi ne imboccò un altro, sempre tenendosi sulla destra, diretto in un posto particolare. Non era sicuro di ricordarsi perfettamente come giungere a destinazione, poiché ci era andato solo una volta, molto tempo prima, e in quell'occasione era stato suo padre a fargli da guida in quella città smisurata e labirintica. Avrebbe volentieri evitato di passeggiare in piena notte per Sheelwood, ma rimandare la questione alla mattina successiva, chiedere udienza e attendere che gli fosse concesso di vedere il Consigliere era troppo per lui. Doveva avere delle risposte subito e solo una persona poteva fornirgliele.
La luna illuminò un cancello in ferro nero, al di là del quale si stagliava una costruzione enorme in pietra bianca, molto simile ad un tempio. La parte absidale, traforata da grandi finestroni di vetro azzurro, era percorsa da decine di contrafforti, coronati da guglie alte e sottili, mentre un enorme rosone centrale, con nervature in cristallo nero, si stagliava nella parte più alta della facciata. Tutta la struttura era ricoperta da numerosi rampicanti. Ledah rammentò che in estate quelle piante generavano dei fiori dai colori sgargianti, dal magenta acceso al rosa tenue, che sprigionavano un odore forte e pungente. Sul massiccio portone in ebano era stato inciso lo stemma di Sheelwood: una rosa con all'interno una stella, simbolo dell'eterna primavera che avvolgeva la foresta.
Ledah avanzò verso il cancello, cercando di calcolare velocemente quanto potesse essere alto. Quando si era recato lì da bambino per assistere alla cerimonia d'Investitura della sorella, gli era parso insormontabile, tant'è che era rimasto immobile ad osservare le lunghe aste tortili che si protendevano fino quasi al cielo. Poi Haldamir lo aveva preso da sotto le ascelle e lo aveva fatto salire sulle proprie spalle per permettergli di vedere meglio la sfilata dei soldati e dei vecchi Consiglieri. 
A differenza del Consiglio di Llanowar, quello di Sheelwood si riuniva solo in determinati giorni dell'anno per discutere le nuove leggi e, quando questo accadeva, entrare nella Camera dei Soli era praticamente impossibile. Non che normalmente fosse facile, beninteso. 
Fece per avvicinarsi, quando udì dei passi e un leggero borbottio scocciato poco distanti. Scattò indietro, verso il vicolo da cui era sbucato, ma i due soldati di ronda, con una faccia piuttosto annoiata, non si avvidero di lui e proseguirono per la loro strada. Ledah si maledì in silenzio: si era scordato che, durante i giorni delle Deliberazioni, la sorveglianza veniva infittita ulteriormente, soprattutto intorno agli edifici più importanti. Sbuffò, infastidito da quel contrattempo, e si appiattì contro il muro di pietra alle proprie spalle. Per un attimo fu tentato di usare la magia di occultamento, così da passare indisturbato, ma l'idea che qualche scagnozzo di sua madre potesse metterglisi alle calcagna lo fece desistere. Non voleva averci più nulla a che fare con quel demone.
Non appena la luce delle torce si fu allontanata, corse verso il cancello e ne esaminò l'architettura, cercando un qualunque appiglio per potersi issare. Mosse le dita nervoso, spostando più volte lo sguardo a destra e a sinistra, i sensi tesi a captare ogni minimo suono: giravano fin troppe voci su di lui e voleva almeno risparmiarsi di fare la figura del ladro, colto in flagrante mentre tentava di intrufolarsi nella Camera dei Soli. 
Schioccò la lingua scocciato nel constatare che non c'era niente a cui avrebbe potuto aggrapparsi. Inoltre, da quel che sapeva, quel cancello era l'unico ingresso. Poteva anche provare a chiedere gentilmente alle guardie di aprire, ma dubitava che avrebbero accolto la sua richiesta senza obiezioni. 
''E poi sarei io lo scorbutico e il maleducato.''
Frugò nella bisaccia, tirandone fuori un ago finissimo. Lo infilò nella serratura e cominciò a girarlo più e più volte con l'intenzione di scassinarla. Il ferro freddo con cui era stato forgiato era uno dei materiali più duri di Esperya, nonché il miglior catalizzatore di magie e sigilli. Gli unici due altri metalli con caratteristiche simili erano il cristallo nero di Valhalla e l'argento alchemico. Pochissime persone in tutto il continente potevano vantare di possedere degli oggetti o delle armi costruite con tali metalli, tanto potenti quanto rari. Fece ruotare l'ago lentamente, accarezzando le dentature interne della serratura magica. Una piccola scintilla blu scaturì dal forellino centrale, ma, prima che potesse divampare dando l'allarme, si estinse spontaneamente, risucchiata nello spillo argenteo. Un lieve scatto lo avvertì che era riuscito nell'impresa. Spinse leggermente, cercando di fare meno rumore possibile, e dopo aver appurato di essere solo scivolò al di là del cancello. 
Mentre si dirigeva verso una delle finestre laterali del palazzo, notò che il portone principale era rimasto accostato. Dubitò fortemente che qualcuno si fosse dimenticato di chiuderlo, ma l'idea di essere atteso lo bloccò per alcuni istanti, provocandogli un moto di agitazione. Si chiese chi mai potesse sapere del suo arrivo, ma subito gli venne in mente un solo nome. Fece spallucce ed entrò rapido, confondendosi con le ombre della notte.
L'interno della Camera dei Soli era qualcosa che andava oltre ogni sfarzo che Ledah potesse immaginare. Dall'esterno non avrebbe mai detto che la sede della giustizia di Sheelwood potesse essere essere tanto meravigliosa. Avanzò trattenendo il respiro. 
La navata centrale era il doppio delle altre quattro adiacenti ed era sormontata da una serie di archi a sesto acuto dai riflessi argentei. Nelle colonne in cristallo azzurro erano stati scolpiti i volti degli dei e di alcuni eroi delle antiche leggende. Sopra gli archi vi erano delle piccole finestrelle, che illuminavano l'ambiente in maniera diffusa e tenue, filtrando la luce attraverso vetri delle varie tonalità del blu. Il mosaico pavimentale riluceva sotto i raggi lunari, come se fosse stato composto da pietre preziose. Alla fine della navata, proprio sotto un altro grande rosone, c'era una scalinata che conduceva al piano superiore. Ledah alzò lo sguardo e osservò l'affresco che rappresentava il defunto re degli elfi Arawan e il re dei Lycos, Aasterian, ritratti durante il processo ad Aesir; tutto intorno a loro era disposto il popolo elfico, insieme alle truppe vincitrici dell'antica guerra. 
Affascinato dalla bellezza di quel luogo, restò immobile, catturato dallo sguardo severo e ammonitore di Arawan.
Poi udì un fruscio sottile e si voltò bruscamente.
- Chi è là? - chiese senza timore, - Vieni fuori. - 
Da dietro una colonna uscì una figura incappucciata. Il lungo mantello violaceo la copriva interamente, ma lo stemma della rosa con la stella ricamato sul petto non lasciava adito a dubbi su chi potesse essere. Con passo leggero e aggraziato si avvicinò a lui.
- Come facevi a sapere che sarei venuto? - indagò Ledah.
- Non si usa più salutare? Non sei cambiato per niente. - gli rispose una voce femminile.
L'elfo incrociò le braccia al petto, lo sguardo duro e scostante: - Possiamo smetterla con questi convenevoli, Aiwen? Sono venuto qui per ricevere delle risposte, non per bere un tè in compagnia. -
- Lo immaginavo. -
Il viso delicato di una giovane elfa fece capolino da sotto il cappuccio, gli occhi di ogni tonalità di blu contornati da lunghe ciglia chiare e le labbra piegate in un sorriso divertito. Una cascata di capelli biondi lucidissimi, trattenuti in una coda, si adagiava morbida sulle spalle e sul seno.
- Sei sempre il solito musone, Ledah. Ha ragione Brandir a chiamarti "corvetto". -
- Senti, se tuo marito ha la tendenza a inventarsi dei nomignoli strani, la colpa non è mia. - borbottò offeso. 
- Certo, certo. Guarda che faccia imbronciata che hai! Se fai "cra" sei perfetto. -
Entrambi scoppiarono a ridere. Ledah aveva provato a comportarsi in maniera fredda e distaccata, ma contro l'umorismo di sua sorella Aiwen nessuno poteva rimanere serio. Lei possedeva l'innato potere di far tornare il buonumore a chiunque, anche per questo era benvoluta da tutti. D'altronde, era la figlia di Haldamir il Salvatore, non ci si potev aspettare di meno da lei.
Tossicchiò per darsi un minimo di contegno, poi tornò serio e le si accostò.
- Sta succedendo qualcosa di strano. Ci hanno convocati da Llanowar senza fornirci nessun dettaglio su ciò che stiamo per affrontare. Dicono si tratti di una semplice missione di ricognizione, ma io non credo. Tu ne sai qualcosa? -
Aiwen sospirò e disse: - No, ne so meno di te. -
- Come sarebbe? - la voce di Ledah perse qualunque calore e si fece diffidente, - Sei un membro del Consiglio, come fai ad essere all'oscuro di tutto? -
La sorella indietreggiò, fino ad appoggiarsi alla colonna. Si massaggiò le tempie e cercò di mantenere la calma. 
- Senti, non mi mettono al corrente di tutto. Certo, per quel che riguarda Sheelwood ho voce in capitolo, ma per altri tipi di decisione solo gli Anziani hanno il diritto di esprimersi. -
- Allora perché diamine sei qui, se tanto non puoi partecipare alle riunioni? - 
- E' il regolamento. Durante i giorni in cui si discute un qualsiasi emendamento, io devo presenziare nella Camera dei Soli, indipendentemente dal fatto che partecipi o meno alle discussioni. Pensi che, se sapessi qualcosa, non te la direi? Ci tengo a te, nonostante tutto. -
- Quindi non ti interessa che io sia il figlio di un Lich? Non mi hai mai dimostrato affetto, mi pare. - commentò acido.
- Smettila, non è vero. Ti ho sempre trattato come un fratello e, a dispetto di ciò che è accaduto, in fondo abbiamo la stessa madre, anche se adesso non somiglia per niente a colei che mi ha partorita. Sul serio, Ledah, non mi è mai importato di ciò che dicevano gli altri di te. Perché non torni tra noi e dimostri che non sei quello che tutti credono? - lo esortò, regalandogli un sorriso incoraggiante.
Ledah si scostò con una smorfia amara, passandosi la mano sulla fronte. 
- Lo sai come sono quelli: non dimenticano. Non sono tutti come te, dolce Aiwen. Ne abbiamo già parlato molte volte, è inutile che continui a tentare di persuadermi. Ormai ho preso la mia decisione e non ho intenzione di tornare indietro. Tu affermi che abbiamo la stessa madre, ma sai bene che non è così. Tua madre si chiamava Elladan ed era un'elfa gentile e bellissima, la mia invece si chiama Lysandra ed è un demone malvagio. Elladan non vive più in Lysandra. -
Le diede le spalle e accennò ad andarsene, quando sentì una mano stringersi attorno alla sua.
- Promettimi che starai attento, fratello. Anche se non so di cosa abbia discusso il Consiglio negli ultimi tempi, temo stiano tramando qualcosa. - lo avvertì in tono pacato, tentando di trasmettergli tutta la preoccupazione e l'ansia che le attanagliavano le viscere.
Ledah si voltò e l'abbracciò, accarezzandole la testa come quando erano piccoli. All'epoca era Aiwen che consolava lui, era lei quella forte. Adesso, al contrario, pareva fragile e vulnerabile più che mai. 
- Va bene, starò attento. Tornerò assieme a Brandir, come sempre. E poi non vedo l'ora di vedere tuo marito con in braccio la mia nipotina. -
Aiwen rise e con un cenno della testa gli indicò un angolo buio. Ledah aguzzò la vista e intravide una piccola porta in ferro.
- Stavolta evita di passare dalla porta principale, magari. - scherzò. 
Poi l'elfa si diresse spedita verso il fondo della navata, in direzione dell'enorme scalone di cristallo nero. La luce della luna l'accompagnò fin quasi all'ultimo gradino, dopodiché la sua figura aggraziata venne inghiottita dalle tenebre.
Ledah, prima di raggiungere il passaggio indicatogli dalla sorella, osservò con apprensione l'affresco di Arawan e lesse la scritta che, vergata su sfondo celeste, fungeva da cornice: "Noi non dimentichiamo chi sei stato."

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Capitolo 17
*** Rintocchi ***


17

Rintocchi

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Era una splendida e calda giornata di sole a Merite, una di quelle in cui le imposte rimanevano abbassate per trovare un minimo di refrigerio. Le strade erano quasi deserte, eccetto che per pochi mercanti, le cui botteghe restavano aperte nella speranza che qualche coraggioso cliente sfidasse l'afa per fare compere. 
Marek, il fornaio del paese, fissava annoiato l'entrata della sua bottega, sbadigliando di tanto in tanto. Terzo di una famiglia di dieci fratelli, era un uomo grasso, dalla faccia rubiconda ricoperta da un'ispida barba dello stesso colore dorato dei filoni di pane che sfornava ogni mattina. Le mani, sempre impiastricciate di farina, picchiettavano sul bancone di legno nervosamente. La sera prima aveva chiuso tardi grazie alla grande affluenza di clienti e aveva guadagnato un bel po', perciò si chiedeva da quella mattina presto perché mai il suo vecchio aveva voluto che rimanesse aperto anche quel giorno. Sapeva benissimo che in giornate del genere le persone preferivano starsene a casa al fresco. E poi cuocere il pane con quel caldo era veramente uno strazio. Se solo avesse avuto un cavallo degno di questo nome, avrebbe cavalcato verso il mare e si sarebbe messo a mollo fino al tramonto. Scosse la testa, scacciando quei pensieri inutili ed oziosi. Stava sbadigliando per l'ennesima volta, quando la campanella posta sopra la porta del negozio trillò, ridestandolo all'improvviso. 
Vide entrare una ragazzina dalla folta chioma fulva, con addosso una casacca smanicata e un paio di pantaloni di tela leggermente sgualciti. A tracolla portava un piccolo arco in legno scuro.
“Pure questa! Non poteva rimanersene nella sua casa sperduta in mezzo al nulla e lasciarmi chiudere tranquillamente?” 
Schioccò la lingua, mentre l'indesiderata cliente studiava il pane esposto. 
- Buon-buongiorno. - balbettò Caillean a disagio, - Potrei avere una pagnotta di grano duro, per favore? -
- Certo, le ho appena sfornate. - rispose Marek a denti stretti.
Stava per avvolgerlo in un panno, quando la ragazzina lo fermò: - Non serve, grazie. Lo mangio mentre cammino. Quanto vi devo? - 
- Una moneta di rame. - 
Il fornaio attese che gli porgesse i soldi prima di darle il pane. Normalmente non si faceva di questi problemi con gli altri clienti, ma con la figlia del bastardo di Aesir non c'era da fidarsi. Osservò attentamente la moneta, cercando di coglierne una qualsiasi imperfezione. Non poteva essere sicuro che non stesse cercando di ingannarlo con qualche diavoleria magica.
- State tranquillo. È puro rame. - asserì con una nota di stizza nella voce.
- Non si può mai sapere con gente come voi. - 
Mise la moneta in cassa, cercando di non fissare gli occhi verde acceso di Caillean. Occhi impossibilmente e disperatamente belli. Notò che la ragazzina stava stringendo i pugni, probabilmente offesa dalle sue parole, ma alla fine abbassò lo sguardo mordendosi le labbra. 
- Buona giornata. - borbottò tra i denti, poi si voltò e con passo sostenuto uscì dalla bottega.
Camminò per le strade, gli occhi lucidi fissi davanti a sé. Almeno non c'era nessuno in quel momento a vederla piangere. Doveva resistere: i veri guerrieri non piangevano mai, nemmeno quando perdevano la donna amata oppure il loro regno veniva raso al suolo dalle forze nemiche. Strinse il panino e si asciugò una lacrima con un gesto irritato.
“Stupidi. Cosa ne sapete voi di me e della mia famiglia?! Quando porterò l'esercito umano alla vittoria, sarete costretti a chiedermi scusa per tutte le cose brutte che avete detto, su di me e su mio padre!”
Percorse tutta la via correndo per uscire più in fretta possibile da quella maledetta cittadina. Zigzagò per un paio di minuti, passando da un vicolo all'altro, fino a quando non oltrepassò l'ultima casa. Non appena vide la fitta boscaglia, aumentò ancora l'andatura e proseguì per il sentiero di terra battuta, stando ben attenta a dove metteva i piedi, il sudore che lentamente le imperlava la fronte. Gli alberi la avvolsero, schermandola dai luminosi raggi del sole, ma nonostante l'ombra offertale dalla natura non riusciva a calmare la rabbia che divampava come un incendio dentro di sé. Sentiva i polmoni in fiamme, i battiti del cuore nelle orecchie, gli occhi bruciare a causa delle lacrime e il fiato grosso. Il prelato, il fornaio, il sarto, tutti in quel paese la guardavano come se fosse un abominio. E tutto perché una stupida leggenda diceva che Aesir sarebbe tornato incarnandosi in uno dei suoi figli! Ma non era affatto vero che la sua stirpe aveva i capelli rossi, anzi nessuno sapeva come si riconoscessero i figli di Aesir. 
Si appoggiò ad un albero e guardò verso l'alto, intravedendo tra i fitti rami uno spiraglio di cielo terso. Inspirò ed espirò più volte, cercando di calmarsi. Non avrebbe badato alle parole di quella gentaglia, proprio come suo padre le aveva consigliato. Si rinvoltò i pantaloni e scoprì le gambe fin quasi sopra al ginocchio. 
“Oggi devo andare a caccia e, se non sono lucida, mi sfuggiranno tutte le prede. Magari acchiappo un coniglio bello grasso e stasera...” 
Le venne l'acquolina in bocca al solo pensiero dello spezzatino che avrebbe preparato sua madre e in pochi attimi dimenticò quel che era successo poco prima. 
Riprese a camminare con tranquillità per il sentiero, guardandosi qualche volta intorno nella speranza di scorgere un movimento. La parte che più preferiva della caccia era proprio la ricerca: un buon cacciatore riusciva a cogliere il minimo fruscio di foglie anomalo e a catturare la preda ancor prima che questa potesse accorgersi della sua presenza. Lei non era ancora a quel livello, ma suo padre le aveva detto che, se avesse continuato così, lo avrebbe addirittura superato: l'ultima volta che avevano fatto a gara a chi prendeva più conigli, Caillean aveva perso di poco. Inoltre, quando lui non c'era, era lei stessa ad andare in giro per i boschi per procurare una cena un po' più sostanziosa delle solite verdure e minestre.
Addentò l'ultimo pezzo di pane, soddisfatta per i complimenti che il genitore le aveva rivolto pochi giorni prima, durante il loro allenamento segreto, in cui Caillean era riuscita a disarmarlo e a puntargli la spada alla gola. Il padre era rimasto strabiliato dai suoi sorprendenti progressi e aveva riempito lei e se stesso di elogi, convinto di essere un ottimo maestro.
“Mi dispiace, papà, ma mi sono allenata anche quando tu non c'eri, anche se mi avevi proibito di farlo.” 
Sghignazzò divertita, mentre un sorriso di puro compiacimento le increspava le labbra: sarebbe diventata ancora più brava del padre in ogni cosa, così da renderlo fiero e convincerlo definitivamente che la vita da soldato faceva per lei. 
Camminò per circa un'ora, immersa nei suoi sogni di gloria, raccogliendo qua e là le varie bacche che crescevano al lato del sentiero. 
- Adoro l'estate... - disse tra sé e sé, con la bocca impiastricciata. 
Poi si bloccò e fissò un punto alla propria destra, nella direzione da cui le era parso di sentir provenire un fruscio. Si pulì le mani sui pantaloni e, dopo aver impugnato l'arco, incoccò una freccia, avvicinandosi con attenzione. Non ne era certa, ma le era sembrato di scorgere una lepre correre velocemente verso un cespuglio. Sputò i semi e si avvicinò in punta di piedi. Una foglia scricchiolò sotto la suola e subito si immobilizzò trattenendo il respiro. Alzò gli occhi al cielo, maledicendo la propria disattenzione e quella cosina piccola e rinsecchita che il vento estivo non si era ancora portato via. Attese alcuni attimi, poi ricominciò a muoversi. Si accostò al cespuglio con cautela, assottigliando gli occhi per scrutare in mezzo a quel groviglio verde. Si sporse leggermente per appurare che la preda non fosse di fronte a lei, invisibile e celata dal fitto fogliame. Non sarebbe stata la prima volta che si faceva sfuggire la cena per un errore di distrazione, solo perché aveva dato per scontato che la preda era scappata. Intravide qualcosa in mezzo al piccolo spiazzo erboso al di là del cespuglio. Si allungò ancora un po' per vedere meglio, l'arco pronto a scoccare, quando a un tratto mise il piede su qualcosa di viscoso. Del liquido rosso cremisi le imbrattò gli stivaletti di pelle e un brivido freddo le attraversò tutta la schiena. 
Sotto di lei c'era una pozzanghera purpurea e densa.
“Sangue...” 
Rimase paralizzata, le viscere contratte per il terrore. Con gli occhi spalancati e il corpo pervaso da tremori, seguì le macchie rosse fino al corpo di una ragazza, rigido e bianco, riverso al suolo in una posa scomposta. L'arco le scivolò dalle mani sudate e cadde a terra. Provò ad urlare, ma la voce le morì in gola.
In quel momento si sentì sollevare di peso da due braccia forti e, in una manciata di secondi, il silenzio che fino a poco prima l'aveva avvolta fu spezzato da un grande vociare. Osservò l'ambiente che la circondava, intontita e incapace di capire cosa stesse succedendo. Una ventina di occhi si posarono su di lei, carichi di odio e rabbia. Vide una donna avvicinarsi al corpo della giovane e scoppiare a piangere a dirotto, mentre un uomo la stringeva a sé, accarezzandole la schiena. 
“La fruttivendola e il marito? Che ci fanno qui? Perché sono tutti qui?” 
Tentò di liberarsi, ma la stretta attorno alle sue braccia si serrò fino a farle male. Mani grandi, callose, impiastricciate di farina.
“Marek?”
Un uomo anziano, vestito con una tonaca nera lunga fino ai piedi, fece un gesto e due guardie cittadine si avvicinarono al corpo, sollevandolo con delicatezza. La donna non riusciva a smettere di piangere, implorandoli di fare qualcosa che Caillean non riusciva a capire. Poi puntò l'attenzione su di lei e il suo volto fu stravolto da un furore improvviso.
- L'ha ammazzata, è stata lei! Mostro! - gridò additandola, ma due uomini la trattennero per le braccia.
- Io... io non ho ucciso nessuno, aspettate! - replicò Caillean agitata. 
Le guardie le passarono accanto col cadavere della giovane. Due iridi vuote la fissarono e parvero accusarla in silenzio.


Airis si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di piccole goccioline di sudore. Si passò le mani tremanti sul volto e strizzò le palpebre per respingere i frammenti residui del sogno. Erano trascorsi anni da quell'evento e altrettanto tempo era passato dall'ultima notte che il suo sonno era stato disturbato da quelle visioni. 
Inspirò profondamente e il cuore tornò a battere calmo nel petto dopo un paio di secondi. Aprì gli occhi, ancora mezza intontita. Vide intorno a sé i contorni sfocati di uomini, donne e bambini ancora immersi nel sonno, appoggiati a delle pareti di legno. Da alcune finestrelle entrava la luce fredda ed argentea della luna. 
“Dove diamine...?” 
Prima ancora che la domanda si delineasse nella sua mente, Airis avvertì il contraccolpo e ricadde distesa sulle travi di legno, adesso completamente sveglia.
“Ah, ora ricordo. Ci stiamo dirigendo a Luthien. Cosa darei per poter viaggiare a cavallo... quanto meno eviterei questi meravigliosi risvegli. Ma no, quello stupido nano ha insistito perché fossero solo lui, Fenrir ed Alan a montare gli unici tre destrieri liberi.” 
Stizzita dalla poca fiducia che Baldur nutriva nei suoi confronti, fece per alzarsi, quando un altro pensiero la bloccò sul posto. Si girò e aprì la borsa nera che usava come cuscino. Con leggera agitazione tastò all'interno, finché, con un sospiro di sollievo, non toccò la copertina ruvida del diario e il laccio che legava il frammento.
Quando erano partiti, il Drow le aveva procurato quella specie di tracolla in tela dove portare il suo “amato” libro, come lui usava chiamarlo per prenderla in giro. Così, ora, Airis poteva risparmiarsi le notti in bianco per paura che qualcuno glielo rubasse e lo leggesse. Era una Risvegliata e non era obbligata a dormire, però preferiva di gran lunga abbandonarsi ad un sonno ristoratore, piuttosto che annoiarsi con le memorie di Haldamir. Più continuava, più si innervosiva all'idea di aver rischiato così tanto per un banalissimo diario, in cui tra l'altro non era stata riportata nessuna informazione utile. 
Da quando le era capitato tra le mani, aveva continuato a sfogliarlo in ogni momento libero, cercando di analizzare ogni parola e non lasciarsi sfuggire nemmeno un dettaglio, ma più andava avanti e più le sembrava di capire sempre di meno. Fino ad allora aveva pensato che il primo figlio di cui Elladan era in attesa fosse Ledah. Invece, proprio la sera precedente, aveva scoperto che il bambino su cui Haldamir aveva fantasticato per pagine e pagine era in realtà una bambina, Aiwen. Aprì il libro e lo scorse fino al punto in cui il neo-papà si era prodigato a fornire un'accurata descrizione della pargola: occhi azzurri, capelli biondi, guance paffute e labbra dalla forma a cuore, a sua detta adorabili. 
“Insomma, niente a che vedere con l'elfo che ho conosciuto io.” 
Si massaggiò le tempie, trattenendo l'impulso di gettare fuori dal carro quel diario maledetto. Se da Haldamir e sua moglie era nata una femmina, significava che tutte le sue ipotesi erano errate sin dal principio: Ledah non aveva nulla a che fare con questa coppia ed Elladan non era Lysandra. Eppure sentiva che mancava qualcosa, un elemento fondamentale. Schioccò la lingua, sempre più frustrata. Se solo ci fossero state tutte le pagine, sicuramente sarebbe riuscita a schiarirsi le idee sulla questione. Con il dito sfiorò il punto in cui erano rimasti attaccati alcuni frammenti di carta brutalmente strappata. Chiunque l'aveva fatto non voleva che scomode verità venissero a galla, anche se Airis era convinta che l'intento originale fosse di dare il tutto alle fiamme. Si rigirò il manoscritto tra le mani, accarezzando pensosa le bruciature nerastre sulla copertina. 
“L'unica cosa di cui posso essere certa è che questo coso ha un enorme valore per Lysandra. Se lo desidera così tanto, un motivo ci deve per forza essere.”
Lo ripose nella borsa e si sdraiò supina, poggiando la testa sul fagotto. Posò lo sguardo sulla luna che illuminava il terso cielo stellato, lambendo le cime degli alberi con i suoi delicati raggi. Erano in viaggio da all'incirca dieci giorni e ormai mancava poco per giungere a destinazione. O almeno lo sperava: i viveri stavano per terminare e alcuni avevano bisogno di cure e di un caldo letto dove dormire. Molti di loro si svegliavano urlando in preda agli incubi e quasi nessuno osava allontanarsi per più di qualche metro dalla carovana. Come dare loro torto? 
Si girò a guardare alla sua destra, osservando la donna che aveva salvato da quel bandito. Il suo nome era Myria e doveva avere pochi più anni di Airis. Suo figlio si chiamava Zefiro ed era un bambino vivace e solare. Airis non le aveva mai parlato personalmente, ma provava una certa simpatia per lei. A differenza degli altri cittadini di Amount-Vinya, che non le si erano mai avvicinati molto, quando Myria aveva saputo che Airis aveva bisogno di una borsa era andata da Fenrir e gli aveva dato la propria senza chiedere nulla in cambio e, ogni volta che la incontrava, le rivolgeva un dolce sorriso. Quella gentilezza d'animo così spontanea e naturale aveva colpito il cuore della guerriera, lasciandola interdetta per i primi giorni. Nessuno, a parte i suoi genitori ed il suo maestro, si era mai comportato in quel modo con lei. Nonostante tutto, però, aveva continuato a trattare Myria con la solita freddezza, cercando di mantenere le distanze e non affezionarsi troppo: tutti coloro che aveva amato erano deceduti tragicamente e non voleva ricadere nel baratro della disperazione di nuovo, né avere sulla coscienza la morte di un altro innocente.
Allungò la mano, studiandola attentamente. Si morse le labbra al pensiero che ogni giorno che passava la vista la abbandonava sempre di più. Lysandra gliel'aveva detto che l'incantesimo di Ledah non sarebbe durato in eterno, ma ad Airis serviva ancora tempo per risolvere il mistero del diario e, se da lì a poco il mondo fosse ripiombato nell'oscurità, sarebbe stato tutto molto più difficile.
Si scrocchiò le dita affusolate, eppure ruvide, callose e piene cicatrici biancastre, testimoni del duro allenamento a cui il suo maestro l'aveva sottoposta per renderla un guerriero forte e capace. Le sue non erano mani fatte per essere accarezzate, ricoperte di gioielli o strette amorevolmente tra quelle di un uomo: erano state plasmate per la guerra. Come le odalische del deserto, anche lei ballava con la medesima grazia la danza della morte. Il suo strumento era la spada, il suo palcoscenico il campo di battaglia, la sua musica i gemiti di dolore e le urla. Se era diventata la “Morte Bianca”, il Cavaliere del Lupo, poteva tutto.
Sbadigliò e si girò su un fianco, leggermente assonnata. Si lasciò cullare dal dondolio del carro e pian piano l'incubo la raggiunse di nuovo.

- Sei un mostro! - la fruttivendola si liberò dalla presa dei due uomini e arrivò fino a lei. 
Caillean avvertì un improvviso dolore alla guancia, che le fece scattare il viso violentemente di lato, mentre un sapore ferroso le invadeva la bocca.
- Sei la figlia del bastardo di Aesir! - 
Un altro schiaffo si abbatté sulla bambina, più forte del precedente, e poi un altro e un altro ancora, fino a quando la vista non cominciò ad annebbiarsi. Caillean non capiva: perché la stava colpendo? Aveva solo trovato il cadavere della ragazza, non c'entrava nulla con il suo assassinio.
La donna le cinse con fermezza il volto, costringendola a guardarla. Gli occhi gonfi e rossi per il pianto erano pieni di una furia cieca, diretta soltanto verso il colpevole.
- Sei stata tu. Ammettilo. L'hai uccisa perché era molto più bella di te, vero? O perché te l'ha ordinato Aesir?! - sbraitò e la colpì di nuovo.
Caillean subì docile e spaventata quel trattamento, ma ad un certo punto sentì qualcosa di caldo colarle giù dal labbro inferiore e impiegò un attimo per realizzare che la fruttivendola glielo aveva spaccato. Fissò le piccole gocce dense che le imbrattavano la casacca, la bella casacca che le aveva regalato sua madre per il compleanno. L'aveva cucita con le sue mani, prendendo tutte le misure con grande precisione e cura. Il giorno in cui gliel'aveva consegnata, Caillean aveva subito pensato che fosse stupenda. Così la indossava ogni giorno, anche per andare a caccia, nonostante la madre fosse contraria, perché avrebbe potuto rovinarla.
“Mamma si arrabbierà perché l'ho sporcata...” 
Gli occhi le si riempirono di lacrime e il suo corpo cominciò a tremare per lo sforzo titanico di trattenerle. 
“I guerrieri non piangono, i guerrieri non piangono...” 
Ma quelle calde stille salate iniziarono a rigarle comunque le guance, senza che lei potesse opporvisi. Aveva paura, tanta, troppa. Caillean avrebbe voluto correre via, ma le mani forti del fornaio erano ben salde intorno alle sue braccia, tanto che temette di udire le ossa scricchiolare da un momento all'altro. Le facce degli astanti parevano delle maschere grottesche dai contorni sfumati, irriconoscibili. Gli insulti e le calunnie si confondevano gli uni con le altre, creando un coro incomprensibile, quasi un'eco lontana. 
“Aiuto... papà... mamma...” 
Scrutò intorno a sé cercando quei visi familiari, ma incontrò solo sguardi cupi, rabbiosi e pieni di disprezzo. Poi all'improvviso tutte le persone che la circondavano arsero vive come torce, saturando l'aria di grida disperate e puzzo di carne bruciata. Le mani di Marek abbandonarono la presa e Caillean fu finalmente libera. Cadde in ginocchio tossendo, i polmoni pieni di fumo e incapaci di immagazzinare ossigeno, per poi voltarsi verso il fornaio. Vide quel gigante d'uomo portarsi le mani al viso, nell'intento di proteggersi dal fuoco, tuttavia una fiammata proveniente da un punto impreciso lo investì in pieno non appena tentò di scappare, riducendolo ad un cumulo di cenere e ossa carbonizzate. 
Caillean era sbalordita e pietrificata dal terrore. Non capiva cosa stesse succedendo, perché gli abitanti di Merite stessero bruciando vivi o da dove scaturisse il fuoco. Non v'era un falò e nemmeno un incendio, perciò, in un remoto angolino del suo cervello, azzardò l'ipotesi che si trattasse di magia. Magia nera.
Il dolore causato da tutti i colpi ricevuti le invase di nuovo i muscoli e non riuscì ad alzarsi come voleva, per scappare da quel massacro e non diventare la prossima vittima. Doveva avvertire sua madre e convincerla a rifugiarsi in una remota città, così da sfuggire alle persecuzioni che, inevitabilmente, si sarebbero abbattute su tutta la famiglia dopo quello scempio inspiegabile. Avrebbero accusato lei e suo padre di aver praticato le Arti Oscure ai danni dei cittadini e li avrebbero puniti con torture crudeli, finché non fossero spirati in agonia. A quel pensiero, l'istinto di sopravvivenza si risvegliò e la spronò a correre più veloce di una lepre verso la città, lontano da casa sua dove sua madre l'aspettava, ignara del pericolo. Voleva proteggere almeno lei, che era innocente e aveva avuto solo la “sfortuna” di innamorarsi di un uomo con i capelli rossi. 
Giunse in vista di Merite ed arrestò i propri passi. Con estrema fatica alzò gli occhi, scoprendosi al centro di un massacro. La gente urlava e correva disperatamente attraverso i sentieri tortuosi della città, calpestando i corpi di coloro che erano a terra. Il campanile del tempio venne divorato dalle fiamme, l'oro delle lancette del grande orologio e dei simboli che indicavano le ore si sciolse come neve al sole, e le campane suonarono forsennatamente, come impazzite, emettendo un suono cupo, sordo e continuo, una sequenza di inquietanti “dong” che le raggelò il cuore.
“Aspetta... a Merite non c'è un campanile...” 
Caillean si piegò sulle ginocchia scossa da un conato di vomito, provocato dal tanfo di sangue e carne bruciata. Un ruggito disumano risuonò nell'aria, facendo tremare le case e mandando i vetri in frantumi. Il cielo coperto da nuvole scure fu squarciato da una gigantesca sagoma nera. Dalle mura un'ondata di frecce venne scagliata contro la bestia sconosciuta, ma quella si portò ad alte quote con un poderoso battito d'ali, riuscendo così ad evitare ogni dardo mortale. Poi spalancò le fauci e dalla sua bocca proruppe una vampata di fuoco, che avviluppò le coraggiose guardie e le polverizzò come se fossero state fatte di sabbia. Tra coloro che si salvarono dall'attacco, ve ne fu uno che, con lo sguardo pieno di terrore, tentò di buttarsi giù dalle mura, forse col desiderio di trovare una morte meno ripugnante e dolorosa. Ma la creatura scese in picchiata e la sua zampa fu più veloce, acchiappandolo prima che si sfracellasse al suolo. L'uomo si divincolò, invocò pietà e chiese perdono per tutto quello che aveva fatto. Due occhi rossi come tizzoni ardenti lo fissarono per un attimo, poi lo scaraventarono di lato, proprio come si scaccia un moscerino. Si sentì solo un suono raccapricciante di ossa rotte.
“U-un drago...” 
Caillean arretrò col fiato in gola, senza riuscire a distogliere l'attenzione dalla bestia. Calpestò qualcosa, che sotto la suola dello stivaletto scricchiolò in modo quasi sinistro. Rivolse lo sguardo a terra e si accorse di stare camminando su un cimitero di cadaveri bruciati, squarciati, dilaniati e fatti a pezzi. C'erano sangue e viscere ovunque e alla vista di quel tappeto rosso gridò con tutta la forza che le era rimasta, atterrita e sconvolta.
Poi udì un'esplosione, seguita da molte altre, sempre più vicine. Sapeva che avrebbe dovuto correre, ma non riusciva a pensare a nulla che non fosse il drago, le sue ali nere e le sue zanne imbrattate di sangue. Barcollò e provò a compiere qualche passo sulla via di casa, ma sembrava che i piedi la tenessero ancorata lì. Percepì attorno a sé dei movimenti, poi qualcosa le afferrò una caviglia: un bambino con il cranio spaccato, bianco come un cencio, la squadrò con un'aria folle, gli occhi spiritati quasi fuori dalle orbite. Caillean gli diede un calcio, rompendogli lo zigomo. Le ossa si incrinarono con un lieve schianto e dalla ferita, inflitta solamente a causa di un terrore atavico e incontrollabile, sgorgò del liquido scuro, denso e viscoso, della stessa consistenza del fango. Il bambino mollò la presa, ma quando Caillean si voltò per scappare, si trovò circondata da altre figure strane, demoniache. Strisciarono verso di lei protendendo le mani come se fossero artigli, le dita cianotiche incrostate di sangue e terra. Caillean li scansò con gesti bruschi, ma a nulla valsero i suoi sforzi per allontanarli. In poco tempo la sommersero, le strapparono l'aria dai polmoni e la mangiarono viva, pezzo dopo pezzo, affondando i denti nella carne morbida di bambina, fino le ossa. 
Infine tutto divenne nero: rimasero solo quegli occhi vitrei e il lontano rimbombare delle campane.



Airis si ridestò urlando, il cuore che le batteva all'impazzata nel petto. 
Dei rintocchi di campane risuonavano nell'aria, tanto che per un istante temette di essere ancora prigioniera del sogno. 
Presa da un'improvvisa inquietudine, saltò giù dal carro, ignorando totalmente quello che Baldur le stava dicendo e gli sguardi allibiti dei cittadini di Amount-vinya. Osservò il paesaggio circostante e notò una collina abbastanza alta, dalla cui cima sicuramente avrebbe ottenuto una visuale completa. Non appena vi giunse le sue gambe cedettero, ma non per la fatica. Cadde in ginocchio, gli occhi spalancati e il viso terreo: davanti a lei c'era una piccola città immersa in un'atmosfera calma e pacifica. Sopra le mura alcune guardie facevano la ronda con passo annoiato e indolente. La case erano quelle tipiche di ogni piccolo paese di quel territorio, basse, con tetti spioventi e finestre quadrate, a cui si alternavano edifici più signorili, con un'architettura più raffinata e imponente e comignoli fumanti. 
Ma la cosa che attirò di più l'attenzione di Airis fu il campanile del tempio, al centro della città: una stupenda torre in pietra bianca sormontata da un orologio, le cui lancette e i simboli delle ore rilucevano di oro zecchino. Quelle dannate campane non smisero di suonare per minuti interi, riecheggiando come un oscuro presagio nella testa della guerriera.
Si era trattato di un incubo o di un ricordo? Forse entrambi, ma si augurò con tutto il cuore che non fosse una premonizione.
 
 

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Capitolo 18
*** Festa ***


18

Festa

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Quando Ledah si svegliò, la prima cosa che percepì fu la morbidezza delle lenzuola che lo avvolgevano. Schiuse prima un occhio e poi l'altro, infastidito dall'allegro raggio di sole che passava attraverso le imposte accostate. Sbatté le palpebre con crescente smarrimento, chiedendosi perché si trovasse in un comodo letto e non sulla fredda terra, quando una vocetta pimpante, seguita dallo sbattere improvviso di una porta, ruppero la quiete. 
- Dai, alzati, oggi c'è la festa! -
A quel punto, l'elfo si ricordò che era da ormai cinque giorni che quella piccola peste della figlia del padrone di casa lo strappava al mondo dei sogni in quel modo ben poco gentile. Si girò verso la bambina, trovandosi faccia a faccia con un visino lentigginoso.
- Allora? Ti alzi o no? - gli chiese saltellando euforica.
- Melwen... che ore sono? - bofonchiò frastornato mentre si massaggiava le tempie, cercando di trattenere l'istinto omicida. 
Non aveva mai amato particolarmente alzarsi presto al mattino, nemmeno quando era nel plotone d'élite degli arcieri, figuriamoci in quel momento.
Melwen si mordicchiò il labbro pensierosa, alternando il peso da una gamba all'altra: - Il sole è sorto da circa un paio d'ore, credo. -
- E quando sarebbe questa festa? - sibilò minaccioso.
- Ehm... verso l'ora di pranzo... più o meno. -
- Quindi, fammi capire, - si tirò su, appoggiandosi allo schienale del letto, - mi hai svegliato adesso per farmi andare a una festa che comincia tra quasi quattro ore?! -
Melwen grugnì, palesemente offesa dal tono irato con cui le si era rivolta.
- Non fare il principino! Stai usando il mio letto da quando sei nostro ospite, mentre io - si indicò, come se l'elfo non avesse ben capito con chi stesse parlando, - sì, esatto, io sto dormendo con la mia sorellina e ogni notte finisco sempre sul pavimento. -
Ledah dubitava fortemente che una bambina di tre anni potesse avere la forza di far cadere Melwen, che era tutto tranne che gracile e indifesa. Comunque aveva capito che in quel momento era inutile discutere con lei, o almeno non era negoziabile l'accompagnarla a quella stupida festa. E poi glielo aveva promesso. 
Sospirò rassegnato, scostò le coperte e cominciò a vestirsi.
- Va bene, va bene. Mi alzo. Ma sappi che non andremo in piazza adesso. Ti ricordo che la pozione dura quattro ore, non tutto il giorno. -
- Va bene! - esclamò Melwen, felice, - Uhm... adesso che mi sono assicurata che manterrai la promessa, puoi tornare a dormire. - 
L'elfo sgranò gli occhi e boccheggiò incredulo, ma Melwen era già corsa fuori dalla camera.
“Quella piccola peste... lo sa benissimo che a una certa ora sono vulnerabile. Va beh, finché non rischio di farmi linciare dai cittadini posso anche accontentarla.” 
Si alzò stiracchiandosi, facendo scrocchiare le ossa per recuperare le facoltà motorie. 
Era giunto lì da all'incirca cinque giorni e ancora non si era abituato al modo di fare di quella pargoletta fin troppo vivace. Per quasi dieci anni aveva vissuto in completa solitudine, ascoltando e guardando da lontano la vita che le persone comuni conducevano, ma ora che il destino l'aveva catapultato in una realtà così simile a quella che aveva osservato si sentiva completamente stordito. 
“Ho fatto per troppo tempo il lupo solitario.”
Fissò il proprio riflesso nel piccolo specchio, posto sopra la cassapanca di legno, e si passò le mani fra i capelli per domare i ciuffi ribelli, sparati in ogni direzione. 
“Così sembro più un lupo spelacchiato, però.” 
Scrutò con occhio critico la sua lunga coda mezza sfatta, prese il pettine dal cassetto e provò a dare una parvenza di ordine a quel cespo informe che aveva al posto dei capelli, cercando di districare i nodi senza farsi male. 
“A proposito di lupi, ce n'è uno di cui mi devo occupare.” 
Durante i giorni precedenti aveva trascurato Raiza. Quando era giunto in prossimità di Luthien, per ovvie ragioni non aveva potuto portarlo con sé, nonostante le suppliche di Melwen. Era certo che non fosse scappato, ma temeva che qualche soldato lo potesse vedere. Qualora questo fosse accaduto si sarebbe immediatamente scatenata una caccia all'elfo, poiché era risaputo che i Lycos erano alleati con il popolo elfico, e lui sarebbe stato costretto a scappare prima di ricevere delle risposte. Inoltre, al momento non poteva perdere l'unica fonte di informazioni che aveva.
Ripose il pettine e si avviò alla porta, per poi scendere le scricchiolanti scale di legno. Non appena mise piede sul pianerottolo, un delizioso aroma speziato proveniente dalla cucina gli arrivò alle narici. Con l'acquolina in bocca entrò nella piccola stanza alla sua destra e la prima cosa che vide fu la schiena una donna alta e secca, intenta a tagliare un enorme pezzo di carne canticchiando un'allegra melodia. Quella, avendo percepito la sua presenza, si girò all'improvviso, ma sul viso le si dipinse subito un'espressione stranita, come se non riuscisse bene a capire chi avesse di fronte. 
- Copernico, sei tu? - domandò assottigliando gli occhi e aggrottando le sopracciglia.
- No, Margharet. Sono Ledah. - 
L'elfo si avvicinò al tavolo ricoperto di verdure tagliuzzate, probabilmente destinate ad una ricca minestra, e afferrò un piccolo paio di occhiali dalle lenti piuttosto spesse, che porse alla donna con un sorriso gentile. Margharet arrossì e si schiarì la gola. 
- Scusami, è che quei cosi mi danno fastidio quando cucino. -
- Quindi hai intenzione di continuare a confondermi con tuo marito? - 
Margharet rimuginò un attimo, si grattò il mento e poi annuì: - Hai ragione, farò più attenzione. Devi perdonarmi, ma non mi sono ancora abituata ad avere un ospite in casa. Ah, la colazione è sullo sgabello. - gli indicò una scodella piena di zuppa e un tozzo di pane nero.
- Grazie. - 
Ledah prese la pagnotta e cominciò a mangiare, gustandosi il sapore della mollica ancora calda. Nel frattempo, si concesse di osservare Margharet. Non sapeva come, ma in un certo qual modo gli ricordava Aiwen: negli occhi scuri di quella donna ossuta rivedeva la sua stessa gentilezza, la medesima voglia di aiutare il prossimo. Tentò di immaginarsi come doveva essere sembrato agli altri il volto distrutto dal dolore di sua sorella, quando le era stato riportato il cadavere di suo marito Brandir, e rammentò il colorito cereo dell'amico, i capelli riccioluti incrostati del suo stesso sangue e gli occhi verdi del tutto privi di qualsiasi scintilla vitale. 
Si passò una mano sulla faccia e scacciò il senso di oppressione che era tornato a gravargli sul petto. Improvvisamente la cucina divenne un luogo claustrofobico, tanto che non riuscì più a respirare. Posò la scodella con un gesto brusco, avvertendo l'estemporaneo bisogno di uscire, poi si alzò di scatto e andò alla porta sotto l'espressione allibita di Margharet. Non appena la spalancò, un intenso odore di terra bagnata e rugiada gli penetrò nelle narici. Inspirò a pieni polmoni e lentamente il cervello si svuotò da quei vecchi ricordi simili ad incubi, restituendogli la calma e la lucidità. Si guardò intorno, fissando le maestose querce che si ergevano a poca distanza da lui e segnavano un confine naturale tra Llanowar e il mondo degli umani, poi cominciò a camminare e si inoltrò nel sottobosco. I rumori della cittadina arrivavano attutiti e in poco tempo la vegetazione lo avvolse in un silenzio sacro, interrotto solo dallo sciabordio delle acque di un lontano torrente e dal leggero fruscio delle foglie. All'improvviso si sentì di nuovo a casa e un grande benessere gli scaldò il cuore. Percorse le scanalature della corteccia di un antico albero e lo accarezzò con riverenza, quasi fosse qualcosa di fragile. Poi chiuse gli occhi e posò la fronte contro di esso. Il respiro si regolarizzò e divenne un tutt'uno con l'albero, così pure i pensieri, i ricordi e le preoccupazioni scivolarono via, mentre al loro posto subentrava il battito della quercia. Quel ritmico pulsare invase le orecchie di Ledah e pian piano perse la cognizione di avere un corpo: le sue braccia divennero rami, i suoi capelli una folta chioma verde e le gambe affondarono nella terra fin nei suoi meandri. 
- Avevi bisogno di pensare? - 
Una voce che conosceva fin troppo bene lo riscosse. Si voltò e incrociò gli occhi indagatori di Raiza, poi inspirò profondamente e sciolse di malavoglia la simbiosi che aveva creato. 
- No, desideravo soltanto rilassarmi, ma tu mi hai interrotto. -
Il Lycos lo ignorò e si avvicinò senza distogliere lo sguardo: - Manterrai la tua promessa? - 
- Senti, ne abbiamo già parlato. Non posso svincolarti dal nostro patto finché non avremo fatto luce sul motivo per cui i demoni hanno assalito questa città. - sospirò stanco.
La bestia snudò le zanne e torreggiò su di lui minacciosa: - Cosa pensi che me ne importi, elfo? Gli umani sono nostri nemici, coloro che da più di cinquant'anni vessano e fanno a pezzi la mia specie. Ma forse per uno come te queste cose sono irrilevanti. -
- Cosa vuol dire “per uno come me”? - il tono di voce di Ledah si fece astioso.
- Beh, sai, nelle tue vene scorre sangue di Lich. Per te, magari, aiutare i mostri che hanno ucciso i tuoi fratelli è normale. - ringhiò.
- Taci, Raiza. Ho i miei motivi se ho accettato di aiutarli. - replicò seccato dopo un attimo di esitazione, in cui si era sforzato di ricacciare giù il moto d'ira che era montato in lui.
Il lupo stava per commentare, quando entrambi udirono dei passi alle loro spalle. Scorsero un uomo camminare svelto nella loro direzione facendosi largo nella boscaglia. Era avvolto da una pesante tunica violacea, stretta in vita da una complicata cintura con una fibbia argentea, che risplendeva sotto gli obliqui raggi del sole. Dei lunghi capelli neri come l'inchiostro gli ricadevano sulle larghe spalle e una leggera barbetta gli incorniciava un viso giovane e cordiale. Si fermò a pochi metri di distanza, scrutandoli divertito.
- Due buoni amici non dovrebbero mai litigare. - esordì, sorridendo benevolo.
L'elfo e il lupo gli puntarono addosso i loro occhi ostili e insieme esclamarono: - Amici a chi?! -
Senza perdere il sorriso, l'uomo agitò una mano davanti a sé, come per scacciare delle mosche fastidiose. 
- Siete davvero incorreggibili, voi due. - sospirò scuotendo la testa, poi posò lo sguardo su Ledah, - Se non ti sbrighi, Melwen ti verrà a cercare per sapere che fine hai fatto. -
- Va bene, ora vado. -
- Raiza! - 
La voce di Melwen li ghiacciò tutti sul posto e Raiza tremò appena. Non fecero in tempo a girarsi, che una bambina dai lunghi capelli biondi e la faccia lentigginosa saettò con la rapidità di un fulmine nel loro campo visivo, per poi saltare addosso al Lycos, che ringhiò di disappunto.
- Ti ho già detto che non sono un cane, piccola umana. -
Tentò di scrollarsela di dosso, ma la bambina non cedette. Un brivido di sadica soddisfazione percorse le membra di Ledah nell'assistere a tutti i vani tentativi del lupo di liberarsi di quella piccola zecca senza farle male. Avrebbe voluto rimanere lì a godersi lo spettacolo ancora per un po', ma l'uomo con il mantello viola gli fece cenno di seguirlo. Si addentrarono ancora nella vegetazione, lasciandosi alle spalle gli squittii di gioia di Melwen. In poco tempo il silenzio riavvolse la foresta. Camminarono per più di mezz'ora, senza che nessuno dei due proferisse parola. Alla fine si fermarono in una radura, ricoperta di margherite e fiori di campo.
- Cosa dovevi dirmi, Copernico? -
- Ho continuato con le ricerche che mi hai chiesto. - sospirò e si voltò verso di lui, improvvisamente serio, - Posso assicurarti che quella che ha distrutto quasi tutta Llanowar non è stata una comune magia esplosiva. -
Ledah si mostrò confuso: - Ne sei certo? -
- Sì, guarda qui. - 
Copernico aprì un sacchettino di stoffa attaccato alla cintura e ne estrasse un pezzo di corteccia carbonizzato.
- Questo l'ho raccolto l'altro ieri. Come puoi vedere, è stato completamente bruciato nell'esplosione. Se non avessi visto con i miei occhi quello che è successo quel giorno, ti avrei detto che si tratta di una banalissima magia di fuoco d'alto livello. Però mi hai riferito che durante la battaglia è stato usato pure il Respiro del Drago, giusto? Può darsi che una seconda sostanza altrettanto letale ed altamente distruttiva si sia mischiata per caso al Respiro del Drago, generando un'onda mortifera. -
Ledah lo scrutò attentamente, poi disse: - Ma tu non ci credi. -
- No, per niente. Quando sono corso fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, sono stato accecato da una forte luce bianca. Ora, come tu ben sai, qualunque tipo di incantesimo che sprigioni luce è sempre collegato ad una magia bianca e magie bianche di tipo esplosivo non esistono. Avevo pensato ad un sortilegio purificatore, ma in questo caso gli alberi non sarebbero stati bruciati. -
L'elfo annuì, poi lo interrogò: - Quindi, quale sarebbe la tua idea? -
Copernico esitò prima di rispondere e lo scrutò con i suoi occhi viola velati di inquietudine: - Potrebbe essere stato un effetto a catena causato da qualcos'altro. È stato come quando si rompe un sigillo. Se c'era davvero un sigillo e se questo si è davvero rotto, allora potremmo spiegare l'immensa quantità di energia che è stata sprigionata, talmente potente da radere al suolo mezza Llanowar. Non so chi possa essere il colpevole, ma, se la mia ipotesi corrisponde al vero, è stato liberato qualcosa di oscuro. -
Rimasero in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Non era impossibile quello che Copernico aveva detto, però, stando alle informazioni in suo possesso, Ledah era più che convinto che a Llanowar non ci fosse altro che alberi e animali. Ad Alfheim erano conservate le reliquie e i cimeli dei vecchi re, ma avevano perso tutte le loro proprietà magiche da secoli ormai. Non aveva senso desiderare distruggerla, a che scopo poi?
- Potrebbero essere stati i demoni che abbiamo incontrato? - 
- No, quelli erano dei piccoli predatori e non avrebbero avuto la forza sufficiente nemmeno per rompere la serratura di casa mia. Quando vieni qui nella foresta, comunque, cerca di fare attenzione: potrebbero tornare. -
Prima che Ledah potesse ribattere, Copernico gli batté una mano sulla spalla. 
- Dai, ora andiamo. Tra poco sarà pronto il pranzo e dopo tu e Melwen andrete alla festa a divertirvi! -
L'elfo sfoggiò un'espressione costipata, come un condannato che si dirige al patibolo, provocando la risata dell'altro.
Tornarono indietro seguendo il sentiero e quando giunsero nelle vicinanze della casa il profumo di arrosto li invitò ad entrare. Si sedettero a tavola e Margharet offrì ad ognuno la sua porzione di agnello con contorno di polenta e verdure varie. Senza neanche aspettare, Melwen si gettò sul cibo, spazzolando la propria razione in men che non si dica, un po' per la fame e un po' perché era impaziente di uscire. Ledah avvertì i suoi occhi addosso per tutta la durata del pasto, ma continuò a mangiare con calma per ritardare il fatidico momento. Nel preciso istante in cui ingoiò l'ultimo boccone, la bambina saltò giù dalla sedia e lo prese per mano, strattonandolo verso la porta. 
Però Copernico bloccò la loro avanzata: - Melwen, aspetta! Ledah deve prendere la pozione prima di uscire. Sai che gli elfi non sono ospiti graditi in città. Restate qui un attimo, vado a prenderla. - 
- Sbrigati, papà! -
L'uomo corse lungo il corridoio ed entrò in una stanza che Ledah sapeva essere il suo studio, per poi tornare con una fiala con dentro un liquido trasparente, in tutto e per tutto simile ad acqua, che consegnò all'elfo.
- Tieni. Ricorda: quattro ore. Non un minuto di più, non uno di meno. -
Ledah la trangugiò in un sorso, ignorando il sapore amaro. In pochi attimi le sue orecchie lunghe si rimpicciolirono, assumendo la stessa forma rotonda di quelle di un comune essere umano. 
- Tranquillo, papà, torneremo puntuali. - lo rassicurò Melwen sparendo attraverso la porta in un lampo, con appresso il suo povero accompagnatore. 
La bambina era eccitatissima: era la prima volta che andava alla festa con un affascinante cavaliere come Ledah e non vedeva l'ora di presentarlo alle sue amiche, che di sicuro sarebbero morte d'invidia. Sghignazzò sotto i denti quando provò a figurarsi la faccia di quelle smorfiose. L'elfo la guardò interrogativo, completamente ignaro dei suoi piani diabolici.
Procedettero a passo di marcia, macerando in poco tempo le due miglia che li separavano dalle mura. In prossimità del ponte levatoio notarono che si era formata una piccola folla, che procedeva più o meno disordinatamente verso l'interno. 
“No... no, ti prego, no...”
- Dai, uniamoci a loro! - lo spronò impaziente Melwen e lo trascinò in mezzo alla calca. 
In un battito di ciglia Ledah si ritrovò strizzato al centro di quella moltitudine di persone. Le risate sguaiate miste a urla si fondevano in una cacofonia letale per le sue povere orecchie e gli facevano girare la testa, stordendolo ancor più di quanto già non fosse. Serrò convulsamente la mano della bambina e chiuse gli occhi, cercando di reprimere l'istinto di correre via. Solamente quando iniziarono ad avvicinarsi alle prime case la folla accennò a disperdersi. La festa non era neanche cominciata, ma Ledah si sentiva già esausto.
Le strade erano state adornate a festa e persino le viuzze minori erano piene di bancarelle che vendevano le merci più disparate. Ad ogni angolo era appeso lo stendardo della capitale: due ali dorate che circondavano una spada istoriata con l'effige di un lupo.
- Senti, ma cosa festeggiate di preciso? -
Melwen si fermò non appena udì la domanda, fissandolo nel medesimo modo in cui si fissa un idiota.
- Non sai cosa si festeggia?! - 
“Perché dovrei sapere cosa festeggiate in questo buco di paese?” 
- Se lo sapessi, non te lo avrei chiesto. - rispose con un sorriso tirato.
La bambina sospirò con aria da saputella: - Oggi è la festa di Seleneide, la dea dei boschi e del raccolto. Ieri, come hai visto, abbiamo pregato per ricevere l'abbondanza nella prossima primavera. Oggi, invece, ci si diverte! -
Prima che Ledah potesse domandare altro, venne tirato per un braccio verso una vecchia che vendeva biscotti al miele e frutta candita. 
- Me ne compri una? - 
- Tuo padre che dice? - 
Melwen lo osservò di sottecchi, mentre un ghigno furbo le increspava le labbra: - Quando veniamo qui in paese, mi compra sempre qualcosa. -
- Non so se ho i soldi... -
Frugò nelle tasche e contro ogni previsione tastò la familiare freddezza metallica delle monete: Copernico pensava sempre a tutto. Ne porse una di rame alla vecchia, che in cambio diede loro un sacchetto di tela pieno di dolci. 
Al banco vicino un cliente e un uomo piuttosto grasso stavano negoziando sul prezzo di un drappo di seta rosso sangue.
- Quaranta monete d'oro e non se ne parla più. -
- Certo, come no! Pensi che questo straccio valga così tanto? Se quella è seta di Eleuterya, tu sei magro! - gli urlò contro l'altro.
- Se hai le capacità di mercanteggiare pari a quelle di un topo, non è un mio problema! -
Ledah ridacchiò: in fin dei conti non era poi così diverso dalla vita che si conduceva ad Alfheim. Mentre passeggiavano, l'elfo ebbe modo di osservare gli umani che gli sfilavano accanto. Erano tutti vestiti bene, come si confaceva alle feste. Le ragazze giravano in coppia, ancheggiando davanti ai giovani che desideravano sedurre, mentre i bambini giocavano a rincorrersi, nascondendosi sotto le bancarelle o negli anfratti più improbabili. E tutti i loro volti erano sereni, distesi in sorrisi di pura felicità, come se la guerra non li riguardasse affatto.
Con le dita impiastricciate di zucchero, Melwen gli porse una mela candita. Ledah l'accettò volentieri, assaporando sulla lingua quel gusto estremamente dolce e succoso. Percorsero tutte le vie in lungo e in largo soffermandosi a guardare le merci esposte, finché non giunsero nella piazza principale. Dalla parte opposta un'orchestra si stava disponendo su un piccolo palco allestito con decorazioni sgargianti, mentre al centro si erano raggruppate un po' di persone, tutte con il viso coperto da una maschera.
Ledah si girò verso Melwen perplesso, in attesa di delucidazioni.
- Vedi, oggi si dice che sia il giorno più propizio per trovare il vero amore. Non appena inizierà la musica, tutti i ragazzi in piazza si metteranno a ballare con una fanciulla a caso, che poi diventerà la loro futura sposa! Non è romantico? -
“No, per niente.” 
- Beh, allora vai anche tu a ball... - 
Non fece in tempo a finire, che un uomo dai lunghi baffoni scuri gli si parò davanti, porgendogli una maschera: - Balla con questa bellissima principessa, messere! Una moneta d'argento per due maschere. - 
Ledah indietreggiò: - No, non mi interess... - 
Dei singhiozzi lo ammutolirono. Quando si voltò, si scontrò con gli occhi di Melwen, che si erano riempiti di lacrime per la delusione.
- Quindi... non mi consideri abbastanza bella? - piagnucolò.
- N-no, non ho mai detto questo... - balbettò impacciato.
Il mercante incrociò le braccia al petto, battendo il piede a terra irritato. L'elfo osservò entrambi, poi con malagrazia prese la maschera e la indossò. Proprio allora una melodia romantica riempì l'aria, mescolandosi agli odori e al dolce profumo di zucchero e fiori. 
Mentre veniva trascinato in mezzo alla piazza, per un momento gli parve di scorgere una folta chioma rossa. Aguzzò la vista e scorse una donna mascherata avvolta da una semplice tunica blu, che le stava aderente sul busto e più larga dai fianchi in giù, in maniera tale da mettere in risalto i seni sodi e le curve perfette. Pensò subito che fosse bellissima e man mano che avanzava, spintonato dalla folla, ne coglieva sempre più particolari: le gambe tornite e magre, il collo sottile e i capelli rossi come fiamme lunghi fin oltre metà schiena. Quando si soffermò sugli occhi della ragazza, il cuore di Ledah mancò un battito: erano di un verde intenso, eppure sembravano leggermente opachi, come se un velo li celasse e non permettesse loro di vedere nitidamente le cose. Quegli occhi potevano appartenere solo ad una persona, una persona che lui credeva lontana da lui mille miglia. Il suo nome gli scivolò fuori dalle labbra in un sussurro incredulo, senza che se ne accorgesse.
- Airis. -

 
 

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Capitolo 19
*** Inseguimento ***


19

Inseguimento


 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Airis odiava le feste. Fin da quando aveva memoria, non era mai stata un'amante delle fiere di paese e persino il giorno della sua nomina a Cavaliere del Lupo si era velocemente volatilizzata subito dopo la cerimonia, poco prima che iniziassero le danze. Il frastuono, il miscuglio di voci, la frenesia e la baraonda che caratterizzavano le feste le provocavano spesso un senso di oppressione e smarrimento. In più la sua ben nota mancanza di socievolezza faceva sì che provasse una vera e propria repulsione per le occasioni mondane. Quando aveva scoperto che a Luthien si sarebbero celebrati i festeggiamenti in onore di Seleneide, la dea dei boschi e del raccolto, si era ripromessa di rimanere in disparte come suo solito.
La locanda in cui la comitiva proveniente da Amount-vinya aveva deciso di fermarsi era un piccolo edificio rustico, collocato vicino alle porte della città. Al proprietario, un certo Lerch, un uomo grasso con la faccia rubizza e il naso perennemente rosso, era quasi venuto un infarto quando aveva visto arrivare quella carovana di disperati. Tuttavia, non appena Alan gli aveva raccontato la loro tragica storia, preso a compassione si era offerto di dar loro ospitalità ad un prezzo irrisorio. Nonostante le stanze dal soffitto basso leggermente polverose, nessuno dei viaggiatori aveva avuto nulla da ridire: l'idea di poter finalmente dormire su soffici materassi di paglia, circondati dalle mura sicure della città, aveva scacciato in molti il nervosismo.
- Ciao, Caillean! - la salutò Myria con un sorriso raggiante, raggiungendola al tavolo a cui stava mangiando.
Airis alzò distrattamente lo sguardo dalla sua porzione di arrosto e piselli, stupita. Era strano infatti vedere la donna comparire così presto nella sala comune: di norma, la guerriera era sempre la prima ad arrivare, così da avere l'occasione di poter mangiare in santa pace, senza il fastidioso berciare degli altri ospiti della locanda.
- Buonasera, Myria. - la salutò, ricambiando il sorriso.
- Posso sedermi vicino a te? - cinguettò con un'allegria sospetta.
- Certo, prego. - con un lieve cenno della testa le indicò la sedia vuota di fronte a sé.
Myria si accomodò con grazia e cominciò ad osservare la grande sala comune con fare pensoso. Era un locale ampio e pieno di spifferi, che facevano crepitare le fiamme del grosso camino posto in fondo alla stanza. Vicino alle pareti in mattone rosso erano state impilate delle enormi botti di legno, dalle quali i servi attingevano un delizioso vino fruttato. Nelle ore dei pasti, la sala si gremiva di persone: cittadini, forestieri e contadini si mescolavano con mercanti e viandanti d'ogni regione, in un'accozzaglia di lingue, suoni e risate insopportabile per il suo udito sviluppato. Però gli abitanti di Amount-vinya adesso sembravano gradire quella compagnia, dopo giorni di solitudine e terrore. Più volte Airis aveva visto Alan e Baldur scambiare battute con le guardie di Luthien come vecchi compagni di bevute, mentre Myria cianciava con le donne di lì con la stessa complicità con cui avrebbe parlato con i propri familiari. 
L'unico che rimaneva in disparte assieme a lei era Fenrir. Quando erano giunti alla locanda, Lerch aveva storto il naso alla vista del Drow che aveva quasi rischiato di non avere una camera, se non fosse stato per il tempestivo intervento di Alan, che aveva accampato prontamente una scusa, riferendo all'oste che Fenrir era un suo fedele servitore. Il volto dell'elfo, in quell’occasione, era rimasto impassibile, ma Airis aveva percepito la rabbia e la frustrazione che provava. Tuttavia, era l'unico modo per evitare di essere cacciato, data la brutta reputazione del suo popolo.
- Allora, di cosa volevi parlarmi? - indagò circospetta, ingoiando l'ennesimo pezzo d'arrosto.
- Sei a conoscenza del fatto che domani ci sarà la festa dedicata a Seleneide? -
- Ah, davvero? Non lo sapevo. - mentì.
Aveva come l'impressione di aver capito dove l’amica volesse andare a parare.
Myria si grattò la nuca e posò distrattamente lo sguardo su un giovane servo, che correva avanti e indietro trasportando su un vassoio succulenti spiedini di carne. Airis udì la voce alterata di Lerch provenire dalle cucine, segno che tra poco la sala comune si sarebbe gremita di gente, perciò inghiottì l'ultimo boccone e si alzò con l’intenzione di filarsela. Myria la fermò stringendole un polso e la pregò con lo sguardo di aspettare.
- Mi... mi accompagneresti? Sai, non conosco molto bene la città e non mi va di andare in giro da sola. - si morse un labbro a disagio.
Per un attimo Airis intravide la stessa scintilla di terrore di quando quel brigante l'aveva afferrata e sbattuta a terra. La fissò, cercando di non far trapelare la compassione: Myria era una donna forte e sapeva che non ne sarebbe stata felice.
- Allora? Posso sperare nella tua compagnia, Caillean? -
Airis fece per rispondere, quando si accorse che la sala era ormai completamente piena di avventori. Le panche, prima vuote, erano state occupate dagli ospiti di passaggio e dagli ex-abitanti di Amount-vinya, e persino un piccolo drappello di guardie si era appropriato del tavolo vicino al loro. In pochi minuti l'ambiente venne riempito da un'atmosfera vivace, caratterizzata da un sonoro chiacchiericcio condito dalle grasse risate dei commensali. 
- Ne parliamo domani, va bene? - 
Poi si liberò dalla stretta di Myria e si diresse a grandi falcate verso le scale. Man mano che il brusio della sala comune scemava, Airis si sentì sempre più tranquilla. 
Normalmente non avrebbe avuto problemi a rimanere in mezzo a persone che non conosceva, in fin dei conti quando era diventata Cavaliere aveva dovuto affrontare una cerimonia a cui aveva assistito quasi tutta la capitale ed era riuscita a sopravvivere. In più, quando era entrata nell’esercito si era trovata molto spesso a combattere spalla a spalla con soldati di cui ignorava persino il nome e negli accampamenti era impossibile rimanersene isolati più di tanto. Però, dopo tanto tempo che si era affidata al rinnovato senso della vista, non riusciva più a tenere sotto controllo l'udito come quando era cieca. Ogni volta che le capitava di varcare la soglia di una stanza affollata, una violenta ondata di parole, battute e risate proferite da una miriade di voci dissonanti la assalivano con un impeto scioccante. Aveva l’impressione che il suo cervello venisse sballottato da forti correnti contrarie, e più cercava di arginare quei rumori molesti, più si sentiva stordita ed inerme. Per l'ennesima volta Airis maledisse Ledah e le sue magie da strapazzo, che le impedivano di condurre una vita normale. O meglio, la vita a cui era abituata.
Salì una rampa di scale, percorse uno stretto corridoio e infine arrivò davanti alla porta della sua camera. Ormai i rumori al piano di sotto erano un lieve brusio di sottofondo, ma la testa le doleva troppo per ponderare anche solo l'idea di tornare laggiù, dove aveva liquidato l'amica in modo maleducato. Ma Myria poteva aspettare fino alla mattina seguente, la sua testa no.
Si buttò sul letto con un sospiro stanco, godendosi la sensazione di morbidezza delle coperte. Strinse il cuscino al petto e si girò verso la finestra, cercando di svuotare la mente da tutti gli stralci di conversazione che era stata costretta ad ascoltare. Si concentrò sul picchiettare della pioggia sui vetri e osservò in silenzio il percorso delle gocce su di essi. Cambiò posizione e si sfilò pigramente gli stivali di pelle: erano un prestito di una delle figlie di Lerch e sperò con tutta se stessa che non si fossero completamente rovinati dopo tutta l'acqua che avevano preso.
Quel giorno il tempo non era stato dei migliori e la coltre di nubi non accennava ancora a spostarsi, continuando a tormentare Luthien con temporali intermittenti. Sembrava che anche il cielo si divertisse a metterle i bastoni tra le ruote.
Da quando era giunta lì insieme alla carovana, Airis era andata a fare un giro per la città, per cercare di capire quale legame la unisse con il suo sogno, ma ancora non aveva scoperto nulla. Era semplicemente un modesto agglomerato di case, dove le maggiori attività consistevano nella pesca e negli scambi commerciali con la vicina Nilda. L'unica cosa particolarmente pregevole di quel posto era l'antico orologio del tempio dedicato a Seleneide: era una torretta in pietra bianca, sormontata da questo grandioso marchingegno, le cui lancette e i simboli delle ore rilucevano di oro zecchino. Tale lusso per un’opera edilizia contrastava visibilmente con lo scenario circostante, assai più semplice e meno raffinato. Secondo una leggenda popolare, la sua costruzione era stata ordinata da Molek il Grande, il re che durante la guerra del Centesimo Solstizio aveva guidato le truppe umane al fianco di Arawan, il valoroso sovrano degli elfi, che aveva portato alla vittoria il suo popolo e gli alleati e sconfitto Aesir, il malvagio sovrano dei Drow. Molek aveva voluto festeggiare la vittoria contro di loro facendo costruire nella sua città natale, proprio Luthien, un monumento che ricordasse quel grandioso evento. Di solito l'orologio scandiva precisamente tutte le ore della giornata, ma durante i quattro giorni sacri a Seleneide il rintocco delle campane risuonava nell'aria soltanto tre volte, cioè nei momenti che scandivano lo scorrere della vita: l'uomo nasce come l'alba sorge oltre l'orizzonte, cresce e sboccia in tutto il suo splendore proprio come il sole raggiunge lo zenit e infine si spegne come l'astro diurno cala al tramonto.
Le venne da sorridere quando il pensiero di essere morta tornò ad accarezzarle la coscienza. Era morta anni prima, eppure camminava ancora sulla terra. Per giunta, era alla mercé di un demone con serie turbe mentali. Non sapeva se ridere o piangere del paradosso che era diventata la sua esistenza.
Poi rammentò l'incubo e il suo sguardo si incupì. Era più che certa che la città che aveva visto in sogno fosse Luthien, ma non riusciva ancora a cogliere il filo conduttore. Luthien non era stata affatto distrutta come aveva sognato, né, da quello che sapeva, vi era mai stato compiuto un massacro, almeno non di recente. Inoltre, i pochi draghi che ancora esistevano vivevano all'estremo Nord, al di là dei monti Eresse, oppure erano al servizio dell'Ordine dei Cavalieri della capitale.
''Tutto ciò non ha senso.'' 
Comunque non poteva essersi trattato solo di un sogno. L'intuito le suggeriva che in quello che aveva visto c'era un fondo di verità, nascosto sotto i detriti di un passato che voleva dimenticare e che invece non accennava a cessare di tormentarla.
Inoltre, c'era ancora il mistero del frammento. A prima vista poteva sembrare un banalissimo cristallo, se non fosse stato per il fatto che l'aveva rinvenuto vicino a dei cadaveri. Chiuse gli occhi al ricordo di quella macabra visione: i dieci sacerdoti col volto deformato in un'espressione di puro terrore, la pelle rugosa tirata sulle ossa in rilievo e gli occhi vitrei di chi ha visto la morte in faccia. Quel cristallo doveva aver avuto un suo ruolo durante l'incantesimo che aveva raso al suolo l'intera Llanowar, ma ancora non aveva scoperto nulla, anche perché con tutte le peripezie che le erano capitate si era dimenticata di indagare nel dettaglio.
Decise di rimandare le riflessioni all'indomani e si lasciò cullare dal tepore delle coperte e dal picchiettare della pioggia sul vetro della finestra.
Dopo un lasso di tempo incalcolabile, una voce vellutata riecheggiò nella sua mente, provocandole un brivido lungo la schiena: - Caillean, svegliati. -
Percepì il materasso piegarsi sotto il peso di una nuova presenza, qualcuno che ora le stava leccando l'orecchio, percorrendone il profilo con esasperante lentezza. Se la voce non fosse appartenuta a Lysandra, sarebbe stata piacevole da ascoltare. Aveva un tono dolce, melodioso e allo stesso tempo severo e minaccioso. Una mano gentile le scostò una ciocca dal viso, affondando poi le dita nella folta chioma rossa con irruenza. Il Lich le girò il capo di scatto e lo tenne fermo in una presa salda, gli artigli che già penetravano nella pelle sensibile della cute.
- Dai, non fare la bambina capricciosa, Caillean. Se continui a fingere di dormire, dovrò punirti. -
Airis schiuse le palpebre, incrociando quei crudeli occhi cremisi.
- Non posso neanche riposare in pace? - scherzò, nel tentativo di mascherare il nervosismo crescente dietro uno strato di ironia.
Lysandra scoppiò a ridere, evidentemente divertita dalla battuta, e Airis tirò un sospiro di sollievo. Vedere il demone con un'espressione diversa dal solito sorriso sadico la tranquillizzò. Sapeva quanto potesse essere pericoloso farla arrabbiare e già più d'una volta aveva dovuto pagare le conseguenze di una risposta sbagliata. Cibarsi della carne di Ignus era stata una di queste.
- Stasera sei di buon umore? - le chiese il Lich, mentre attorcigliava pigramente una ciocca dei capelli della ragazza attorno al dito.
- Diciamo di sì. Ora, se volessi lasciarmi dor... -
- Non prima di averti nutrita e spiegato cosa devi fare in questa città. - 
Avvicinò il viso al suo ed Airis trasalì nello scorgere un lampo ferale baluginare in quelle iridi diaboliche.
- Ti avevo ordinato di eliminare un certo elemento fastidioso, ricordi? - 
Le mani di Lysandra tracciarono il profilo del seno della guerriera con lentezza, stuzzicando i capezzoli nascosti sotto la tunica di lana. Airis tentò di sottrarsi a quel gioco perverso al quale la sottoponeva continuamente per umiliarla, lordandole l'anima con la sua corrosiva oscurità. Eppure, per quanto desiderasse spingerla via, il suo corpo rimase immobile e inerme sotto quelle dita, che si destreggiarono con abilità sui lacci del corpetto, aprendolo il necessario per scoprire i seni sodi.
- Come ti ho ribadito l'ultima volta, questo piccolo scarafaggio potrebbe causarmi non pochi problemi. È un grande esperto di magia elfica e conosce cose che non dovrebbe sapere. - 
Le titillò il capezzolo con la punta della lingua, per poi cominciare a succhiarlo con delicatezza. Nel frattempo, le dita della mano agguantarono l'altro seno con decisione. Airis provò a dire qualcosa, ma le parole le morirono in gola, strozzate da un gemito sommesso. Un fremito corse lungo il suo corpo, mentre una brama intensa e cocente le invadeva il ventre. Più si sforzava di rimanere ancorata alla realtà, più il suo corpo sembrava cedere a quelle carezze sensuali e al fascino magnetico che Lysandra riusciva ad esercitare su di lei.
Il Lich fece scendere l'artiglio lungo il petto della guerriera, sempre più giù, senza mai distogliere lo sguardo dal suo viso. Giocherellò coi lacci del pantalone, umettandosi le labbra di tanto in tanto.
- Per farla breve, il tuo bersaglio è il mago di questa città ed è molto potente. Io, purtroppo, non riesco a rintracciarlo e nemmeno i demoni che ho inviato qui una settimana fa l'hanno trovato. Ma io so che tu farai la brava bambina e lo eliminerai per me, vero? - 
La sfiorò in mezzo alle gambe, disegnando il profilo delle cosce con tocchi lievi, e con la mano libera lasciò scivolare via la veste di seta nera che fasciava il proprio corpo per esporre il seno. Su un capezzolo svettò un lieve taglio sanguinante e, in uno sprazzo di lucidità, Airis si domandò quando Lysandra se lo fosse procurato. Tuttavia, l'effluvio del sangue le invase le narici e il cervello e presto avvertì l'antica fame risvegliarsi in lei, un bisogno impellente di cibarsi, di gustare sul palato quel sapore ferroso. Si avventò sulla ferita, cominciando a leccare quel nettare divino con foga animale. Non appena il liquido le scese lungo la gola, il mondo arse tra le fiamme e i pensieri vennero inghiottiti da una tempesta infuocata. Rimase solo lei e il suo urgente desiderio. Poi Lysandra si ritrasse bruscamente, allontanandosi da Airis con un sorrisetto compiaciuto. 
Le passò il dito sulle labbra asciugando un leggero rivolo di sangue e, come avrebbe fatto una madre affettuosa, le chiese in un bisbiglio: - Sei sazia? -
Anzi, più una mantide religiosa, una madre che uccide e divora i suoi figli.
La guerriera assentì debolmente, ancora frastornata. Non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata sicuramente l'ultima, però, nonostante tutto, Airis non riusciva ad accettare che il demone avesse tutto quel poter su di lei. A più riprese aveva pensato di ribellarsi, ma sapeva che non sarebbe riuscita a sopravvivere senza il suo sangue: senza la linfa vitale di Lysandra, presto avrebbe perduto ogni stilla di razionalità e in tempi brevi si sarebbe trasformata in una non-morta, priva di qualsiasi forza di volontà. Allora, il suo corpo sarebbe caduto in balia dei capricci del demone. Ma perché ogni volta che si sottometteva alle brame di quella donna si sentiva sempre così sporca, così... sbagliata?
Strinse i pugni e affondò le unghie nei palmi per non perdere il controllo.
- Il mago che devi uccidere si chiama Copernico. - proseguì Lysandra rivestendosi, - Cerca di farlo più in fretta possibile, sa fin troppe cose su di me e su di lui. -
Airis si mise a sedere sul letto e studiò la figura di Lysandra.
- Di lui... chi? - azzardò.
Il Lich non amava particolarmente rispondere alle domande, ma quella sera sembrava di buon umore. Forse, se Airis giocava bene le sue carte, poteva carpire qualche informazione in più sui suoi piani. L’altra la guardò stizzita, gli occhi rossi che la scrutavano nell'oscurità.
- Ti ho già detto che Ledah ci serve per un certo rituale. Copernico sta indagando su quello che vogliamo fare e temo possa metterci i bastoni tra le ruote. - spiegò sbrigativa.
Airis annuì celando un piccolo ghigno divertito: allora c'era qualcuno di cui quella bastarda aveva paura.
- Svolgi bene il tuo lavoro, Caillean. Ne va della tua sanità mentale. - concluse con una nota minacciosa nella voce.
Poi, prima che la guerriera riuscisse a proferire una sola parola, la sagoma di Lysandra divenne un tutt'uno con le ombre della stanza e scomparve inghiottita dalle tenebre.
Airis rifletté. Il fatto che oltre a Lysandra c'era qualcun altro che tramava alle sue spalle non la tranquillizzava affatto, anche se comunque fin dall'inizio aveva ipotizzato che il demone avesse qualche potente alleato. Ora che ne aveva avuto la conferma doveva assolutamente scoprire chi fosse.
 
- Dai, smettila di fare quella faccia, Caillean! Questo vestito ti dona moltissimo, sul serio! - la blandì Myria, mentre la trascinava verso l'ennesima bancarella di sete e stoffe dai colori vivaci.
Airis tentò una debole resistenza, ma la presa della donna era troppo salda perché potesse opporvisi.
Quella mattina aveva annunciato a Myria che accettava volentieri il suo invito per andare alla fiera di paese, soprattutto perché si sentiva in colpa per come l'aveva trattata la sera precedente, ma neanche nei suoi incubi peggiori avrebbe immaginato di essere costretta ad indossare un vestito. Nemmeno sua madre, quando Airis era piccola, era riuscita a fargliene mettere uno e per lei non era mai stato un problema. Anzi, preferiva di gran lunga bardarsi con la sua armatura, piuttosto che avvolgersi in quegli eccentrici e vistosi drappi tanto amati dalle fanciulle. Quando Myria l'aveva saputo, aveva fatto una faccia talmente indignata, che per un attimo Airis aveva temuto avesse intenzione di sottoporla alla solita ramanzina sulla femminilità, proprio come era solita fare sua madre.
L'odore di terra ed erba bagnata aleggiava nell'aria, mescolandosi a quello del pane appena sfornato e delle torte sulle bancarelle. La guerriera camminava al passo con Myria, stando attenta a non calpestare accidentalmente le varie pozzanghere disseminate sulle strade. Aveva smesso di piovere all'alba, ma il suolo non era ancora totalmente asciutto.
- Immagino che questo fosse strettamente necessario. - farfugliò tra sé e sé, osservando con scarso interesse le stoffe esposte su una bancarella.
- Ovviamente! - esclamò la donna in tono solenne, - Oggi è anche la giornata perfetta per trovare l'amore della propria vita. Non puoi farti sfuggire un'occasione simile! -
- Myria... - inspirò profondamente e soffocò l'impulso di girare i tacchi e tornarsene alla locanda, - Sono un soldato. Non mi serve un uomo. -
L’amica ridusse gli occhi a fessure e scosse la testa rassegnata, come se stesse discutendo con una bambina testarda.
- Il fatto che tu non l'abbia mai cercato non significa che non lo troverai. Se ti sforzassi d'essere leggermente più femminile, avresti uno stuolo di ammiratori ai tuoi piedi. Perché non provi a divertirti un po'? Prendilo come un gioco. Hai fatto così tanto per noi e oggi è un giorno di festa... -
Airis sospirò arresa. Se Myria l'aveva invitata era perché gradiva la sua presenza e anche a lei, alla fin fine, non dispiaceva passare del tempo in sua compagnia. Poteva comunque reperire le informazioni di cui necessitava mentre girava per il mercato. La sera prima era stata già abbastanza pesante, perciò magari poteva permettersi di rilassarsi per quelle poche ore.
- Va bene. Però cerca di non fermarti da ogni bancarella, altrimenti si fa notte. -
La donna scoppiò a ridere divertita, poi annuì e riprese a spulciare tra le stoffe.
Intanto Airis si guardò intorno, studiando il continuo via vai di gente. Ricordava che anche a Merite si teneva una festa simile, ma l'avversione che gli abitanti provavano nei confronti della sua famiglia le aveva sempre impedito di parteciparvi. Le strade di Luthien erano un caleidoscopio di colori e suoni, una sinfonia di profumi che la stordiva e la esaltava allo stesso tempo. Vide un giocoliere che intratteneva i bambini con dei semplici trucchi di magia, mentre i saltimbanchi si prodigavano in mirabolanti acrobazie ai lati delle strade. Gruppetti di mogli accompagnate dai loro mariti si soffermavano davanti alle bancarelle esaminando la merce in vendita e i mercanti contrattavano sul prezzo a gran voce, incuranti delle facce irritate dei passanti. Osservò curiosa l’incedere aggraziato delle giovani fanciulle, il loro modo di parlare, muoversi e scherzare con le amiche, e non poté fare a meno di sorridere, assaporando quella normalità che da anni non le apparteneva più.
- Vedi che non è così brutto? - Myria le si avvinghiò al braccio e la trascinò verso un altro commerciante di vestiti.
Airis si lamentò con un borbottio indistinto, incapace di mettere insieme una vera e propria frase. Anche se non voleva ammetterlo, si stava divertendo, specialmente nel notare con quale professionalità l'amica discuteva coi mercanti sul prezzo, uscendone spesso vincitrice.
- Sai, quando vivevo ad Amount-vinya avevo un negozio di spezie tutto mio. Durante le fiere riuscivo sempre a spuntarla su tutti i miei concorrenti proprio grazie alla mia eloquenza. - si vantò e le mostrò entusiasta il nuovo abito che aveva appena comprato.
Airis assentì, sinceramente sbigottita dalla grande abilità di Myria, chiedendosi come avesse fatto a convincere il venditore a cederle quel vestito di pura lana a sole dieci monete di rame.
Camminarono ancora un po' e Myria continuò a chiacchierare senza sosta, raccontandole alcuni aneddoti spassosi risalenti al periodo in cui viveva ancora nella sua vecchia città. Airis l’ascoltava con attenzione, gustandosi il suo amabile cicaleccio senza perdersi nemmeno un dettaglio. Sebbene fosse più un monologo che una vera conversazione, la giovane si rilassò e si fece cullare dalla voce e dai racconti di quella donna con la faccia paffuta, che si stava impegnando tanto per farla sentire una ragazza normale.
Ad un tratto udì una risatina soffocata alle sue spalle. Si voltò e puntò gli occhi su Myira che, nonostante avesse fatto il possibile per tornare seria prima di essere colta in flagrante, celava a malapena l'ombra di un sorriso dietro la mano. In effetti, dopo essere rimasta indietro per prendere della frutta candita da un chiosco, non aveva cercato in alcun modo di raggiungerla, come se volesse guardarla da un’altra angolazione.
- Qualcosa non va? - la interrogò.
- Nulla, nulla... - la donna  tossicchiò e tentò di ricomporsi.
La guerriera corrugò le sopracciglia senza capire.
- Tu sai che oggi potresti trovare l'amore della tua vita, no?- 
Airis incrociò le braccia al petto, storcendo le labbra: - Sì, è da stamattina che continui a ricordarmelo e credo di averti già detto che non mi interessa. -
Myria sospirò e scosse il capo sconsolata. A volte si domandava se quella giovane guerriera fosse mai uscita da un accampamento militare.
- Per gli dei, Airis, sei molto bella! Potresti almeno provare ad essere un po' più aggraziata. Sennò che senso avrebbe avuto farti indossare un vestito? -
- Sì, va bene, ci proverò. - la liquidò in tono monocorde, che però non riuscì a nascondere una nota di esasperazione.
Proseguirono fino alla piazza centrale, dove dei musicisti si stavano sistemando sul piccolo palco allestito per l'occasione. Airis intravide le figure sfocate di una decina di uomini e donne, tutti vestiti in ghingheri e col volto coperto da una maschera. Scoccò un’occhiata confusa alla sua accompagnatrice.
- E’ un'usanza del posto, mia cara. Lerch mi ha detto che, secondo la tradizione, i giovani devono tenere nascosto il loro volto, affinchè sia la forza dell'amore e non l'aspetto fisico ad unire le future coppie. - la fissò con aria sognante, - Non lo trovi romantico? -
Airis annuì debolmente: qualcosa nella voce della donna le suggeriva che fosse meglio assecondarla senza discutere.
- Potresti provare anche tu, che ne dici? - insinuò poi, puntandole addosso uno sguardo che le procurò un brivido freddo.
Era lo stesso che le aveva regalato quando le aveva annunciato che sarebbe venuta con lei alla festa e quando le aveva confessato di non aver mai indossato un abito da donna. Airis presagiva guai. Tentò di allontanarsi, ma prima di poter anche solo elaborare un piano per sfuggire alle grinfie di Myria, lei le legò sul viso con gesti rapidi una maschera e la sospinse verso la folla. In pochi istanti si ritrovò avviluppata in un vortice di corpi che danzavano al ritmo della musica.
"Sapevo che sarebbe andata a finire così…"
Provò a farsi largo attraverso la calca, ma a nulla valsero i suoi sforzi. Alle sue orecchie giunsero le risate degli astanti, mischiate alle note allegre che la banda aveva attaccato a suonare, col risultato di sentirsi sempre più intontita. In un secondo un mal di testa atroce si impadronì di lei, annientando le ultime difese del suo cervello. Quei rumori, uniti ai profumi delle cibarie e alle immagini sfocate che riusciva ancora a distinguere, le tartassavano violentemente i sensi. Stordita da quella miriade di sensazioni, non si accorse di essere stata sospinta al centro della piazza. Improvvisamente, qualcuno la afferrò e la strinse, come per proteggerla. Percepì una mano piuttosto impacciata accarezzarle i capelli con gentilezza, mentre l'altra le avvolgeva la vita e la cullava seguendo i movimenti di una danza un po’ più lenta.
Airis alzò il viso, innervosita dal contatto fisico e desiderosa di scoprire a chi appartenessero quelle braccia. Incontrò un paio di occhi muschiati. Alcuni ciuffi neri, simili a cicatrici d'inchiostro, ricadevano disordinatamente sulla maschera bianca, mentre una lunga treccia era adagiata sulla spalla destra. Per un momento pensò che quel ragazzo somigliava a Ledah, ma poi non poté fare altro che darsi della stupida: non aveva senso che l'elfo si trovasse a Luthien. Probabilmente stava cavalcando verso mete ignote a centinaia di miglia da lei, per fare chissà cosa.
Rivangò gli ultimi istanti della lotta contro Ignus, anche se non era del tutto cosciente quando Ledah aveva sfidato il Generale, ma rammentava distintamente quello che aveva detto.
- Non dirmi che sei innamorato di lei! -
Immersa in un oblio spesso e fitto aveva pensato che non fosse possibile che quell'elfo potesse provare qualcosa per lei e probabilmente era stato solo un tentativo di Ignus di far perdere le staffe a Ledah. Eppure qualcosa le suggeriva che in quelle parole sputate con tanto odio e disprezzo risiedesse un fondo di verità.
Scosse il capo con veemenza, respingendo quelle considerazioni con tutta se stessa: aveva guidato le armate umane contro Llanowar, mettendo a ferro e fuoco una delle più antiche foreste dell'intera Esperya. Ledah non aveva alcun motivo per proteggerla, figuriamoci amarla.
"Nessuno può amare un nemico, tanto meno un mostro."
Una come lei non avrebbe nemmeno dovuto essere lì. Airis era un’assassina in cerca della sua preda, non una ragazza che sperava di trovare l'amore della sua vita nello sconosciuto con cui stava ballando.
- Non serve che balli con me. - sussurrò, cercando di non farsi sentire dalla altre coppie, - Sono capitata qui per sbaglio e la mia amica mi ha buttata nella mischia. -
Fece per allontanarsi, ma il giovane la strinse a sé, come a volerla invitare a rimanere. Aveva una presa salda, ma Airis sentiva che, se avesse insistito, sarebbe riuscita ad andarsene senza incontrare resistenza. Per quanto non le piacesse trovarsi così vicina ad un estraneo, ammise che sarebbe stato abbastanza scortese piantare in asso di punto in bianco quel ragazzo come se nulla fosse. In fondo, l’aveva aiutata.
Osservò le persone attorno a lei e notò che le fanciulle avevano affondato il viso sulla spalla dei loro cavalieri, mentre questi ultimi le avevano avvolte in un tenero abbraccio. L'idea di farsi toccare in quel modo da un perfetto sconosciuto non la entusiasmava per niente, ma quel giovane misterioso non pareva avere cattive intenzioni. Inoltre, erano gli unici che continuavano a mantenere un certo distacco e già alcuni fra il pubblico li stavano fissando con aria interrogativa. Per evitare di attirare ulteriormente l'attenzione, poggiò la testa sul suo petto e si lasciò cingere dalle sue braccia. Era molto più alto di lei, ma ad Airis non importava, non ora che finalmente quell'odioso mal di testa aveva finalmente deciso di concederle una tregua.
I suoni intorno a loro sfumarono, stemperati dal calore di quel goffo abbraccio. Era una sensazione nuova per Airis, un sentimento di pace che non provava da tempo.
Quando la musica cessò rimasero vicini, intrappolati l'uno nello sguardo dell'altro.
- Meglio che vada... - disse infine Airis, scivolando via dalla presa del compagno.
Quello assentì e la imitò.
In quel momento Myria le si accostò, le labbra stirate in un sorriso smagliante: - Oh, vedo che alla fine hai trovato qualcuno con cui danzare! -
La guerriera si disfò della maschera e le indirizzò uno sguardo colmo di rancore, che però la donna non parve cogliere.
- Allora? Non mi presenti? - cinguettò contenta, prendendola sottobraccio e ammiccandole, - Sai, questa fanciulla - si rivolse al giovane, - credeva che non avrebbe mai trovato un cavaliere, invece, da quello che vedo, è pure bello. Togliti la maschera anche tu, dai. - lo esortò, senza curarsi di nascondere la curiosità.
Airis vide distintamente la vena del collo del ragazzo pulsare più velocemente, mentre i suoi occhi guizzavano con agitazione da una parte all'altra: evidentemente non si aspettava un simile risvolto.
Airis fu sul punto di interrompere il teatrino e portare via Myria, quando una bambina dai capelli biondi si materializzò a fianco del giovane. La faccina punteggiata di lentiggini era contratta in una smorfia di disappunto e, a giudicare dai lampi che mandava dagli occhi, doveva essere piuttosto arrabbiata.
- Ledah! Come hai potuto mollarmi così, eh?! - si lagnò.
Airis si girò di scatto verso di lei: - Come l'hai chiamato? -
La bambina la squadrò perplessa: - Ledah... perché? E tu chi sei? -
La guerriera soffermò nuovamente l'attenzione sul ballerino mascherato, studiandolo meglio. “Ledah” non era un nome comune e sicuramente ben pochi umani in tutta Esperya ne portavano uno di origine elfica. Incrociò le braccia al petto.
- Già, Ledah... - calcò su quella parola e lo fissò con aria truce, - perché hai lasciato questa bambina da sola? -
"Ma, soprattutto, che cavolo ci fai qui?"
Il giovane ricambiò il suo sguardo per alcuni istanti, chiuso in rigoroso silenzio, poi si girò e cominciò a correre verso la strada maestra, sgusciando con sorprendente agilità in mezzo alla folla, in un palese tentativo di fuga. Airis si gettò immediatamente al suo inseguimento. Spintonò senza troppe cerimonie coloro che le ostacolavano il cammino e si aprì un varco verso il fuggitivo. Farsi largo in quella marea umana era un'impresa e tenere il passo di Ledah era ancor più difficile, considerando che stava indossando un abito lungo con una gonna piuttosto ampia, mentre l'elfo era avvantaggiato dai vestiti maschili, più adatti alla corsa. Ma non era poi così tanto distante da lei, poteva raggiungerlo. Cercando di non perderlo di vista, seguì i movimenti di quella testa nera fino al limitare della piazza, per poi vederlo imboccare la strada maestra a massima velocità. Non appena uscì dalla calca, Airis rimase per alcuni secondi a guardare con il fiato corto la figura slanciata di Ledah sfrecciare via come un lampo. 
Studiò la vistosa gonna del proprio abito per alcuni istanti e si rigirò il tessuto tra le mani. Infine scrollò la testa e strappò con uno strattone un pezzo di tessuto sulla parte davanti, liberando le gambe dall’ingombro. Quindi riprese a tallonare Ledah, più agguerrita che mai. Il vento le spettinò i capelli e le sferzò le guance. Sentiva i propri piedi staccarsi dal terreno a ritmo concitato e il sangue scorrere rapido nelle vene, mentre si lasciava alle spalle il frastuono della festa. Volò lungo la strada, scostando con malagrazia i curiosi che si frapponevano tra lei e quel maledetto elfo. Sembrava quasi non toccare terra, tanto stava correndo veloce. Ma Ledah lo era molto di più ed era sempre troppo lontano perché potesse anche solo pensare di afferrarlo. Benché i polmoni bruciassero per lo sforzo e i muscoli dolessero, si costrinse ad aumentare l'andatura. Evitò per un soffio di finire addosso a un passante, poi ne schivò un altro ma lo urtò comunque di striscio e lo fece cadere sull'acciottolato. Una furia cieca serpeggiò in lei, donandole nuova forza.
D’un tratto, l'elfo svoltò in un vicolo. Il corpo di Airis si sbilanciò pericolosamente verso destra, ma riuscì a non scivolare sulla pietra bagnata. Ledah si arrampicò lesto su una scala e, aggrappatosi ad alcune decorazioni, si innalzò fino al tetto della casa. La guerriera indietreggiò, tentando di non perdere di vista la sua figura, ma in un istante questa svanì, lasciando dietro di sé solo il rapido ticchettio degli stivali sulle tegole. Mantenne la concentrazione su quei deboli suoni il più a lungo possibile, poi ricominciò a correre seguendone la direzione. Girò l'angolo, sbucò nell'ennesima viuzza secondaria e scansò all'ultimo secondo l'uomo che si era frapposto tra lei e il suo bersaglio. Era difficile udire i passi del fuggiasco anche in quelle stradine deserte e silenziose, ma doveva continuare a correre. Doveva prenderlo a qualsiasi costo.
Dopo un po’ quel rumore svanì, sostituito da un forte tonfo. Non appena Airis lo raggiunse, scorse Ledah disteso sopra quelle che precedentemente dovevano essere state delle casse di legno, ora ridotte in frantumi. Si avvicinò con un ghigno di soddisfazione disegnato sulle labbra, il volto arrossato e madido di sudore, i capelli scarmigliati e l'abito stracciato che strusciava per terra, ormai sudicio.
- Tana per Ledah. -

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Capitolo 20
*** Il Cristallo ***


20

Il cristallo

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Ledah non riusciva a muovere nemmeno un muscolo. I frammenti di legno spingevano contro la schiena e le gambe, dandogli la sensazione di mille aghi che gli perforavano le pelle. Si guardò intorno frastornato e si maledisse per essere stato così stolto. L'idea di salire sui tetti per sfuggire alle grinfie della guerriera si era rivelata estremamente controproducente fin dall'inizio: le tegole erano state rese scivolose d alle piogge torrenziali degli ultimi giorni ed era bastato un niente per farlo precipitare di sotto. Insomma, non era proprio la stessa cosa che saltare da un ramo all'altro. 
Osservò con stizza il ghigno beffardo dipinto sul viso di Airis: lo stava fissando da un paio di minuti, gustandosi soddisfatta la sua personale vittoria. La fissò a sua volta, cercando di non far trapelare il dolore che si diramava in tutto il corpo. In particolare, trovava insopportabile quello che gli martellava il posteriore, sul quale, per l'appunto, era atterrato. Resistette stoicamente e non esibì alcuna smorfia, benché la faccia gli dolesse per lo sforzo: era già stato abbastanza umiliante scivolare dal tetto, non gli sembrava il caso di uccidere ulteriormente il suo orgoglio.
Airis si avvicinò ansante, senza distogliere lo sguardo da quello di lui: - Hai intenzione di toglierti la maschera, oppure devo provvedere io? - 
Nel suo tono di voce Ledah poté percepire chiaramente una rabbia a stento controllata. Probabilmente, se non fosse stata così provata dalla corsa, non avrebbe esitato a saltargli addosso per riempirlo di botte. 
- Allora? Non credere che non sia in grado di farlo. - 
Airis fece ancora qualche passo verso di lui. La gonna del bel vestito blu, già abbondantemente imbrattata di fango, strisciò sull'acciottolato e il corpetto era umido a causa del sudore. L'elfo pensò che un tempo quel vestito doveva essere stato un vero splendore, ma in quel momento aveva perso tutta la sua bellezza. Rotolò su un fianco cercando di allontanarsi da lei, ma i muscoli rifiutarono di muoversi e per punirlo spedirono fitte lancinanti che gli mozzarono il fiato. 
Il sorriso di Airis si allargò e con un balzo annullò definitivamente l'esigua distanza che li separava. L'altro la fronteggiò combattivo, reprimendo un moto di fastidio nel notare con quanto compiacimento lei lo stesse studiando, quasi pregustando già il momento in cui gli avrebbe strappato la maschera. In qualche modo, l'averlo catturato sembrava procurarle un immenso piacere, simile a quello che provano i bambini quando riescono a vincere al loro gioco preferito. Se fosse stato possibile, Ledah si sarebbe alzato e se la sarebbe nuovamente svignata, ma ora come ora l'unica cosa che poteva fare era evitare di regalarle quella soddisfazione. Prima che lei allungasse la mano, si tolse la maschera, gettandola ai suoi piedi con un gesto brusco, in segno di sfida. 
- Vedo che sei ancora capace di usare le mani, elfo. - lo schernì, visibilmente irritata. 
Oh, tranquilla, le ho sempre avute, nonostante tutti i tuoi tentativi di amputarmele. - sogghignò.
I lunghi capelli rossi appiccicati alla fronte, alle spalle e al viso le conferivano un aspetto selvaggio e affascinante, però Ledah subito dopo si accorse che le guance arrossate stavano riacquisendo la loro naturale sfumatura pallida. Airis torreggiò su di lui e lo scrutò con espressione minacciosa nel palese intento di intimorirlo, ma senza la sua armatura e la sua fedele spada pareva più una ragazzina imbronciata.
Si tirò su a fatica. Il dolore non era ancora completamente sparito, ma il tempo che aveva trascorso seduto lo aveva quantomeno attenuato. Le gambe ancora tremanti sorreggevano a malapena il suo peso, tuttavia aveva il netto sentore che avrebbero potuto cedere da un momento all'altro. Se fosse caduto nella foresta, si sarebbe rialzato senza molti problemi; invece, l'impatto con la pietra e con quelle dannate casse di legno era stato più violento di quanto si era aspettato. Appoggiò i palmi sul muro dietro di sé e fece leva per issarsi, cercando di contenere i grugniti sofferenti che premevano per uscire. Il suo corpo però non resse. Tentò di non lasciarsi andare, ma le dita persero aderenza e scivolarono di nuovo lungo la parete. Chiuse gli occhi, preparandosi ad atterrare ancora sulle ginocchia indolenzite e a percepire i frammenti di legno nella carne, quando una presa salda sotto le ascelle lo sottrasse inaspettatamente all'inevitabile supplizio.
- Certo che sei proprio deboluccio. - lo canzonò Airis. 
Ledah la scrutò di sottecchi e diede fondo a tutta la pazienza residua per ignorare la crudele frecciatina. Nel frattempo cercò di recuperare l'equilibrio e non pensare a quanto la vicinanza con la guerriera gli provocasse immotivate vampate di calore. Il suo cuore batteva rapido come un tamburo, ma, testardo, attribuì quella strana emozione alla fatica e allo sforzo compiuto durante la corsa. Mentre si stabilizzava sulle piante dei piedi, esaminò Airis di nascosto: sebbene fosse in pessime condizioni e il suo aspetto non fosse dei migliori, era impossibile non accorgersi di quanto fosse bella, molto più delle elfe che aveva avuto modo di conoscere durante la sua vita. Non sapeva spiegarsi cosa ci trovasse di così attraente in lei, eppure da quando l'aveva rivista alla festa non era riuscito a staccarle gli occhi di dosso o a smettere di accarezzare con lo sguardo le curve di quel corpo sinuoso. Scosse la testa, scacciando dalla mente il ricordo di quando l'aveva scorta nuda in quella casa distrutta di Alfheim, con i capelli bagnati che le aderivano alla schiena, l'incarnato niveo e delicato e l'acqua che disegnava il profilo delle sue forme, sempre celate sotto il metallo dell'armatura. Frammenti di memoria di mesi prima, che si erano impressi a fuoco nella sua mente e ancora bruciavano come marchi indelebili nella sua anima. 
Era fuggito da Airis per evitare di ucciderla, per evitare che "loro" vincessero la battaglia, schiacciassero la sua volontà e lo istigassero ad affondare la spada nella sua carne morbida e calda. Aveva cercato di mettere più leghe di distanza possibili tra sé e quell'intrigante chioma rossa, eppure, nonostante tutto, ora erano di nuovo assieme. Sembrava che il destino si divertisse a vanificare tutti i suoi sforzi per salvare le persone a lui care. Ma lei non era una persona a cui teneva: Airis era il Comandante degli umani, colei che aveva distrutto l'ultimo baluardo elfico a nord di Esperya.
"Perché l'ho salvata?" 
Quel pensiero lo colpì come una frustata in pieno volto. 
La fissò intensamente, come se smaniasse di trovare, nascosto in quei lineamenti dolci, un qualche indizio che spiegasse la propria follia, che giustificasse il suo gesto insensato. 
Sentendosi osservata, la guerriera spostò l'attenzione su di lui.
- Cos'hai da guardare? - indagò astiosa, ma perlomeno pareva meno arrabbiata rispetto a prima.
- Assolutamente nulla. Sono solo stanco. - 
Serrò le palpebre e seppellì quella sensazione di disagio in fondo all'anima.
Airis rimase perplessa alcuni istanti, tuttavia non aggiunse altro. 
Camminarono fino alla fine del vicolo in silenzio, finché Ledah non si appoggiò nuovamente alla parete. Allontanò la donna con uno sbuffo e un lieve strattone, quasi a volerle far capire che non aveva più bisogno del suo aiuto. Le gambe e la schiena protestarono, ma era sopportabile. 
Il sole iniziò in quell'istante la sua parabola discendente e venne pian piano risucchiato oltre l'orizzonte. A occhio e croce dovevano essere passate all'incirca due ore, forse tre da quando era giunto alla festa con Melwen. Doveva sbrigarsi a tornare a casa prima che l'effetto del filtro svanisse. L'unico problema era ritrovare quella piccola peste e cercare di sbarazzarsi del Cavaliere del Lupo in tempo, magari prima di mostrarle dove viveva, sennò non se la sarebbe più levata di torno.
- Beh? Perché sei qui? - 
Airis interruppe bruscamente le sue riflessioni. 
- E, soprattutto, dove sono finite le tue orecchie? Te le hanno tagliate o cosa? -
- Non potevo proseguire fino al confine senza riposarmi. - mentì, ignorando il tono derisorio delle domande, - E ho camuffato le orecchie con una pozione magica. -
- Ascolta, non sono così stupida da credere che tu abbia seriamente bisogno di un letto caldo in cui dormire. Sei un soldato, per di più elfo, e sei stato addestrato a sopravvivere nelle foreste e nei luoghi più ostili, tanto quanto me. Ti conviene dirmi la verità. -
- Altrimenti? - la sfidò Ledah, il tono gelido e tagliente.
Airis si tormentò il labbro inferiore, mordicchiandoselo con insistenza. Non aveva grandi minacce da sfruttare per spingerlo in un angolo, e senza nemmeno un'arma a portata di mano sarebbe stato inutile. 
- Senti, io ho molto, molto tempo libero, adesso. Potrei approfittare della sua attuale debolezza fisica per sopraffarti e costringerti per mezzo di torture a dirmi la verità. -
L'altro sospirò, esasperato. 
- Inoltre, - continuò bisbigliando, - credo di aver scoperto qualcosa riguardo l'esplosione che ha devastato Llanowar. -
Ledah strabuzzò gli occhi. Accorciò le distanze in un secondo e la squadrò incredulo e sospettoso, come se in quelle iridi annebbiate potesse scorgere la verità. 
- Cosa sai? -
Airis schioccò la lingua, soddisfatta d'essere riuscita ad ottenere la sua attenzione. 
- Prima andiamo in un posto dove nessuno può sentirci e poi ti dirò tutto quello che so, a patto che anche tu risponda alle mie domande. Scambio equo. -
L'elfo non era sicuro se stesse mentendo o meno, ma sembrava essere l'unica ad avere qualche informazione in più riguardo a quella tragedia. 
- E sia. - disse infine, - Andiamo a recuperare Melwen e poi vedremo il da farsi. -
Airis lo guardò interrogativa: - Melwen? -
- La bambina bionda che si è avvicinata alla fine del ballo. - spiegò. 
- Una volta trovata, andremo a casa sua. -
La guerriera inarcò un sopracciglio, scettica: - A casa sua? E dove sarebbe? -
- A un paio di miglia dalla città. È un posto sicuro dove parlare, fidati. -
- Come faccio a sapere che non stai cercando di depistarmi? -
Ledah scoppiò a ridere, suscitando un moto di stizza nella sua ascoltatrice: - Mi hai fatto la stessa domanda la prima volta che ci siamo incontrati e, di nuovo, non penso di avere neanche lontanamente le forze per tentare un'altra fuga. Non in questo stato, almeno. -
Lei lo fissò perplessa, cercando di capire se la stava prendendo in giro, senza curarsi di nascondere la profonda diffidenza stampata in faccia. L'elfo borbottò qualcosa di indefinito, ma non aggiunse altro. Quella situazione era già abbastanza paradossale senza il suo contributo.
- Va bene, andiamo. - acconsentì Airis, scostandosi l'ennesima ciocca di capelli che le era finita davanti agli occhi. 
Ledah sapeva che l'incantesimo si stava esaurendo, dato che era passato molto tempo da quando le aveva restituito il senso perduto e ne ebbe la conferma proprio quando la vide portarsi quel ciuffo ribelle dietro un orecchio: infatti, impiegò qualche secondo più del necessario per mettere a fuoco la sua figura quando tornò a scrutarlo. Notò che il verde si era contornato di un alone azzurro, che rendeva quelle iridi più opache, e la luce che aveva brillato in esse da quel giorno che erano entrati ad Alfheim stava scomparendo inesorabilmente. Sembrava trascorsa un'eternità. Era consapevole che l'incantesimo non sarebbe durato a lungo e glielo aveva anche ribadito, all'epoca. In più, ipotizzava che nessuna magia al mondo avrebbe potuto curare il male di Airis. Non ne conosceva la ragione, ma era quasi certo che la ferita del Cavaliere del Lupo avesse origini oscure: non era una semplice cecità dovuta ad un altrettanto semplice infortunio. A conferma di ciò, lo sguardo corse rapido alle impercettibili abrasioni che contornavano gli occhi di Airis e si chiese come se le fosse procurate o chi gliele avesse inferte.
- Pensi che Melwen sia rimasta in piazza? - 
- Molto probabilmente sì. Si sarà rifugiata in qualche forno a rimpinzarsi di cibo. -
Compirono il resto del tragitto in silenzio, con Airis che quasi trascinava a peso morto Ledah attraverso le viuzze della città. Le persone che si imbattevano in loro ridacchiavano divertite e maliziose, sbirciando specialmente il vestito della guerriera e il modo in cui sorreggeva quell'affascinante ragazzo dalla chioma nera come l'inchiostro. Ledah udì i loro commenti pettegoli e piegò la bocca in una smorfia. Alcuni addirittura fecero battute a proposito di quanto dovesse essere stata selvaggia quella fanciulla, tanto da costringere un bel giovanotto dal fisico prestante a zoppicare e aggrapparsi a lei per sostenersi. Altri, invece, li riconobbero come i due strani ballerini della festa, che avevano danzato tenendosi a debita distanza, e strabuzzarono gli occhi quando la notizia del loro ipotetico e passionale amplesso giunse alle loro orecchie. All'elfo parve di scorgere un accenno di rossore sulle guance di Airis, ma forse era solo un effetto causato dal movimento delle ciocche sul suo viso o il riflesso del fuoco che ardeva nelle lanterne, disposte ai margini delle strade.
Giunsero in piazza dopo una decina di minuti. La maggior parte della folla si era dispersa e il piccolo palco al centro stava venendo smontato dagli stessi suonatori che prima avevano aperto le danze. Alcune coppie erano rimaste nelle vicinanze e, stretti l'uno all'altro, ballavano sulle note di un lento immaginario, una musica che solo gli innamorati possono udire.
Ledah ispezionò l'ambiente circostante, cercando una qualche bancarella o negozio che sarebbe potuto essere di sufficiente interesse per quella testolina bionda. Conoscendola, si era sicuramente nascosta in un posto dove poter mangiare dei dolci con le poche monete che si era portata dietro. 
- Potrebbe trovarsi lì. - 
Indicò una piccola bottega di fronte a loro. Non aveva insegna, ma l'odore di crostata e pane non lasciava adito a dubbi su cosa vendesse. Si scostò da Airis e insieme si avvicinarono al negozio. Non appena Ledah entrò, un dolce profumo di zucchero e canditi gli solleticò le narici, facendogli venire l'acquolina in bocca. Al bancone, vicino a uno uomo corpulento con le mani ricoperte di farina, sedeva la piccola Melwen, intenta a divorare un pasticcio di crema e fragole.
Il fornaio alzò un sopracciglio nel vedere i due nuovi clienti, ma quel baluginio di diffidenza svanì nel momento in cui si accorse che la gonna di Airis era stata violentemente strappata, lasciando una buona parte delle gambe scoperte. Un sorriso sornione gli si dipinse sul volto e, quando Ledah incrociò il suo sguardo, l'uomo gli fece l'occhiolino, quasi a volergli far capire quanto approvasse il suo gesto. L'elfo scosse la testa, ma tacque.
- Buonasera. Cosa desiderate? - esclamò allegro, invitandoli ad avvicinarsi al bancone.
- Non siamo venuti qui per mangiare... - cominciò Ledah, ma venne immediatamente interrotto dal fornaio. 
- Nessun problema. Questa volta offro io, è un giorno di festa! Sarete entrambi stanchi... - buttò lì, lanciandogli un'altra occhiata significativa, mentre prendeva due dolcetti dalla teglia. 
L'espressione cordiale gli conferiva un'aria quasi paterna, nonostante i lineamenti del viso duri e severi, tipici delle popolazioni nordiche.
Servì loro dei cannoli ripieni di marmellata di lamponi, cosparsi con glassa di miele.
- Su, non fate i timidi. Sono buoni, vero, Melwen? - chiese, rivolgendosi alla bambina. 
La biondina distolse l'attenzione dal cibo per rispondere, ma non appena nel suo campo visivo entrarono le figure dei due clienti, emise un piccolo grido e sobbalzò sulla sedia.
- Finalmente ti sei accorta di noi, eh? - scherzò Ledah, incrociando le braccia al petto.
- Come mi avete trovata? - balbettò con la bocca impiastricciata di zucchero.
- Diciamo che ti conosco abbastanza bene da sapere dove ti saresti rintanata. - 
Prese i due dolcetti e ne porse uno ad Airis, ma lei scosse la testa in segno di diniego. L'elfo fece spallucce e addentò la frolla, osservando il viso di Melwen e traendo un certo godimento dalla sua espressione sorpresa e intimorita. Si era lasciato guidare dall'istinto per trovarla e il fatto di averla scovata lì era stato un puro e semplice caso. Eppure, nemmeno quando si era accorto di essersi allontanato da lei aveva pensato che potesse accaderle qualcosa. Scrutò negli occhi la bambina e, per un istante, gli parve di scorgere un baluginio azzurro avvolgere quelle iridi brune, lo stesso riverbero che aveva notato in quelli di tutti coloro che praticavano la magia. Come Copernico. 
Quando Melwen si accorse che la stava fissando, abbassò lo sguardo.
- Comunque... non ci hai ancora presentate. - biascicò giocherellando nervosamente con il lembo del vestitino, mentre con la coda dell'occhio squadrava Airis.
- Uhm... - Ledah inghiottì l'ultimo pezzo del dolce, - lei è Airis, una mia cara amica. - mentì con tranquillità. 
Non aveva trovato altri termini per definire il suo rapporto col Cavaliere del Lupo e d'altra parte non gli interessava granché chiarire la cosa con la figlia di Copernico. 
- Sarebbe meglio tornare a casa adesso, o tuo padre avrà sicuramente da ridire. -
Melwen aprì la bocca per protestare, tuttavia ammutolì un attimo dopo, ricominciando a tormentarsi il labbro inferiore. A Ledah non sfuggì lo sguardo carico di curiosità che continuava a rivolgergli, ma preferì affrontare quell'orda di domande fuori dalla bottega e al riparo dalle orecchie fin troppo indiscrete del fornaio.
- Dai, muoviamoci. - ordinò e si diresse verso l'uscita, seguito dai passi frettolosi di Melwen e da quelli tranquilli di Airis.
Fuori il cielo aveva già assunto le tinte notturne e l'elfo sospettava che non gli rimanesse più molto tempo, prima che l'effetto della pozione svanisse completamente. Prese la bambina per mano e cominciò a camminare a passo di marcia verso le mura della città, ignorando il pungente dolore alla gamba destra. La piccola incespicò varie volte e si lamentò, fulminandolo con un'occhiata furiosa. 
La calca di quel pomeriggio si era dispersa e tutte le persone che avevano partecipato alla festa erano tornate alle loro case, lasciando in quelle vie un silenzio assoluto, rotto solo dal rumore dei loro passi sull'acciottolato. Il moro tirò un sospiro di sollievo, tranquillizzato da quella nuova calma così simile a quella che regnava a Llanowar dopo i festeggiamenti in onore del Signore della Foresta. Ricordava i bambini che si rincorrevano sugli alberi con il volto disteso in un'espressione di pura gioia, divertendosi nei loro giochi infantili in seguito alla preghiera di rito ai piedi del maestoso albero, che costituiva il cuore della loro foresta. Il loro destreggiarsi in mirabolanti acrobazie fingendosi dei guerrieri lo aveva sempre riempito di una placida serenità. Forse, alla fin fine, il mondo umano e quello elfico non erano così diversi come aveva sempre pensato.
Giunti alle porte della cittadina, proseguirono oltre l'enorme ed imponente entrata. Le poche sentinelle che erano lì di guardia non sembrarono fare caso a loro, ma a Ledah non sfuggirono le occhiate che scoccarono ad Airis, quando questa passò loro accanto. Lei continuò a camminare a testa alta, orgogliosa e fiera, perfettamente a suo agio. Sembrava non le importasse di essere oggetto del desiderio degli uomini, quasi non fosse veramente cosciente di quanto la sua bellezza potesse risultare conturbante, soprattutto ora che aveva tutte le gambe in bella mostra.
"Forse è abituata ad essere fissata in modo strano. So che ci sono ben poche donne nell'esercito umano, ma non così poche! Anche se, che io sappia, nessuna donna ha mai ricoperto una posizione di potere come la sua."
- E' davvero solo una tua amica? Myria, la donna che era con me fino a poco fa, ha detto che probabilmente siete molto più che amici. - lo interrogò Melwen riscuotendolo dalle sue elucubrazioni, facendo cenno col capo ad Airis.
- Ovvio che è solo una mia amica. Ti devo ricordare cosa sono io e cosa è lei? - la freddò, scocciato da quell'infantile curiosità, - E comunque, quella donna non ci conosce. Non può dire una cosa simile. -
- Ma allora perché avete ballato insieme? - chiese imbronciata, mentre lo seguiva con passo incerto, - Sì, insomma... sembravate volervi molto bene. -
"Voler bene a un'umana?!" 
Il pensiero lo colpì con veemenza, riportandogli alla mente i sentimenti contrastanti che aveva provato mentre danzava con Airis, e per un attimo si domandò se anche la guerriera avesse sentito qualcosa. 
- E' stata solo una tua impressione, Melwen. - ponderò le parole con cautela, cercando di non far trapelare nessun tentennamento nella voce, - Io e lei siamo soltanto amici. Ci siamo ritrovati per caso a ballare insieme, nulla di più. -
- Infatti. - la voce di Airis riecheggiò alle loro spalle, facendo trasalire la bambina.
La guerriera non aveva parlato per tutto il tragitto in città, astenendosi dal fare commenti superflui, forse perché voleva evitare di attirare l'attenzione più di quanto già non facesse.
- Tra umani ed elfi non corre buon sangue. Io e Ledah siamo stati costretti a diventare "amici", ma tra di noi non ci può essere niente di più. Myria ha una fantasia piuttosto fervida, quindi non prendere tutto quello che dice per vero. - dichiarò ponendo fine al discorso, - A proposito, sai dov'è? -
La bambina scosse la testa: - No. È rimasta con me fino a qualche minuto prima che voi arrivaste. Poi non so perché è schizzata via passando dalla porta sul retro, quando ha visto che vi stavate avvicinando. Prima di uscire l'ho sentita dire qualcosa sull'amore tra i giovani, ma non ho capito di cosa parlava. -
Airis si passò una mano sul viso e scrollò le spalle esasperata.
Per il resto del percorso nessuno fiatò. La foresta di alberi sempreverdi si stagliò presto all'orizzonte in tutta la sua maestosità. Era una macchia fitta e quasi impenetrabile, che si estendeva per miglia, fino ai monti Eresse, i più alti rilievi di tutta Esperya. Da dove si trovavano loro era impossibile vedere l'enorme distesa deserta lasciata dall'esplosione che aveva incendiato buona parte di Llanowar, ma nella memoria di Ledah era rimasta impressa la devastazione che quella vampata di luce aveva causato. Gettò un'occhiata dietro di sé, incrociando il viso indecifrabile della guerriera. Airis lo fissò di rimando, incuriosita, poi assunse un'espressione sorpresa e si immobilizzò sul posto. 
"Perché mi guarda come se avesse appena visto un fantasma?" 
L'elfo si toccò la faccia, cercando di capire cosa avesse causato quella reazione.
- Ledah... - Melwen lo guardò dal basso con aria di superiorità, - sei tornato normale. -
L'arciere sbatté le palpebre, per poi sfiorare in punta di dita le orecchie appuntite, che adesso sporgevano dai disordinati ciuffi neri. 
"Almeno non è successo in città." 
Osservò la ragazza, che ancora stentava a credere a quello che aveva appena visto. Che la magia fosse una cosa normalmente accettata in entrambe le popolazioni era cosa risaputa, ma tra gli umani erano ancora pochi quelli che riuscivano a padroneggiarla con la stessa perizia degli elfi. 
- Coraggio, c'è ancora mezzo miglio da percorrere. - la informò Ledah, cercando di nascondere un sorriso divertito di fronte allo stupore di Airis. 
Dopo un po', davanti a loro apparve una piccola casetta. Le mura in pietra bianca, il tetto spiovente e le finestre ornate dalle surfinie in fiore conferivano all'abitazione un'aria accogliente, ancor più accentuata dall'intenso e gustoso profumo di carne che proveniva dall'interno e che sembrava invitarli ad entrare. Non appena si avvicinarono, la porta si aprì e Copernico fece capolino sulla soglia. Ledah notò che indossava la stessa tunica violacea di quella mattina e, a giudicare da alcune macchie di terriccio, intuì che anche quel giorno il mago fosse tornato nella foresta ad indagare.
- Papà! - 
Melwen corse incontro al padre e gli saltò al collo, stritolandolo in un abbraccio. L'uomo barcollò, sbilanciato dall'impeto della bambina, e per un attimo Ledah temette che cadesse assieme alla figlia. Un istante più tardi però riuscì a recuperare l'equilibrio.
- Ehi, piccolina. Ti sei divertita oggi? - le chiese mentre le scompigliava i riccioli biondi.
- Sì! È stato meraviglioso! - esclamò contenta, schioccandogli un bacio sulla guancia. 
Copernico sorrise a quel gesto d'affetto e stava già per rientrare, quando la sua attenzione fu calamitata dalla ragazza che sostava accanto a Ledah.
- Vedo che abbiamo ospiti, stasera. - osservò gioviale, soffermandosi sulle condizioni piuttosto misere in cui era ridotto l'abito di Airis.
- Sì, lei è un'amica di Ledah. - illustrò Melwen e si girò a guardare i due con un sorriso furbo.
- Un'amica? - 
Copernico fissò l'elfo con aria severa, scrutandolo grave per cercare di capire che significato dovesse dare a quel "amica".
- Ti spiego dentro. - glissò il moro. 
La gamba gli doleva più di prima e aveva i nervi a fior di pelle per lo stress di quella giornata. Il mago parve comprendere il suo stato d'animo, perché entrò in casa e fece loro segno di seguirlo.
Percorsero il breve corridoio che partiva dall'ingresso e pochi secondi dopo si affacciarono nel piccolo soggiorno arredato in modo spartano, dove la moglie del padrone di casa, Margharet, stava intrattenendo con una bambola la sorella più piccola di Melwen. 
Non appena la donna udì i loro passi, sollevò lo sguardo coperto dalle spesse lenti di un paio di occhiali da vista e con grande sorpresa realizzò di avere un'ospite inaspettata. 
- Buonasera! - 
Si alzò in piedi impacciata, prendendo in braccio la neonata e osservando con curiosità la ragazza rossa vicino all'elfo. Quando si avvide anche lei dello stato in cui versava il vestito di Airis, avvampò imbarazzata e indirizzò un'occhiata rapida a Ledah.
- Lei sarebbe...? - 
Prima che riuscisse a terminare la frase, Copernico la interruppe: - E' un'amica di Ledah. Credo sia sufficiente per ospitarla da noi questa sera. - 
- Ma certo! Benvenuta. -
L'uomo mise giù Melwen e, dopo averle stampato un bacio sulla fronte, la sospinse verso sua madre. Margharet rimase perplessa per alcuni istanti. Poi, dopo un veloce scambio di sguardi con il marito, si eclissò in cucina, portando con sé le due bambine. 
I tre rimasero soli e l'atmosfera si riempì di tensione. 
L'elfo si accasciò con un sospiro su una delle sedie disposte intorno al tavolo al centro della stanza. Il dolore alla gamba gli mandò un'ultima, forte scarica, per poi cominciare a scemare. All'improvviso si sentì piombare addosso tutta la stanchezza accumulata sin dal mattino e ponderò seriamente di congedarsi e trascinarsi in camera, per trovare ristoro nel morbido letto che la famiglia di Copernico gli aveva gentilmente messo a disposizione. Rifletté se proporre di rimandare la conversazione all'indomani, poiché una parte di lui non aveva la minima voglia di ascoltare il racconto di Airis. Ma sapeva che, se avesse fatto una cosa del genere, se ne sarebbe pentito. Facendo appello alle ultime energie, alzò il capo e si sedette in modo più composto.
Copernico ed Airis si fissarono con diffidenza, finché l'uomo non si sedette su un'altra sedia e invitò la ragazza a fare lo stesso. Lei declinò, appoggiandosi semplicemente allo stipite della porta.
- Allora? - esordì il mago, incrociando lo sguardo di Ledah in cerca di spiegazioni.
L'elfo prese un respiro profondo e iniziò a parlare. Il suo interlocutore lo ascoltò con attenzione, lanciando qualche occhiata di tanto in tanto alla sua ospite. Molte delle cose che gli stava confidando gliele aveva più o meno riferite quando lo aveva accolto in casa sua, ma in quel momento Ledah sapeva di dover fornire a Copernico informazioni più precise, soprattutto se con l'aiuto di Airis poteva finalmente scoprire cosa era successo il giorno dell'esplosione. 
Quando arrivò a narrare del loro "soggiorno" ad Alfheim, Ledah omise i particolari che avrebbero potuto allarmare il mago, ossia la sua perdita di controllo durante il combattimento contro Ignus. Da quel giorno non aveva più udito quelle voci crudeli, ma aveva anche ricominciato a sognare la morte di Brandir e, assieme a quei frammenti di memoria, era tornata la sensazione di impotenza e odio verso se stesso, sensazione che per anni aveva relegato in fondo all'animo. 
Airis inarcò un sopracciglio quando glissò su quel cruciale dettaglio, ma Ledah continuò il discorso, cercando di ignorare il suo sguardo indagatore. Avrebbe dovuto spiegare tante, troppe cose e adesso non ne aveva le forze. In verità, più che altro non provava alcun desiderio di affrontare nuovamente le sue colpe.
- Ho capito. - esalò Copernico, poi si rivolse ad Airis e la scrutò con cipiglio serio, - Quindi tu sei il famoso Cavaliere del Lupo. Credevo che i quattro Cavalieri fossero tutti uomini, sinceramente. -
- Lo sono. - la guerriera si staccò dalla parete e si avvicinò ai due, - A parte me, ovviamente. È vero che sono stata nominata Cavaliere davanti a tutta la capitale, ma è più il tempo che ho passato sui campi di battaglia che a Sershet. Potrei giurare che a quest'ora il popolo e i ministri si sono completamente dimenticati del mio volto. - sorrise amara e si sedette di fronte a Ledah. 
Nella sua voce l'elfo colse una sfumatura di antica tristezza, mentre quegli occhi velati da un'imminente cecità fissavano il vuoto davanti a loro.
- Uhm... a parte te, non è sopravvissuto nessuno della tua legione? -
- Non che io sappia. -
- E quello contro cui avete combattuto, il vostro collega, Ignus, ha detto di essere morto durante l'esplosione e che colei che lo ha mandato a combattere contro di voi lo ha riportato in vita? -
- Sì, esatto. -
Copernico si morse il labbro. Un'ombra di inquietudine oscurò l'azzurro dei suoi occhi, il viso contratto in un'espressione preoccupata e il corpo rigido e teso.
- Voi... sapete che è difficile da credere, vero? - scrutò entrambi con nervosismo, - Non sto mettendo in dubbio le vostre parole, ma è assurdo che ci sia ancora qualcuno che conosce l'arte della resurrezione e che è in grado di praticarla. -
Airis sbarrò le palpebre. Ledah, invece, rimase in silenzio, studiando le reazioni della guerriera.
- Quindi non è una cosa così facile? Cioè, riportare in vita qualcuno. -
- Non sto dicendo che sia difficile. - Copernico si voltò a guardarla di scatto, - E' praticamente impossibile. Non si può ridare vita a ciò che è morto. Si può solo fermare momentaneamente l'inevitabile. -
- Ma allora chi può farlo? -
- La domanda giusta non è chi, ma cosa. - 
Il mago si alzò e andò ad appoggiarsi al muro, massaggiandosi le tempie come per placare un fastidioso dolore e assumendo un'espressione corrucciata. 
Quando una persona passa a miglior vita, non è possibile in alcun modo unire di nuovo l'anima e il corpo, perché l'armonia tra la forza terrena e quella spirituale, che costituisce l'intima essenza della vita, è stata definitivamente rotta. L'unica maniera per evitare che una persona destinata a morire si salvi è bloccare lo spirito prima che l'ultima catena che la lega al suo corpo si spezzi. -
Airis aggrottò le sopracciglia, pensierosa: - Catene? Nel corpo abbiamo delle catene? -
Copernico scosse la testa, come se avesse a che fare con una bambina. Guardandolo ora, Ledah capì da chi Melwen avesse ereditato quell'atteggiamento altezzoso.
- Ti sei mai chiesta come faccia un'essenza incorporea, uno spirito, a fondersi con un corpo composto da sangue, carne e ossa? -
La ragazza negò, leggermente irritata per il tono indulgente utilizzato dal padrone di casa.
- In poche parole, il nostro corpo e la nostra anima sono tenuti insieme da delle catene spirituali. Quando si muore, queste vengono recise per permettere all'anima di tornare nel suo luogo originario. Ma se qualcuno ricreasse questi vincoli a posteriori, il legame verrebbe restaurato e la persona tornerebbe a vivere. Anzi, non è esatto. - la fissò cupo, le labbra serrate in un'espressione granitica, - Per far sì che questa pratica contro natura vada a buon fine è necessario pagare un prezzo: la creatura risorta dovrà cibarsi continuamente del sangue del contraente per sopravvivere, oppure di quello di altri esseri viventi, se vuole conservare la sua personalità. In alternativa, il "Risvegliato" diventerebbe un morto vivente, senza più capacità di giudizio e in balia delle richieste di colui che lo nutre. -
Per un attimo a Ledah parve che Airis fosse rabbrividita e che un'ombra di preoccupazione le avesse attraversato le iridi, ma il cambiamento fu talmente fugace che si domandò se al contrario non si fosse trattato di una mera allucinazione. La donna, infatti, riassunse l'espressione originale in un battito di ciglia.
"Cosa stai nascondendo, Airis?" 
L'elfo si morse la lingua pensieroso, cercando la risposta nel suo strano atteggiamento. La guerriera aveva disseminato svariati indizi, eppure, più Ledah si affannava per carpirli, più sembravano impossibili da incastrare. Era come se Airis avesse frammentato il suo vero essere in tanti minuscoli pezzi per impedire agli altri di comprenderla, di afferrare i suoi segreti e penetrare sotto la superficie.
- Probabilmente, anche il Cavaliere del Leone era un Risvegliato. - concluse il mago.
Nella stanza piombò il silenzio, rotto solo dal leggero brusio proveniente dalla cucina. L'atmosfera era pesante, però nessuno dei presenti sembrava intenzionato ad alleggerirla.
- Cosa c'entra tutto questo con ciò che ti ho raccontato? - indagò Ledah, anche se aveva intuito dove il mago volesse arrivare.
- L'unico essere capace di fare qualcosa del genere è un potente Lich, un demone, probabilmente lo stesso che negli ultimi tempi ha sguinzagliato nella foresta i suoi cagnolini, che hanno tentato più volte di assaltare la città. Non è da escludere che sia responsabile anche dell'esplosione. -
Ledah sussultò, sorpreso da quell'ultima affermazione: - Che interesse avrebbe a distruggere Llanowar? E perché attaccare Luthien? -
Copernico fece spallucce: - Non ne ho idea. L'unica cosa di cui sono certo è che quell'esplosione non è stata opera di magia bianca, ma senza altre informazioni non posso ipotizzare nulla. -
- A proposito di questo, - l'elfo fece un cenno col capo in direzione di Airis, - lei potrebbe aiutarci. Forse sa qualcosa di più rispetto a noi. -
Sentendosi tirata in causa, la guerriera alzò il capo, fissando la sua attenzione prima su Ledah, poi su Copernico.
- Non so molto di più di quello che voi avete pensato o visto coi vostri occhi. - cominciò, giocherellando con una ciocca rossa per scaricare la tensione, - Dopo aver perlustrato a fondo il tempio del Signore della Foresta, ho acceduto ad un passaggio nascosto che mi ha condotta in un cortile interno. Lì ho trovato i cadaveri di una decina di sacerdoti, accatastati attorno a un'enorme voragine. - deglutì, come se il ricordo di quello che aveva visto la terrorizzasse, - I loro corpi sembravano degli scheletri, per quanto la pelle era tesa sulle ossa. Era come se... -
- Come se gli avessero risucchiato la vita dall'interno? - domandò Copernico, senza staccare gli occhi da lei.
- Sì. Inoltre, proprio vicino a quella voragine c'era questo. - 
Frugò nella sacca delle monete, estrasse il cristallo azzurro e glielo porse. Il mago lo guardò sbigottito, rigirandosi tra le mani quella scheggia con fare meditabondo. 
- E' difficile capire di cosa si tratti, ma potrebbe essere un catalizzatore. Non è una cosa rara. Tali oggetti sono usati da gran parte della comunità magica, ma questo sembra far parte di qualcosa di molto potente, a giudicare dall'energia che ancora emana. Forse, anzi ne sono sicuro, non è stato creato da mano umana: sarebbe impossibile anche per il più bravo degli alchimisti realizzare qualcosa capace di ottimizzare fino a tal punto l'energia magica. Però questo è solo un frammento. Tocca qui. - si chinò e con il dito percorse la superficie della scheggia.
Titubante, Airis accarezzò là dove il mago le aveva indicato. 
- Bene, ora fai la stessa cosa dall'altra parte. Cosa noti di diverso? -
- Beh... una delle due parti è più liscia rispetto all'altra. - occhieggiò verso Ledah come a cercare conferme. 
L'elfo assentì e la imitò, anche se pensava d'aver capito cosa volesse dire Copernico e, in cuor suo, sperava di sbagliarsi.
- Il fatto che la superficie non sia uniforme, può solo significare che questa è solo una piccola parte di un catalizzatore più grande. -
- Quanto più grande? - chiese allarmato il moro.
- Non saprei dirlo con esattezza, però normalmente i catalizzatori naturali possono stare tranquillamente nel palmo di una mano. Comunque... - guardò la clessidra posta sulla panca sotto la finestra, - credo che per voi, signorina, sia tardi per tornare a casa. Per stasera potete rimanere da noi. Non abbiamo una vera e propria stanza per gli ospiti, ma nella camera di Melwen possiamo mettere un po' di pagliericcio e allestire un letto, se per voi va bene. -
- No, non voglio disturbare. E potete darmi del “tu”. - obiettò.
Copernico sorrise e rispose: - Nessun disturbo. Ci hai aiutati a scoprire qualcosa in più su questa vicenda e credo che insieme potremo risolvere il mistero. E poi non è un bene che le belle ragazze se ne vadano a zonzo da sole di notte. - 
In quel periodo, Ledah aveva imparato a conoscere il mago e sapeva che era una delle persone più buone che avesse mai incontrato. Anche se durante la conversazione in alcuni momenti era stato brusco e supponente, era ben conscio che quell'atteggiamento era stato causato dalla preoccupazione per la sua famiglia. Quell'inquietudine, la paura di perdere le persone a lui più care gliel'aveva vista dipinta in faccia il giorno in cui era stato accolto nella loro casa, quando, a cavallo di Raiza, era giunto con una Melwen terrorizzata fra le braccia e la lama della spada lorda del sangue dei demoni che avevano tentato di ucciderla nella foresta.
Airis aprì bocca per ribattere, ma poi tacque, sorridendo grata a Copernico: - Va bene, va bene. Grazie davvero. -
- E di che? Grazie a te. - le restituì il cristallo e si lisciò la tunica stropicciata, - Ormai la cena sarà pronta. Andiamo a mangiare, prima che si freddi. -
Fece per avviarsi in cucina, ma un attimo dopo arrestò il passo e andò nuovamente incontro ad Airis sfoggiando un sorriso cordiale, tendendole la mano: - Quanto sono stato sgarbato! Per la foga e la preoccupazione non mi sono nemmeno presentato. Il mio nome è Copernico e puoi darmi del “tu”. -
Ledah si issò in piedi grugnendo, sbadigliò e con gli occhi pesanti osservò i due vicino allo stipite della porta. Per un breve momento gli sembrò che Airis sbiancasse, come se davanti a lei ci fosse uno spettro. Sbatté le palpebre impastate di sonno e provò a mettere a fuoco il suo viso.
- Anche io sono stata sgarbata. - rispose Airis un secondo più tardi, la voce leggermente tremante, - Come ti ha detto Ledah, mi chiamo Airis. -
- Beh, Airis, spero tu ti possa trovare bene in questa casa. - 
Le strinse caldamente la mano e poi entrò in cucina, lasciando lei e Ledah da soli. Il viso della guerriera tornò subito ed essere la solita maschera di marmo, eppure l'elfo era convinto di aver scorto la paura nei suoi occhi.
"Sarà stata solo una mia impressione. Sì, senza dubbio. La stanchezza mi gioca brutti scherzi."

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Capitolo 21
*** Identità ***


21

Identità

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Airis si svegliò di soprassalto. Le sembrò che il cuore stesse per sfondarle la cassa toracica, per quanto batteva forte. Si passò una mano sul viso madido di sudore e si stropicciò gli occhi più volte per scacciare le ultime ombre dell'incubo: la testa di suo padre conficcata su una picca, il sangue che scorreva lungo il legno e le iridi senza vita che la fissavano, ricordandole la sua colpa, il suo peccato. Si portò le gambe al petto, appoggiando la fronte alle ginocchia, quasi volesse chiedere perdono per ciò che sarebbe stata costretta a fare, ma d'altronde era una via obbligata, un atto che doveva portare a termine per non perdere la sua umanità. Strinse i pugni, affondando le unghie nei palmi fino a quando non sentì il sangue imbrattarle le dita. Alzò lo sguardo e scrutò nell'oscurità quelle piccole mezzelune vermiglie che si rimarginavano lentamente senza lasciare traccia. Sorrise amara, contemplando con aria distaccata quello spettacolo innaturale, un processo che il suo organismo innescava automaticamente ogni volta che le veniva inflitta una ferita. 
Erano passati più di cinque anni da quando era morta e Lysandra l'aveva accolta tra i suoi servi; cinque anni in cui aveva ucciso senza requie, con indifferenza, eseguendo alla perfezione gli ordini che il demone le imponeva, solo per paura di perdere il lume della ragione e diventare un involucro di carne morta soggetta ai folli desideri di un Lich.
Distese le gambe e chiuse gli occhi, ascoltando il respiro regolare dell'elfo che dormiva nel letto a accanto al suo. Purtroppo la camera di Melwen era l'unica stanza in cui era stato possibile allestire un piccolo pagliericcio e guarda caso era la stessa che ospitava anche Ledah. All'inizio si era dimostrata piuttosto contrariata all'idea di condividere l'alloggio con lui, soprattutto per come l'aveva osservata durante la discussione con Copernico, in quel modo insistente e pieno di sottintesi, ma alla fine aveva acconsentito a condividere la stanza con l'elfo, più per non destare sospetti che altro. 
Il suo compito era ritrovare Ledah e ci era riuscita, poi avrebbe dovuto consegnarlo a Lysandra, per quanto lo stomaco le si attorcigliasse al solo pensiero.
''È un mostro. È la cosa giusta da fare. Il suo destino non mi riguarda." 
Da quando l'aveva visto trasformarsi in quell'essere spaventoso, ad Alfheim, non riusciva più a guardarlo senza provare un leggero senso di timore. Anche se non c'era una così grande somiglianza, ormai sapeva che Ledah era figlio di Lysandra e che dentro di lui albergava un potere mostruoso, una furia cieca capace di scatenarsi senza alcun preavviso, come era accaduto nel tempio del Signore della Foresta. Eppure, quel giorno, quando Airis aveva creduto che fosse giunta la sua ora, Ledah si era fermato. L'aveva risparmiata. 
Sospirò e ricordò la ferocia che svaniva da quegli occhi cremisi, che lentamente tornavano del loro colore naturale e riacquisivano la consapevolezza di ciò che aveva compiuto. Le aveva lanciato uno sguardo triste, carico di angoscia e terrore. Terrore per quello che era diventato, per quello che aveva fatto. E poi c'era stato quel gesto inaspettato, quella carezza che l'aveva sorpresa più dell'improvvisa trasformazione. 
Si toccò la guancia e con i polpastrelli sfiorò la cicatrice di un taglio, lo stesso che la lama magica dell'elfo le aveva inferto quando si era andata a conficcare nella colonna dietro di lei. Avrebbe potuto ucciderla, prendersi la sua personale rivincita sul Generale che lo aveva umiliato e che aveva trucidato molti dei suoi compagni, ma Ledah aveva preferito fuggire, forse perché non voleva essere catturato da Lysandra. Probabilmente aveva realizzato di essersi scoperto troppo, aveva avvertito l'imminente pericolo e aveva voluto evitare un faccia a faccia con la madre, conscio della fine che avrebbe fatto se l'avesse incontrata. Tuttavia, l'unico che poteva rispondere a quelle domande era Ledah stesso. Avrebbe dovuto parlargli prima o poi.
Scrutò la sua figura dormiente immersa nell'oscurità della notte, disegnando nella propria fantasia il profilo ben noto del suo viso, il primo che aveva scorto il giorno in cui le era stata ridata la vista. 
“Cosa sei davvero, Ledah di Llanowar?” 
Se lo chiese tra sé e sé, impaziente di carpire il segreto celato dietro quell'apparente maschera di normalità. Ma la domanda rimase inespressa, al sicuro nella sua testa.
Airis distolse l'attenzione dall'elfo e osservò il cielo fuori dalla finestra. Delle nubi minacciose avevano ricoperto la volta celeste, oscurando la luna e le stelle. Con amarezza, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare di nuovo nell'oblio del sonno, constatò che l'indomani avrebbe piovuto ancora.
La mattina dopo si alzò di buon'ora. Il sole stava sorgendo, ma i suoi raggi riuscivano a malapena ad oltrepassare la coltre di nuvole che stazionava sulla piccola città. Di recente il tempo non aveva fatto altro che peggiorare, caricando l'aria di un'umidità soffocante che si appiccicava ai vestiti e penetrava in maniera irritante fin nelle ossa. 
Si tolse la camicia da notte e si infilò nel vestito che la moglie di Copernico le aveva gentilmente posato sulla sedia la sera addietro, prima di congedarsi. Accettare di rimanere lì era stata una scelta logica, ma non le aveva giovato granché dopo quello che aveva scoperto di dover fare. Il pensiero di dover uccidere un uomo gentile come Copernico la faceva star male, ma non poteva agire diversamente. Non era la prima volta che ammazzava un innocente e quella del mago sarebbe stata solo una delle tante vite che avrebbe stroncato per una causa maggiore. Continuava a ripeterselo, eppure il suo umore non migliorava. Le sue mani intrise di sangue sarebbero rimaste per sempre le mani di un assassino, indipendentemente dalla sua volontà. 
“Una vita in più o in meno non fa differenza.” 
Si aggrappò febbrilmente a tale convinzione, la recitò dentro di sé numerose volte fino alla nausea, così da sconfiggere quella parte di se stessa che ancora cercava di opporsi agli ordini insensati di Lysandra, ordini che di certo un giorno avrebbero polverizzato tutti i sacri giuramenti che aveva fatto come Cavaliere.
Si chiuse velocemente il corpetto e uscì dalla camera in punta di piedi. La casa era silenziosa e, a parte i soliti cigolii, non percepiva alcun suono provenire dalle altre stanze, salvo i respiri regolari degli altri inquilini. Scese le scale lentamente, diretta verso la porta d'ingresso: se fosse andata via, forse quel senso di oppressione l'avrebbe finalmente abbandonata e sarebbe riuscita ad ideare un piano concreto, grazie al quale sarebbe stata in grado di portare a termine la sua missione senza incidenti. O almeno così sperava.
- Siamo mattinieri, eh? - 
Sobbalzò per la sorpresa e impallidì, mentre il cuore le schizzava in gola.
- Tranquilla, mica ti mangio. - 
Copernico sbucò fuori dalla cucina con in mano una tazza fumante. A giudicare dall'odore doveva trattarsi di un infuso alle erbe, anche se il colore verdognolo non era particolarmente invitante.
- Sì. - si stiracchiò ostentando una calma che non provava, - Non sono una che dorme molto. -
- Oh, immagino. - sorseggiò il liquido bollente, ma immediatamente contrasse la faccia in una smorfia disgustata, - No, d'accordo, lo fa meglio mia moglie. Avevo intenzione di offrirtene un po', ma non vorrei pensassi che voglia avvelenarti. - ridacchiò divertito.
Indossava una tunica blu scuro, chiusa in vita dalla stessa cintura elaborata che portava il giorno precedente. Un medaglione recante uno strano simbolo era adagiato sul petto e oscillava ad ogni suo passo e i capelli neri erano legati in una coda che gli accarezzava una spalla. 
La sera addietro Airis aveva avuto modo di osservarlo da vicino e ancora non riusciva a capacitarsi del motivo per cui Lysandra lo volesse morto. Anche se stava indagando su di lei, le sarebbe bastato poco per depistarlo. Insomma, per quale ragione un Lich avrebbe dovuto temere un essere umano, benché esperto di magia?
"E' davvero così potente come dice?" 
Inclinò la testa e lo squadrò meglio per capire cosa potesse aver allarmato Lysandra talmente tanto da ordinarle di toglierlo di mezzo, e pure con una certa urgenza.
- Ho qualcosa in faccia? - le chiese il mago, toccandosi il viso con espressione dubbiosa.
- No, no! È che... - si morse il labbro, cercando le parole giuste, - ecco, mi chiedevo come fai a sapere tutte le cose che mi hai rivelato ieri. Ho incontrato molti maghi nella capitale e tu... mi sembri così giovane... -
Copernico inarcò un sopracciglio, ma pochi istanti dopo scoppiò a ridere. Airis inarcò un sopracciglio, stranita dalla sua reazione. L'uomo le fece cenno di seguirlo in soggiorno e andò a sedersi sulla sedia dove aveva preso posto la sera prima. La guerriera esitò, ma poi si accomodò di fronte a lui.
- Ah, non ti ho chiesto se vuoi qualcosa per colazione. Forse sono rimasti un paio di biscotti o una fetta di torta alle more. -
Airis scosse la testa: - No, grazie. Non ho molta fame.-  
Copernico la fissò perplesso. Un secondo più tardi si alzò, si diresse in cucina e prese dalla credenza un piatto di biscotti con l'uvetta, che posò al centro del tavolo. Tornò a sedersi con aria pacifica e indicò il piatto alla sua ospite.
- Beh, chissà che poi non ti venga la tentazione di assaggiarne uno. - ammiccò bonario, poi ne rubò uno e cominciò a masticarlo con gusto, - Buoni. Uhm, tornando a quello che mi hai chiesto... non pensare che i maghi siano tutti vecchi e barbuti come quelli delle favole. Non sono molti i giovani che decidono di votare la loro vita all'arte magica, soprattutto perché tra gli umani è raro trovare gente con questa predisposizione. Però ce ne sono. - afferrò un altro biscotto e lo spezzò in due con aria meditabonda, - Pochi, ma ce ne sono. -
- E tu sei uno di questi. - affermò Airis, appoggiando i gomiti sulla superficie di legno del tavolo per osservarlo meglio.
- Non proprio. - borbottò, pulendosi la veste dalle briciole che vi erano cadute sopra.
"Non capisco... non ha senso uccidere una persona così normale. Un mago sconosciuto che vive in una cittadina remota di Esperya non può rappresentare un pericolo per Lysandra."
- Comunque, effettivamente non assomiglio molto a un mago, non posso darti torto. Il mio nome è sconosciuto e alla capitale, anche se cerchi negli albi dei maghi, non troverai traccia di me. - i suoi occhi azzurri si posarono su di lei e le scoccò un sorriso sghembo, - Ma scommetto che se ti faccio il nome di Xerxas Ascrocell, qualcosa ti viene in mente... -
Airis lo fissò corrucciata: - Sì, ho sentito parlare di lui. Secondo molti era il più grande e potente mago della capitale cinquant'anni fa. Ma questo cosa c'entra? - 
Copernico sorrise di nuovo e si mise in piedi, toccandosi il petto all'altezza del cuore. Una luce bianca guizzò nelle sue iridi e, sotto la faccia sbalordita di Airis, il suo aspetto cambiò: le orecchie si allungarono verso l'alto, diventando più appuntite e sporgenti, mentre i capelli si schiarirono, tingendosi di un colore argenteo, simile a quello dell'acciaio. Infine, due occhi cremisi si posarono su di lei. La guerriera si allontanò di scatto e istintivamente portò la mano al fianco, alla ricerca della spada, ma le sue dita strinsero il vuoto. Copernico non era umano, era un elfo! Un elfo pure piuttosto famoso, anche se non per i suoi meriti.
- Non è possibile... tu sei quel Xerxas Ascrocell...? - balbettò frastornata.
Copernico sorrise, divertito dalla sua reazione: - Siediti, siediti. Sembra quasi che tu abbia appena visto un fantasma. - 
Si accomodò di nuovo e la invitò con un cenno del capo ad imitarlo. Notando che Airis rimaneva imbambolata ad ammirarlo, esalò un sospiro, si passò una mano sul volto e scosse la testa. 
- Posso spiegarti tutto, stai tranquilla. -
Lei lo squadrò diffidente, però alla fine la curiosità di sapere perché uno degli uomini più importanti del regno fosse lì, di fronte a lei, ebbe il sopravvento. 
Restarono in silenzio per alcuni istanti, studiandosi l'un l'altra, finché il mago non prese la parola.
- Spero tu abbia tempo, perché sarà una cosa un po' lunga. Ma credo che a quest'ora del mattino tu non abbia molte faccende da sbrigare. -
- Oh, no, no. Anzi, sono proprio curiosa di conoscere il motivo per cui un traditore si sia mostrato ai miei occhi. - ringhiò di rimando.
Airis si appoggiò allo schienale della sedia, incrociò le braccia al petto e gli regalò un'occhiata ostile. Copernico schioccò la lingua, ma, vedendo che la guerriera non accennava a cambiare il suo atteggiamento di palese astio, decise di non indugiare oltre.
- Sono sicuro che ne sei già al corrente, ma nel regno di Esperya non esistono solo popoli di razza, per così dire, "pura". Anche se solo in alcune zone isolate, determinati popoli si sono mischiati tra loro e dalla loro unione sono nati dei bambini che non si possono classificare come semplici umani, nani o elfi. Sono creature a metà, ibridi, a cavallo tra i due mondi dai quali provengono. La capitale non li ha mai perseguitati, anche se non ha mai neanche incoraggiato l'unione tra le varie razze. Nessuno ama dirlo esplicitamente, però si sa che alla gente non è mai piaciuta l'idea di avere dei "mezzo sangue" in giro per le strade delle loro città. - serrò le labbra in un sorriso amaro e scrollò le spalle.
Avendo vissuto per molto tempo a Sershet, Airis sapeva che il mago diceva il vero. Nonostante l'apparente tolleranza, gli organi più influenti della città si erano asserragliati sui loro vecchi privilegi, disprezzando tutti coloro che avevano tentato di portare una ventata di novità. La caccia all'ibrido era pratica comune, per quanto barbara.
- Tuttavia, questi esseri "impuri" ci sono sempre stati. Per lo più venivano lasciati vivere in pace e il Consiglio dei cinque Cavalieri non ha mai preso provvedimenti ufficiali, accettando la loro presenza con una certa riluttanza. Tuttavia, solo i bastardi di una certa razza non venivano tollerati. - alzò lo sguardo su di lei e nei suoi occhi Airis intravide una grande tristezza, - Costoro erano i figli degli "sporchi" elfi. Non era pensabile che un umano provasse amore per un essere "inferiore", pericoloso, misterioso, capace di piegare la natura ai propri scopi attraverso l'uso della magia. Già all'epoca, i rapporti tra i due popoli erano molto tesi e la nascita di bambini ibridi non fece altro che spingere il Consiglio dei cinque Cavalieri a desiderare di ripulire il territorio da tutti quelli che rispondevano alla descrizione dei "Ferirael", i mezzelfi, individui caratterizzati da capelli argentei e occhi color sangue. -
La guerriera rimase interdetta. Aveva sentito raccontare quella brutta storia da alcuni suoi superiori, quando ancora era una recluta, ma pensava fossero solo dicerie.
- Difficile da credere, eh? È arduo concepire che un orrore simile sia stato perpetrato da coloro che tu continui a servire, eppure è così. L'unica mia fortuna è stata quella di nascere in una famiglia nobile. Mio padre mi ha sempre appoggiato durante la mia ascesa politica, mi ha sempre protetto. -
Agguantò l'ennesimo biscotto dal piatto e cominciò a mangiucchiarlo, puntando lo sguardo su un punto imprecisato alle spalle di Airis. 
- E quando finalmente sono diventato un membro del Consiglio del re mi hanno accusato di averlo ucciso. -
- Perché, non l'hai fatto forse? Tutti i peggiori traditori affermano di essere innocenti. - sbottò brusca, senza celare una vena di sarcasmo nella voce.
Copernico si esibì in una smorfia e la sua espressione si fece cupa e scostante: - Non ho motivo di negare le mie responsabilità dopo così tanti anni. Sejrel Varaldien non era solo il mio sovrano, era anche un amico. Io... l'ho visto morire senza avere la possibilità di fare nulla. Mai gli avrei fatto del male. Mai. -
Airis si tormentò una ciocca di capelli rossi, assorta nelle proprie riflessioni. Era assurdo. 
"Mi sembra che, da quando sono tornata in vita, ogni cosa abbia preso una piega davvero originale."
- Ipotizzando che quello che mi stai dicendo sia la verità, - esordì, cercando di mantenere un tono calmo e controllato, - non capisco perché tu me lo abbia rivelato. Potevi rimanere nascosto in questo paesino dimenticato dagli dei e vivere una vita serena, senza più ficcare il naso negli intrighi di corte. -
Copernico picchiettò le unghie sul tavolo e le scoccò un'occhiata gelida. D'un tratto, del calore che aveva addolcito i suoi lineamenti sino a quel momento non v'era più traccia. 
- Il compito di un Consigliere consiste nell'aiutare il proprio re a costruire un regno prospero, dove il popolo possa vivere in armonia con le altre razze. Sejrel fece molto per Esperya, tentò in tutti i modi di far sì che elfi, umani, nani e tutte le altre creature riuscissero a convivere gli uni con gli altri. Molti credettero in lui e nel suo sogno di vedere finalmente tutte le terre unite sotto un solo vessillo. Ma quella donna, Elladan, gli portò via ogni cosa, persino la volontà di combattere per ciò a cui teneva di più al mondo. -
Airis inclinò la testa di lato corrugando la fronte, ma l'altro parve non accorgersene. 
- Tu sai chi è Elladan di Sheelwood? - le chiese. 
La guerriera scosse la testa, anche se quel nome invece le era assai familiare, visto che se ne parlava nel diario di cui era entrata in possesso.
- Era una delle più grandi e abili arciere delle fila elfiche. Nelle sue vene scorreva il sangue di Arawan, il grande re elfico che sconfisse Aaesir, il re dei Drow, nella battaglia sulle pianure del Rashar. Venne data in sposa al capo sacerdote del tempo, un elfo di nome Haldamir. Nessuno allora seppe spiegarsi come mai una guerriera bella e di stirpe regale come lei avesse deciso di accettare di convolare a nozze con un sacerdote, per quanto illustre. Ma, sai, a volte l'amore è cieco... - 
Le lanciò un'occhiata eloquente, ma Airis non colse il sottinteso, poiché stava riflettendo su ciò che Copernico le aveva appena raccontato. Si morse il labbro inferiore, nervosa, mentre un brivido freddo le correva lungo la schiena. 
- Elladan di Sheelwood diede alla luce una bambina. - proseguì il mago, - La piccola Aiwen era la gioia di entrambi i genitori e, non appena nacque, Haldamir pregò la moglie di non andare più in missione, nel timore che potesse accaderle qualcosa. Lei accettò e si ritirò dalla vita militare, dedicandosi anima e corpo a crescere la figlia, addestrandola nell'arte della guerra e iniziandola alla magia della natura. Non era raro vederle assieme mentre si allenavano o passeggiavano per la foresta. La loro somiglianza era più che evidente e, quando Aiwen crebbe, non era raro che venissero scambiate per sorelle. La bambina aveva ereditato gli stessi capelli biondi e i medesimi occhi azzurri della madre, così come la carnagione chiara, i lineamenti delicati e l'eleganza nel portamento. Erano entrambe così belle da sembrare delle dee lunari. Per uno come me, una creatura a metà tra due mondi, era inconcepibile l'idea di poter riuscire a stringere un legame con loro. Eppure sia Aiwen che Elladan mi trattarono da subito come uno di loro, regalando a me e a mia madre un affetto e un calore che ho sperimentato di nuovo solo quando ho conosciuto la mia dolce Margharet. -
Riaprì le palpebre e per un istante ad Airis parve di vedere un velo di lacrime ricoprire quelle iridi scarlatte. 
- Poi, un giorno, Elladan scomparve. Da allora non si seppe più niente di lei. Haldamir la cercò disperatamente, appellandosi persino agli ex commilitoni della donna, ma le loro ricerche si rivelarono vane. Era come se fosse stata inghiottita nel nulla. -
Fece una breve pausa e sospirò passandosi la mano sulla fronte, tormentato dai ricordi. Scostò con un gesto secco una ciocca argentea che gli era caduta davanti al viso e lasciò vagare lo sguardo per la stanza.
- Trascorsero all'incirca tre mesi, durante i quali il sacerdote continuò a battere la foresta, senza mai darsi per vinto, ignorando le voci che ormai la davano per dispersa. Anche la famiglia di mia madre partecipò alle ricerche. Poi, quando molti stavano per gettare la spugna, Elladan tornò con l'arco da guerra rotto sottobraccio, le vesti stracciate e sporche e gli occhi spenti, vuoti come quelli di un cadavere. Raccontò di essere uscita di casa, quel fatidico giorno, perché le era parso di sentire delle voci di uomini poco distanti dal Signore della Foresta, così era andata a vedere. - 
Si stropicciò gli occhi, forse per tergersi le lacrime. Rivangare quelle memorie lo stava mettendo a dura prova e la sua voce aveva cominciato a tremare già da qualche minuto, facendosi più incerta. Inoltre, mentre narrava la storia, Copernico aveva preso a fare sempre più pause, segno che non trovava affatto piacevole discutere di quegli avvenimenti.
- Dalla sua versione, venne fuori che era caduta in un'imboscata e che degli uomini avevano abusato di lei per giorni interi. Una volta stufati, l'avevano abbandonata in uno stato pietoso e lei aveva vagato sola nella foresta, cercando un modo per nascondere il seme che era germogliato nel suo ventre dopo la violenza. Tuttavia, dopo giorni di vagabondaggio era tornata, vinta dal desiderio di rivedere i suoi cari. -
Un brivido corse lungo la schiena di Airis: - Mi stai dicendo che era...? -
- Già. - Copernico si alzò e si avvicinò alla finestra, intrecciando le dita dietro la schiena, - Alla fine, decise di partorire quel figlio, ma quando lo strinse tra le braccia gli diede un nome crudele, un nome che significa "colui che distrugge": Ledah. -
La guerriera sbarrò gli occhi e avvertì le viscere contrarsi dolorosamente: - Le circostanze della sua nascita sono orribili... non avrei mai immaginato che... - 
Durante le spedizioni a cui aveva partecipato aveva assistito a violenze d'ogni genere, ma il solo pensiero che l'elfo fosse venuto al mondo in quel modo la faceva rabbrividire.
Copernico scosse la testa, si umettò le labbra e osservò le leggere goccioline d'acqua che si infrangevano e scivolavano lungo il vetro della finestra. All'esterno si era scatenato un temporale e la stanza era piombata in una semioscurità, un grigiore che gettava sull'ambiente un alone grigio e cupo.
- Ancora oggi mi chiedo il perché di un tale nome. Il piccolo era innocente, non era sua la colpa per ciò che quei bruti avevano fatto a sua madre. -
Il mezzelfo aveva uno sguardo assente e Airis non poté non chiedersi per quanto avesse portato sulle spalle il peso di quei ricordi. La sua faccia era una maschera di totale impassibilità, che in qualche maniera lo faceva sembrare più vecchio, logorato nel corpo e nell'anima dai segreti che era stato costretto a seppellire in fondo a se stesso.
- Comunque, prima che mio padre mi portasse alla capitale, successe qualcosa in quella famiglia, qualcosa che rese grande e venerato Haldamir, tanto da essere soprannominato "Il Salvatore". Purtroppo non ebbi tempo per indagare sulla questione, ma sentii delle voci che tacciavano Elladan di tradimento e che c'era solo una possibile fine per una donna come lei... ma a quale fine si riferivano? -
- Quindi... Elladan morì? - chiese un po' titubante Airis.
- Lo pensai. Non seppi mai cosa accadde veramente, ma doveva essersi macchiata di un grave reato, perché nei giorni precedenti alla mia partenza non udii nemmeno un canto funebre in suo onore. Era come se tutti volessero dimenticare che fosse esistita. -
Airis sbuffò e si massaggiò le tempie nel tentativo di immagazzinare tutte le informazioni che Copernico le aveva riversato addosso. La testa le doleva e faticava a mettere insieme tutti i tasselli di quell'immenso mosaico. Ma doveva, voleva sapere. C'era ancora qualcosa che non le aveva detto, un particolare importante che le avrebbe permesso di afferrare il nesso tra l'elfa Elladan e il demone Lysandra. Lo studiò di sottecchi e notò che la stava fissando con un'intensità inquietante, come se avesse già intuito ciò che lei voleva domandargli.
- Ti stai chiedendo perché ti ho raccontato tutto questo, giusto? - la interrogò senza interrompere il contatto visivo.
- Sì. -
- Elladan non è morta. L'ho vista con i miei stessi occhi a palazzo, cinquant'anni fa, alla destra del mio sovrano, mentre si aggrappava al suo braccio e camminava al suo fianco come se fosse la sua regina. - sibilò e la sua figura si irrigidì, quasi cercasse di trattenere una furia cieca, distruttiva, - Si faceva chiamare Lysandra, all'epoca. Era... era la donna più bella che fosse mai giunta a corte e nessun uomo poteva resistere al suo fascino "esotico", così simile a quello delle elfe. Per quanto difficile da credere, per quanto, in un certo senso, fosse diversa, senza dubbio era lei, era la stessa Elladan che da bambino avevo visto insieme ad Haldamir, la medesima arciera di cui i bardi decantavano le gesta. Stessi lineamenti delicati, stesse labbra carnose, stessi capelli color della cenere. Solo gli occhi erano cambiati: azzurri, ma con una sfumatura sanguigna. -
A quelle parole Airis sussultò, mentre percepiva il sudore bagnarle i palmi delle mani: - Mi... mi stai dicendo che la donna che poi divenne la regina di Esperya, e che lo è tutt'ora, è un'elfa? Cioè, è Elladan? Capisco perché abbia deciso di cambiare nome, ma... è assurdo! Perché non se n'è mai accorto nessuno? Come è riuscita a passare inosservata per tutti questi anni? Non l'ho mai incontrata di persona, ora che ci penso... -
Se Lysandra era Elladan e anche la regina, l'intera faccenda era più complicata di quanto immaginava. 
“Accidenti, sono la schiavetta della regina...”
- Non è più un'elfa, ma un Lich. A differenza dei non-morti, che non hanno un'aura in quanto non sono in grado di usare la magia, i Lich sono più simili a demoni. Quando mi imbattei in lei, percepii subito la sua magia oscura, che lasciava fluire intorno a sé come se niente fosse. Ogni giorno avvertivo i suoi sguardi carichi di derisione sulla pelle. Sapeva che l'avevo riconosciuta, ma non mi temeva, perché se avessi tentato di sollevare la corte contro di lei, avrebbe svelato la mia identità di mezzelfo e allora nemmeno il re avrebbe potuto proteggermi. Sarei stato giustiziato senza neanche un processo. - esalò a mezza voce. 
Accavallò le gambe e si spostò una ciocca argentea dietro l'orecchio. 
- E' stato per causa sua che è scoppiata questa maledetta guerra. -
- Per causa sua? Non sono stati gli attacchi elfici alle città di confine? - Airis lo fissò interdetta.
- No. Quella è stata solo una scusa che vi è stata propinata per indurvi a prendere le armi. Inoltre, nutro seri dubbi che il popolo elfico abbia veramente attaccato quelle città. Lysandra, cioè Elladan, voleva lo scontro ed era disposta a tutto pur di ottenerla. È stata lei ad uccidere Sejrel e poi si è sbarazzata di me, convincendo tutti che ero io il colpevole. Poi, una volta sul trono, si è risposata con l'attuale re, un sempliciotto incapace persino di allacciarsi i sandali. -
- A-aspetta... - la guerriera protese le mani avanti per zittirlo, - Anche se fosse, ripeto che mi sembra impossibile che nessuno si sia accorto di nulla! Un Lich non può invecchiare e dall'inizio della guerra sono passati più di cinquant'anni. A quest'ora dovrebbe avere l'aspetto di una vecchia! -
Copernico alzò un sopracciglio, squadrandola da capo a piedi, poi rispose pacato: - Tra gli umani ci sono ben poche persone in grado di padroneggiare la magia. Come io ho celato il mio aspetto per tutto questo tempo, anche lei lo ha fatto. Inoltre, creare una copia di se stessi più anziana non è molto difficile, sai? -
"Per gli dei... sono agli ordini della donna che ha fatto scoppiare una delle guerre più sanguinose della storia di Esperya. È un incubo, vero?" 
- Come faccio a sapere che mi stai dicendo la verità? - chiese ad un tratto con palese diffidenza.
- Ti ho appena raccontato tutta la mia vita, senza celarti nulla. - 
- A-ah... quindi io dovrei crederti sulla parola. - schioccò la lingua e storse il naso, - Sai, non mi viene particolarmente facile dare la mia fiducia ad un uomo che, fino a qualche minuto fa, ritenevo essere il peggiore traditore del regno. -
Egli sorrise accondiscendente: - Ti servono altre prove? -
- Voglio solo essere sicura. -
Copernico si alzò e si accostò a lei: - E sia, Cavaliere del Lupo. Ti mostrerò cosa è successo quel giorno di cinquant'anni fa. -
Le afferrò la testa con fermezza e fissò gli occhi nei suoi. La guerriera rimase immobile, mantenendo il contatto visivo. Per alcuni momenti non accadde nulla e pensò che l'altro volesse solo spaventarla. Poi la realtà sfumò e davanti a lei si dipinsero le immagini di quello che era accaduto, ciò che Copernico aveva visto e non era riuscito a fermare.
Vide la camera privata del sovrano, con quadri enormi appesi alle pareti e arazzi di pregiata fattura. Vide Lysandra, il suo corpo fasciato da un abito nero come la notte, mentre calava la lama nella schiena di Sejrel Varaldien. Si guardò intorno alla ricerca di Copernico, chiedendosi perché non fosse lì ad aiutare il suo re, quando a un tratto lo scorse riverso a terra, a pochi metri di distanza, con le braccia bloccate sul pavimento da delle catene nere. Egli assisté impotente alla scena e guardò con occhi pieni di dolore e disperazione il giovane re contorcersi nei suoi ultimi spasmi di vita, la bocca schiusa in un grido di supplica. Non appena il corpo cadde a terra, insieme al pianto sommesso del mezzelfo Xerxas Ascrocell riecheggiò anche la risata di trionfo di Lysandra.
All'improvviso le visioni svanirono e intorno ad Airis si delinearono nuovamente i contorni del soggiorno. Copernico aveva ritirato la mano e adesso la fissava, in attesa.
La guerriera sbatté le palpebre e annuì debolmente. Il mago sorrise e si risedette di fronte a lei.
- Non è stato per niente bello... - commentò, massaggiandosi le tempie. 
Aveva l'impressione che la testa potesse scoppiarle da un momento all'altro, la sentiva pulsare senza sosta e fitte lancinanti le attraversavano il cervello, talmente forti da sembrare le unghiate feroci di una belva.
- Lo so, ma era l'unico modo per dimostrarti che non stavo mentendo. Inoltre, ho un favore da chiederti. -
La ragazza lo studiò con aria interrogativa.
- Vorrei che ti prendessi cura di Ledah. Non devi permettere che cada nelle grinfie di Lysandra. -
- Per-perché? -
- Perché quell'elfo è la chiave di tutto. È suo figlio e ha dentro di sé un grande potere, un potere oscuro e distruttivo. Scommetto che pure tu te ne sei accorta. -
Airis annuì, sentendosi per la prima volta profondamente a disagio al cospetto dell'arguzia e della sensibilità di quel mezzelfo. Ledah aveva passato sotto silenzio la sua perdita di controllo ad Alfheim, eppure Copernico era già al corrente di tutto, forse lo era sempre stato. Allora comprese come mai Lysandra lo voleva fuori dai piedi: era troppo intelligente e conosceva troppe cose per essere lasciato in vita.
- Se Ledah cadrà nelle sue mani, probabilmente per Esperya sarà la fine. - aggiunse sporgendosi verso di lei, d'un tratto ansioso, - Non devi permetterglielo, Airis. Rimangono molti interrogativi, ma sono certo che Lysandra sia la diretta artefice dell'esplosione che ha raso al suolo Llanowar. -
- E... cosa dovrei fare? Difenderlo a spada tratta? - domandò sarcastica.
- No, voglio solo che tu lo protegga. Se i demoni dovessero nuovamente attaccare, fa' in modo che non lo catturino. E' di vitale importanza che lui si salvi. -
Airis rimase perplessa di fronte a quella richiesta. Non poteva rifiutare quell'incarico, non ora che sapeva quanto Ledah giocasse un ruolo fondamentale nei piani di Lysandra. Non che prima fosse ignara di tutto, aveva capito che l'elfo le serviva per un rito allo scopo di riportare in vita Aesir, ma ora tutto stava cominciando a farsi chiaro. D'altro canto, doveva assolutamente adempiere alla missione che il Lich le aveva affidato, se voleva restare viva. Strinse i pugni, divisa tra ciò che riteneva giusto fare e la paura di quello che le sarebbe accaduto se non si fosse sbrigata a uccidere quel mago.
"In qualunque caso, non posso allontanarmi da Ledah. Lysandra vuole che la sua anima si danni a sufficienza per il rito." 
Sospirò, alternando lo sguardo tra Copernico e la finestra. Stirò le labbra in un tenue sorriso, mentre un'idea si faceva strada in lei. 
- E sia. Proteggerò Ledah. - dichiarò decisa.
- Grazie. - sorrise il mago.
- Certo che sei strano... accogli in casa il figlio di un Lich e cerchi di proteggere un reame che ti ha ripudiato. Perché? -
Copernico sbatté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di elaborare le sue parole.
- Vedi, non si è Consigliere del re solo quando si indossa una stola purpurea e ci si esibisce in un'arringa davanti ad altri illustri colleghi. - gli occhi e i capelli si scurirono, di nuovo mascherati dall'illusione della magia, - Quando si ricopre un ruolo così importante è per tutta la vita, capisci? Sono doveri che anche a distanza di anni senti ancora come parte integrante di te. Certo, non ho mai calpestato i campi di battaglia e non ho mai avuto un omicidio sulla coscienza, ma ho affiancato il mio sovrano in ogni suo passo sostenendolo nella lotta contro le serpi della capitale, coloro che opprimevano i più deboli per un tornaconto personale o che alimentavano l'odio, allargando ancora di più la voragine che separa i vari popoli. In tutti questi anni ho continuato a proteggere Esperya nell'ombra, perché questa è la mia terra, la stessa terra che un giorno sarà delle mie figlie e dei loro discendenti. Non voglio che i miei nipoti soffrano ciò che ho patito io, non voglio che nascano in mezzo agli orrori della guerra e che debbano sacrificare i loro sogni per arruolarsi e andare a morire. Non mi interessa se in ogni angolo del regno sono considerato un traditore, non mi interessa se il mio nome è stato infangato dall'infamia. Desidero solo realizzare il sogno in cui Sejrel credeva, per dare un futuro a tutte quelle persone che tra uno, dieci o cento anni cammineranno sotto il cielo di Esperya. Questo è il compito di un Consigliere del re, questo è il mio compito. -
Airis rimase di stucco. Non aveva mai incontrato un uomo così devoto, così determinato a portare a termine un incarico. Lo guardò con nuovi occhi, traboccanti di stima e ammirazione. Si alzò in piedi e rimise a posto la sedia, sorridendo dietro le ciocche rosse che le incorniciavano il viso. Copernico era veramente una persona straordinaria.
- Quindi sei tu che hai sempre protetto Luthien dalle incursioni umane ed elfiche?-
Il mago annuì: - Anche se sono stato costretto a ritirarmi, sono pur sempre un mago e dentro di me sono rimasto un Consigliere. Per fartela breve, so come trattare con gli alti capi dell'esercito come con quelli del governo. In più ho stipulato un patto con gli elfi, quando sono giunto qui. Ho fatto in modo che non si avvicinassero alla città, nonostante essa si trovi ai confini meridionali della foresta di Llanowar. Così, quando è scoppiata la guerra, Luthien è stata risparmiata. -
- E non hai mai temuto che qualcuno sospettasse qualcosa sulla tua identità? Girano molte guardie del re in queste terre. -
- Anche se fosse, nessuno ricorda le fattezze del mio viso. Sono passati molti anni dal giorno in cui ho lasciato la corte e altrettanti da quando hanno smesso di braccarmi, dandomi per morto. Se adesso vado in giro per le strade, vedo solo soldati giovani, arroganti e pieni di sé. Nessuno mi ha mai riconosciuto. E nel caso decidessero di trasformare questa città di pescatori in un avamposto militare, userei qualche precauzione in più, ma non ho intenzione di abbandonare i suoi abitanti. Desidero preservare e proteggere Luthien a tutti i costi, anche perché qui ci vive la mia famiglia. È la nostra casa. -
Airis lo squadrò piacevolmente colpita.
- Ahh, mi sono lasciato andare alla vecchia dialettica, eh? - ridacchiò grattandosi la nuca, - Alcune abitudini sono proprio dure a morire. -
La guerriera sorrise: - Forse. Comunque, hai troppa fiducia nell'umanità. - 
L'altro inarcò un sopracciglio, confuso: - Perché dici questo? -
- Beh, chi ti dice che io non sia una spia di Sershet venuta a trascinarti di fronte al Consiglio? -
- Lo sei? - la stuzzicò. 
In un istante il viso di suo padre si sovrappose a quello di Copernico e Airis ebbe un tuffo al cuore.
- Non credo che ne saresti capace. - rispose il mago al suo posto e le mise una mano sulla spalla, facendola sussultare.
- Come fai ad esserne certo? -
Le regalò un altro sorriso pieno di dolcezza. Airis notò che Copernico aveva assunto la medesima espressione serena che tempo addietro il suo caro padre era solito assumere in sua presenza.
- Io lo vedo. Tu non sei come gli altri Generali e politici, uomini assetati di potere e pronti a tutto per saziare la loro avidità. I tuoi sono occhi come quelli di chi ha conosciuto il dolore da vicino, di chi sa cosa significa essere incolpati di qualcosa di cui non si è responsabili. Il Consiglio mi ha accusato di aver ucciso il mio sovrano, l'uomo che più di tutti si era battuto per far sì che in questa terra, lacerata dall'odio e dalla paura, tornasse la pace. E io credo che la stessa cosa sia successa a te. Chiamiamola pure empatia. - 
Si allungò verso di lei e le sfiorò la guancia, accarezzando le leggere abrasioni intorno alle palpebre. 
- Dimmi, Airis, chi sei tu? Cosa ti è capitato di tanto brutto da costringerti a sotterrare la tua vera identità, come ho fatto io e come fece Elladan? -
La guerriera scattò indietro come se si fosse scottata e rabbrividì. Aveva abbassato la guardia e Copernico, grazie al suo intuito, ne aveva approfittato per sbirciare dentro di lei. Era stata incauta. 
Rimasero entrambi a guardarsi negli occhi per un tempo interminabile. Poi il mago fece spallucce e con noncuranza prese un altro biscotto.
- Un giorno spero me lo racconterai. Ora scusami, devo andare a prepararmi per la partenza. -
- Parti? E dove hai intenzione di andare? - chiese sudando freddo. 
Se Copernico si fosse allontanato per troppo tempo, Lysandra non ne sarebbe stata affatto contenta.
- Mi dirigerò verso sud, da un amico che ha un certa dimestichezza con i catalizzatori magici. Lui mi saprà sicuramente dire qualcosa di più sul frammento che mi avete portato. - abbozzò un sorriso sghembo, - Tranquilla, non ti lascio nelle mani di Melwen per troppo tempo. Sarà una cosetta veloce. -
- Non ci so fare con i bambini... - sbuffò.
Prima che potesse aggiungere altro, il mago si avviò verso le scale, sparendo alla vista. Airis si appoggiò al muro e scivolò verso il basso, nascondendo il viso tra le mani e cercando di scacciare l'immagine degli occhi del padre, così simili a quelli del mago. Quel mago che, di lì a poco, avrebbe dovuto trovare il coraggio di uccidere.


 

Angolino Autrice

Ciao ragazzi!
Beh, siamo arrivati più o meno a metà storia. Non sono una che ama mettersi in mostra perché credo che sia più giusto lasciar parlare i miei personaggi, però, giunta a questo punto, credo sia d'obbligo ringraziare tutti voi che mi avete continuato a seguire e sostenere. Ringrazio tutti, chi ha letto dall'inizio e chi si è aggiunto dopo, chi mi ha criticata, chi mi ha aiutato a crescere e chi è sempre stato presente, anche nei momenti più bui e tristi.
Un ringraziamento speciale lo mando a Lady1990, mia amica, maestra,modello a cui aspiro un giorno di arrivare. Grazie di esserci sempre stata, senza di te non sarei nemmeno qui.
E grazie a tutti voi, lettori silenziosi e non! Grazie di aver continuato la lettura fino a questo momento e spero di potervi dare sempre qualche emozione con i miei personaggi un po' sfortunati ( un po'... va beh...) e che il mondo di Esperya, con tutte le sue contraddizioni e ombre, possa continuare ad appassionarvi.
Grazie di cuore e al prossimo capitolo.
Hime

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Capitolo 22
*** Sentimenti ***


22

Sentimenti


 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
 
Ledah era nervoso e continuava a battere il piede sul pavimento. Il suo sguardo, per l'ennesima volta, saettò febbrile da una parte all'altra della bottega. 
Quella giornata era cominciata in modo strano e adesso non accennava a prendere una piega differente. 
Si appoggiò al muro e inspirò profondamente, concentrandosi sul leggero refolo d'aria che gli accarezzava la gola. 
Al mattino Copernico aveva annunciato che sarebbe andato ad Alcarin a trovare un vecchio amico, che sicuramente gli avrebbe fornito qualche informazione in più sul frammento. Lì per lì, l'elfo era rimasto un po' spiazzato: Alcarin era una cittadina ancora più piccola di Luthien, famosa sia per i suoi pregiati gioielli sia per la ben nota poca simpatia dei suoi abitanti, quasi tutti nani e gnomi artigiani. Si era chiesto come Copernico sarebbe riuscito ad entrare senza attirare l'attenzione, visto che molti dei paesani erano in grado di percepire le auree magiche, ma non aveva dato voce ai suoi dubbi. In fin dei conti, l'amico sapeva il fatto suo e, anche volendo, non avrebbe accettato di farsi accompagnare, rischiando di lasciare da sole Margharet e le due bambine.
"Non dopo quello che stava per accadere a Melwen." 
Affondò le dita nelle braccia.
Anche se non glielo aveva domandato esplicitamente, Ledah aveva capito che il mago preferiva che rimanesse in città ad aiutare la sua famiglia in caso di bisogno. 
Perciò, subito dopo la partenza di Copernico, si era ritrovato prigioniero in casa con le tre donne e, per i primi giorni, per fortuna' non aveva avuto nessun tipo di problema. La sorellina di Melwen era troppo piccola per fare qualsiasi cosa, mentre Margharet era sempre intenta a sbrigare le faccende domestiche o ad occuparsi della minore delle sue figlie. Al massimo gli chiedeva di svolgere qualche commissione in città. 
L'unica cosa che gli sfuggiva era il motivo per cui la guerriera e quella pestifera testa bionda lo seguissero ovunque. Lo infastidiva non poco, soprattutto perché assieme a Melwen ed Airis c'era sempre quella pettegola di Myria, che sembrava aver ingoiato un grillo da quanto parlava.
Sospirò stancamente, appoggiò la testa contro la parete e si mise ad osservare di nuovo la bambina, che stava correndo verso quella donna chiacchierona per mostrarle l'ennesimo abito che voleva provare. 
Il solo che sembrava annoiarsi tanto quanto lui era Zefiro, il figlio di Myria, che era stato "costretto" a seguire la madre in questi continui, e a suo avviso inutili, giri per botteghe. Però lo consolava il fatto che, grazie all'ingente quantità di pozioni lasciate da Copernico, poteva tranquillamente girare per Luthien senza rischiare di farsi linciare da una folla inferocita.
"Anche se andare a spasso con il Generale degli umani è la cosa più ridicola che ci possa essere." sbuffò, "Bravo, Copernico, già che c'eri potevi anche gettarmi in pasto a dei segugi infernali." 
Schioccò la lingua e alzò gli occhi al cielo.
- Puoi smetterla di guardarti attorno come se temessi di esser assassinato da un momento all'altro? - la voce sarcastica di Airis gli graffiò le orecchie. 
L'elfo le rivolse un'occhiata carica di odio: era stufo di avercela sempre tra i piedi, figurarsi essere costante bersaglio delle sue frecciatine.
Lei ghignò, squadrandolo dalla testa ai piedi. 
- Ascolta, anche a me non fa particolarmente piacere andare in giro con te, tanto meno mi diverto a sorbirmi il continuo chiacchiericcio. - fece un cenno col capo all'indirizzo di Myria, - Ma Margharet si sta facendo in quattro, quindi cerchiamo di sopportarci. - 
L'elfo si massaggiò le tempie e non tentò nemmeno di reprimere un altro sospiro. 
- Capisco... ma non penso di riuscire a tollerare la folla ancora a lungo. - borbottò a mezza voce.
La guerriera fece spallucce, lisciandosi poi la camicetta con espressione assorta. 
- Non dirlo a me! - 
Poi posò lo sguardo su un punto imprecisato della bottega e rimase in silenzio, persa nei suoi pensieri.
Ledah la osservò di sottecchi, sfiorando con aria indecifrabile le forme di quel corpo che continuava a scatenare in lui sensazioni contrastanti. Si soffermò sui pantaloni aderenti in pelle nera che le fasciavano le gambe, mettendo in risalto quelle curve che probabilmente lei sperava di nascondere. Inoltre, la camicia bianca un po' lisa non faceva altro che accentuare il suo incarnato niveo e delicato. Le dita di Ledah fremettero e per un istante immaginò di immergerle in quella chioma rossa; sognò di accarezzare le sue labbra, toccare le sue mani e tastare dolcemente le cicatrici che costellavano la sua pelle liscia.
"Stai calmo, Ledah, stai calmo." si ripeté mentalmente, voltandosi a fissare una signora che stava provando un cappello. 
Cercò di concentrarsi sui dettagli dell'abito della donna, nel tentativo di ricacciare nei meandri della sua mente quel pensiero inopportuno, ma qualcosa dentro di lui si agitava, rendendolo inquieto. Non capiva perché Airis gli suscitasse quell'effetto, per quale motivo soltanto lei riuscisse a sconvolgere la sua anima fino a quel punto.
- Con le altre era diverso... - sussurrò tra sé e sé, massaggiandosi le palpebre.
- Prego? - Airis lo guardò interrogativa. 
Ledah incrociò quegli occhi opachi per alcuni attimi e si domandò quanto tempo ancora le rimanesse, prima che la cecità l'avvolgesse di nuovo.
- Nulla, parlavo da solo. - rispose sbrigativo, - Comunque, credo sarebbe meglio rinnovare l'incantesimo per prolungare nuovamente la tua vista. - farfugliò imbarazzato, poi si coprì la bocca e fece finta di sbadigliare.
La giovane sussultò e a Ledah non sfuggì l'espressione sorpresa che attraversò il suo volto. 
- Perché mai dovresti farlo, elfo? - sibilò gelida, cercando di rimanere impassibile, - Sono pur sempre una nemica da cui hai cercato di scappare. -
- Questo è vero. - rispose pacato, - Però se ci attaccano e tu vai a sbattere contro qualche albero perché non ci vedi, non sarai molto utile, Generale. - aggiunse, senza sprecarsi a compiere lo sforzo di nascondere la forte vena sarcastica nella voce, - O meglio, Caillean. - precisò ironico.
Il giorno prima di fare la vera e propria conoscenza di Myria, Airis gli aveva raccomandato di non chiamarla mai col suo vero nome davanti a lei. L'elfo, sul momento, non aveva fatto indagato sulla ragione, sapendo che la guerriera non si sarebbe degnata di dargli una qualche spiegazione. Tuttavia, qualcosa gli suggeriva che il nome che aveva fornito alla donna non era stato casuale.
La ragazza lo scrutò in cagnesco, evidentemente risentita per quello che aveva detto. 
- Guarda che, anche senza la vista, riesco benissimo a combattere. - ringhiò.
- Ne sono ben consapevole, - sospirò, - ma credo che tu abbia perso l'abitudine da quando sei tornata a vedere. -
La guerriera si morse il labbro inferiore, punta sul vivo.
Ledah ghignò compiaciuto davanti a quella reazione così insolita. 
- Non si preoccupi, Generale. Le eviterò questa brutta esperienza. Ad una condizione, però. -
Airis storse la bocca in una smorfia scontenta, palesemente esasperata: - E cosa vorresti? - 
- Nulle di che... - rispose vago e spostò lo sguardo verso la finestra della bottega. 
Un timido raggio di sole filtrò attraverso i vetri sporchi, illuminando l'ambiente con una luce opaca che sembrava sfumare i contorni degli abiti e dei bizzarri capelli esposti nella bottega. I pochi clienti esaminavano quei piccoli capolavori di sartoria ostentando disinteresse, ma sfioravano con esagerata riverenza le sete e i merletti, consci di non potersele permettere. 
Allora Ledah si chiese se anche quella ragazza scorbutica avesse mai desiderato indossarne uno.
- Beh? - lo richiamò questa, - Cosa vuoi da me? -
L'elfo fece per rispondere, quando una zazzera bionda gli si fiondò tra le braccia. 
- Grazie di avermi aspettata! - esclamò Melwen, saltellando contenta di fronte a lui per mostrargli compiaciuta il nuovo abitino rosa confetto che aveva scelto, - Guarda! Ti piace? -
Ledah corrugò le sopracciglia e finse di riflettere seriamente sul quesito. 
- Uhm... - si grattò il mento, alternando l'attenzione tra il vestito e la biondina, - Direi che ti si addice molto. - sentenziò infine.
- Davvero?! - 
Melwen si girò radiosa verso Myria e Zefiro, che l'avevano seguita. 
La donna stringeva il figlio per la mano e, non appena scorse il sorriso smagliante di Melwen, sorrise a sua volta, felice di vederla così euforica.
- Dai, su, andiamo a pagare, prima che cambi di nuovo idea. - lo esortò scherzosamente.
Ledah si avviò al bancone e il bizzarro gruppetto si accodò, come in una piccola processione. Soltanto Airis si discostò da loro, rimanendo indietro. L'elfo poteva percepire i suoi occhi sulla schiena. Era come se lo stesse studiando, impaziente di capire quali fossero le sue vere intenzioni.
Non appena uscirono dalla bottega, Myria gli si affiancò, mentre Melwen trascinò il piccolo Zefiro in una folle corsa, zigzagando in mezzo alle poche persone che erano in strada. Nei giorni in cui non c'era il mercato era raro che gli abitanti di Luthien andassero in giro a far compere, soprattutto perché la maggior parte era impegnata nella pesca o nei lavori nei campi.
- La guerra è ovunque. - sospirò amareggiata la donna, senza perdere d'occhio i due bambini, - Prima, qui al Nord, c'era un mercato talmente florido da fare invidia a quello delle città del Sud. Invece ora siamo costretti a patire la fame. -
L'elfo la guardò di sfuggita, osservandola con la dovuta attenzione. Airis gli aveva detto che nella città da cui veniva, Myria era stata una famosa mercante. Però non gli aveva raccontato il motivo che l'aveva spinta ad abbandonare la sua attività. L'espressione triste che in quei giorni era spesso comparsa sul viso della ragazza gli aveva lasciato intendere bene cosa poteva essere accaduto a Myria e alla sua famiglia. 
- Purtroppo in questi anni sono state spezzate molte vite. - sospirò, e il viso di Brandir emerse dalla sua memoria.
Myria piegò le labbra in un mezzo sorriso, lo sguardo vacuo, lontano, fagocitato dei ricordi. 
- E' vero. - si portò una mano al petto, stringendo la veste all'altezza del cuore, - Se tutto ciò non fosse successo, ora lui sarebbe ancora vivo... -
Ledah la fissò, non capendo a chi si riferisse.
- Mio marito. - spiegò, poi si strofinò gli occhi e trattenne stoicamente le lacrime, - Morto in una stupida imboscata, in nome di una guerra senza gloria e senza onore. -
"Quindi... quel soldato con cui suo figlio passa il tempo non è il padre di Zefiro?" 
Scoccò un'occhiata indagatrice alla donna, alla ricerca di un chiarimento. 
Lei sussultò, come se si fosse ridestata all'improvviso da un sogno. Si portò una mano alla bocca e sorrise mesta. 
- Scusami, mi sono lasciata trasportare. -
- Non preoccuparti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro. - rispose conciliante.
Quando ancora faceva parte dell'élite degli arcieri di Llanowar, Ledah aveva assistito molte volte al funerale dei suoi compagni. Ricordava perfettamente i volti in lacrime dei familiari dei caduti, le loro urla di disperazione. All'epoca non aveva potuto comprendere quel dolore fino in fondo, e ancora gli risultava difficile, ma poteva immaginare cosa si provasse quando si vedeva i corpi senza vita dei propri cari.
- E' solo grazie ad Alan che siamo arrivati fin qui. - disse Myria, scostandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie.
- Alan? Intendi il soldato con cui sta sempre Zefiro? -
- Sì. - un sorriso le increspò le labbra, - Da quando ho perso mio marito, Alan si è sempre preso cura di noi. É come un padre per lui. É la miglior persona del mondo. - confessò.
Dopodiché, volse la sua attenzione verso l'elfo. 
- Anche lei ha perso qualcuno di importante, sai? - butto lì.
Ledah sobbalzò, preso in contropiede. 
- Lei... lei chi? - chiese, facendo finta di non aver capito.
Myria ridacchiò, scuotendo la testa come se avesse a che fare con un bambino testardo. Gli diede una leggera pacca sulla spalla e si distrasse un secondo per assicurarsi che i bambini fossero ancora nei paraggi: Melwen stava letteralmente trascinando Zefiro verso un panificio al lato della strada, incurante dalla faccia non del tutto convinta del suo compagno.
- Caillean! - chiamò la donna mentre arrestava il passo e si girava indietro, - Potresti stare dietro a quei due pazzi, per favore? Intanto io e Ledah andiamo a comprare le verdure per Margharet. -
Airis si bloccò, fissandoli entrambi con un'espressione interrogativa. Per tutti il tempo della loro conversazione non aveva parlato e si era mantenuta sempre a una discreta distanza, come se volesse rimanere da sola, lontana da tutto e da tutti. Senza fare domande, oltrepassò i due e si diresse verso i due bambini, tenendo gli occhi rivolti a terra con ostinazione. La noia e la scocciatura erano ben evidenti nel suo atteggiamento. Eppure, quando passò accanto a Ledah, a questi non sfuggirono i lineamenti, di norma freddi, contratti ora in una maschera di malinconia e inquietudine, celata sotto le disordinate ciocche rosse che le ricadevano sulla fronte.
"Cosa ti succede, Airis?" 
Sentì l'impulso di agguantarle una spalla, farla voltare e ottenere delucidazioni, ma lo soffocò, consapevole che la guerriera non avrebbe mai messo a nudo i suoi pensieri.
"Non con me, almeno..." 
Venne colto da un'improvvisa e immotivata amarezza, mista a un pizzico di delusione.
- Muoviti, sennò quelli si divorano anche il fornaio! - la esortò scherzosamente Myria.
La ragazza fece un cenno d'assenso, poi la sua figura sparì dentro la bottega.
Non appena rimasero soli, la donna prese Ledah a braccetto e insieme si recarono presso un'altra bottega poco più là, dove erano esposte delle casse di legno piene di frutta e verdura. Si rigirò un paio di mele tra le dita, osservandone le caratteristiche e le imperfezioni con occhio clinico. Il commerciante, un uomo smilzo dai capelli radi e il sorriso sdentato, li salutò, porgendo loro una saccoccia di pelle logora dove poter riporre i loro acquisti, dato che si era accorto che i due ne erano sprovvisti.
- Grazie, molto gentile. - gli sorrise Myria e l'uomo arrossì appena.
Per un paio d'istanti nessuno parlò, poi Ledah prese la parola: - A cosa ti riferivi prima? -
La donna tastò dei pomodori con aria meditabonda. 
- Quanti anni pensi che abbia Caillean? - chiese pacata.
- Quanti anni ha? - i suoi occhi cercarono il cielo e al contempo provò a fare un rapido calcolo, - Mah, credo ne abbia al massimo sedici o diciassette. - azzardò titubante, per nulla sicuro in verità.
- E' quello che penso anche io. - sollevò un pomodoro davanti alla faccia e lo annusò, - Ti sembra normale che una ragazza così giovane sia un soldato? - lo fissò intensamente, - Te lo dico io: no, non è normale. Una della sua età dovrebbe aver già trovato marito, oppure al massimo dovrebbe essere in una qualche scuola a studiare l'arte e la musica. - 
Scosse la testa, passandosi una mano sulla bocca come se stesse ponderando le parole da usare. 
- Invece è nell'esercito e rischia la vita ogni giorno. E tutto questo perché? - si girò verso di lui, gli occhi pieni di rabbia e nuovamente velati di lacrime, - Perché, Ledah, una ragazzina dovrebbe combattere e consumarsi in una vita di sacrifici, dolore, fame e stenti? -
- Stai insinuando che è stata costretta? Come fai a dirlo? Magari è la vita che voleva lei. - commentò esitante.
- Lo vedo dai suoi occhi, da come si atteggia, dal modo in cui finge di possedere una forza che non ha. - Myria si morse il labbro e strinse la saccoccia con forza, - Mi ha salvata e si è sempre comportata come un vero cavaliere, senza mai chiedere nulla in cambio. Eppure, il suo sguardo è sempre colmo di tristezza... mi sembra quasi rassegnata, come se la vita non avesse più niente da offrirle. Combatte perché deve farlo, più per sopravvivere che per convinzione. Almeno questa è l'impressione che mi dà. - sospirò, - E' come se fosse morta. Morta dentro. -
Ledah abbassò lo sguardo, serrando le labbra. Non aveva mai considerato l'ex-Generale una ragazza. Lei era sempre stata il nemico da sconfiggere, un avversario temibile che costituiva una minaccia per il suo popolo. Solo nell'ultimo periodo aveva cominciato a vederla in maniera diversa, anche se nemmeno lui riusciva ancora a dare un nome a quel sentimento che ai suoi occhi la spogliava di qualunque preconcetto.
- E come dovrei procedere? - incrociò le braccia al petto, confuso, - Lei con me non vuole avere niente a che fare... -
- Ma come! Mentre ballavate eravate così belli! - esclamò Myira sorpresa, - Certo, all'inizio eravate un po' impacciati, ma quello succede sempre la prima volta, sai? Mi ricordo... -
L'elfo mise le mani avanti, come per fermare il fiume di parole che stava per straripare dalle sue labbra. 
- Fidati, Myria. Io e lei non abbiamo nulla da spartire, Airis per prima. - la freddò, - Avremmo anche ballato assieme, ma questo non significa nulla. Ci siamo ritrovati l'una nelle braccia dell'altro e abbiamo seguito la musica come tutti gli altri per non attirare irritanti attenzioni su di noi. -
La donna sbuffò esasperata. 
- Ascolta, non prendermi per stupida. Vi ho osservato alla festa e ho visto come Caillean era rilassata, mentre tu la guidavi sulle note della musica. - mise le mani sui fianchi e lo squadrò con cipiglio severo, - Lei stava bene con te, si sentiva al sicuro. L'ho capito dal suo viso rilassato e dal modo in cui si è lasciata stringere. Pensi che una ragazza come Caillean si sarebbe fatta toccare così, se non si fosse trovata a suo agio? -
- Cosa dovrei fare, eh?! - sbottò Ledah. 
"Starle vicino? Amarla? Io sono un elfo e lei un'umana!"
- Tanto per cominciare, potresti smetterla di negare i tuoi sentimenti per lei. -
L'arciere spalancò gli occhi, completamente spiazzato da quell'ultima affermazione. 
- I miei sentimenti... per lei? - balbettò, ma subito dopo si riprese, - Non dire sciocchezze! -
- Sì, esatto, mio caro. - insistette, infilando nella piccola sacca anche delle mele, - Me ne sono accorta in questi giorni che siamo stati a stretto contatto: lei non ti è del tutto indifferente. Entrambi siete convinti di non darlo a vedere, di essere dei bravi attori, ma io ho occhio per gli affari, anche quelli di cuore. - un sorriso furbo le si dipinse sulle labbra, - Se ti piace così tanto, perché non ti dichiari? Anche Melwen dice che stareste bene insieme. -
L'elfo scrollò il capo, mentre nella sua mente i pensieri si accavallavano in modo sempre più caotico. L'idea che tra lui e Airis potesse nascere qualcosa che andasse al di là della semplice collaborazione era davvero assurda: l'amore tra razze differenti non era ben visto da nessuno dei due popoli e avrebbero rischiato di fare la vita degli emarginati, costretti a vivere lontano da tutto e tutti. 
Tuttavia, l'emozione che gli scaldava il petto se ci rifletteva avrebbe dovuto disgustarlo, riscuoterlo da quelle fantasie malate e ricondurlo sulla retta via. Eppure, per alcuni interminabili istanti, aveva accarezzato seriamente la possibilità di trascorrere il resto della propria esistenza con lei, come marito e moglie. Era inutile ripetersi che si trattava soltanto di attrazione fisica. C'era qualcosa di più, ormai era palese, e non poteva più continuare a negarlo, sarebbe stato da ottusi. 
Ripensò al ballo, a quell'abbraccio che gli aveva fatto battere il cuore, a quel momento d'eternità in cui l'aveva stretta e si era finalmente sentito a casa.
Vivere come fuggitivi, estranei a tutti tranne che a loro stessi. Un'avventura degna di una ballata romantica.
"Solo io e lei..." 
Intravide uno scorcio di un futuro irrealizzabile e al contempo dolce come il miele. Lo coccolò con incertezza, ma alla fine lo respinse.
Ricorda chi sei, Ledah. Tu sei un mostro.
Una vocina crudele s'insinuò nei suoi pensieri, crudele, suadente. 
"No..." 
Si portò le mani coprire le orecchie per smetterle di sentirle.
Mostro!
Mostro!
Mostro!

Il mostro che tutto distruggerà!
Affondò le dita nei capelli, lasciando che le unghie penetrassero nella cute, e pregò che il dolore le cacciasse via. Ma le voci aumentarono, gridando, accusandolo, graffiandogli la mente con ferocia. 
"Andate via!" 
Cadde in ginocchio, incassando la testa nelle spalle, mentre i gelidi brividi cominciavano ad attraversare il suo corpo. 
C'erano mille mani su di lui, mille mani che lo violavano nell'anima e lo strattonavano con prepotenza. Avvertì una corrente ghiacciata intrufolarsi nelle sue ossa.
Tu ci appartieni!
- No! - mugolò.
Arrenditi, Ledah!
Provò ad urlare, ma la voce rimase incastrata nella gola. Lentamente la realtà perse i suoi contorni, corrosa da quella soverchiante onda nera, che inghiottì qualsiasi cosa. 
Vide i volti preoccupati di Myria, del commerciante e di alcuni passanti, facce anonime dalle sembianze grottesche, distorte. Percepì la stretta salda della donna e il suo grido spaventato gli giunse come un'eco indistinta. Qualcosa gli raschiava il torace, smanioso di uscire; una belva feroce lo stava divorando dall'interno nel disperato tentativo di aprirsi un varco. 
Spalancò gli occhi, il corpo intorpidito, stordito da quelle fitte laceranti.
Poi un suono di passi richiamò la sua attenzione. Qualcuno si piegò su di lui e rimase immobile a fissarlo. Ledah alzò lo sguardo, cercando quello della figura sconosciuta. Non sapeva cosa lo spingesse a farlo, ma era certo che quello fosse la sua unica ancora di salvezza. Da dietro il velo rosso che lo avvolgeva, riuscì a scorgere un paio di occhi verdi.
Un verde slavato, opaco, senza luce.
"I suoi occhi..." 
Sussultò e improvvisamente il gelo che lo aveva avviluppato come un serpente lo abbandonò. Con il fiato corto e il sudore che ancora gli imperlava la fronte, iniziò a scivolare nel buio. Prima di perdere i sensi, una voce minacciosa strisciò in quel vuoto e delle mani fredde lo sfiorarono.
É inutile che continui a scappare. Prima o poi, ti prenderemo.

Airis entrò nella bottega con passo sostenuto, dissimulando in quell'incedere militare un'inquietudine che ormai da giorni le annodava le viscere. Da quando Copernico era partito, quella sensazione di malessere non l'aveva dato pace e ogni giorno che passava non faceva altro che acuirsi, frizzando fastidiosamente come una ferita infetta. Aveva provato a scrollarsela di dosso, senza successo. Inoltre, per distrarsi aveva anche tentato di ideare un piano per portare a termine la propria missione il prima possibile, eppure non riusciva a togliersi dalla testa le parole del mago, la discussione che avevano avuto il giorno della sua partenza. Quell'uomo che aveva perso tutto, con quegli occhi così pieni di calore, le rammentava suo padre e questo la frenava dal prendere qualunque decisione. 
- Dai, Zefiro, scegli quello che vuoi, così lo compriamo! - esclamò Melwen, piazzandosi davanti al bancone dei dolci e osservando il tutto con aria da intenditrice.
- Ma sei sicura che possiamo prenderli? - biascicò il compagno, incerto.
- E perché non dovremmo? - sbottò, scrutandolo truce, - Non dirmi che non ti piacciono i dolcetti! - 
Si erse in tutta la sua statura e torreggiò su di lui.
Airis osservò la scena e un piccolo, impercettibile sorriso comparve sulle sue labbra. Quella peste bionda le ricordava lei alla sua età, quando la sua vita era ancora a Merite e desiderava diventare un Cavaliere per porre fine a quell'insensata guerra. In quegli anni era convinta di voler diventare un'eroina, una di quelle le cui gesta vengono cantate dai bardi alle corti dei re; una guerriera che avrebbe calcato i campi di battaglia e condotto le truppe alla vittoria. Era stato il suo desiderio, suo e di suo padre.
"Ed ecco cosa rimane adesso del prode Generale." 
Serrò le labbra in una smorfia amara e si guardò i palmi delle mani, riportando alla mente tutte le volte che la paura l'aveva spinta a impugnare la spada. Aveva ucciso senza fare distinzioni, non aveva mai ceduto alla pietà o alla compassione, per il terrore che il coraggio le morisse in gola. Finora c'era sempre riuscita, non si era mai lasciata sconfiggere dai sensi di colpa, impedendo a qualunque altro sentimento di entrarle dentro. Perché i sentimenti l'avrebbero potuta far sentire viva, umana. Adesso, invece, vestita solo con una leggera camicia e senza la sua fidata compagna al fianco, non aveva più niente che la potesse difendere. Si sentiva vulnerabile, fuori e dentro.
Alzò lo sguardo, ascoltando l'allegro vocio dei due bambini, e nella figura di Melwen rivide se stessa quando andava in paese con il padre a fare compere per conto di sua madre. E quell'uomo che le stringeva forte la mano aveva la stessa espressione gentile di Copernico.
Improvvisamente, un urlo la riscosse dai suoi pensieri.
"Myria!" 
Si voltò verso Melwen e, prima di correre fuori, ordinò: - State qui. -
Non appena uscì, si guardò intorno, cercando l'origine del suono.
"Che cosa sarà accad-" 
Il pensiero sfumò, troncato dalla scena che vedeva a qualche metro da lei: Ledah era a terra, rannicchiato, con l'espressione sofferente e impaurita, e le mani premevano disperatamente sulle orecchie. Tremava, scosso da continui brividi, mentre Myria cercava di calmarlo e urlava alla gente di chiamare un guaritore. Probabilmente chiamò anche lei, ma Airis non la udì e rimase immobile a fissare l'elfo, incapace di articolare un pensiero logico. Il suo istinto le suggeriva di scappare, le intimava con insistenza di allontanarsi da quell'essere che lei sapeva essere mortalmente pericoloso. 
"E' un mostro."
Però, senza accorgersene, accorciò la distanza e piombò a fianco dell'arciere.
A un tratto, gli occhi dell'elfo incrociarono i suoi e Airis fu come se venisse incatenata ad essi. Due specchi rossi la fissarono, un misto di supplica e furia cieca che si agitavano violente in quelle iridi estranee: sembravano brillare di una luce sinistra, un riverbero scarlatto contornato da ciglia scure. 
- Dobbiamo portarlo immediatamente da un guaritore! - la voce di Myria le rimbombò nella testa. 
Il tempo parve fermarsi. L'atmosfera era sospesa, carica di una tensione indefinibile. Airis, incapace di agire, completamente avvinta da quel legame che si era creato tra di loro in quel momento, rimase pietrificata. Un incendio stava divampando in quegli occhi e Airis continuò a guardarli, affascinata e terrorizzata. Qualcosa, una specie d'intuizione, le diceva che quella strana sensazione l'aveva già provata, molti, molti anni prima.
Per alcuni secondi che sembrarono un'eternità restò incantata a studiare le fiamme gelide che ardevano nello sguardo di Ledah. Poi, pian piano, il verde vinse la battaglia e tornò ad inglobare nuovamente quel vortice carminio. In quell'istante, vide il viso del moro rilassarsi ed egli accennò un lieve sorriso. Infine, crollò esausto al suolo.
Qualcuno le afferrò le spalle e la scosse. Distolse a fatica l'attenzione dall'elfo e la posò sull'uomo che si stava facendo avanti per aiutare Mirya a sollevare l'arciere. 
- Caillean... cosa è successo? - il pigolio spaventato di Melwen la riportò alla realtà. 
Si voltò verso la bambina che, a differenza del piccolo Zefiro al suo fianco, cercava di non far trapelare la sua preoccupazione, ma la guerriera notò che tremava e che si stava sforzando di non piangere. 
- Non... non è morto, vero? - alzò la testa verso di lei, cercando disperatamente una risposta.
- Ci vuole ben altro per ucciderlo, Melwen. - la rassicurò, scompigliandole scherzosamente i capelli, - Si sarà solo sentito male, tutto qui. Adesso lo portiamo a casa e vedrai che si riprenderà, non preoccuparti. -
La bambina assentì debolmente e tirò su col naso, ricacciando indietro le lacrime. La guerriera accorse a dare il suo aiuto e, insieme a Myria e al mercante, riuscì a sollevare Ledah. 
- Ci dovrebbe essere un guaritore nelle vicinanze, potremmo portarlo da lui e... - la donna non fece in tempo a finire la frase, che Airis la incenerì.
- No, niente di tutto ciò. - scandì e si caricò meglio il peso del corpo, - E' semplicemente svenuto, nulla di più. Una buona dormita gli farà passare tutto. - sentenziò con un tono che non ammetteva repliche. 
Sperò che nessun altro si fosse accorto di quello che era successo. Le poche persone presenti si disinteressarono subito e andarono per la loro strada, ma comunque la ragazza ritenne opportuno defilarsi il prima possibile per evitare domande scomode.
La donna rimase perplessa, ma evitò di chiedere spiegazioni, limitandosi a ringraziare l'uomo per essere intervenuto così prontamente e declinando l'offerta di quest'ultimo, che la sollecitava a portare Ledah dal curatore del villaggio.
"Mi dovrò inventare una storia più convincente delle altre, stavolta." 
Sospirò.
- Permettetemi almeno di accompagnarvi fino a casa, signore. - il mercante indicò il cielo con un cenno del capo, - Si sta già facendo sera e non mi potrei mai perdonare se vi accadesse qualcosa. -
- Oh, non saranno sole. Le proteggerò io. - la voce stanca e provata dell'elfo la fece sussultare entrambe. 
Airis girò di scatto il capo verso di lui, domandandosi come potesse essere tornato in sé così in fretta, e forse, a giudicare dalla faccia di Myria e dei bambini, anche loro si stavano chiedendo la stessa cosa.
- Caillean ha ragione. In questi giorni mi sono sforzato molto. Sono solo stanco. - borbottò, poi lanciò un'occhiata significativa all'uomo. 
Questi ridusse gli occhi a fessure, indispettito, ma poi dovette realizzare qualcosa. Assentì, ma non si curò di nascondere un sorrisetto furbo.
- Quindi, davvero, non si preoccupi. Una nottata ristoratrice e domani sarò come nuovo. - continuò Ledah, ignorando la faccia da schiaffi del mercante. 
Sfilò il braccio da sopra le spalle della guerriera per mostrare che non aveva bisogno di ulteriore aiuto, però si trovò a barcollare, ancora molto debole. 
- Coraggio, andiamo. Margharet avrà sicuramente preparato qualcosa di buono per tutti. -
- Ma tu non stai bene... - ribatté Melwen timidamente.
- Guarda che se ripeti ancora che sto male, mi mangio tutto l'arrosto, eh! - si umettò le labbra con la lingua, imitando un animale affamato. 
Al sentire quella frase, la piccola prese per mano Zefiro e scattò lesta come un gatto lungo la strada, macerando in poco tempo una distanza considerevole.
- Ehi, voi due, fermi! - 
Anche Mirya prese la rincorsa, inseguendo la piccola peste che si stava letteralmente trascinando dietro suo figlio. 
Airis li fissò inebetita, dopodiché sbuffò arresa. Era già abbastanza stanca di suo e doveva pensare a una scusa plausibile da rifilare a Myria non appena fossero state sole, circa le sue parole di poco prima. 
Inspirò profondamente e prese a camminare accanto a Ledah, sbirciando di tanto in tanto nella sua direzione per essere certa che stesse bene e soprattutto in saldo equilibrio sulle sue gambe. Non aveva propriamente una bella cera e teneva lo sguardo basso, ma quantomeno non le sembrava sul punto svenire un'altra volta. 
Proseguirono in silenzio fino a casa, ognuno immerso nei propri pensieri. Per tutto il tragitto, Mirya e i bambini non avevano manifestato il desiderio di riunirsi a loro e avevano continuato a camminare a una discreta distanza, pur arrestandosi ogni venti passi a controllare di non averli persi. 
Non appena misero piede in casa, Margharet li accolse col solito calore di sempre, esortandoli ad andarsi a lavare le mani prima di mettersi a tavola. Melwen provò a protestare, aveva troppa fame, ma la madre l'ammonì, minacciandola di mandarla a letto senza cena. La bambina si fiondò al pozzo, scatenando le risate generali di tutti i presenti. In quella dimora così accogliente, i ricordi di quello che era successo quel pomeriggio svanirono, dissolti nell'atmosfera allegra che vi aleggiava.
Airis scosse la testa e celò un sorriso portandosi distrattamente una mano davanti alla bocca. 
Quanto tempo era trascorso da quando aveva sentito il cuore così leggero? Troppo. Quasi non se lo ricordava. 
Si sedettero a tavola poco dopo. Margharet e Mirya discussero del più e del meno come vecchie amiche, mentre i due bambini si abbuffavano voracemente. Ledah mangiava lentamente, forse per la stanchezza, forse perché voleva gustarsi quel cibo così saporito. Durante la cena, Airis lo osservò con attenzione e si meravigliò di come riuscisse ancora a reggersi in piedi. Aveva il viso tirato e, nonostante avesse riacquistato un po' di colorito, non si sarebbe fidata nemmeno a lasciarlo andare in salotto da solo. Era pallido come un cadavere.
- Scusate. - l'elfo interruppe il dolce cicaleccio delle due, - Sono molto stanco. Mi ritiro per una bella dormita. -
- Sì, effettivamente non hai una bella cera. - confermò Margharet, - Myria mi ha raccontato cosa ti è accaduto oggi. Posso fare qualcosa? Hai bisogno di una tisana o magari di una coperta in più? - chiese apprensiva.
- No, stai pure tranquilla. Tutto ciò che mi serve è un letto. - rispose Ledah con un sorriso falso.
Prima che la donna potesse ribattere, Airis si infilò nel discorso. Vedeva una sincera preoccupazione nei suoi occhi, ma l'arciere sembrava a disagio, come se non fosse abituato a essere trattato con questo riguardo.
- Lo aiuto io. - asserì, alzandosi, - Tanto anche io sono parecchio stanca e credo che seguirò l'esempio di Ledah. - 
Non sapeva perché si fosse offerta di dargli una mano. Normalmente, anche solo l'idea di dormire nella stessa stanza con lui non la entusiasmava, ma dopo aver visto quegli occhi rossi spegnersi qualche secondo dopo il suo arrivo covava la netta sensazione che, per qualche arcana ragione, la sua presenza riuscisse a calmarlo. 
- Sicura? Se sei così provata, non voglio che tu ti assuma un incarico del genere... - chiese incerta la padrona di casa.
- Margharet, non puoi lasciare soli i tuoi ospiti. - s'intromise Myria, cavandola immediatamente d'impiccio, - Se avranno bisogno di qualcosa, sono sicura che ti chiameranno. Tu ora devi servirci il dolce. - annusò l'aria, socchiudendo le palpebre, - Ne sento il profumino da qui. -
- Sì, infatti! - rincarò Melwen, - Io e Zefiro vogliamo la torta! - esclamò, alzando le mani in alto, tutta eccitata.
Airis intercettò l'occhiata dell'amica e la ringraziò silenziosamente per averle evitato un'altra discussione. Come al solito, quella donna aveva un tempismo perfetto.
- Bene, allora noi andiamo. Ci vediamo domani mattina. - inchinò leggermente il capo e poi fece cenno a Ledah di seguirla. 
Salirono le scale senza parlare, forse perché nessuno dei due riusciva a trovare uno spunto per cominciare la conversazione.
Improvvisamente, Airis si sentì afferrare per il polso. Si voltò e vide che l'elfo era dietro di lei di qualche passo e la stringeva con una presa ferrea, nonostante le poche forze che ancora aveva in corpo. 
- Che stai facendo? - inarcò un sopracciglio, squadrandolo.
- Devo ridarti la vista, te l'ho detto oggi. - soffiò Ledah, esausto, accostandosi a lei.
- Ascolta... - si tirò indietro, - non ne ho bisogno. Sono sopravvissuta per più di dieci anni senza, posso arrivare fino a domani. - affermò, convinta. 
L'elfo rimase immobile, ma poi sciolse il contatto senza aggiungere altro. 
- Muoviamoci. Non vorrei ti addormentassi in piedi. - ridacchiò nervosa. 
Quel tocco inaspettato l'aveva sorpresa e le sue dita le avevano suscitato una piacevole sensazione di calore nel petto. Sbatté le palpebre e si girò, fuggendo da quelle iridi muschiate e indagatrici. Si sentiva troppo vulnerabile in quel momento, troppo esposta a quei sentimenti che le stavano arrogantemente penetrando dentro e a cui lei non riusciva ancora a dare un nome.
Non appena giunsero in camera, Ledah si buttò sul letto e nascose il viso nel cuscino.
- Buonanotte, allora. - bisbigliò Airis, distendendosi anche nel piccolo giaciglio accanto. 
Poggiò la testa sulle braccia e attese che il respiro del compagno di stanza si regolarizzasse. Avrebbe voluto porgli tutte le domande che le frullavano nel cervello, ma aveva deciso che avrebbe aspettato fino all'indomani. Aveva atteso molto, cosa le poteva costare un giorno in più?
- Airis? - il sussurro dell'elfo ruppe il silenzio.
La ragazza lo guardò, aggrottando le sopracciglia.
- Io ti farò di nuovo vedere il mondo, te lo prometto. - sollevò il capo e cercò la sua figura. 
Nell'oscurità della stanza, illuminata solo dai chiari raggi di luna che filtravano dall'unica finestrella incassata nel muro alla loro destra, Airis non riusciva a scorgere bene l'espressione dell'altro, ma scommise che era seria e sincera, impressione che derivò dal tono di voce con cui aveva pronunciato quelle parole. 
- Ma, in cambio, tu promettimi di raccontarmi cosa è successo ai tuoi occhi.-
La guerriera esitò. 
- Non lo so... - inspirò profondamente, osservando il soffitto, - Vedremo. - farfugliò, senza avere il coraggio di guardarlo per paura che lui scorgesse il timore riflesso nelle proprie iridi opache.
"Perché ti interessi così a me, Ledah? Sono una tua nemica... perché non mi permetti di esserlo?"
L'elfo sorrise debolmente. 
- Beh, sempre meglio che un "no" definitivo. - scherzò.
- Sogni d'oro, allora. -
Lui tacque un attimo, come se volesse chiederle qualcosa, ma alla fine si girò dall'altra parte e pose fine alla discussione.
La ragazza fissò la sua schiena, aspettando che il sonno lo accogliesse. Quando fu certa di essere rimasta sola, alzò lo sguardo verso l'alto e chiuse le palpebre, concentrandosi sui suoni attorno a lei. I rumori della foresta le riempirono la mente, creando una sinfonia rilassante, e la svuotarono di tutti i pensieri e le angosce. Percepì i muscoli contratti rilassarsi, mentre con la fantasia correva in quei boschi, fra gli alberi, rivivendo i giorni precedenti, durante i quali aveva assaporato, per la prima volta dopo anni, un'esistenza normale, in compagnia dei bambini, di Margharet, Myria e Ledah. E Copernico, per quanto avessero trascorso pochissimo tempo insieme. 
Un sorriso vero e disteso le increspò le labbra.
"Sarebbe bello poter vivere per sempre così... non sarebbe affatto male."

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Capitolo 23
*** Combattere ***


23

Combattere


 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Caillean se ne stava rannicchiata nella cella dove l'avevano rinchiusa, con le gambe strette al petto e il viso affondato nelle braccia per celare gli occhi gonfi di pianto. Un refolo d'aria si infilò sotto gli abiti leggeri e sporchi, penetrando fin dentro le ossa e procurandole l'ennesimo brivido freddo. Nonostante fosse estate, quella notte a Merite sembrava essere tornato l'inverno. 
"Voglio tornare a casa..." 
Il pensiero del piccolo camino di casa sua, delle fiamme scoppiettanti e dello stufato caldo di sua madre la riempì di tristezza e lo stomaco si contorse in preda ai morsi della fame. Affondò le unghie nelle braccia, scavando delle piccole mezzelune nella pelle. Il dolore inflitto da quelle nuove ferite le procurò delle fitte acute e riscosse il suo corpo dal torpore.
L'avevano portata nelle prigioni due giorni addietro, dopo il ritrovamento del corpo di Elyn, la figlia della fruttivendola. L'aveva scoperta nel bosco, durante la sua battuta di caccia, riversa in una pozza di sangue densa e vermiglia. Poi era successo tutto troppo in fretta perché potesse realizzare il motivo per cui intorno a lei si fosse scatenato il caos. Aveva urlato mentre le guardie la trascinavano via, ma nessuno l'aveva udita: in mezzo alle grida e agli insulti, la sua voce era rimasta ad aleggiare nell'aria, inascoltata. La disperazione aveva ceduto presto il passo alla stanchezza e nella sua testa era sceso il silenzio. Aveva visto la gente strillare, le lacrime bagnare i loro volti trasfigurati dalla rabbia, ma era come se non si trovasse davvero lì, come se ogni cosa fosse ammantata di nebbia. L'unica cosa che era rimasta impressa a fuoco nella sua mente era il corpo di Elyn, le vesti bianche lorde del suo stesso sangue e gli occhi vitrei, senza vita. 
Aveva camminato zoppicando fino alle prigioni, stringendo i denti per non incespicare o cedere al dolore delle percosse, ma durante il tragitto per le vie della città un odore simile a quello che aveva sentito nella foresta aveva cominciato a diffondersi ovunque. Aveva storto il naso disgustata, poi aveva alzato lo sguardo, incontrando solo il ghigno soddisfatto di alcuni uomini. Aveva sbattuto le palpebre con un senso di oppressione crescente nel petto. Improvvisamente, le rovine delle antiche mura della cittadella erano entrate nel suo campo visivo, mura antiche, costruite pietra su pietra dagli artigiani e architetti al servizio di uno dei vecchi re. Sopra di esse, infilzata su una picca di ferro, si ergeva una testa mozzata in mezzo a tante altre, in uno scenario macabro e inquietante. 
- No... -
Caillean aveva avvertito le energie abbandonarla. Le ginocchia non avevano retto più il suo peso ed era caduta al suolo con un tonfo. L'aria era impregnata del tanfo di carne marcescente, un effluvio putrido che le aggrediva con violenza le narici. Ad un tratto, si era sentita afferrare per i capelli e tirare su con uno strattone.
- Guarda! Guarda cosa succede ai mostri come te! - 
L'uomo che l'aveva artigliata per la cute le aveva girato la testa, costringendola ad osservare l'orrendo spettacolo. E Caillean l'aveva fatto, anche se avrebbe voluto distogliere lo sguardo. Era rimasta ferma a fissare quella testa ricoperta di lerciume, il cui viso non era che l'imitazione grottesca di una maschera umana, senza riuscire a voltare il capo. Aveva cercato invano qualche particolare che smentisse i suoi sospetti, qualcosa che potesse negare quell'innegabile realtà. Nonostante il catrame che impiastricciava le ciocche di capelli ancora attaccate al cranio, aveva riconosciuto una sfumatura rossastra, identico a quello che la natura le aveva donato alla nascita. Tutte le parole che le erano rimaste incastrate in gola proruppero fuori in un urlo di disperazione, spazzando via il silenzio nella sua testa.
- Papà! -


Airis si svegliò di soprassalto, soffocando a fatica un grido. Ansimando, si passò una mano tremante sulla fronte sudata e poi sul cuore, che batteva impazzito contro le costole come se volesse sfondarle. Girò di scatto la testa verso destra, assicurandosi di non aver svegliato anche Ledah, ma a giudicare dal ritmo regolare del suo respiro sembrava tutto tranquillo. 
Si abbandonò di nuovo sul letto e chiuse gli occhi, mentre le dita correvano alla gola. Per un attimo aveva temuto di aver urlato davvero e che le sue grida avessero destato tutti. In quel caso, non sarebbe stato facile scampare alle loro domande, soprattutto non dopo ciò che l'elfo le aveva chiesto riguardo al proprio passato. Si strinse nelle lenzuola e cercò di fermare il tremore che non accennava ad abbandonare le sue membra. In quegli ultimi giorni il suo sonno era stato di piombo, un continuo susseguirsi di notti nere dalle quali si era svegliata stremata.
Si sedette sbuffando e poggiò i piedi a terra, lasciando che il freddo del pavimento la scuotesse. Quindi si alzò e con passo incerto barcollò verso la porta. Abbassò la maniglia con delicatezza, attenta a non fare rumore, e la spinse. Imprecò tra i denti quando essa cigolò sui cardini. Gettò un'occhiata alle sue spalle, giusto per sincerarsi di non aver disturbato Ledah, e dopo aver accostato la porta uscì. Si mosse a tentoni nel buio, tastando la parete. Percepiva ancora le gambe molli e nelle sue orecchie continuavano a rimbombare le urla della folla, i loro insulti. Serrò le palpebre per alcuni istanti, incapace di sopportare la visione della testa mozzata di suo padre, ricoperta di catrame per preservarla dal degrado, la pelle attaccata da mosche e vermi e gli occhi verdi divenuti banchetto per i corvi. Si appoggiò al muro e premette una mano sulla bocca, mentre brividi freddi si intrufolavano sin nelle ossa. Decise di sbrigarsi, aveva bisogno di tergersi la faccia e schiarirsi le idee. Corse nella stanzetta adibita a bagno, sbatté la porta e si piegò su un secchio di metallo vuoto che doveva servire da pitale, rigettando violentemente tutto quello che aveva nello stomaco. Strinse convulsamente il bordo del secchio e si sforzò di espellere tutto lo schifo che aveva in gola, compreso il sapore rancido che le era rimasto incollato al palato e sulla lingua. Avrebbe voluto un po' d'acqua per sciacquarsi la bocca.
- Caillean, un vero soldato mica si lava con l'acqua calda come le signorine! - 
Il suo sguardo stralunato saettò di lato, trovando un secchio in ottone pieno del desiderato liquido cristallino. Margharet lo riempiva sempre ogni sera, prima di andare a dormire. Lo raggiunse e immerse mani e viso. Il freddo le graffiò la pelle, scuotendola fin dentro l'anima.
- Bambina mia, ricordati che papà ti vorrà sempre bene. - 
Tante goccioline scivolarono lungo il profilo del mento. Percepì la vestaglia aderire al corpo sudato mentre affogava le lacrime nell'acqua gelida.
- Che le sia tolta la vista! - 
Premette le dita sulle tempie e cominciò a massaggiarsele con movimenti circolari. Tentò di ricacciare indietro quei frammenti di passato che erano tornati a tormentarla e per tutto il tempo che le occorse rimase immobile, in attesa che la nausea si placasse e che quelle immagini svanissero. Presto i polmoni tornarono ad incamerare ossigeno correttamente e sospirò di sollievo. Inspirò profondamente, scuotendo la testa frustrata. 
Da quando Copernico se n'era andato, non faceva altro che rivivere quei terribili momenti. Non ricordava nemmeno più da quanti anni aveva smesso di sognare suo padre e il giorno del proprio processo. Quando era entrata nell'esercito il suo maestro le aveva imposto di dimenticare, poiché solo in questo modo, a suo dire, sarebbe riuscita a tornare a vivere. All'inizio era stato complicato. Gli allenamenti la sfiancavano abbastanza da permetterle di dormire sonni tranquilli, ma durante l'inverno, quando molti suoi commilitoni venivano congedati e restava sola, riprendeva a sognare. Sia che dormisse sia che fosse sveglia, continuava a vederlo. Adesso, però, se si fosse gettata dalla finestra, non sarebbe riuscita a porre fine al dolore. L'unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbero state un paio di fratture che Lysandra si sarebbe premurata di curare per il solo gusto di torturarla. L'unico modo che aveva per sfuggire a quel circolo vizioso era eliminare Copernico. 
"Devo farlo o perderò il senno per davvero. Mi sono lasciata trascinare dalla curiosità, ma se non voglio diventare il nuovo giocattolino di quella pazza, devo portare a termine la missione."
L'idea di togliere la vita al mago non la entusiasmava, specialmente dopo quello che le aveva rivelato e dopo il tempo trascorso in quella casa. La gentilezza di Margharet, la sincerità di Copernico e l'allegria contagiosa di Melwen le avevano restituito il calore di una famiglia, sciogliendo il gelo che racchiudeva il suo cuore come una spessa corazza.
E poi c'era Ledah.
Esitò quando la figura dell'elfo si materializzò nella sua mente. Delineò i lineamenti duri del suo volto, gli occhi di una tonalità muschiata, le braccia muscolose che l'avevano fatta sentire protetta e il sorriso scanzonato tipico di quando scherzava. Schioccò la lingua, sdegnata da quei sentimenti che sapeva le avrebbero impedito di recarsi in camera e prendere la spada per rivolgerla contro il nemico.
"Ma forse non è tutto perduto. Domani Copernico tornerà, gliene parlerò e cercherò una soluzione con lui. Sicuramente insieme troveremo un modo per risolvere il problema." 
Allungò la mano verso destra, alla ricerca di un panno con cui asciugarsi. Tastò sul mobiletto a ridosso del muro, afferrò uno straccio pulito e se lo strofinò sul viso. Alzò il volto, incrociando il riflesso nello specchio davanti a sé, e l'immagine che esso le rimandò la pietrificò sul posto: c'era sangue dappertutto, sulla sua faccia, sullo specchio, sulle pareti, sul panno. Un macabro lago scarlatto imbrattava la stanza, mentre raccapriccianti schizzi rossi adornavano le pareti in fantasiosi scarabocchi. Quel liquido denso e viscoso ricopriva anche le sue mani tremanti. Sbatté le palpebre più volte, sempre più allucinata, e si allontanò dallo specchio in preda al terrore. Si guardò intorno con il cuore che batteva all'impazzata e pulsava nelle orecchie. Provò ad urlare, ne avvertiva l'impellente necessità, ma le parole morirono sul nascere, soffocate dal groppo che le ostruiva la gola. Arretrò e sentì le energie abbandonarla. Inciampò sul secchio in cui aveva vomitato ed esso si rovesciò. Altro sangue si riversò a terra, sporcandole i piedi e le caviglie. L'odore rese l'aria irrespirabile e le fece contrarre le viscere. Dopo tutti gli anni trascorsi in battaglia avrebbe dovuto esserci ormai abituata, eppure gli parve di essere tornata una bambina, debole e indifesa. 
Corse verso la porta, agguantò la maniglia e vi si appoggiò sopra con tutto il peso. L'uscio si aprì, scaraventandola nel corridoio. Cadde in ginocchio, ma tentò subito di rimettersi in piedi, scalciando via il sangue quasi fosse una serpe velenosa. Il flusso non si arrestava, la circondava, quasi sgorgasse da una fonte invisibile. Rotolò su un fianco senza fiato, gli occhi spalancati che saettavano da una parete all'altra e osservavano la cascata di fluido vermiglio che colava su ogni superficie, ricoprendola interamente. 
- Melwen! Margharet! - gemette.
Puntò le ginocchia a terra e si diede lo slancio, trascinandosi verso le scale e poi giù in salotto. Il suo istinto le urlava di sbrigarsi, perché se non fosse arrivata in tempo per loro sarebbe stato troppo tardi. Man mano che avanzava, si sentì pervadere da una strana inquietudine, che la spronò ad andare sempre più veloce. Non appena si trovò in prossimità del salotto, si arrestò di colpo, concentrandosi sui suoni che udiva provenire dall'interno della stanza.
Dei rantoli, respiri affannati e pesanti, sofferenti.
Uno sgocciolio ritmico e costante.
Si affacciò sulla soglia col cuore in gola e per qualche istante si ghiacciò: c'era sangue sulle pareti, schizzi disordinati come confuse ragnatele intessute da un predatore vorace. Il tanfo di putrefazione la schiaffeggiò, facendole lacrimare gli occhi. Con i piedi di piombo entrò in salotto e stilò un resoconto mentale di tutti i dettagli, ma poi, richiamata da qualcosa, una sensazione indefinita, girò il capo alla sua destra: il corpo decapitato di Margharet era disteso sul tavolo da pranzo, la ferita mortale ancora fresca rivolta verso di sé. Il sangue gocciolava sul pavimento in un ritmico ticchettio. Vicino a una della gambe giaceva la testa, con il viso incorniciato da una folta chioma castano chiaro e gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali dalle spesse lenti. Airis l'osservò stordita. Non sembrava affatto Margharet. Non sembrava neppure una scena reale. 
Si trascinò verso di lei, quando la sua attenzione venne attirata da un'ombra. Si voltò a rallentatore. Sopra il camino, come un burattino rotto, pendeva Copernico. O quel che ne rimaneva. La mandibola era stata completamente asportata e un orecchio e buona parte del viso erano stati tagliati da qualcosa di affilato. Conficcata nel suo petto fin quasi all'elsa, sotto i raggi cinerei della luna, una spada argentea rifulse di un debole alone. Airis studiò con aria assente l'arma che inchiodava il corpo alla canna fumaria e per qualche istante credette che fosse la sua fidata compagna, la spada che si era fatta forgiare quando era diventata un Cavaliere. Ma non poteva esserlo, perché l'aveva lasciata in camera sua.
"Non è possibile... un incubo, ecco cos'è!" 
Il sale delle lacrime si mischiò al sudore e la disperazione si impadronì di lei. Rimase immobile, paralizzata dal terrore come mai lo era stata, colpita da quella sconcertante consapevolezza. 
Il suo sguardo guizzò da Margharet a Copernico, tutti e due in un bagno di sangue, tutti e due morti. 
- Cosa hai fatto a mamma e papà? -
La voce tremante di Melwen alle sue spalle le provocò un sussulto. Si voltò e incrociò l'espressione sconvolta della bambina, che la osservava con occhi sgranati. La vide indietreggiare lentamente, mentre il suo incarnato si faceva ancora più pallido.
- Perché li hai uccisi?! - singhiozzò inorridita, - Perché? Noi ti volevamo bene! -
- Non sono stata io! - esclamò Airis. 
Si riscosse dall'immobilità, azzerò le distanze e l'afferrò saldamente per le spalle: - Lo giuro sugli dei, Melwen, non sono stata io! No, non importa. Dobbiamo andare via prima che l'assassino torni. -
La piccola scosse la testa e puntò lo sguardo sul pavimento. A un tratto, un ghigno sardonico le stirò le labbra, ma la guerriera non se ne accorse, dato che il viso di Melwen era in penombra e coperto dai capelli. 
- No, Caillean, non posso. - mormorò e si passò una mano sulla gola. 
Sotto la pressione dell'unghia si aprì uno squarcio, che pareva una smorfia di scherno. 
- Non posso seguirti, perché tu hai ucciso anche me. -
La testa rotolò via dal collo, le ginocchia cedettero e il corpo precipitò a terra come un sacco. 
Fissò stordita il cadavere della bambina, ma si rifiutò di credere che quella fosse la realtà. Forse si trattava di un'allucinazione spaventosamente realistica, ma pur sempre un parto della sua mente, per quanto malato.
Un secondo più tardi, dietro quella bambola di carne morta, Airis intravide una figura nera: un cavaliere vestito con un'armatura che sembrava fusa con il suo corpo. Un paio di lame nere come l'inchiostro partivano dai bracciali dell'armatura come due artigli e gli spallacci erano simili ad ali di drago. Indietreggiò verso il muro, terrorizzata. 
- Le... Ledah? - biascicò insicura. 
Il ricordo della trasformazione dell'elfo, avvenuta quel lontano giorno al cospetto del Signore della foresta, riemerse dalla sua memoria e le attraversò il cervello con la violenza di un tuono. Il guerriero nero avanzò, le iridi cremisi che rifulgevano di un bagliore ferale. Airis si appiattì contro la parete, facendo saettare lo sguardo a destra e a sinistra in cerca di una via d'uscita. Poi il riflesso argenteo di una spada, ben salda tra le mani di quell'essere, attirò la sua attenzione. La punta graffiava il pavimento passo dopo passo e lo scintillio metallico dell'argento alchemico le procurò un brivido freddo. Quella era la sua spada.
Ledah l'agguantò per il collo e la tirò su. Sentì l'aria bloccarsi in gola, intrappolata dalla poderosa stretta. Si dimenò, scalciò, ma a nulla valsero i suoi tentativi di liberarsi. Annaspò in cerca di ossigeno, ma le forze le vennero meno. All'improvviso la figura dell'elfo mutò: in pochi istanti l'elmo svanì e il volto venne incorniciato da una cascata di capelli rossi, i lineamenti si addolcirono, mentre le iridi assunsero una familiare sfumatura verde intensa. 
- Sei me... - rantolò la guerriera, scrutando esterrefatta la se stessa che la stava strozzando.
- No, Airis. Tu sei me. -
Il suo cuore smise di battere ed ebbe l'impressione che pure il tempo si fosse fermato. Percepì la punta della spada sul petto, proprio sopra la cicatrice che si era procurata quell'infausto giorno in cui aveva perso la vita. Infine la lama penetrò nelle carni, togliendole il fiato. Il sapore del sangue le invase la bocca e proruppe fuori dalle sue labbra in stille cremisi.

Airis si svegliò bruscamente. Si tastò il viso e le mani in preda al panico, ma del sangue non vi era alcuna traccia. Si guardò intorno spaesata, sforzandosi di mettere a fuoco gli oggetti della stanza. Cercò con gli occhi la propria spada e la intravide appoggiata al muro di fronte, dove l'aveva riposta. Un pulviscolo argenteo aleggiava nell'aria attorno alla lama, danzando assieme ai raggi di luna. 
Si terse il sudore dalla fronte, stringendosi nelle lenzuola umide nel tentativo di riacquistare un po' di calore. Inspirò svariate volte per scaricare, per quanto possibile, l'angoscia che quell'incubo le aveva riversato addosso. 
"Un sogno dentro a un sogno." 
Non poteva più rimanere in quella casa, non poteva assolutamente più attendere, ma soprattutto non poteva accettare ciò che aveva visto. Sarebbe fuggita prima che accadesse.
"Che si fotta quella donna folle. Io non diventerò un'assassina di innocenti."
Si alzò dal letto e si tolse rapidamente la camicia da notte, cercando a tentoni nell'oscurità gli abiti che aveva indossato quel pomeriggio. Si vestì in fretta, afferrò la spada e si avviò alla porta, quando un pensiero la bloccò sul posto. Si girò lentamente verso Ledah, scrutando la sua figura nascosta dalla pesante coperta. Dormiva ancora.
"Se lui morisse, riuscirei a fermare i piani di Lysandra."
Strinse l'elsa, trattenne il fiato e si avvicinò. Il pavimento scricchiolava ad ogni suo passo come un sinistro avvertimento, ma Airis non vi diede peso. Si fermò alla sinistra del letto, fissò ancora per un istante il viso placido dell'elfo e sguainò la spada. Dopodiché, la innalzò sopra la testa. Serrò le palpebre, assaporando l'idea della futura libertà. Sarebbe bastato un unico colpo preciso, un fendente abbastanza potente per tranciargli di netto la testa. Serrò la presa sull'elsa e aprì gli occhi. Tuttavia, all'improvviso, nella semioscurità intravide un barlume verdastro e tutto il coraggio raccolto scemò di colpo.
Ledah era sveglio e la stava squadrando dal basso, impassibile. Per alcuni secondi il tempo parve arrestarsi ed entrambi rimasero immobili, l'uno immerso nello sguardo dell'altro. 
"Cosa sto facendo?" 
Quella domanda la colpì con violenza, frastornandola. Un disgusto profondo verso se stessa l'assalì, mentre le braccia ricadevano inerti lungo i fianchi. Però, prima che l'elfo potesse reagire, si catapultò fuori dalla stanza e poi giù per le scale. I suoi passi rimbombarono nella casa silenziosa, ma ad Airis non importò di disturbare il sonno degli ospiti. L'essenziale adesso era fuggire, allontanarsi più in fretta possibile da quella città. 
Spalancò la porta, oltrepassò la soglia e si fiondò all'esterno come se fosse stata inseguita da un esercito di demoni. Fuori aveva già cominciato ad albeggiare. Un sole rosso rischiarava il cielo e inghiottiva inesorabilmente la luna e le stelle. A un certo punto inciampò e cadde bocconi, scorticandosi le ginocchia e sporcando di terra i pantaloni. Le lacrime premettero per uscire, ma le ricacciò violentemente indietro. Soffocò i singhiozzi e osservò la mano destra, che aveva proteso dianzi per attutire la caduta: era coperta di sangue e sul palmo una ferita slabbrata pulsava dolorosamente. La studiò inorridita, mentre le immagini del sogno le piombavano addosso come macigni. Si morse il labbro per non urlare, per poi riprendere la fuga con sempre più determinazione.
Via via che si allontanava dalla casa di Copernico, percepiva l'angoscia e la paura evaporare. Il battito frenetico del suo cuore, la fatica e il dolore le impedirono di pensare e la spinsero a continuare la folle corsa. Più volte travolse alcuni contadini, in marcia con i loro carri sui sentieri di campagna, ma, nonostante le loro accese proteste, non si voltò mai indietro. Si sentiva di nuovo cieca. Qualcuno le artigliò il braccio per fermarla e una voce sconosciuta le arrivò alle orecchie, ma si liberò con un ringhio e proseguì più spedita. 
Corse per un tempo infinito, ma alla fine, esausta, dovette fare una sosta. Si appoggiò a un albero sul limitare del sentiero e si piegò sulle ginocchia. Aveva il fiato corto, il cuore quasi le scoppiava nel petto e le gambe la imploravano per ottenere una tregua. Girò il capo a destra e a sinistra, constatando di aver percorso già un bel po' di strada, ma non abbastanza. Gettò un'occhiata in direzione di Luthien e individuò una piccola carovana che si accingeva ad entrare in città, accompagnata da una scorta di uomini a cavallo, probabilmente mercanti di stoffe che volevano accaparrarsi i posti migliori al mercato. In lontananza, verso il molo, vide attraccate alcune navi, mentre altre già veleggiavano sulle acque del Mesos, il piccolo affluente del Tabor. Le scrutò avanzare nella corrente, chiedendosi perché tutti si affannassero così tanto per un mercato ormai quasi morto. Le sovvennero le parole di Mirya, il suo discorso su quanto fosse stata prospera una volta Luthien, e si domandò se quella non fosse la cosiddetta lotta per la vita, l'infruttuoso tentativo degli esseri umani allo scopo di preservare una parvenza di normalità in una realtà sconvolta dalla guerra. Poi il suono delle campane echeggiò nella vallata.
Scrollò il capo, disinteressata. Fece il punto della situazione e decise di recarsi in prossimità della sporgenza dall'altra parte della città. Ricordava distintamente si essere giunta da lì assieme alla sua carovana. Lasciò il sentiero dirigendosi verso l'interno della foresta, cosicché fu costretta a ridurre considerevolmente l'andatura. La stanchezza cominciò a farsi sentire e man mano che si inoltrava nella vegetazione era sempre più difficile camminare. Gli arbusti e i rametti dei cespugli le si impigliavano nei vestiti e in alto l'intricato groviglio di foglie le ostruiva la visuale del cielo. Perse l'orientamento dopo poco e dovette fermarsi per raccogliere le idee. Girò la testa da una parte all'altra, cercando di individuare il Nord o un qualsiasi segno che l'aiutasse a capire in quale dannato angolo di mondo si fosse cacciata. Credeva di aver imboccato la direzione giusta, ma ora non ci avrebbe scommesso poi tanto. Quando aveva deciso di non proseguire sul sentiero aveva previsto una simile eventualità, ma si era convinta che facendo appello alle sue conoscenze di sopravvivenza sarebbe riuscita a districarsi facilmente in mezzo a quel labirinto di alberi. Con la vista offuscata e i pensieri che non facevano altro che vorticarle disordinati nella testa, si era però rivelato più difficile di quanto si aspettava. Si trascinò fino a un piccolo spiazzo ricoperto da un tappetto di foglie secche e si accasciò a ridosso di un tronco. Si raggomitolò su se stessa, massaggiandosi le ginocchia graffiate con la mano sana. 
"Se da qui procedo verso est, dovrei riuscire ad aggirare Luthien. Poi se continuo verso Nord e mi inerpico per qualche sentiero, dovrei riuscire ad arrivare all'altura. Da lì..." 
Socchiuse gli occhi e provò a calmare il caos che si agitava in lei, ma l'orrore e tutte le sensazioni che l'avevano pervasa durante la notte tornarono alla carica con prepotenza. La mano scivolò sulla cintola e trovò la spada. Le dita si chiusero attorno all'elsa e strinsero con forza, fino a che non percepì il sangue tornare a fluire più lentamente nelle vene. 
"Cosa sono diventata? Perché ho pensato di fare quella cosa? Io... io sono un Cavaliere. I Cavalieri non uccidono i deboli e gli innocenti, li proteggono."
- Vuoi proprio sapere cosa sei? - 
La voce tagliente di Lysandra la gelò. Quando sollevò gli occhi vide il Lich che torreggiava su di lei, affascinante e terribile come sempre. Rivestita con un abito elegante di seta nera e rifiniture porpora e i capelli cinerei trattenuti da un diadema disseminato di pietre preziose, aveva tutto l'aspetto di una regina. Se non fosse stato per le iridi rosse e il ghigno sardonico, Airis non avrebbe mai sospettato che la regina di Esperya fosse la anche sua aguzzina.
- Mia cara, credi davvero di essere ancora un Cavaliere? Pensi di poter ancora entrare nei templi degli dei a testa alta? Quanto sei ingenua. -
Airis si alzò di scatto sfidandola con lo sguardo, la mano già stretta sull'elsa. 
- Non ti permetto di infangare il mio nome, demone. Non sono una vile assassina. Sono stata costretta a fare quel che ho fatto. -
Lysandra si mordicchiò il labbro pensierosa. 
- Quindi non hai provato piacere quando hai infilzato Eminthral, il ministro del tesoro del re che amava così tanto il suo popolo da vessarlo con pesanti tasse. Oppure... oh, sì, sua eccellenza Bersor, quell'ometto grasso e grigio che si divertiva a giocare con i cuccioli dei mezzosangue. -
Airis fece una smorfia disgustata: - Sai meglio di me che meritavano la morte. Le loro azioni non erano degne del ruolo che ricoprivano. -
- Ovviamente. Ma non ti hanno insegnato che chiunque, sia esso nobile o contadino, merita un processo? Vedi, il problema non è se loro erano colpevoli o meno. In fin dei conti, tutti noi abbiamo commesso errori di cui non andiamo particolarmente fieri. - si fece improvvisamente seria, - Anche loro avrebbero meritato di essere giudicati dalla corte del re, al cospetto dei loro pari. E tu, invece, cosa hai fatto? Li hai uccisi uno ad uno. -
- Taci. - ringhiò, - L'ho fatto perché me l'hai ordinato. Non avevo scelta. -
- Forse... - Lysandra si allungò verso di lei e le disegnò il profilo delle labbra con i polpastrelli, - Ma ciò non toglie che tu abbia provato piacere nel farlo. -
Airis spalancò gli occhi e si ritrasse inorridita: - Non è vero. -
- Invece sì. Ti ho osservata e ho visto la smorfia soddisfatta quando hai calato la tua spada su di loro, la tua espressione estatica davanti ai loro volti disperati e l'indifferenza di fronte alle suppliche di risparmiarli. - la sua mano corse alla spada, - Questa lama con cui hai giurato di proteggere gli innocenti e portare giustizia è lorda del loro sangue. Per quanto tu possa lavarla, esso non potrà mai andare via. -
- No! - gemette e nascose il viso fra le mani.
- E' brutta la verità, eh? - rise sommessamente, - Il tuo istinto ti ha spinta a fare quel che hai fatto. Avresti potuto opporti ai miei ordini, offrendoti in sacrificio per gli ideali che avresti dovuto difendere. Invece hai tradito la fede verso il tuo credo di Cavaliere e voltato le spalle a tutto. Prima ancora che i cadaveri di tutte le tue vittime fossero freddi, hai complottato e pianificato la morte di molti altri con una lucidità degna di un sicario. - con uno scatto accorciò le distanze e le sollevò la testa, - Per anni hai imbastito scuse per giustificare le tue azioni a te stessa, hai dato la colpa a me e alla tua nuova natura perché non sei mai stata in grado di accettare l'anima nera con cui sei venuta al mondo. -
- No... - singhiozzò.
Lysandra le afferrò un braccio, tirandola a sé, e le unghie affondarono nella carne. 
- Pensi di essere obbligata a fare quel che fai, ma il tuo non è un corpo vuoto come quello dei non-morti. Tu hai una volontà e hai egoisticamente deciso di obbedirmi nella speranza di poter riposare in pace. Non sei più un Cavaliere, Airis. Hai smesso di esserlo quando, quel giorno, ti sei disperatamente attaccata alla vita e sei diventata mia. Sei una figlia di Aesir, ora, e sarai parte del Suo esercito di distruzione quando Egli tornerà a marciare su questa terra. - dichiarò secca, mollò la presa e si allontanò. 
La guerriera si rannicchiò in posizione fetale, incapace di replicare a quelle parole taglienti e grondanti di verità. 
"Dei, se esistete, perdonatemi. Per favore..." 
Lysandra si inginocchiò di fronte a lei. 
- I peccati che hai commesso ti rendono una Sua degna figlia, Caillean. - sussurrò con voce melliflua, - Aesir è fiero di come hai eseguito i Suoi ordini. Adesso, però, devi pagare il prezzo della tua disobbedienza e tale prezzo è il dolore. -
Airis la scrutò allarmata. Il suo istinto le suggerì di scappare, ma le gambe si rifiutarono di obbedire ai suoi comandi. 
Il Lich sorrise. Una scintilla rapace danzò in quelle iridi scarlatte quando alzò il braccio e schioccò le dita. Trascorsero un paio di secondi, poi un boato riempì l'aria e Airis udì un ruggito animale, una sorta di stridio che le ferì i timpani. Si tirò in piedi di scatto e guardò Lysandra piena di terrore. Quella si portò un dito alle labbra e le fece segno di tacere, socchiudendo gli occhi come se si volesse godere una melodia silenziosa.
- Ecco che comincia. - bisbigliò.
- C-Cosa? - 
Un cattivo presentimento la fece tremare. La donna inclinò la testa e le indicò un punto nella vegetazione. 
- Poco più avanti si trova l'altura che tanto desideravi raggiungere. Vai a goderti lo spettacolo. Sarà una prima rappresentazione degna di lode, ma se non ti sbrighi te la perderai. -
Presa dal panico, Airis le diede le spalle e cominciò a correre. Spostò i rami che l'ostacolavano, li strappò con stizza e agitazione e macerò in pochissimi minuti la distanza che la separava dalla meta. L'angoscia le aveva assediato la mente, non riusciva a ragionare in maniera lucida. Aveva bisogno di vedere. Non appena uscì dalla vegetazione, i raggi del sole le ferirono gli occhi. Si schermò con una mano e aguzzò la vista per scoprire cosa stesse succedendo. In quel momento, comprese la gravità del suo gesto.
Una massa nera e compatta stava per scagliarsi contro la città, un oceano di elmi, lance e scudi come l'inchiostro che partiva dall'orizzonte e invadeva a velocità preoccupante tutta la piana davanti alle bianche mura di Luthien. Era un esercito immenso, una tetra distesa di armature che brillavano di freddi riflessi, quasi a voler sfidare il cielo e la volontà degli dei. 
Le guardie di pattuglia sulle mura si ghiacciarono sul posto. Una di queste corse verso il torrione più vicino e suonò il corno di allarme, ma le scosse della terra avevano già annunciato la disgrazia incombente.
Sopra quella moltitudine di soldati, volteggiava un gigantesco drago nero, che si elevava al di sopra di tutto, fendendo l'aria con le sue maestose ali. I suoi occhi scarlatti guizzarono, poi si gettò in picchiata sulle mura senza esitare, sfondandole in un unico, poderoso colpo. Al frastuono si unirono urla di terrore, mentre l'orda si riversava nella città attraverso la breccia creata dalla bestia.
Il frammento di un sogno fatto durante il viaggio le attraversò la mente come una folgorazione. Rivide il drago, il fuoco, i cadaveri e le parve persino di fiutare l'odore del sangue. Si tappò le orecchie, ma non riuscì a chiudere gli occhi, incapace di distogliere lo sguardo dalla carneficina che si stava per consumare sotto i suoi occhi.
- E' solo colpa mia... solo colpa mia... - 
Cadde in ginocchio e si abbandonò ad un pianto disperato, il petto scosso dai singhiozzi. All'improvviso si sentì strattonare per un braccio e due mani forti la sollevarono da sotto le ascelle. Alzò il viso rigato dalle lacrime e il cuore mancò un battito.
- Ledah... che... che ci fai qui? -
L'elfo la squadrò con espressione torva. Una serie di potenti emozioni si agitavano nei suoi occhi di giada: rabbia, diffidenza, preoccupazione, angoscia. Airis riusciva a leggerle tutte.
- Come mi hai trovata? - chiese con un fil di voce.
- Raiza ha fiutato il tuo odore. Margharet mi ha dato un tuo abito e lui ha seguito le tue tracce. - rispose secco. 
La costrinse ad alzarsi e la guerriera scorse un immenso lupo dal manto bianco che la scrutava dalla fitta vegetazione con palese astio, con la lingua penzoloni e il respiro affannato per la corsa. 
- Ma ora abbiamo un problema più urgente di cui occuparci: dobbiamo evacuare la città e salvare quante più vite possibili. -
Airis indietreggiò scuotendo la testa con veemenza: - Non posso aiutarti. -
- Come sarebbe?! È tuo dovere, Airis, non puoi rimanere qui a guardare! -
Lei strinse i pugni e ripeté: - Ho detto che non posso aiutarti. Quella città non può essere salvata. - 
"Almeno non da me."
Ledah l'afferrò per le spalle e contrasse la mascella per trattenere la rabbia: - Airis, dannazione, ascoltami! Non abbiamo tempo per litigare. Dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi! Copernico si sta già dirigendo in città, ma da solo non può fare tutto. Dobbiamo andare anche noi. -
- Ma sei sordo o cosa? Non posso fare più nulla! La cosa migliore è andarsene ed evitare il massacro. Luthien cadrà in ogni caso. -
Lui non poteva capire, non avrebbe mai capito come si sentiva. 
- E vorresti abbandonare Copernico, Melwen, Margharet, Mirya e tutti gli altri al loro destino? Non puoi. Non dopo tutto quello che hanno fatto per noi. - la studiò per interminabili istanti, - Hai paura? -
Airis vide il drago vomitare una fiammata nella piazza principale, che incenerì indistintamente uomini, donne e bambini. Girò la testa dall'altra parte, mentre un fremito d'agitazione e senso di colpa le annodava le viscere.
- No, non ho paura. - rispose pacata. 
"Non di quello che pensi tu."
- Ma allora perché ti tiri indietro? Loro hanno bisogno di te! Sei o non sei un Cavaliere? - la provocò.
Quelle parole colpirono Airis nel profondo. 
- Non so perché stamattina tu abbia tentato di uccidermi, ma sinceramente non posso nemmeno biasimarti: il tuo compito è cacciare i mostri come me. Credimi, capisco che tu ora abbia paura di scendere in campo. Tutti abbiamo paura di morire, mio caro Cavaliere del Lupo, però non dobbiamo dimenticarci di essere anche guerrieri: siamo coloro che si gettano nella mischia per difendere chi non ha la forza di imbracciare le armi. -
- Non so se sono ancora degna di quel titolo. - sussurrò. 
L'elfo le strinse le mani e Airis si sentì pervadere da uno strano calore. 
- Cosa stai facendo? - 
Tentò di ritrarsi, ma l'arciere non la lasciò. Avvicinò il viso a quello di lei finché non restarono che pochi centimetri fra i loro nasi, e in quegli occhi Airis intravide un nuovo sentimento, qualcosa a cui non sapeva dare un nome.
- Tu non sei un'assassina. Anche se i tuoi occhi sono vuoti, anche se vai avanti a vivere per inerzia, tutti, me compreso, sanno quanto sia grande il tuo valore. Qualunque cosa tu abbia fatto, non permettere che cancelli le gesta e i sacrifici che hai compiuto per salvare gli uomini e le donne di Amount-vinya, e molti altri prima di loro. -
Un'altra ondata di piacevole calore la pervase come una cascata di acqua termale e le parve di venire avvolta da un delicato velo di luce. Davanti a lei tutte le cose presero una nuova consistenza, mentre i colori si riaccendevano e tornavano a riempire le forme della realtà.
- Anche se in teoria dovremmo essere nemici e non dovrei preoccuparmi di cosa ti frulla nel cervello, penso di aver capito perché hai scelto di diventare ciò che sei. Tu combatti perché credi che a tutti debba essere donata la possibilità di vivere la propria vita; combatti affinché nessuno venga più ridotto in schiavitù e per costruire un futuro migliore; combatti perché ami Esperya e i suoi abitanti con tutta te stessa. Sei il braccio della giustizia e, come me, sai cosa significa veder morire i propri compagni senza poter fare nulla. Non ci è estraneo il senso di impotenza, l'oppressione e la tristezza. Entrambi le abbiamo sperimentate, ma siamo sopravvissuti. Tu lotti con la consapevolezza che la guerra è orribile, non un gioco da cui trarre profitto, ma sai pure che senza di essa a volte è impossibile difendere chi ci è caro. So che ti sembra di non avere più niente da perdere, ma ti prego, Airis, combatti. Combatti per Copernico, per Melwen, per Mirya. Se non vuoi sguainare la spada per te stessa, fallo per loro. - lasciò scivolare via le mani e la fissò intensamente, - Vieni con me, Airis. - 
La guerriera esitò. Osservò Luthien, la sua popolazione che, disperata, cercava di salvarsi dalla ferocia dell'esercito nero e dalle fiamme del drago.
"Il dovere di un Cavaliere è difendere i deboli."
- E sia. - disse infine.
Ledah sorrise e si avvicinò al grande lupo, montandogli in groppa. Il sole si infranse sulla sua leggera corazza, accarezzando il metallo degli schinieri e degli spallacci con i suoi raggi. 
- Salta su. -
Senza esitare, Airis si sedette dietro di lui e si aggrappò alle sue spalle.
- Raiza, corri più in fretta che puoi. - supplicò l'elfo all'animale.
- Non c'era bisogno di dirlo. - borbottò il lupo in risposta.
Raiza si voltò e cominciò a correre nella foresta. In poco tempo sbucò sul sentiero e si gettò a capofitto verso la città. 
- Perché fai tutto questo per me? - 
Il sussurro di Airis si confuse nel vento, in mezzo ai gemiti e alle grida che riecheggiavano nell'aria. I fumi dell'incendio avevano oscurato il cielo e si erano addensati in una coltre nera che sembrava annunciare la fine del mondo.
- Vuoi sapere perché? - 
La sua voce era incerta, come se stesse parlando più a se stesso che a lei. Sospirò ed esitò prima di aprire bocca. Airis ascoltò attenta e aderì alla schiena dell'altro per udire meglio le sue parole, curiosa più che mai.
- Lo faccio perché credo di... -
Prima che Ledah potesse completare la frase, un potente ruggito simile ad un canto di morte si levò sopra i tetti delle case.

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Capitolo 24
*** Lotta per la Vita ***


24

Lotta per la Vita

 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Ovunque si vedevano disperati che tentavano di scappare, ma le piccole viuzze di Luthien non erano abbastanza grandi per permettere a tutta quella gente di correre. Così, i più deboli e gracili venivano inesorabilmente travolti dalla folla urlante, calpestati da un fiume in piena che tentava di aprirsi un varco per mettersi in salvo. Ma ormai quegli esseri erano dappertutto, demoni che di umano avevano solo l'aspetto ed elfi con armature nere come la notte.
Erano creature che Myria credeva esistessero solo nei racconti per bambini o nelle leggende. Quando aveva udito la campana di allarme, il presentimento che qualcosa di orribile stesse per accadere l'aveva paralizzata. Aveva osservato con Melwen e Zefiro il drago, che lentamente si avvicinava alla città. Poi la bestia aveva sfondato le mura e l'esercito nemico si era riversato all'interno delle strade, scatenando il panico. I demoni erano saltati in mezzo alla folla, azzannando direttamente alla gola i primi malcapitati e facendoli a pezzi con la sola forza degli artigli e delle zanne, mentre gli elfi avevano passato a fil di spada chiunque si era parato loro davanti. Una cacofonia di urla si era levata sino al cielo, voci di uomini, donne e bambini, lamenti che somigliavano spaventosamente al vagito della Morte. Tutti avevano cominciato a correre in preda all'angoscia, cercando riparo nelle botteghe o in qualunque posto li potesse proteggere dalla furia omicida di quelle creature. 
Myria si era mescolata alla folla, stringendo convulsamente le mani ai due bambini. Aveva intimato loro di rimanerle vicino, ma la sua voce era stata coperta dal sibilo delle frecce che venivano scoccate da ogni direzione. Aveva visto intorno a lei le persone trafitte dai dardi afflosciarsi a terra e i loro corpi venire scossi da un ultimo spasmo di vita. Poi aveva udito Melwen strillare e uno schizzo di sangue le aveva macchiato il vestito, ma era rimasta imperturbabile, come se quello spettacolo orrendo non l'avesse neanche toccata. 
In quel momento le campane si misero a suonare. 
- Attenzione! - 
Un carro in fiamme stava rotolando lungo la strada. Myria stritolò le mani dei piccoli e si appiattì su un muro appena in tempo, un attimo prima di venire investita. Tuttavia, dietro di lei risuonarono dei gemiti e un rumore di ossa rotte. Continuò ad avanzare imperterrita, facendosi largo a gomitate e spinte. Con il fiato in gola e gli occhi sbarrati, scaraventò gente contro le pareti, si contorse in mezzo a quella moltitudine urlante e, senza mai fermarsi, continuò a correre. Una donna, trafitta a morte da una freccia, le crollò davanti e Myria ne calpestò il cadavere, incurante di tutto. Singhiozzò, ma l'istinto di sopravvivenza la spronò a proseguire. Eppure per quanto camminasse non bastava mai: c'era troppa gente attorno a lei e, quando riusciva ad aprirsi un passaggio, questo veniva immediatamente bloccato dai corpi di altri cittadini in lotta per la vita. 
Le lacrime le rigarono il volto, stordendola per un breve istante. Non poteva essere reale. Era troppo orribile per esserlo.
Improvvisamente una mano gelida le artigliò un braccio, serrandosi in una stretta così dolorosa da farle perdere la presa con le dita dei due bambini. Con orrore vide la folla travolgerli e portarli via.
- No! - gridò.
Si dimenò con furia, ma invano. Un elfo con i capelli color cenere e gli occhi vuoti la fissò con ferocia animale. Myria lottò per liberarsi, si divincolò, sferrò calci e pugni e provò a graffiargli la faccia, ma il guerriero nemico rimase impassibile, come se non percepisse il dolore. Percepì le dita affondare nella pelle del suo braccio e poi l'essere la lanciò di lato, facendola schiantare contro il suolo a un paio di metri di distanza. Sbatté la testa contro la dura pietra e per un istante il mondo si offuscò. Avvertì qualcosa di caldo e viscoso colarle tra i capelli e bagnarle il collo. Era così stanca e, per quanto tentasse di alzarsi, le sue gambe erano molli e inerti, due magre protuberanze che sembravano essere state messe lì da qualcun altro. Singhiozzò e deglutì, gli occhi sbarrati per la paura. 
L'elfo fece una smorfia che voleva essere un sorriso e scoprì una chiostra di denti marci. Dal fodero legato sulla schiena estrasse una spada lunga a due mani. Sollevò la lama contro il sole e la luce guizzò su di essa, accarezzando il filo dell'arma.
Myria serrò le palpebre e scoppiò in un pianto a dirotto, mentre un profondo odio verso se stessa e la propria debolezza l'assaliva.
"Dei, ve ne prego, siate misericordiosi e fate in modo che almeno i bambini si salvino." 
Infine attese che il freddo acciaio calasse su di lei. Un secondo più tardi, proprio come aveva previsto, udì il sibilo del metallo che dilaniava le carni, frantumandole con spietata violenza. Aspettò, ma per qualche ragione il dolore non arrivò mai. Un tonfo sordo la fece sussultare e la ridestò dalla quella snervante immobilità. Sollevò le palpebre lentamente per appurare di essere ancora viva, perché forse se lo stava solo immaginando e in verità era già morta. Poi si sentì tirare su con forza.
- Andiamocene, prima che ne arrivino altri. - 
Sobbalzò e incrociò due familiari occhi di un marrone caldo. 
- Alan... come...? -
- Te lo dico dopo. Ora allontaniamoci. - rispose sbrigativo l'uomo, poi si volse verso l'interno di un vicolo e cominciò a correre, la spada grondante di sangue ancora ben salda nel pugno. 
Myria vide di sfuggita il corpo dell'elfo che giaceva contro il muro, la testa affogata in una pozza scura e densa. Seguì Alan senza più voltarsi indietro, le gambe adesso leggere come piume e irrorate di nuova energia. Sfrecciarono nell'ombra, sempre più veloci, evitando le vie più affollate, dove avrebbero corso il rischio di finire sotto le suole di centinaia di stivali al minimo passo falso. 
Il terrore ormai dominava nella cittadina: le donne scappavano urlando, con i loro bambini stretti al seno, assieme agli uomini e a chi era riuscito a scampare alla ferocia degli assedianti. Myria era certa che se non ci fosse stato Alan lì con lei, non avrebbe avuto nemmeno la forza di alzarsi per quanto era esausta psicologicamente. Gli era molto grata per il suo gesto, ma non poteva dimostrarlo come voleva, perché le espressioni sgomente di Zefiro e Melwen un istante prima di venire trascinati via continuavano a tormentarla e ad alimentare l'ansia che le pesava sul cuore. 
D'un tratto, Alan si arrestò. Le fece cenno di tacere e indicò un punto avanti a sé: a poca distanza da loro alcuni demoni, tre uomini e una donna, stavano banchettando con le carni di un uomo, ma il tanfo di putrefazione giunse alle narici dei due ancor prima di vederli. Myria si coprì la bocca con le mani per soffocare un grido roco e cercò di tenere sotto controllo i conati e i brividi, che le percorsero il corpo quando il puzzo le invase la gola. Si impose di guardare da un'altra parte, ma non riuscì a distogliere l'attenzione dalla scena raccapricciante che stava avendo luogo a pochi passi da lei. Poteva sentire il suono rivoltante della carne strappata, il cozzare delle zanne contro le ossa, il mugugno di piacere che le creature emettevano mentre masticavano le interiora del cadavere. Singhiozzò e avvertì montare in sé il bisogno di gridare, smaniosa di liberarsi del groppo che le ostacolava il respiro. Ma resistette all'impulso, perché sapeva che se lo avesse fatto avrebbe condannato a morte certa sia lei stessa che Alan. Lacrime silenziose solcarono le sue guance, mentre i ricordi dei giorni d'inferno ad Amount-vinya riaffioravano dalla sua memoria. Alan le strinse la mano per rassicurarla, ma non disse nulla.
Si rifugiarono nella bottega di un fabbro lì vicino, sopravvissuta non si sa come alla distruzione. La porta era sopravvissuta per chissà quale miracolo e l'interno era tranquillo. Non appena Alan ebbe sprangato la porta, Myria si lasciò scivolare lungo la parete, raggomitolandosi su se stessa. Udiva ancora il caos che regnava fuori per le vie, ma le arrivava alle orecchie come un'eco lontana. Tentò di individuare le voci dei due piccoli in quel coro urlante, ma ogni grido era uguale all'altro.
- Dov'è Zefiro? - indagò Alan.
- Non lo so. - mormorò con voce rotta, - L'ho perso assieme a Melwen quando... quando sono stata trascinata nel vicolo da quel mostro. -
Il ruggito del drago si infranse sui vetri, ma lei non vi badò. Era tutto un dannato incubo. Anzi, avrebbe pagato oro perché lo fosse.
- È stata tutta colpa mia. Se solo non avessi lasciato le loro mani, a quest'ora... - 
Due braccia forti la avvolsero e una mano calda le accarezzò delicatamente la testa.
- Non è colpa tua. - replicò l'altro dolcemente, - Sono sicuro che sono sani e salvi. Sono svegli, vedrai che sono riusciti a cavarsela. -
- Per quanto in gamba, sono solo bambini! -
La donna affondò il viso nella sua spalla piangendo e inspirò il suo odore, che sapeva di sangue, terra e sudore. 
- Devi crederci. - le alzò delicatamente il mento, catturando le sue lacrime con i pollici, - I miracoli accadono. Siamo usciti vivi da una situazione simile non molto tempo fa e ci riusciremo anche questa volta. - 
Lei assentì debolmente, per poi intrecciare le dita nei suoi capelli. Alan la strinse ancora di più. 
- Ti proteggerò, Myria. Ho promesso a tuo marito che non ti sarebbe mai successo nulla di male. - sussurrò a mezza voce. 
Fece per aggiungere qualcosa, ma il ricordo del migliore amico troncò le sue parole sul nascere. Esitò un istante, poi si allontanò dalla donna e distolse velocemente lo sguardo. Uno strano gelo gli avvolse il cuore, ma lo ignorò. 
- Dobbiamo studiare un piano per arrivare nella parte alta della città. - dichiarò con fermezza. 
La bottega era piena di polvere e fuliggine. La rastrelliera con le armi era stata rovesciata, l'incudine scaraventata in un angolo della stanza, mentre il martello giaceva sul pavimento. La testa, così come il manico, era sporca di sangue. Sopra l'enorme fornace, alle spalle di Alan, coperta dai residui di carbone e sporcizia era appesa una mappa di Luthien. 
- Nella parte alta della città? Perché dovremmo recarci proprio lì? -
- Ho parlato con Fenrir e Baldur. Hanno detto che avrebbero tentato di far evacuare i cittadini attraverso la porta Ovest. -
Studiò la carta con attenzione, poi indicò un punto vicino a una piccola piazza. 
- Noi siamo qui. Per arrivare nel luogo prefissato potremmo tagliare per la via del mercato e... -
Un colpo secco, seguito da un altro e un altro ancora, li fece sobbalzare. La porta tremò e i cardini scricchiolarono, ma non cedettero. Sentirono un insistente raschiare e di riflesso arretrarono.
Alan si girò verso Myria, che lo scrutava con occhi sgranati, si avvicinò e si frappose fra lei e la porta, facendole da scudo. 
- Guarda la mappa e vedi dove dobbiamo andare. - le ordinò.
- Ma... ma io... - balbettò la donna, ancora stordita. 
Non sapeva cosa fare. Il mondo le vorticava attorno come impazzito e per un secondo temette di essere prossima allo svenimento.
- Dannazione, riprenditi! - la voce concitata di Alan la riscosse. 
La guardò fugacemente, la spada già sguainata e il corpo in posizione di difesa. 
- Non c'è tempo! Dobbiamo scappare! -
All'esterno risuonarono risate sguaiate e suoni gutturali, inumani. Un'ascia penetrò nel legno, facendolo esplodere in mille schegge, e un elfo con il viso deturpato da terribili ustioni si affacciò dalla fenditura.
- Devi trovare in fretta una strada! -
Myria fece scorrere lo sguardo sulla carta ingiallita e memorizzò la via più veloce tra le mille che vedeva disegnate. Il cuore le rimbombava nelle orecchie e le mani erano sudate.
- Ho trovato... - 
La porta della bottega si spalancò. Sulla soglia apparvero un elfo e due demoni con l'aspetto di donne dalla pelle livida e le dita affusolate e ossute munite d'artigli. Queste camminarono all'interno della stanza, annusando l'aria come segugi affamati, mentre l'elfo avanzò con passo leggiadro verso di loro. Aveva lineamenti marcati e spigolosi e occhi algidi e spenti, simili a quelli dei morti.
- Guarda guarda, allora c'è ancora qualche sopravvissuto! - dichiarò all'indirizzo di Myria, umettandosi le labbra famelico, - Lei ha detto di lasciarne qualcuno vivo, ma finora non ci siamo divertiti per niente, vero? - 
Si volse verso i due demoni. Il sangue colò dalla bocca sul pavimento, mescolandosi alle gocce di quello che cadeva dai loro artigli.
Alan rimase impassibile, tutti i muscoli già pronti a scattare. L'elfo fece una smorfia delusa e lo studiò annoiato.
- Soldato di poche parole, eh? La tua faccia la trovo insopportabile. Sarà un piacere staccarti la testa. - disse roteando l'ascia e schioccando la lingua.
Myria indietreggiò. La paura le accelerò il battito cardiaco, ma cercò di rimanere lucida. Osservò l'ambiente che la circondava per trovare una via d'uscita, anche se ad una prima analisi pareva proprio che fossero caduti in trappola. Dovevano fuggire, lo sapeva, ma non aveva la forza di muoversi. Di nuovo, le gambe si rifiutarono di obbedire ai comandi del suo cervello.
- Myria, scappa. - ordinò Alan autoritario, poi, senza esitazione, si scagliò contro gli avversari.
L'elfo ghignò soddisfatto e gli si avventò addosso, mulinando l'ascia in un poderoso fendente. Alan si mosse con agilità, scartò di lato e deviò il colpo, prima di allontanarsi con un balzo. Inspirò piano, gli occhi appuntati prima su una e poi sugli altri due avversari. Il clangore dell'acciaio sovrastò ogni altro suono, divenne l'orchestra della bottega. Alan indietreggiava, parava, tirava fendenti rapidi, in un ballo mortale dove il ruolo di dama e cavaliere si scambiavano senza alcun preavviso. Ci volle poco perché cominciasse ad accusare la fatica: era un veterano, ma loro erano dei mostri, ed erano in superiorità numerica. Colpivano ogni centimetro che lasciava scoperto, sia pur per un breve attimo, approfittando della stanchezza per insinuarsi nella sua guardia. Per ogni colpo che andava a segno, un taglio nuovo si apriva sulla spalla, sul braccio, sotto l'occhio. In poco tempo cominciò a perdere coordinazione, forza, velocità. I demoni snudarono le zanne, in una smorfia grottesca che poteva somigliare a un sorriso, gli artigli marchiati dal suo stesso sangue, e l'elfo sghignazzò, con gli occhi vitrei colmi di spietata ferocia. 
- Avanti, umano! Facci divertire! -
Myria era paralizzata. Andarsene avrebbe significato abbandonare Alan al suo destino e lei non voleva sopravvivere da sola. No, non voleva, non senza di lui. I suoi occhi saettarono febbrili per tutta la stanza in cerca di un'arma. Senza pensarci due volte afferrò un pugnale e corse verso uno dei demoni. L'elfo la intercettò, l'afferrò per il polso e la scaraventò contro il muro. La donna sbatté forte la testa contro il muro e la vista le si annebbiò. Percepì l'elsa scivolarle via dalle dita, mentre la realtà veniva avvolta da un velo confuso, sfocato. Solo la voce dell'uomo riusciva realmente a raggiungerla, anche se non capiva cosa le stesse dicendo.
- Vattene! -
Non aggiunse altro; l'ascia squarciò l'aria e la gola di Alan. Uno schizzo di sangue si riversò sul pavimento e il legno lo assorbì. L'uomo tentò invano di incamerare ossigeno, ma più si ostinava a voler respirare più l'aria gli sfuggiva dalle labbra. La spada cadde al suolo e il suono metallico coprì appena i suoi rantoli disperati. L'elfo lo spinse a terra con un calcio, il ghigno della vittoria stampato in faccia. Alan annaspò e strisciò verso Myria: persino nei suoi ultimi istanti cercava di proteggerla.
- Che scena commovente. Mi viene da vomitare. - 
Uno dei demoni saltò sulla schiena di Alan e affondò le zanne nel collo, come un leone la sua preda. Myria lo vide sussultare, contorcersi in un ultimo spasmo e infine chiudere gli occhi. Il sangue schizzò fino a lei quando il demone strappò le pelle e i muscoli. Poi la seconda creatura balzò addosso al cadavere inerme dell'uomo e cominciò a dilaniarlo, mentre l'altro essere aveva già cominciato a banchettare con le sue carni. In poco tempo, le ossa biancheggiarono in mezzo a quel groviglio insanguinato di tendini e viscere.
Myria si appiattì terrorizzata contro la parete e trattenne il fiato. 
Prima Zefiro e Melwen, ora anche Alan. Era sola, adesso, completamente sola. 
La disperazione l'assalì. La realtà perse rapidamente i suoi contorni, tanto da darle l'impressione di essere stata catapultata in universo onirico. Perché non poteva essere accaduto davvero. Alan non poteva essere morto. 
Nel frattempo, quei mostri si erano avvicinati a lei. Percepì l'acciaio contro la pelle tesa del collo e nelle orecchie le loro risate di scherno. Si stavano beffando di lei, di lei e di Alan. Il suo Alan. Osservò il cadavere che giaceva a terra, gli occhi chiusi come se dormisse. Avrebbe potuto sdraiarsi accanto a lui e accogliere la morte abbracciata all'uomo che amava. L'idea si fece strada nella sua testa, allettandola con dolci promesse. 
Lo sguardo le cadde sulla pozza vermiglia che si allargava sul pavimento. Qualcosa in lei si risvegliò. No, non poteva arrendersi, doveva sopravvivere, doveva ritrovare Zefiro e Melwen. Non poteva gettare la spugna senza combattere, non dopo che Alan si era sacrificato per salvarla. Aveva lottato strenuamente per concederle un vantaggio sui nemici, ma lei, stupida, non aveva colto l'opportunità ed era rimasta lì, inerme e indifesa, a guardare quel soldato coraggioso perire sotto i colpi di quelle creature. Se si fosse lasciata andare, il sacrificio di Alan sarebbe stato vano. Suo figlio doveva conoscere le gesta eroiche di quell'uomo che considerava come un padre.
Avvertì una rabbia animale montarle dentro, facendo nascere un sentimento che mai fino ad allora aveva provato. Con un urlo che scaturiva direttamente dalla sua anima impugnò ancora una volta la spada incompleta e si scagliò sull'elfo con tutta la forza che aveva. Il nemico schivò all'ultimo momento e la lama sferzò il vuoto. 
- Ops! Mancato. - 
Myria lo fissò con odio e gli andò nuovamente addosso. L'altro rimase immobile e, per qualche istante, credette di averlo colto di sorpresa. Ma presto, o forse troppo tardi, comprese di essersi sbagliata. 
- Stupida puttana. - 
L'elfo le artigliò il braccio, torcendoglielo dolorosamente dietro la schiena e tirandola a sé. Le ossa scricchiolarono in modo inquietante. Si morse le labbra e strinse i denti, ricacciando in gola i gemiti di dolore. 
- Ti fotterò fino a farti sanguinare e poi ti terrò ferma quando i miei amici banchetteranno con le tue interiora. Ma se farai la brava, prometto che sarò gentile. - le soffiò nell'orecchio. 
Myria si scansò trasalendo: puzzava di morto.
Lo scrutò di sbieco, piena di ribrezzo, poi gli sputò in faccia e sibilò: - Vai all'inferno. -
L'elfo rimase impietrito, come se faticasse ad afferrare cosa quella sciocca, debole umana aveva osato dirgli. In un attimo la gettò a terra e la sovrastò. 
- Questo sarà l'ultimo affronto che accetterò. - 
Alzò l'ascia sopra la testa, pronto a colpire. Stavolta, però, Myria non chiuse gli occhi. Non aveva paura, non più.
Improvvisamente l'aria venne pervasa dal rumore di vetri in frantumi. Un sibilo ruppe il silenzio e una freccia di luce perforò la testa del guerriero. Questi ebbe un fremito e guardò la donna con occhi stralunati. L'arma gli scivolò dalle mani e cadde sul pavimento con un tonfo, seguita dal suo corpo.
Myria girò il capo da una parte all'altra, spaventata e perplessa, cercando di capire da dove fosse arrivato quel lampo provvidenziale, quando sulla porta vide stagliarsi la figura di una ragazza dai lunghi capelli rossi. Fuori, proprio dietro una selva di schegge di vetro, un elfo la fissava, l'arco teso e una freccia di luce puntata verso una delle creature. Avvertì il sollievo scioglierle i muscoli contratti e il cuore riprendere a battere frenetico.
- Airis! - esclamò speranzosa.
I due demoni rimasero pietrificati, senza riuscire a capire cosa fosse realmente successo. La guerriera scattò verso di loro, vibrando un fendente contro quello più vicino. Il mostro tentò di allontanarsi, ma fu troppo lento e la lama calò sulla sua gola, aprendo uno squarcio mortale. Con la coda dell'occhio, Myria scorse l'elfo armato di arco svanire di botto dalla sua posizione e subito dopo udì dei gemiti impregnati di sofferenza risuonare all'esterno.
L'ultima creatura rimasta ringhiò ad Airis e indietreggiò. Studiò la sua avversaria, poi le balzò addosso come una belva, gli artigli protesi minacciosamente verso di lei. Airis scartò di lato e il colpo si infranse contro il tavolo di legno lì dietro, mandandolo in mille pezzi. Ma prima che il mostro potesse voltarsi e sferrare un altro attacco, la ragazza gli assestò un colpo sulla schiena. Le ossa cedettero di schianto e l'argento lacerò le carni. Un grido che sembrava provenire direttamente dai più remoti abissi riecheggiò nella bottega. Dopodiché piombò nuovamente il silenzio.
Airis corse veloce accanto all'amica e l'aiutò ad alzarsi.
- Stai bene? -
Myria si lasciò sfuggire una lacrima, ma l'asciugò prontamente. La guerriera gettò un'occhiata alle sue spalle, in direzione del corpo di Alan. Non ci fu bisogno di altre spiegazioni.
- È morto con onore. - si limitò a dire.
La donna annuì debolmente, anche se quelle parole non sarebbero mai riuscite a consolarla sul serio. 
- Ho perso Melwen e Zefiro mentre scappavo. Devi... devi aiutarmi a ritrovarli! -
- Va bene. Ma prima dobbiamo andarcene da qui. - 
- Aspetta! Non... non possiamo lasciare qui Alan. Se arrivassero altri mostri per mangiarlo? Non voglio che subisca questa fine. -
- È morto ormai, quello è solo il suo guscio. E poi sarebbe difficile procedere spediti con una zavorra del genere appresso. Dobbiamo lasciarlo qui, spero che tu capisca. -
- Ma... no, ti prego! Si è sacrificato per salvarmi! Non potrei mai perdonarmi di aver lasciato il suo cadavere alla mercé di quelle... cose abominevoli. -
Airis tacque per qualche secondo, assorta nei suoi pensieri, poi tornò a fissare Myria con espressione seria.
- Il massimo che possiamo fare è dare alle fiamme questa bottega, così che il suo corpo bruci insieme al resto. - 
- Va bene, sì, certo. -
La guerriera annuì. Si voltò verso la porta e lanciò un'occhiata in strada, dove, assieme ai corpi dei cittadini, giacevano anche quelli di alcuni nemici. 
- Ledah ne sta eliminando più che può, ma da soli non possiamo respingere tutta l'orda. - considerò a bassa voce, come se stesse parlando più a se stessa che all'amica.
Myria rimase interdetta e si bloccò al ricordo di quell'elfo che aveva fatto irruzione insieme ad Airis. Che fosse lo stesso Ledah che aveva conosciuto? Eppure non gli aveva mai visto le orecchie a punta.
- E' una storia lunga. Appena ci riuniremo agli altri ti spiegherò. - 
La guerriera l'agguantò per il braccio e si affacciò dalla soglia, ispezionando con lo sguardo ogni angolo. Le vie di Luthien, di solito piene di vita, adesso erano deserte e agghindate di cadaveri. Le fiamme divampavano sui tetti di alcune case e in lontananza era ancora possibile udire le grida dei superstiti. Sopra di loro, a oscurare il cielo come un'ombra minacciosa, c'era il drago, che pareva pattugliare dall'alto la città in maniera che nessuno uscisse vivo da quell'incubo.
Airis focalizzò l'attenzione verso un punto poco distante, in alto, ma nessuna emozione deformò i tratti del suo viso. Myria scorse una figura nera saltare sui tetti, per poi mettersi a correre verso di loro. Man mano che si avvicinava, Myria fu in grado di riconoscere il volto di Ledah. Al suo fianco le parve di intravedere un lupo avvolto da fiamme celesti, ma fu solo questione di un istante, perché i due scomparvero subito, inghiottiti da un vicolo. Dopo una manciata di secondi Ledah sbucò da solo da una stradina laterale e corse loro incontro.
- Via libera per adesso. - dichiarò, l'arco ancora stretto in pugno, - Ma dobbiamo assolutamente ritrovarci con Baldur e Fenrir. Da soli non ce la possiamo fare. -
- Ma Zefiro e Melwen potrebbero essere ancora lì fuori! - esclamò Myria.
- Non possiamo perlustrare le strade col rischio di cadere in un agguato da un momento all'altro! Siamo stati invasi da un esercito di non-morti! Ci serve aiuto, capisci? -
L'altra tentennò, spostando lo sguardo dalla guerriera all'elfo. Non sapeva cosa pensare. Quello che Airis stava dicendo era logico, ma lei era una madre e finché non fosse tornata a stringere Zefiro tra le braccia non si sarebbe data pace.
In quel momento, Ledah le si accostò e le appoggiò una mano sulla spalla. Si era legato i capelli neri in una lunga treccia, che ricadeva pigramente sul petto, lasciando scoperte un paio di lunghe orecchie appuntite. La donna si soffermò a studiare confusa quei particolari e sentì l'impulso di ritrarsi immediatamente: lui era il nemico. Schiaffeggiò la mano dell'elfo e indietreggiò. Lui la fissò interdetto, ma non protestò.
- Myria, li ritroveremo. Sono bambini in gamba e Melwen è molto più speciale di quello che credi. Inoltre, non siamo gli unici a cercarli. Anche Copernico è sulle tracce di sua figlia. -
- Va bene. - disse infine, dopo qualche secondo di esitazione. 
Doveva fidarsi, non aveva altra scelta. Ledah le regalò un sorriso carico di calore, poi inserì due dita in bocca e fischiò. Da dietro un vicolo sbucò un enorme lupo bianco dagli occhi eterocromi. Myria sussultò, ma prima che potesse girarsi e scappare per la paura, Airis l'afferrò per un braccio.
- Non è un nemico. Ci porterà in fretta verso il molo. - la rassicurò.
L'aiutò a salire in groppa, mentre Ledah attendeva già in sella. Raiza emise un ringhio indispettito, ma non si ribellò.
- Andiamo. - l'ordine dell'elfo arrivò assieme a delle grida disumane da qualche parte dietro di loro.
- Ledah, da' fuoco alla bottega. - gli mormorò Airis all'orecchio.
Il moro non domandò alcuna spiegazione, ma poteva immaginare benissimo quale fosse il motivo della richiesta. Pronunciò un paio di parole in lingua elfica e presto le fiamme lambirono la piccola costruzione in legno, avvolgendola come un mantello ustionante. 
Senza attendere oltre, il lupo scattò lungo la strada. Il sibilo delle frecce li sfiorò appena, ma non arrestarono la loro avanzata. Raiza svoltò a destra e poi ancora a sinistra, evitando abilmente i vicoli in cui sarebbero potuti rimanere intrappolati e, allo stesso tempo, seminando i non-morti che tentavano di attaccarli. 
Quando il tanfo di morte e i fumi degli incendi iniziarono a scemare, Myria realizzò che la meta era vicina. Un refolo di vento le accarezzò il viso e, dopo poco, il molo apparve davanti a loro. Le navi mercantili erano state bruciate e il legno era ormai abbrustolito. Il carbone aveva annerito l'acqua e la cenere mulinava nell'aria simile a grigi fiocchi di neve. I corpi di coloro che avevano tentato di salvarsi salendo sulle imbarcazioni galleggiavano in balia della corrente. Vicino ai resti di una barca stazionavano due figure, che sembravano attenderli. Non tradivano alcuna ansia o paura: al contrario, la loro aura trasmetteva una calma che stonava con il caos che imperversava nella città. Da lontano Myria non riuscì a distinguere bene i loro volti, ma uno dei due era molto più basso rispetto all'altra figura, meno della metà. Aguzzò lo sguardo e riconobbe due facce a lei familiari.
Si fermarono a pochi passi dal duo e Baldur si fece avanti, l'ascia bipenne ancora stretta in pugno.
- Allora? Dov'è Alan? -
A quella domanda Myria ebbe un tuffo al cuore. Smontò da Raiza e fissò negli occhi il suo interlocutore, trattenendo a stento le lacrime. Il nano chinò la testa afflitto e rinserrò la presa con rabbia sull'arma, borbottando qualcosa a mezza voce. Fenrir abbassò l'arco, si affiancò al compagno e socchiuse leggermente gli occhi. Bisbigliò qualcosa, forse una preghiera. Trascorsero alcuni momenti di assoluto silenzio, mentre l'eco della distruzione risuonava attorno al gruppetto. 
- Dobbiamo aiutare i superstiti a fuggire da qui. Non possiamo permettere che ci siano altre vittime. - disse Airis.
Il Drow assentì: - Di quello si sta già occupando Copernico, insieme alle guardie cittadine. Piuttosto, c'è una cosa che mi preoccupa. Non vi sembra tutto un po' troppo strano? Siamo qui a parlare tranquilli e non viene nessuno ad attaccarci. Saremmo delle prede facili, invece la maggior parte dell'esercito è occupata a distruggere tutto. Io e Baldur siamo giunti qui ben prima di voi, ma non abbiamo subito imboscate. -
Incoccò una freccia e studiò sospettoso le macerie che li circondavano.
- È vero. Inoltre, quegli elfi, l'odore che emanano... è come se fossero... morti. - commentò Myria.
Quell'ultima parola restò sospesa in mezzo a loro, ma nessuno ebbe il coraggio di commentarla. 
Un brivido attraversò la spina dorsale di Airis e il peso delle parole di Lysandra tornò a schiacciarla. Scosse la testa. Non era il momento di darla vinta alla preoccupazione, doveva rimanere lucida e concentrata. Quando era arrivata in città e aveva dovuto farsi largo a colpi di spada, si era accorta con orrore che quegli elfi avevano qualcosa di insolito, inquietante. Nel colorito terreo del viso e in quegli occhi vitrei aveva riconosciuto i servi del Lich, i non-morti di cui si era attorniata e che costituivano gran parte del suo esercito. E, probabilmente, non era stata l'unica ad averlo notato. Scoccò di nascosto un'occhiata a Ledah.
- Se quello è un esercito di morti, non possiamo fare molto. Per quanto riguarda ciò che ha detto Fenrir, ci penseremo dopo. Ora dobbiamo andare verso la città alta e... -
Un sibilo alle sue spalle la raggelò. Si voltò lentamente, trovandosi davanti il pugno di Ledah. Aveva le dita serrate intorno a una freccia che sicuramente l'avrebbe colpita, se lui non avesse avuto i riflessi pronti. Gli altri osservarono l'elfo increduli, mentre questi spezzava il dardo e sguainava le lunghe daghe. Controllò la zona circostante con lo sguardo, scrutando fra le macerie con i sensi all'erta. Poi puntò gli occhi di fronte a sé e rimase immobile. 
Dal tetto di una casa semidistrutta una figura avvolta da un'armatura nera saltò giù, atterrando con straordinaria eleganza. L'elmo con l'effige di un drago gli copriva completamente il volto e gli occhi opachi, come quelli di un morto, si intravedevano appena sotto le fessure della visiera.
Ledah si irrigidirsi. Tuttavia, un particolare attirò la sua attenzione. Osservò le daghe elfiche che il guerriero brandiva e ne esaminò la pregiata fattura e le incisioni che la tempestavano. Lo stupore si dipinse sul suo viso e il dubbio si insinuò nella sua mente, tramutandosi in certezza man mano che il nemico si faceva sempre più vicino. Poi l'orrore lo invase.
- Ledah? - 
Airis gli si accostò, ma lui le fece cenno di tacere.
- Tieniti pronta. Stanno arrivando. -
Raiza alzò di scatto il muso e cominciò a ringhiare. Prima che la guerriera potesse chiedere altro, dai vicoli antistanti il molo sbucarono una decina di non-morti. Indietreggiò, sfoderò la spada e assunse la posizione di difesa.
- Mirya, stai indietro e resta vicino a Fenrir. - le intimò e strinse maggiormente la presa intorno all'elsa, mentre il nano la affiancava.
La donna ubbidì e seguì il Drow, che corse a nascondendosi dietro una pila di casse di legno miracolosamente intatte, poste a ridosso di una costruzione fatiscente ancora in piedi, sulla destra rispetto a dove avevano lasciato i compagni. Il ruggito delle creature la ghiacciò e serrò d'istinto le palpebre.
- Preparatevi! - esclamò Airis.
Poi i non-morti, assieme all'oscuro guerriero, partirono all'attacco.
Ledah rimase fermo, con gli occhi fissi in quelli lattiginosi dell'uomo che brandiva le daghe elfiche, sebbene non fosse affatto sicuro che si trattasse di uomo. Osservando quel verde slavato, che aveva fatto riemergere dai remoti anfratti della coscienza tristi sprazzi di memoria, fece molta fatica a credere a ciò che vedeva, ma era impossibile negare la realtà. Percepì l'angoscia, la rabbia e la frustrazione montare dentro di sé. A quel punto mise da parte ogni indugio e, con le dita che formicolavano attorno all'impugnatura delle sue spade, si scagliò contro il nemico. Le lame cozzarono, provocando una marea di scintille all'impatto, e il suono metallico riecheggiò nell'aria. Il guerriero nero grugnì e fece forza, cercando di deviare le spade di Ledah verso il basso, ma questi resistette e scattò indietro, alla ricerca di uno spiraglio per attaccare, un punto scoperto da poter utilizzare a proprio vantaggio, ma quell'armatura sembrava fusa con la pelle del proprietario. Si mosse di lato, schivò un fendente alla gola e incalzò. Fece una finta e affondò con l'altra lama, ma il suo avversario la parò. L'acciaio emise uno stridio assordante. Vide la daga nemica scorrere rapida sulla sua, poi il guerriero nero fletté le gambe e si piegò sulle ginocchia per sfruttare l'apertura sul fianco che l'elfo gli aveva fatalmente lasciato. Ledah percepì l'arma penetrargli le carni e il sangue sgorgare dalla ferita, ma tutto ciò che poté fare fu allontanarsi in fretta e ripristinare la distanza di sicurezza. L'altro roteò le daghe e lacrime cremisi imbrattarono il terreno. Ledah scrollò la testa, cercando di riprendere fiato, ma l'avversario non si dimostrò propenso a concedergli una tregua. Ad un tratto, sentì una delle lame sibilare vicino. Schivò prontamente, spostandosi sulla destra, ma le sue gambe non furono abbastanza veloci: la tunica venne lacerata e un graffio netto gli si disegnò sulla spalla.
- Non mi riconosci? - ansimò Ledah, poi si rialzò a fatica stringendo le daghe con forza. 
Le orecchie gli ronzavano e nel suo cervello c'era uno strano vocio, sussurri maligni che lo tormentavano e gli offuscavano la mente, impedendogli di muoversi come avrebbe voluto. E poi a frenarlo c'era la certezza di sapere contro chi stava combattendo.
Il guerriero caricò con ferocia. Ledah reagì con un fendente laterale e la lama penetrò senza sforzo. Il nemico accusò il colpo, arretrò agilmente e attese, come se stesse meditando una strategia.
- Fermiamo questa follia, Brandir! - gridò esasperato, ma non ricevette risposta.
Poi Ledah incrociò di scatto le daghe, parando un fendente dall'alto. Fu questione di un attimo: una nuova stoccata lo raggiunse al braccio e lo trafisse da parte a parte. Un gemito di dolore scivolò fuori dalle sue labbra e fu costretto a ritirarsi di nuovo. I muscoli erano intorpiditi e la stanchezza lo stava logorando istante dopo istante. Il sangue gli bagnava la pelle in più punti, mentre le ferite pulsavano dolorosamente. Brandir lo stava facendo a pezzi. Un colpo fulmineo al costato gli mozzò il fiato e lo fece piegare sulle ginocchia. In un ultimo sforzo, si scansò e riuscì per un pelo ad evitare un affondo mortale. Tossì, scosso dai tremiti. Si sentì mancare, ma l'istinto di sopravvivenza lo spronò a rimanere in piedi e rispondere agli attacchi. Il suo corpo bruciava e al contempo era attraversato da brividi freddi, ma la disperazione attenuava tutto, persino quell'incendio di dolore. Aggredì il suo vecchio amico mulinando le daghe con furia cieca. Il guerriero nero, invece, danzò con grazia e gli inflisse continue ferite con sconcertante facilità, ma la sofferenza che si irradiava da esse durava meno di un battito di ciglia e non bastava a fermarlo. Sembrava che quel mostro stesse solo giocando con lui come il gatto col topo, divertendosi a procurargli tagli più o meno profondi, senza mai infliggergli il colpo di grazia. Il sangue si mescolò al sudore, in una soffocante membrana umida e viscosa che aderiva alla pelle. I morsi della stanchezza non gli davano pace, ma Ledah non cessò di muoversi e lo fece con quanta più precisione possibile. Era certo che se si fosse fermato anche soltanto per un secondo, sarebbe stato spacciato. Il nemico lo stava fiaccando sia nel corpo che nell'anima e di quel passo lo avrebbe sconfitto. Alcuni colpi si infransero contro l'armatura nera, mentre altri, pochi, furono in grado di superare la sua difesa, eppure Brandir pareva essere immune al dolore: le sue stoccate conservavano la stessa potenza e lo incalzavano senza sosta. 
Ledah, col protrarsi dello scontro, iniziò a sentirsi sempre più stanco. In un attimo di lucidità riuscì a mettere a fuoco l'armatura del suo avversario e valutarne i danni: era stata intaccata in più punti ed era possibile scorgere le ferite sanguinanti al di sotto, eppure quell'essere rimaneva indifferente. Attaccava e parava, attaccava e parava, in un susseguirsi costante di assalti. 
Le voci nella testa di Ledah si fecero più insistenti e chiare, quasi autoritarie.
- Ti prego... ascoltami... - esalò, ma in cambio ricevette solo silenzio. 
Emise un mugolio angosciato e tentò un ultimo, profondo affondo. Caricò con rabbia mirando alla gola, gli occhi annebbiati dalle lacrime. Doveva staccargli la testa, così come aveva fatto con gli altri. Il guerriero parò il colpo e con l'elsa della daga lo colpì al ventre. Le ginocchia cedettero e Ledah cadde carponi a terra. Provò a rialzarsi, ma il suo corpo si era ormai arreso, prosciugato di ogni energia. Percepì il gelo dell'acciaio sul collo e, incapace persino di gemere, rimase immobile in attesa della morte. La sua giusta sentenza di morte.
All'improvviso udì un grido alla sua destra e poi dei passi concitati, che si interruppero bruscamente. Poi il mondo tacque, assieme a tutti i suoi suoni.
Allora Brandir volse lo sguardo altrove distraendosi e la lama scivolò via dalla nuca di Ledah senza scalfirla. L’elfo alzò la testa e lo scorse di spalle. Un tremito gli attraversò i muscoli e una profonda rabbia lo pervase. Puntò la daga a terra e con le gambe malferme si tirò su. Tremava da capo a piedi e nella sua mente le voci non ne volevano sapere di tacere. Il suo nemico era ad appena un paio di braccia da lui, eppure gli sembrava così lontano. 
Uccidilo! Uccidilo! Uccidilo!
Con un ringhio si diede lo slancio e si scagliò contro di lui. Doveva raggiungerlo e mandare il colpo a segno, era la sua ultima possibilità di vittoria. Però si ritrovò ad osservare con crescente confusione la sua figura imponente allontanarsi a passo sostenuto e non poté esimersi dall'abbandonarsi ad un sospiro di sollievo, anche se dentro di sé il furore era tutt'altro che svanito. Il cuore pompava sangue nel suo petto a ritmo frenetico, rimbombando nelle orecchie. Poi qualcuno gli si accostò da dietro e una presa salda si chiuse attorno al suo polso.
- Fermo. - 
La voce di Airis lo riscosse. Si afflosciò e si appoggiò a lei per riprendere fiato. 
Alle loro spalle la battaglia contro i non-morti era cessata e i loro compagni sembravano esserne usciti indenni. File di cadaveri di mostri e umani giacevano intorno a loro, in un macabro spettacolo di sangue e interiora squarciate.
- Quell'essere con l'armatura nera... -
- Sì, lo conoscevo. - con il respiro rotto, Ledah si terse il sudore dal viso, - Dobbiamo inseguirlo. -
Airis lo fissò interdetta. Aprì la bocca per aggiungere qualcosa, quando un ruggito sopra le loro teste li pietrificò. 
- Attenti!- 
Il nano arretrò in fretta per cercare un riparo. Ledah tirò a sé la guerriera, mentre una vampata di fiamme lambiva il molo. Un muro incandescente si erse quasi fino al cielo, frapponendosi tra loro e i compagni. Poi l'enorme drago si gettò in picchiata, atterrando di fronte a Baldur e a Fenrir. Li squadrò coi suoi occhi di brace, come se li stesse invitando a sfidarlo, e ruggì spalancando minacciosamente le fauci.
Ledah si affrettò ad allontanarsi da quella bestia maledetta e trascinò via anche Airis. Non potevano perdere tempo a combattere, dovevano assolutamente raggiungere Brandir. L'aveva visto imboccare un vicolo, in direzione di una delle strade maestre che sbucavano nella piazza principale. Anche se era uscito sfinito dall'ultimo duello, non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Non gli importava di essere allo stremo, avrebbe continuato a combattere al massimo delle proprie capacità, finché la morte non lo avesse reclamato. Lo doveva ad Airis e alle parole che le aveva rivolto per convincerla a tornare in città con lui. 
Lei si divincolò e fece per lanciarsi contro il drago, ma il calore insopportabile del fuoco la costrinse a mantenere le distanze.
- Dobbiamo aiutarli! -
Ledah la strattonò malamente, salvandola da un colpo di coda del drago. 
- No, non c'è tempo. - 
La creatura vomitò fiamme, mirando al nano e al Drow. Baldur spiccò un balzo all'indietro e Fenrir scartò di lato assieme a Myria, evitando all'ultimo istante che la vampata li investisse.
- Quel guerriero nero ha un altro bersaglio. Si stava dirigendo verso il centro della città, non si stava ritirando. I non-morti avevano già attaccato Luthien in precedenza. Ho salvato Melwen da loro il giorno del mio arrivo. Probabilmente, il motivo della loro presenza è uno solo. -
Airis si paralizzò e Ledah la vide tremare. 
- Copernico. - 
Un lamento agghiacciante sferzò l'aria: il drago si contorceva come impazzito, mentre rivoli di sangue nero come l'inchiostro sgorgavano copiosi dall'occhio destro. Il nano gli saltò addosso, gli piantò l'ascia nella spalla e cominciò ad agitarsi avanti e indietro come per darsi lo slancio, facendo scivolare la lama sempre più in profondità. Dall'impugnatura gocce dense e viscose colarono lungo le sue braccia e gli impregnarono i vestiti.
- Non pensate a noi! Ci rivedremo sotto il campanile! - gridò Fenrir.
Il Drow rivolse loro un'occhiata significativa attraverso la barriera di fuoco, poi tornò a concentrarsi sul drago e incoccò un'altra freccia. 
Airis li guardò ancora un istante, l'espressione che tradiva paura ed esitazione. Ledah, invece, annuì e fischiò, richiamando l'attenzione di Raiza, che comparve subito accanto a lui.
- Porta Mirya al sicuro. - ordinò.
Il lupo annuì e corse verso la donna. Lei gli montò in groppa senza indugio e insieme si allontanarono veloci dalla battaglia. 
Poi Ledah chiuse gli occhi e scacciò via ogni pensiero. Agguantò il polso di Airis e la trascinò verso la strada doveva aveva visto incamminarsi il guerriero nero. 
Ad un tratto, dalle viuzze laterali sbucarono fuori altri non-morti ed elfi, ma nessuno dei due si fece intimorire. Airis si voltò e si mise spalla a spalla con Ledah. Li affrontarono tutti, uno dietro l'altro. Le creature si gettarono su di loro con furia animale, ma i loro assalti non ebbero effetto contro le loro lame e nulla poterono contro l'abilità di chi le impugnava. L'elfo saltò dietro un suo ex compagno e lo trafisse con entrambe le daghe, poi ritirò un braccio, parò l'affondo di un altro e lo spinse verso Airis, che ne smembrò muscoli e ossa con un unico, potente fendente. Con la coda dell'occhio Ledah intravide il baluginio dell'acciaio dietro di sé. Si scansò all'ultimo istante, prima che il martello di un non-morto gli fracassasse il cranio. Piantò entrambi i piedi a terra e bloccò un altro colpo. Le due lame si divisero come delle forbici, chiudendo nella loro morsa la parte superiore dell’arma. Quindi Ledah roteò i polsi e con un rapido e agile movimento disarmò l’avversario. Poi lo aggredì ringhiando, lo atterrò e gli cavò gli occhi con entrambe le daghe. L'essere si contorse sotto di lui, ululò e scalciò nel tentativo di toglierselo di dosso, ma Ledah penetrò ancora di più, fino a quando non sentì le ossa scricchiolare. Infine, con uno strattone, estrasse le lame dalla carne e il sangue zampillò fuori a fiotti, macchiandogli l'armatura. 
Ma ancora non bastava. Spuntavano da ogni vicolo e porta nascosta e li attaccavano in massa, senza conceder loro respiro. 
Balzò contro il demone più vicino e la creatura gli venne incontro furiosa, le lunghe zanne ricurve spalancante e feroci. Ledah lo costrinse ad arretrare ad ogni colpo, mirò al torace e lo uccise. Poi saltò in aria e si avventò contro un altro, piantandogli le daghe nel collo. Il sangue esplose in una cascata scarlatta e alcune gocce gli finirono sul viso. Per ogni nemico che abbatteva, le voci diventavano sempre più insistenti, mani deformi lo toccavano dappertutto e quei dannati bisbigli gli assediavano il cervello, minacciando di fargli perdere la ragione.
Lasciati a noi, Ledah. Noi possiamo aiutarti. 
L'elfo le respinse, continuando a farsi strada in mezzo a quella miriade di corpi. Il sangue aveva completamente lordato la sua corazza e la veste che indossava sotto. 
"Via! Andate via!"
Senza di noi sei debole.
Lacerava, decapitava, colpiva, in una danza macabra che sembrava non avere fine. La sete di potere, di quel potere, lo tentava, ma non doveva cedervi o si sarebbe trasformato di nuovo in un mostro. Sbattè le palpebre più volte, deglutì e ingoiò il groppo di angoscia che gli ostruiva la gola. 
Non credere di aver vinto. Un giorno avrai bisogno di noi. 
- Che fai lì impalato? - Airis lo sorpassò correndo, - Muoviti, prima che ne arrivino altri! -
Gettò un'occhiata fugace intorno a sé e si accorse che avevano fatto piazza pulita. Seguì la guerriera in quella corsa sfrenata, mentre il terrore diveniva quasi insopportabile e l'oscurità che aveva dentro pulsava per uscire fuori. Ma Ledah era riuscito a domarla ancora e gli angoli della bocca si arricciarono appena in un sorriso vittorioso.
Girarono l'ultimo angolo e giunsero alla piazza principale. Le fiamme avevano divorato ogni cosa e cadaveri di uomini, donne e mostri giacevano ovunque, riversi sull'acciottolato o a ridosso dei muri. In lontananza, simile a un braccio mozzato, si stagliava il campanile. La torre era crollata e ora, sotto i suoi resti, era sepolto il quadrante del prezioso orologio. 
Brandir era davanti all'unico edificio che sembrava essere sopravvissuto alla devastazione, una panetteria che aggettava direttamente sulla piazza. Puntò la daga contro il legno carbonizzato della porta e colpì. L'insegna annerita ondeggiò e le catene che la tenevano appesa alla trave stridettero, per poi cedere in un gemito metallico. Un urlo acuto ruppe il silenzio. Un secondo più tardi una testolina bionda e un'altra figura più piccola si gettarono fuori da una delle finestre infrante, veloci come lepri.
- Melwen! Zefiro! - 
Raggiunsero i due bambini e Airis li nascose dietro di sé. Il nemico incrociò gli occhi dell'elfo e questi percepì addosso uno sguardo carico di rabbia, rancore e sete di vendetta.
Da sotto l'elmo uscì un sibilo sprezzante: - Io ti odio. - 
"I morti non provano sentimenti." 
Indietreggiò, folgorato da quel pensiero. 
Airis si frappose tra i due, mulinò la spada e vibrò un fendente laterale. Il guerriero indietreggiò, preso alla sprovvista, parò appena il colpo e retrocedette di nuovo, ma Airis non si scompose. Incalzò ancora, scartando agile come un gatto per schivare le stoccate dell'avversario. Brandì la lama di taglio e vi infuse tutta la forza che aveva. L'argento alchemico stridette contro il metallo oscuro dell'arma dell'altro, ma alla fine penetrò comunque fino a raggiungere la carne. Il nemico incassò senza fiatare e subito dopo tentò un affondo con una delle daghe, ma Airis fu veloce a sottrarsi e ad attaccarlo dal basso. Cominciò a menare un colpo dietro l'altro, senza lasciargli alcun margine. 
Ledah osservò affascinato la maestria con cui il Cavaliere del Lupo combatteva. Non compiva mai movimenti superflui, ogni affondo andava a segno con precisione, perfettamente bilanciato, fluido, letale. Acciaio contro acciaio, le lame cozzavano in un duello serrato, senza esclusione di colpi. Per Airis non esisteva nient'altro, eccetto lei e il suo avversario. Nei suoi occhi brillava la gelida determinazione del cavaliere. 
Il guerriero nero rispondeva come poteva, cercando di stare dietro ai continui assalti di Airis, ma le sue parate erano sempre più lente e impacciate. Ora sembrava accusare la stanchezza e le ferite che Ledah gli aveva inflitto lo rallentavano. L'elfo non riusciva più a contare quante volte la giovane lo avesse colpito, ma i danni che aveva riportato erano numerosi e gravi. Un normale essere umano a quel punto sarebbe già morto. 
Airis impugnò la spada a due mani e mirò alla gola. Brandir non reagì in tempo e la lama si abbatté sul collo, scavandovi un profondo solco e tranciandogli di netto la testa. 
Ledah restò basito. I due bambini si strinsero alle sue gambe, tremando come due foglioline, gli occhi sbarrati e l'incarnato cereo. 
- E' tutto finito, state tranquilli. - 
- Dov'è la mia mamma? - balbettò Zefiro sull'orlo del pianto.
- E papà? Papà sta bene? - si intromise Melwen, la voce insicura e tremante.
Prima ancora di riuscire a rispondere, uno spostamento d'aria li fece slittare all'indietro. L'immensa figura del drago oscurò il cielo, per poi atterrare di fronte a loro. Airis lo mancò per miracolo, cadde di schiena e strisciò indietro. 
Con un colpo di coda la bestia scaraventò a terra qualcosa, che non appena impattò col suolo iniziò ad inveire. Baldur digrignò i denti e si tirò su a fatica, il corpo cosparso di ferite e bruciature e le braccia bagnate del proprio sangue e di quello del drago. Roteò l'ascia e lanciò un'occhiata alle sue spalle. Con la coda dell'occhio Ledah intravide Fenrir sbucare da uno dei vicoli, con l'arco teso e lo sguardo fisso su quell'essere infernale.
L'animale spalancò le fauci ed emise un verso spaventoso di dolore misto a rabbia: uno squarcio slabbrato ornava il suo collo e la pelle squamosa sanguinava in più punti, ma non abbastanza copiosamente. L'unico occhio che gli era rimasto ardeva di una furia cieca. 
Ledah sentì le gambe molli e, improvvisamente, la consapevolezza di non avere alcuna via d'uscita lo schiacciò. Erano tutti e quattro stanchi e provati. Forse, se fossero stati nel pieno delle forze, avrebbero avuto qualche possibilità, ma non in quello stato, in bilico tra la vita e la morte.
- Voi due! Alzatevi e combattete! Io non ho intenzione di morire in ginocchio! -
La voce irata del nano giunse come un'eco lontana.
Airis si alzò e puntò la spada contro la bestia. Il braccio sembrava sul punto di lasciar cadere l'arma, ma i suoi occhi erano pieni di grinta. 
Ledah voleva farli desistere, convincere almeno Airis a ritirarsi, ma i suoi muscoli rifiutarono di muoversi. Era come se tutta la stanchezza di quel giorno gli fosse crollata addosso bruscamente. Desiderava aiutarli a fuggire, dire qualcosa che facesse realizzare a tutti quanto fosse assurda la loro ostinazione nel voler combattere, ma non ci riusciva. Era il suo stesso corpo a bloccarlo, a costringerlo a rimanere lì, immobile, ad osservare impotente la battaglia che si stava svolgendo sotto i suoi occhi. 
Il drago si girò e diresse la sua furia contro la guerriera. La sua zampata calò sulla sua testa, ma Airis fu rapida a spostarsi. Vibrò un colpo di spada contro la zampa dell'animale, lacerandone le membra con facilità.  Però, quando arretrò, Ledah la vide sbiancare. Portò l'attenzione verso il punto in cui erano fissati i suoi occhi e si rese conto che dalla ferita appena inferta non scorreva alcuna goccia di sangue. Anzi, i lembi di pelle squarciata si richiusero in fretta. Studiò il drago e solo in quell'istante si accorse che ogni ferita si stava rimarginando: scorse i muscoli riallacciarsi tra di loro, i legamenti recisi fondersi di nuovo insieme come se fossero stati dotati di vita propria e le squame ricomporsi. Ormai del taglio sul collo non era rimasta che una misera linea rossa. 
- Airis, va' via da lì! - gridò Ledah.
Una violenta fiammata eruttò dalla gola della creatura. La guerriera si gettò dentro una bottega. La vetrata esplose in una miriade di schegge e il fuoco si infranse contro la pietra. 
- Ledah! Ledah, aiutala! - lo supplicò Melwen in lacrime.
Non appena udì la voce della bambina, il drago si concentrò su di lei. Spalancò le fauci ed emise un altro ruggito, stavolta più alto e potente. Si mosse verso di loro, ma una raffica di dardi simili a lampi neri cadde giù dal cielo e si schiantò contro il drago, interrompendo la sua avanzata. Ledah intravide un'ombra allungarsi sul tetto di una casa, le braccia tese e la sagoma di un arco tra le mani.
"Fenrir. Quando è salito lassù?"
Un lamento acuto ferì le sue orecchie. 
- Bastardo! Muori! - sbraitò Baldur, lanciandosi contro la bestia. 
Ledah non poteva più rimanere piantato lì come uno stoccafisso, doveva agire.
- Melwen, Zefiro, allontanatevi. - scandì perentorio.
"Forza, venite a prendermi!"
Un brivido freddo gli percorse la schiena.
- Ma... - balbettò Zefiro.
"Su, non è da voi farvi attendere!"
Mani inconsistenti lo sfiorarono e sibili incomprensibili gli invasero la testa.
- Ho detto andate! - ordinò secco. 
Il bambino lo fissò spaurito, ma poi tirò via la sua amica. Non appena il drago percepì lo scalpiccio alle sue spalle, colpì furibondo il nano, scagliandolo a terra, le iridi vermiglie sfolgoranti d'ira come tizzoni ardenti.
Finalmente ci cerchi!
Ledah digrignò i denti, si graffiò il viso e chiuse gli occhi, il corpo già scosso dai brividi. La follia era lì a un passo da lui. La sua mente fu invasa dalle visioni: la statua di suo padre, il suo sguardo austero, i volti dei suoi compagni, migliaia di maschere intorno a lui, deformi, grottesche, distorte. Risate assordanti gli ferirono le orecchie. Le mani lo avvolsero e lo trascinarono in una voragine di tenebra.
Nessuno ti ha mai amato. Solo noi.
Vide una Sheelwood vuota e silenziosa, quasi senza vita. I suoni di quel giorno lo aggredirono: il cozzare delle armi, le grida, i tonfi dei corpi che cadevano a terra.
Bravo, Ledah, non resisterci. 
Il suo corpo ebbe uno spasmo e le sue dita si contorsero in modo innaturale. Il dolore era lancinante e sembrava fagocitare la sua volontà. Provò la strana sensazione di fluttuare nel vuoto. Poi il mondo scomparve, lasciando dietro di sé solo quell'incendio di emozioni che lo stavano travolgendo: odio, rabbia, sofferenza, vendetta. Percepì il sangue ribollire nelle vene e la testa pulsare alla velocità del suo cuore impazzito.
La senti? La senti la forza? 
Apparve ancora quella pianura. Alle sue spalle c'era Brandir, il suo migliore amico, intento a fronteggiare un elfo armato di una mazza pesante. Al suo fianco c'era lui, le due daghe sguainate a parare un affondo, la treccia lunga che danzava nell'aria e gli occhi verdi ridotti a fessure.
Guarda. Ricorda la rabbia di quel giorno. 
Ledah urlò, ma la sua voce non riuscì a dipanare lo spesso velo di oscurità che lo aveva avvolto. 
Vide un essere vestito con un'armatura nera, le catene intrecciate intorno alle braccia e l'elmo crestato a coprirgli il volto, mentre con una mano perforava il petto di Brandir. Si sentì soffocare. Le ginocchia cedettero, ma non percepì il contraccolpo delle ossa sul terreno. Spalancò gli occhi più che poté, ma a quell'abisso non c'era fine. Mille e mille voci gli riempirono la testa, milioni di ombre danzarono davanti a lui.
Mostro! Mostro! Sei tu il mostro!
Vide Brandir annaspare e serrare le mani tremanti attorno a quelle del nemico, per poi guardarlo dritto in faccia. Era il suo migliore amico, il suo unico amico. Scorse le sue labbra muoversi e tendersi in un sorriso sereno. 
- Ti voglio bene, Ledah. - 
Il suo cuore mancò un battito e per un istante tornò cosciente.
Vieni nell'abisso con noi.
"No. Vincerò questa battaglia rimanendo me stesso."
Dalle mani di Brandir scaturì un globo di luce bianca che lo accecò. Si sentì strappare da quella buia prigione con violenza e la realtà riassunse i suoi contorni. Aprì le palpebre nel momento esatto in cui il drago si levò in volo per scagliarsi contro i bambini. 
Zitto! Smettila di opporti! 
Ledah corse verso di loro, mentre la marea nera e invisibile che gli si aggrappava agli arti per fermarlo.
Gli artigli della bestia fendettero l'aria e il grido di Melwen riecheggiò nella città morta. Zefiro si strinse alla sua amica e attese. Rimasero immobili, immersi in un silenzio surreale, senza avere il coraggio di guardare. Poi il bambino spalancò gli occhi e il respiro gli rimase incastrato in gola: la zampa era proprio sopra di loro. Sotto di essa, di spalle, c'era un guerriero con una mezza armatura nera. I palmi delle sue mani erano premuti contro la pelle squamosa del drago, i muscoli tesi e tremanti per contrastare la sua forza mastodontica.
Ledah volse leggermente la testa verso di loro e Zefiro intravide due occhi incendiati dalle fiamme rosse della follia.

 
 
 

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Capitolo 25
*** Il Male Minore ***


25

Il Male Minore

 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Il suo cuore batteva a ritmo regolare, un rimbombare cupo estraneo persino a lui. Ledah inspirò ed espirò e spinse il fiato fuori dai polmoni a fatica. La percezione dell'ambiente circostante era alterata e gli riusciva difficile distinguere i contorni delle case, i suoni, l'odore di bruciato e il tanfo di morte. Era tutto mescolato in un caos che gli ottenebrava i sensi. 
Tu sei il Distruttore! Se combatti contro di noi, morirai!
Le voci urlavano, cercando continuamente di trascinarlo con loro, ma quelle grida erano niente in confronto al dolore, che pareva quasi stesse facendo a pezzi il suo corpo. I muscoli si tesero spasmodicamente sotto la pressione della zampa e quando il drago ruggì furioso spingendo con forza le ginocchia cedettero. Le ossa, in risposta alla pressione, si spezzarono. Ledah abbassò lo sguardo e vide del sangue, il proprio, che sgorgava dalle ferite.
L'effluvio intenso gli penetrò nelle narici.
“Lo voglio.”
Melwen e Zefiro urlarono con tutto il fiato che avevano in gola, stringendosi l'una all'altro.
Per un momento tornò in sé e sbraitò: - Andatevene!-
Socchiuse gli occhi, dando ascolto a quei continui sussurri, ed ebbe la sensazione che il corpo non gli appartenesse più. Lo sentì fremere e avvertì le braccia rilassarsi. 
Vieni con noi...
Gettò un'occhiata alle sue spalle e vide l'orrore dipinto sulle facce dei due bambini, orrore per ciò che stava diventando e per l'oscurità che lentamente lo stava divorando dall'interno, avvolgendolo come un'armatura viva, pulsante. La loro paura gli infuse un'ebbrezza folle, un'emozione che gli provocò una gioia malata. Strinse i denti e resistette.
- Andatevene! Presto! - intimò, la voce incrinata da un'intonazione grave che non era sua. 
Come appena svegliatasi da un incubo, Melwen si alzò di scatto e cominciò a correre, trascinandosi dietro il piccolo Zefiro. 
Ledah sibilò di dolore, il cuore che rallentava pian piano i battiti, e le voci fagocitarono ogni suono. Avrebbe voluto avventarsi sulle gole dei piccoli, immergere le daghe nelle loro tenere carni, godersi la vista del loro sangue scorrergli tra le dita, inebriarsi delle loro urla, bearsi nel vederli contorcersi nel tentativo di fuggire per poi colpire ancora, ancora e ancora.
Tremò. Anche l'osso del braccio sinistro si ruppe e subito una fitta lancinante soppresse le voci, restituendogli la lucidità. Dopodiché, in un battito di ciglia, le ombre si gettarono sulla ferita e penetrarono sotto la pelle come serpi fameliche. L'osso si trasfigurò in una lama lunga e nera, che brillò di riflessi sinistri sotto il riverbero del fuoco.
Udì in lontananza il gemito di rabbia del drago e avvertì sopra di sé, incombente e letale, il peso di quella creatura. Trattenne il respiro e si oppose a quella forza animale con tutto se stesso. Lo stava schiacciando e non avrebbe resistito a lungo. Gli si annebbiò la vista e le gambe cedettero di schianto. Le voci protestarono, lo assalirono da ogni dove. Volevano sopravvivere, volevano uccidere. Storse le labbra in un sorriso folle, ma continuò a lottare, le braccia tese contro le squame della bestia, la sua volontà contro quell'onda corrosiva di oscurità. Chiuse gli occhi e cercò un ricordo a cui potersi aggrappare prima di abbandonarsi all'oblio. Camminando nell'abisso, rivide un paio di occhi opachi, di un verde slavato come quello delle pianure sotto il tiepido sole autunnale. Poi una figura, inizialmente sfocata, prese forma davanti a lui, rischiarando quelle tenebre opprimenti.
"Airis."
Accarezzò il suo volto e la strinse in un abbraccio soffocante, lasciandosi avvolgere dal calore ardente come le fiamme che i suoi capelli parevano sprigionare. Due braccia esili ma forti gli cinsero le spalle e Ledah poté percepire il battito del suo cuore come un tamburo dentro il cervello. O forse era il proprio, non lo sapeva, ma in quel momento non gli importava. Alzò lo sguardo, incrociando quello di lei. Anche se spenti, per Ledah quelli erano gli occhi più belli che avesse mai visto. Airis sorrise e poggiò la fronte contro la sua, senza perdere il contatto visivo. L'elfo le sfiorò con delicatezza la guancia, disegnando con i polpastrelli le lievi cicatrici sugli zigomi, le lunghe ciglia, le labbra piccole eppure così carnose e piene, il collo sottile come quello delle driadi.
"La Morte si è ammantata del tuo aspetto."
- Grazie, Airis. - esalò in un sussurro.
L'abbracciò ancora una volta e si arrese al suo tepore. Una luce accecante lo avvolse e, per un momento che gli sembrò eterno, il tempo si fermò. 
Un boato assordante lo riportò alla realtà. L'atroce certezza di possedere un corpo tornò a invadergli la coscienza e Ledah si sentì scaraventare indietro da una potente onda d'urto. Attraversò l'aria in una frazione di secondo e sfondò una vetrata, atterrando sul pavimento polveroso di qualche casa. Sbatté le palpebre più volte, senza capacitarsi di come potesse essere ancora vivo. Avvertiva addosso il peso dell'armatura d'ombra, ma il dolore delle ferite era quasi del tutto svanito. Il vocio nella sua testa, mentre si stava quasi convincendo di averlo spinto a ritirarsi nei recessi della propria anima, riprese subito a graffiargli le orecchie e ora lo esortava a rialzarsi e compiere il suo dovere di carnefice. Rotolò carponi e tentò di riprendere fiato, ma più ossigeno provava ad incamerare più sentiva di averne bisogno, come se non fosse mai abbastanza. 
Ad un tratto, si sentì sollevare con uno strattone. Con lo sguardo ancora sfocato e il caos che regnava nella sua testa, percepì delle mani sotto le ascelle e un respiro affannoso. Girò il capo e con un enorme sforzo squarciò il velo di nebbia che gli copriva la vista. Quando vide la guerriera, il cuore mancò un battito e le voci ammutolirono all'istante.
- Airis... - rantolò smarrito.
Ansimava vistosamente e la camicia si era lacerata in svariati punti, lasciando scoperte ampie porzioni di pelle ricoperte da tagli e lividi. Schioccò la lingua e un sorriso beffardo le increspò le labbra.
- Sono arrivati i rinforzi. - disse e indicò con un cenno la strada. 
L'elfo trattenne il respiro e si impietrì, incredulo e al contempo pieno di sollievo.
La carcassa del drago giaceva a una settantina di braccia da dove si trovavano, sepolto sotto le macerie del campanile, con il fianco destro dilaniato e le ossa spaccate che emergevano dalle carni lacerate. A poca distanza c'era un uomo con una lunga tunica violacea, i capelli bianchi sciolti sulle spalle, le mani sfavillanti di luce e gli occhi rossi, accesi di furia. 
- Papà! -
Trascinandosi dietro il piccolo Zefiro, Melwen corse tra le braccia del padre. Copernico la strinse forte, come per assicurarsi che lei fosse davvero lì, le asciugò le lacrime che le rigavano il viso e le baciò la fronte.
- La mamma? - la bambina alzò di scatto la testa, - La mamma sta bene, vero? -
Un'ombra oscurò lo sguardo del mago. Le accarezzò la testa, senza distogliere gli occhi da quelli di sua figlia. Per un momento, mentre si avvicinava a loro aggrappandosi ad Airis, Ledah ebbe l'impressione che stesse per scoppiare a piangere. Poi Copernico scrollò il capo e abbozzò un sorriso.
- Sì, sì sta bene. Ti aspetta alle porte della città. - la rassicurò scompigliandole la zazzera bionda.
Il ruggito furioso del drago, inaspettato e terribile, li raggelò. Una coltre di fumo avvolse la bestia e i tessuti si rimarginarono lentamente, mentre quell'essere infernale lottava per liberarsi dalle macerie.
- Sapevo che non sarebbe bastato un semplice incantesimo. - sbuffò il mago.
Si mise davanti a Melwen per farle da scudo, poi scoccò un'occhiata rapida a Ledah, forse per valutare i danni che aveva riportato.
- Portate via i bambini, mettetevi in salvo. A lui ci penso io. -
Fenrir e Baldur, che nel frattempo si erano avvicinati, si scambiarono uno sguardo d'intesa. Senza esitare presero i bambini in braccio, ma Melwen si dimenò come una serpe, cercando di fuggire dalla presa salda del nano. Si aggrappò alla tunica del padre piangendo.
- No! No, papà! Non lasciarmi sola! Ti prego, ti prego... -
Quando udì quelle parole, la determinazione di Copernico vacillò, ma fu solo questione di un attimo. Si impose di riprendere il controllo di sé e placare l'impercettibile tremore che gli scuoteva le membra. Non voleva lasciarla, ma quella era la cosa migliore da fare, il male minore. Distolse lo sguardo da quello disperato della figlia e con riluttanza l'allontanò.
- Non temere, piccola mia, tornerò. - le promise.
Aprì le braccia, lasciando che l'energia magica scorresse libera nelle sue vene, e inspirò profondamente, fissando i suoi occhi in quelli del drago. 
- Andate! Nano, Drow, correte verso la porta Ovest. Airis, va' con loro e conduci i sopravvissuti lontano da qui. - 
Baldur strattonò Melwen con più veemenza. La bambina tentò di opporsi, si divincolò, scalciò, urlò il nome del padre più e più volte, perché qualcosa le diceva che quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe visto. Ma gli occhi di Copernico erano altrove, concentrati sulla nera figura che si stagliava davanti a loro, e presto le sue dita persero la presa. All'ultimo istante affondò le unghie nella stoffa, riuscendo a strappare il mantello.
- Non mi lasciare! Papà! - 
Il corpo del mago fremette e, mentre la figlia si allontanava, Ledah lo vide sussurrare qualcosa, un addio che solo lui e Fenrir probabilmente udirono. Poi le parole vennero sovrastate dal ruggito del drago. Gli occhi ardevano di rinnovata furia e le zampe ferivano il terreno, nervose, pronte ad attaccare.
Copernico portò le mani davanti a sé e sui palmi cominciarono a volteggiare dei globi bianchi e iridescenti. Si morse il labbro e guardò l'elfo di sottecchi.
- Ledah. -
- Ho capito. - annuì, si allontanò da Airis e gli si affiancò, le ferite quasi del tutto guarite. 
Non appena il calore della guerriera lo abbandonò, le voci tornarono ad assalirlo, ancora più feroci, ancora più spietate.
Uccidilo!
Barcollò, tenendosi la testa con le mani e premendo sulle orecchie. Volevano fare a pezzi la sua anima e il dolore provocato dalle loro grida era insopportabile. Un gelido intorpidimento gli invase le membra e Ledah capì si essere ormai giunto al limite. Percepì le loro dita avvinghiarsi alla sua volontà e trascinarlo in un vortice di follia. Si sentì mancare l'aria, il corpo fremette e una fitta lancinante gli artigliò le membra, mozzandogli il fiato. La corazza nera, simile a putrido catrame, gli si attorcigliò attorno alle gambe, solidificandosi in leggeri schinieri. Copernico lo osservò con uno sguardo imperscrutabile, ma non commentò.
- No, non possiamo lasciarvi qui. Se lo affrontassimo insieme... - tentò Airis, testarda.
- No. - scandì Ledah. 
Le iridi rosse bruciavano come tizzoni ardenti e i lineamenti del viso si erano induriti. 
- Vattene. - le intimò.
- Ma... - la voce le morì in gola e la frase si completò solo nella sua mente. 
"Di questo passo ti trasformerai del tutto."
Come se le avesse letto nel pensiero, l'elfo incurvò le labbra in quello che doveva sembrare un sorriso, ma che alla luce delle fiamme intorno a loro sembrò più un ghigno crudele. Fece vari respiri profondi e riuscì a riprendere il controllo. Isolò il perpetuo brusio e sostenne lo sguardo della guerriera per un tempo incalcolabile. Voleva dirle tante, troppe cose e non sapeva se avrebbe trovato un'altra occasione. Chiuse gli occhi e quando li riaprì lasciò che fosse la sua anima a parlare.
- Vai, Airis. Compi il tuo dovere di Cavaliere e proteggili. -
Airis si stranì a quelle parole, ma in seguito una grande malinconia la invase, una tristezza profonda dettata dalla consapevolezza di non poter fare nulla per convincerli a fuggire. Mai come in quel momento si sentì così impotente, così debole.
- È un addio, Ledah di Llanowar? -
- No, direi che è più un arrivederci. - le regalò un sorriso sghembo, - Non me lo sono scordato, sai? Mi devi ancora raccontare cosa è successo ai tuoi occhi. -
Per la prima volta da quando si erano incontrati, ad Airis parve finalmente in pace con se stesso. Rimase immobile, incatenata a quegli occhi cremisi, e si rese conto di non aver paura dell'essere che aveva di fronte. Inaspettatamente, si ritrovò a pregare gli dei. Chiese loro di lasciarlo vivere, di permetterle di rivederlo, di poter ballare un'altra volta con lui perché solo mentre era tra le sue braccia poteva sentire il gelido vuoto che aveva dentro riempirsi di un piacevole calore.
- Se sopravviverai, lo farò. -
L'elfo assentì debolmente. Poi Airis corse via, svanendo in mezzo al labirinto di macerie.
Non appena l'eco dei suoi passi svanì, Ledah tornò a rivolgere la sua attenzione al loro mastodontico avversario. Il drago alternò lo sguardo tra la ragazza che stava fuggendo e il mago, come se stesse cercando di decidere chi sarebbe stato il suo prossimo obiettivo. Infine posò definitivamente gli occhi sul duo davanti a lui e lanciò un ruggito di sfida.
Copernico fece galleggiare due sfere di luce intorno a sé, mentre le sue braccia venivano circondate da fulmini bluastri.
- Hai un piano? Perché io non credo di... -
Il mago scosse la testa: - Tranquillo. Sapevo già tutto. - 
Prima che Ledah potesse fare domande, lo zittì con un gesto secco. 
- Se ne usciremo vivi, ti spiegherò ogni cosa. Ora tienilo occupato. Ho bisogno di tempo per preparare l'incantesimo. -
L'elfo mulinò le daghe e si mise in posizione, pronto a scattare. Il drago lo fissò e digrignò le zanne, poi vomitò una fiammata. Ledah scartò di lato, evitando all'ultimo istante che il fuoco lo investisse.
Sei stanco. Lascia a noi il tuo corpo... ti faremo vincere.
Scosse la testa, cercando di mantenere il controllo. Arretrò di qualche passo e studiò la bestia. Doveva colpire direttamente al cuore, infliggergli ferite era assolutamente inutile. Ma prima di trovare una falla nella sua difesa, doveva sfiancarlo.
"Potrà anche rigenerarsi, ma il dolore lo percepisce comunque."
Scattò rapido verso il drago, che proruppe in un'altra fiammata, ma Ledah fu abbastanza agile da schivarla. Balzò sulla sua zampa e la lama si abbatté su di essa in un fendente preciso. Al contatto con le squame, dall'arma si sprigionò un'energia nera e l'aria si saturò dell'odore di carne bruciata. Il drago si dimenò, sollevò l'arto ferito ringhiando in preda alla rabbia e tentò di colpirlo. L'elfo scattò indietro, evitando per un pelo di venire schiacciato, poi gli fu di nuovo addosso. Si portò sotto la bestia, descrisse un semicerchio con entrambe le daghe e colpì di piatto una delle zampe anteriori.
Fallo a pezzi!
Le voci esplosero in un urlo graffiante, disumano che apparteneva a tutte le persone che aveva conosciuto e a nessuna di esse. Ledah serrò le palpebre, tentando di arginare quella follia oscura, ma la stanchezza era troppa e il suo corpo lo pregava di lasciarsi andare e smettere di opporsi. Guardò di sottecchi Copernico e lo scorse concentrato, con le labbra tese e le mani chiuse attorno ad un globo di luce che diventava sempre più luminoso. Lo udì recitare bassa voce delle parole in una lingua antica, ma era evidente che non aveva ancora finito. Strinse i denti e si scagliò contro il drago con rinnovata determinazione, nel tentativo di lasciarsi dietro quelle voci. La bestia fendette l'aria con colpo della coda, ma Ledah si abbassò e piegò le ginocchia per sferrare un altro fendente. In una frazione di secondo la daga penetrò fino all'elsa nel gomito di una delle zampe. Il sangue uscì a fiotti, imbrattandogli il braccio e la corazza. 
Ne vuoi ancora? Prendilo, prendi il suo sangue! Prendi la sua vita!
Una zampata lo colpì in pieno e lo scaraventò a terra. Il contraccolpo con il terreno gli mozzò il fiato. Con la vista offuscata, intravide un'ombra enorme avvicinarsi sempre di più e rotolò di fianco prima che la zampa del drago lo schiacciasse.
Colpiscilo! Ti basta poco, Ledah, ci sei quasi.
“Silenzio!”
Doveva farcela, non poteva lasciarle vincere. Annaspò, si rimise in piedi a fatica e strinse l'unica daga rimasta. Chiuse gli occhi. Un'energia nera avvolse l'arma e il metallo si piegò al volere delle ombre. La lama si allungò, la guardia si fece più grossa e l'elsa si fregiò di rune color sangue. Caricò nuovamente, scartò di lato e zigzagò, evitando tutti i colpi della bestia. Lo attaccò ancora, stavolta mirando al collo. Saltò su una delle zampe e corse lungo la pelle fino a poco sotto la gola. Balzò e, impugnando la daga a due mani, la conficcò poco sotto la mandibola, penetrando in profondità e descrivendo uno squarcio verticale fin quasi al petto. Cominciò a massacrare la creatura con inaudita ferocia: ogni volta che gli si presentava l'occasione, la sua lama scintillava sotto il sole, squarciando la pelle del mostro, facendola a brandelli. Saltava, scansava, arretrava sfuggendo alle fiamme e alla furia cieca dell'animale, assestava stoccate fulminee e ancora si ritirava, in una macabra danza di morte. Dopo ciascun colpo andato a segno, dalla daga si liberava un'onda di energia oscura, potente come le grida che gli perforavano il cervello.
Ancora! Di più!
Ledah chiuse gli occhi. Era leggero, rapido a sufficienza per poter tenere testa al drago ancora un po', ma quella lotta intensa lo stava sfiancando. Il suo tempo stava per scadere. Sentì il cappio del destino stringersi attorno alla gola e improvvisamente il respiro gli mancò. Strinse la spada fino a farsi sbiancare le nocche e partì ancora all'attacco. 
A un tratto, le immagini di quello che era stata la sua vita fino a quel momento lo investirono a tradimento.
Ascolta la rabbia, Ledah, ricorda la solitudine che hai provato.
Negli anni aveva calpestato innumerevoli cadaveri, sia dei nemici sia dei suoi compagni, lasciandosi alle spalle solo una scia di sangue. La morte era stata la sua amante, le daghe le sue fide compagne. Aveva calcato i campi di battaglia ogni giorno, ciecamente convinto che gli insegnamenti e i valori che gli erano stati impartiti non potessero essere messi in discussione: l'amore per la patria, l'odio per gli umani, il sacrificio in guerra. Ma poi aveva perso il controllo in quella radura di Sheelwood e tutto gli era crollato addosso. Era stato esiliato dalla stessa gente che aveva giurato di proteggere, gli avevano sputato addosso, lo avevano insultato e gli avevano tirato pietre fino a farlo crollare in ginocchio. Sarebbe dovuto morire quel giorno, sotto gli occhi pieni di disgusto e orrore del suo popolo, ma lui voleva vivere. Era fuggito e aveva trovato rifugio nella parte più interna di Llanowar. Credeva di potersi redimere, credeva che se avesse continuato a combattere a fianco degli elfi, essi lo avrebbero riammesso tra loro, ma il suo passato era come un pesante macigno che lo trascinava sempre più in basso, sempre più giù in quel baratro fangoso di voci. La notizia di quello che aveva fatto aveva viaggiato su ali più veloci. Ben presto aveva dovuto sparire, diventando un'ombra tra le ombre.
Abbatté la spada sul collo della bestia e il ruggito di sofferenza del drago rimbombò nell'aria.
Ciononostante, aveva continuato a compiere il suo dovere. Nascosto tra le fronde degli alberi, aveva continuato a mietere nemici, lasciando che il merito di ogni uccisione fosse tributato ad altri soldati. Origliava spesso gli ordini dei capi e, appreso dove sarebbero andate le truppe in ricognizione, le precedeva, seguiva le tracce lasciate dagli umani, si spingeva nei luoghi dove si erano appostati e senza indugio gli eliminava. Durante quelle battute di caccia efferata, aveva incontrato nemici impavidi, valorosi, astuti, uomini che vivevano con il solo scopo di uccidere, ma anche soldati che combattevano per denaro, per fame, per piacere o per altre ragioni. A volte era bastato un semplice colpo, altre volte era stato costretto a lottare fino allo stremo delle forze. Ma, alla fine, il loro sangue era scivolato sulle sue lame, gocciolando a terra in un costante stillicidio. Alcune volte si era avventurato fino alle porte degli insediamenti elfici per sfuggire a quella cupa solitudine, però poi il buonsenso lo aveva spinto sempre a ritirarsi di nuovo.
Li detesti, vero? Dovrebbero morire tutti. Ingrati, ipocriti, vili!
Per anni era andato avanti in quel modo. Alla morte dopo un po' ci si abitua. Non gli importava se la sua anima sarebbe diventata sempre più nera, perché non aveva più niente da perdere, eccetto se stesso. Tuttavia, quando aveva imparato cosa significasse davvero sentirsi vivo e aveva creduto di potersi salvare, la verità era tornata ad assalirlo. Per Ledah di Llanowar non c'era mai stato scampo. Si era illuso di aver trovato un'ancora a cui aggrapparsi per non precipitare, ma pareva che la corda che lo teneva appeso si fosse ormai spezzata. Stava cadendo.
All'improvviso si sentì afferrare per una spalla e qualcuno lo costrinse ad indietreggiare.
- Non è ancora arrivato il tuo momento, Ledah. - la voce di Copernico gli esplose in testa. 
L'elfo percepì una scarica di calore attraversare ogni fibra del suo corpo e le voci ammutolirono di colpo. Sbatté le palpebre e barcollò privo di forze. Tutto il potere che aveva percepito scorrergli nelle vene fino a quel momento svanì assieme alle ombre. Pezzi di metallo nero caddero a terra con un tonfo sordo e lentamente l'armatura si sgretolò sotto il suo sguardo attonito. Fissò Copernico, sbigottito, e vide il frammento di cristallo azzurro che volteggiava nel palmo della sua mano.
- Hai preso tempo a sufficienza. Ora sono pronto. - 
Poi, prima ancora che Ledah potesse capire cosa stesse succedendo, una potente onda d'urto lo scaraventò all'interno di un edificio distrutto. Le schegge di vetro lo ferirono e il contraccolpo con il terreno gli offuscò la vista. A fatica tirò su il capo e vide il corpo del mago librarsi in aria, mentre raggi di luce bianca scaturivano dal cristallo. Il drago ringhiò e sputò fuoco addosso a Copernico, ma le fiamme si infransero contro una barriera impalpabile. Allora ci si accanì con le zampe, ma i suoi artigli si frantumarono. Il suo ruggito di dolore si diffuse per tutta la città. Il mezz'elfo mantenne la concentrazione e continuò a sussurrare con voce roca un'antica litania, il viso contratto per la fatica e le vene che emergevano sotto la pelle come rami bluastri. Il frammento vibrò nelle sue mani ed emise una luce sempre più accecante.
Ledah osservò la scena, immobile, lo sguardo perso in un vecchio ricordo e una sensazione di angoscia che gli attanagliava le viscere. Le parole di Airis riemersero prepotentemente dalla memoria.
“Dopo aver perlustrato a fondo la cattedrale del Signore della Foresta, nel cortile antistante ho trovato i cadaveri di una decina di sacerdoti, accatastati attorno a un'enorme voragine. I loro corpi sembravano degli scheletri, per quanto la pelle era tesa sulle ossa. Era come se...”
"Come se gli avessero risucchiato la vita..." 
L'aria gli si incastrò in gola. Alzò lo sguardo e vide il corpo di Copernico coperto di ferite, il sangue a imbrattargli la tunica, la pelle tirata sugli zigomi e piagata sulle mani.
- Copernico, fermati! Così morirai! - gridò.
Tentò di alzarsi, ma i muscoli non rispondevano. Era come se tutta la stanchezza gli fosse piombata addosso in un solo istante. Poi la voce del mago parlò direttamente alla sua coscienza.
"Scusami, Ledah, ma devo fare in fretta e purtroppo non ce la farò a rivelarti tutto quello che ho scoperto. Come hai visto, sono riuscito controllare parzialmente il tuo potere ed è stato grazie al frammento che Airis mi ha portato." 
"Ti prego, fermati!"
"Giunto a questo punto non posso più fermarmi. Ora ascoltami. Devi assolutamente trovare un altro di questi frammenti. Mi sbagliavo, Ledah, mi sbagliavo su tutto. Il cristallo madre non era un semplice catalizzatore, ma aveva all'interno qualcosa di più, una luce molto potente, che sarebbe addirittura capace di sconfiggere le tenebre dentro di te, aiutandoti a dominarle. Trovalo, Ledah, trova l'ultimo frammento!"
Innalzò le braccia al cielo e la scheggia luminosa volteggiò sopra di lui. Il drago si ritrasse, accecato. Le ferite ancora aperte ricominciarono a sanguinare e la rigenerazione si arrestò. Un forte vento si alzò e spazzò via i fumi degli incendi, rivelando un cielo di un azzurro chiarissimo.
Copernico abbassò lo sguardo, incrociando quello atterrito dell'elfo. Un sorriso sereno gli si dipinse sul volto stanco.
"Per favore, di' a Melwen che le ho sempre voluto bene." 
Fece un gesto con una mano e una brezza leggera sfiorò Ledah, che percepì il proprio corpo avvolto da una forza intangibile.
Ad un tratto, un fischio acuto si diffuse nell'aria.
- No! Non farlo! -
"Vivi, Ledah. Vivi e proteggile."
Infine calò un silenzio assordante.
Gli animali ammutolirono, il vento si calmò e il tempo si arrestò.

Il vuoto.
Un vuoto che aveva portato morte e distruzione, un vuoto che Airis non avrebbe mai dimenticato.
La calma prima della tempesta.
La guerriera si fermò e si voltò indietro per sincerarsi che non fosse ciò che pensava, ma un attimo più tardi ogni dubbio venne spazzato via.
Vide una luce bianca espandersi rapidamente.
Udì un boato devastante.
Un'onda d'urto la investì, le staccò i piedi da terra e la scaraventò lontano.
Poi il buio l'avvolse.

Una figura avanzò spedita tra le macerie. Indossava una splendente armatura nera e il mantello verde ondeggiava sulla schiena. Osservò distrattamente i suoi sottoposti per appurare che stessero compiendo il loro lavoro. I demoni annusavano l'aria e correvano in qua e là e gli elfi non morti battevano le strade sulle tracce di qualche sopravvissuto, anche se era alquanto improbabile che un umano potesse essersi salvato. 
Non avevano previsto che il mago fosse in possesso di un frammento, ma in fin dei conti avevano ottenuto esattamente ciò che volevano. Si rigirò tra le mani un libro vecchio dalla copertina consunta e gli spigoli istoriati con decorazioni dorate. Con finta indifferenza scorse con le dita le pagine ingiallite dagli anni e non poté fare a meno di sorridere compiaciuto. Lei sarebbe stata felice.
Lanciò una rapida occhiata al carro dietro di sé, dove giaceva il corpo inerte di Ledah. Respirava appena, ma era vivo. Due demoni gli avevano legato le mani dietro la schiena e ora stavano lì di guardia, anche se in quelle condizioni non sarebbe comunque riuscito a scappare. Rifletté che, se non fosse stato per quella magia di protezione, probabilmente ora avrebbero trovato soltanto le ossa.
"Sei un elfo fortunato, Ledah. Molto fortunato." 
Schioccò la lingua e si avvicinò a un cavaliere ferito, che sedeva ai piedi di quella che doveva essere stata una bottega di dolci, a giudicare dal lieve profumo zuccherino che ancora ammantava le pareti. I capelli corti e fulvi erano sporchi di polvere e fuliggine, mentre il viso spruzzato di piccole efelidi era disteso in un'espressione rilassata. L'armatura nera era stata scalfita in più punti, ma nel complesso era intatta. 
Non appena lo vide arrivare, si girò verso di lui, fissandolo con disinteresse.
- Ce ne avete messo di tempo. Sono quasi morto... di noia. - sbuffò Brandir.
L'altro si soffermò sulle ferite che deturpavano il volto dell'elfo. A parte l'evidente linea rossa che gli deturpava il collo, la pelle sulle guance era bruciata e le ossa bianche spuntavano da sotto la carne viva.
- È colpa tua. - rispose, gelido, - Ci abbiamo messo più di un'ora per trovare la tua stupida testa. -
Brandir scrollò le spalle e cambiò argomento: - Beh, lo avete preso? -
- Sì. Lo abbiamo già caricato sul carro. -
In quel momento, un demone si avvicinò: - Signore, dobbiamo sbrigarci. -
- Sì, arriviamo. -
Il mostro annuì e si dileguò lasciandoli di nuovo soli.
L'elfo si alzò, si stiracchiò e scrocchiò il collo: - Non ricordo il tuo nome. -
Il guerriero col mantello verde ghignò appena: - Io sono Eigor Felther, primo Comandante della cinquantesima legione, Cavaliere del Drago. - 
Morto nell'ultimo assedio di Llanowar.
Ma questo non lo disse.

 

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Capitolo 26
*** Frammenti di memoria- Giustizia ***


26

Frammenti di memoria- Giustizia

 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Caillean si sentiva immensamente debole. L'avevano nutrita solamente con pane e acqua nei giorni precedenti. Glieli avevano portati quando meno se lo aspettava, forse perché speravano di sorprenderla addormentata, così da lasciare quei miseri pasti ai topi. Ma lei era sempre rimasta vigile ed era riuscita a sopravvivere. Chiusa in quella stanza angusta e umida, illuminata solo grazie a un'unica finestra, si gettava sul cibo con disperazione per placare i crampi della fame che la tormentavano giorno e notte, invano. Più di una volta si era trascinata fino alle sbarre della cella, strisciando in mezzo ai suoi stessi escrementi e alla paglia intrisa di urina, ma le catene la bloccavano sempre prima di riuscire anche solo a sfiorarle. Allora urlava, pregava gli dei e piangeva, ma nessuno era mai giunto in suo soccorso.
Talvolta le era parso di sentire dei gemiti di dolore, ma da quel che ricordava quelle prigioni non erano più in uso da secoli, perciò li aveva archiviati come mero frutto della sua mente spossata. Spesso, per rompere quel silenzio assordante, parlava tra sé e sé, raccontandosi le leggende che giravano attorno a quelle antiche rovine, oppure faceva progetti su quando suo padre sarebbe venuto a portarla via da lì. A tratti le pareva persino di udire la sua voce che la chiamava promettendole la salvezza. Poi l'immagine della sua testa conficcata sulla picca all'entrata del villaggio, insieme a quelle di molti altri uomini a cui non sapeva dare un nome, tornava ad assalirla con forza e tutte le sue speranze andavano in frantumi. 
Ogni tanto una donna incappucciata era venuta a farle visita e a controllare le ferite, ma non si era mai spinta al di là di una rapida occhiata. Caillean aveva provato a parlarle, ma in risposta aveva ottenuto soltanto l'eco della propria voce. 
Al settimo giorno vennero a prenderla. Stava scivolando nel torpore del sonno, quando all'improvviso udì un rumore di passi e il cigolio della pesante porta di ferro della cella. Due uomini la afferrarono sotto le ascelle e la costrinsero in piedi. Tentò di opporre resistenza, ma erano troppo forti. L'alba era sorta da meno di un'ora e le pareti del lungo corridoio di pietra che stava attraversando rilucevano di un alone rosato. Il profumo dei fiori di campo le solleticò le narici e un leggero venticello estivo si insinuò sotto le sue vesti lacere, accarezzando la pelle martoriata. I muscoli delle gambe erano intorpidite per la prolungata mancanza di movimento, tanto che non riusciva a camminare. Ci pensarono le guardie a sorreggerla, sorde al suo piagnucolio disperato, trascinandola in un dedalo di passaggi tutti uguali dove c'erano altre celle. Molte erano vuote, altre invece erano occupate da pochi prigionieri, che Caillean riconobbe come abitanti di Merite. Li osservò di sfuggita, chiedendosi perché si trovassero lì: Merite era un posto tranquillo, dove il crimine più grave era il furto di frutta e dolcetti da parte dei bambini. Perché quindi il macellaio e il fabbro erano stati rinchiusi? Perché in quell'altra cella c'era il pastore che viveva poco fuori dal paese? Non erano amici della sua famiglia, ma qualche volta avevano chiacchierato e scherzato con suo padre e si erano fatti pure qualche piccolo favore a vicenda. L'angoscia le annodò le viscere e le gelò il sangue.
Con immenso sforzo alzò appena la testa, gli occhi lucidi e il cuore che batteva contro la cassa toracica.
- Perché? - 
La domanda le uscì strozzata. Aveva la gola secca. Una delle guardie storse le labbra in una smorfia infastidita, strinse la presa attorno al braccio della bambina e continuò a strattonarla senza rivolgerle la parola.
Non appena uscirono all'aperto, la luce le graffiò gli occhi. Serrò le palpebre, cercando di proteggersi dai raggi del sole, ma il bruciore era forte, insopportabile, dato che era rimasta al buio per sette lunghi giorni, osservando il cielo da dietro le sbarre della sua prigione. Attraversarono il villaggio sotto un sole implacabile. I capelli le ricadevano davanti al volto e il sudore le imperlava la fronte, ma nessuno dei due uomini che l'avevano presa in custodia si premurò di aiutarla, quasi fossero compiaciuti di vederla ridotta in quello stato. 
Quando percepì la carezze degli steli d'erba sulle gambe, capì che si trovavano al limitare della foresta. Forse volevano ammazzarla e lasciare il suo corpo alla mercé dei corvi, ma a lei non importava più: meglio morire che continuare con quella tortura. Però non voleva fare la fine di suo padre, non voleva che la sua testa finisse su una picca. Singhiozzò, strinse i pugni e cominciò a tremare.
- Vuoi morire subito, mocciosa? - 
Una guardia le artigliò i capelli e la costrinse a guardarlo. L'espressione feroce che gli deformava il viso le fece accapponare la pelle.
- Se non la smetti, ti taglierò la testa. È chiaro? - sibilò.
Caillean annuì con veemenza, obbligandosi a ricacciare indietro le lacrime. L'uomo lasciò la presa sui capelli e le afferrò di nuovo il braccio.
Dopo mezz'ora di cammino, giunsero in una radura. L'aria era afosa e satura d'umidità e la luce filtrava a fatica attraverso le fronde degli alberi. Nascosti nella penombra, Caillean riconobbe molti degli abitanti di Merite. Le loro facce erano distorte dall'odio, dalla rabbia, dal disprezzo. A pochi passi da lei, con le braccia dietro la schiena, vestito con l'alto copricapo nero e la tunica di lana grezza, il capo villaggio la scrutava impassibile. Non appena incrociò il suo sguardo, la bambina sentì le forze mancarle e intuì perché l'avessero condotta lì. Il pomeriggio in cui aveva ritrovato il cadavere di Elyn le tornò alla mente. 
Tremò da capo a piedi come una foglia, incapace di arginare il moto di terrore che le scorreva nelle vene. Stavolta fu lei ad aggrapparsi alle guardie, ma queste la gettarono a terra con malagrazia. Sbatté la testa contro qualcosa di duro e percepì il sapore del sangue in bocca. Provò ad alzarsi, ma era troppo debole, così strisciò sui gomiti e sulle ginocchia, fino a quando un calcio alle costole non le mozzò il fiato. Strinse i denti e annaspò, ma i colpi arrivavano da ogni direzione, violenti e implacabili, abbattendosi sulla schiena, sui fianchi, sulle gambe e sulle spalle. Una tortura inflitta con metodo allo scopo di spezzarla e umiliarla. Caillean avvertiva gli occhi di tutti addosso mentre la picchiavano, udiva le ingiurie, la viscosità della frutta marcia che le veniva lanciata addosso. Serrò i pugni e si impose di trattenere le urla di dolore, ma le lacrime presto cominciarono a premere dietro le ciglia. Si rannicchiò e attese che smettessero, piangendo come mai aveva fatto.
Dopo un po' la voce del capo villaggio sovrastò il vociare intorno a lei: - Per ora è sufficiente. Tiratela su e che il processo cominci. - 
A quell'ordine gli uomini si fermarono. Caillean riuscì a riacquistare un minimo di controllo, poi la sollevarono e la costrinsero in piedi. Osservò la folla che si era radunata, cercando di mostrare una forza che in quel momento sapeva di non avere, però non voleva conceder loro alcuna soddisfazione. Erano accorsi quasi tutti, uomini, donne, adulti, ragazzi e persino i bambini. I genitori di Elyn erano in prima fila e la fissavano con uno sguardo colmo di rabbia e rancore, additandola e sussurrando qualcosa a denti stretti. Vicino a loro c'era il capo villaggio, che annuiva ai loro discorsi di tanto in tanto, ma il suo viso era una maschera indecifrabile. Quando il silenzio calò di nuovo nella radura, egli fece qualche passo avanti.
- Penso che tu sappia perché sei qui, Caillean. - esordì mellifluo.
Lei si torse le mani sudate con palese nervosismo: - Sì... credo di sì. -
L'uomo inarcò un sopracciglio: - Credi? -
La bambina annuì incerta.
- Vedi, circa una settimana fa in questi boschi è stato ritrovato il corpo della nostra giovane Elyn, ma questo lo sai. Sei stata tu a trovarlo, infatti. -
- Sì. - rispose intimidita, tenendo rigorosamente lo sguardo basso.
- Quella povera, gentile ragazza era sparita da un paio di giorni, come raccontano i suoi affranti genitori. Avevamo cominciato a battere la foresta già da molto, ma senza alcun risultato. Come per magia, la nostra piccola Elyn era scomparsa nel nulla, senza lasciare alcuna traccia. Molti avevano avanzato l'ipotesi che si fosse persa o fosse caduta in un burrone mentre tornava a casa. Insomma, una drammatica fatalità aveva portato via una giovane vita. Succede. -
A quelle parole, la fruttivendola cominciò a piangere sommessamente. Il marito le cinse le spalle, accarezzandole la schiena nel tentativo di calmarla.
- Peccato che io non creda alle fatalità. Certo, a volte accadono, ma Merite è una paese tranquillo e i suoi boschi hanno sempre costituito un rifugio sicuro più che un labirinto d'insidie. Così, io e altri, ci siamo domandati cos'altro potesse essere successo. - 
La fissò e i suoi occhi la trafissero come punte di spillo. Caillean si strinse nelle spalle, sentendosi improvvisamente nuda sotto quegli occhi gelidi, che sembravano scrutarla fin dentro l'anima.
- Magia nera... - sibilò plateale, mentre un sorriso spietato gli stirava le labbra.
Un mormorio agitato si levò dagli astanti. Qualcuno sussultò e si portò nelle ultime file, altri cominciarono di nuovo a insultarla. 
- Sissignori, proprio di quell'antica arte maligna sto parlando. - aprì le braccia e la indicò, - Questa ragazzina e suo padre hanno rapito la piccola e innocente Elyn, l'hanno ammazzata per i loro sordidi scopi! -
- L'hai uccisa tu! - inveì la fruttivendola con odio. 
- No! No, non sono stata io! - urlò disperata.
- Taci! Sei un mostro! Assassina! -
La donna tentò di saltarle addosso, ma suo marito la costrinse a terra e la bloccò con il proprio peso. Ciononostante, continuò a gridare, additandola con il suo scheletrico dito adunco.
Caillean si coprì le orecchie. Avrebbe voluto invocare suo padre, di sicuro l'avrebbe protetta, ma lui ormai non c'era più. Era sola.
Il capo villaggio, soddisfatto, sollevò un braccio intimando il silenzio e proseguì il suo discorso.
- Poi, una volta uccisa, l'avete usata per richiamare il dio dell'oscurità, Aesir! Cosa volevate ottenere? Potere, denaro, immortalità? Non vi siete sentiti in colpa per l'atto sacrilego che avete compiuto? Per lo strazio che avete portato alla famiglia di Elyn? Tu, quel bastardo di tuo padre e tutti i vostri complici siete degli assassini! Ma se per questi ultimi c'è speranza di redenzione, la spada della giustizia è pronta ad abbattersi sulla tua testa, che verrà esposta pubblicamente accanto a quella del tuo defunto paparino. -
Quelle ultime parole smossero qualcosa in Caillean. Percepì la collera ribollirle in petto, un'ira talmente forte che il dolore svanì. Strinse più forte i pugni e avanzò di un passo: lei e suo padre avevano solo avuto la sventura di nascere con i capelli rossi, non era colpa loro, ma quella gente ignorante e superstiziosa si era spinta ben oltre, imprigionando anche quelli che avevano solo rivolto loro la parola.
- Non parlate male di mio padre! - urlò.
Il capo villaggio la guardò appena, infastidito dall'interruzione.
- Siete meschini! Siete dei mostri! Non siete esseri umani, siete delle bestie! -
Un sasso le colpì la guancia, ma non vi diede peso. La rabbia crebbe, un fuoco distruttivo che alimentava la nuova forza che pian piano la stava pervadendo.
- Cosa ne avete fatto di mia madre? Dov'è?! -
L'uomo alzò un braccio e, immediatamente, tutti ammutolirono.
- Figlia di Aesir, tua madre, onorato membro della nostra comunità, è fuggita. Quando siamo giunti a casa tua per prelevare tuo padre non l'abbiamo trovata. Forse si era stancato di lei e le aveva fatto fare la stessa fine della nostra povera Elyn. -
- Bugiardo! - 
- Io non mento, piccola strega. Ho dalla mia parte la luce della giustizia e l'appoggio dei miei cari compaesani. - le scoccò un'occhiata sprezzante e si rivolse nuovamente alle persone assiepate alle sue spalle, - Amici, avete chiesto la decapitazione per questo demonio, ma io non credo sia il castigo migliore. Marcirà nelle prigioni per tutta la vita. -
Un uomo corpulento e barbuto lo interruppe: - Ma questa è la pena che viene inflitta ai ladri! Non possiamo trattarla con i guanti solo perché è una bambina. Lei è una figlia di Aesir, merita qualcosa di peggio. -
Il capo villaggio tornò a squadrarla, sfoggiando un'espressione granitica, e rimase assorto nei suoi pensieri per alcuni interminabili istanti. Caillean contrasse la mascella e sospirò frustrata, gli occhi iniettati di sangue e i muscoli irrigiditi per la tensione. Avrebbe voluto cingere il suo collo con le dita e strangolarlo, ma il proprio corpo, provato dalla fame e dalle percosse, era troppo fiaccato per concepire qualsivoglia attacco. 
L'uomo schioccò le dita e sfoggiò un sorriso compiaciuto.
- Ecco, credo di aver trovato la sentenza perfetta. Lei vivrà, anche se si è macchiata dell'omicidio di un'innocente, ma le verrà sottratto tutto ciò di cui si gode durante la vita. Proprio come un cadavere, non potrà più parlare, né bearsi del calore del sole, né vedere il sorgere di un nuovo giorno o udire il canto degli uccelli in primavera. Tutto questo ti verrà tolto, Caillean. - un baluginio crudele brillò in fondo ai suoi occhi.
La bambina si pietrificò e il suo cuore perse un battito. Guardò il capo villaggio, ritto davanti a lei, ma al suo posto rivide la testa del padre conficcata su una picca, i capelli impiastricciati di catrame e gli occhi mangiati dai corvi. Si sentì afferrare di nuovo per le braccia, ma stavolta non si divincolò, non scalciò e non si ribellò. La furia di prima era svanita, evaporata come neve al sole. Mentre la trascinavano via, con i piedi che strusciavano sull'erba, si chiese quale fosse stato il motivo di quel processo, una messinscena di cattivo gusto dal finale scontato. Fu allora che comprese la crudeltà di quelle persone: il loro intento era trovare un capro espiatorio per la morte di Elyn e finalmente accusarla in pubblico, facendola passare per un demone. Con suo padre, un uomo che aveva conosciuto la durezza della guerra, forse non ci erano riusciti, non ce l'avevano fatta a piegarlo, così come per gli altri uomini che erano andati incontro alla sua stessa fine o che erano ancora imprigionati. Con lei, invece, una bambina spaventata e indifesa, non si erano fatti scrupoli: la volevano viva, indebolita e disperata per immolarla in nome del loro ideale di giustizia e quell'omicidio era stato solo un pretesto. Se fosse arrivata un'epidemia di peste o una carestia avrebbero agito nello stesso modo. Per lei e per suo padre non c'era mai stato scampo.
La ricondussero in cella, forse nella stessa in cui aveva soggiornato fino a quel giorno, ma non avrebbe saputo stabilirlo. Lì tutte le pietre erano uguali, in una sequenza di porte sbarrate identiche le une alle altre. Quando udì la pesante porta di ferro chiudersi, incurante dell'odore di urina e di escrementi, si gettò supina sul pagliericcio e rimase immobile a fissare il soffitto. 
Nei giorni seguenti riprese a pensare ai genitori in modo quasi ossessivo. Si rivide sotto il timido sole invernale, mentre si esercitava con la spada e provava ad emulare i movimenti che il padre le aveva insegnato prima di partire. Riemerse, vivido come il ricordo più dolce, la voce di sua madre che la chiamava per la cena e quando addentava il pane stantio le sembrava di sentire sulla lingua il sapore della carne arrosto che lei cucinava nei giorni speciali. Il confine tra realtà e sogno divenne sempre più labile e dopo poco perse completamente la cognizione di sé e del mondo che la circondava. Scivolò in una sorta di apatia da cui non volle più riemergere. 
Trascorsero così tre lunghi giorni. Le ferite continuarono a bruciare per tutto il tempo e i suoi carcerieri comparvero solo all'ora dei pasti. Quando la trascinarono fuori dalla cella era notte fonda e stavolta venne a prenderla un unico uomo. La agguantò per un braccio e la sospinse lungo il corridoio, dalla parte opposta all'uscita. Camminarono per minuti interi, o forse per ore, spingendosi sempre di più nelle viscere di quegli antichi ruderi. Ad un certo punto il corridoio sbucò in una camera circolare, senza finestre e dal soffitto alto. L'aria era stantia, trasudante umidità. Le otto torce appese alle pareti lanciavano dei lugubri bagliori, delineando gli oggetti di tortura che languivano sul pavimento, vicini al muro. Al centro, appoggiato a una gabbia arrugginita, il capo villaggio la fissava con un ghigno stampato in faccia. 
Non appena Caillean fece il primo passo all'interno, le catene che pendevano dal soffitto tintinnarono, come a darle il benvenuto. La guardia la depositò ai piedi del suo aguzzino e, senza battere ciglio, se ne andò. Il capo villaggio inclinò la testa e cominciò a girarle intorno come un avvoltoio, per poterla osservare da più angolazioni. Lei rimase ferma, la testa ciondolante e le braccia inermi lungo i fianchi, quasi fosse una marionetta senza fili.
- Non hai una grande resistenza. Mi sarei aspettato un minimo di ribellione, invece è bastato così poco per piegarti. Eppure, in qualche modo, mi ricordi tua madre. - 
Si inginocchiò e le artigliò le guance sporche, fissandola con serietà. Caillean tacque e l'altro interpretò quel silenzio come un'esortazione a continuare.
- Sai, quando eravamo bambini, io e Iola stavamo sempre insieme. I suoi genitori si erano rifugiati qui dalla capitale in cerca di un po' di tranquillità e impiegarono poco ad integrarsi con la comunità. Iola era una bambina spigliata, dalla lingua tagliente e dall'animo puro, che diceva sempre quel che pensava. Molti ragazzi la consideravano insopportabile, ma io ne ero affascinato. Più volte mi dissero di starle lontano, ma c'era qualcosa in lei che mi attraeva in un modo che non sapevo definire. Così, un giorno, andai da lei e le chiesi di diventare mia amica. Inaspettatamente, mi disse di sì. Tua madre ti ha mai raccontato niente di tutto ciò? -
- No. - borbottò.
L'uomo la studiò in silenzio, poi sbuffò.
- Non ha importanza. Comunque, passarono gli anni e tua madre divenne una donna bellissima e determinata. Anche senza il supporto dei suoi genitori, morti prematuramente, riuscì a sopravvivere in maniera dignitosa. Inoltre, essendo io il figlio del capo villaggio, le diedi una mano. Ero innamorato di Iola, la amavo con tutto me stesso. Già allora avrei voluto chiederle di sposarmi, ma sapevo di dover aspettare di prendere il posto di mio padre prima di avanzare una proposta di matrimonio. Però, quando finalmente ascesi al potere, qualcosa andò storto. - 
La sua voce si incrinò e affondò le unghie nella pelle delle guance di Caillean, che sussultò ed emise un piccolo gemito.
- Un bel giorno comparve Kale, quel bastardo di tuo padre, e la portò via da me. - ringhiò, - Capisci? Me la portò via come se nulla fosse, prendendosi qualcosa che era mio di diritto. Io ero cresciuto assieme a Iola, io l'amavo, io meritavo di sposarla! Ma lei non l'ha mai capito... -
Nauseata da quelle parole, Caillean sbottò: - E credevi davvero di risolvere qualcosa uccidendo mio padre? Credevi che mia madre ti avrebbe perdonato dopo un atto simile? -
- Il sangue di Kale era l'ultima cosa che volevo, fidati, avrei preferito non sporcami le mani. L'ho minacciato, intimandogli di andarsene dal villaggio, gli ho assicurato che sarei stato disposto a prendermi cura di te, ma lui non ha mai voluto sentire ragioni. Era un uomo orgoglioso e persino quando gli ho mostrato questa sala non ha battuto ciglio. -
- Perché mi stai raccontando questa storia? Cos'altro vuoi da me? -
- Volevo proporti un accordo. -
Caillean aggrottò le sopracciglia e replicò: - La sentenza è già stata emessa. -
- Posso sempre rimaneggiarla. - sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi, - Sono disposto a concederti una via di salvezza. Ascoltami e non fare come Kale, sii saggia: non la ripeterò una seconda volta. -
A sentire pronunciare il nome del padre, il gelo le trafisse il cuore. Digrignò i denti e assentì.
- Conosco un mago potente alla capitale, capace di compiere magie incredibili e che mi deve anche più di un favore. Gli chiederò di creare una pozione in grado di modificare l'aspetto delle persone. Una di queste la darò a te, l'altra a una bambina del villaggio. Tu, con un nuovo aspetto, verrai a vivere da me e io ti crescerò fino a quando non diventerai abbastanza grande da poter diventare mia moglie. Certo, dovrai prendere la pozione ogni giorno affinché nessuno si insospettisca, ma avresti salva la vita. -
- E dall'altra bambina? Cosa ne sarà? -
- Prenderà il tuo posto in questa prigione e sconterà la tua pena, ovviamente. Farti sparire così, come se niente fosse, non è possibile, la gente farebbe domande. -
Caillean strabuzzò gli occhi. Quell'uomo era pazzo, completamente pazzo.
- Come... come puoi fare una cosa del genere? È innocente! -
Il capo villaggio fece spallucce: - Non mi importa. Pensi davvero che mi possa interessare che fine farà dopo che ho ucciso Elyn e fatto ricadere la colpa su di voi? - rispose pacato.
- L'hai... l'hai uccisa tu? -
L'uomo sogghignò.
- Come ho detto al processo, non credo alle fatalità, soprattutto quando ho degli uomini privi di scrupoli alle mie dipendenze. Lei aveva scoperto i piani che avevo in serbo per te e stava correndo ad avvisarti. Non potevo permetterlo. È bastato seguirla nella foresta, aspettare che si distraesse un attimo e poi pugnalarla alle spalle. Quella di tuo padre è stata una morte imprevista, in verità. Appena Elyn è scomparsa non sono riuscito a fermare la folla inferocita che è andata a stanare tuo padre, convinta che fosse lui il colpevole. -
- Menti. - boccheggiò allibita.
- No, dico sul serio. Certo, avevo cominciato da tempo a diffondere la voce che voi foste dei mostri, figli di Aesir, ed è stato facile fare il lavaggio del cervello a questa gente superstiziosa. Ma confesso che sono rimasto stupito anch'io dalle teste infilzate sulle mura. Gli abitanti di Merite hanno eliminato di loro spontanea volontà Kale e quasi tutti coloro che ritenevano essere suoi complici. Non appena ho potuto, mi sono affrettato a fermarli e a convincerli a sbattere in cella i sopravvissuti, per risparmiare loro quell'ingiusto destino. -
- Tu sei pazzo... - esalò, guardandolo con occhi sgranati.
L'altro scoppiò a ridere: - Credo che tu abbia capito cosa sono disposto a fare per ottenere ciò che voglio. Comunque, cosa hai deciso? Accetti di diventare mia moglie? -
- Preferirei mille volte marcire in queste prigioni che trascorrere un solo giorno della mia vita al tuo fianco. Mia madre non ti avrebbe mai amato. - sibilò e lo trafisse con uno sguardo carico d'odio e rancore.
- Taci! - tuonò, poi la schiaffeggiò con inaudita violenza.
Caillean sputò un grumo di sangue, ma non si fece intimorire. Se doveva morire, voleva farlo con onore, come un vero soldato. Come suo padre.
- Sei un verme schifoso e un giorno pagherai per tutto il male che hai fatto! -
- Guardie! -
La bambina udì uno sferragliare alle sue spalle. Lanciò un'occhiata di sbieco all'entrata della stanza e poi, approfittando della distrazione del capo villaggio, gli saltò addosso gettandolo a terra. Lo morse con rabbia, affondando i denti nella carne del braccio, mentre graffiava come una belva la sua pelle. Lui urlò e l'afferrò per i capelli, cercando di scrollarsela di dosso. Il sapore del sangue le invase di nuovo la bocca, facendole lacrimare gli occhi e contorcere lo stomaco in preda a conati di vomito, ma non mollò la presa. Quando le guardie giunsero, la agguantarono per i vestiti laceri e la atterrarono sul pavimento. 
- Signore, state bene? -
L'uomo gli scoccò un'occhiata gelida, mettendo a tacere la guardia. Il suo viso era distorto in una maschera di collera a stento trattenuta.
- Giratela e apritele bene gli occhi. - ordinò, tirando fuori una boccetta di liquido violaceo dalla tasca interna della tunica.
Caillean scalciò e si dimenò, nel vano di tentativo di sottrarsi al suo destino. Gridò frustrata e girò più volte la testa, ma alla fine una delle guardie le artigliò la cute e la tenne immobile, premendo sulle palpebre per fargliele spalancare. Il capo villaggio si inginocchiò e stappò la boccetta.
- Che le sia tolta la vista! - 
Poi versò il contenuto sugli occhi della bambina e un urlo acuto e straziante si diffuse per i corridoi delle prigioni.



Quando Airis si ridestò, si toccò il viso e si guardò per appurare di non essere ancora la Caillean del suo incubo. Osservò poi spaesata lo spazio bianco che la circondava, chiedendosi se si fosse svegliata davvero o se quello fosse l'Elwing Telperiën, il luogo dove tutte le anime tornano. In seguito, la consapevolezza di ciò che era diventata a causa di Lysandra tornò a farsi strada in lei ed esalò un sospiro di sollievo.
"Io non posso morire." 
Strano che ricordasse perfettamente cosa fosse successo prima di arrivare lì, ma non aveva la più pallida idea di dove fosse "lì".
Si alzò a fatica e cercò qualche punto di riferimento che potesse aiutarla ad orientarsi, ma a parte quel bianco accecante non c'era nient'altro. Iniziò a camminare e continuò per un tempo che non seppe quantificare, lasciando che fossero i suoi piedi a decidere la direzione. Ovunque posasse lo sguardo vedeva solo bianco, un vuoto abbagliante che pareva non avere fine. Il silenzio era assoluto e persino il battito del suo cuore le sembrava fin troppo rumoroso. Improvvisamente udì un fruscio alle sue spalle. Si voltò di scatto e con sommo stupore scorse una ragazza avanzare verso di lei a piedi scalzi. I suoi occhi erano di un azzurro molto chiaro e i lunghissimi capelli argentei le ricadevano languidamente sul seno, disegnando l'ovale perfetto del viso. La carnagione diafana e il portamento aggraziato le conferivano un'aura regale, in contrasto con la semplice tunica bianca che le arrivava fin poco sopra il ginocchio. Tuttavia, il dettaglio che attirò di più l'attenzione della guerriera furono le sottili e candide ali che aveva al posto delle orecchie, talmente lunghe che arrivavano ad accarezzarle le gambe nude.
Airis rimase ferma. Non aveva paura, si sentiva a suo agio di fronte a lei, come se la conoscesse da sempre. Fece per chiederle chi fosse, ma la ragazza prevenne la domanda.
- Non è ancora il momento. Quando ci incontreremo di nuovo chiarirò tutti i tuoi dubbi, ma adesso non abbiamo tempo. -
Aveva una voce flautata, delicata e melodiosa. Eppure la sua presenza era imponente e comunicava una forza e un'autorevolezza che si esprimeva attraverso il suo sguardo intenso. 
- Immagino tu voglia sapere come sei arrivata qui e che posto sia questo. -
Airis annuì esitante.
La ragazza le si avvicinò ancora. Una piuma fluttuò nell'aria, come sospinta da un leggero soffio di vento, anche se ad Airis pareva che l'aria fosse immobile. 
Ad un tratto, il pensiero di Lysandra la raggelò.
- Non preoccuparti, lei non può raggiungere questo luogo, non può sentirci. - la rassicurò la creatura.
- Dove siamo? -
- A cavallo tra sogno e realtà, in un universo privo di confini. -
La ragazza sollevò una mano e le sfiorò appena la guancia. Aveva le dita fredde, ma la guerriera non si ritrasse. Aveva capito di trovarsi al cospetto di qualcosa di antico e infinitamente potente, forse una divinità, e non si meravigliò che sapesse del legame tra lei e Lysandra.
- Ora ascoltami bene e presta attenzione, perché tra poco ti sveglierai. Ti ho portata qui poiché ritengo che tu sia pronta per il compito che voglio assegnarti. Ti ho osservata sin dall'inizio, da prima che tu nascessi. Eri una bambina meravigliosa e avrei preferito che tu non avessi nulla a che fare con questa storia, che vivessi serena come una comune mortale. Però ormai credo che tu abbia già capito che la tua non potrà mai essere un'esistenza normale. -
Percorse con i polpastrelli i segni che l'acido aveva lasciato sugli zigomi di Airis e in quegli occhi azzurri la guerriera intravide una grande tristezza.
- Nonostante tutto il male che hai dovuto subire, ti sei sempre rialzata, senza mai perdere di vista il tuo obiettivo, continuando a camminare a testa alta. Per un po' hai brancolato nel buio, ma alla fine sei ritornata sulla tua strada e ti sei ricordata chi eri e chi volevi diventare fin da piccola. -
Airis sorrise, rammentando le parole che Ledah le aveva rivolto per convincerla a proteggere Luthien. Era stato l'elfo a scuoterla dal torpore, a darle la forza di impugnare la spada e ritornare ad essere il Cavaliere del Lupo. 
- Ora, però, ti chiedo: sei disposta a portare a termine il tuo ultimo compito? -
Airis aggrottò le sopracciglia senza capire: - Il mio... ultimo compito? - 
- Sì, ma se non accetterai non potrò dirti nulla. Nella missione che ti affiderò non sono ammessi ripensamenti. -
- Non posso accettare senza prima sapere di cosa si tratta. -
Benché la fiducia incondizionata che nutriva per quella strana ragazza la spingesse ad accettare l'incarico, la paura dei rischi che avrebbe corso e delle conseguenze a cui sarebbe andata incontro la bloccava, impedendole di abbandonarsi del tutto al calore sprigionato da quelle mani diafane.
- Mi dispiace. Io ho visto e so già cosa diresti, perché sul mio corpo è stato scritto il futuro e il passato del mondo. Se ti rivelassi lo scopo di questa missione, condizionerei il tuo giudizio e il corso degli eventi muterebbe. Certo, non è detto che poi non accada, ma nel momento della decisione la tua mente deve essere lucida e la tua scelta decisa. -
Airis scosse debolmente il capo e mormorò afflitta: - Non posso... è come chiedermi di lasciarmi cadere nel baratro e sperare che qualcuno mi prenda prima dello schianto. -
- Bella metafora, molto azzeccata. Sappi solo che da quello che mi dirai dipenderà non solo il tuo destino, ma anche quello delle persone che ti circondano. Sii consapevole che se accetterai, diventerai la mano sinistra di Yggrasill sulla terra, l'ultima Guardiana dell'umanità. -
- Cosa significa? Chi è Yggrasill? E cosa significa essere una Guardiana dell'umanità? -
L'altra tacque e fece spaziare lo sguardo attorno a sé.
- Ahh... sono desolata, Airis, il nostro tempo è scaduto. Ti prego di riflettere sulla tua risposta ed è di vitale importanza che decidi in fretta. -
Ad un tratto, la guerriera sentì le ginocchia cederle e il corpo contrarsi in preda ad una scarica di dolore. Si accasciò a terra con un gemito e gli occhi le si riempirono di lacrime. La ragazza la osservò impassibile, poi le diede le spalle e si allontanò senza dire una parola.
- N-no... aspetta! Non andartene! -
Ogni muscolo pulsava di sofferenza, tendendosi spasmodicamente sotto la pelle. Le sembrò di bruciare viva in una straziante agonia. Le parve di avere tutte le ossa rotte e che ogni brandello del suo corpo venisse pian piano dilaniato da un calore insopportabile. In un ultimo impeto di disperazione, protese una mano verso la fanciulla, ma un'altra ondata di insopportabile dolore la investì, facendola piegare su se stessa.
- Ci rivedremo, Cavaliere. E ricorda: non rivelare a nessuno quanto ci siamo dette e quando avrai compiuto la tua scelta cercami. -
Infine il mondo bianco che la circondava si frantumò, esplodendo in tante minuscole schegge di luce.

Quando Airis aprì gli occhi, avvertì sotto la schiena la durezza della nuda terra e sopra di sé riconobbe il tessuto delle tende da campo. Tentò di alzarsi, ma una fitta acuta la bloccò e una stretta decisa sulle spalle le tenne giù. La guerriera gemette sofferente, ma smise di muoversi, consapevole che sarebbe stata solo peggio.
- Tranquilla, shhh. Devi riposare. Il fatto che finalmente tu ti sia svegliata è un'ottima cosa, ma evita movimenti superflui. -
Con lentezza Airis girò la testa nella direzione di quella voce. Lì accanto, inginocchiato al capezzale della brandina su cui era stata adagiata, scorse Fenrir, intento a spalmare un unguento verdognolo su delle bende. Il Drow incrociò il suo sguardo e le regalò un sorriso appena accennato.
- Bentornata tra noi, Airis. - 
 
 

Angolilo Autrice

Finalmente sono tornata ^.^ Scusate l'immenso ritardo, ma dovevo finire alcune storie e mettere in ordine le idee prima di continuare "Fuoco". Alla fine... bè ho deciso che la storia terminerà al capitolo 30 u.u è stata una scelta sofferta, ma ho preferito dividere le vicende di Ledah e Airis. Comunque, in questi mesi, non ho oziato: ho revisionato tutti i vecchi capitoli, ampliandoli e correggendo tutti gli orrori che c'erano XD Spero che adesso tutta la storia risulti migliore e di più piacevole lettura. Che dire... spero che questo nuovo capitolo vi piaccia e che mi lasciate un commento per farmelo sapere ( siete davvero tanti a seguirmi, me ne sono resa conto solo poco tempo fa) Grazie di cuore di avermi aspettata e un bacione.

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Capitolo 27
*** Risveglio ***


27

Risveglio

 
"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 
Fu lo sbalzo del carro a strappare Ledah dal sonno. Colpì qualcosa di duro con la spalla e il dolore provocato dalla botta improvvisa lo riportò rapidamente alla realtà. Sbatté più volte le palpebre cercando di mettere a fuoco ciò che aveva intorno. Sopra di sé vide dei drappi di tela grezza e sudicia, tesi a formare una specie di tetto, e in fondo al carro scosse il profilo di qualche botte e delle casse. La testa ronzava, si sentiva immensamente stanco, come se avesse dormito per secoli, e non riusciva a ricordare come fosse finito lì. Mosse le dita e tentò di tirarsi su, ma tutto il suo corpo gli spedì delle fitte lancinanti fino al cervello, mozzandogli il fiato. Impiegò poco ad appurare di avere le mani legate dietro la schiena e le corde sembravano essere penetrare nella pelle tanto erano strette. Grugnì frustrato e fece forza sulle ginocchia per alzarsi. Il carro sobbalzò ancora e la nuova scossa lo rimandò disteso. Serrò i denti e, alla fine, con un unico colpo di reni riuscì a girarsi su un fianco e a strisciare contro il bordo sinistro, per poi sedersi su un tappeto di pelliccia di montone che puzzava di umido e sudore di cavallo, con la schiena appoggiata alla grossa trave di legno.
Non aveva idea di chi lo avesse catturato e caricato su quel carro e rammentava pochissimo della battaglia avvenuta a Luthien, in particolare l'ultima parte. Ricordava solo che stava lottando contro quel drago immenso a fianco di Copernico e poi una forte luce lo aveva accecato. 
- Spero tu abbia dormito bene. -
Si girò di scatto nella direzione da cui proveniva la voce, i sensi vigili e i nervi tesi. 
Seduto in fondo al carro, un elfo lo fissava con aria annoiata. I raggi del sole che filtravano attraverso i drappi illuminarono appena un viso lentigginoso e una disordinata chioma rossiccia, ma il dettaglio che calamitò l'attenzione di Ledah furono gli occhi: iridi verdi, fredde, profonde. Un brivido gli corse lungo la schiena e la consapevolezza di chi avesse di fronte gli gelò il sangue.
- Vedo che mi hai riconosciuto. - Brandir si alzò e fece qualche passo verso di lui, - Durante la battaglia hai urlato il mio nome, ma mi sembravi piuttosto confuso. O forse era il dolore ad annebbiarti il cervello? -
Si accovacciò davanti a lui e tutti i ricordi sopiti tornarono a galla con prepotenza. Ledah si chiese da quanto Brandir si trovasse lì e se avesse osservato i suoi patetici tentativi di alzarsi, ma a giudicare dal sorrisetto sarcastico che gli arcuava le labbra la risposta era più che ovvia.
- Che ci fai qui? Tu... tu dovresti essere morto. - la voce gli tremò appena, ma continuò a sostenere con fierezza lo sguardo del suo vecchio amico.
- Per essere morto, sono morto. - confermò tranquillo.
Si sedette a gambe incrociate dal lato opposto del carro e si passò una mano sul viso pallido, sfiorando appena una cicatrice rosata che gli attraversava il collo in orizzontale.
- Cosa dovresti essere allora? Un non-morto o... un Risvegliato? -
- Ma come? La tua amichetta non ti ha detto nulla? - 
Ledah lo fissò smarrito e solo un istante dopo capì a chi si riferisse. La scena di Airis che parlava con Lysandra gli tornò alla mente.
- Cosa avrebbe dovuto dirmi? -
- Chiedi a lei, se proprio vuoi saperlo. - lo sbeffeggiò, - Anzi, non so se la rivedrai. -
Ledah gli lanciò un'occhiata tagliente, ma Brandir sembrò non farci caso, limitandosi a poggiare la testa contro una cassa e a chiudere gli occhi. 
Trascorsero alcuni minuti in cui i due tacquero, ognuno perso nei propri pensieri. 
Ledah si girò e scostò leggermente un drappo per sbirciare fuori. I raggi del sole mattutino accarezzavano gli alberi della foresta che stavano attraversando, evidenziando il verde intenso dei pini e delle conifere. Il cielo, di un azzurro terso, si specchiava nelle pozzanghere scavate nel terreno umido, mentre qua e là, ai lati del sentiero di terra battuta, facevano capolino dei timidi bucaneve. Due soldati, armati di lancia e con addosso delle pesanti armature di ferro, procedevano a cavallo proprio dietro il carro. Quello di sinistra aveva i capelli bianchi trattenuti in una coda, che ricadeva stancamente sulla spalla, mentre l'altro aveva una chioma ramata e il naso affilato e stava chino sulla sella, bardato in un mantello di lana nera che copriva la groppa dell'animale. Entrambi sfoggiavano sul pettorale l'emblema della famiglia reale di Sershet, un paio di ali dorate che circondavano una spada. Ad un tratto il soldato di destra sollevò il capo e incrociò gli occhi di Ledah. Quando i loro sguardi si incrociarono, Ledah avvertì una sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco e il sudore freddo gli imperlò la fronte. Due iridi vuote come quelle dei morti lo fissarono in modo vacuo.
- Non ti credevo così impressionabile. - lo canzonò Brandir, socchiudendo appena le palpebre.
- Dovrò chiedere a lei pure di loro? - grugnì di rimando.
Un sorriso beffardo aleggiò sulle sottili labbra livide del rosso, che però scosse la testa: - No, loro sono semplici burattini. -
Ledah soppesò quelle parole e indugiò nuovamente sul paesaggio alla ricerca di un indizio che lo aiutasse ad orientarsi. A giudicare dalla relativa facilità con cui il carro avanzava e dalla vegetazione molto più rada, dovevano essersi definitivamente lasciati alle spalle la foresta di Llanowar. Inoltre faceva decisamente più caldo rispetto alle desolate steppe del Nord, dove l'inverno non si ritraeva mai al di là delle pendici delle montagne. Dovunque lo stessero portando, si stavano dirigendo a Sud.
- Dove siamo diretti? - chiese neutro, tornando a fissare il suo carceriere.
- Stiamo andando nel luogo in cui si compirà il tuo destino. - rispose Brandir sibillino.
Ledah corrugò la fronte: - Ovvero? -
L'altro incrociò le braccia al petto e si lasciò andare a un sospiro stanco: - Conosci Sershet? Stiamo andando esattamente lì. -
- E quale sarebbe il fato che mi attende alla capitale umana? - 
Né lui né il suo vecchio compagno d'armi avevano mai creduto nel destino o in qualsiasi cosa che comportasse l'esistenza di una strada già decisa da un'entità superiore. Entrambi, dopo tutto l'orrore che avevano visto e vissuto, avevano convenuto che ogni essere vivente avesse la capacità di scegliere come condurre la propria esistenza. Quando era piccolo, più volte Ledah aveva creduto di non poter far altro che percorrere la via della guerra e della morte, di non avere scelta, ma in quei momenti era stato Brandir a riscuoterlo e a rincuorarlo: non c'era nessun destino, la vita apparteneva soltanto a loro e ognuno poteva decidere liberamente quale strada imboccare. Adesso sentirlo parlare con quella disinvoltura di qualcosa come il destino gli dava sui nervi e sottolineava ancora di più il fatto che l'uomo seduto di fronte a sé non era lo stesso che aveva conosciuto anni prima, nonostante ne conservasse l'aspetto. Non sapeva chi fosse il cavaliere con l'armatura nera che combatteva per l'esercito nemico, ma sapeva che Brandir, il suo migliore amico e cognato, era morto. Ne era sicuro perché era stato lui ad ucciderlo, con le sue stesse mani.
L'espressione di Brandir si indurì all'improvviso e in un attimo l'ironia nei suoi occhi svanì. Si protese verso Ledah e l'odore del suo alito, disgustoso come il tanfo che emette una carcassa in via di putrefazione, gli penetrò nelle narici.
- Forse non hai capito: io ho visto, so cosa ti verrà fatto. Soffrirai, la tua essenza verrà annientata e dovrai assistere impotente alla rovina del mondo senza riuscire ad opporti. Ti ricordi quando mi hai ammazzato in quella radura, a Sheelwood? Ti ricordi la sensazione di impotenza che hai provato mentre facevi a pezzi i tuoi compagni, che erano stati mandati lì a compiere il loro dovere? Ecco, sarà come allora, giorno dopo giorno, notte dopo notte, finché la tua anima non verrà definitivamente divorata dalle ombre che custodisci dentro di te dalla nascita. A Luthien ho notato quanto quel potere che per tanto tempo hai cercato di reprimere sia cresciuto. Tra poco non ci sarà più nessuna luce in grado di salvarti e alla fine perderai te stesso. -
Ledah digrignò i denti e accorciò le distanze, arrivando a sfiorare la fronte di Brandir con la propria. Non si lasciò intimorire, né abbassò lo sguardo.
- Non è il destino a decidere per me e neppure una qualche divinità assetata di sangue. Sono io a costruire il sentiero che percorrerò e non sarà di certo un sacco di carne marcia a convincermi del contrario. - ringhiò ostile.
Brandir lo scrutò serio, vagamente sorpreso, poi scoppiò a ridere. In seguito, gli diede le spalle e tornò a sedersi su una delle botti in fondo al carro. Alle orecchie di Ledah giunse un sussurro intriso di veleno, che riuscì a fargli accapponare la pelle.
- Lo vedremo, corvetto, lo vedremo. -
Si astenne dal continuare la discussione, troppo esausto per parlare e conscio che non avrebbe portato a niente, e riprese ad osservare il panorama attraverso lo spiraglio tra i drappi di tela. La testa gli doleva e ogni fibra del suo corpo gemeva di sofferenza al minimo scossone, ma dopo poco la stanchezza, sia fisica che mentale, ebbe la meglio e cadde in un sonno profondo.

Airis fissò accigliata Fenrir, che le stava spalmando con cura una crema verdognola sulle braccia. L'odore nauseabondo di quell'impiastro le provocava fastidiosi conati e a stento resisteva alla tentazione di girarsi dalla parte opposta con una smorfia schifata.
- Ho quasi finito, non muoverti. - la informò pacato il Drow, - Devo cambiarti le bende. Le ferite si sono quasi completamente rimarginate, ma la gamba e il braccio sinistro sono ancora gonfi. -
Non appena adagiò l'impacco di erbe sul fianco, una scarica di dolore la fece grugnire. Si morse le labbra per soffocare gli altri lamenti e si impose di mantenere un'aria di stoica sopportazione, anche se aveva le lacrime agli occhi.
- Ah, dimenticavo anche questo brutto taglio che non ne vuole sapere di guarire. Se avessi gli arnesi giusti potrei anche suturartela, ma per ora bisogna accontentarsi. - 
Sospirò e versò del liquido trasparente direttamente sulla ferita. Una piacevole sensazione di refrigerio le donò un po' di sollievo.
- Cosa... cosa è successo? Quell'esplosione... -
- Già. Siamo ancora tutti scossi per via di quello che è accaduto. Ma non preoccuparti, parleremo dopo. Non affaticarti. -
- Almeno sai dirmi dove siamo? -
- Ci siamo accampati poco fuori Luthien e abbiamo radunato i superstiti. In questi giorni i cittadini hanno compiuto piccole spedizioni per recuperare tra le macerie i loro beni e un po' di cibo, ma la situazione, mi duole dirlo, è tragica. Ora riposa, Airis. -
- Come mi hai chiamata? - domandò stupita, scrutandolo dal basso.
“È la prima volta che pronuncia il mio nome...”
In quel momento un fruscio attirò la sua attenzione. Senza curarsi del dolore, si girò verso l'entrata della tenda e sulla soglia riconobbe la figura di Felther. L'incredulità si dipinse sul suo volto, aprì e richiuse la bocca più volte e alternò lo sguardo smarrito dal Cavaliere del Drago al Drow, mentre mille domande le turbinavano in testa. 
Felther fece un passo all'interno e si inginocchiò vicino a lei. Un sorriso tiepido gli arricciava le labbra e, nonostante il colorito pallido e le occhiaie scure, sembrava contento di vederla.
- Come ti senti? Mi hanno riferito che te la passavi piuttosto male e ho temuto per la tua vita in questi tre giorni, ma grazie al... Drow qui presente siamo riusciti a salvarti in tempo. -
Ad Airis non sfuggì l'esitazione nella voce del vecchio compagno d'armi, ma tenne le domande per sé, anche perché era troppo debole per intavolare una conversazione, nonostante desiderasse sapere come l'amico fosse riuscito a sopravvivere all'esplosione di Llanowar.
- Io sto bene... mi fa male un po' ovunque, ma sto bene. - rispose con un sorriso mesto.
Mentre parlava, realizzò davvero in che stato fosse ridotta. La fame di sangue cominciava a farsi sentire e la lentezza della sua rigenerazione era solo il primo sintomo.
"La mia velocità di guarigione! Dei, ditemi che non hanno visto... no, Fenrir se ne sarà sicuramente accorto. Accidenti!"
Un terrore gelido le fluì nel ventre e le si conficcò nelle viscere. Serrò e distese le dita più volte, cercando di mantenere la calma.
- Qualcuno si è salvato? - chiese.
- Da quello che mi ha riferito lui, - accennò a Fenrir, seduto in silenzio vicino a loro, - la maggior parte non ce l'ha fatta. I primi, quelli che sono stati più lesti a fuggire, hanno evitato l'onda d'urto finale, ma tutti gli altri sono stati travolti in pieno.Tra costoro molti sono morti e solo pochi sono sopravvissuti, anche se le loro condizioni non sono delle migliori. Per fortuna tu eri tra questi ultimi. -
Airis esalò un sospiro di sollievo. Sentiva lo sguardo indagatore di Fenrir sulla pelle mentre finiva di cambiarle le bende, ma con lui si sarebbe chiarita più tardi. Con estrema fatica e ignorando il dolore, cercò di sollevarsi su un gomito.
- Non muoverti, Airis. Le tue ossa... - esitò.
- Lo so, ma mi conosci: non posso stare ferma troppo a lungo. - ironizzò, ma non riuscì a nascondere una smorfia di sofferenza.
- Allora lascia che ti aiuti. Drow, prendila per il braccio sano, mentre io... - scrutò con attenzione il corpo martoriato della ragazza, - Troverò un punto dove metter mano senza farti urlare. -
Dopo vari tentativi, la guerriera riuscì a mettersi seduta. Si sentiva spossata e il suo corpo la scongiurava di tornare distesa, ma non era così terribile come aveva immaginato.
- Dicevo... di te cosa mi racconti? Ti credevo morto. -
Felther si sedette sulla pelliccia accanto a lei.
- Cosa vuoi sapere? -
- Tutto. Per me è una vera sorpresa vederti qui, vivo e vegeto. Credevo di essere stata l'unica... -
- Direi che non si allontana molto dalla realtà. Dei trentamila soldati che erano stanziati a Llanowar ne sono scampati appena una ventina. Di quei pochi, solo io e altri sette siamo riusciti ad uscire dalla foresta. Gli altri, per un motivo o per un altro, sono deceduti durante il viaggio di ritorno. - si passò una mano sul volto tirato e si stropicciò gli occhi gonfi per la stanchezza, - Purtroppo l'esplosione è stata devastante. I più fortunati sono morti sul colpo, arsi tra le fiamme, mentre noi siamo stati risparmiati, ma forse sarebbe stato meglio morire lì. -
Airis abbassò lo sguardo e si morse le labbra. Capiva fin troppo bene quelle parole.
- Siamo riusciti ad arrivare al primo insediamento umano solo dopo una decina di giorni di cammino. Sfortunatamente al Nord sono ben poche le città che non sono state attaccate dagli elfi e solo una minima parte hanno resistito ai loro assalti. Abbiamo seguito il corso del fiume Deloth e, alla fine, siamo giunti a Lotka. -
- Lotka? Credevo fosse ormai disabitata... –
- Certo, non è più la florida città mercantile di cinquant'anni fa, ma la maggior parte dei suoi abitanti allo scoppiare della guerra hanno deciso di rimanere lì comunque. - sorrise appena, - Sono abitanti del Nord, nani che portano l'ascia appesa alla cintola sin da quando imparano a camminare. -
Anche Airis sorrise a sua volta, più per cortesia che per divertimento.
- Lì siamo stati accolti e curati. Ovviamente, molti ci hanno chiesto cosa fosse successo, a cosa fosse dovuta quella luce e quel boato, ma non ho saputo saziare la loro curiosità. -
- Non hai potuto o non hai voluto? - la ragazza raddrizzò la schiena.
L'altro non si scompose: - Diciamo che, se non ho certezze, preferisco non pronunciarmi. Llanowar era caduta, gli elfi avevano pagato per tutto il male che avevano perpetrato e noi eravamo salvi. Il resto non contava. -
- Lo so, lo so. - Airis socchiuse appena le palpebre.
- La mia fedeltà al re e alla regina è sacra e i primi a cui devo fare rapporto sono loro, in ogni caso. -
La giovane sorrise di nuovo, lievemente nostalgica: Felther era una persona estremamente ligia al dovere e ai precetti di Cavaliere, forse anche troppo.
- Immagino l'orgoglio che devi aver provato quando ti sono stati tributati gli onori della vittoria. - con un gesto del capo indicò la spilla con l'emblema di un paio di ali dorate, poco sotto la gorgiera.
Il Generale la sfiorò in punta di dita e il suo sguardo si incupì: - Avrei preferito festeggiare con te, Ignus e tutti i nostri uomini. Tutti i coraggiosi guerrieri morti quel giorno meritavano la restituzione delle loro salme alle rispettive famiglie e una degna sepoltura. -
- Non si può inseguire la cenere fino al mare o chiedere alla terra la vita che si è ripresa. -
- Lo so. - sospirò, - L'unica cosa buona è che siamo riusciti a far cadere Llanowar. Dobbiamo ringraziare quell'esplosione. -
Airis si limitò ad assentire, astenendosi dal commentare.
- Ora ci mancano solo Sheelwood, Esenshine e Grywald. La resistenza lì continua, ma l'eco della sconfitta del Nord deve aver provato il morale degli elfi, visto che le ultime battaglie si sono volte tutte a nostro favore. -
- Non sapevo che la capitale avesse mosso guerra anche alle altre due foreste. -
- Manchi da molto, Airis, è normale che tu non sappia cosa sia successo negli ultimi tempi. Anche io mi sono stupito, ma d'altronde siamo stati costretti quando abbiamo scoperto quanto fossero stati feroci durante la presa delle città più vicine. - una smorfia di disprezzo gli balenò sul viso, - Evidentemente, quello che i loro fratelli hanno fatto a Mera ed Edon li ha esaltati talmente tanto da spingerli a imitarli. -
Airis si adombrò. Copernico le aveva detto che non erano stati gli elfi a compiere quegli eccidi, ma non era ancora del tutto convinta delle sue parole, anche se si fidava del mago. E a proposito di lui, che fine aveva fatto? Dov'era? Era riuscito a scampare all'esplosione?
- Comunque, non credo sia una buona idea parlarne ora. - disse Felther, lanciando un'occhiata gelida al Drow.
Fenrir scrollò le spalle, ma non commentò. Da quando i due avevano cominciato a parlare era rimasto in religioso silenzio, ma, pur con lo sguardo rivolto altrove fingendosi indaffarato a pulire le bende, Airis era sicura che non si fosse perso nemmeno una parola.
- Hai altro da chiedermi? - 
Una nuova scarica di dolore la distolse dalle sue riflessioni. Contrasse la mascella, strinse le mani a pugno e soffocò a stento un gemito. Sentiva la spalle e la testa in fiamme e il gonfiore che pulsava e gli tendeva la pelle della gamba stava diventando insopportabile. Una leggera patina di sudore le imperlò la fronte. 
Fenrir si sporse per aiutarla a rimettersi sdraiata, ma Airis lo fermò. 
- Cosa le hai fatto? - ringhiò Felther all'indirizzo del Drow.
- Nulla. - 
- Se pensi che mi abbia avvelenata, ti sbagli. - s'intromise la guerriera, prima che scoppiasse una lite. 
Guardò l'uno e poi l'altro e nella tenda calò un silenzio carico di tensione. Dall'esterno provenivano delle voci concitate e una leggera brezza portò con sé un intenso odore di resina. Il crepitio della legna arsa e il profumo della carne arrostita riempirono l'aria.
Dopo qualche istante Felther riprese: - Se non ce la fai possiamo parlare domani. Adesso non lo so, ma magari il nostro guaritore umano - insisté sull'ultima parola, - ha un po' di latte di papavero per darti un po' di sollievo. - 
La ragazza scosse debolmente la testa. 
- Non sto così male come sembra. - mentì.
- Dovresti riposare. -
- Tranquillo, ce la faccio. O devo forse supporre che non gradisci chiacchierare con me? -
Felther sospirò rassegnato: - Sai essere molto caparbia quando vuoi, ma è questo che mi piace di te. -
- Vorrai dire testarda. -
- Cercavo di essere gentile. - sbuffò divertito.
- Da quando hai cominciato a trattarmi con i guanti? -
- Sei una donna, mi sembra più che giusto. -
A quell'affermazione, Airis ridacchiò e Felther inarcò un sopracciglio, perplesso.
- La cosa ti disturba? -
- No, assolutamente, ma mi giunge piuttosto nuova. Mi hai sempre considerata una tua pari, non mi hai mai trattata in modo diverso da come trattavi un soldato semplice o Ignus. -
- Mettiamola così: sono felice di averti ritrovata. Tutti ti credevano morta e, nonostante avessimo mandato delle squadre di ricerca a battere la foresta, non hanno rinvenuto tracce né di te né di Ignus. Quando torneremo alla capitale, anche tu riceverai le Ali d'oro. -
- Immagino quanto il Consiglio dei Quattro Cavalieri frema dalla voglia di darmele. A proposito, chi ha preso il posto di Ignus? -
- Non dire così. Nonostante tutto, i Consiglieri hanno sempre creduto in te. Il Generale Lullabyon sarebbe orgoglioso di te. E comunque il posto di Cavaliere del Leone è ancora vacante, visto che non abbiamo ritrovato il cadavere di Ignus. Aspetteremo ancora un po', poi il re e i Consiglieri eleggeranno qualcuno. -
- Immagino. - mormorò, mentre i ricordi dell’uomo che l’aveva adottata riemergevano dalla memoria.
Felther tacque un momento, le dita intrecciate davanti al viso in una posa meditabonda.
- Che ci facevi a Luthien? - domandò infine.
- La stessa cosa che facevi tu a Lotka. -
Il Generale corrugò le sopracciglia: - E come hai fatto a sopravvivere da sola? Inoltre, mi piacerebbe proprio sapere come hai recuperato la vista. -
Airis esitò, presa in contropiede. Non poteva certo raccontargli che aveva dovuto seguire gli ordini di Lysandra, un Lich con turbe mentali e perversioni di vario genere, né poteva rivelare di essere andata ad Alfheim in compagnia di un elfo. Pensare era sfibrante, ma se avesse taciuto avrebbe destato sospetti.
Tossì, le labbra secche e la gola riarsa. Le sembrava di avere la bocca cosparsa di argilla secca. Con uno sforzo immenso si costrinse a rispondere. 
- L'esplosione mi ha catapultata abbastanza lontana dal punto in cui stavo combattendo. Senza la vista, ho dovuto orientarmi come potevo. Ho... catturato un elfo mago che era ridotto anche peggio di me e l'ho costretto ad aiutarmi ad attraversare la foresta. È stato lui a curare i miei occhi, anche se è solo temporaneo. A sua detta, la città più vicina da dove ci trovavamo era Luthien, quindi ci siamo diretti qui. -
- Eri proprio disperata se hai deciso di fidarti di un elfo. -
Airis fece spallucce: - Eravamo entrambi in una condizione critica. A lui conveniva che io lo proteggessi, mentre a me serviva qualcuno per uscire viva da quella maledetta foresta. Diciamo che è stato uno scambio equo. - 
- Proteggerlo da cosa? Llanowar, da quel che mi è stato riferito, è un deserto di alberi devastati ed erba grigia. -
- Quando ci siamo svegliati, siamo stati entrambi attaccati da... delle creature che somigliavano ai nostri soldati e a quelli nemici. Visto che eravamo gli unici superstiti ed entrambi avevamo a cuore la nostra pelle, abbiamo deciso di non ammazzarci a vicenda e di darci una mano. - 
- Capisco... immagino tu lo abbia ucciso quando ha smesso di esserti utile. -
- Ovviamente. Tu, invece? Perché sei capitato a Luthien? - si affrettò a cambiare argomento. 
Felther la scrutò con cipiglio severo, probabilmente desideroso di capire se gli avesse detto la verità. La storia che gli aveva raccontato era discutibile sotto molti punti di vista e lei aveva glissato su molti dettagli, ma ora come ora non aveva la forza di inventarsi niente di meglio. 
Alla fine, il Generale scosse la testa e non fece commenti.
- Non stavo andando lì. Io e i miei uomini abbiamo ricevuto l'ordine di recarci ad Amount-vinya per ripulirla dalla feccia che la infestava. -
Airis assunse un'espressione confusa. Sershet si era disinteressata completamente alle vicende che ruotavano attorno a quella città, tant'è che, dopo aver atteso gli aiuti per mesi, la popolazione era riuscita a fuggire solo grazie all'aiuto di Fenrir. Perché proprio ora avevano deciso d'intervenire? Fissò i suoi occhi in quelli di Felther e per un momento si misurarono con lo sguardo, mentre una strana tensione si addensava tra loro.
- Cos'è, non mi credi? - 
La guerriera, che a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti, gli rivolse un sorriso forzato, poi chinò la testa e relegò i dubbi nei meandri della sua mente.
- No, ti credo. D'altronde, non avresti motivo di mentirmi. -
Il Generale annuì, eppure Airis percepiva troppi non detti tra di loro, che appesantivano la conversazione aleggiando nello spazio che li separava.
- Credo sia ora che io torni ad amministrare il campo. Spero tu ti riprenda presto. -
Si alzò e si drappeggiò il mantello sulle spalle. 
- Sicuramente. A presto. -
Non appena Felther lasciò la tenda, Airis si lasciò ricadere sulla pelliccia con un sospiro stremato. Fenrir le fu subito a fianco e la coprì per tenerla al caldo.
- Devo proprio rimanere qui dentro? Fa caldo... - mugugnò, cercando di sgusciare via dalle braccia del Drow, ma lui non sembrava propenso a lasciarla andare.
- Sì, devi. Adesso che il Generale se ne è andato, posso finire di medicarti. Bevi questo, piano, a piccoli sorsi. - disse in tono freddo e scostante.
La guerriera aggrottò le sopracciglia, ma non indagò sul suo stato d'animo. Sorseggiò quel liquido trasparente come l'acqua dal sapore di ginepro e boswellia, lentamente, ma la sete non l'aiutava.
- Bevilo tutto. Più piano o soffocherai. -
Le tenne sollevata la testa e Airis per la prima volta si concesse il lusso di osservarlo con calma. Aveva una corporatura esile ma allenata, con le spalle larghe e i muscoli filiformi che si tendevano sotto la pelle scura. Le ciocche argentee che erano sfuggite alla coda dietro alla nuca gli ricadevano sul viso e sulle spalle e gli occhi scarlatti sembravano due tizzoni ardenti nella penombra della tenda. Qualcosa in lui le ricordò Ledah. Quando ripensò al viso dell'elfo distorto dal potere oscuro che albergava in lui, avvertì una strana angoscia serpeggiarle nelle viscere. Inaspettatamente, si ritrovò a chiedersi se stesse bene e dove si trovasse in quel momento. Socchiuse appena le palpebre e cercò di ingoiare il groppo soffocante che le si era formato in gola.
Il Drow la osservò bere in silenzio, poi la riadagiò sulla pelliccia. La girò a pancia sotto, le scoprì la schiena e con i pollici sfiorò la pelle gonfia vicino alle prime vertebre. Airis ringraziò di essere distesa, così poté evitare di guardarlo negli occhi: sotto quello sguardo gelido si sentiva nuda, indifesa. Era come se riuscisse a leggerle dentro e lei non voleva che percepisse ciò che provava. Le immagini della battaglia, Luthien in fiamme, il drago, Ledah, Copernico, la luce e poi il boato dell'esplosione le vorticavano in testa, mescolandosi ai dubbi che le parole di Felther avevano destato in lei. Sfinita, si concentrò sul tintinnio delle fiale di vetro contenenti unguenti medici ed erbe sminuzzate e attese che Fenrir tornasse a poggiare le mani sulla sua pelle per attenuare il bruciore.
- Quanto ero messa male? - chiese per spezzare il silenzio opprimente.
Non ci fu risposta.
- Ho visto come mi hai guardata quando Felther si è messo a parlare delle mie condizioni. Puoi dirmelo, Fenrir, non mi scandalizzerò più di tanto. Ho passato di peggio. -
Ancora nulla. 
Si sentì sfregare la schiena con un freddo unguento lenitivo. Il Drow aveva mani grandi e delicate. Airis premette la guancia contro la pelliccia, i peli che le solleticavano il naso, e represse un mugugno soddisfatto. 
- Beh, un umano normale non sarebbe sopravvissuto. -
- Non so di cosa tu stia parlando. -
- Cosa sei in realtà, Airis Lullabyon, Cavaliere del Lupo? -
Airis si irrigidì e tacque. I recipienti di vetro tintinnarono di nuovo e il tocco gentile di Fenrir tornò sulla sua pelle, stavolta all'altezza del collo. Un'improvvisa ondata di calore si diffuse fino alle spalle, per poi fluire giù su tutta la schiena.
- Te lo ha detto Felther? -
Il Drow prese delle bende pulite e, sollevatala leggermente, cominciò a passargliele attorno al corpo. 
- Non mi importa chi tu sia, ma cosa tu sia. -
- Davvero, non so a cosa tu ti stia riferendo... - la sua voce tremò. 
- Non ti preoccupare, non lo sa nessuno a parte me e il nano. Siamo stati noi a trovarti, cadavere tra i cadaveri. O, almeno, così pensavamo prima di accorgerci che respiravi. -
Airis si morse le labbra, un nodo di angoscia che le attanagliava le viscere. Serrò le mani a pugno.
- Se non vuoi dirmelo, non sarò io ad obbligarti, però sappi che non potrai nasconderti per sempre. -
La guerriera non rispose. Era esausta, assonnata, debole.
- Ho bisogno di dormire, Fenrir. -
Il Drow accennò un sorriso, le abbassò la tunica e la coprì con un'altra pelliccia.
- Domani ti sentirai meglio. -
Airis bofonchiò qualcosa di indefinito, già in dormiveglia. Udì i suoi passi allontanarsi, ma prima che il sonno la venisse a prendere percepì ancora quegli occhi scarlatti su di sé e la sensazione che provò non le dispiacque per niente.

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Capitolo 28
*** Nelle Mani del Destino ***


28

Nelle Mani del Destino

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

Sul far della sera, col cappuccio calato e avvolto nel mantello, Felther si allontanò dall'accampamento. Quando passò vicino alle sentinelle, quelle non fecero una piega, continuando a fissare dritto davanti a loro con sguardo assente. Si inoltrò nel bosco e in pochi istanti, ormai al riparo nella fitta vegetazione, un silenzio assordante lo circondò. Non si sentivano né i richiami degli animali notturni né il fruscio del vento tra le foglie. Pareva tutto immobile, come se la natura stesse trattenendo il fiato. 
Ad un tratto, Felther udì il suono ritmico di un battito d’ali. Un corvo con gli occhi rossi lo raggiunse e planò sulla sua spalla senza esitazioni, come se avesse riconosciuto il padrone, affondando gli artigli nel mantello. L'uomo lo osservò e inclinò la testa di lato verso il suo becco, restando in ascolto. 
- Capisco. Sarà fatto. - mormorò poi piano. 
Il corvo gracchiò, sbatté freneticamente le ali e si alzò di nuovo in volo. Quando la sua figura svanì al di là delle cime degli alberi, il Cavaliere del Drago sospirò e scrocchiò il collo. Sollevò la testa e guardò in alto, verso il cielo, e la sua espressione si fece ancora più seria e determinata.
“Per il re e la regina.”
Infine diede le spalle alla luna e si incamminò in direzione dell'accampamento.

 
* * *

Per i seguenti quattro giorni la febbre non diede tregua ad Airis. Spesso riemergeva dall'abisso popolato da incubi che l'aveva presa in ostaggio e schiudeva le palpebre per alcuni istanti, cercando di orientarsi nella semioscurità che la circondava. Ma appena si sforzava di mettere a fuoco i contorni delle cose, l'oblio la ghermiva di nuovo, guidandola in un mondo dove il sogno e la realtà si confondevano. Vide immagini sfocate, frammenti di passato e volti di persone che credeva di conoscere. Prigioniera delle ombre, solo la voce di Ledah fu in grado di darle pace, insieme al ricordo della promessa che si sarebbero incontrati ancora. 
Solo la mattina del quinto giorno Airis riuscì finalmente ad alzarsi. Si sentiva molto spossata, debole e disidratata. Tuttavia, benché non fosse ancora rientrata in possesso di tutte le sue forze, era abbastanza sicura di aver riacquistato l'equilibrio sulle proprie gambe, almeno quel tanto da alzarsi in piedi.
Quando si era svegliata, la prima cosa che era entrata nel suo campo visivo erano stati gli occhi gelidi e indifferenti del Drow, seduto in un angolo della tenda con un rotolo in mano, immerso nella penombra. Aveva sostenuto il suo sguardo enigmatico senza battere ciglio e poi si era tirata su a sedere, dandogli le spalle per cominciare a vestirsi con degli abiti puliti che aveva trovato piegati su un panchetto accanto al giaciglio. 
Il ricordo della discussione della sera prima era ancora vivido nella sua mente. Per quanto considerasse l'elfo un alleato, l'idea che in qualche modo sospettasse della sua natura l'aveva messa in allarme. Eppure Fenrir lì per lì non era sembrato diverso dal solito, benché fosse difficile decifrare le sue espressioni e capire quando era turbato o solo pensieroso.
- Non ti sforzare troppo, sei ancora molto debole. - l'ammonì severo, senza distogliere l'attenzione dalla pergamena ingiallita che stava leggendo, - Non ti devo ricordare che le ferite non sono ancora guarite, vero? -
Airis sbuffò e si defilò in silenzio. Non appena mise piede all'esterno, inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni dell'aria frizzante di quella mattina primaverile, che le penetrò nelle narici facendosi strada in lei e scacciando via l'odore stantio che aveva respirato durante i giorni passati prigioniera in quella maledetta tenda, circondata da pellicce di animali non proprio profumate. 
"Non mi sembra vero di essere viva." 
Socchiuse le palpebre, godendosi ancora per qualche istante la carezza del vento sulla pelle, poi prese a camminare con l'intenzione di perlustrare i dintorni e verificare con i suoi occhi lo stato dell'accampamento. Un timido sole disegnava i pallidi contorni di una decina di tende allineate in file ordinate, mentre uomini e donne dalle facce scavate e i vestiti laceri sedevano attorno alla brace rosseggiante di un falò ormai prossimo a spegnersi. Alcuni correvano a destra e a sinistra trasportando cibo, legna o bende intrise di sangue. Poco più in là, tre ragazze erano accomodate in circolo lavorando sugli impennaggi di una manciata di frecce, mentre altre due, una molto giovane con un bambino piccolo attaccato al seno e l'altra con il viso pieno di rughe e i capelli striati di grigio legati stretti in una crocchia, ruotavano sul fuoco uno spiedo su cui erano stati infilzati quelli che parevano conigli. Non appena la videro, le rivolsero un breve cenno del capo in segno di rispetto e si lanciarono delle occhiate furtive, per poi tornare fin troppo rapidamente alle loro occupazioni. Ma ad Airis non sfuggì il modo con cui la guardarono, il timore e la paura che albergavano in fondo ai loro occhi.
All'improvviso venne colta da un attacco di vertigini. Poggiò ansimante le mani sulle ginocchia e si scostò i capelli dalla fronte sudata. Quella breve camminata l'aveva sfiancata come se si fosse inerpicata su per una salita tortuosa. Sentiva il corpo pesante e, in alcuni momenti, le era sembrato di avvertire le ossa scricchiolare sotto il suo stesso peso. Si vergognò profondamente di quella debolezza, ma la faccia che aveva fatto Felther quando l'aveva vista era stata più che sufficiente a farle capire quanto critiche dovevano essere state le sue condizioni. 
Rammentò gli incubi che l'avevano tormentata e dopo un po' le tornò in mente il volto della bellissima ragazza che le era apparsa in sogno, insieme alle sue parole criptiche.
"Yggrasil... l'ultima Guardiana dell'umanità... cosa vorrà dire? Che la febbre mi abbia fatto perdere del tutto il senno?"
Il suo cervello era affollato dalle domande, ma era inutile cercare di capire se quello che aveva sognato fosse reale o frutto della fantasia, anche se una parte di sé le suggeriva che ciò che aveva visto era tutto fuorché un'illusione. In ogni caso, non le interessava ottenere una risposta subito, poiché le premeva di più assicurarsi che tutti stessero bene. Con i pensieri corse a Myria, Zefiro e Melwen e pregò di trovarli fra quelle tende, sani e salvi. Inaspettatamente, si trovò a domandarsi se anche Ledah fosse insieme a loro. Lo aveva lasciato a combattere a fianco di Copernico, ma poi non ne aveva più saputo nulla.
Puntò lo sguardo sull'orizzonte e contemplò le cime invalicabili dei monti Erasse, che in lontananza si stagliavano oltre le fronde degli alberi. La catena montuosa si innalzava fino al cielo, tanto che le sue vette erano sempre coperte da un fitto strato di nubi, come a voler celare l'ingresso verso il regno degli dei. I suoi contorni frastagliati erano simili alla spina dorsale di un qualche mitico mostro leggendario e non erano poche le storie che narravano di una creatura addormentata, che un giorno, abbandonata la corazza di roccia di cui si era rivestita per difendersi dalle intemperie e dagli attacchi nemici, si sarebbe risvegliata seminando il caos. 
Si raddrizzò e fece qualche passo, ma il ginocchio destro cedette a tradimento. Tentò di riprendere l'equilibrio spostando il peso sull'altra gamba, ma sentiva la testa pesante e il suo corpo non voleva saperne di obbedire agli ordini. Chiuse gli occhi e si preparò all'impatto col suolo. L'istante successivo qualcuno l'afferrò per un polso e la strattonò indietro, costringendola in ginocchio.
- Voi “gambelunghe” siete più stupidi dei muli. -
La voce tagliente del nano le graffiò le orecchie e dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non rispondergli a tono. Sbatté le palpebre un paio di volte e si impose di respirare il più lentamente possibile. Udì uno scalpiccio frettoloso e vide una figura arrestarsi a qualche passo da lei, mentre un mormorio sommesso spezzava la quiete.
- Messer Baldur, il Generale sta bene? - chiese timida una donna.
Altri si avvicinarono, richiamati dal leggero trambusto.
- Sì, sta benissimo, non vedi? Sprizza salute da tutti i pori, credo proprio che la porterò a fare una bella scampagnata. - sputò sarcastico. 
- Non intendevo dire... -  
- Sì, va bene, va bene, ho capito. Ora di' a tutti di tornare a lavorare. - borbottò e rivolse ai presenti uno sguardo truce, - Avete capito? Qui non c'è niente da vedere, alzate i deretani e tornate a fare quello che stavate facendo. State respirando tutta l'aria. -
In meno di un attimo le persone che si erano raccolte intorno a loro si allontanarono in fretta, non osando contraddire il nano, famoso per essere permaloso e scorbutico. Baldur grugnì, poi trascinò senza grandi sforzi la guerriera fino ad un tronco posizionato vicino a un altro falò e l'aiuto a sedersi. Airis lo sentì inveire a denti stretti contro quella gente impicciona, ma presto tacque e concentrò la sua attenzione su di lei. Con un gesto brusco staccò la borraccia che portava legata alla cintura e bevve a grandi sorsi. Alcune gocce trasparenti gli colarono dagli angoli della bocca, scivolando sulle trecce rossicce della lunga barba. La guerriera rimase imbambolata a osservarle mentre il nano si dissetava, riflettendo su quanto tempo dovesse averci messo ad acconciare quel cespuglio crespo. 
- Bevi anche tu, così magari il cervello riprende a funzionarti per bene. -
Airis lo scrutò di sbieco, poi spostò lo sguardo sulla borraccia che le aveva piazzato sotto il naso.
- Non l'ho bevuta tutta se è quello che stai pensando, gambelunghe. Ora muoviti, prima che ti apra la bocca con la forza. -
Il sapore dell'acqua fresca le sembrò più dolce che mai e trangugiò avidamente il resto del contenuto.
- La mocciosa, la donna umana e suo figlio stanno bene, comunque. - aggiunse dopo un minuto.
Airis posò la borraccia sulle ginocchia e assentì piano. Fissò sovrappensiero l'armatura di Baldur, accarezzata dai tiepidi raggi del sole, e osservò le decorazioni, le rune e i simboli incisi sull'acciaio dell'ascia che gli ciondolava sulla schiena.
- Che mi dici della moglie e della seconda figlia di Copernico? -
Il nano si adombrò e scosse la testa. Airis si morse il labbro e abbassò lo sguardo. Era tutto troppo doloroso, troppo straziante da commentare, e dall'occhiata che scambiò col nano capì che anche lui la pensava allo stesso modo.
La guerriera esitò e solo dopo un attimo d'incertezza riuscì a parlare.
- Che ne è stato di Ledah? -
- Non lo so. Io e l'orecchie a punta siamo fuggiti prima dell'esplosione e non lo abbiamo ritrovato fra le macerie. E' scomparso. -
Airis strinse le mani a pugno e chiuse gli occhi. Ledah non poteva essere morto, le aveva promesso che si sarebbero rivisti, anche perché voleva farsi raccontare cosa le era successo agli occhi. Quello era stato un arrivederci, non un addio. Ledah era vivo, lo sentiva.
Una fitta al petto le fece incurvare le spalle e una nuova emozione la pervase.
“Stupido elfo.”
Rimasero entrambi in silenzio per alcuni minuti, ma il vuoto lasciato dalle loro parole fu riempito dal chiacchiericcio sommesso dei superstiti che si affaccendavano tra le tende. Una raffica di vento gelido proveniente da Nord soffiò tra i rami degli alberi.
- Quanti sono i sopravvissuti? - esordì Airis, facendosi coraggio.
- Pochi. Quelli che sono stati investiti dalle fiamme sono stati più fortunati: hanno avuto una morte indolore, il calore era talmente potente da averli arsi istantaneamente. Agli altri, quelli che sono stati colpiti dall'onda d'urto, è toccata la sorte peggiore. L'esplosione ne ha scaraventati a decine a quasi un miglio dalla città. Alcuni sono morti cadendo in un burrone non lontano da qui. Io e l'orecchie a punta siamo stati protetti da una barriera magica che Copernico aveva eretto attorno a noi prima che andassimo via. Assieme a quei pochi che siamo riusciti a far evacuare abbiamo battuto la foresta e aiutato chi si trovava in difficoltà. Direi che di tutta la popolazione di Luthien solo un decimo ce l'ha fatta. -
- Avrete dovuto fare delle scelte, immagino. - 
- Purtroppo sì. Per quanto mi sia dispiaciuto, non potevamo soccorrere tutti. Ci siamo limitati a dare una morte veloce a quelli che avevano perso degli arti o avevano riportato ferite mortali, poi con calma siamo tornati a seppellirli nel modo più dignitoso possibile, così come insegnano i nostri Avi. Anche tu eri tra coloro che avremmo dovuto sotterrare, Airis. -
A quelle parole, il cuore della guerriera mancò un battito. 
- Mi hanno detto che ero messa male, ma non potevo aspettarmi qualcosa di diverso dopo quello che è successo. - rispose cercando di mantenere la calma, anche se percepiva un leggero tremore alle mani.
- Allora sei più stupida di quanto credevo, gambelunghe. Ascolta, non me ne frega un bel niente di chi tu sia, Caillean o Airis, un soldato semplice o il Cavaliere del Lupo. Fin dal giorno in cui le nostre strade si sono incrociate, avevo capito che non eri chi dicevi di essere, ma ho fatto finta di nulla e ho preferito vedere come ti comportavi per decidere se tagliarti la testa o meno. Per tua fortuna non mi hai dato motivo per farti diventare cibo per vermi, ma sappi che odio essere preso in giro. - dichiarò secco, squadrandola con cipiglio minaccioso, - Ora, quando dico che eri da sotterrare, intendo che eri morta. Però, per qualche motivo a me sconosciuto, all'improvviso hai ricominciato a respirare. Avevi quasi tutte le ossa rotte e metà corpo ustionato. Quando siamo tornati al punto di ritrovo con gli altri sopravvissuti, quell'orecchie a punta ha insistito per prendersi cura di te e adesso guardati, sei come nuova! Più o meno. Non so come tu abbia fatto, né mi interessa sapere che genere di intruglio miracoloso quello lì ti abbia somministrato, ma sta di fatto che dovresti già essere in una fossa. Qui non si tratta della tua posizione nell'esercito o del tuo vero nome, si tratta di essere umani o no. -
Il cuore di Airis fu inondato dall'ansia e dalla paura, batteva talmente forte che temette le stesse per sfondare la cassa toracica. Prima Fenrir, ora Baldur e non era da escludersi che qualche altro dei sopravvissuti si fosse posto delle domande. Fece per ribattere, ma aveva la bocca impastata e le parole rimasero incastrate in gola. 
Il nano attese alcuni istanti, col respiro affannoso a causa del lungo discorso e gli occhi che mandavano saette, e solo quando le guance, rosse di rabbia, cominciarono a scolorirsi riprese a parlare.
- Comunque non è questo che mi preoccupa. Certo, non lascerò perdere la questione, ma adesso ho altri grattacapi. Per esempio, il tuo amichetto Felther non me la racconta giusta. - fece un respiro profondo e si guardò intorno circospetto, per sincerarsi che nessuno fosse a portata d'orecchio.
Ancora sorpresa per il repentino cambio di argomento, Airis aggrottò le sopracciglia, tirando un sospiro di sollievo per essere riuscita, almeno per il momento, a rimandare le spiegazioni. Si annotò mentalmente di inventarsi una scusa credibile appena fossero tornati in tema.
- Cosa intendi? - 
- Questa faccenda puzza più degli escrementi di un cinghiale. E quelli, credimi, puzzano da morire. - si strofinò il naso con una smorfia disgustata, - Quel damerino è arrivato qui per aiutare gli abitanti di Amount-vinya? Seh! A Sershet e ai suoi sovrani non è mai fregato nulla di quei poveri derelitti e poi, di punto in bianco, decidono di mandare un Generale pluridecorato a salvarli? Qui gatta ci cova ed è qualcosa di grosso, molto grosso, ci scommetto la mia ascia. Me lo sento nella barba. -
Airis arricciò le labbra per nascondere un sorriso, ma rifletté seriamente su quanto detto da Baldur. Le parole che lei e Felther si erano detti la sera addietro le erano rimaste impresse nella memoria ed effettivamente nel racconto del suo commilitone c'era più di una lacuna. Si fidava ben poco della presunta bontà della capitale e dei suoi regnanti, soprattutto se uno di questi era un Lich manipolatore e senza scrupoli.
- Dobbiamo andarcene, Airis, io, te e i tre gambelunghe tuoi amici. Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi. Il lupo gigante, l'amico dall'orecchie a punta strambo, ha continuato a girare attorno all'accampamento in questi giorni e ci scorterà fino al confine. Anche lui è spaventato. -
- Spaventato? Da cosa?
- Gli animali percepiscono sempre prima di noi il pericolo, è bene prendere esempio da loro e ascoltarli. -
Le indicò con un lieve cenno del capo un soldato, che se ne stava in piedi di guardia di fronte all'entrata di una tenda. Airis lo studiò di sottecchi. Era un soldato semplice e piuttosto giovane. Come tutti i suoi compagni, indossava un'armatura completa, con il simbolo della casata imperiale inciso sul pettorale, e nella destra stringeva una berdica. Notò che c'era qualcosa di strano nella sua postura, nello sguardo fisso e nell'immobilità innaturale del corpo. Si sentì d'un tratto a disagio, ma non seppe spiegarsi che cosa le procurava quella sensazione di inquietudine.
- Capisco, ma non posso scappare e abbandonare tutte queste persone. -
Il nano inarcò un sopracciglio, mentre una smorfia contrariata gli increspava le labbra: - Per gli Avi, non possiamo salvare tutti! Dovresti saperlo meglio di me. -
- Ne sono consapevole, ma ciò non significa che non ci debba provare. Lasciare indietro gli indigenti non fa parte del mio giuramento di Cavaliere. - replicò pacata.
- Va bene, va bene, fai come ti pare. - sbuffò, alzando le mani in segno di resa.
- Che ne sarà di Fenrir? Hai intenzione di lasciare anche lui indietro? - lo provocò.
A sentir pronunciare il nome del Drow, Baldur contrasse la mascella e una scintilla oscura brillò in fondo alle sue iridi dorate.
- Non voglio che venga con noi, non mi fido. -
- Come puoi parlare così? Si è preso cura di me! - esclamò scattando in piedi, ma il movimento improvviso le procurò un capogiro che la costrinse di nuovo a sedersi.
Stringendo i denti, si obbligò ad alzare il capo e rivolse al nano uno sguardo di sfida.
- Non significa nulla. È e rimane sempre un Drow. Quelli come lui non fanno mai niente per niente. -
- Pregiudizi e basta. Fenrir non ha aiutato solo me, ma anche gli abitanti di Amount-vinya e Luthien. Non è l'approfittatore che descrivi tu. -
Baldur scoppiò in una risata rabbiosa: - Ti sei forse innamorata, ragazzina? Io ho alle spalle più cicli lunari di te, conosco fin troppo bene la sua razza. Voi umani credete di sapere tutto, ma evidentemente al posto del cervello avete solo letame e vomito di lumaca. Credi davvero nella bontà di un popolo che aveva come re niente meno che lo spietato Aesir? Sempre sia dannato! Non escludo nemmeno che Fenrir stia eseguendo gli ordini di un qualche demonio schifoso o che sia in qualche modo coinvolto in quello che è successo a Luthien. -
- Non puoi davvero lasciarti condizionare dai pregiudizi e quello che dici è assurdo! Pure lui ha rischiato di morire, ricordi? E quale sarebbe il suo scopo? -
- Se questi pregiudizi possono salvarmi le terga, sì che li seguo! Non so ancora cos'ha in mente, ma ti giuro che lo scoprirò. L'ho osservato con attenzione sin dall'inizio e qualcosa mi è sempre parso strano, come il fatto che un Drow, che per legge dovrebbe essere schiavo, se ne vada a zonzo libero e senza collare. Sul serio non te lo sei mai chiesta? È sospetto. - borbottò scuro in volto, per poi scoccare un'occhiata cauta verso un gruppetto di persone raccolte intorno a un fuocherello, - Questo non è il luogo migliore per discutere di certe cose, ci sono troppi occhi e troppe orecchie per i miei gusti. Il tempo sta cambiando, Generale. Tra poco arriverà una tempesta e, se non saremo lontani da qui, rischiamo di prenderla in pieno. L'unica soluzione è scappare. - si avvicinò ad Airis e le assestò una pacca sulla spalla, - Stasera vieni nella foresta. Segui il sentiero per quattrocento passi, poi vai a destra e continua sempre dritto. Troverai una radura dominata da un grosso abete, che si erge proprio al centro, come un altare. -
Poi, prima che lei potesse ribattere, Baldur scavalcò il tronco e sparì tra le tende. La guerriera rimase immobile, le mani strette a pugno e mille pensieri che le turbinavano in testa. Lanciò nuovamente un'occhiata fugace al soldato di guardia, constatando che non si era mosso di un solo millimetro. In un certo qual modo sembrava che non stesse nemmeno respirando. Un brivido freddo le corse lungo la spina dorsale e la spinse ad alzarsi di scatto come se fosse stata punta da un'ape. Fu nuovamente colta dalle vertigini, ma stavolta riuscì a rimanere in piedi.
Tutto quello che aveva detto Baldur aveva senso e, in fondo, anche lei sentiva che c'era qualcosa di strano. Lo aveva avvertito fin da quando aveva parlato con Felther, lo aveva intuito dal suo sguardo sfuggente e dal tono della sua voce. Per quanto nutrisse una profonda fiducia nei suoi confronti, non poteva continuare a far finta di niente. Inoltre, ora che il nano glielo aveva fatto notare, ogni volta che un soldato le passava vicino non riuscì ad esimersi da squadrarlo da capo a piedi. Ne contò all'incirca una ventina o poco più: troppo pochi per liberare una città, ma abbastanza per sopprimere una manciata di uomini malconci e disarmati.
Scrollò il capo con rabbia e aumentò l'andatura, diretta alla tenda di Felther. Le due guardie poste davanti all'entrata fecero un lieve inchino e senza che lei dicesse nulla si spostarono per lasciarla entrare. Quando li superò, Airis incrociò lo sguardo del vecchio soldato sulla sinistra e in quegli occhi vacui e lattiginosi riconobbe le iridi vuote dei morti senz'anima dell'esercito di Lysandra. 
Baldur aveva ragione. Come aveva fatto a non accorgersene?
Appena la tenda si richiuse alle sue spalle, venne avvolta dalla penombra e un intenso odore di legna bruciata le penetrò nelle narici. Lentamente i suoi occhi si abituarono all'oscurità. Quattro bracieri pieni di carboni ardenti posti ai quattro angoli cardinali spandevano una tenue luce aranciata nell'ambiente, disegnando il profilo di un semplice letto da campo e di un vecchio tavolo tarlato piazzato al centro della tenda. Le pelli di animali che giacevano sul pavimento proteggevano dal freddo e dall'umidità che regnava all'esterno, trattenendo il calore. Il manichino dove era stata riposta l'armatura languiva annoiato vicino a uno sgabello sbilenco e, seduto su quest'ultimo, bardato di tutto punto, l'attendeva il Cavaliere del Drago.
- Sono felice che ti sia ripresa, Airis. - la accolse con un sorriso amichevole, - Il Drow aveva detto che ci sarebbe voluta più di una settimana per vederti tornare a camminare, ma non posso che rallegrarmi nel constatare che si sbagliava. Non ti smentisci mai. - 
La sua voce era calma come al solito e gli occhi azzurri la fissavano con attenzione. Si sentì pervadere da una strana sensazione di malessere e i suoi muscoli si tesero. Stava reagendo come se si fosse trovata di fronte ad un nemico, quando in realtà c'era solo Felther lì con lei. Il suo istinto le suggerì di stare attenta e non abbassare la guardia, ma c'era una parte di Airis che ancora si rifiutava credere che colui che aveva davanti non era più il Generale che aveva conosciuto. 
Si focalizzò sul mantello verde appeso sul manichino, lo stesso che Felther aveva indossato il giorno della caduta di Llanowar. 
Egli la scrutò perplesso, poi, accortosi di cosa avesse attirato la sua attenzione, sorrise. Si avvicinò al manichino per accarezzare le pieghe della stoffa e solo allora la guerriera notò che era rovinata in più punti.
- Non sono riuscito a ripararlo, però ci sono affezionato. Insieme agli onori della vittoria, volevano consegnarmi un'armatura dorata e un nuovo mantello, ma non ho accettato il loro dono. Buttare via quello che ho indossato quel giorno significava lasciarsi il passato alle spalle e io non ho mai desiderato dimenticare. -
- Anche se lo volessimo, non ci riusciremmo. -
Felther sospirò annuendo. La raggiunse in poche falcate e si arrestò a un paio di passi di distanza. La sua figura era imponente, torreggiava su di lei superandola di almeno tre spanne, ma Airis non ne era mai stata intimorita. La gentilezza di quell'uomo dall'aspetto duro si esprimeva nello studio dettagliato e quasi maniacale della migliore strategia, al solo scopo di salvare più vite possibili. Come Airis, Felther aveva sempre combattuto per proteggere i deboli, non per la vittoria. 
- Qualcosa ti preoccupa? Non mi sembri tranquilla. -
La guerriera tacque, cercando di raccogliere le idee. Per la prima volta in vita sua si ritrovò a sperare che il proprio intuito fosse in errore.
- Perché sei venuto qui, Felther? Voglio la verità. -
L'altro si accigliò: - Non ricordi? Te l'ho detto ieri. Forse avevi la febbre alta e... -
- No, ero lucida. Ti conosco abbastanza bene e capisco quando nascondi qualcosa. - 
Una scintilla di sincero stupore brillò in fondo alle iridi chiare del Generale, ma prima che potesse dire qualcosa Airis continuò.
- Sapevi che il nano e il Drow provengono da Amount-vinya? -
- No, pensavo fossero entrambi di Luthien. -
- Mi hanno detto che, all'epoca degli scontri con i briganti, erano mesi che la città era in preda all'anarchia e che sono stati costretti ad andarsene per fuggire alle rappresaglie dei disertori che aveva preso il potere. Settimane di orrore, morte, stupri e vessazioni, denunciati più volte alla capitale, ma le preghiere delle vittime sono rimaste inascoltate. - strinse i pugni e lo fissò con uno sguardo di fuoco, - Non sei giunto in queste terre per portare soccorso a questa gente, i tuoi uomini non basterebbero nemmeno per abbattere le porte della città. Non sono stupida, Felther, sono diventata Generale per una ragione e mi fido del mio istinto. Dimmi cosa ti ha portato qui, il vero motivo. -
Felther corrugò la fronte e inspirò profondamente, come se stesse soppesando le parole da usare. Si avvicinò al tavolo e, da dentro una sacca di iuta consunta, tirò fuori due calici di bronzo e un piccolo otre. Poi, con un gesto fluido della mano, li riempì entrambi e ne porse uno ad Airis. L'intenso profumo fruttato del vino si mescolò all'odore della legna.
- Ti conviene sederti, potrebbe essere una conversazione lunga. -
La giovane prese il calice e lo portò al naso, annusandolo con circospezione. 
- Non ti preoccupare, non ho intenzione di avvelenarti. Se volessi ucciderti non mi abbasserei a simili sotterfugi. L'effige sulla mia spada è pur sempre quella di un drago. -
Dall'inflessione severa della sua voce Airis capì che era sincero, ma non si fece distrarre. Non appena si lasciò cadere sullo sgabello, i muscoli spedirono fitte dolorose direttamente al cervello, tanto che a stento riuscì a reprimere una smorfia di dolore.
L'uomo si appoggiò al tavolo e bevve un lungo sorso, dandole l'impressione di star cercando di guadagnare tempo. 
- Ti ricordi quale era la mia posizione in battaglia durante l'attacco di Llanowar? -
- Sì. -
- L'onda bianca ha preso in pieno tutto l'esercito, investendoci con la sua forza distruttiva, senza risparmiare nessuno. - posò il calice sul tavolo e incatenò i loro sguardi, - Io, quell'infausto giorno, sono morto. -
Airis sbarrò gli occhi e schiuse la bocca esibendo stupore, incredulità e sconcerto, incapace di articolare una frase di senso compiuto.
- Strano, vero? Normalmente i morti riposano sottoterra, non camminano tra i vivi, ma io non volevo morire, non ero ancora pronto. Il calore mi ha fuso l'acciaio dell'armatura addosso e l'impatto mi ha scaraventato gli dei sanno dove. Mentre agonizzavo riverso al suolo, vidi che intorno a me c'era una distesa infinita di cadaveri e alle mie orecchie giungeva solo un silenzio saturo di morte. Persi conoscenza più volte durante quelle interminabili ore, ma ricordo nitidamente di aver scorto ad un certo punto alcuni dei nostri trascinarsi via dal campo di battaglia, voltando le spalle ai loro compagni e alle loro invocazioni di aiuto. Con quel poco fiato che avevo in gola scongiurai uno di loro di uccidermi, di non lasciarmi alla mercé dei nemici, ma sembrava non sentirmi. In preda alla rabbia tentai di afferrargli un braccio, ma con orrore notai che la mia mano lo attraversava senza nemmeno sfiorarlo. È stato allora che ho capito di essere uno spirito e, sotto di me, giaceva il mio corpo bruciato, trafitto da tre frecce, scagliate da un elfo con i capelli neri e gli occhi color muschio. Stavo morendo, Airis, stavo per andarmene da questo mondo. Se tu fossi un mero essere umano mi prenderesti per pazzo, ma anche a te è capitata la stessa cosa, non è vero? - sorrise insinuante.
Le si gelò il sangue. Gli occhi di Felther si assottigliarono e le scavarono sin dentro l'anima. Non c'erano più dubbi: lui sapeva. 
- Come...? - balbettò sconvolta, alzandosi.
- È stata la regina a rivelarmelo, colei che ha potere di vita e di morte su tutti noi. È arrivata sul campo di battaglia come una divinità benevola e, quando si è accorta del mio desiderio di vivere, ha legato la mia anima alla carne, per poi curare tutte le mie ferite. Mi ha detto che ero sopravvissuto per il volere degli dei, che la mia forza e il mio coraggio l'avevano colpita a tal punto da spingerla ad esaudire la mia preghiera. Lei stessa è una dea, Airis, una dea onnipotente e immensamente buona. -
La scrutò intensamente e ad Airis, per un attimo, parve di intravedere una scintilla sinistra bruciare nelle iridi chiare, come quella che brilla negli occhi dei fanatici. Rabbrividì ancora e deglutì, indignata per quei discorsi privi di senso.
- Immensamente buona? - non riuscì a trattenere una risata, - Penso proprio che non abbiamo conosciuto la stessa persona. Una regina che ordina l'attacco di una città e uccide in modo indiscriminato non è né giusta né buona, ma semplicemente pazza. -
Felther contrasse la mascella e ridusse gli occhi a fessure: - Non osare parlare in questo modo della nostra regina, Airis. Lei è una divinità e noi, poveri mortali, non siamo in grado di comprendere il suo progetto. La nostra stessa caducità e limitatezza non ci permette di vedere al di sotto della superficie. È vero, lei mi ha affidato delle truppe di sangue maledetto, ma il loro compito era quello di scovare quel traditore, Xerxas Ascrocell, prima che attentasse di nuovo alla vita del re. Tu sei una persona di buon cuore e ti sei lasciata ingannare dalle parole di quel mezzosangue, per questo la regina mi ha ordinato di intervenire, non voleva che ti lasciassi plagiare. Però sono arrivato troppo tardi. Xerxas è morto, sì, ma ha avuto tutto il tempo per fare più danni del previsto. Guarda come ha ridotto la città. Se non fosse stato per l'esplosione, chissà quanti altri innocenti sarebbero stati risparmiati. Era un assassino e un nemico di Esperya. -
Airis si allontanò di scatto, disgustata e sconvolta: - Sei completamente folle? Copernico era un mago di tutto rispetto, devoto alla sua famiglia e al suo regno più di qualunque altro uomo. Ha visto morire il suo sovrano davanti ai suoi occhi senza la possibilità di fare nulla, ha portato per anni il marchio dell'infamia e del tradimento e si è dovuto nascondere per fuggire a quelle accuse ingiuste. Eppure, nonostante il destino avverso, non ha mai smesso di compiere il suo dovere di Consigliere, anche se ne aveva tutto il diritto dopo ciò che “la nostra regina” gli aveva fatto passare! -
- Stai vaneggiando. Vedo che ti sei proprio lasciata traviare. - la rimproverò con espressione cupa.
- No, quello che vaneggia sei tu! - lo accusò con fermezza, - Hai visto quello che è successo a Luthien, il massacro che è stato perpetrato? Niente, nemmeno la ricerca di un pericoloso criminale può giustificarlo! E tu vieni qui a dirmi che secondo te è giusto? Che ti sei macchiato le mani del sangue di centinaia di innocenti perché una divinità ti ha ordinato di farlo? Dov'è finito il Cavaliere che ho conosciuto, quello disposto a tutto pur di salvare una vita, persino sacrificare la propria? -
Le gambe le tremavano e una vampata di calore la investì con violenza, ma non ci fece caso. Sentiva le lacrime premere per uscire e la consapevolezza della verità gravarle come un macigno sul cuore. 
Felther la fissò per alcuni momenti, poi distolse lo sguardo con una smorfia scontenta e si avvicinò al manichino. Prese il mantello, lo buttò a terra e lo calpestò. Airis era allibita.
- Sei una pecorella smarrita, Cavaliere del Lupo. - proferì pacato, - Se io fossi nei panni della nostra regina, ti ucciderei solo per le blasfemie che sono uscite dalla tua bocca. Ma lei, nella sua bontà, ha deciso di concederti una seconda occasione per dimostrarle la tua lealtà e devozione. - 
Schioccò le dita e un soldato con in mano una spada dalla lama argentata entrò nella tenda. 
La guerriera strabuzzò gli occhi: - Perché hai preso la mia spada? -
- Perché la utilizzerai per compiere la missione che la regina ti ha affidato. - un ghigno malvagio si allargò sulle sue labbra e intimò al soldato di porgerle l'arma, - Devi uccidere i sopravvissuti. Nessuno deve sapere cosa è successo qui. Vedrai, lei ti perdonerà e ti riaccoglierà tra le sue braccia. -Airis, impallidì, scosse la testa e indietreggiò, guardandolo con sgomento: - Non puoi chiedermi questo... quando sono diventata Cavaliere ho giurato su questa spada che... -
- Proprio per questo devi brandirla adesso per eseguire gli ordini di sua maestà. -
Calò un silenzio gelido e saturo di tensione. Si misurarono con lo sguardo per alcuni interminabili secondi, senza dire una parola. 
Airis si sentì disorientata. Sebbene le sue membra tremassero, non era la paura la causa. Provava rabbia, disprezzo, turbamento, incredulità, ma era lucida e vigile. Inspirò profondamente e scrutò Felther negli occhi, alla disperata ricerca di quella luce familiare che aveva imparato a conoscere. Tuttavia, il sorriso di circostanza del Generale non era altro che l'imitazione di un gesto che in passato trasmetteva benessere e infondeva coraggio. Quello non era più Felther, ma una copia venuta male. Realizzò che il suo amico era morto quel giorno a Llanowar e la speranza di farlo ragionare scemò del tutto.
Strappò la propria arma dalle mani del soldato e serrò le dita attorno all'elsa. Il viso dell'uomo si indurì e grugnì un'imprecazione.
- Non ho intenzione di ascoltarti ancora. Io sono e rimango un Cavaliere. Ho rinnegato la retta via già una volta, non accadrà di nuovo. Ecco cosa farò: me ne andrò oggi stesso e porterò con me i cittadini di Luthien, senza che tu o i tuoi burattini mi ostacoliate. - scandì in un sibilo furente, trattenendosi a fatica dal trafiggerli il cuore con la spada, che pareva vibrasse nella sua mano, assetata del sangue del Cavaliere del Drago. 
Strinse le labbra, lo incenerì con lo sguardo e gli diede le spalle.
- Stai commettendo un errore, Airis. La regina ed io confidavamo nel tuo buonsenso, ma a quanto pare ci siamo sbagliati. - sospirò Felther, suonando dispiaciuto.
Improvvisamente, due soldati non-morti irruppero nella tenda e, prima ancora che Airis potesse capire cosa stava succedendo, una mano le torse violentemente il polso, facendole perdere la presa sulla spada e costringendola in ginocchio. L'osso del braccio si spezzò con uno schiocco sordo e una scarica di dolore lancinante, atroce e pressoché insopportabile, la intontì. La vista si offuscò e dalle sue labbra proruppe un gemito sofferente e un grido strozzato. Tentò di non urlare, per quanto lo desiderasse sin nelle viscere, per non dare a Felther la soddisfazione di sentirla guaire come un cane. Si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, ma una lacrima sfuggì dalle ciglia e rotolò su una guancia. Cercò di liberarsi da quella stretta d'acciaio che le bloccava il braccio, ma sentì le forze venirle meno. 
Avrebbe dovuto ascoltare Fenrir e non fare di testa propria come al solito. Non era ancora guarita del tutto dalle ferite provocate dall'esplosione, avrebbe dovuto avere più cura di se stessa.
Avrebbe dovuto ascoltare Baldur e prendere sul serio i suoi avvertimenti, non accusarlo di parlare a vanvera.
Era stata una sciocca.
- Noto con grande rammarico che le ossa non si sono rinsaldate del tutto. -
Felther si inginocchiò, le sollevò il mento con un dito e le osservò il viso da più angolazioni. Dopodiché impugnò la spada di Airis e posò la lama poco sotto il seno. La guerriera guardò prima lui e poi la berdica che la seconda guardia le puntava alla gola. I suoi occhi guizzarono, mentre il cervello elaborava rapidamente un piano di fuga, ma un calcio in mezzo alle costole le mozzò il fiato e vanificò ogni sforzo di pensare. Si rannicchiò e tentò di proteggersi con il braccio sano, anche se sapeva di non avere possibilità in quelle condizioni. 
- Hai intenzione di uccidermi? - biascicò con voce rotta.
- Per ora no, non posso, ma ti farò desiderare la morte. Implorerai il perdono della regina, rimpiangerai la tua arroganza e ti prostrerai ai suoi piedi. E lei, a quel punto, esaudendo le tue preghiere come solo una dea misericordiosa può fare, strapperà via la vita da questo guscio marcio che ti ostini a chiamare 'corpo'. Ricorda, Airis: è solo grazie alla sua magia che ti sei mantenuta così, giovane e bella. Non dimenticare che in realtà sei solo un mucchio d'ossa e brandelli di carne che cammina, una creatura immonda e demoniaca che si nutre del sangue dei viventi. -
In risposta, la guerriera gli sputò in faccia. Felther rimase impassibile, si asciugò la guancia col dorso della mano e infine sorrise freddo, fissandola come un boia fissa la sua vittima.
- Hai segnato il tuo destino, Cavaliere del Lupo. Forse ora ti dispiacerà per tutti gli altri, che pagheranno al tuo posto. - proferì calmo, scrollando le spalle e rinnovando il sorriso.
Pochi secondi più tardi, un coro di grida disperate si levò nell'aria.

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Capitolo 29
*** Il Mio Destino ***


28

Il Mio Destino

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche
 

Il vento soffiava dalle montagne, portando con sé un'aria gelida. Nuvole nere avevano oscurato il cielo, coprendo il tiepido sole primaverile sospeso al di sopra del bosco. Le ombre dei rami che si erano allungate sul terreno avevano fatto sprofondare la foresta nella penombra, costringendo Baldur a rallentare l'andatura e a prestare attenzione a dove metteva i piedi. Da lontano udì il ruggito di un tuono e una leggera pioggerellina cominciò a bagnare la terra. Di tanto in tanto la luce evanescente dei fulmini gettava bagliori sinistri attraverso la fitta vegetazione. Il nano grugnì qualcosa tra i denti quando una grossa goccia d'acqua gli colpì il naso, ma non si fermò. Aveva fretta, molta fretta. Dopo qualche minuto giunse ad un bivio, dominato dall'imponente presenza di un antico ontano che divideva il sentiero a metà. Senza arrestare il passo si girò a guardare la strada che aveva percorso per sincerarsi di non essere seguito, poi svoltò a destra. 
Nei giorni precedenti, con la scusa di andare a cercare erbe per Airis, aveva avuto modo di esplorare la zona e battere i vari sentieri che, un tempo, conducevano a Luthien. Non ci era voluto molto, grazie soprattutto all'aiuto di Raiza, che, non senza un buona dose di fastidio e indolenza, aveva perlustrato il bosco in lungo e in largo. 
L'ennesimo lampo squarciò il cielo, illuminando il sentiero davanti a lui. Un'ombra passò silenziosa sulla sua testa e il gracchiare di un corvo gli graffiò le orecchie. Il vento ululò più forte e nel cielo plumbeo risuonò il fragore di un altro tuono. Istintivamente, Baldur portò la mano all'ascia appesa alla cintola e, nonostante la fanghiglia che gli impediva di marciare spedito, continuò a camminare fino a quando la foresta non si diradò, diventando solo una piccola striscia di prato. A poca distanza il grande lupo se ne stava seduto sulle zampe posteriori a osservare le macerie di Luthien. Il nano avanzò ancora, lo sguardo fisso sullo spettacolo atroce che si estendeva sotto di loro. 
Ricordava di aver scorto Airis su quella stessa altura il giorno in cui erano giunti in prossimità di Luthien. L'aveva osservata da lontano per non più di un minuto, l'aveva vista cadere in ginocchio con le spalle scosse dai tremiti e aveva pensato che, oltre ad aver loro mentito sulla sua identità, quella giovane guerriera fosse anche pazza, come tutti quelli della sua specie. Forte delle sue convinzioni sugli umani, aveva liquidato l'accaduto e lo aveva accantonato con noncuranza in un angolo del cervello, ma, ora che di fronte ai suoi occhi si stagliavano solo un grumo di terra bruciata e case distrutte, si chiese se Airis non avesse previsto in anticipo la tragedia che si sarebbe abbattuta sulla città. Sapeva che i Veggenti, persone capaci di predire il futuro, erano più unici che rari e che tra gli umani solo pochissimi nel corso della storia avevano manifestato questo dono, ma non credeva che anche lei fosse una di loro. Ripensandoci col senno di poi, c'erano ancora molte cose di quella strana ragazza che non era riuscito a capire. 
Sbuffò, ripromettendosi di prestare maggiore attenzione, e incrociò gli occhi eterocromi di Raiza. 
- Allora? Ci hai parlato? - esordì il lupo.
Baldur annuì: - Sì, ma non sono riuscito a convincerla. Sai, le solite cose da Cavalieri. -
- Cose che un mercenario tiene in gran conto, scommetto. - borbottò ironico.
Il nano si limitò a scrollare debolmente il capo, senza replicare. Aveva trascorso la sua esistenza vivendo e combattendo per cause altrui e, per quelli come lui, nessuno si era mai preso la briga di stilare un codice d'onore. 
- Beh, in ogni caso dobbiamo portarla via da qui, assieme alla donna e ai bambini. - 
- Quella Airis non è stupida come credi. Sarà anche umana, ma non dimenticare che prima di tutto è un Generale: sa benissimo che non si può salvare la vita di tutti. Sarebbe sciocco anche solo pensarlo. -
- Nel caso non ragionasse, si può sempre ricorrere alla forza bruta. Ho parlato con Myria, Melwen e Zefiro e stasera verranno di sicuro. - fece un cenno alle sue spalle, - La radura si trova facilmente, basta proseguire per quattrocento passi dall'accampamento. Si defileranno prima dalla cena, quando la sorveglianza è meno ferrea. Non che le guardie siano particolarmente attente a pattugliare quelle quattro tende, ma è meglio essere prudenti. -
- Del Drow che mi dici? -
- Non me ne importa un fico secco di quell'orecchie a punta. -
Entrambi tacquero e la conversazione parve morire lì. La pioggia scendeva imperterrita, ma non sembrava voler aumentare d'intensità. Una folata di vento agitò gli alberi e il silenzio venne disturbato dal fruscio delle foglie e lo scricchiolio dei rami. 
- Perché non sei scappato? - la domanda di Raiza giunse inaspettata.
Dal tono neutro con cui era stata posta il nano capì che al lupo non interessava davvero la risposta, ma decise di farlo comunque: in fin dei conti, quel bestione gli stava simpatico.
- Diciamo che ci sono una serie di cose che non sopporto... - esitò, alla ricerca della parola giusta, - Per esempio, le morti inutili. -
- Stai forse dicendo di avere una sorta di etica professionale? -
- Chiamala come vuoi. Non sono né un Cavaliere né un paladino della giustizia, né mi è mai importato del benessere di qualcun altro al di fuori del mio, ma ci sono certe cose che mi mandano in bestia. -
Una scintilla di curiosità si accese in fondo alle iridi del lupo: - Quindi non sei un mercenario ignorante e senza scrupoli. -
Baldur stava per rispondergli a tono, quando nell'aria si levarono delle urla di terrore. Provenivano dall'accampamento. I due si scambiarono una rapida occhiata, poi il nano saltò in groppa a Raiza e affondò i talloni nei fianchi dell'animale, lanciandosi in una corsa sfrenata nel bosco, mentre la pioggia gli sferzava il viso. La terra sotto di loro era diventata una fanghiglia marrone e avanzare in mezzo agli alberi ben presto divenne difficile, ma entrambi sapevano che tagliare attraverso la boscaglia era la via più veloce, l'unica che avrebbero potuto percorrere per riuscire ad intervenire in tempo.
Un fulmine si abbatté su una quercia alla loro sinistra e il tronco esplose in mille schegge ardenti, ma Raiza ci sfrecciò accanto senza fermarsi. La mente di Baldur galoppava più veloce del lupo e, stavolta, afferrò e strinse l'ascia con forza, tenendosi alla pelliccia con una sola mano. 
- Dobbiamo trovare l'umana e i bambini! Più in fretta, Raiza, più in fretta! -
Altre grida, sibili di frecce e clangore di spade.
- Sto andando più veloce che posso! - ringhiò di rimando, affannato.
Il sentiero era scivoloso, perciò non poteva accelerare più di tanto, col rischio di cadere e perdere del tempo prezioso. Il respiro del lupo si fece concitato e il sudore sulla fronte di Baldur si mischiò alla pioggia. Avvertì il lupo rallentare, così gli piantò i talloni nei fianchi, spronandolo a proseguire.
Appena uscirono dal bosco, la prima cosa che li colpì fu l'odore del sangue, che inquinava l'aria come un miasma putrido, soffocante. Un lampo squarciò il cielo, illuminando per pochi istanti la scena raccapricciante stagliata innanzi a loro: gli ammassi neri a terra assunsero i contorni di corpi senza vita, mentre le ombre in movimento divennero sagome umane che fuggivano disperate. 
Raiza ululò e si gettò alla carica.
Una donna cadde a terra e annaspò nel tentativo di fuggire alle grinfie di un soldato. Baldur si raddrizzò, mulinò l'ascia e l'affondò nella mandibola dell'uomo con tutta la forza che aveva nel braccio. La lama spezzò le ossa con uno schianto, strappandogli metà cranio, ma il nano sapeva che un colpo del genere non era sufficiente. Aveva già intuito da qualche giorno che le guardie appostate nell'accampamento erano uguali a quelle che avevano attaccato Luthien e rammentava nitidamente quanto fosse difficile uccidere tali immonde creature. Anche perché erano già morte. Come si uccide qualcosa che è già morto? Inoltre, se, come pensava, era quell'Eigor Felther a comandarle, la situazione si prospettava ancora più complicata.
Il suo avversario barcollò per alcuni secondi, poi recuperò l'equilibrio, fissò i suoi occhi lattiginosi in quelli di Baldur e gli si gettò addosso senza emettere un fiato. La luce di un lampo si rifletté sulla corsesca che aveva in mano, ma Raiza arretrò prontamente, scartò di lato e gli si scagliò contro ringhiando, ancorandolo a terra con le possenti zampe e dilaniandogli la trachea.
- Basta! Non possiamo permetterci di perdere tempo! - esclamò il nano.
Il lupo ringhiò di nuovo, ma mollò la presa, mentre la donna che avevano salvato spariva nell'oscurità. Dopo qualche istante le sue urla attraversarono l'aria, ma il fragore di un tuono fece in modo che nessuno riuscisse a udirle. 
A pochi passi da Baldur e Raiza un uomo inciampò nella corsa e andò a sbattere violentemente con la faccia sui sassi posti intorno a un falò. Il corpo cadde su un'otre, mandandolo in pezzi, e subito l'acqua che ne fuoriuscì si colorò di rosso. Un altro provò a seminare il soldato che lo inseguiva, parve farcela, ma non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che una lancia sbucò da dietro una tenda e lo trafisse da parte a parte. Poco più in là un soldato nemico sfracellò la testa di una donna a colpi di martello. Nascosta sotto il corpo sventrato della madre, una bambina non riuscì a trattenere un singulto. Il non-morto estrasse un pugnale dalla cintola, le artigliò il collo e la sollevò all'altezza del suo viso. La piccola gridò, poi la lama penetrò nella sua gola e le sue preghiere annegarono nel sangue.
Senza fermarsi, Baldur si fece largo a colpi di ascia, saettando lo sguardo di qua e di là. Chiamò continuamente il nome dei suoi compagni di viaggio, ma in risposta ricevette solo altre urla e altri gemiti disperati. Erano arrivati troppo tardi. Imprecò a denti stretti. Con la coda dell'occhio colse un movimento alla sua destra e recise il braccio di una guardia, che stava per infilzarlo con la spada. Raiza snudò le zanne e gli sferrò una zampata, che lo scaraventò a più di trenta passi di distanza.
- Non possiamo continuare così. Cerchiamo Airis e i suoi amici e portiamoli via! - ansimò il nano.
Non appena finì la frase, il lupo si scansò giusto un attimo prima di venire colpito dalla lancia di un nemico. Baldur torse il busto e riuscì a deviare all'ultimo la traiettoria della lama. La punta della lancia sfrigolò contro il metallo dello spallaccio, ma a quel punto il soldato rimase scoperto. Il nano ne approfittò. Si udì il sibilo dell'ascia, veloce, letale. Il ferro affondò nelle carni marce della creatura, poi con notevole rapidità trafisse di nuovo e questa volta gli staccò la testa dal corpo.
“Se andiamo avanti così, moriremo tutti. Sono troppi e gli unici che possono combattere siamo io e Raiza. Airis non si regge in piedi e Fenrir... bah... a proposito, dov'è finito?” 
- Muoviamoci, Raiza! Prima ho visto Airis dirigersi verso la tenda di Felther, forse è ancora lì. -
Il Lycos accennò un ringhio di protesta, ma un altro non-morto li caricò da sinistra. Baldur spronò il lupo contro l'avversario e con un fendente preciso gli aprì uno squarcio perfetto sulla gola. La testa si inclinò pericolosamente di lato, rimanendo attaccata al collo solo per un minuscolo lembo di pelle, mentre il sangue zampillava sul manto dell'animale in corsa.
- Tu sei pazzo, nano. Sono tutti morti, dobbiamo andarcene. -
- No, possiamo fare ancora qualcosa. - un sorriso sprezzante balenò sotto la sua folta barba, - Se è davvero quel maledetto Felther a comandare questi esseri, allora basterà eliminarlo per metterli fuori gioco. -
Raiza compì un balzo, superando due soldati e travolgendone un altro.
- Ne sei sicuro? -
- Sì. -
Abbatté un altro non-morto e, immediatamente dietro di lui, riconobbe la tenda del Cavaliere del Drago. Se aveva ragione, sarebbe bastato tagliare la testa a quel figlio di puttana per fermare quel massacro, ma doveva fare in fretta. Lanciò un'occhiata alle sue spalle e vide un manipolo di uomini che combattevano contro i alcuni soldati nemici, armati di spade, bastoni e archi rubati ai cadaveri. Valutò di avere meno di una decina di minuti prima che quelle creature li facessero fuori e accorressero a dare man forte al loro capo. Spronò il lupo e insieme irruppero nella tenda.

Airis non si rese conto del loro arrivo, troppo intontita dalle percosse. Era a terra, le braccia legate dietro la schiena, e il dolore che ancora le formicolava negli arti le indeboliva i sensi. Con quel poco di lucidità che le era rimasta, scorse la propria casacca di tela imbrattata di sangue. Avvertiva un sapore ferroso in gola e l'odore del vomito sui capelli. Felther l'aveva resa innocua per assicurarsi che non gli mettesse i bastoni tra le ruote e lo aveva fatto nell'unico modo che sapeva l'avrebbe immobilizzata per un po'.
Non riusciva a pensare o mettere ordine nel caos di suoni e voci che le sue percezioni distorte captavano. Lottò per rimanere cosciente, supplicando il suo corpo di alzarsi e combattere per quelle persone che là fuori stavano morendo per la seconda volta in poco tempo, ma ogni sforzo risultò vano. I suoi occhi divennero ciechi, le sue orecchie si riempirono di un fastidioso e incessante ronzio e nella sua testa vorticarono silenziose accuse contro se stessa e la propria ingenuità. 
Si stupì non poco quando, ad un tratto, udì il clangore del metallo vicinissimo a lei. Aprì piano le palpebre e, attraverso la nebbia che le offuscava la vista, intravide il baluginio dell'acciaio e il riverbero del fuoco delle torce sulla lama di due diverse armi. Provò goffamente a strisciare verso la sua spada, desiderosa di partecipare alla battaglia e rendersi utile, poi rammentò di avere le mani legate da spesse corde che le ferivano i polsi. Le piaghe bruciavano e lo stretto nodo le ostruiva la circolazione del sangue, facendole perdere la sensibilità alle dita. Un tonfo la fece sobbalzare. Seguirono altri rumori di lotta e dei gemiti sommessi. Poi delle gocce calde le schizzarono sulle guance. A quel contatto la sua coscienza parve risvegliarsi e finalmente fu in grado di definire le forme dell'ambiente che la circondava.
- Per gli Avi! Gli hai sbranato la faccia, eppure questi cosi continuano a muoversi! Ma che razza di... -
- Non importa, dobbiamo andarcene subito! -
“Baldur? Raiza?” 
Cosa ci facevano lì? Dov'erano i bambini e Myria? Dovevano aiutarli a scappare, altrimenti li avrebbero uccisi. Sentì le corde venire tagliate e le sue braccia caddero lungo i fianchi. Qualcosa di umido le sfiorò la fronte e quando alzò lo sguardo si scontrò con il muso peloso di Raiza.
- È sveglia, ma non so quanto sia cosciente. Svelto, caricala sulla mia groppa. -
Airis tentò di parlare, ma appena venne sollevata vomitò di nuovo, probabilmente addosso a Baldur, a giudicare dalle imprecazioni colorite che le giunsero alle orecchie.
- Maledizione, ha un taglio profondo sulla testa! Non so se sopravviverà... -
- Muoviti, nano, non abbiamo tempo! -
Baldur la caricò malamente sulla groppa del Lycos, impedito nei movimenti a causa della bassa statura. La gamba e il braccio sinistro di Airis sbatterono contro la terra e una nuova ondata di dolore le fece contrarre le viscere. In quell'istante ricordò di quando Felther le aveva fracassato il femore con un calcio. Evidentemente, con i colpi successivi, si era premurato di metterle fuori uso anche l'altro braccio. Avrebbe voluto urlare, ma non lo fece, seppur consapevole che avrebbe potuto darle sollievo. Boccheggiava, cercando di respirare, anche se le faceva male sentire i polmoni riempirsi d'aria.
Baldur si arrampicò sul pelo di Raiza e prese posto davanti a lei, agguantandola per la casacca per evitare che cadesse. Poi il lupo sfrecciò all'esterno e cominciò a correre. 
Il vento le sferzò la faccia e subito i rumori della battaglia divennero reali, assieme alle preghiere e alle grida di terrore degli uomini che ancora combattevano. 
- Resisti, Airis, non mollare. -
- Myria, i bambini... almeno loro... -
- Saranno già morti. -
- No... devo... e Felther, lui... -
- Non so. Io l'ho decapitato, spero solo che ci resti e non faccia scherzi. -
Raiza scartò bruscamente a destra. Il corpo della guerriera scivolò, ma il nano riuscì a trattenerla.
- Per favore... devo... aiutarli... -
- Non puoi fare più niente! -
Quelle parole le fecero male. Sapeva di non poter chiedere né a Raiza né a Baldur di cercarli, sarebbe stato un suicidio anche solo pensare di tornare indietro, eppure non riusciva a darsi pace. Il dolore arrivava a scariche alterne e le artigliava le membra con rabbia, irradiandosi fino agli occhi, ma la stanchezza e i rimpianti erano più forti di ogni cosa. Così dalla memoria riemersero i sensi di colpa, la consapevolezza di aver condannato tutti quanti nel momento stesso in cui aveva fatto il suo ingresso nella tenda di Felther. Si era fidata, sorda ai consigli e al proprio istinto, e quello era stato il risultato.
Chiuse gli occhi e una lacrima le rigò la guancia. Perse la cognizione dello spazio e del tempo, assieme a tutto quello che avrebbe potuto tenerla sveglia, e cadde in una specie di dormiveglia, cullata dal dondolio frenetico di Raiza mentre correva. La mente tornò a quel giorno di tanti anni prima quando era rimasta appoggiata a quell'enorme roccia nella pianura di Llanowar, attendendo che la morte venisse a prenderla. Ma, quando stava per chiudere gli occhi, aveva sentito ferita sul petto chiudersi e nelle orecchie era risuonata la voce suadente delle Lich. Forse tutto quel dolore era il fardello che doveva portare per non essersi abbandonata ad essa quando ne aveva l'occasione.
Udì il gracchiare di uno stormo di corvi e nell'aria satura del fetore del sangue i loro aspri richiami risuonarono come un macabro canto. Aveva la lingua gonfia e sentiva freddo, il corpo intirizzito e sudato. Il terreno si muoveva sotto di lei e la sua testa ciondolava da una parte all'altra in risposta alle potenti falcate dell'animale. Le sembrò di aver già vissuto un'esperienza simile, di aver già cavalcato insieme a qualcuno non molto tempo prima. Ma con chi?
Riaprì piano gli occhi e vide l'erba piegarsi sotto le enormi zampe di Raiza.
- Ledah... - soffiò, ormai allo stremo.
Non appena pronunciò quel nome, la memoria fece un balzo indietro, riportandola a quel giorno, quando l'elfo l'aveva sorpresa sulla collina mentre guardava, impotente, il massacro che si stava compiendo a valle.

- Anche se in teoria dovremmo essere nemici e non dovrei preoccuparmi di cosa ti frulla nel cervello, penso di aver capito perché hai scelto di diventare ciò che sei. Tu combatti perché credi che a tutti debba essere donata la possibilità di vivere la propria vita; combatti affinché nessuno venga più ridotto in schiavitù e per costruire un futuro migliore; combatti perché ami Esperya e i suoi abitanti con tutta te stessa. Sei il braccio della giustizia e, come me, sai cosa significa veder morire i propri compagni senza poter fare nulla. Non ci è estraneo il senso di impotenza, l'oppressione e la tristezza. Entrambi le abbiamo sperimentate, ma siamo sopravvissuti. Tu lotti con la consapevolezza che la guerra è orribile, non un gioco da cui trarre profitto, ma sai pure che senza di essa a volte è impossibile difendere chi ci è caro. So che ti sembra di non avere più niente da perdere, ma ti prego, Airis, combatti. Combatti per Copernico, per Melwen, per Mirya. Se non vuoi sguainare la spada per te stessa, fallo per loro. -

Una rinnovata grinta si fece strada in lei: era caduta, ma doveva rialzarsi per lui, per Melwen e per tutti coloro che erano morti. Era il suo compito, la strada che aveva scelto e che si era ripromessa di non abbandonare mai più.
“Sono un Cavaliere.”
Però, per quanto si ostinasse a mantenere gli occhi aperti, scivolò nuovamente nel dormiveglia, troppo spossata per opporsi all'oblio.
All'improvviso, vagando tra la fitta coltre di nebbia che la circondava, scorse il viso di Ledah, o così le parve. Man mano che si avvicinava, la figura dell'elfo emerse dalla foschia e le venne incontro. Era vestito come il giorno in cui avevano ballato, durante la festa del raccolto in onore di Seleneide, con quella tunica di lana grezza che le aveva solleticato il naso quando si era appoggiata al suo petto. Lui le cinse i fianchi dolcemente e l'attirò a sé, come quella volta, coinvolgendola in una danza lenta e un po' goffa. Airis scrutò gli occhi color muschio che tanto le erano mancati, ma non poté vedere il resto del suo volto, poiché Ledah indossava la maschera. Credette di star rivivendo quel ricordo, ma poi, prima di riuscire ad elaborare le intenzioni dell'elfo, egli si chinò a baciarla. Posò le labbra sulle sue in un tocco timido e gentile, accarezzandole la schiena con una delicatezza di cui Airis non lo avrebbe mai detto capace. Ricambiò senza vergogna, per una volta libera da qualsiasi preoccupazione, pregiudizio o pensiero. Il calore della sua lingua le sembrò così vero, come la morbida consistenza delle labbra e il tepore del suo respiro, tanto che si chiese se non fosse quella la realtà e il mondo dilaniato dalla guerra, dalla morte e dall'odio solo un incubo partorito dalla sua mente. 
Poco più tardi, impossibile stabilire quanto, si ritrovò con la bocca piena di sangue denso e viscoso e il corpo morto dell'elfo che giaceva riverso ai suoi piedi, con il cranio spaccato in due, mentre intorno a loro infuriava la battaglia. Airis urlò terrorizzata e cadde in ginocchio scossa dal pianto, stringendolo forte a sé e accarezzandogli il viso con mani tremanti. Gli occhi verdi erano vitrei e fissi nel nulla, ma riflettevano ancora un'espressione terribile.
Gli eventi di quegli ultimi giorni si mescolarono, sovrapponendosi gli uni sugli altri, e la mandarono in confusione. In quell'opprimente oscurità Airis era sola, circondata dalle grida dei vivi e dai volti deformi dei morti. Li osservò a lungo, le labbra bagnate della linfa vitale dell'unico uomo che era mai contato qualcosa per lei, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo. Allora, di fronte a tutta quella disperazione, la sua coscienza ruggì e la sofferenza, il disprezzo e la rassegnazione che le opprimevano il torace evaporarono, cedendo il posto alle parole dell'elfo: non avrebbe più permesso che accadesse.
Era ancora avvolta dalle nebbie, quando a un certo punto non sentì più il calore familiare di Raiza sulla pelle. Non capì cosa stesse succedendo, finché la voce spaventata di Baldur non le trafisse le orecchie. Airis spalancò gli occhi per vedere la zampa del Lycos che slittava sul terreno fangoso e la mano che il nano le tendeva farsi sempre più piccola, mentre il suo corpo precipitava in un profondo crepaccio. Al primo impatto con la roccia il dolore l'accecò e l'oscurità e il gelo l'avvolsero in un sudario soffocante. Da lontano udì gli improperi del nano e poco dopo perse i sensi.
Non seppe quanto tempo era passato quando il suo cervello riprese a funzionare. Socchiuse appena le palpebre e notò che la gamba sinistra era piegata in un angolo innaturale, sembrava più corta rispetto all'altra. Tentò di alzare il braccio, ma un grido le si strozzò in gola. Si sentiva compressa, inchiodata al suolo da un peso insopportabile, che solo in un secondo momento comprese essere il suo stesso corpo. Nell'aria aleggiava il tanfo del sangue, misto all'odore di legna bruciata, segno che non era poi tanto distante dall'accampamento come credeva.
Chiuse di nuovo gli occhi, ma dietro alle palpebre c'era un muro rosso, incandescente. 
- ...ris. -
Di chi era quella voce? La conosceva, ne era certa, ma cosa stava dicendo?
- Airis, svegliati. -
Una mano calda le sfiorò la guancia e bastò quel semplice contatto per strapparle un gemito sofferente. Poi da quei polpastrelli fluì un calore che le inondò presto le membra. Percepì le ossa rinsaldarsi sotto la pelle, spinte da quel tacito comando magico, assieme ai tessuti lesionati e alle ferite insanguinate. Solo quando l'ultimo taglio si fu richiuso, Airis ritrovò la forza di aprire gli occhi. 
Tuttavia, quando si apprestò a ringraziare il suo soccorritore la voce le morì in gola.
Lysandra era lì, sopra di lei, e la fissava con un ghigno soddisfatto. Indossava lo stesso abito nero dell'ultima volta che si erano incontrate, ma stavolta i capelli color cenere ricadevano languidamente sul seno. Un corvo dagli occhi rossi stava appoggiato sulla sua spalla e la osservava con indifferenza.
- Non mi ringrazi, mio dolce bocciolo? Sono venuta a salvarti. -
Airis sentì una profonda rabbia montarle dentro. Si tirò su di scatto e la trapassò con un'occhiata gelida.
- Oh, fai ancora l'insolente? Eppure credevo che la lezione dell'ultima volta ti avesse fatta tornare sulla retta via. -
La guerriera contrasse la mascella. La mano cercò la spada sul fianco, ma le dita ghermirono il vuoto. 
- Quegli occhi carichi d'odio mi sono mancati, sai? - le circondò gentilmente le guance con i palmi delle mani, si protese in avanti e posò la fronte su quella di Airis, sfoggiando un sorriso beffardo, - Credevo di averti piegata, ma tu continui a rimetterti in piedi. Per essere un semplice essere umano, hai una forza di volontà invidiabile. -
Airis le schiaffò via le mani e si allontanò, senza perdere il contatto visivo. Il Lich la fissò stupita e increspò le labbra in una smorfia di disappunto, ma poi batté le ciglia e riassunse l'aria compiaciuta.
- Dovrò punirti di nuovo, se continui così. Hai anche bisogno di sangue, perciò non fare la bambina capricciosa. -
- Non voglio più niente da te, mostro! - sibilò feroce.
- Sei diventata impudente, Airis. Hai davvero intenzione di sfidarmi? Non hai imparato nulla in questi anni? -
Si misurarono con lo sguardo per alcuni istanti. La giovane sapeva che il suo corpo esigeva il sangue del demone, lo capiva dal calore che le aveva prepotentemente invaso le viscere, ma stavolta non avrebbe ceduto.
- Dunque, vuoi continuare a giocare al valoroso soldatino? Non ti sei stufata? - 
Airis tacque e continuò tenere le labbra serrate, ma anche se avesse voluto rispondere il gesto che seguì le ultime parole di Lysandra la spiazzò completamente. Abbassò lo sguardo. Ai suoi piedi il demone aveva lanciato un pugnale di pregiata fattura, dalla lama rastremata e l'impugnatura di argento alchemico. Sull'elsa era incastonata una gemma rossa, che emanava bagliori sanguigni.
- Questo è il mio regalo per te. Coraggio, prendilo. -
La luce del sole baluginò sulla lama e la pietra brillò di nuovo, pulsando come se fosse stata di lava incandescente. Airis si sentì invadere da una strana inquietudine, ma si impegnò per non farlo notare, sforzandosi di rimanere impassibile.
- Ho ricevuto armi migliori di un semplice pugnale da cerimonia. - la sbeffeggiò.
Lysandra schioccò la lingua, scocciata.
- Ti sbagli, mia cara. Il mio regalo per te è una scelta. -
- Scelta? Aspetta... - guardò il pugnale e la consapevolezza di cosa fosse la paralizzò.
- Esatto. È la cosa che hai desiderato più di ogni altra in tutti questi anni. In quella pietra ho racchiuso una goccia del mio sangue. Se lo affonderai nel tuo cuore, morirai. E stavolta sarà per sempre. -
- C-cosa ti aspetti che faccia? Che mi ammazzi qui, davanti a te? Vuoi togliermi di mezzo spingendomi al suicidio? - domandò a raffica, sbigottita e spaventata.
La risata spietata di Lysandra vibrò nell'aria e una scintilla ferale rifulse in fondo alle iridi scarlatte.
- Oh, no, certo che no. In verità vorrei tanto sapere cosa tu ti aspetti da me. Credi che ti lascerò libera di fare quello che vuoi? - si avvicinò ancheggiando, sensuale come una tigre pronta a balzare sulla sua preda, - Che arriverò a nutrirti ogniqualvolta ti affaccerai alla soglia della follia? No, no, Airis cara. Ti sto solo dando la possibilità di scegliere come morirai. Che non si dica che non sono una regina magnanima. -
Con mani tremanti, la guerriera si chinò e raccolse il pugnale. Lo osservò incantata e, senza che se ne rendesse conto, le sue dita si strinsero attorno all'elsa. Era perfetta, sembrava fosse stata forgiata apposta per lei, affinché le desse il coraggio di soddisfare finalmente il suo desiderio. Sarebbe bastato poco, una pugnalata sotto il seno sinistro, proprio sopra la cicatrice, e tutto sarebbe finito: niente più dolore, niente più sensi di colpa. Sarebbe stata finalmente libera e, forse, avrebbe potuto correre per i campi dell'Elwing Telperiën assieme a suo padre. Ma con quale faccia si sarebbe mostrata a Kale, se avesse compiuto un gesto simile? 
La tentazione era forte e dentro di lei infuriava una battaglia tra i suoi ideali e la brama di libertà. Pietrificata davanti a un bivio, percepì appena la carezza di Lysandra sulla guancia.
- Non ti preoccupare di ciò che ti lascerai dietro, Airis, né di quello che troverai una volta passata oltre. Questo mondo non merita la tua pietà, ti sei già sacrificata abbastanza per gli uomini e l'unica cosa che hanno saputo fare è stata chiederti un tributo di sangue. Ti hanno strappata all'infanzia, ti hanno portato via la famiglia e infine la freschezza degli anni più belli: non hai mai portato le gonne lunghe, non ti sei mai agghindata per la festa della primavera, non ti sei mai sentita stringere da un uomo e non hai avuto la possibilità di accompagnare i tuoi genitori verso il tramonto della vita. Hai solo udito le storie dei bardi agli angoli delle strade quando marciavi in file serrate, con la celata dell'elmo abbassata e l'armatura del tuo Ordine che ti pesava addosso. - le soffiò all'orecchio, abbracciandola come una madre, - Questo mondo è marcio, Airis, non merita un Cavaliere come te. Sii egoista e muori, mio dolce bocciolo, e nella morte troverai finalmente la pace che tanto agogni. Te lo prometto. -
Lysandra fece un passo indietro e le diede le spalle per concederle la dovuta intimità. Il corvo, che era rimasto tranquillo sulla sua spalla fino a quel momento, gracchiò e spalancò le ali, alzandosi in volo.
- Ah, dimenticavo. - inclinò appena la testa, quel tanto che bastava per incrociare i loro sguardi, - Non ti preoccupare per Ledah. Mi prenderò io cura di lui. È mio figlio, d'altronde. - rise sommessamente e scrollò la chioma bionda.
Infine svanì in un turbine di piume nere.
Airis rimase immobile a lungo, il pugnale stretto tra le dita e la lama che rifletteva un viso terreo, attonito. Ripensò a tutto quello che aveva passato fin da quando era bambina e alla fine si convinse che sarebbe stata la via più facile, l'uscita sul retro che le avrebbe permesso di defilarsi senza incontrare gli occhi pieni di biasimo delle persone che avrebbe lasciato. La voce dolce della tentazione le sussurrò suadente all'orecchio e Airis le permise di parlare finché anche questa non si zittì da sola, inghiottita da uno spesso strato di silenzio.
Un singhiozzo la fece tremare, ma le lacrime rimasero nascoste dietro le ciglia. La mano che teneva il pugnale formicolava, mentre il il cuore batteva sempre più lentamente contro la cassa toracica: anche se non lo voleva ammettere, aveva già scelto, non aveva mai avuto bisogno di pensarci veramente. Accarezzò la gemma rossa con la punta delle dita, conscia che non sarebbe più potuta tornare indietro. Poi, senza esitazione, gettò l'arma a terra. Finalmente il groppo che le ostruiva la gola si sciolse e l'aria le riempì di nuovo i polmoni, regalandole una sensazione di leggerezza che da anni non provava.
Inspirò a fondo e abbozzò un sorriso, fiera di sé. Suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei.
In quel momento, un nome le balenò nella mente, assieme alle parole della strana ragazza che aveva incontrato in sogno, e avvertì nascere in sé una nuova determinazione. Alzò il capo, sfidando con lo sguardo le stelle e gli dei, e pronunciò quel nome.
- Cyril! Ho fatto la mia scelta! - urlò e il vento le fece turbinare i capelli come fiamme vive.
Ad un tratto, una luce l'avvolse e Airis serrò le palpebre, ma non ebbe paura perché sapeva che non c'era niente da temere. Quando riaprì gli occhi, davanti a lei c'era la ragazza con le orecchie alate che le sorrideva, immersa in un bianco infinito e accecante.
- Sono felice della tua tua decisione. Sapevo già dove si sarebbe diretto il tuo cuore, ma temevo comunque che avresti avuto paura. - si avvicinò e il vestito le accarezzò le gambe, agitato da un vento impercettibile.
- In effetti non è stato facile. - mormorò la guerriera.
- Pensi di aver compiuto la scelta sbagliata? -
Airis scosse la testa. 
- No. Lysandra mi ha offerto una via di fuga, ma se fossi scappata non mi sarei mai potuta definire veramente libera. Certo, la mia anima avrebbe lasciato questo mondo e io mi sarei sbarazzata del peso del mio passato, ma a che prezzo? Quello di abbandonare chi ha creduto in me? - sospirò e un sorriso sghembo le arcuò le labbra, - Non fraintendermi, non sono rimasta per diventare la Guardiana dell'umanità, come tu vorresti. Non ho più motivo di sacrificarmi ulteriormente, ma al contempo non posso tradire la fiducia delle persone a me care. Conoscendomi, avrei dei rimpianti anche da morta. -
La risata argentina di Cyril la stupì. 
- Scusa. - si portò una mano alla bocca, cercando di darsi un contegno, - E' che sapevo che lo avresti detto. -
La guerriera si accigliò, ma non fece commenti. 
- Comunque, immagino tu voglia delle spiegazioni. Cosa vuoi sapere? -
Airis raccolse le idee e si prese un secondo per pensare: - In quanto Guardiana, cosa ti aspetti che io faccia? Ovviamente non sto dicendo che lo diventerò. -
Cyril si fece improvvisamente seria. Alcune piume bianche danzarono attorno a lei, per poi adagiarsi delicatamente su quel pavimento di luce.
- Io ti posso indicare la via, ma spetta a te decidere se imboccarla o meno. Posso darti i mezzi, ma sarai tu a scegliere come avvalertene. -
- Cosa significa? Non capisco. -
- Come quando ci siamo incontrate la prima volta e ti ho detto che non potevo rivelarti nulla se non lo stretto necessario, anche adesso il mio consiglio non deve condizionare le tue decisioni. - si portò una mano al cuore e socchiuse appena le palpebre, - Non mi è concesso rivelare nulla ai Guardiani, il mio compito è solo quello di eleggerli e aiutarli nella loro impresa, affinché il destino segua il suo corso. -
- Ma se non mi dici cosa devo fare, come posso accettare di diventare una Guardiana? - la voce le uscì più rabbiosa di quello che avrebbe voluto, - Se il mio compito è quello di essere la mano sinistra di Yggrasill sulla terra, come posso difenderla se non so qual è il mio scopo? -
- Un Guardiano nasce quando l'umanità emette un grido di sofferenza o quando rischia di divorare se stessa. Coloro che voi chiamate eroi, quegli uomini di cui i bardi narrano le gesta, non sono altro che Guardiani che hanno combattuto di epoca in epoca contro l'oscurità. Arawan, Alcad, Therestia, Arisha e tutti gli altri che sono morti in silenzio sono stati scelti per difendere il Mondo Nato dal Nulla. -
Airis scosse la testa, confusa: - Therestia non è riuscita a salvare nessuno. Ha guidato l'esercito allo sbaraglio e ha perso contro Eryelew, condannando Esperya a un secolo di orrore e disperazione. Non prendermi in giro, persino i cantori più indulgenti non hanno altro che parole di biasimo nei suoi confronti. -
La ragazza alzò lo sguardo e rimase alcuni istanti in silenzio. Ad Airis parve di intravedere una lacrima incastrata nelle delicate ciglia argentee.
- A volte il disegno degli dei non è chiaro nemmeno a me. Quando il mio predecessore morì e su di me venne riscritta la storia del Mondo Nato dal Nulla, credevo di poter impedire che le disgrazie accadessero di nuovo, ma quando tentai di aiutare Therestia il futuro cambiò e gli eventi precipitarono nel modo che tutti conosciamo. La Guardiana ascoltò le mie indicazioni e i fiumi si tinsero di sangue innocente: ecco il prezzo della mia intromissione. -
- Non ti dovresti sentire in colpa per quello che è accaduto. - cercò di consolarla.
Cyril si rabbuiò e con un gesto affrettato si asciugò la lacrima che era rotolata sulla guancia: - Non provare pena per me, Airis. Con il passare dei secoli sono riuscita a curare le mie ferite e il dolore è diventato parte di me. Non mi sono abituata, non penso sia qualcosa a cui qualcuno possa abituarsi, ma assistere alla vittoria della luce sulle tenebre mi ha aiutata a superarlo.-
- Va bene. Ho più o meno afferrato cosa devo fare: il mio ruolo di Guardiana consiste nel fermare l'oscurità che sta per travolgere Esperya. Tu mi fornirai le armi e i consigli necessari per farlo, ma l'esito dipenderà completamente da me. -
L'altra annuì.
- Tuttavia, Lysandra rimane una minaccia reale e tangibile. Non appena uscirò di qui, lei capirà che sono ancora viva e mi darà la caccia. Inoltre... io non posso sopravvivere se non bevo il suo sangue. In quanto Risvegliata, se starò troppo tempo a digiuno la mia volontà comincerà a svanire, fino a quando... -
- Lo so. Se tu impugnassi Amarnwyn ora, probabilmente la spada divina non ti riconoscerebbe come Guardiana e ti ucciderebbe, poiché il suo potere consiste nel distruggere il Male. Per questo motivo devi morire. -
La guerriera strabuzzò gli occhi. Era arrivata a tanto così dal farlo dianzi e ora le veniva chiesto di togliersi la vita?
- So che sei confusa, ma è l'unica soluzione possibile. Non preoccuparti, io ti... - esitò, - restituirò la vita. -
- Ma? -
- Ma, come puoi ben immaginare, non sono una divinità. Nel mio corpo scorre un frammento del potere di Yggrasill, però non posso fare miracoli. Quello che farò sarà legare l'anima ad un guscio mortale, come quando un fabbro incide le rune sull'acciaio temprato e infonde nell'arma l'essenza della magia. Però, proprio come una lama col tempo si smussa e si incrina, allo stesso modo quel corpo non avrà vita lunga. -
Airis incrociò le braccia al petto e la scrutò con diffidenza: - Di quanto tempo parliamo? -
- Purtroppo non sono in grado di unire completamente il corpo al tuo spirito, quindi il guscio in cui vivrai sarà sempre più fragile e meno longevo del tuo corpo normale. Se te ne prenderai cura, esso potrà resistere abbastanza da permetterti di portare a termine la missione, ma se lo sottoporrai a uno sforzo troppo grande si indebolirà e il tempo a tua disposizione diminuirà. Nel migliore dei casi, potresti sopravvivere un anno. -
- E nel peggiore? -
Cyril guardò il vuoto sopra di loro: - Meglio che tu non lo sappia. -
- Immagino sia necessario che usi questa... Amarnwyn per combattere. -
- È l'arma che Yggrasill ha lasciato ai propri figli per combattere le tenebre. Senza di essa non potrai fronteggiare i nemici. È la profezia che lo narra. -
- La profezia? Di cosa parli? -
Cyril sorrise e recitò:

- Ammantato delle tenebre degli Abissi, 
il Protettore delle Profondità marcerà sul Mondo Nato dal Nulla, 
portando con sé la Stirpe forgiata dal suo stesso sangue. 
I Popoli prenderanno le armi e la Morte li divorerà.
Tempo di spade, vento di distruzione, fuoco e cenere,
s'infrangeranno scudi e si alzeranno grida.
Tempo di tempesta, tempo di gelo. 
Gemerà il suolo al tonfo dei cadaveri e il crepuscolo avvolgerà il Mondo al calar del centesimo inverno.
Sotto un unico stendardo, i Popoli leveranno le armi al cielo e riforgeranno i vincoli di sangue dimenticati.
Tempo di luce, vento di primavera, fuoco purificatore.
Splende, fulgida, Amarnwyn nella sinistra del Guardiano. -

La guerriera scavò nella memoria, cercando di far mente locale. Conosceva quella profezia, ma non ricordava dove l'aveva vista o sentita. All'improvviso rivide le parole vergate sulle pagine del vecchio diario di Haldamir e la rivelazione la colse alla sprovvista. Durante la lettura era stato uno dei pochi pezzi che aveva trovato interessanti, ma quando aveva letto che era solo una frammento di una pergamena che Haldamir aveva fedelmente trascritto, aveva liquidato la cosa senza pensarci. 
Incrociò lo sguardo di Cyril e gli occhi della ragazza si illuminarono.
- Era l'antica profezia che la Veggente aveva preannunciato poco prima che scoppiasse la guerra contro Aesir. All'epoca nessuno ci ha creduto, ma quando i Drow attaccarono Llanowar e uccisero Aasterian, Arawan accettò di diventare un Guardiano e le parole della Veggente si esaudirono. -
Airis si massaggiò le tempie, cercando di assimilare la montagna di informazioni che le erano state riversate addosso. 
- Puoi dirmi dove si trova la spada? - chiese infine.
Non era molto speranzosa che Cyril le rispondesse, quindi non riuscì a nascondere lo stupore quando la vide annuire.
- Quando ti sveglierai ti sarà tutto chiaro. Ma ricorda: hai meno di sei settimane. -
- In che senso? -
- Conosci i piani di Lysandra, sai che vuole riportare in vita Aesir e per farlo ha bisogno di una particolare congiunzione astrale, che avverrà appunto tra meno di sei settimane. Devi impedire che porti a termine il rito, altrimenti sarà troppo tardi. -
La guerriera imprecò a mezza voce. 
- C'è qualcos'altro di utile che mi puoi dire? - insisté. 
L'altra si limitò a sorriderle enigmatica.
- D'accordo. - sospirò Airis arresa, - Comunque, ho bisogno di un'arma. -
- Significa che accetti il ruolo di Guardiana? -
La giovane mugugnò imbronciata, ma annuì.
- Ah, menomale! Beh, per l'arma non ci sono problemi. -
Cyril disegnò un segno nel vuoto e l'aria si condensò in una nuvola bianca, che mutò fino a prendere la forma di un pugnale dalla lama rastremata, con una gemma rossa sull'elsa. Airis fissò allibita l'arma e poi fissò Cyril alla ricerca di una risposta.
- Per recidere il legame con Lysandra è l'unico modo. -
La ragazza glielo porse, avvolgendo poi le mani della guerriera in una stretta delicata e rassicurante. Le ali che aveva al posto delle orecchie le sfiorarono le spalle e le piume le solleticarono la pelle, strappandole un timido sorriso.
- Non avere paura, Caillean. Fallo e finalmente sarai libera. -
A sentirsi chiamare col suo vero nome, Airis ebbe un tuffo al cuore, ma non chiese come facesse a conoscerlo, non aveva importanza. Lentamente le dita di Cyril scivolarono via, ma il loro calore indugiò sul dorso delle mani della guerriera e scacciò via l'inquietudine che la vista del pugnale aveva risvegliato. Stringendo l'elsa con rinnovata determinazione, poggiò la punta sul petto, là dove sapeva esserci la cicatrice. Rivolse un'ultimo sguardo titubante alla ragazza alata, che le sorrise con affetto, come a suggerirle che sarebbe andato tutto bene. Airis deglutì e trasse un profondo respiro.
"Sono io la padrona del mio destino."
- Ho una sola condizione, Cyril. -
- Quale? -
Airis pensò a Myria, Zefiro, Melwen, Baldur e Fenrir e pregò che qualche divinità benevola vegliasse su di loro in sua assenza. Poi pensò a Ledah e sentì lo stomaco annodarsi dolorosamente. Avrebbe tanto voluto averlo accanto, compagno di avventure, gioie, tristezze, litigi e risate, dispensatore di saggezza e conforto, ma l'elfo era lontano, disperso chissà dove. Il bacio che aveva sognato riemerse dagli anfratti della sua mente e la scaldò dall'interno, donandole la forza che cercava. Era necessario, doveva farlo, nonostante l'anima si disperasse alla sola idea.
“Ledah, non mollare. Ti salverò, non permetterò a Lysandra di farti del male. Vivi fino al mio ritorno... vivi per me.”
- Voglio che i miei amici e tutte le persone che conosco pensino che io sia morta. Non voglio metterli in pericolo più di quanto abbia già fatto. Compirò questo viaggio da sola. - affermò decisa.
Cyril la scrutò in silenzio per qualche secondo, poi acconsentì: - Come desideri. -
In un attimo la lama penetrò nella carne, lacerando il tessuto della casacca e conficcandosi nel cuore.

 
 

Angolino Autrice.
Finalmente siamo giunti all'ultimo capitolo. Lo so, lo so, avevo detto che avrei concluso al 30esimo, ma, alla fine, ho pensato che non fosse necessario dividere questo capitolo. Avrei solo smorzato l'atmosfera e non avrebbe avuto senso.
Comunque, non ci credo nemmeno io di aver scritto la parola "fine". Certo, ci sarà un seguito e probabilmente revisionerò di nuovo la storia, ma questo viaggio durato quasi tre anni ormai è concluso e io mi sento... vuota. Non sono un'autrice buona, come avete potuto vedere nel corso della storia, non ho lesinato sofferenze e dolore a nessuno dei miei personaggi, ma durante la stesura di quest'ultimo capitolo, in alcuni pezzi ho avuto un groppo alla gola. Non tanto perchè mi sentissi in colpa ( non ho una coscienza, l'ho venduta su Ebay), ma perchè sapevo che mi avvicinavo sempre di più al finale. Anche ora che sto scrivendo questo angolo autrice, ho ancora le dita che mi tremano. Non ho mai avuto molto da dire alla fine dei capitoli, ho sempre preferito lasciar parlare i miei personaggi piuttosto che esprimermi direttamente in questi spazi, ma stavolta credo sia doveroso scrivere qualcosa di più dei soliti saluti.
Innanzitutto, volevo ringraziare tutti voi lettori, silenziosi e non. Ricevere i vostri pareri mi ha spesso strappato un sorriso e mi ha dato la forza di andare avanti. Forse esagererò, ma questo è quello che sento XD Spero che questo ultimo capitolo vi abbia soddisfatto.
Poi, volevo ringraziare alcune persone in particolare che mi sono state vicino durante tutta la stesura dello scritto.
Ringrazio mia sorella, la mia Lao Tong, perchè si è sorbita i miei deliri e i miei estratti mandati agli orari più improbabili. Ti ringrazio davvero, perchè di persone come te ce ne sono poche e io sono stata davvero fortunata ad incontrarti. Abbiamo condiviso tanti momenti brutti, belli, di pazzia assoluta, ma tra alti e bassi sei comunque rimasta sempre accanto a me, nonostante a volte fossi insopportabile e non mi meritassi tutte le tue attenzioni. Grazie, Giglio Bianco, grazie davvero di esserci e di esserci stata, di essere mia sorella e la " vecchia me stessa".
Ringrazio la mia beta, Lady1990, perchè senza di lei "Fuoco" non avrebbe questa forma. Hai reso aggraziata una storia che di grazia, sie nei modi in cui era scritta che nei contenuti, ne aveva ben poca. Con te sono cresciuta come autrice e sono riuscita a migliorarmi per davvero, seguendo i tuoi consigli che, spero, continuerai a darmi. Credo di avere ancora molto da imparare da te che sei e rimarrai una delle mie autrici di riferimento qui su EFP e, forse, anche fuori. E ora smettila di nasconderti in quell'angolino buio o tiro fuori i fari da stadio -.-
Ringrazio Aurelianus, Vy e Dest, tre amici con cui ho cominciato a scrivere un'altra storia e con cui ho condiviso tutta una serie di preoccupazioni. Grazie per tutte le discussioni in cui mi avete coinvolta, per le risate che mi avete strappato e per la vostra pazzia contagiosa. Siete degli ottimi amici e degli ottimi autori, smettetela di sminuirvi e spaccate il culo a chi ha qualcosa da ridire. Un giorno, pubblicheremo tutti, ne sono più che certa.
Infine, ringrazio la persona che mi è sempre stata vicino da dietro le quinte, che mi ha redarguito, guidato, sostenuto, raccolto le mie lacrime e dato la forza nei momenti più bui. Ti ringrazio per esserci, per far parte della mia piccola e scombinata famiglia e, anche se a volte mi sarei meritata un rimprovero più che una parola gentile, sappi che assieme a mia sorella, hai un posto di riguardo a casa mia e nel mio cuore. Ti amo e spero di poter camminare per sempre al tuo fianco.
E di nuovo, un ringraziemento a tutti i lettori vecchi e nuovi. Un grande abbraccio e alla prossima, con il seguito di Fuoco. Non so quanto tempo ci metterò a scriverlo, ma cercherò di continuare la storia di Ledah e Airis quanto prima. Spero che un giorno le loro avventure diventino libri, libri veri, con le parole vergate con l'inchiostro su fogli di carta profumati e farò di tutto perchè ciò accada.
Prima di lasciarvi, vi lascio i link dei disegni fatti da una bravissima autrice che ha rappresentato i miei eroi. Non potete immaginare la gioia quando li ho visti perchè, nella mia testa, sono esattamente così XD Spero vi piacciano.

 

Link alla pagina della disegnatrice per i crediti (merita davvero!): Elisa Serio ART

Venite a trovarmi anche sulla mia pagina di FB che ho una domanda da porvi! u.u
Hime-chan: Hime-chan

E ora arrivederci, stavolta, davvero.
Hime

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