Brezza di fuoco.

di drawandwrite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ryan Gray. ***
Capitolo 2: *** Dall'argilla alla pietra. ***
Capitolo 3: *** Nuovo studente alla Lumière. ***
Capitolo 4: *** Primo scontro. ***
Capitolo 5: *** Problema. ***
Capitolo 6: *** Sogno o Realtà? ***
Capitolo 7: *** Non finisce qui! ***
Capitolo 8: *** Sfida. ***
Capitolo 9: *** Amaro trionfo. ***
Capitolo 10: *** Terrore. ***
Capitolo 11: *** Lacrime ***
Capitolo 12: *** Angoscia. ***
Capitolo 13: *** Rinforzi. ***
Capitolo 14: *** Il piano. ***
Capitolo 15: *** Tentacoli. ***
Capitolo 16: *** Mira ***
Capitolo 17: *** Risveglio ***
Capitolo 18: *** Errore ***
Capitolo 19: *** Fuori posto. ***
Capitolo 20: *** Rabbia ***
Capitolo 21: *** Insofferenza. ***
Capitolo 22: *** Grazie. ***
Capitolo 23: *** Sotto la scrivania. ***
Capitolo 24: *** Portale. ***
Capitolo 25: *** Fuori controllo. ***
Capitolo 26: *** Sorriso. ***
Capitolo 27: *** Nozomi VS Ryan. ***
Capitolo 28: *** Soddisfazione. ***
Capitolo 29: *** Sconosciuta. ***
Capitolo 30: *** Passo avanti. ***
Capitolo 31: *** Odio. ***
Capitolo 32: *** Crollare. ***
Capitolo 33: *** Buongiorno. ***
Capitolo 34: *** Pareggiare i conti. ***
Capitolo 35: *** Nuove emozioni. ***
Capitolo 36: *** Nuovi misteri. ***
Capitolo 37: *** Speranza. ***
Capitolo 38: *** agire. ***
Capitolo 39: *** Milky Rose ***
Capitolo 40: *** Cure Aqua. ***
Capitolo 41: *** Cure Dream. ***
Capitolo 42: *** Cure Lemonade. ***
Capitolo 43: *** Cure Mint. ***
Capitolo 44: *** Perdere le speranze. ***
Capitolo 45: *** Cure Rouge & Ryan Gray. ***
Capitolo 46: *** vittoria, amicizie e amori. ***



Capitolo 1
*** Ryan Gray. ***


Ryan Gray si cacciò una mano in tasca, trascinando con pigrizia la sua valigia sull’acciottolato umido di una leggera pioggerella.
Era il termine dell’autunno, e una lieve nebbiolina lo avviluppava come un manto incorporeo e in continuo mutamento.
Ad ogni passo, Ryan lo disturbava, dissolvendolo in leggere volute eleganti di nebbia. L’aria era impregnata d’umidità e carica di acqua.
Mentre le rotelle del suo bagaglio producevano un ritmico frastuono nel silenzio mattutino, Ryan inspirò profondamente l’aria frizzante. Era ormai entrato in centro, e il sole lottava perché i suoi raggi perforassero i neri nuvoloni impigliati tra le montagne.
Il Giappone si stava lentamente svegliando:  Le finestre venivano spalancate, per far sì che l’aria fresca entrasse e desse il cambio a quella soffocante intrappolata nell’edificio da ore.
Si fermò per chiedere indicazioni un paio di volte, quindi riprese il suo cammino, questa volta tenendo mollemente fra l’indice e il pollice una cartina geografica del posto.
Stava aspettando che il semaforo si accendesse di verde, quando la vide.
Si librava sulle correnti d’aria, percorrendo invisibili percorsi lenti e armoniosi: una farfalla.
Ryan non ne aveva mai viste di simili. Le farfalle che lui era abituato a vedere erano ricoperte di colori sgargianti, di tonalità accese, allegre, che sfumavano continuamente in base alla luce.
Quella farfalla era incolore.
Quasi incorporea. Come se fosse composta d’aria.
Gli occhi di Ryan erano in grado di vedere attraverso le sottili ali traslucide. Al di là di esse, l’aria pareva tremolare. Inoltre, guardandola direttamente, non si era in grado di definirne con esattezza i contorni: appariva nientemeno che una leggera alterazione dell’aria, la quale si presentava come uno specchio d’acqua cui pelo era continuamente importunato.
Ryan inclinò il capo, scrutando con occhio curioso lo strano animale. In America non esistevano. Ma, per quanto Ryan riuscisse a dedurre, in Giappone era piuttosto comune: Nessuno, eccetto lui, si era voltato a guardare.
Un clacson impaziente lo trascinò alla realtà, il ragazzo trasalì e perse di vista l’animale bizzarro.
Il semaforo segnava verde per i pedoni e la calca che prima spalleggiava Ryan aveva ormai attraversato le strisce fino all’altra sponda.
Fecce un gesto di scuse agli automobilisti, poi si fiondò all’inseguimento della folla.
Era nel bel mezzo della strada quando, praticamente dal nulla, la farfalla riprese consistenza davanti ai suoi occhi. Tirava dritta, volava verso una meta ignorata da Ryan, tagliandogli la strada.
Gli avvenimenti si succedettero così improvvisamente, che nel cervello di Ryan non fece in tempo a formarsi nessuna azione.
Semplicemente travolse l’animale.
Eppure, fu come se non l’avesse fatto.
Nel momento in cui egli stabilì, seppur involontariamente, un contatto, quella sfumò, dissolvendosi come la nebbia della mattina.
 Ryan non percepì dolore, né percepì l’impatto contro un corpo, come sarebbe prevedibile pensare.
Avvertì solo  una leggerissima sensazione di freschezza nel petto. Sensazione che prese gradualmente vigore, seguendo un ritmo frenetico.
Inizialmente, il ragazzo ebbe l’impressione di avere il corpo attraversato da un filo argenteo. Si guardò alle spalle e individuò nuovamente la farfalla. Procedeva più rozzamente, quasi a fatica, e i suoi contorni si facevano sempre meno distinguibili. Perse quota, percorse ancora qualche centimetro in volo, poi svanì.
Lo sguardo di Ryan s’incrociò con due occhi blu cielo, sull’altro lato del marciapiede. Era una ragazza alta, composta, i capelli mossi di media lunghezza le incorniciavano il viso.
Lei vedeva la farfalla. O meglio: l’aveva vista.
Guardò Ryan, inarcando le sopracciglia, quindi si voltò e riprese il suo cammino.
Il ragazzo fece per richiamarla, ma il suo respiro non aveva voce.
La sensazione di freschezza si espanse, fino a catturargli gli arti, le spalle, il collo.
Immaginò di avere il corpo penetrato da parte a parte da innumerevole, minuscoli fori.
Il suo intero corpo respirava. L’aria non trovava ostacoli sul suo corpo.
La brezza gli passava attraverso.
Si sentì come una spugna sottile.
Ad un certo punto gli parve addirittura di perdere colore: le sue braccia sbiancarono, impallidendo.
Ryan si spaventò a morte.
Una folata di vento più forte gli congelò i muscoli, ma la freschezza che portò con sé gli inebriò i pensieri e la mente.
Iniziò a percepire i rumori ovattati. I contorni della sua vista si confusero in qualcosa di sfocato e impreciso.
Il gelo lo strinse in una morsa, il corpo fu scosso da brividi.
Si sentì cadere a terra, come un fazzoletto trasportato dal vento che si posa dopo un lungo viaggio.
L’impatto gli fece recuperare la consapevolezza delle proprie membra.
I clacson presero a suonare all’impazzata, segno  che il suo udito era tornato alla normalità.
Percepì delle mani calde come fuoco sulle spalle.
Qualcuno lo stava aiutando a rialzarsi.
 
NOTE: Rieccomi. È solo un’idea un po’ diversa dalle altre. Ancora non ho in mente l’intera storia, intanto mi interessa sapere cosa ne pensate di questo capitolo. Le recensioni sono ben’accette!

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Capitolo 2
*** Dall'argilla alla pietra. ***


 Nozomi rimase a fissare, con occhi grandi di curiosità, Rin caricarsi letteralmente lo sconosciuto su una spalla e scaraventarlo sul marciapiede, in modo che il traffico fluisse nuovamente senza ostacoli.
L’amica sbuffò con fare scocciato, scostando la sua bicicletta e quella di Nozomi.
-Si può sapere che diavolo avevi intenzione di fare?- Sbraitò Rin, una volta raggiunto il ragazzo, ancora giacente sul ciglio della strada, stordito e disorientato dal suo gesto poco garbato.
Nozomi, alzò le sopracciglia, rendendo più grandi, se possibile, gli occhi meravigliati.
Si puntò un dito alle labbra, le quali avevano preso ad aprirsi in un enorme sorriso allegro.
Lo sconosciuto non era affatto male: capelli decisamente chiari, di un biondo vacillante tra l’oro e il colore candido degli albini. Pelle chiara, sfiorante il bianco, occhi aperti e vigili, sebbene in quel momento rispecchiassero lo stato d’animo agitato, caratterizzati da un colore talmente limpido da risultare quasi incolore. Una gradazione più scura, che sfumava su un timido azzurro, delimitava i contorni dell’iride.
Lo vide lanciare uno sguardo confuso a Rin, in piedi, torreggiante su di lui, le mani sui fianchi e un’espressione da brividi.
-C-cosa?- Fu l’unica parola che il ragazzo si lasciò sfuggire, mentre teneva lo sguardo intimidito fisso su di lei.
Rin alzò gli occhi al cielo con espressione seccata. Senza una parola raggiunse le due biciclette, misurando il terreno a grandi passi.
-Muoviti, Nozomi. Siamo in ritardo- le urlò, per poi spegnere la sua voce in un borbottio poco comprensibile.
Di tutt’altra opinione, lei si avvicinò al ragazzo saltellando, un’espressione scaltra dipinta sul volto.
-E tu chi saresti? Non ti ho mai visto da questa parti!-
Esordì con voce squillante, iniziando a punzecchiare con l’indice la spalla dello sconosciuto.                                
Lui trasalì, fissando Nozomi con gli occhi sgranati, colmi di diffidenza mista ad un pizzico di timore.
-Nozomi!- Gridò Rin, furiosa.
Era già in sella alla sua bicicletta, e le fece un segno brusco col capo, indicandole insistentemente di darsi una mossa.
Lei scoppiò in una risata raggiante –Va bene, eccomi- Poi si rivolse allo sconosciuto –Sono Nozomi Yumehara, frequento il terzo anno della Lumière. Ci vediamo!- Così dicendo corse da Rin, inforcò la bicicletta e prese a pedalare.
 
Kokoda sbadigliò, riempiendosi gli occhi di lacrime pigre.
-Sono in ritardo- biascicò, crollando con il busto sul bancone della Natts House.
-Sono sempre in ritardo- precisò Natsu con voce pacata, seduto su una comoda sedia in legno, mentre sfogliava con interesse un libro spesso.
Komachi rise timidamente, anche lei impegnata in una notevole lettura. Al suo fianco Karen rimase impassibile, portandosi una tazza colma di tè alle labbra e sorseggiando silenziosamente.
Kurumi , accomodata di fronte alle due amiche, appoggiò la guancia sulla mano, chiusa a pugno, sostenendosi su un tavolino. Per l’ennesima volta, lanciò uno sguardo annoiato al suo orologio da polso, quindi soppresse un gemito di frustrazione.
-Ah, dannazione! Sono in ritardo di…-
La porta si spalancò di colpo, spezzando il piacevole silenzio della sala.
L’esile sagoma di Urara si stagliò contro il chiarore della luce.
-…15 minuti- esclamò la bionda, sforzandosi di prendere fiato tra un ansimo e l’altro.
Sorrise a Kurumi e si sedette pesantemente al suo fianco, rischiando di far traboccare il tè a Karen.
Teneva sulle ginocchia un sacchetto rosa con allegre decorazioni chiare. In prossimità del nodo che stringeva l’apertura, pendeva un cartellino dorato, sul quale si faceva strada una sfarzosa calligrafia corvina.
Diceva “DolceArte – Carpe Diem”
Urara alzò l’indice, assumendo improvvisamente un’espressione seria.
-Sono in ritardo, ve lo concedo. Ma ho speso i 15 minuti in pasticceria, e si da’ il caso che vi abbia portato un pensierino-
Così dicendo, prese a scartare il sacchetto, con un sibilo acuto e stropicciato.
Kurumi le fu subito addosso, saltando su come un cagnolino scodinzolante.
-Dolci?- esclamò, sporgendosi per sbirciare nel sacchetto.
Urara estrasse un pasticcino al cioccolato, con un sorrisetto furbo incorniciato dagli allegri codini dorati.
Nel medesimo momento, Nozomi fece irruzione nella stanza, il naso sporto verso le amiche, gli occhi chiusi.
-DOLCI?!?!?- trillò coprendo la distanza che la separava da Urara con un balzo energico.
Kurumi le lanciò un’occhiataccia di disapprovazione, scostandosi i capelli mossi dal collo con un gesto seccato.
-Insomma, Nozomi. Datti un po’ di contegno- disse, incrociando le braccia al petto.
Lei non le badò minimamente e si lanciò sul dolcetto, facendo traboccare del tutto il tè di Karen, la quale posò la tazza, esasperata.
Notando che il suo pasticcino era finito nelle mani sbagliate, Kurumi si catapultò su Nozomi, risoluta a riottenere la sua legittima proprietà.
Mentre le due bisticciavano con energia, confondendosi in un groviglio impreciso di gemiti striduli e imprecazioni, entrò Rin, chiudendosi la porta alle spalle e incrociando le braccia al petto.
Natsu alzò gli occhi dalle pagine sottili, riempiendosi gli occhi di quella scena bizzarra, quindi nascose un mezzo sorrisetto divertito dietro il libro.
Kokoda abbracciò con lo sguardo l’intera sala e i presenti, chi seduto, chi trascinato in una guerra al pasticcino, chi ancora in piedi. Respirò l’atmosfera spensierata che aleggiava nella sala e che sapeva di ricordi, dei tempi in cui i loro incontri erano dovuti principalmente per parlare delle strategie nemiche e di come avrebbero dovuto agire di fronte ad un eventuale pericolo.
Erano passati due anni dall’ultima battaglia intrapresa dalle Pretty Cure, eppure gli avvenimenti erano ancora vividi nella sua mente, come stampati con inchiostro fresco e indelebile.
Due anni. Pensò, perdendosi con lo sguardo.
Le ragazze erano cresciute. Col tempo i loro caratteri si erano temprati, definiti. Non erano più blocchi d’argilla fresca ancora malleabile, erano ormai opere d’arte di pietra grezza, asciutte e precisate nei minimi particolari. 
Persino Nozomi ,negli anni, aveva acquisito il senso della responsabilità, pur conservando quel pizzico di infantilità che…
Kokoda sospirò.
Be’ che la spingeva a fiondarsi su un pasticcino dopo averlo fiutato da almeno tre kilometri di distanza. Doveva ammettere, però, che il suo travolgente entusiasmo spesso lo trascinava in divertenti avventure, arrivando a coinvolgere addirittura l’intera compagnia.
Sorridendo, scosse il capo.
E Kurumi. Anche lei era germogliata come una regolare liceale, nonostante la sua reale forma non fosse quella umana. Frecciatine insidiose a parte, si era integrata nel gruppo senza troppi problemi, e , sebbene non l’avrebbe mai ammesso, voleva bene anche a Nozomi. Scoprendosi incredibilmente legata a Karen, ne aveva assimilato, involontariamente, alcune caratteristiche. Per esempio le buone maniere e il contegno sfiorante una fiera altezzosità.
Entrambe le caratteristiche facevano le valige davanti al pericolo della perdita di un dolce.
Spostò lo sguardo su Komachi, completamente intenta nella sua lettura, si estraniava dal mondo con una facilità impressionante. Divorava le pagine, lievemente traslucide, come Nozomi divorava il suo pasto. E non era da poco.
Quella ragazza si era sempre dimostrata straordinariamente pacata e pacifica. La sua voce raramente lasciava trapelare angoscia o nervosismo, per lo più si limitava a distendere i nervi di chi la ascoltava. Pareva morbida e frusciante come un fazzoletto di seta. Era un peccato che caratterialmente fosse introversa, timida e piuttosto silenziosa.
Con un cenno irritato, Karen fece tintinnare il cucchiaino contro il bordo della tazza, producendo un suono alto e cristallino. Quel poco di tè rimasto all’interno, s’increspò in cerchi concentrici.
L’eco strisciò sui muri della sala, fino ad espandersi nell’aria. Il silenzio calò, Kurumi e Nozomi si pietrificarono nelle loro pose da “battaglia al pasticcino”.
-Ragazze- intervenne, con un tono di voce calmo, venato di una leggera sfumatura nervosa –Basta così- Concluse, scandendo bene le sillabe.
Le due si sedettero ai lati si Urara, mirando al sacchetto posto sulle sue ginocchia.
Da sempre, Karen appariva circondata da un alone donante dignità e autorevolezza. Sedeva con la schiena ritta e rigida, le gambe strette o accavallate, le mani giacenti inermi al grembo. Il mento alto e le spalle dritte le donavano un’immagine composta e un’apparenza competente.
Nessuno metteva in dubbio le sue parole, o affrontava la sua immagine autoritaria contrastando le sue idee.
Nessuno, esclusa Rin.
Il ragazzo lasciò che il blu profondo dei suoi occhi navigasse per la stanza, incrociando lo sguardo duro di Rin.
Lei era cambiata. Forse più delle altre.
Le sue passioni persistevano, beninteso: Rin viveva per lo sport.
Paradossalmente, il suo corpo si rilassava solo quando pressato dal movimento continuo.
Quando il sudore imperlava la pelle, lei stava bene.
Quando i muscoli bruciavano come fuoco vivo, lei stava bene.
Quando il respiro si faceva corto, quando le membra tremavano sotto lo sforzo, quando l’energia si diffondeva nel suo corpo con un ritmo mozzafiato, lei stava bene.
Forse, però, era proprio quello il problema.
Rin stava bene solo con lo sport. Kokoda lo aveva dedotto dal suo comportamento: la ragazza perdeva gradualmente interesse alla sua vita al di là delle solide mura della palestra.
Analizzando i suoi ultimi test, in qualità di professore, egli aveva notato con preoccupazione la corsa a picco dei suoi voti. Tra l’altro, era venuto a conoscenza, tramite Nozomi, che qualcosa in famiglia non andava per il verso giusto.
Per queste ragioni, forse, il carattere della ragazza era andato sfumando in una scontrosità leggera ma persistente. Il suo atteggiamento si era inasprito e i suoi occhi avevano acquisito gradazioni ombrose, a volte inquietanti.
Fortunatamente le Pretty Cure erano un gruppo affiatato e inevitabilmente legato, le compagne aiutavano, pur inconsapevolmente, Rin a riportare i piedi a terra.
Una voce spezzò il filo dei suoi pensieri, e nel suo campo visivo entrò una sagoma scura dal pungente profumo dolce. Mise a fuoco.
Urara gli stava offrendo un pasticcino, porgendoglielo tanto vicino da fargli incrociare gli occhi.
Con un sorrisone luminoso gli disse di prenderlo, quindi si avviò verso Komachi, tentando invano di schivare le mani ingorde di Nozomi e Kurumi, le quali spazzolavano fin troppo rapidamente il contenuto del sacchetto.
Urara. La ragazzina dai codini buffi e dotata di volontà ferrea. Non aveva mai abbandonato, nemmeno per un secondo, la corsa al suo sogno.
Effettivamente, era divenuta notevolmente popolare. Appariva  spesso, ormai, nelle puntate dei telefilm, a volte solo come apparsa, a volte nei panni di personaggi incidenti nella storia. Una volta le era capitato di far parte di una pubblicità.
Motivi per cui Urara si poteva avvistare spesso seduta su una panchina, immersa nella tranquillità del parco, a ripassare il suo copione.
Bastò poco, e la scena riprese: Nozomi e Kurumi tornarono all’attacco, mentre Karen si sforzava di contenersi e tentava di tenerle a bada con il semplice tono della sua voce.
Nella confusione, il gomito di Kurumi urtò il libro che teneva aperto Komachi, facendolo cadere con un tonfo.
La ragazza si precipitò a recuperarlo, sfogliando disperatamente le pagine, in cerca dell’ultima letta.
Nozomi, invece, perse l’equilibrio e finì dritta tra le braccia di Rin, fortunatamente dotata di riflessi svelti.
Rin assestò una pacca secca sulla nuca di Nozomi, sghignazzando.
Kokoda sospirò, abbandonandosi nuovamente al bancone.
. La sala era colma di confusione allegria , e nulla sembrava voler troncare l’armoniosa intesa che legava le ragazze, come un filo impalpabile.
 
Come avrebbe fatto a dir loro che, nell’arco di un ristretto lasso di tempo, avrebbero dovuto sfoderare nuovamente le armi? 

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Capitolo 3
*** Nuovo studente alla Lumière. ***


Natsu lanciò uno sguardo eloquente a Kokoda. Dovevano aprire il discorso.
Erano obbligati ad informarle adesso dell’imminente pericolo, gravante sul Giappone come un’ombra cupa.
Kokoda decifrò al volo il muto messaggio, fece un cenno d’assenso e si costrinse ad assumere un’aria risoluta, nonostante si fosse insistentemente mostrato riluttante all’idea di forzare le Pretty Cure ad una nuova, pericolosa, battaglia.
-Ragazze- tuonò, con voce ferma.
I presenti tacquero e si voltarono immediatamente verso di lui, indirizzandogli occhiate curiose o sorprese.
Natsu chiuse il libro con un tonfo sordo.
Immediatamente un silenzio sgradevole calò nella sala, e Kokoda non riuscì a trattenere una smorfia abbattuta.
-Vi ho chiesto di trovarci qui ad un orario preciso perché c’è qualcosa su cui dobbiamo discutere- continuò, serio.
-Ed è bene che voi veniate informate- interloquì Natsu.
Karen corrugò la fronte –Sembra allarmante- disse, con voce tesa –di cosa si tratta?-
Kurumi abbassò lo sguardo all’istante, sul viso le calò un’ombra d’angoscia.
-Si tratta di quella?- chiese, con un filo di voce.
Kokoda la guardò, aggrottando le sopracciglia, poi scambiò uno sguardo enigmatico con Natsu.
-Di cosa state parlando?- intervenne Urara, con voce squillante –cosa intendi con quella?-
Kurumi la ignorò –Nemmeno io sono umana, ricordate? Sono in grado di percepirle-
Il discorso proseguì, suonando gradualmente più inspiegabile e insensato alle orecchie delle Pretty Cure.
-Insomma, potete cortesemente parlare la nostra lingua?- esplose Rin, d’un tratto.
Ci fu un attimo di silenzio.
-D’accordo- sospirò Kokoda, crollando su una poltrona-Sforzatevi di ricordare come assimilaste i vostri poteri da Pretty Cure-
Nozomi alzò una mano con entusiasmo, come se fosse tra i banchi di scuola, durante una lezione. L’unica differenza era che, di solito, sui banchi dormiva.
-io lo so!- esclamò con l’allegria che le vivacizzava i lineamenti .
-Una farfalla- rispose sottovoce Komachi, più rivolta a se stessa, che al resto della compagnia.
Nozomi emise un verso contrariato –Volevo dirlo io- borbottò, mettendo il broncio.
Kokoda annuì.
Altro attimo di silenzio.
-E allora?- fece Urara, spaesata.
-Il fatto è- cominciò Natsu –Che, negli ultimi giorni, abbiamo percepito la presenza di una nuova fonte di energia. Una nuova farfalla, per intenderci-
Negli occhi di Karen sfrecciò un balenio di comprensione. Natsu sapeva che ci sarebbe arrivata lei, per prima. Era la mente del gruppo, colei che riusciva a far funzionare gli ingranaggi, che ragionava rapidamente e con sangue freddo.
-Volete dire- mormorò –che sta per sorgere una nuova Pretty Cure?-
Nozomi per poco no si strangolò con un pasticcino. Le altre la guardarono con gli occhi sgranati e il respiro immobile nei polmoni.
-Esatto- confermò Kokoda –ma non è tutto-
Frugò per diversi minuti in un cassetto, quindi ne estrasse una foto, che posò sul bancone lucido.
Le ragazze si avvicinarono senza indugio, accalcandosi a coprire il poco spazio nei dintorni.
La foto rappresentava una ragazza mora, alta e slanciata, con la divisa della Lumière. Aveva gli occhi blu, dallo sguardo sveglio e quasi perforante, come se, anche attraverso la foto, riuscisse a leggere i pensieri di chi la guardasse. I capelli erano mossi in ricci confusi e sinuosi, che le avvolgevano il collo e le sfioravano le spalle.
Rin la riconobbe all’istante.
-Ehi, quella è la tizia di stamattina- esclamò avvicinandosi per vedere più agevolmente.
Nozomi aggrottò le sopracciglia –Ma Rin, quello di stamattina era un tizio-
L’amica le lanciò uno sguardo sarcastico –Non quello, idiota- rispose, in tono affettuoso.
Lei  palesò la sua incomprensione –E allora chi?-
Rin indicò il viso della ragazza in foto –Poco prima che il tizio svenisse nel bel mezzo della strada, questa ragazza camminava sul marciapiede, alla nostra sinistra-
-Ah, si?- Rispose Nozomi, perplessa.
-No, aspettate un attimo- intervenne Kokoda, confuso –Dove l’avete  vista?-
Rin prese fiato per rispondere, ma Karen la interruppe:
-Yumiko kate, del secondo anno- dichiarò
Gli altri si voltarono a guardarla,stupiti.
 –Conosco  quasi l’intera scuola- ricordò, compiaciuta. 
-Si, ogni tanto passa in biblioteca- riferì Komachi, portandosi una mano al mento –Ma lei cosa c’entra, in questa storia?-
A risponderle fu Natsu : –C’entra eccome. Pare che la fonte di energia stia seguendo proprio lei-
 
Era da qualche giorno, ormai, che Kurumi avvertiva una nuova energia. Era turbata, confusa e ancora non si fidava appieno delle sue capacità percettive. Il fatto che Kokoda e Natsu non avessero accennato a nulla, l’aveva indotta a lasciar perdere e convinta che non fosse altro che una sua tenue impressione.
Ma non era così.
Era quindi quella ragazza ad attirare il flusso di energia? Le sembrava piuttosto insolito, poiché la prima volta che l’aveva percepito, le era parso leggermente dispersivo, come se fosse davanti ad un bivio, indeciso sul da farsi.
-Dobbiamo rintracciarla- Disse, determinata –ha il diritto di sapere-
 
Rin non riusciva a capire.
Perché avrebbero dovuto?
In fondo, il male era già stato sconfitto.
Perché avrebbero dovuto accogliere una nuova Pretty Cure?
-Perché?- intervenne, esternando i suoi pensieri e le sue impressioni –Non ne abbiamo bisogno-
Si guadagnò una serie di occhiatacce, barcollanti tra l’incredulo e lo stizzito.
-Voglio dire- si affrettò a correggersi –la Nightmore Comany e l’Eternal sono sconfitte-
le rivolte in procinto di nascere furono troncate di netto. Nemmeno Karen trovò terreno fertile per seminare un ostacolo basato su riflessioni logiche.
Rin non aveva tutti i torti.
-Non c’è più un nemico da contrastare, non è così?- riprese lei, rivolgendosi a Kokoda.
Lo vide distogliere lo sguardo e tamburellare con l’indice sulla superficie del bancone, chiaro segno manifestante nervosismo.
Le sue compagne si voltarono, una a una, verso di lui, trattenendo il fiato, in attesa di una risposta.
Il ragazzo tentò di manipolare la risposta, girando attorno al punto per poi raggiungerlo cautamente, invece di toccarlo direttamente. Voleva che le ragazze ragionassero assieme a lui sulla situazione. Strategia che con Rin non funzionava. Lei voleva le risposte chiare, non nascoste dietro una fitta rete intrecciata da riflessioni misurate e patetiche menzogne “a fin di bene”.
-Rin, una fonte di energia non si mostra senza un preciso scopo, è probabile che…-
-Non è così?- ringhiò lei, sbattendo i palmi sul bancone e fissando con ferocia Kokoda.
 
Komachi avrebbe voluto dire a Rin di calmarsi. Rassicurarla e invitarla a sedere, come faceva sempre. Ma, questa volta, non se la sentiva di spezzare il silenzio inquieto che si innalzava nella sala, fra loro, Kokoda, Natsu e Kurumi, come un muro che li divideva. Inoltre il discorso la stava impensierendo, e l’ipotesi allarmante di un temibile nemico da battere necessitava di una risposta. Si limitò a posare una mano leggera sulla spalla tesa di Rin.
Ancora non riusciva a credere che Natsu le avesse nascosto un  informazione di tale peso. Passavano molto tempo insieme, a leggere. E il ragazzo la aiutava spesso nella scrittura del suo libro. Eppure, in tutto quel tempo, le era stata occultata abilmente e volutamente l’intera storia.
Le sue compagne le aveva ripetuto più volte che la sua personalità era troppo delicata, e che avrebbe dovuto trovare rimedio alla sua sensibilità eccessiva.
Effettivamente, ora si sentiva ferita.
 
Karen indirizzò un’occhiataccia a Kokoda, spronandolo a rispondere in fretta.
-No- fu la risposta, temuta dall’intera compagnia.
-Non è così- dichiarò, ripetendo il concetto.
 
Urara si strinse nel suo caldo piumino gonfio. Erano le sei di sera, la temperatura iniziava a calare precipitosamente. Tornava a casa per cena, dopo una pesante discussione svolta all’interno della Natts House.
Per la prima volta, un pomeriggio passato in compagnia dei suoi amici le aveva strappato il sorriso, privandola di allegria.
Non era troppo entusiasta di dover riprendere la vita da Pretty Cure.
Nella sua mente riaffiorarono, crudeli e taglienti, i ricordi dei tempi passati a combattere per il bene generale.
L’ultimo pensiero che accarezzò, prima di addormentarsi, fu che, forse, Non avrebbe avuto la forza di volontà necessaria per affrontare un nuovo assalto estenuante.
 
Rin rigirò il laccio della sacca attorno all’indice e al medio, avvolgendoli.
Con passo lento e svogliato imboccò uno stretto sentiero costeggiato da freschi cespugli di nocciolo, ormai completamente spogli.
La strada era letteralmente ricoperta di fogliame, come se ci fosse un tappeto dalle sfumature calde a intiepidirla.
Mentre la resistenza secca delle foglie cedeva  sotto le suole, emanando un leggero crepitio che scandiva ogni suo passo, Rin alzò lo sguardo al cielo, immergendosi nelle soffici nuvole appena sfumate dalle tinte fredde dell’alba.
Lasciò che il laccio della sacca si srotolasse, scivolandole dalle dita inermi.
Erano le sette e trenta, e le lezioni cominciavano alle otto.
Si era fatta più mattiniera, ultimamente. Preferiva svegliarsi ancor prima che l’occhio del sole si schiudesse, lanciando il suo luminoso sguardo sul Giappone. Le piaceva camminare in pace, precedere i  primi tentativi della gente  di strapparsi al torpore della notte, e consumare una magra colazione fredda, leggera, in modo che, dopo la scuola, non sarebbe caduta vittima di un pesante carico da digerire nelle ore di sport.
 
Sospirando, Rin prese posto in classe, appoggiandosi con i gomiti sul banco e lasciando cadere sacca e materiale pesantemente al suo fianco. Si tolse la felpa leggera con un fruscio elettrico, dovuto principalmente al vento che si era alzato a scuotere i rami nudi e secchi degli alberi. Quell’anno aveva optato per una posizione più nascosta, all’ombra. Era tra i banchi della penultima fila, accanto alla finestra, che lei preferiva tenere aperta, nonostante le frequenti critiche sommesse delle compagne di classe, più sensibili e volubili al freddo. Frugando tra i suoi materiali, afferrò il libro di storia, sfortunatamente provvisto di una mole spaventosamente spessa. Approfittò dei suoi dieci minuti di anticipo per ripassare la lezione dello scorso venerdì.
Non appena schiuse il libro, però,  un rumore cupo e ovattato disturbò il silenzio uniforme della sala, e una vibrazione improvvisa le scrollò una tasca della tuta. Producendo una serie di sibili stropicciati, Rin chiuse in fretta il libro, credendo di dover rispondere ad una chiamata.
Quando mise mano al cellulare, si accorse che si trattava solo di un messaggio:
Sulla schermata apparve il disegno stilizzato di una lettera che, con un movimento rigido e automatico, si apriva. Ai lati vi erano le rispettive opzioni “apri” o “elimina”.
Rin aprì il messaggio:
Ciao RIn! Questa notte non sono stata bene, credo di essermi ammalata!
Ti ho mandato il messaggio per farti sapere che oggi non sarò presente a scuola.
Mi farai avere i compiti e gli appunti delle lezioni?
Grazie mille, a presto!
Nozomi.
La ragazza rispose con un secco “ok”, quindi ripose il cellulare nella tasca della felpa e riprese a ripassare.
 
Dopo qualche minuto la campanella suonò, nella classe si riversò un fiume in piena di studenti, generanti una fastidiosa baraonda stordente.
Nel momento in cui tutti furono al loro posto, gli astucci aperti, i diari pronti, i libri preparati alla lezione, entrò Kokoda e si sedette alla scrivania.
Attese che il disordine generale scemasse in un silenzio diligente, quindi prese a fare l’appello, facendo scorrere il dito sulla lista dei nomi.
Rin fece una smorfia. Avere Kokoda come professore le rammentava costantemente la conversazione del giorno prima.
Una conversazione tutt’altro che piacevole.
Come diavolo avrebbero fatto a proteggere Yumiko da un pericolo ignoto a tutti loro?
Sospirò, in un futile tentativo di rilasciare la tensione.
 Aprì il libro con un tonfo, e scosse la testa quando Kokoda chiese di Nozomi.
Nel tempo in cui il ragazzo segnò sul registro l’assenza dell’amica, qualcuno bussò alla porta della classe.
-Avanti- disse Kokoda, distrattamente.
La porta si aprì.
 
Ryan entrò nella classe.
Lo spazio era illuminato da forti luci bianche, le quali creavano un’atmosfera di netto contrasto con i corridoi in penombra della scuola.
Il professore dietro la cattedra era molto giovane, e lo stava fissando con sguardo interrogativo.
Ryan si fece avanti, un po’ impacciato.
-Buongiorno- Esordì, a mezza voce –Sono Ryan Gray. Mi sono iscritto a questa scuola settimana scorsa. Ho ricevuto una lettera da parte del preside ,in cui veniva confermato il mio inserimento in questa classe-
Il ragazzo corrugò la fronte, esaminandolo con uno strano occhio indagatore. Sembrava quasi che lo stesse analizzando, usando i suoi occhi blu colmi di uno strano bagliore dal significato indecifrabile, che Ryan si scoprì incapace di cogliere.
Cominciò a sentirsi a disagio, quasi nudo ed esposto, sotto quello sguardo intenso.
Poi il professore parve riscuotersi. Controllò la lista dei nomi, sfogliò velocemente un insieme di comunicazioni e moduli tenuti stretti da una graffetta, quindi scosse il capo, perplesso.
Nel frattempo il leggero chiacchiericcio che aleggiava nella classe si spense, e tutti gli occhi degli alunni convergerono dritti su di lui, che, imbarazzato, prese a grattarsi la nuca, ostentando disinvoltura.
-Scusa, Ryan, ma nessuno mi ha informato del tuo arrivo. Il tuo nome non è stato immesso nell’elenco, più tardi andrò a chiedere spiegazioni- Affermò il professore, in tono di scuse–Ancora non hanno inserito un banco per te, ma oggi ci sono tre assenti, accomodati pure dove preferisci-
Gli sorrise con aria amichevole.
Ryan rimase leggermente interdetto per l’improvviso cambio d’umore del ragazzo. In ogni caso lo assecondò, e, annuendo, rivolse lo sguardo alla classe, cercando di individuare i tre banchi vuoti di cui parlava.
Per un attimo, si trattene di fianco alla cattedra, indeciso sul da farsi.
Poi, in un batter d’occhio, una sagoma emerse dalla classe, come un colore forte ed acceso risalta su uno sfondo monocromo e invariato.
Senza alcun indugio, Ryan si avviò con decisione, come seguendo una luce nel buio.
Più si approssimava, più la sagoma prendeva forma in lineamenti familiari, fino a chiudersi in un viso che non gli risultava nuovo.
Improvvisamente la riconobbe: era la ragazza di ieri mattina.
 La ragazza dal corpo nervoso e scattante, fornita di una forza impressionante; forza che aveva adoperato per alzare da terra il suo peso notevole in un semplice guizzo di muscoli.
Posò la cartelletta della scuola, scostò la sedia con un cigolio e le si sedette accanto, senza distogliere lo sguardo curioso dal suo profilo, delimitato sulle curve serpeggianti del viso da curiosi capelli corti, dominanti sul collo teso.
Per il resto della lezione, la ragazza non le degnò della minima attenzione: non accennò nemmeno ad uno sguardo spronato dalla pura curiosità.
Al contrario, Ryan non smise un solo secondo di osservarla, lanciandole fuggevoli occhiate di sottecchi.
 
Gli occhi tersi di Ryan caddero inevitabilmente sull’orologio da polso, che teneva allacciato al braccio sinistro.
Mancavano cinque minuti alla fine della lezione.
Si portò una mano al collo, massaggiandosi il muscolo laterale, intorpidito dal peso delle ore che gli avevano incurvato le spalle e spinto il capo verso il basso. In fondo, il ragazzo era talmente alto, che il banco includeva a stento le sue ginocchia.
Si lasciò sfuggire un lieve sospiro, quindi lanciò l’ennesimo sguardo alla sua compagna di banco.
Si pietrificò nell’atto di sciogliere la presa dal muscolo.
Per un motivo del tutto anonimo, si ritrovò gli occhi della ragazza fissi in viso.
Aveva uno sguardo tagliente, distaccato ma al contempo inspiegabilmente caldo.
Le pupille, corvine e profonde come pozzi, erano abbracciate da singolari iridi ricordante il cremisi: un colore intenso in prossimità del cuore dell’occhio andava liquefacendosi in una tonalità più fluida, quasi morbida, trafitta di netto da pagliuzze auree, fini e fredde come lame di un coltello.
Ryan ricambiò lo sguardo con interesse, ed ebbe l’impressione che nel corpo di quella ragazza fosse limitata una sorta di energia del tutto incontenibile: una ribellione indomabile e scottante come lingue di fuoco, eppure repressa e soffocata a forza.
Fu questione di secondi: lei distolse lo sguardo, immergendolo nel vuoto, privo di valore, davanti a sé.
Il ragazzo si accorse di avere i polmoni gonfi d’aria ma immobili. Con un sospiro rigido, riprese a respirare.
La campanella suonò.
 
Kurumi si appoggiò con la schiena alla fredda e ruvida superficie del muro. Lanciò uno sguardo fugace al di là della parete, successivamente fece un gran respiro, e uscì allo scoperto.
Yumiko Kate era proprio di fronte a lei:  alta, il collo lungo e sinuoso, gli occhi grandi e luminosi.
Fingendo spigliatezza, le si avvicinò a grandi falcate, urtandola volutamente.
La cartelletta di Yumiko esplose in una miriade di fogli svolazzanti, penne sfreccianti come proiettili e numerosi righelli dai colori sgargianti.
Kurumi si voltò, esibendosi in una perfetta espressione mortificata.
In quel momento le tornarono utili le vaghe abilità di recitazione, apprese grazie allo sforzo che la sua forma umana era costretta a compiere per occultare ciò che in realtà si celava dietro la regolare divisa scolastica, fresca e pulita, che indossava ogni giorno.
-Mi dispiace!- esclamò, chinandosi a raccogliere quaderni e appunti sparsi a terra –camminavo senza guardare dove mettevo i piedi-
-Oh, non importa, capita anche a me- rispose Yumiko in tono gentile. Si scostò una ciocca mossa dal viso, quindi si chinò e si mise ad ordinare il materiale in una pila tozza.
Kurumi le lanciò uno sguardo di sottecchi: non percepiva più nulla. Nemmeno la più astratta delle sensazioni. Eppure Kokoda e Natsu le avevano assicurato, con piena certezza, che la fonte di energia stesse protendendo le sue braccia cristalline a Yumiko, nel tentativo di abbracciarle il corpo e insinuarsi nella sua ordinaria vita liceale
Cambiò strategia, prediligendo il contatto fisico, forma di legame più tenace di un semplice scambio di pensieri.
Fingendo di raccoglierle una penna, sfiorò una mano della ragazza.
Solitamente, l’energia fluiva più agevolmente tramite quel tipo di contatto.
Eppure, nessuna forma di energia si manifestò a Kurumi.
 
-Potrebbe essere una buona idea- disse Rin distrattamente, in replica ad una proposta di Haurka Fuduka, presidentessa del club di basket.
Anche quell’anno, la ragazza si era presentata, il primo giorno di scuola, con mezz’ora di anticipo, al fine di precedere altri club sportivi che le avrebbero sottratto buona parte della folla.
Davanti al cancello, aveva atteso prontamente Rin Natsuki, stringendo una palla da basket nella destra.
L’aveva immediatamente avvistata e raggiunta, porgendole il palllone.
E Rin l’aveva accettato.
Come tutti gli anni.
Era letteralmente immersa nei suoi pensieri, e il discorso di Haruka le giungeva a sprazzi al cervello.
Si avviò verso una porta cigolante, che conduceva all’uscita laterale della Lumière, ma nell’esatto momento in cui la maniglia cedeva sotto il suo palmo, l’intera porta si spalancò di peso, e Rin fu sbalzata indietro accompagnata da un gridolino sorpreso.
La ragazza imprecò, mentre lo spilungone biondo,che si era presentato poche ore prima,  la investiva letteralmente con i suoi due metri di altezza.
-Oh- esordì lui, guizzando con gli occhi celesti sul viso di Rin –Chiedo scusa-
Lei si accorse subito della leggera cadenza irregolare, che contraddistingueva la sua parlata, isolandola da quella originale del Giappone. Doveva provenire dall’America, dal momento che la sua pronuncia tradiva un linguaggio fortemente insicuro sugli accenti giapponesi.
Rin fece un gesto di noncuranza, scostandosi per far passare quel palo torreggiante.
Fu allora che, lanciando per caso un’occhiata curiosa alla finestra, Rin scorse Kurumi, impegnata in una discussione con Yumiko.
Che le stesse parlando delle Pretty Cure?
Improvvisamente vide la ragazza accasciarsi letteralmente nelle braccia dell’amica: le ginocchia le avevano ceduto inaspettatamente, così come gli occhi si erano serrati nel giro di un paio di secondi.
Una voce sbigottita costrinse Rin a voltarsi.
Haruka si era improvvisamente lasciata andare, accasciandosi anch’ella sul fianco destro.
Fortunatamente, lo spilungone era riuscito ad afferrarla giunto in tempo perché non rovinasse a terra.
Gli occhi di Rin corsero nuovamente al cortile esterno: con orrore, si accorse che gli tutti gli studenti giacevano al suolo, riversi nella terra o svenuti in pose scomposte. Soltanto Kurumi si reggeva in piedi, stringendo ancora Yumiko, esanime.
Un assalto nemico!
Il pensiero le ghiacciò il sangue nelle vene.
Doveva intervenire.
Fece per correre in aiuto di Kurumi, ma si imbatté negli occhi vigili e svegli dello spilungone.
Ryan!
 
Perché diamine lui non era svenuto come tutti gli altri? 

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Capitolo 4
*** Primo scontro. ***


Ryan guardò Rin.
Rin guardò Ryan.
Per un breve ma interminabile lasso di tempo, i loro sguardi si intrecciarono in una fitta attesa angosciata.
Gli occhi ardenti di Rin brillavano di una luce cupa e risoluta, mentre il respiro pietrificato nei polmoni lascava trapelare un’attesa che Ryan non riusciva ad interpretare.
Gradualmente, il viso della ragazza fu ridipinto in una smorfia leggera ma decisamente confusa: unì le sottili sopracciglia e lasciò che le labbra le si schiudessero, liberando il respiro in un tenue soffio.
Il tessuto che componeva l’atmosfera stessa della sala sembrò pietrificarsi, anch’esso in attesa di un segno.
Come un pugno frantuma uno specchio, l’urlo di Kurumi giunse, gonfio di terrore,  a spezzare il silenzio ghiacciato fra i due ragazzi.
Rin trasalì con violenza, e si precipitò sul bordo della finestra, affacciandosi sul cortile.
Ryan riprese faticosamente consapevolezza di sé, rendendosi conto di stringere in malo modo la povera Haruka, spenta ed inerme tra le sue braccia.
Si chinò, in modo che la schiena della ragazza fosse sorretta dal muro, e che il suo corpo giacesse comodamente contro il pavimento.
Quando rialzò il capo, stretto dalla morsa della scarsa lucidità, si ritrovò l’indice di Rin a due centimetri dalla fronte, nonostante la ragazza dovesse letteralmente sbracciarsi per raggiungere il suo livello d’altezza.
-Non ti muovere- ordinò lei, la grinta graffiante nella voce – Per nessuna ragione-
Ryan barcollò e indietreggiò di un passo, come respinto dalla fermezza energica di Rin.
Si limitò ad annuire, incapace di replicare sotto la pressione risoluta che esercitava la ragazza su di lui.
Rin si voltò e aprì la finestra, facendo scorrere il primo strato di vetro verso l’alto. Quindi fece qualcosa di inconcepibile:  fece per gettarsi.
Ryan urlò, sgomento, quindi accorse ad afferrarla per un braccio, prima che commettesse una simile pazzia.
Riuscì a bloccarla nell’atto di saltare.
-Mollami, idiota!- Ringhiò la ragazza, gli occhi feroci come una tigre. Con uno spintone di sorprendente potenza, respinse Ryan, il quale finì sul fondo del corridoio, urtando la nuca.
Subito dopo, sparì, avvolta tra vortici d’aria.
Ryan si alzò di scatto, sporgendosi  dalla finestra.
Mentre l’aria gli sferzava sgarbatamente viso e capelli dorati, Ryan percepì le labbra abbandonare la lieve umidità, mentre la bocca gli si seccava completamente, così come la gola.
Un fortissimo calore lo investì, e l’impatto fu tale che, per un momento, gli parve di avere il viso immerso in cascate di fuoco liquido. Subito dopo il calore, scie luminose ed esplosive gli bruciarono gli occhi, ma non gli impedirono di scorgere il bagliore del fuoco sgorgare dal corpo nervoso di Rin, mentre precipitava nel vuoto da brividi.
Improvvisamente, ebbe la sensazione che l’energia soffocata all’interno della ragazza, fosse stata sprigionata come un potente sfogo travolgente.
 
In un battito di ciglia, Rin mutò in Cure Rouge.
Atterrò con prontezza al fianco di Kurumi, già avvolta dalle vesti di Milky Rose.
Con un sospiro a pieni polmoni, La Pretty Cure della passione fu pronta.
-Abbiamo un problema- sussurrò.
-Direi- Replicò l’altra, voltandosi di scatto, preda dell’illusione di uno scalpiccio sospetto.
-Oltre a questo- Chiarì Cure Rouge.
Milky Rose la guardò, gli occhi violacei sbiaditi in una trama di pensieri in tumulto.
-Che cosa …?-
Uno schianto secco le mozzò le parole dalle labbra. L’albero al loro fianco si abbatté a terra, smaterializzandosi in una miriade di piccole, infide schegge, le quali presero a infilarsi sotto la pelle delle due Pretty Cure, affliggendo loro piccole ma roventi ferite.
Il loro urlo fu sovrastato da una gelida risata spietata, riecheggiante per ogni angolo del cortile.
L’ eco ancora giungeva affilata alle loro orecchie, quando un braccio viscido strisciò su Milky Rose, all’altezza della vita, pressandole i fianchi con forza brutale.
Il tutto avvenne così rapidamente che Cure Rouge non trovò il tempo per reagire.
Avvolta in un turbine di ricci, Milky Rose fu strappata da terra e scaraventata in cielo tanto che, per un attimo, non fu altro che una piccola sagoma scura contro la luce del sole.
Cure rouge portò gli occhi cremisi al cielo, tentando di individuare la posizione dell’amica. Era in procinto di spiccare un salto, al fine di aiutarla, quando qualcosa di simile ad un tentacolo umido e viscido l’afferrò per un ginocchio, sbilanciandola nella fase  di spinta e causando una brutta caduta.
La ragazza gemette, ma non trovò altro fiato, poiché il tentacolo era tornato alla carica, avvinghiandosi al suo torace e svuotandole completamente i polmoni. Una smorfia di dolore le increspò il viso, mentre, con le labbra spalancate, tentava invano di soddisfare la richiesta d’aria da parte del suo corpo.
Richiesta che, gradualmente, aumentava in qualcosa di disperato e violento, una trappola infida da cui non sarebbe riuscita a sfuggire, se non avesse agito immediatamente.
Con la coda dell’occhio, scorse Milky Rose precipitare ad una velocità fuori controllo, contratta nell’estremo tentativo di attutire la caduta.
Con le tempie pulsanti, la gola bramante di fiato e il corpo tremante, Cure Rouge strinse pugni e denti, contraendo ogni suo muscolo nel tentativo di sciogliere il nodo sul suo torace.
In quel medesimo istante, si sentì sollevare, e, nel giro di qualche minuto, si ritrovò ad avere una visione piuttosto ampia della situazione: Quello che stava stritolando il suo corpo non si trattava di un tentacolo, bensì di una coda.
Seguendo con lo sguardo la forma sinuosa e in continuo sussulto, ne raggiunse la base.
Si trattava di una coda che sostituiva gambe e fianchi. La pelle squamosa si arrampicava per il bacino, dalle fattezze umane, fino a raggiungere, in sprazzi irregolari, il costato, infilato in una pelle sfumata di un verde esangue. 
Il viso della creatura era trasfigurato da sentimenti contrastanti: un momento pareva sofferente e segnato da profonde pieghe di dolore, un altro momento la pelle si increspava in grinze di collera, e le zanne acuminate facevano capolino dalle sottili labbra, umide di bava.
Il capo era malapena coperto da sottili capelli, mentre le mani, legate a braccia apparentemente normali, presentavano una membrana tra gli incavi delle dita.
Un ruggito raggelante emerse dalle zanne, sbiadendo in un sibilo acuto mostrante la lingua violacea biforcuta.
 
Al momento della caduta, il corpo di Milky Rose innalzò un coro di dolore, esplodendo in una scarica straziante.
Attraverso la vista annebbiata riuscì a scorgere una fetta di cielo, limpido e pezzato del soffice fianco delle nuvole.
Il suo udito percepì, sebbene attutito, il lento strisciare di un corpo, e il barcollante sopraggiungere faticoso di  qualcosa.
Il suo corpo non rispondeva.
Le sue braccia, le sue gambe, il suo collo; tutto le pareva pesante come macigni.
La ragazza prese a sudar freddo.
 
Ryan strinse le dita sul bordo della finestra.
Gli occhi colmi di terrore fissi sulla creatura raccapricciante.
Che diavolo era?
La paura gli accelerò il battito del cuore, gli ghiacciò lo stomaco, già provato dalla scena, e gli strinse le tempie con una pressione perforante.
Una goccia di sudore corse per la linea della guancia, seguendo la mandibola.
Si accorse di avere il corpo scosso da violenti tremiti.
La ferma lucidità che solitamente lo caratterizzava si smarrì nelle intricate vie oscure del panico.
 
Cure Rouge era al limite. Un solo, breve, attimo ancora, e avrebbe ceduto.
Ogni centimetro del suo corpo bruciava dal desiderio incessante di nuovo ossigeno.
Le energie presero a venirle meno, scivolandole dalle membra con lentezza estenuante, senza che lei potesse impedirlo in qualche modo.
Una lacrima di frustrazione le punse un occhio.
La coda che la stringeva si contrasse, subito dopo, senza che la ragazza riuscisse a capire, il terreno le corse incontro, e un forte impatto le trasmise l’impressione di spezzarsi in due, come un esile fuscello.
Quindi fu risollevata.
La paura coprì il dolore.
 E l’ira coprì la paura.
Una nuova energia si diffuse nelle sue vene, e un’ondata di grinta nacque nel suo petto, accrescendosi.
Cure Rouge reagì.
Si dimenò, lottò contro le forti spire che l’avvolgevano.
-Rouge Burnign- Formulò, usando nientemeno che il semplice movimento delle labbra, poiché nemmeno un sussurro le riusciva possibile.  
La creatura cacciò uno stridulo gemito di dolore, quindi mollò la presa.
Cure Rouge cadde a terra.
Si rialzò e, con grinta, riprese la posizione di attacco.
 
 
NOTE: Chiedo scusa per il capitolo breve e forse un po’ deludente. Il fatto è che ho avuto un paio di problemi con la scuola, ultimamente. I professori ci stanno addosso perché poi avremo una settimana di gita (ne approfitto per dire che per i prossimi cinque giorni non mi sarà possibile aggiornare).
Mi rifarò con il prossimo capitolo, lo prometto.
Spero di non aver deluso troppo XD XD XD! 

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Capitolo 5
*** Problema. ***


 
Urara liberò un lieve sospiro, sorridendo.
Mentre con i polpastrelli percorreva il lato della carta, nella sua mente andò formulandosi la sua parte di recita.
Le piaceva rifugiasi nel teatro della scuola, senza accendere le luci pubbliche, solo il riflettore candido, di un giallo slavato, sedersi sul palco deserto e ripassare il copione cartaceo.
Stava per voltare pagina, quando, nell’atto di allungare il braccio, la manica del golfino scivolò sul polso, depositandosi nell’incavo del gomito in pieghe scomposte.
Urara si bloccò.
Sul polso brillava il bracciale delle Pretty Cure.
Quello di Cure Lemonade.
Il suo.
La sua espressione sfumò in qualcosa di incerto e vacillante.
Kokoda le aveva riferito che un nuovo nemico minacciava il Giappone. E che le Pretty Cure stavano per imboccare la via per la battaglia, ponendosi in difesa contro il male come una cinta muraria difende la sua fortezza.
Il capo le ciondolò di lato, qualche capello dorato le danzò sul viso, riflettendo come uno specchio la luce teatrale.
Mentre la sua mente abbandonava il copione, perdendosi in vie intricate, il suo sguardo cadde per caso sul display del cellulare:
Le 14:13.
La ragazza corrugò la fronte.
Kurumi si era offerta di ascoltare la sua recita, quel pomeriggio.
Era in ritardo di 13 minuti.
Urara si alzò e recuperò la borsa, decorata con brillantini, perline e ricoperta di qualsiasi sorta di nastro colorato.
Iniziava a rendersi conto che qualcosa non andava per il verso giusto.
Kurumi  non ritardava mai.
 
Mentre l’animale si divincolava dal dolore, Milky Rose trovò il tempo per rialzarsi, sebbene a fatica, e tornare all’attacco.
La coda viscida si dimenava e sfrecciava, schioccando come un’orrida frusta.
La ragazza dovette strapparsi a forza dall’iniziale stordimento, sgusciando e schivando i colpi nemici in una danza dall’agghiacciante pericolosità.
Il ritmo nemico era rapido, veloce, incalzante.
Tra un attacco e l’altro non vi era spazio per la speranza di un’offensiva efficace.
Nemmeno con l’aiuto di Cure Rouge riusciva a trovare l’anello debole nella sua difesa. Non era concesso loro nemmeno il tempo di un respiro: il nemico si contorceva, agile e scattante come una vipera, e i loro movimenti si facevano pesanti e goffi, la stanchezza gravava sulle loro spalle, i muscoli faticavano e la sensazione era quella di nuotare controcorrente.
Nuotate controcorrente in un mare di melassa.
 
Cure Rouge ricevette la coda in pieno addome.
Un colpo di terribile potenza che le serrò di netto la bocca dello stomaco.
Finì contro il muro in mattoni della palestra.
Fortunatamente, i panni di Cure Rouge, per quanto esile potesse essere la semplice apparenza, aumentavano a dismisura la difesa, l’agilità e la forza di cui già disponeva.
Per questo motivo, forse, il colpo non le trasmise una fitta troppo dolorosa.
Di sottecchi, spiò i movimenti spasmodici della creatura.
Tutto sembrava senza senso: i suoi legamenti si contraevano e si scioglievano a ritmi inconcepibili, le sue ossa scricchiolavano e uscivano dalla loro nicchia di carne, le zanne e la lingua sporgevano anche quando la stessa creatura serrava bruscamente la bocca, e questo le procurava lesioni alle labbra e piccole ferite, dimostrate da striduli versi afflitti.
Quella stessa creatura sembrava non avere senso.
Non aveva mai affrontato qualcosa del genere.
Della polvere le si infiltrò nella gola, scatenando un violento attacco di tosse.
Improvvisamente, il trambusto assordante prodotto dai continui urti del combattimento cessò.
quando alzò lo sguardo, la creatura era immobile, come fosse stata di granito.
Le sottili narici si dilatarono, un rivolo di bava colò sul mento, gocciolando viscosamente.
Qualcosa doveva aver attirato la sua attenzione.
Le pupille si ridussero ad un’esile linea nera, mentre il capo secco rivolgeva il suo viso alla facciata della scuola.
Fu allora che Cure Rouge intravide una zazzera  bionda velata dal riflesso accecante del sole sul vetro delle finestre. E incorniciati, due occhi incolori.
 
Forse fu solo una sua impressione, Ma Ryan giurò di aver fissi su di sé gli occhi raccapriccianti della creatura.
Si chiese che diavolo ci facesse ancora lì, fermo ed impalato come un idiota, davanti ad un evidente pericolo fuori dalla sua portata.
Il fatto era che il suo cervello ancora non era riuscito a realizzare ed accettare ciò che i suoi occhi suggerivano.
Credeva ancora di essere preda delle grinfie di un incubo spaventoso, ma risolvibile con un semplice pizzicotto sul braccio.
Quando la creatura balzò sulla facciata della scuola, prendendo ad arrampicarsi e ad appigliarsi ai davanzali delle finestre, le fondamenta della scuola furono scosse terribilmente.
E insieme a loro tremò anche Ryan.
 
Milky Rose sgranò gli occhi.
-Che diavolo sta facendo?- Sussurrò, rivolta a se stessa.
-Fermalo!- Urlò Cure Rouge, zoppicando verso di lei come meglio poteva –là dentro c’è un ragazzo! Fermalo, Dannazione!-
La ragazza non capiva più nulla, ma il tono di voce dell’amica la agghiacciò.
 Annuì e raccolse le energie per balzare.
Non fece in tempo:
Due sfavillanti catene emananti una candida luce calda sfrecciarono dritte ad avvolgere il corpo sinuoso della creatura. Un chiarore balenò improvvisamente, come impazzito, quindi le catene si ritrassero con uno strattone, strappando la creatura dai suoi appigli.
Lei protesto con un gemito straziante, acuto quanto perforante, e prese a contorcersi in convulsioni deliranti, al fine di potersi liberare dalla  solida presa dorata.
 
Cure Lemonade sorrise.
-Presa!- Urlò, alzando al cielo un pugno chiuso, sul quale volteggiavano le Prism Chain.
Scorse i visi rinfrancati di Cure Rouge e di Milky Rose, e i loro sguardi traboccanti di una nuova carica.
-Tienila stretta, Lemonade, a lei ci penso io- ringhiò Cure Rouge, un sorrisetto crudele tagliato in volto –Fire Strike!- Urlò, generando una sfera di fuoco, talmente calda da deformare l’aria circostante, come se la sciogliesse seduta stante.
L’impatto fu di tale potenza, che Cure Lemonade stessa fu strascinata in avanti di qualche metro, sebbene opponesse una solida resistenza.
-A te, Rose!- Urlò quindi.
La compagna annuì con decisione, sfoderando la sua arma.
-Blizzard!- la sua voce risuonò in tutto il cortile, riempiendo ogni angolo con potenza graffiante.
Il terreno tremò un’ultima volta, quindi una rosa cobalto nacque dalla terra, acquisendo una mole enorme progressivamente.
I petali si chiusero sulla creatura, celandola.
E in pochi minuti, tutto finì.
 
Cure Rouge si spolverò le ginocchia, opacizzate dal terreno.
Si portò una mano al viso, laddove una scottatura da attrito le bruciava.
Milky Rose sparì in un bagliore scarlatto, che si trascinò via i panni da Pretty Cure come fossero stati solo un illusione.
Lei la imitò, e Cure Lemonade seguì il loro esempio.
-Allora, Rin- Esordì Kurumi, in tono disinvolto, come se non fosse reduce da un combattimento sconvolgente –Qual è il problema di cui mi parlavi?- Così dicendo si scostò una ciocca di capelli dal collo.
Rin ingoiò, nervosa.
Stava per rispondere, ma dei passi lunghi, frettolosi e mal misurati spezzarono le sue intenzioni.
Dall’angolo del cortile comparve, pallido come un lenzuolo, segnato da profonde occhiaie e tremante come una foglia, Ryan.  
Era la perfetta personificazione dell’espressione sconvolta.
Rin sospirò –Kurumi, Urara- disse fra i denti –vi presento il nostro problema

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Capitolo 6
*** Sogno o Realtà? ***


Ryan si precipitò al piano di terra, percorrendo le scale (tre scalini alla volta) ad una velocità impazzita.
Sentiva il respiro spezzarsi ad ogni impatto con il terreno, mentre correva con fretta frenetica, inciampando e barcollando sulle tremanti gambe insicure.
Quando finalmente giunse ai cortili, si spinse, in un ultimo tratto affannoso, verso la facciata della scuola.
Ci rimase di sasso.
Mentre i brividi lo scuotevano da capo a piedi, e i polmoni gli si dimenavano, stretti dall’abbraccio delle costole, una scena interamente usuale gli fu sbattuta in viso:
Davanti a lui non si ergevano giovani combattenti dagli abiti sfavillanti, né orride creature striscianti. Solo Rin e altre due ragazze sconosciute.
Discutevano fra di loro a mezza voce, mormorando, bisbigliando, lanciandogli di tanto in tanto occhiate fugaci, colme di curiosità e incomprensione.
Rin strattonò il braccio della ragazza bionda, inducendola a dargli la schiena.
Fecero per andarsene, ma Ryan si riscosse.
-Rin!- vociò.
La ragazza riccia gli lanciò un rapido sguardo perplesso.
Lei, però, non si voltò.
-Rin!- insisté, raggiungendola con due lunghe falcate.
La ragazza alzò un sopracciglio con espressione annoiata, sottolineata in seguito da un mezzo sospiro pesante.
-Ah, sei tu- dedusse, degnandolo di una lunga occhiata profonda –che vuoi?-
La sua voce era ferma e asciutta, venata, però, di un certo nervosismo.
-Dove …?- cominciò Ryan, volgendo lo sguardo agli angoli bui del cortile, come se le tre combattenti potessero nascondersi in qualche modo.
-C’erano tre … - continuò, in tono confuso e vacillante -... sì, penso che si chiamassero … -
Nello sguardo di Rin balenò uno scintillio severo –Si può sapere che stai dicendo?- lo aggredì, spazientita, eppure nuovamente nervosa.
Ryan le prese le esili spalle, stringendola in una morsa tremante.
-Quella creatura!- esclamò, il terrore che gli alterava il timbro della voce –Che cosa …?-
Dannazione. Non riusciva a formulare una frase sensata per intero.
-Ryan, non so di cosa tu stia parlando- Replicò Rin, con una pacatezza quasi tagliente, mentre una smorfia tesa gli irrigidiva collo e viso.
Il ragazzo strinse ulteriormente la presa sulle sue spalle, sgranando gli occhi colmi di orrore. Una goccia di sudore gli accarezzò la tempia.
-Ti sei lanciata dalla finestra, hai combattuto contro … - Ryan s'interruppe –Quella cosa-
Rin rimase impassibile, il viso non si contrasse in alcuna reazione, se non, forse, in una leggera ironia.
Ryan non si diede per vinto –Gli alunni dormivano. Tutti! E voi … voi avete distrutto la facciata della scuola e…- la voce gli morì in gola, spegnendosi gradualmente.
Volse gli occhi tersi alla sua schiena.
La facciata era intatta. E il leggero chiacchiericcio di sottofondo, al quale inizialmente non aveva fatto caso, era prodotto dagli alunni.
Alunni svegli. Perfettamente vigili.
Improvvisamente Ryan si sentì male, confuso e nauseato, come se gli avessero gettato il capo in lavatrice, facendogli fare un giretto in centrifuga, e infine gliel’avessero riposto nuovamente sul collo.
Si sentì cingere i polsi sgarbatamente.
Rin gli fece allentare a forza la presa sulle sue spalle –Senti – cominciò, in tono seccato – L’unico alunno a dormire sei tu. Ti sei fatto un bel sonnellino l’ultima ora, nel laboratorio di scienze- Si sistemò la felpa con un gesto brusco, lisciando le pieghe lucide –E … –  continuò, lanciandogli di sottecchi uno sguardo sarcastico – … a quanto pare i tuoi sogni sono un tantino agitati-
Ryan corrugò la fronte, abbassando lo sguardo. Sentì la saliva asciugarsi in bocca, le labbra seccarsi nuovamente.
-E-eppure … - balbettò , la voce ridotta ad un sibilo.
Gli era parso tutto così reale. Possibile che l’intera faccenda fosse frutto della sua delirante immaginazione da sonno?
-Andiamo- ordinò Rin, rivolta alle amiche –Siamo in ritardo-
Detto questo, si volatilizzarono, abbandonandolo nel bel mezzo del cortile, impalato ed inerme, incapace di reagire e smarrito nel continuo vacillare fra sogno e realtà.
Non ricordava.
Non ricordava di essersi addormentato, né di essere entrato nel laboratorio di scienze, né tantomeno il momento del risveglio.
E non capiva.
Non capiva se, come diceva Rin, “sogno” e “realtà” fossero distinti, o legati in qualche modo, oppure persino intrecciati, uno sovrapposto all’altro, celandosi a vicenda.
Ryan scosse la testa.
No. Era troppo realistico perché fosse un un sogno. Eppure troppo assurdo perché fosse la realtà.
Una gran confusione prese a disordinargli la mente.
-Basta- Ordinò a se stesso.
La risposta gliel’avrebbe fornita Rin.
Lei nascondeva qualcosa.
Lei sapeva.
 
 
NOTE: E’ un capitoletto volutamente breve. Nei prossimi capitoli cercherò di chiarire meglio la situazione :D Avviso però che sono carichissima di compiti! Abbiate quindi pietà di me e molta, molta pazienza! XD 

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Capitolo 7
*** Non finisce qui! ***


Non appena scomparvero dal campo visivo di Ryan, Kurumi afferrò l’avambraccio di Rin, fissandola con un viso duro come la pietra, ombreggiato di una certa agitazione irrequieta. 
-Rin- esordì a mezza voce, gli occhi inondati gradualmente di un anonimo scintillio –Ho percepito la fonte di energia-
Urara la spiò di sottecchi, torturando un nastro dorato ricoprente la sua borsa.
Rin ricambiò lo sguardo, la tensione che le contraeva i lineamenti secchi –Dove?-
La ragazza lanciò una rapida occhiata sopra la spalla della sportiva, assicurandosi che non vi fossero orecchie indiscrete –Nel cortile- bisbigliò, le labbra tirate –Non capisci? Yumiko che cede al potere nemico, Ryan che, al contrario, non ne risulta influenzato. E’ lui a portare con sé la fonte di energia!-
Urara alzò il capo, i grandi occhi spalancati –Cosa?-
-Ne sei sicura?- Interloquì Rin, con fare dubbioso, apparentemente riluttante ad accettare l’ipotesi.
Kurumi si sistemò il colletto della camicia con un gesto stizzito –Certo – Replicò, secca –Non ho mai commesso errori, su certi argomenti- così dicendo alzò leggermente il mento, con fierezza.
Gli occhi di Rin si ridussero in una smorfia irritata –Scommetto, allora, che sarai in grado di trovarti una soluzione anche da sola, Vostra Altezza- Sibilò in replica.
Kurumi ci rimase di stucco. Non aveva intenzione di offenderla in qualsiasi modo, né di aggredirla. Rimase a bocca asciutta, senza parole e zittita dalla reazione litigiosa di Rin.
Urara sfiorò la mano di Rin, sorridendole con dolcezza –Non ha detto questo, lo sai- disse, facendo scivolare il laccio della borsa fino al polso, dove l’afferrò prontamente –Abbiamo bisogno anche di te. E di tempo, perché l’intera faccenda ci risulti interamente chiara-
Kurumi incrociò le braccia al petto, ancora leggermente stizzita e influenzata dal suo forte orgoglio. Si limitò a mordersi la lingua, nonostante avrebbe volentieri dato sfogo a qualche rimprovero che le premeva sulle labbra da tempo.
Rin, però, parve pentita di quanto detto –Lo so. Avete ragione, scusate- si passò una mano sul viso, quindi forzò un mezzo sorrisetto –Ora devo andare-
-Ma Rin- Intervenne Urara, in una flebile insistenza –Dovremmo andare alla Natts House. Sai, a raccontare tutto a Kokoda e Natsu-
La ragazza si riempì i polmoni –So anche questo, ma … - distolse lo sguardo –Ho gli allenamenti di tennis. Non posso mancare-
Kurumi strinse con forza la presa sui suoi stessi gomiti, increspando il suo viso in un cipiglio indispettito Cos’hai detto?- sibilò.
L’aria parve farsi elettrica, carica di tensione.
Il cremisi delle iridi di Rin lampeggiò, e, per mezzo secondo, Kurumi fu sicura di scorgere delle lingue di fuoco impazzite, riflesse nella sua espressione.
Urara prese la ragazza per un braccio,in un muto segnale di non oltrepassare i limiti –Ci andremo noi, allora-  disse poi, rivolta a Rin.
Lei le sorrise ed annuì, ringraziandola.
-Rin- intervenne Kurumi –Domani ti aspettiamo alla Natts House alle diciassette in punto.  Non mancare-
In tutta risposta, ricevette una scrollata di spalle e un alzata di pollice.
Quindi, Rin corse alla palestra.
 
Urara sospirò, sollevata dal fatto di essere riuscita nell’intento di schivare una lite inutile e difficoltosa.
-Ma che ha ultimamente, quella?- ringhiò Kurumi
Lei si strinse nelle spalle –Non saprei. Sarà un periodo difficile, lasciamola in pace, le passerà-
-Lasciamola in pace?- ripeté Kurumi, esterrefatta –C’è in pericolo il Giappone, se non l’intero mondo, e lei si preoccupa del tennis! Del tennis!- così dicendo, alzò di scatto un braccio, indicando la direzione in cui si era avviata Rin.
Urara non le rispose, anzi: la ignorò volutamente.
Pensò che era meglio lasciarla sbollire, prima di discuterci. Certo, il comportamento di Rin non era parso del tutto corretto nemmeno a lei, però prendersela così …
Insomma, Rin era pur sempre un’amica. Non le avrebbe abbandonate in quel modo se non avesse avuto una buona ragione.
Questo Kurumi non riusciva a capirlo, non al momento, perlomeno.
Urara sospirò. Si erano scontrate due personalità forti, entrambe già provate da avvenimenti squassanti, forse una discussione sarebbe stata anche accettabile …
-Che hai da sbraitare in quel modo, Kurumi?-
Una voce setosa e pacata giunse ai loro timpani, distogliendole dai loro pensieri.
Sul fondo della strada si stagliavano, fiere e composte, le sagome di Karen e Komachi.
Avanzavano verso di loro con calma, circondate dal consueto alone dignitoso, il quale induceva la gente circostante a rivolgere loro rispetto e ammirazione.
Sul viso di Urara si allargò un gran sorriso. Agitò la mano in segno di saluto.
Ma Kurumi troncò di netto il suo entusiasmo –Dobbiamo parlarvi- disse, seria –Subito-
 
 
Nozomi sbadigliò, la vista ancora mezza appannata dal torpore della notte. Il giorno prima non era stata bene: qualche linea di febbre l’aveva colta impreparata durante il pomeriggio, probabilmente fu una conseguenza della camminata mattutina che si era fatta, infilata in una leggera felpa per nulla invernale.
Be’, poco male: si era ripresa immediatamente, giusto il tempo per saltare una mattina di scuola, ma, in fondo, cosa avrebbe dovuto perdersi in sole cinque ore di scuola, più, volendo, un paio di orette pomeridiane dedicate ai vari club scolastici? Andiamo, al massimo avrebbe dovuto farsi passare qualche appunto da Rin, dal momento che aveva acconsentito senza problemi.
Non sarebbe stato difficoltoso recuperare quel giorno, no?
Mentre sprazzi di pensieri le vorticavano nella mente, sebbene ancora ostacolati dall’orario mattutino decisamente improponibile,per quanto riguardava intere riflessioni serie, dall’angolo dell’incrocio sul fondo della strada sbucò Rin, vestita di una semplice tuta rossa, provvista della cartelletta per la scuola e apparentemente concentrata sui suoi passi, tanto da non accorgersi di lei che, con movimenti ampi e convulsi, si sbracciava per farsi notare.
Dal momento che l’amica sembrava poco intenzionata a degnarle un minimo d’attenzione, Nozomi si gettò la cartelletta su una spalla, tenendola salda con la destra, e si fiondò al suo inseguimento, in una corsa così delicata da simulare un sisma di magnitudo 57.
Quando le fu abbastanza vicina, spiccò un salto e le si fiondò addosso, tentando di saltarle in spalla.
La sentì imprecare in modo poco femminile.
Nozomi percepì i dorsali dell’amica tendersi sotto lo sforzo, quindi si sentì oscillare a destra e a sinistra, poi pericolosamente in avanti, finché non finì stesa a terra, gambe all’aria.
-Dannazione, Nozomi! Che diavolo ti è saltato in mente?- esclamò Rin, porgendole una mano per aiutarla a rialzarsi.
Lei gemette e si tastò la nuca, provata dalla botta contro il marciapiede.
-Ahi, ahi … volevo solo salutarti, mi stavi ignorando!-
-Mi prendi per il …? –
 
 
-Rin!- intervenne Karen, la quale sopraggiungeva, affiancata, come al solito, dalla degna compagna Komachi.
-Un po’ di contegno-  disse, ammiccando all’amica.
Rin indicò Nozomi –Ti dico che mi prende per il … -
-RIN!- ripeté Karen sgranando gli occhi.
Komachi scoppiò a ridere.
-Prendi il pullman anche tu, Karen?- interloquì Nozomi, spolverandosi la divisa scolastica.
-Oggi sì- rispose lei –Ho passato la notte da Komachi- alzò l’indice con grazia -per studiare-
-Oh, che noia- commentò Rin, incrociando le braccia dietro la nuca.
-Forse dovresti provare a farlo anche tu, ogni tanto- ribatté Karen, in tono tagliente.
-Perché?- rise Komachi , portandosi il dorso della mano davanti alle labbra –in fondo la sua media è assicurata da discipline motorie- scherzò.
Ridendo, le ragazze raggiunsero la fermata del pullman, quindi attesero con pazienza l’apparizione del veicolo.
Fu proprio mentre questo sbucava dalla curva a destra, che, al contempo, fece la sua apparizione Ryan, vestito della divisa scolastica nuova di zecca, pulita e smagliante.
Karen gli lanciò una fuggevole occhiata, poi osservò la reazione delle compagne di battaglia:
Komachi sussultò lievemente, quindi volse lo sguardo altrove e forzò un comportamento disinvolto.
Rin lo ignorò volutamente, inducendo i ragazzi in coda davanti a lei a sbrigarsi ad entrare in quel pullman.
Nozomi non reagì; effettivamente, lei ancora non conosceva l’intera vicenda.
La ragazza attese il proprio turno, immergendosi in riflessioni intricate. Non sarebbero riuscite ad andare avanti senza che Ryan scoprisse tutto. O meglio: senza che Ryan scoprisse che ciò che aveva scoperto non fosse un sogno.
Karen gli lanciò un’altra, breve occhiata: aveva l’aspetto di un ragazzo timido ed introverso, ma aveva degli occhi brillanti d’intelligenza. Non l’avrebbero ingannato, almeno non per molto.
 
Rin si mise a sedere accanto al finestrino, lasciando cadere pesantemente la propria cartelletta sul sedile al suo fianco. Ultimamente la folla che premeva nel pullman si era sfoltita, perciò la ragazza poteva permettersi di avere due sedili tutti per sé. Estrasse da una tasca il libro acquistato da poco: il titolo era “la storia del basket”. Le era parso carino, così voleva regalarlo a Haruka, prima, però, voleva concedersi una sbirciatina.
Era nel bel mezzo della trama quando, inaspettatamente, una voce la trascinò alla realtà.
-Posso sedermi?-
Rin alzò gli occhi dal libro:
Ryan.
Il suo viso si fece duro e freddo come marmo.
-No-
Quindi tornò al suo libro.
Con la coda dell’occhio vide, leggermente sfocata, la sagoma confusa di Ryan, impalato davanti al sedile, occupato dalla sua cartelletta.
Il pullman si esibì in una brusca partenza, e il ragazzo per poco non finì a terra.
Rin dovette sforzarsi di nascondere un sorrisetto di scherno.
Con sua grande irritazione, Ryan alzò il bracciolo di gomma del sedile, quindi prese la cartelletta di Rin e si liberò il posto.
La ragazza lo incenerì con lo sguardo –Ti ho detto che … -  
-Ora ascoltami bene- la interrupe lui, il tono di voce che tradiva agitazione, ma che ostentava una risolutezza degna di rispetto.
Le puntò contro un indice –Nonostante possa sembrare il contrario, non sono un idiota. Riesco a distinguere un sogno dalla realtà- sibilò a mezza voce.
Rin contrasse la mascella, mentre un brivido irrequieto le torturava la schiena –Tu sei pazzo- sputò tra i denti, simulando disprezzo ed esibendosi in un’espressione disorientata.
-Forse- rispose lui, stringendosi nelle spalle –Fatto sta’ che al centro della mia pazzia ci siete voi-
-Ryan, cambia posto- ringhiò Rin, secca.
Quel dannato ragazzino la stava facendo innervosire.
-Prima dimmi la verità- pretese lui.
Gli occhi di Rin lampeggiarono d’ira –Ryan- lo avvertì, il tono di voce sfumato in un monito, gonfio come nuvole burrascose che preannunciano la tempesta.
Il ragazzo parve momentaneamente intimorito dalla sua grinta, poi, però, riacquistò il suo coraggio.
-Dimmelo, Rin! Dimmi … cosa sono le Prett … -
In un battito di ciglia, Rin gli fu addosso.
 
Ryan indietreggiò, sgranando gli occhi con sorpresa.
Mentre le dita di Rin si stringevano sulle sue labbra, e i palmi premevano perché non una parola potesse sfuggirgli, la sua espressione palesò la rabbia ardente, repressa a fatica.
Senza che nemmeno il ragazzo potesse capirne il motivo,  il suo viso avvampò, si sentì scaldare le guance e arrossì fino alla radice dei capelli.
-Taci- sibilò la ragazza, mentre i suoi lineamenti si facevano più vicini ed asciutti.
Lui non trovò vie d’uscita alle sue intimazioni, e non poté sfuggire alla soggezione che Rin esercitava sulla sua personalità. Si scoprì ad annuire, quindi le dita calde ed affusolate della ragazza scivolarono dalle sue labbra.
Ryan si accorse di avere i polmoni pietrificati, fu con gran sforzo che riprese a respirare.
Imprecò intimamente.
L’aveva fatto di nuovo: si era lasciato intimidire dall’indole ribelle di Rin.
-Vattene- ordinò lei, ripreso controllo di sé stessa.
Lui ingoiò, le gettò la cartelletta di scuola addosso, poco garbatamente, quindi le puntò nuovamente l’indice contro –non finisce qui- ringhiò con rabbia.
Quindi si alzò e si avventurò nel corridoio del pullman, alla ricerca di un posto libero, tormentato dallo sgradevole pensiero che, per la faccenda della cartelletta, Rin l’avrebbe letteralmente ucciso non appena l’avesse visto nei paraggi della scuola.
 
 
NOTE: Riiiieeeeeccooooomi! Dunque: so che la storia si sta sviluppando un po’ lentamente (e so anche che verranno fuori settordici mila e millanta capitoli) però preferisco che gli avvenimenti si susseguano in questo modo. Se la situazione diventa veramente insostenibile, da questo punto di vista, avvisatemi pure: sono aperta e favorevole a critiche di qualsivoglia forma! :D
Ok, ho finito, alla prossima.
Ah, e buona Pasqua! :D 

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Capitolo 8
*** Sfida. ***


Kokoda inclinò il capo, scorgendo confusamente il proprio riflesso sul bancone della Natts House. Con un sorrisetto soddisfatto, fece roteare lo spruzzino attorno all’indice, agitando il detergente al suo interno, il quale mutò in una moltitudine di bollicine, tenute strette da una fitta schiuma bianca. Poi soffiò sulla parte superiore, in stile cowboy .
-Questo bancone non è mai stato lucidato meglio- dichiarò, schernendo Natsu che tentava di sistemare un paio di piante in un contesto esteticamente accettabile.
Lui gli rispose con un mugugno incomprensibile, palesante il suo già evidente disinteresse alle  provocazioni umoristiche dell’amico.
Qualche foglia secca abbandonò il ramo scheletrico, finendo sul collo di Natsu che prese e dimenare la schiena e ad allungare le braccia, nel tentativo di liberarsene.
Kokoda si mise a sghignazzare , godendosi la scena con un gomito appoggiato al bancone.
Natsu gli lanciò uno sguardo irritato, grattandosi la nuca arrossata dall’attrito della foglia fastidiosa-Che ne dici di darmi una mano, invece di … -
Un forte scossone mandò in frantumi la quotidianità della scena, squassando mobili, vasi e lampadari. Improvvisamente il bancone e la foglia sfumarono di significato, rimpiazzati da qualcosa al di sopra di qualche piccolo imprevisto domestico.
I due si lanciarono uno sguardo angosciato, quindi si precipitarono al di fuori della Natts House, agitati e tormentati dalla possibilità che un agghiacciante ondata nemica potesse abbattersi su di loro.
Kokoda corrugò la fronte, increspò le sopracciglia e fece schioccare la lingua, in una smorfia vacillante fra l’incredulo e il divertito:
Davanti al loro, gambe all’aria, gemeva ,con la faccia immersa nella terra, un ragazzino esile e basso, dai capelli corti intrecciati in ciuffi ribelli.
-Sai, dovresti prendere in considerazione l’ipotesi di esercitarti sugli atterraggi, Syrup- Commentò con espressione seria, ma con un tremito nella voce che tradiva una certa ilarità.
-Ci hai fatto prendere un infarto, dannazione!- lo rimprovero Natsu, burbero.
Syrup si rialzò con aria disinvolta, si spolverò gli abiti dalla terra e si schiarì la voce, come se nulla fosse.
-Allora, a cosa dobbiamo il tuo ruzzol … ehm atteraggio. Il tuo atterraggio?-  chiese Kokoda, incrociando le braccia al petto, mentre una leggera ironia cominciava a stuzzicargli i lineamenti.
-Giusto, qual buon vento?- lo assecondò Natsu, un mezzo sorrisetto dipinto in volto.
I due si scambiarono uno sguardo d’intesa, quindi scoppiarono a ridere come due idioti.
Syrup non si scompose, raddrizzò le spalle con fierezza e squadrò da capo a piedi Kokoda.
-Bel grembiule- commentò, alzando un sopracciglio.
Lui allargò le braccia, studiandosi: sopra l’usuale camicia bianca e i comodi jeans, un grembiule rosa pallido ,con i contorni vivacizzati da un colore più intenso, si attorcigliava alla sua vita e al suo collo, servendosi di nastrini lucidi.
Con in mano lo spruzzino, assomigliava ad una domestica. Oppure ad un pacco regalo. In ogni caso non gli donava un alone molto dignitoso.
Il sorriso gli morì sulle labbra, e il ragazzo arrossì d’imbarazzo –Stiamo facendo le pulizie, alla Natts House- si giustificò, tentando di recuperare quel poco di decoro che gli era rimasto.
-Vedo- disse Syrup, spostando lo sguardo su Natsu, il quale, così ricoperto di foglioline verdi e rami secchi, assomigliava più alla fronda cespugliosa di un nocciolo, che ad un normale ragazzo. Cosa che, tra l’altro, non era a tutti gli effetti.
-Si può sapere per quale ragione avete il coraggio di uscire da quella porta conciati in quel modo?- intervenne una voce tagliente.
-Ciao Kurumi- dedusse Natsu, senza nemmeno voltarsi.
La ragazza inarcò le sopracciglia, quindi scosse la testa, sospirando, ed entrò nella Natts House.
Kokoda la seguì, affrettandosi a slacciarsi di dosso quell’imbarazzante grembiule rosa –Kurumi, ieri quando sei tornata da scuola mi sei sembrata leggermente scossa. C’è qualcosa che non va?-
Natsu e Syrup entrarono, chiudendo la porta alle loro spalle.
Lei non rispose, lasciò cadere la propria cartelletta sul bancone e prese a prepararsi una tazza di tè, dando loro la schiena.
I tre si scambiarono uno sguardo inquieto.
-Kurumi?- fece Natsu, avvicinandosi.
-Oggi ho invitato le altre qui, per le cinque- mormorò lei in risposta, coprendo il tono di voce nervoso con il cozzare cristallino delle postate e delle tazze. Si voltò a guardarli –Tutte-
Kokoda comprese al volo. Il sangue gli si ghiacciò nelle vene.
 
Mentre usciva dallo spogliatoio, una compagna di squadra assestò una pacca amichevole a Rin –Possiamo sempre contare sulle tue schiacciate!- disse, con un sorriso.
Lei ricambiò il gesto e si avviò all’uscita, intenta a frugare nella sua enorme sacca da ginnastica. Fu così che non si accorse di Haruka, appostata davanti alla porta con un sorriso enigmatico stampato in volto, finché non andò a sbatterci contro.
-Ciao- esclamò, spaesata –non ti avevo vista-
-Ho notato- scherzò lei. La prese per un braccio –vieni!- esclamò –ho una sorpresa per te-
-Cosa?- Rin tentò di chiudere la cerniera della sua sacca, a suon di forti strattoni ,con una mano, dal momento che Haruka era intenta a strapparle l’altra.
-so che sono leggermente in anticipo, ma non vedevo l’ora di comunicarti la notizia!- le disse Haruka contenendo la felicità a stento. Il suo viso fu illuminato da un gran sorrisone caldo –hanno chiesto appositamente di te!- esclamò, afferrandole anche l’altra mano e riempiendole gli incavi delle dita.
Rin forzò una risatina per nulla spontanea, in un futile tentativo di mascherare il suo sbigottimento.
-Haruka, calmati! Cos’hanno chiesto?- la freddò, sciogliendo la presa delle loro mani.
Lei si mise a ridere senza un motivo apparente –Un ragazzo principiante ha chiesto di te come insegnante di basket!-
Rin sgranò gli occhi, l’incredulità che le inondava gli occhi –Parli sul serio?-
-Scherzerei mai su una cosa del genere?-
-no-
-allora parlo sul serio-
Gli angoli della bocca di Rin si distesero in un tenue sorriso, mentre lo sguardo cremisi si perdeva nell’aria circostante, soffermandosi sul semaforo davanti a loro senza realmente vederlo. Non poté che sentirsi lusingata ad una notizia del genere, e mai si sarebbe aspettata che i suoi sforzi nello sport fruttassero seguendo quell’inattesa direzione. Sentì un’ondata di gioia orgogliosa pervaderle il corpo, come un’altissima onda marina si abbatte sulla scogliera.
Gli occhi di Haruka brillarono di una nitida gioia –vieni, te lo presento!- esclamò trascinandola nella palestra affiancata al reparto sud della scuola.
 
Ryan si portò le mani alla nuca, sbadigliando.
Non aveva chiuso occhio, quella notte.
Inizialmente l’indecisione l’aveva colto per una seconda volta, mentre tornava a casa da scuola. Ma più la giornata scorreva e più il pensiero radicato alla realtà era saldo e freddo.
Aveva provato ad analizzare le proprie sensazioni durante quell’avvenimento fuori dal tempo, in bilico fra l’accettabile e l’immaginario, ed era giunto alla conclusione che esse erano troppo forti e pungenti perché facessero parte di un banale sogno ,sfocato e confuso, dove tutto, in genere, rimaneva attutito dal leggero velo del sonno.
No, il suo terrore era reale. Troppo gelido e attecchito nel suo cuore perché potesse cancellarlo, troppo vivido e pulsante perché la sua mente riuscisse ad uscirne.
Se Rin avesse ragione, ora lui avrebbe dimenticato.  Sarebbe tranquillo.
Invece, passava le ore con il cuore perennemente in gola, il respiro pesante e lo sguardo sfuggente. Stretto dal tempo e smarrito nel bivio fra visione e concretezza, diventava più schivo e scorgeva ombre prendere forma in ogni angolo, zanne acuminate delinearsi vagamente, e il suo udito fin troppo spesso lo tradiva, portandogli ringhi e sibili ingannevoli ai timpani.
Di tanto in tanto percepiva tremiti anonimi dettati da una paura infondata, muti segnali del suo corpo, che lo inducevano ad alzare la guardia e difendersi da qualcosa che non riusciva a comprendere: sapeva di essere esposto, ed era certo di essere in pericolo.  
Ma non conosceva la minaccia.
Eppure era consapevole di non possedere i mezzi per difendersi.
Il ricordo crudele della battaglia lo colse impreparato; le zanne, il sibilo, lo scricchiolare orribile delle ossa, il corpo convulso, tutto si ricompose in una minaccia senza nome, intensa quanto indubbiamente reale.
Ryan appoggiò i gomiti sulle ginocchia, stringendosi le dita e tappandosi con forza le orecchie, certo di udire striscianti fischi acuti e bassi ringhi minacciosi.
Davanti agli occhi vide scorrere sprazzi di battaglia, immagini fulminee e flebili ricordi, intensi, nonostante il ragazzo tentasse angosciosamente di reprimerli.
Ryan gemette, sentì quasi la ragione scivolargli dalle dita, e la mente sprofondare nell’orribile ricordo che gli forzava i battiti del cuore.
Ora era davvero terrorizzato. Un urlo gli premeva forte sulle labbra, quasi con arroganza, nel tentativo di liberarlo da quel peso. Ma Ryan si trattenne, respirò, portando al limite l’estensione dei propri polmoni.
Fortunatamente, un cigolio spezzò quell’istante di delirio, e la porta della palestra si aprì.
Haruka irruppe nella stanza ridendo di gioia, trascinandosi per un polso una Rin piuttosto addolcita.
Ryan alzò lo sguardo e strabuzzò gli occhi: era la prima volta che vedeva le labbra di Rin aprirsi in un sorriso che non fosse sarcastico o schernente. Si riempì gli occhi di quell’immagine, che pareva illuminare da sola l’intera palestra, con sguardo quasi ingordo.
Non appena lo vide, però, la maschera felice che indossava Rin parve incrinarsi. La sua espressione cambiò gradualmente, con lentezza, come se la ragazza non credesse  ai propri occhi. Fu come vedere la maschera creparsi e ricoprirsi di tante, piccole fratture, finché non esplose in frantumi.
-Tu- ringhiò lei, il sorriso ormai morto e rimpiazzato da una smorfia minacciosa.
-oh- anche il sorriso di Haruka si spense –vi conoscete già?- arrischiò, col tono di voce che si smorzava nel dubbio.
Ryan ebbe l’impressione che la temperatura precipitasse, e che l’atmosfera calda degenerasse in qualcosa di critico e vincolato.
-Si- rispose Rin –Ora che ci penso: ho un appuntamento al club di tennis, scusate-
Haruka si voltò verso di lei, gli occhi sgranati,incorniciati da un viso stupito, palesanti l’incomprensione per quel rifiuto improvviso –Cosa?- chiese, in un soffio –ma … perché?-
Rin fece un gesto di non curanza, quindi fece per andarsene.
-Aspetta!- tentò Ryan, alzandosi e afferrandola per un polso –voglio solo parlare-
-Appunto!- ringhiò Rin, spingendolo indietro vigorosamente –Tu sei un … sei il più … - Non terminò la frase, sfogandosi in un verso di insofferenza, sommesso come il lamento di una bestia.
-Per favore- la implorò lui –ho bisogno di chiarire la situazione con te- aveva un tono di voce sfiorante il disperato –per favore- ripeté.
-Lasciami in pace- sibilò Rin, il viso oscurato dall’ombra della rabbia.
Ryan non capiva perché se la stesse prendendo tanto.
In ogni caso, aveva capito che parlare non era il giusto sistema. Con lei doveva fare affidamento ad una strategia differente. Afferrò la palla da basket e stese il braccio, porgendogliela con sguardo risoluto e un mezzo sorriso scaltro disegnato in volto.
-Se vinco io- disse, con voce persuasiva –mi dici la verità. Se vinci tu- gli sbatté la palla sul petto con forza –ti lascio in pace-
Rin alzò un sopracciglio, un sorriso schernitore prese a tagliarsi fra gli angoli della bocca, accompagnato da uno sguardo di sufficienza –stai scherzando-
-No- insisté lui, stringendo la presa sulla palla.
Senza distogliere lo sguardo di sfida dagli occhi di Ryan, Rin fece scivolare il laccio della sacca per la spalla, tagliando l’aria con fruscii secchi, quindi la gettò a terra, afferrando la palla.
Una smorfia spavalda le mutò il viso –fatti sotto, pivello- 

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Capitolo 9
*** Amaro trionfo. ***


Rin si ritrasse, il viso imperlato di sudore e il respiro pesante.
Manteneva abilmente il possesso della palla, ma la partita proseguiva da almeno un quarto d’ora, e né Ryan né lei erano riusciti a mandare a segno un punto.
La ragazza non si sarebbe mai aspettata una difesa tanto tenace da parte di Ryan, inizialmente non aveva intenzione di impiegare troppe energie, si era detta che contro un “principiante” la partita si sarebbe conclusa in fretta, con una schiacciante vittoria, naturalmente. Mai avrebbe immaginato che sotto le semplici vesti usuali di Ryan si nascondesse un fisico asciutto da atleta, e che occultate in quel corpo pulsassero grinta e perizia straordinaria.
-Da quanto tempo pratichi basket?- domandò lei, mentre palleggiava distrattamente con un gioco di polso continuo, indietreggiando e prendendo tempo distanziandosi.
Lui le rivolse quello che doveva essere un sorrisetto accattivante, tirato, però, in una smorfia affaticata.
-Questo sarebbe il quarto anno-
Altro che principiante, pensò Rin, sottraendo la palla da un tentativo scaltro di Ryan.
era veramente abile: scartava di lato, agile e scattante come un’anguilla, e aveva dalla sua quel piccolo particolare dei due metri d’altezza. Torreggiava su di lei come un grattacielo di settantacinque piani.
Erano immobili nel centro del campo, in posizione di stallo, Rin in offensiva, Ryan in difensiva. Tentavano di sottrarsi la palla a vicenda, di ingannarsi, muovevano in orizzontale, tagliando il campo a metà lungo la linea di mezzo,senza riuscire a fare un passo avanti o indietro.
Il gioco prese a farsi più statico e incalzante, ormai i due necessitavano di una ridottissima sezione di campo per il palleggio, le scarpe parevano pressoché inchiodate al pavimento in legno, mentre le braccia sfrecciavano, veloci ed ingannevoli, penetrando nella guardia dell’altro, nell’estremo tentativo di sbloccare la situazione. I movimenti divennero gradualmente più stretti, il palleggio più frenetico, lo spazio più ristretto, i loro respiri si mescolavano in un amalgama incessante e vorticoso, i corpi lucidi di sforzo in continuo urto. 
Ryan passò improvvisamente all’offensiva, disorientandola per un arco di tempo relativamente ristretto.
Rin fu costretta a cambiare bruscamente tattica, facendo vacillare per un secondo la perfetta danza dalle sue dita sulla superficie ruvida del pallone, per evitare che Ryan ne approfittasse, la ragazza dovette posizionarsi di sbieco, bloccando qualsiasi suo movimento con un energico braccio steso, come una sbarra che arresta la corsa. Egli fu sbalzato leggermente indietro, sorpreso dalla pronta reazione, in seguito tentò di aggirare quell’ostacolo, ma i muscoli di Rin erano vigorosi e robusti come ferro.
La partita proseguì fra gli sguardi ammiranti di Haruka e i continui cambi di tattica, improvvisi quanto scaltri. La palestra fu riempita del cigolio delle scarpe da ginnastica e dal respiro ansimante, l’eco del palleggio strisciò sugli ampi muri, espandendosi abbondantemente fra le assi del tetto.
Rin sentiva il petto bruciarle dallo sforzo, la gola irritata per gli ansimi e una doccia di sudore scorrere nell’incavo fra i dorsali. Ciononostante non aveva alcuna intenzione di cedere. “Arrendersi”era una parola che suonava da sempre sconosciuta alle orecchie di Rin, testarda ed inflessibile.
Con una smorfia si accorse che il braccio le pulsava da impazzire, quindi osò una rapida azione e tentò di cambiarlo, sostituendolo con il sinistro, relativamente riposato, nonostante la palla fosse chiusa in un più largo cerchio di controllo.
Come se il tempo si fosse dilatato, Rin vide, quasi al rallentatore, le dita candide di Ryan farsi strada fra i suoi palleggi. In contemporanea percepì il contatto con il pallone scivolarle dai polpastrelli, in un attrito bruciante.
No, Dannazione! Rin digrignò i denti e, sopraffatta dall’istinto impulsivo, spiccò un balzo per riappropriarsi del palleggio. Finì contro Ryan, chino su di lei, ed entrambi rovinarono a terra, gemendo e scossi da profondi ansimi roventi.
 
Ryan represse un gemito soffocato, giacente sul pavimento della palestra, tenendosi il naso che gli lanciava fitte lancinanti. Nonostante Rin fosse di statura inferiore alla sua, non sembrava aver avuto troppi problemi a rompergli il naso con una testata.
Gli occhi gli lacrimavano infidamente, annebbiandogli la vista.
-Rin!- urlò Haruka, dagli spalti –State giocando a basket, non a rugby!- le fece notare, portentosi una mano ai lati della bocca per ampliare la sua voce.
La ragazza, giacente anch’ella su un fianco, alzò il capo per lanciarle un’occhiata sarcastica, quindi si lasciò ricadere, sghignazzando.
Ryan si guardò il palmo della mano per assicurarsi che non vi fossero tracce di sangue. Si accorse che il suo intero braccio, dalla spalla alle punte delle dita, tremava di sforzo.
Con un grugnito esausto fu costretto a rilasciarlo pesantemente a terra, in riposo.
Si sentiva come se le forze gli fossero state risucchiate dai muscoli, aveva l’impressione di sciogliersi e fondersi con il pavimento. Una vampata di caldo si espanse in ogni centimetro del suo corpo spossato, mentre i polmoni protestavano a gran voce, seguendo un ritmo scattante e trascinando il petto in una danza frenetica.
Nel suo campo visivo, le assi del soffitto furono sostituite dal viso leggermente sfocato di Rin.
Con una smorfia infastidita, Ryan si asciugò il velo di lacrime causato dallo scontro diretto del suo naso, quindi la sua visuale fu più chiara.
Rin gli porgeva una mano, inducendolo ,con un gesto sbrigativo del capo, a rialzarsi.
La partita non era ancora terminata.
Lui afferrò la mano e si fece sollevare quasi di peso, rimanendo impressionato dalla forza che Rin dimostrava.
-Avanti- lo incitò lei, portandosi il dorso della mano al labbro inferiore –Continuiamo-
Era evidente la sua impazienza di chiudere quella faccenda una volta per tutte.
Ryan si scostò le ciocche bionde, zuppe di sudore, con un movimento brusco del capo, quindi lanciò uno sguardo nervoso all’orologio appeso. Mezz’ora. Erano passati trenta minuti, e lui non era ancora riuscito a sfilare il monopolio del palleggio dalle mani di Rin.
La sua abilità lo aveva lasciato di stucco.
Era sempre stato uno dei migliori, nel campo da basket, non avrebbe mai immaginato di doversi scontrare così duramente contro qualcuno. Eppure Rin aveva la capacità di sfuggire alle sue prese, prevedere le sue mosse, bloccarlo e, per di più, sapeva sfruttare quel poco di vantaggio che la loro differenza di statura offriva, sgusciando negli  spazi che si creavano fra le sue lunghe braccia e il busto.
Con orgoglio si stava rendendo conto, però, che gradualmente riusciva ad assorbire la sua tattica, limitandone i movimenti e lo spazio per il palleggio. Effettivamente, si era avvicinato più volte alla possibilità di impadronirsi del pallone, ma l’unica volta che ne era stato in grado non era durato più di qualche secondo. E ci aveva pure rimesso il naso.
Haruka si mise a lato della linea di mezzo, stringendo tra le mani la palla da basket.
Sul viso di Ryan andò disegnandosi un sottile sorrisetto acuto: Haruka avrebbe lanciato la palla in aria, più in altro possibile, e lui avrebbe dovuto affrontare Rin per afferrarla prima di lei, in modo da ottenerne il possesso e intravedere anche la più fioca speranza di vittoria.
Data la sua grande superiorità in altezza, non avrebbe avuto difficoltà a precedere Rin e a strapparle il punto vincente, quello che lo avrebbe portato finalmente alla tanto bramata verità.
Haruka prese tra l’indice e il pollice il fischietto argenteo che teneva appeso al collo, la luce del pomeriggio lo fece sfavillare, accecandolo.
Prese un gran respiro e vi soffiò, accompagnando il pallone verso l’alto con una spinta sciolta.
Ryan lesse negli occhi cremisi di Rin una grinta schiacciante, animata da un fuoco intimo che era sicuro di aver già visto avvampare.
Alzò lo sguardo e si sollevò, protendendo le dita verso la palla.
Con sbigottimento, intravide ,con la coda dell’occhio, Rin ergersi progressivamente nell’aria, come se non trovasse resistenza alcuna e la gravità non agisse sul suo corpo minuto. I suoi occhi catturarono ogni particolare di quella scena: i capelli corti che le sferzavano guance e mandibola, lo sforzo liquefarsi in piccole perle di sudore che le sfioravano la fronte, i muscoli tesi e il corpo in azione.
Il possesso esclusivo sul pallone gli fu strappato un’altra volta.
Le suole di Ryan toccarono terra prima ancora di quelle di Rin.
La sua straordinaria elevazione lo aveva letteralmente stracciato.
Si strappò dallo sbalordimento giusto in tempo per sbarrare la strada a Rin, già pronta e scattante per una perforante e continua offensiva che aveva come meta una breccia nelle sue difese, come un incessante assalto ha come meta il punto debole della cinta muraria.
I due continuarono per altri venti minuti, senza che la situazione riuscisse a disincastrarsi in qualche modo. Alla fine, quando la partita sembrava destinata a proseguire per l’eternità senza che uno dei due avesse la meglio sull’altro, Rin, baciata improvvisamente dalla fortuna, fece canestro.
Da fondo campo. Con un lancio che Ryan avrebbe giudicato decisamente impossibile, se non l’avesse visto con i propri occhi.
Il ragazzo crollò a terra nello stesso istante i cui la palla toccò il suolo, attraversata la rete del canestro.
Con lo sguardo fisso a terra e l’espressione incredula, si diede dell’idiota innumerevoli volte, imprecando e inveendo contro qualsiasi pensiero gli accarezzasse la mente.
Idiota, idiota, idiota e perdente.
Aveva perso. E doveva rispettare l’accordo.
Rin lo superò, barcollante di fatica. Non esultò, non rimarcò sul suo trionfo, né infierì sulla sua sconfitta. Semplicemente scambiò con lui un lungo sguardo significativo, traboccante sì di trionfo, ma anche di una strana ed enigmatica comprensione. Quindi si dileguò in silenzio, senza aggiungere altro.
 
Karen sfogliò gli ultimi documenti, passandosi con grazia un polpastrello sulla pelle in prossimità degli occhi, che era andata sensibilizzandosi a marcare due scure occhiaie.
Si guardò l’orologio da polso e constatò che avrebbe dovuto sbrigarsi o sarebbe arrivata in ritardo. E Karen conosceva fin troppo bene il parere di Kurumi a proposito della puntualità.
Infilò vari fogli, tenuti stretti da una graffetta, in una cartelletta color nocciola. Quindi si sciacquò il viso con del sapone delicato e profumato , raccogliendo i capelli ad un lato del collo, per non inumidirli. Si asciugò piano la pelle e, quando osservò il suo riflesso allo specchio, fu soddisfatta di scorgere solo un leggerissimo residuo dei segni profondi trasmessi dall’affaticamento per una nottata in bianco, incentrata nel rimettere in ordine i documenti della scuola e fissare i giusti orari per le diverse giornate a tema ed eventi simili.
Si passò una mano tra i capelli lunghi e freschi, successivamente raccolse la propria borsa, leggera e stretta, contenente il minimo indispensabile, tra i quali un taccuino rilegato in pelle scura e una lunga matita con la punta perfetta. Se avesse ricevuto telefonate varie o si fosse dovuta appuntare qualcosa di particolarmente interessante e basilare, non avrebbe avuto problemi. Cercò le chiavi di casa, quindi fece per uscire, ma ci ripensò: non appena aprì la porta una folata gelida le si arrampicò per la spina dorsale, facendola rabbrividire. Rientrò, raccolse il suo cappotto elegante e chiuse la porta.
Fuori il tempo era del tutto imprevedibile e quasi lunatico: da qualche giorno pareva impazzito, e mostrava un carattere decisamente differente dall’usuale tempo atmosferico che il Giappone era abituato a subire. Tra le caratteristiche inusuali erano inclusi anche forti sbalzi di temperature e cambi di cielo improvvisi.
Una altro brivido agghiacciante strinse Karen nella sua morsa pungente. Nonostante il cielo fosse limpido e solo lievemente velato da una leggera nebbiolina frizzante, alla ragazza parve che l’ambiente fosse interamente congelato e che le poche nuvole scure che tappezzavano il cielo gravassero pesanti sulla città.
Karen scosse il capo, stringendosi fra le braccia e strofinandosi creando calore per attrito. Era quasi inverno, ed era normale che l’atmosfera fosse gelida, quel gelo però non aveva niente a che fare con il clima, Karen ne era convinta:
Qualcosa non andava. 

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Capitolo 10
*** Terrore. ***


Ehilà :D Chiedo scusa per il leggero ritardo di questo capitolo, ma sono stata un po’ impegnata. In ogni caso: eccolo qua. Cercherò di sbrigarmi per il prossimo.  Au revoir!
 
Ryan non ricordava per quanto tempo fosse rimasto inchiodato in quella palestra, dandosi incessantemente dell’idiota. Con quella vittoria, Rin gli aveva strappato a forza l’unica speranza che ancora lo animava, gettandola chissà dove, in un luogo da lui irraggiungibile.
Impulsivo. Non era mai stato impulsivo. Da sempre si ripeteva di ragionare a mente fredda prima di una qualsiasi decisione che potesse risultare anche solo lontanamente considerevole per sé. E mai aveva trasgredito a quella sua regola, imposta da se stesso ogni qualvolta la sorte pareva volgere a suo sfavore, stuzzicandolo e trovando spassosa ogni sua reazione isterica. Perché per ogni crisi che gettava la sua mente nell’instabilità, seguiva un colpo più duro, e così sarebbe stato finché la sua abilità nell’incassarli si sarebbe completamente esaurita.
E allora perché, quel dannato pomeriggio, l’impulsività aveva preso il sopravvento sul suo corpo?
Perché la solita vocina rassicurante non lo aveva riportato tra gli schemi, privato della cecità rabbiosa e chiarito la vista della situazione?
Perché la sua solita compostezza fredda lo aveva abbandonato?
Ryan si lasciò sfuggire un sorriso amaro, nascosto tra la zazzera arruffata di capelli,
Forse perché, alla fine, il colpo della sorte aveva sfondato le sue difese.
O forse perché un ricordo tanto orribile come quello della scorsa giornata gli aveva prosciugato la ragione, accantonato la mente in uno stupido angolino e incatenata nel buio, lasciando che il suo corpo agisse solitario, senza leggi né progetti, come un automa arrugginito.
Come aveva potuto puntare così tanto in una partita di basket? Come aveva potuto essere così stupido da pensare che tutto quello fosse un gioco?
Si strinse il capo fra le mani, puntando i gomiti alle ginocchia, stanco contrafforte del suo peso.
Era spossato. Eppure pieno di rabbia, una rabbia insaziabile, un sentimento che gli scorreva nelle vene pulsanti, colmando i suoi muscoli di un’energia che non possedeva. Si sentiva  irritato a livello psicologico.
Si morse il labbro fino a sentire il sapore del sangue pungergli la lingua. Lasciò cadere il capo all’indietro, contraendo la mandibola tanto da farsi venire i crampi.
La odiava. Odiava Rin e il suo stupido basket. Odiava il suo sguardo, così sprezzante e tagliente, odiava i suoi gesti, sempre seccati, odiava la sua voce, affilata come una lama.
Ma, soprattutto, detestava la sua grinta, così spiccata e travolgente. No, si corresse : più spiccata e più travolgerete della sua. Era questo che non riusciva ad accettare di lei: la sua innata capacità di schiacciarlo in qualsiasi campo.
Due lacrime bollenti presero ad ardergli sulle guance. Perché si ostinava a tenergli occultata la realtà? A gettarlo nel mondo dei sogni come un bambino ingenuo e inesperto, oscurando ciò che più gli premeva, ciò che gli sottraeva il sonno di notte in notte e che gli comprimeva il petto in un’inquietudine insopportabile. Dannazione, sarebbe impazzito.
Si sentì una mano sulla spalla, tanto inaspettata da indurlo a sobbalzare indietro come un gatto selvatico, spaventato quanto preso alla sprovvista.
Alzò gli occhi, contornati dall’arrossamento rabbioso e illuminati da lacrime prepotenti.
Stava per scansare sgarbatamente quel tocco, soffice e delicato, quando il suo cervello riemerse dal fiume d’ira in cui stava annegando.
Una bambina.
Aveva degli enormi occhi color nocciola, spalancati sul suo viso e inondati di una curiosità mal celata. Nella manina stringeva un cono ornato con del gelato alla fragola, in parte sciolto – o, comunque, in buona fase di lasciarsi andare-  sulle sue piccole dita paffutelle. Aveva la bocca leggermente dischiusa a “O”, mentre si avvicinava e gli toccava il naso con la destra.
Ryan si specchiò nello sguardo della bambina, quindi abbozzò rapidamente un sorriso e le arruffò i capelli castani, tenuti in ordine grazie ad un cerchietto rosa decorato con un motivo a cuoricini multicolori.
Immediatamente, ritrasse la mano, certo di aver provato una disgustosa sensazione viscida tra le dita, come se una miriade di serpenti soffianti gli avessero avvolto la pelle, gustandone il contatto.
Il respiro gli si gelò in gola. Mentre il solito ricordo tornava a torturarlo, giocando con la sua ragionevolezza e beffandosi dei suoi disperati tentativi di arginarlo.
La bambina manteneva il suo dolce aspetto, apparentemente docile e bisognoso d’affetto. Eppure, sotto quella maschera vellutata, Ryan cominciò a scorgere lineamenti stravolti, atroci e orripilanti. Dalle tenere labbra rosee vide con certezza penzolare un guizzo violaceo, mentre lo stomachevole tanfo di carne in decomposizione giungeva a cavallo di un tiepido alito umido.
Lo stomaco si ribellò in una violenta contrazione nauseante, mentre ogni centimetro del suo corpo gelò come sotto una pioggia di ghiaccio.
Ryan soppresse a fatica il pensiero, convinto che la sua mente così scossa e provata gli stesse giocando brutti scherzi. Abbassò lo sguardo e si portò con urgenza una mano alla bocca, contraendo la gola in un estremo tentativo di frenare un conato di vomito.
Il pensiero non fece in tempo a sfiorargli la mente, che un crepitio secco attirò la sua attenzione.
Ai limiti del suo sguardo vide di sfuggita una scia di briciole ammucchiarsi sul pavimento, contornate da una poltiglia rosa e zuccherosa.
Comprese all’istante.
O forse no. Fatto sta che il suo corpo balzò indietro, retrocedendo di un paio di metri e precedendo la sua mente affollata di pensieri e ripensamenti crudeli.
No Pensò, terrorizzato, mentre ,sotto i suoi occhi, un ghigno crudele tagliava in due il viso angelico della bambina, nient’altro che un ingannevole travestimento subdolo.
No, si ripeté, la vista sfocata e confusa dall’incubo della realtà.
 La bambina parve svenire, poi Ryan si accorse che si stava accasciando. Letteralmente. Sembrava un palloncino sgonfio, che si ripiegava su se stesso in contrazioni convulse e repentine.
No, no, no, no! I battiti cupi del suo cuore incalzarono, occupando completamente il suo udito pulsante.
Avvertì insinuarsi nel suo petto una strisciante sensazione di terrore; non paura, non spavento: terrore allo stato puro.
Non rimase ad attendere lo svolgersi di quell’orripilante mutazione spasmodica, dove le ossa si sbloccavano dall’abbraccio dei loro legamenti in scricchiolii nauseanti, ed ogni muscolo guizzava come folle sotto il sottilissimo strato di pelle, rossa di sangue.
Si voltò e, senza pensarci due volte, fuggì verso l’uscita più vicina, correndo come mai aveva fatto in vita sua; pestando il parquet della palestra con tale foga da farsi male alla pianta dei piedi, portando al limite massimo l’estensione delle sue falcate –solitamente fluide, ora meccaniche e tese-  e sbracciandosi con brutalità nel tentativo di accompagnare la corsa con un moto forzato delle braccia.
La sua testa era completamente in subbuglio, un disordine non ricomponibile durante quella folle fuga, un caos stordente e raggelante che vincolava i battiti del cuore ad un ritmo frenetico ed il suo corpo ad agire senza alcun pensiero per le conseguenze e senza alcuna volontà di pensiero alla possibilità che fosse raggiunto, catturato.
Nella sua mente, Ryan poteva leggere una sola parola, in maiuscolo, a caratteri cubitali : “SCAPPA”
E le sue gambe ubbidivano all’inconscio ordine datogli dal cervello, spaventate forse più dello stesso Ryan.
Scorgeva l’uscita della palestra a qualche metro di distanza. Ryan non osò distaccare lo sguardo da quell’immagine, che stupidamente considerava salvezza, nonostante non avesse ancora riflettuto sul da farsi non appena fosse riuscito ad evadere da quella prigione. Non osò voltarsi indietro, né lanciare la più fugace delle occhiate: se la prima volta si era lasciato riempire gli occhi di orrore, questa volta non ci sarebbe cascato.
Stava per affacciarsi al di fuori della palestra, all’aria pungente d’inizio inverno e al vento raggelante di fine autunno. Tese entrambe le mani in avanti, come se il gesto potesse aumentare la sua velocità, aiutarlo.
E invece, proprio quando credeva di potercela fare, quando sentiva il profumo dell’aria fredda, uno schianto lo  sbalzò indietro, respingendolo con un’ondata di schegge di legno strappate dal parquet.
Fu costretto ad indietreggiare, sbilanciato, e gli ci volle un enorme sforzo di volontà per non finire a terra.
Un ruggito, e il puzzo della decomposizione gli invase narici e gli assaltò la gola, mentre due occhi rossi come la brace e segnati da un iride affilata, appena visibile, lo squadravano con un enigmatico desiderio delirante.
Il cuore di Ryan si arrestò per un lasso di tempo che parve infinito, irrigidendo il suo corpo in un ammasso di membra tese che sfuggivano al suo –già barcollante – controllo.
La creatura precedentemente occultata dalle vesti di una dolce bambina, aveva ora sembianze generalmente umanoidi. Si avventò su di lui spingendolo abilmente lontano dall’uscita e costringendolo spalle al muro. La pelle color pece di quell’essere rivoltante era interamente ricoperta di sottili aculei pungenti, la sua andatura era leggermente goffa, conseguenza della gobba intralciante che gli gravava sulle spalle e la sua ributtante lingua violacea pareva anch’essa una lama contundente, intrisa di bava viscosa, la quale colava ad intervalli regolari in sottilissimi fili pendenti al terreno.
Il viso di Ryan fu stravolto dal terrore, mentre un urlo ,covato per lungo tempo, gli cresceva nel petto, bruciante e insistente, finché non si strappò con violenza al cielo, sfumato in una disperazione crescente.
Gran parte degli aculei dorsali dell’essere furono estratti dalla pelle con profondi schianti gorgoglianti e sfrecciarono con slancio in direzione di Ryan, il quale, però, trascinato dal puro istinto, si gettò a terra, sgusciando dal ruolo di preda braccata, anche se solo per poco.
Il terrore stava liquefacendosi in lacrime frustranti, annebbianti e inarrestabili. Era scosso da capo a piedi dai tremiti più violenti che il su corpo avesse mai subito in vita, e il suo cuore pareva esplodere, mentre la gola si chiudeva e dischiudeva seguendo una volontà propria, ingoiando a vuoto e mozzandogli il respiro.
SI rialzò, deciso a fuggire, a raggiungere l’uscita di sicurezza in cima agli spalti e ad uscire di lì. La sua mente era stretta in una morsa soffocante, Ryan non capiva più nulla, troppo scosso e confuso dall’irreale susseguirsi di avvenimenti strazianti. La sua vista era strascicata, sdoppiata, e peggiorò non poco quando, senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a sbattere brutalmente la nuca sulla parete della palestra, l’alito stomachevole dell’essere sul collo  e lo sguardo feroce a due centimetri dal suo.
Rilasciò uno sprazzo convulso di respiro, mentre il sapore del sangue si faceva più inteso tra le sue labbra. In un terribile istante di dolore, il capo di Ryan ciondolò di lato, gli occhi guardarono a terra senza realmente vedere e la bocca si dischiuse, incontrollata. Cadde nell’incoscienza.
Vide, come se il suo corpo e i suoi occhi fossero due cose distinte, la creatura chinarsi su di lui, le zanne spalancate, lucide e la lingua a penzoloni. Con un disumano sforzo di volontà, Ryan riemerse dallo stato di svenimento, lottando accanitamente per allontanare il muso contratto in grinze animalesche, pressante sul suo petto fino a privarlo del respiro.
Urlò ancora, ancora e continuò a urlare anche mentre, agitandosi irrefrenabilmente sotto la presa nemica, riusciva a liberare una mano, con la quale accecò prontamente lo sguardo ardente della bestia, affondando indice e medio nei bulbi oculari.
La bestia si ritrasse di scatto, protestando con un gutturale gemito strozzato, e Ryan ne approfittò per scivolare dalla sua presa. Si voltò e fuggì. Corse, corse, corse percorrendo per corto l’intera palestra, mentre i polmoni sembravano volergli saltare in gola e le gambe cedergli da un momento all’altro. Lanciò uno sguardo alle sue spalle, per assicurarsi che quella cosa non si fosse ancora ripresa. Se ne pentì immediatamente:
Nell’esatto istante in cui i suoi occhi slacciavano il legame con la sua fuga, l’equilibrio gli era venuto leggermente meno, influenzato dalla frenesia terrorizzata che gli inebriava il sangue nelle vene. Bastò poco perché il piede destro di Ryan si scontrasse con violenza contro un ostacolo, infondendogli un dolore lancinante. Ebbe l’impressione che la sua intera gamba, a partire dalla caviglia fino all’anca, si fosse attorcigliata su se stessa, come lo spago di una fune che si accavalla, crepitando. Un terribile sblocco secco fece scattare una scossa lacerante, la quale si arrampicò fino a graffiargli i dorsali, usando come appigli i sensibili tendini tremanti. Il ginocchio gli cedette senza che Ryan potesse opporre resistenza alcuna, e il ragazzo rovinò a terra, in un colpo che gli sgonfiò i polmoni di netto.
Il suo urlo si cancellò in un gemito penoso, mentre ogni muscolo si contraeva dal dolore, e nel petto percepiva l’agghiacciante sensazione della speranza ormai persa.
Tentò di rialzarsi, ma per la seconda volta ricadde sul fianco, riportando un livido poco gradevole all’osso sporgente dell’anca. Spinto dalla disperazione, prese a trascinarsi verso l’uscita di sicurezza, mantenendosi sugli avambracci e respirando a fatica, fra un colpo di tosse e l’altro.
Improvvisamente si sentì afferrare per la vita, e il panico gli gelò la capacità di ragionare razionalmente, inducendolo a ribellarsi con foga, urlando e dimenandosi. Nonostante ciò l’aggressore l’aveva colto di sorpresa e aveva sfruttato questo fattore a suo favore, stringendolo per i fianchi con un braccio e serrandogli le labbra con l’altro. Fu letteralmente trascinato negli spogliatoi, bui e freddi, dove la presa parve allentarsi per rassicurarlo, inutilmente; durante il tragitto per le inospitali sale, Ryan aveva già rinunciato a ribellarsi: Quella presa, così calda e decisa, delle dita che premevano sulle sue labbra e quel suono di passi bruschi erano inconfondibili.
Subito dopo, un flebile sussurro confermò i suoi pensieri: -Zitto, idiota- 

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Capitolo 11
*** Lacrime ***


Rin sentì i dorsali protestare a gran voce contro lo sforzo che procurava strascinare quel palo di due metri, inerme e decisamente troppo terrorizzato perché al suo cervello –ammesso che ne avesse uno- arrivasse anche solo l’impulso di alzare un dito.
Come se non bastasse, la partita di basket l’aveva letteralmente spossata, e ora ogni singolo movimento le scuoteva i muscoli in un tremito dolente. Era già tanto che si reggeva in piedi, le gambe davano segno di cedimento da quando quel ragazzo di tre quintali le si era aggrappato a polsi e braccia.
I ogni caso avrebbe dovuto portarlo in salvo, lontano da quell’orripilante essere che ancora sfuggiva alla descrizione che solitamente caratterizzava i nemici affrontanti finora in battaglia. Per non parlare del caso di Ryan, che ancora una volta non aveva dato segni di svenimento sotto la pressione nemica. Questo fatto non quadrava per nulla agli schemi di un regolare umano, studente adolescente che dovrebbe fregarsene altamente di tutto ciò, addormentandosi semplicemente mentre chi sapeva fare il proprio lavoro –Ossia le Pretty Cure - metteva a cuccia i “cattivi”.
Ma ovviamente non era così. No, perché la carica di Pretty Cure non era già abbastanza impegnativa per conto suo, ora dovevano pure mettercisi spilungoni stranieri che magicamente resistevano al “sonnifero” nemico -Di qualunque diavoleria si trattasse- e stavano in mezzo ai piedi incessantemente.
Rin diede un ultimo, snervante strattone a Ryan, gettandolo nel corridoio, in prossimità degli spogliatoi femminili, quindi si appoggiò alle ginocchia, i polmoni che tentavano disperatamente di recuperare una regolare respirazione. Lanciò un’occhiataccia a Ryan, steso a terra, boccheggiante, il viso stropicciato in pieghe profonde di dolore e terrore. Scosse la testa, tossendo mentre il respiro sferzava la sua gola in fiamme. Si lasciò cadere a sedere, la schiena appoggiata contro la parete della palestra e si passò una mano sul viso, urtata al pensiero che tutti gli sforzi per tenere occultato il segreto si fossero rivelati assolutamente vani.
Stinse i denti, i nervi a pezzi. Si costrinse a mantenere la calma, in fondo ora avrebbe dovuto affrontare il nemico, non poteva permettersi di farsi cogliere impreparata. Ingoiò l’ira, il nervoso e l’agitazione in un amaro boccone, quindi cercò a tastoni la sua sacca: inutile lasciar prevalere il proprio orgoglio, aveva bisogno di rinforzi o non l’avrebbe spuntata .
Come una doccia gelida, la consapevolezza di averla lasciata all’ingresso, cellulare incluso, le si gettò addosso, spingendola ad imprecare e mettendo a dura prova la sua pazienza, già precaria.
Per la seconda volta si costrinse a respirare a fondo, ricacciando indietro i sentimenti negativi. Perché, ehi, era normale essere traboccanti di entusiasmo, gioia e ottimismo, in una situazione come quella. Niente da fare, il suo stesso sarcasmo le impediva di mantenere la calma.
Rin sentì un’ondata incontrollabile di frustrazione salirle in corpo. Chiuse gli occhi e tagliò un sospiro tra i denti stretti.
D’accordo si disse, aprendo le mani e rivolgendo i palmi a terra, in segno di tenere a bada la rabbia, come se fosse una belva feroce in agguato, la quale avrebbe approfittato di ogni spiraglio nelle sue difese, di ogni sua debolezza, per attaccarla e sbranare la sua ragione. Quello che doveva fare era indubbiamente raggiungere il cellulare, tramite il quale sarebbe riuscita a chiamare rinforzi. I cellulare era nella sua sacca e la sua sacca era all’ingresso. Fortunatamente fra lei e l’ingresso si frapponeva quel bel bestione, altrimenti l’impresa sarebbe stata così banale da risultare quasi facile.
 Un rantolo represso attirò la sua attenzione.
Oh, giusto.
Avrebbe –inoltre- dovuto sbarazzarsi dello spilungone, o le sue possibilità di movimento si sarebbero ridotte a sfiorare il rasoterra.
Con flebili fruscii, si avvicinò, a gattoni, a Ryan, senza sapere dove fosse esattamente, immerso nel buio degli spogliatoi. Lo cercò a tastoni, scontrandosi contro la parete fredda e allungando le braccia a vuoto; Finalmente i suoi polpastrelli riconobbero quello che doveva essere –per quanto le suggeriva il tatto- il suo braccio. Il ragazzo sussultò al contatto e i suoi polmoni si riempirono improvvisamente. Rin indovinò al volo la reazione che, di lì a poco, avrebbe condannato sia lei che lui.
-Non urlare- gli ordinò, severa, mentre  le labbra del ragazzo erano già in procinto di lasciarsi sfuggire un grido, il quale, in seguito all’avvertimento minaccioso di Rin, si spense in un gemito sussurrato, fino ad ammutolire, intrappolato fra diaframma e gola.  
-Rin?- arrischiò lui, la voce incrinata dal terrore e brancolante nell’insicurezza.
No, il lupo mangia-frutta.
-Si- rispose, alzando gli occhi al cielo.
CI fu un attimo di silenzio angosciante, nel corridoio giungevano attutiti i ringhi feroci del nemico, producendo un eco strisciante per nulla rassicurante.
Ryan le prese un avambraccio, stringendolo in una morsa di ferro palesante il suo rinnovato terrore.
-Sta’ calmo- gli impose, lanciandogli un’occhiata nervosa di sottecchi. Le avrebbe bloccato la circolazione ad un braccio, se l’avesse legato in una pressione leggermente più stretta.
Il corridoio fu scosso da un boato profondo, tanto cupo da poter squassare le fondamenta dell’intera palestra. Un ringhio acuto e graffiante giunse a cavallo di una folata gelida, serpeggiando sulle pareti strette fino a raggiungerli e insinuarsi nelle loro orecchie.
Rin si lasciò sfuggire un respiro tremante, rivolgendo tutta la sua attenzione al muro di oscurità impenetrabile che si ergeva di fronte a loro.
-E’ nel corridoio- constatò in un sussurro.
 
Karen levò la sguardo al cielo, reso pesante da nuvoloni grigi in continuo movimento. Un piccolissimo angolo di cielo sembrava conservare del limpido celeste, dal quale sfociava un timido raggio di sole. La ragazza armeggiò per qualche secondo con la sciarpa voluminosa che aveva attorno al collo, coprendosi meglio la nuca, preda preferita del freddo pungente. L’aria si faceva sempre più frizzante, carica di umidità e un leggera nebbiolina spumeggiante, precedentemente mantello dei monti circostanti, si era pigramente calata fra il traffico, rendendo- molto probabilmente- difficoltosa la circolazione. Karen si accorse con stizza dell’umidita insediatasi fra i lunghi capelli sciolti, rendendoli meno trattabili e secchi al tatto. Sbuffò, mentre una perla cristallina di nebbia condensata le scivolava sul cappotto. Agitò le gambe con insistenza, fissando il semaforo- o meglio, la luce che ne traspariva fra la nebbia- ancora segnante il “via libera” per le macchine- stranamente non in circolazione- ed un severo “stop” per i pedoni.
Mentre attendeva con impazienza che il verde del semaforo le impedisse di trasformarsi in un meravigliosa scultura di ghiaccio, il suo sguardo curiosò nei dintorni con fare reso infastidito dal freddo. Scorse, fra il velo ingannevole della foschia, un alone confuso di luce al neon. Le spalle le crollarono ed un’espressione esasperata si rispecchiò nel suo viso. Non conosceva alla perfezione quella zona, la visitava solamente quando ai suoi genitori risultava impossibile darle un passaggio in macchina, ovunque volesse andare, costringendola a spostarsi tramite i mezzi pubblici. In ogni caso, sapeva per certo che l’edificio rifulgente tra le volute della nebbia era la palestra comunale. E a quell’ora, Karen era pronta a scommettere che si svolgesse un entusiasmante partita di Basket. Se le luci non erano spente, la lezione non era finita e –Seguendo una logica rigorosa- se la lezione non era finita, Rin era ancora in palestra.
Irritata, lasciò perdere il semaforo – che, per un simpaticissimo scherzo della sorte, si era impostato sul “via libera” per i pedoni- e si avviò con andatura impettita verso la palestra. Se Rin non fosse uscita immediatamente da quella palestra, sarebbe arrivata in un ritardo spaventoso, scatenando l’ira funesta di Kurumi, già protendente, negli ultimi giorni, ad un’antipatia istintiva –o forse no- nei suoi confronti. Karen era del parere che, per far fronte all’imminente minaccia di un nuovo, pericoloso nemico, la squadra dovesse essere unita e compatta, e assolutamente non dovesse mostrare la minima frattura, nemmeno la più piccola crepa, che avrebbe potuto fornire un buon punto d’inizio al nemico per mandare in frantumi le Pretty Cure. Cosa che Karen aveva accuratamente aggiunto alla sua lista mentale “cose da evitare”. Possibilmente, s’intende.
Spalancò la porta della palestra, uno sguardo inflessibile incastonato in volto e, senza nemmeno dare peso all’apparente assenza di suoni che potessero preludere una partita in corso, si mise a chiamare a gran voce l’amica, certa che non potesse essere altrove. Solo quando non giunse alcuna risposta, Karen aggrottò la fronte e si preoccupò della sala deserta. Lanciò qualche occhiata indagatrice nei dintorni, ma l’aria pareva immobile, indisturbata. Il suo udito percepì qualche rumore molesto, ma Karen li associò al fatto che nei dintorni il traffico fosse molto fitto. Scrollò le spalle, probabilmente la responsabile del club di basket aveva subito una svista, dimenticandosi di spegnere le luci. Karen si ripromise di farglielo notare: l’illuminazione della palestra nelle ore di basket costava molto anche alla loro scuola, quella sua incuria non sarebbe passata inosservata. Che Rin fosse già alla Natts House? Estrasse il suo cellulare e controllò l’ora sul suo display. Era tardissimo, se non si fosse data una mossa sarebbe stata lei ad arrivare in ritardo. Decise per un ultimo tentativo e, se non avesse ricevuto risposta, si sarebbe avviata in fretta alla Natts House.
-Rin, se sei negli spogliatoi datti una mossa, o arriveremo con un ritardo … - le parole le morirono in gola, mentre, lanciato uno sguardo incurante al corridoio per gli spogliatoi, Karen scorse una lunga coda acuminata, decisamente disumana.
 – … mostruoso- completò flebilmente. Solo allora si accorse che il semaforo sulla strada mandava una luce verde futilmente: nessuna macchina, quella sera, percorreva quelle vie. E, ora che ci pensava, dopo essere scesa dalla metro, non aveva incontrato nessuno, nemmeno il classico idiota che si metteva a fare jogging sotto la bufera. Indietreggiò silenziosamente alla cieca, nascondendosi dietro il muro dell’ingresso. Involontariamente urtò qualcosa di morbido e, voltatasi, riconobbe la sacca di Rin.
 
Ryan si aggrappò al braccio di Rin come se fosse l’unico appiglio a cui stringersi sopra il vuoto di un baratro. Era terrorizzato, dannatamente terrorizzato e, per quanto tentasse di reprimere il tremito del suo corpo, la sua mente si ritraeva al pensiero di cosa li aspettasse a qualche metro di distanza, avviluppato nell’oscurità greve.
-Ho paura- sussurrò, la gola rotta da tremiti spasmodici. Aveva ancora l’impressione che il suo collo fosse carezzato dall’alito rivoltante di quell’essere e il suo viso attraversato dallo sguardo bramante.
Sentì Rin tirarsi in piedi, e il terrore pungente come lame di ghiaccio lo riafferrò fra le sue grinfie, gettandolo in uno stato confusionale. Impedì a Rin di allontanarsi dal lui, anche solo per alzarsi, e la tenne stretta per il braccio.
-No- le disse, un groppo soffocante in gola –Ti prego, Rin-
Aveva una paura folle di rimanere da solo, si sentiva alla mercé del mostro, senza che la sola presenza rassicurante di Rin fosse al suo fianco.
La ragazza si abbassò alla sua altezza –Sta’ calmo- ripeté, scandendo bene le parole. Gli occhi parevano ardere del fuoco interiore che la caratterizzava, donandogli un’aria risoluta e grintosa anche in situazioni critiche come quelle.
-Non farlo- la implorò Ryan, il cuore il gola e il ghiaccio nelle vene. Aveva paura per se stesso, sì, ma ne provava altrettanta per Rin. Come poteva pensare di affrontare da sola quella cosa? Insomma era enorme, spaventosamente potente e ricoperta di aculei pungenti. L’ultima creatura – Reale, come aveva potuto dedurre- simile erano riuscite a sconfiggerla a stento in tre, e in due non le tenevano testa. Lasciando andare Rin l’avrebbe praticamente gettata fra le braccia della morte certa.
Sentì le gote inumidirsi di lacrime copiose, e il groppo in gola si sciolse in leggeri singhiozzi.
Rin diede uno strattone più forte, prendendo di sprovvista il ragazzo e lasciandolo a mani vuote. Ryan si sentì improvvisamente smarrito, disperato e oltremodo indifeso. Gli parve di precipitare nel baratro, tuffandosi in un mare di turbamento che gli impregnava le membra di debolezza e le rendeva sguarnite, esposte a qualsiasi trattamento. Le lacrime aumentarono, inondandogli il viso e affogandolo nell’angoscia.
Si sentì afferrare per le spalle, e gli occhi rifulgenti di Rin gli apparvero a due centimetri dal viso in tutta la loro austerità.
-Le lacrime non servono a nulla. Reagisci, dannazione!- lo scosse con violenza per le spalle, lasciando che il solo tono di voce lo schiaffeggiasse. In tutta risposta Ryan scoppiò a piangere, sentendosi incompreso e indifeso anche contro di lei, attaccato su due fronti diversi.
Gli occhi di Rin furono inondati di una rabbia anonima, di stizza e di scherno.
-Che razza di uomo sei?- sputò con un disprezzo tale, nella voce, che Ryan si sentì pugnalato al petto. Perché lo stava trattando in quel modo? Perché lo umiliava? Ryan si sentì punto nell’orgoglio, e una chiara avversione verso quella ragazza si fece nuovamente strada nel suo cuore.
Scorgendolo in quello stato, Rin sembrò soddisfatta del proprio lavoro, quindi lo lasciò andare, e si confuse nel buio, rimanendo visibile solo come una sagoma indistinta alla flebile luce.
-Sul retro c’è un’altra uscita di sicurezza. Muoviti e raggiungila, al bestione penso io- sussurrò, avanzando lentamente.
Già, pensò Ryan, che ci vuole a raggiungere un uscita sul retro strisciandosi sulle braccia? Batté a terra un pugno, animato da una rabbia incontrastata. Rin era solo un’egoista, una spaccona che aveva come Hobby l’umiliazione altrui.  
Poi, però, ripensandoci, Ryan osservò che forse anche l’impresa di vedersela con il suddetto “bestione” non sarebbe stata così facile. La rabbia sbollì in un secondo. Come aveva potuto pensare anche solo per un secondo che Rin fosse egoista? Quella ragazza si stava gettando fra le grinfie di un essere micidiale anche per difendere lui. Be’ forse non era il suo obbiettivo, ma se gli aveva dato l’ordine di fuggire significava che, anche solo un poco, di lui le importava. Spinto da questo pensiero e colmo di gratitudine verso Rin, prese a trascinarsi lungo il corridoio.
 
Karen cercò un via secondaria per raggiungere gli spogliatoi senza percorrere quel corridoio, pullulante di simpatiche creature omicide. Nonostante non fosse stato un bel gesto, frugando nella sacca di Rin aveva trovato-come si aspettava- il bracciale per la trasformazione. Lo indossava di rado: troppo sfarzoso, femminile e rosa per i suoi gusti, ma soprattutto lo trovava troppo ingombrante durante l’attività fisica – in sintesi: durante la sua intera esistenza- quindi preferiva tenerlo in tasca o portarlo con sé nella sacca. Peccato, però, che la sacca fosse rimasta all’ingresso, e se Rin ora non si trovava nei guai, ci si sarebbe trovata molto presto. Corse fra le diverse, ed innumerevoli, sale della palestra, quando, finalmente, trovò gli spogliatoi della sala da pallavolo, connessi per una porticina sul fondo con quelli da basket. Senza esitare, spalancò la porta.
Si ritrovò ad immergersi in un buio avvolgente, e i suoi occhi, abituati sensibilmente alla luce decisamente forte della sala precedente, piombati nell’oscurità, furono accecati completamente. Karen imprecò a mezza voce quindi cercò a tastoni l’interruttore della luce e, incredibile, lo trovò subito alla sua destra. La sala fu inondata di luce e i timpani di Karen furono demoliti da uno strillo gutturale –Rin o il nemico?- e da una forte imprecazione poco femminile –D’accordo quella era Rin.
L’amica continuava a sfornare una serie di maledizioni, insulti e accidenti vari tenendosi le mani agli occhi, i quali avevano subito un forte sbalzo luminoso e faticavano ad abituarsi all’ambiente, mentre il nemico seguitava ad emettere bassi ringhi e curiosi guaiti frustrati traducibili –a detta sua- ad imprecazioni simili a quelle di Rin. L’amica fu la prima a riprendersi e, lanciata un’occhiata sulla destra, dove stavano appese le mazze da baseball, afferrò la prima a sinistra, la impugnò con entrambe le mani e la abbatté con forza sulla schiena della creatura. La mazza andò in mille pezzi, e la creatura probabilmente non aveva mai sofferto il solletico.
-Diavolo- Imprecò Rin, lanciando uno sguardo di disappunto sul manico monco, strappato da un taglio irregolare e  sverniciato –Era una delle mie preferite- ringhiò.
Karen alzò un sopracciglio: un battuta del genere in un contesto simile le sembro decisamente fuori luogo.
-Rin- chiamò, severa –Che diavolo te ne frega della mazza?-
La ragazza si voltò, inarcando le sopracciglia –Oh, ciao Karen-
In tutta risposta la fronte di Karen si aggrottò in un cipiglio omicida –tieni- sibilò, lanciandogli il bracciale -trasformati-
Rin l’afferrò al volo, lasciando cadere ciò che rimaneva della mazza e si accigliò –e questo dov’era?-
Karen sospirò –Nella tua sacca- annunciò esasperata, ringraziando che il nemico avesse una vista tanto pessima, alla luce, da non essersi ancora ripreso e da barcollare nel corridoio, urtando incessantemente contro le pareti ristrette.
Rin si accigliò ancora di più –Hai frugato nella mia sacca?- sibilò.
Karen alzò gli occhi al cielo –Chi se ne frega! Mettiamo a cuccia la bestia e andiamo alla Natts House, o la furia di questo nemico impallidirà di fronte a quella di Kurumi-
Lei scrollò le spalle e, con il pollice, indicò un ragazzo steso a terra, qualche metro più distante, dall’aria stravolta e gli occhi sgranati, che seguivano lo scambio di battute come ad una partita di ping-pong. Probabilmente si stava chiedendo –ragionevolmente- perché diavolo loro due stessero discutendo tanto disinvoltamente davanti ad una creatura spaventosa, ricoperta di artigli, dotata di zanne acuminate e decisamente enorme.
Karen lo riconobbe: Ryan. Si era ritrovato coinvolto nuovamente. Impossibile che fosse una coincidenza. colse il terrore nei suoi occhi, tanto forte da trasmetterglielo con un brivido gelido. Aveva uno sguardo acuto, fin troppo intelligente perché si bevesse un’altra storiella. Karen era, comunque, convinta che non si fosse bevuto nemmeno la prima: si era accorta, da un paio di giorni, degli sguardi che lanciava a Rin e chi le stava intorno. Quel primo scontro diretto col nemico aveva dato il via ad un movimento a catena  fra lui e Rin, portandoli ad una sfida furiosa e curiosa al contempo: Rin sudava per difendere il segreto, eppure si lanciava all’offensiva continuamente, Ryan voleva penetrare le sue difese, eppure i suoi progressi erano così statici da risultare sulla difensiva.  
-Oh- fu l’asciutto commento di Karen.
-Trasformiamoci- disse Rin –ormai sa tutto, inutile nasconderci ancora-
Finalmente anche lei cominciava a ragionare. Entrambe si infilarono il bracciale ai polsi e, in meno di un battito di ciglia, risplendevano fiere Cure Rouge e Cure Aqua.
Improvvisamente, il nemico si pietrificò per concedere loro una lunga occhiata ostile, traboccante di odio e di una pericolosa ferocia.
Cure Rouge si lanciò all’attacco, spinta dalla solita impulsività che caratterizzava il suo schema di battaglia. Aqua rimase, invece leggermente indietro, retrocedendo verso Ryan, sconvolto, e riflettendo al contempo su una possibile debolezza nemica. Lanciò uno sguardo comprensivo a Ryan, quindi si accovacciò alla sua altezza e gli mise una mano su una spalla, sorridendogli rassicurante.
-Va’ tutto bene- tentò, al fine si tranquillizzarlo – Io e Rouge impediremo che il nemico arrivi a te-
Un balenio di gratitudine attraversò la sguardo spaurito di Ryan –Grazie- disse, sinceramente toccato.
Cure Acqua annuì, lanciando uno sguardo al combattimento per assicurarsi che non degenerasse per Rouge, cosa che avrebbe richiesto il suo intervento tempestivo .
-Senti, io non posso portarti via da qui, Rouge ha bisogno di me. Conosci la Natts House?-
 
Komachi alzò gli occhi per l’ennesima volta sull’orologio della parete e sospirò, scorgendo quanto fosse tardi. Attorno a lei, Kokoda e Natsu condividevano le sue preoccupazioni e palesavano i loro pensieri con comportamenti irrequieti e nervosi. Kurumi, poi, si era imbestialita dal primo minuto di ritardo. Ora non faceva altro che misurare a grandi passi l’enorme sala della Natts House, sbraitando contro chiunque la urtasse durante quel suo rituale per dissipare la rabbia. Come se gli occhi si rifiutassero di dare conto alla sua mente, si staccarono dal pavimento e cercarono nuovamente l’orologio. Era sempre più tardi. Che pensiero intelligente, il tempo passa: è ovvio che è sempre più tardi. Sospirò giocherellando nervosamente con le pieghe del suo golfino. Urara e Nozomi erano arrivate in orario, notizia tanto straordinaria da poter stravolgere le previsioni meteo. Quelle due chiacchieravano amabilmente del più e del meno, senza lasciarsi abbattere dall’atmosfera sgradevole che si era creata nella sala. Quanto le invidiava. Di nuovo, lanciò un’occhiata ansiosa all’orologio. Venti minuti. Erano in ritardo di venti minuti.
Si passò una mano sul viso, incapace di rimanere tranquilla mentre la sua mente affogava in pensieri che la pressavano. Natsu le mise una mano sulla spalla, incrociando il suo sguardo preoccupato.
La porta si spalancò, Kokoda saltò in piedi, Natsu alzò la testa di scatto, Kurumi si bloccò a metà del suo rito, La parlantina fra Urara e Nozomi cessò e Komachi si sporse, speranzosa di veder apparire Rin e karen.
Invece, ad attraversare la soglia fu Syrup. Entrò nella sala e alzò un sopracciglio per l’attenzione così densa che aveva attirato. Komachi sospirò, accasciandosi nuovamente sulla sedia. –Ciao Syrup- salutò con un sorriso stanco e il viso abbattuto. Urara si illuminò, unica luce in tutta la Natts House –Ciao!- esclamò, sorridendo –Quando sei tornato?-
Il ragazzo scrollò le spalle –Stamattina- rispose, asciutto. Poi passò in rassegna i visi dei presenti, precipitati nuovamente nell’angoscia.
Si sedette –no, è più corretto dire si stravaccò- su una poltrona e lanciò anch’egli uno sguardo all’orologio.
-Piuttosto insolito ritardare, per Karen- fu il suo commento.
Komachi sprofondò nella sedia.
-Grazie tante, Syrup, come avremmo fatto senza la tua intuizione?- Replicò Natsu, rabbioso.
Lui alzò le mani, in segno di resa.
Cadde un pesante silenzio, così denso da poter essere palpabile. Nemmeno Urara e Nozomi riuscirono a spezzarlo e, dopo qualche vana parola che tentava di suscitare almeno un sorrisetto, ammutolirono entrambe, rimanendo in attesa.
Passarono altri dieci, interminabili, minuti e, quando il campanile segnò le cinque e mezza, Komachi si alzò di scatto – io vado a cercarle- annunciò, sfilando il cappotto dall’appendiabiti.
Nozomi la imitò, altrettanto preoccupata per Rin.
Urara forzò a fatica uno dei suoi sorrisoni –Ottima idea, comincio a preoccuparmi- 

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Capitolo 12
*** Angoscia. ***


Cure Rouge contrasse l’addome, sospesa in un balzo offensivo, e ruotò su se stessa, sfruttando la dinamica del movimento per acquisire più forza da concentrare sulla sua gamba. Creò un movimento a frusta, avente la sua origine nei poderosi muscoli dell’anca, raggiunse il ginocchio, e terminò con lo stinco, il quale andò ad abbattersi sul ripugnante muso schiacciato dell’essere, unica fetta di corpo scaglioso ancora sprovvista di acuminati aculei.
Rouge si scontrò tanto duramente da gemere di dolore all’inaspettata resistenza ferrea del nemico: le scaglie irte che ricoprivano foltamente la pelle pulsante dell’essere parevano lamine d’acciaio, tanto massicce quanto affilate. Mentre il dolore le si propagava in corpo a cavallo di una scossa interminabile, piantò l’altro piede all’altezza del naso –o qualunque cosa rappresentassero quei disgustosi fori umettati- avversario, premendo con brutalità e sfruttando l’azione per sbalzarsi volutamente indietro, lontana dalle grinfie di quell’essere d’acciaio.
Venne gettata a terra dalle sue stesse gambe, scottandosi, per attrito, la pelle sulla fredda superficie umida del pavimento. Digrignando i denti e stringendosi lo stinco pallido , alzò lo sguardo, divorato dalle fiamme di una grinta ardente.
-Questa me la paghi- sputò, la voce ridotta ad un sibilo minaccioso quanto il ringhio basso di un animale feroce.
La bestia rispose alla sua provocazione con un alto sbuffo torvo, accompagnato dalla ferocia trattenuta a stento nello sguardo scottante, le gengive esposte, contratte, le zanne inumidite e la salivazione straripante dal bacino delle sue labbra –ammesso che potessero essere degne di tale nome.
Cure Rouge saggiò i residui della capacità dello stinco, già abbracciato da uno scomodo ematoma violaceo. Fortunatamente i panni della trasformazione cingevano il suo corpo come uno scudo malleabile e flessibile, capace di adattarsi alle situazioni e risparmiandole penosi colpi che, ne era certa, l’avrebbero letteralmente stesa, indipendentemente dalla preparazione fisica massiccia o scattante che fosse, se si fosse trovata in stato umano. Si rialzò, rendendosi conto che le gambe reggevano ancora il suo peso, anche dopo uno scontro diretto contro quell’essere, che era risultato all’incirca come lo schiantarsi contro un muro di mattoni in bicicletta. Viaggiando in discesa e pedalando di buona lena.
Alzò il mento con altezzosità e lanciò un muto segnale di sfida con lo sguardo, tagliente come schegge di vetro, alla creatura avversaria, ostentando una risolutezza verso la battaglia che, nel suo intimo, non provava. Era perfettamente conscia del fatto che l’avrebbe letteralmente schiacciata, con facilità estrema, se non fosse intervenuta Aqua. Ne era conscia, eppure l’orgoglio le bruciava nel petto con un’insistenza sferzante: da sempre aveva mal sopportato la concorrenza, di qualsiasi tipo, ma, sopra tutte, la concorrenza piatta e inespressiva di Karen, la quale pareva viaggiare perennemente alla sua lunghezza d’onda, e forse anche di più. La sua utilità, perlomeno, incideva fortemente in ogni campo. La sua.
Il sangue prese a ribollire nelle vene di Rin, pulsante, incontrollato. I denti finirono vittima della pressione vigorosa esercitata dalla mandibola e il suo respiro di fece pesante, spinto da una rabbia attingente nientemeno che a pensieri personali , insediatisi nella sua mente sfuggendo la sua guardia.
Il suo sguardo catturò, tutto d’un tratto, un guizzo rapido, sfrecciante fra gli angoli sfocati della sua visuale. I suoi riflessi le salvarono la pelle, contraendo i suoi nervi e dando vita ad una spinta dorsale che le permisero di sgusciare ad un artiglio, improvvisamente slacciato da nervi e legamenti, imbrattato di sangue scuro, denso, secco, un artiglio che l’avrebbe facilmente trapassata da parte a parte e dilaniato le sue membra come fossero un morbido cuscino di piume. Cure Rouge incassò solo un leggero e superficiale taglio sulla guancia sinistra, bruciante quanto la consapevolezza di essersi persa nel fiume in piena dei suoi pensieri, in un momento fatale come quello.
Imprecò sonoramente: non doveva e non poteva permettersi di lasciarsi andare al lusso della distrazione, non in quel momento, perlomeno.
Doveva assolutamente arginare i pensieri riguardanti la sua famiglia e i problemi che la affogavano in una muta graduale, un passaggio fra spensieratezza e il fascio di nervi umano quale stava diventando.
Con irritazione indietreggiò di qualche passo, scoccando continue occhiate di fuoco al nemico, che si dibatteva e ringhiava minaccioso. Fortunatamente il poco spazio offritegli contribuiva a rallentarlo e ad ostacolarlo, rendendo impacciati i suoi movimenti che, se solo fossero stati liberi di espandersi in tutta la loro libertà, avrebbero potuto rivelarsi micidiali.
Non aveva idea di come cominciare per sfondare le difese nemiche, e la sua mente non poteva di certo considerarsi lucida. Certo, non era affatto la prima volta che si ritrovava faccia a faccia con un nemico potente, e, per dirla tutta, nemmeno faccia a faccia con una creatura disgustosa come quella, ciononostante non si poteva di certo considerare “abituata”. No, non si sarebbe mai abituata a quei continui guasti nella sua quotidianità, quegli smacchi che la costringevano a sdoppiarsi, a nascondersi e a strapparsi dalla sua vita. La vita di Rin.
Era stanca perché ogni giorno nasceva un nuovo problema, l’avvolgeva e si accavallava con quelli dei giorni precedenti. Era stanca perché ad ogni passo avanti sembrava scivolare indietro di due, aveva la sensazione di continuare a mettere in fallo un piede ed i suoi ultimi mesi parevano un crudele tapis roulant su ghiaccio.
Ruggì di frustrazione, rendendosi conto che pensieri scollegati all’attuale situazione la stavano distraendo, e il controllo di se stessa le veniva meno, sormontato dalla rabbia di Rin.
Si chinò a schivare un fendente, quindi indietreggiò ancora, senza mai staccare gli occhi dalla bestia nemica.
Ora doveva mettere da parte Rin e la sua rabbia, i suoi problemi e le sue recenti avversioni,  doveva contenere la frustrazione e respingere le pressioni soffocanti.
Ora doveva agire come Cure Rouge.
Con questo pensiero rassicurante che le accarezzava le tempie, Cure Rouge avvertì la rabbia sbollire e il controllo di se afferrarla, farsi più saldo. Un sorrisetto di rinnovata grinta le tagliò gli angoli della bocca, quindi, preso un gran respiro, si avventò sulla bestia con un urlo aggressivo stretto in gola.
 
Ryan alzò lo sguardo sulla ragazza severa che aveva di fronte. In qualche modo, gli trasmetteva una gelida soggezione, nonostante le si leggesse negli occhi intensi una gentilezza premurosa, quasi materna.
Scosse piano il capo, inorridito dai suoni della battaglia che gli giungevano alle orecchie. Non aveva il coraggio di seguire lo scambio di colpi, ma il suo intuito gli aveva permesso di capire che la situazione volgeva a sfavore di Rin –O di chiunque fosse la ragazza avviluppata da lingue di fuoco.
Spostò il peso sull’altro gomito, quindi fece guizzare lo sguardo terrorizzato al viso impassibile della ragazza, a lui ancora sconosciuta.
-Io … - cominciò, la gola secca e il cuore intento a sfondargli il petto –Non posso fuggire- Sussurrò, un tremito traditore nella voce.
Il viso austero della ragazza fu attraversato da grinze confuse, Ryan stava per spiegarle la situazione, lottando contro la paura annebbiante, ma, prima che potesse aprire bocca, un balenio attraversò la sua espressione, quasi illuminandola. Il suo sguardo gli scivolò addosso, aderente come acqua, fino a raggiungere la gamba che Ryan teneva immobile.
Imprecò.
-Rouge- chiamò, elevando la sua voce cristallina ed imponente nell’aria. L’altra, respinta per l’ennesima volta dagli aculei insidiosi della scorza nemica, le indirizzò un leggero cenno col capo, come a dirle che la stava ascoltando, qualsiasi cosa avesse da dirle. Contemporaneamente prendeva tempo, spostandosi lateralmente –quel poco che le dimensioni del corridoi le permettevano- e tenendo sotto rigido controllo ogni mossa nemica.
Notando che la battaglia stava inesorabilmente indietreggiando alla loro altezza, la ragazza si alzò, lo afferrò da sotto le ascelle e, con fatica, lo trascinò indietro, lontano da eventuali colpi bassi o schivate pericolose.
-Rimani qui- si sentì sussurrare all’orecchio. Nuovamente, Ryan provò il senso di smarrimento e la paura amara sulla lingua, mentre la gelida impressione di essere solo e senza contrafforti lo avvolgeva in uno stato di semi coscienza.
Lanciò uno sguardo sofferente al suo piede destro: avvertiva un sgradevole sensazione pulsante, ad ogni movimento gli pareva che il polpaccio gli prendesse fuoco e che delle fiamme roventi gli dilaniassero le carni, mentre, all’altezza della caviglia, si sentiva privo di elasticità, rigido e costretto al limite. La sua gamba era un terribile gioco alla fune, una fune rovente e terribilmente intirizzita.
Il gomito gli scivolò e Ryan perse il suo unico punto d’appoggio, cadendo aspramente a terra e cozzando con la nuca sul pavimento lucido. L’impattò gli svuotò d’improvviso i polmoni, liberando uno sprazzo forzato di gemito. Non trovò né la forza né il coraggio per rinnovare la sua posizione. Annaspò, mentre il caldo soffocante si chiudeva nel corridoio, e il tanfo umido di sudore e putrefazione lo avvolgeva in una stretta nauseante, infiltrandosi nelle narici e istupidendolo. Scosse la testa, al limite della sopportazione.
La gamba scandiva un ritmo doloroso e stordente, mentre la battaglia si svolgeva accompagnato da gemiti taglienti e ruggiti agghiaccianti.
Improvvisamente, Ryan sentì l’irrefrenabile bisogno di sentirsi dire che quello fosse solo un sogno.
 
Cure Aqua afferrò un gomito di Cure Rouge, tirandola in disparte un secondo prima che la coda, irta di spine, si abbattesse sul pavimento, incrinandolo in crepe decisamente poco rassicuranti.
Notò il suo affanno e il velo di sudore che la ricopriva. E trovò il tutto decisamente insolito: da sempre Rouge era la più instancabile della squadra, non poteva credere che per così poco il suo fisico fosse stravolto in un modo tanto palese.
-Rouge- La richiamò alla realtà, mentre gli occhi lampeggianti dell’amica assumevano una sfumatura vacua –Va tutto bene?- chiese, sinceramente in pensiero per la salute dell’amica.
Lei le rivolse dapprima uno sguardo ribelle, ombroso, poi si sciolse nella solita determinazione pura e limpida. Fece un gesto di noncuranza –L’allenamento di basket è stato piuttosto duro, oggi- ansimò, spingendosi indietro per respingere, con un calcio alto, un tentativo di offensiva nemica. Cure Aqua notò immediatamente la fiacchezza della resistenza e si costrinse ad intervenire per offrire ausilio all’amica spossata.
-Rouge va’ da Ryan, qui ci penso io- ordinò con voce ferma, spingendola di lato e attirando la piena attenzione della bestia enorme.
-Sono in grado di combattere- Ringhiò di rimando l’amica, stizzita e animata da una rabbia anonima.
Cure Aqua colse il suo sguardo poco prima che il nemico li intralciasse, come un’ombra nera che piombava su di loro. Le iridi rabbiose di Cure Rouge rimasero decisamente impresse nella retina di Cure Aqua, la quale non poté far altro che chiedersi perché ultimante fosse così intrattabile ed indomabile. Era terribilmente frustrata, per qualcosa, da qualcosa.
-Posso aiutarti!- le urlò, quando riuscirono a ricongiungersi.
Lei annuì –lo so Rouge. Ma Ryan ha un problema che solo tu puoi risolvere, saresti più utile al suo fianco, ora-
 
Cure Rouge lanciò un basso ringhio rabbioso, quindi balzò indietro, mentre la rabbia le pungeva gli occhi come fuoco liquido. Erainutile. Anche li, anche ora, anche così.
Si sentiva così avvilita, frustrata, abbattuta. Il suo orgoglio si ribellava e si impennava come un cavallo selvaggio, agitandole un fuoco interiore come fosse vento solleticante lunghe fiamme graffianti, ardenti.
Il ringhio della bestia rimbalzava sui muri, la confondeva, illudeva e la rabbia le stringeva la ragione in un piccolo spazietto, permettendo al cervello di agire giusto per dare sfogo con futili calci a vuoto.
Non capiva più nulla, improvvisamente l’ansia le afferrò lo stomaco, e il corridoio parve restringersi, mentre l’aria si faceva più calda, più nauseante, più alta, come se fosse acqua bollente che continuava ad alzare il livello, soffocandola, scottandola.
Raggiunse Ryan correndo, mentre l’ira le divorava il petto e l’impellente voglia di uscire da quel posto si faceva insistente, ossessionante.
Mi manca l’aria.
SI appoggiò alla parete, in preda ad una crisi di nervi, mentre ogni pensiero e problema le vorticavano senza freno nella testa, alimentando il fuoco della rabbia, accendendola come un falò. 
Voglio uscire.
Afferrata da una frenesia sgradevole, tastò nei dintorni, trovando le spalle di Ryan. Era scossa, sì, ma ancora abbastanza lucida da imporsi di portare in salvo anche il ragazzo, oltre che a lei. In salvo da cosa, non lo sapeva. L’essere fatale era là, bloccato a metà corridoio, non avrebbe rappresentato alcun pericolo, finché Aqua sarebbe riuscita a trattenerlo.
Voglio uscire.
Si caricò su una spalla il ragazzo, sollevando di peso, ignorando le sue proteste animate e i suoi urli di dolore.  Si lanciò ad una folle corsa, lanciando continui sguardi alle pareti, come se si aspettasse che potessero chiudersi a comprimerla, mentre ad ogni sbalzo Ryan gemeva si contraeva, ma non opponeva resistenza. Nemmeno lei riusciva a capire perché un affanno tanto opprimente la inducesse ad accavallare azione dopo azione, senza ragionare, senza pensare.
Forse voleva rendersi utile.
 
Ryan strinse i denti, gemette di un dolore lancinante. La gamba lo stava facendo impazzire, e Rin lo stringeva eccessivamente, per i fianchi, quasi fosse in grado di spezzargli le costole di netto. Ad ogni passo di Rin, lui sentiva che avrebbe perso la ragione, invece la consapevolezza continuava a mostrarsi, limpida e crudele, e si faceva sentire pulsante come non mai.
Nonostante tutto non voleva intralciare la corsa di Rin. Lo stava portando fuori di lì. Stavano uscendo da quel corridoio terrorizzante. Sapeva che se fosse rimasto là dentro un secondo in più sarebbe letteralmente impazzito.
Eppure la corsa –una tortura- sembrava non cessare mai, lo spazio da ricoprire pareva interminabile. Lasciò ricadere il capo sulla scapola di Rin, stringendo convulsamente le sue spalle mentre la sua gola si lasciava sfuggire respiri mezzi strozzati e singhiozzi di terrore.
Poi, finalmente, la corsa cesso.
Rin si sbilanciò indietro e con un calcio aprì la porta dell’uscita di emergenza.
L’aria fredda dell’inverno li investì, lavò l’affanno, strappò l’ansia, come una doccia che cancella, con un ondata di sollievo, ogni sentimento negativo.
Erano fuori.
 
 
NOTE: Rieeeecooomi… dunque… in questo capitolo ci sono alcune parti che potrebbero risultare poco comprensibili, perché ho voluto aggiungere qualche allusione ai problemi personali che hanno cambiato Rin (tendenzialmente, dovrei introdurli nel prossimo capitolo).
Risulta forzato? Fatemi sapere :D
Inoltre volevo ringraziare chi mi segue, e chi legge la mia storia in particolare:
-Konankohai
-mixxo98
Che hanno inserito la mia storia nelle “seguite” e nelle “ricordate”
-Kissenlove
Che rilascia recensioni ai miei capitoli.
- Fnsrlieamhk
Che ha recensito TUTTI i miei capitoli, che continua a seguirmi e che mi ha inserito in “autrice preferita”
Grazie mille!
Drawandwrite. 

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Capitolo 13
*** Rinforzi. ***


Cure Rouge lasciò scivolare Ryan dalle sue spalle, adagiandolo a terra in un ultimo, straziante, sforzo. Con un sospiro si godette la leggera brezza invernale, che le scivolava sul corpo come pioggia ghiacciata. Un brivido le gelò le membra fino alle ossa, travolgendola con un ondata di freddo tanto intensa da essere dolorosa, eppure paradossalmente inebriante, piacevole … le spazzava dalla mente i pensieri vorticosi, talmente fitti da trasmetterle un vago senso di nausea. Si lasciò cadere sulle ginocchia, in un sospiro quasi in simbiosi con la frusta pungente dell’aria.
Era stanca. Aveva i nervi a pezzi.
Ma non era ancora finita. Cure Aqua stava combattendo per coprire la loro fuga. Doveva reagire, doveva smuoversi dallo stallo della sua mente, strapparsi dallo stordimento totale in cui si stava gradualmente annullando.
Come una carica di energia, un respiro a metà gola la rianimò, afferrandola per il petto e rinvigorendo i suoi muscoli. Senza pensarci due volte ghermì Ryan per un braccio, al fine di attirare la sua attenzione.
-Alzati- ordinò, ansimante.
In tutta risposta lui scosse il capo, il viso teso e distorto in grinfie di dolore.
Gli occhi di Cure Rouge lampeggiarono di severità al rifiuto di Ryan. Non poteva permettersi di fare i capricci come uno stupido bambino. Non in quel momento. E lei, dal canto suo, non gli avrebbe permesso di gettare i suoi sforzi e quelli di Cure Aqua in un baratro inutile, non avrebbe messo in pericolo la sua squadra.
Lo afferrò in malo modo per un braccio e lo issò sui suoi stessi piedi a forza, sebbene fosse spossata, provata sia dalla partita di basket sia dal breve scambio di colpi col nemico, fatto che le aveva lasciato un idea indelebile della forza nemica, assieme ad un residuo strascicato quanto profondo della smisurata differenza tra il suo potere e il relativo contrastante.
Ma, nel medesimo istante in cui il ragazzo fu in piedi, lo sentì crollare sotto la sua stessa presa, accompagnato da un orribile gemito.
L’angoscia colpì lo stomaco di Rin con la forza di un maglio. Pressata dall’urgenza di portarlo fuori dalla portata nemica, non aveva nemmeno lontanamente pensato alle sue condizioni.
Imprecò sonoramente, mentre Ryan si accasciava scompostamente al suolo, trascinandola con il suo peso schiacciante.
-Sei ferito?- chiese, in preda ad una nuova morsa incalzante.
Ryan non rispose. Era sconvolto. Non ci voleva un intelletto straordinario, per capirlo: il suo viso era ricoperto di un velo di sudore, il suo sguardo era sfuggente e guizzava alle proprie spalle in una maniera ossessiva, la sua paura, il suo terrore, la sua impotenza, la sua angoscia e il suo dolore gli colavano sulle guance, lenti quanto strazianti, nascosti tra le pieghe del suo viso, agitato come un mare in burrasca. Aveva le spalle chiuse, gobbe, come a creare una barriera attorno a sé, segno di un’introversione spinta dalla paura e dalla diffidenza, si chiudeva in se stesso e non lasciava mai il petto scoperto, come se Cure Rouge potesse improvvisamente estrarre un coltello e conficcarglielo nel cuore. Stringeva convulsamente la gamba destra, in prossimità del polpaccio e del tallone.
Cure Rouge non si fece sfuggire questo particolare.
Ignorando le proteste animate del ragazzo, gli fece sciogliere la presa rigida, lo costrinse a tenere tesa la gamba e lo spinse, con una mano, contro il muro, in modo che si adagiasse con il busto e che potesse rilassarsi.
-Calmati, ora- ordinò.
Senza aspettarsi che ubbidisse, Cure Rouge afferrò l’orlo dei pantaloni e gli scoprì la gamba, pallida quanto la sua stessa pelle, liscia e immacolata.
Solo allora afferrò il motivo per cui Cure Aqua le aveva ceduto il posto per portarlo in salvo. Lei era consapevole delle sue vaste conoscenze in fisioterapia, acquisite poco prima che la onorassero della possibile carica di insegnante di basket , compito assolutamente improponibile, senza sufficienti conoscenze in campo medico.
Con l’indice e il medio posti a “V” tracciò le scanalature laterali della tibia, tracciando il perimetro di tutto lo stinco dal ginocchio fino a raggiungere il tallone, solleticando la caviglia. Tastò i muscoli, rigidi di sforzo, i legamenti contratti e premette in profondità, fra tendini e ossa, cercando le membrane ossee e la loro sensibilità.
 
Ad ogni polpastrello fra le sue carni, Ryan sussultava, ma si costringeva a sigillare le labbra, ingabbiando i gemiti fra i denti. Non avrebbe mai pensato che una personalità come Rin, brusca e graffiante, potesse nascondere un tocco tanto delicato. La sua gamba veniva sfiorata con cura, e sulla sua spina dorsale si alternavano brividi gelidi e brividi tiepidi, non tutti causati dalla stagione crudele, temeva. Lentamente, i suo intero corpo, rigido come un pezzo di legno, si rilassava, addolcito sotto la leggera carezza di Rin. Ryan percepiva i battiti del suo cuore frenetici, intrappolati nella gabbia del terrore, eppure ora avvertiva una leggera sfumatura diversa, che fra i battiti del suo cuore si nascondesse anche un timido battito differente? Il pensiero lo fece arrossire fino alla radice dei capelli, e un caldo improvviso si posò sul suo volto. Imbarazzato, si assicurò che l’attenzione di Rin fosse interamente concentrata sulla sua gamba e che il suo sguardo non stesse vagando altrove, notando il suo improvviso turbamento emotivo.
Possibile che … ?
Ryan ebbe appena il tempo di sfiorare la realtà, nuova e inaspettata, quando Rin –alterata sotto la sgargiante divisa da combattente- alzò gli occhi, il viso perennemente distaccato, freddo e caldo al contempo, lasciandosi deturpare da una smorfia preoccupata che non prometteva nulla di buono.
-Conta fino a tre- disse soltanto, tornando a studiare la sua gamba.
No, decisamente non prometteva nulla di buono. Ryan rabbrividì, spaventato al pensiero di ciò che avrebbe dovuto subire. Ebbe l’impulso di ritrarsi dalle mani di Rin, di scivolare lontano e sfuggire a tutti gli avvenimenti, sovrapposti e collegati come una catena, che riducevano la sua mente ad un ammasso di pensieri inutili e il suo corpo ad un vortice in continuo turbamento.
Invece si arrese a Rin. Ancora, di nuovo, per l’ennesima volta.
Lasciò appoggiare la nuca al muro freddo ed umido, rovesciando gli occhi verso l’alto, concentrandosi sulla fetta di cielo che invadeva la sua visuale. Il tramonto stava allungando le sue braccia sulla distesa limpida, trascinando altrove l’azzurro e proponendo un invadente sfumatura rossa.
-Uno- sospirò con voce tremante.
Una mano di Rin si posizionò all’esterno della gamba, abbracciandola di netto con le dita, in modo da immobilizzarla.
-Due- continuò, angosciato.
Rin ghermì con la mano rimanente il suo piede.
Ryan intuì. Ed ebbe paura, una paura folle dell’imminente dolore. Si irrigidì, strinse a vuoto le dita, serrò gli occhi con forza, congiunse i denti e, col fiato sospeso, completò l’opera.
-tre- sussurrò, atterrito.
Con uno strattone brusco, Rin gli girò verso l’interno il piede. Uno scricchiolio devastante preannunciò l’esplosione del dolore, lancinante, bruciante, travolgente. La sensazione fu quella di avere un nodo nella gamba, un nodo di tendini e legamenti, muscoli e sangue. Rin l’aveva strappato, steso come un lenzuolo. Il dolore esplorò ogni spaziò libero di Ryan, crescendo e salendo alla gola con un impeto inarrestabile. Urlò, fino a farsi bruciare la gola, mentre Rin giocava con crudeltà al “tiro alla fune” con i suoi muscoli distendendoli, portandoli al limite dell’elasticità. Ryan si dibatté, varcata la soglia della sopportazione, e lacrime calde ripresero a solcargli il viso.
Il suo urlo fu mozzato, i suoi polmoni subirono un colpo bruciante. Ryan si rese conto che, per l’ennesima volta, la mano di Rin premeva sulle sue labbra, impedendogli di condannare le loro vite. Serrò le labbra e lo sforzo di contenere l’urlo e la disperazione divenne insopportabile, gli fece tremare denti e labbra.
Nonostante tutto un enigmatico rossore lieve gli colorò le gote.
 
Cure Rouge percepì le lacrime di Ryan solleticarle le dita, esplorarle i polpastrelli e depositarsi fra gli incavi delle dita. Percepiva lo sforzo del ragazzo. Percepiva la sua paura e il suo dolore. Ogni sua emozione si faceva più palpabile, percettibile con i sensi, fino ad acquisire addirittura un sapore specifico.
La ragazza si sforzava di rimanere impassibile e distaccata, fredda di fronte alle sofferenze di Ryan, o non sarebbe riuscita a convincere quello zuccone a fuggire e mettersi al riparo.
Inaspettatamente, sentì le dita di Ryan avvolgersi al suo polso, stringendolo con forza, fino a farle male, fino a mozzarle il fiato. Rimasero così, entrambi intenti a combattere e resistere al dolore, finché la stretta si Ryan non scemò.
Allora Cure Rouge riprese fiato e si permise di sedersi nuovamente, concedendosi una pausa fra un avvenimento provante e l’altro.
Le dita di Ryan erano ancora avvinghiate mollemente al suo polso, e lei era troppo stanca e debole per volerle scostare.
Quando il suo udito colse passi frettolosi in avvicinamento, però, i suoi muscoli agirono a parte: si rialzò di scatto, i riflessi tesi e la guardia alta.
Quando dall’angolo sul fondo sbucarono Nozomi e Komachi, Cure Rouge non riuscì a frenare un sorriso rinfrancato.
erano arrivati i rinforzi.
 
NOTE: è un capitoletto di passaggio perché non ho avuto molto tempo per scriverlo (un pomeriggio XD) quindi chiedo scusa per eventuali strafalcioni grammaticali o forzature nel testo.
Mi farò perdonare nel prossimo, se troverò spazio tra una verifica e l’altra XD 

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Capitolo 14
*** Il piano. ***


Cure Rouge fece appena in tempo a gioire per i rinforzi freschi, quando un tuono cupo scosse l’intera palestra, gonfiando una nube di polvere gravante sulle loro teste.
-Giù- vociò, chiudendosi su se stessa e costringendo Ryan a fare lo stesso.
Udì Komachi e Nozomi lasciarsi strappare un gemito turbato, spezzato più volte da violenti colpi di tosse, conseguenza dell’infida polvere che solleticava loro le gole.
Quando l’aria si fece relativamente più limpida e il muro pungente si dissipò, Cure Rouge osò aprire un occhio, immediatamente aggredito dall’aria infestata di pulviscolo. Tra le lacrime ardenti che le impastavano le ciglia, scorse due figure indistinte, due macchie sfocate immerse nel grigio irrespirabile.
Tossì, mettendo a dura prova la propria gola e i propri polmoni , quindi fece per rialzarsi, ma un peso improvviso la colpì tra le scapole, con una durezza che le troncò il respiro. Percepì il proprio corpo scivolare di lato, come una nave che affonda con lentezza estenuante, mentre la vista le si offuscava e l’olfatto le bruciava le narici. Si riprese giusto in tempo per attutire la sua caduta, puntando un braccio stanco a sostenere il suo peso. Era stanca. Stanca oltre ogni dire, con quel ritmo crudele i residui della sua energia sarebbero crollati in un battito di ciglia: Faticava a muovere i muscoli, che rispondevano con una rivolta sempre più animata e faticava persino a ragionare, la sua mente era chiusa, ingabbiata, si sentiva stordita e incapace di risorgere da quel mare frastornante.
Si sentì chiamare.
Riaprì gli occhi. Quando li aveva chiusi?
Ryan la scuoteva per una spalla, il volto angosciato e le lacrime pronte a sgorgare in una corsa interminabile. Aveva il viso sporco, la fronte imbrattata e la pelle opacizzata.
Era debole, incline a cedere. La sua vita si era ritrovata ad essere stravolta improvvisamente, intrappolata nell’occhio di un uragano da cui non sarebbe più uscita.
Rouge riprese piena consapevolezza, la guancia premuta sul terreno graffiante. Con l’aiuto della braccia, tentò di issare il suo stesso torso. A quel tentativo, un peso squadrato le scivolò dalla schiena, graffiandole la pelle con la sua superficie ruvida e liberando il suo respiro. Con un rapido sguardo scorse un mattone precipitare pesantemente dal suo fianco ed intuì che doveva essersi strappato dalla parete, crollando sulla sua schiena e allontanandola brutalmente dalla coscienza.
Erano nel bel mezzo di una pioggia di mattoni.
Spinse Ryan contro ciò che rimaneva del muro, e lo imitò, appiattendosi per dimezzare le probabilità di ricevere una mazzata fatale da uno di quei meteoriti.
-Sta’ a ridosso del muro- ordinò a Ryan –muoviti di lato-
Insieme scivolarono a destra, penetrando la nube di polvere e riducendo gli occhi a due fessure, nell’inutile tentativo di scorgere i possibili ostacoli sulla loro strada: pezzi di legno, mattoni crollati, chiodi e altri oggetti poco visibili rendevano il loro incedere lento e difficoltoso.
Le orecchie di Cure Rouge erano ricolme dei fischi taglienti che producevano i mattoni nel loro precipitare, a volte lontani e impercettibili, a volte così terribilmente vicini da poterne percepire lo spostamento d’aria sul collo.
Col fiato sospeso, gli occhi irritati, la gola ardente e il corpo sfiancato, avanzava brancolando in un buio di polvere, incoraggiando Ryan, abbattuto e sfinito.
Sembrava trascinarsi in un labirinto buio, immateriale, tanto infido quanto debilitante.
Incontrò un ostacolo, non ben identificato, e sarebbe rovinata a terra se Ryan non l’avesse prontamente afferrata –Sebbene in malo modo- per il gomito.
Ottimo segno: il ragazzo si reggeva in piedi ed era stato in grado di spostare il peso, sbilanciarsi, cosa che lasciava intuire l’imminente guarigione completa della sua gamba. Inoltre i suoi riflessi si erano fatti pronti e scattanti, conseguenza certa di una mente lucida, del recupero della coscienza e del sangue freddo.
Si voltò per appurare la sua situazione emotiva, ma, per quanto si sforzasse, la polvere era insidiosa e fitta persino fra loro, due corpo vicini e a contatto. Lo sentì tossire, mentre la presa sul suo gomito esitava sotto la violenza dei suoi polmoni. Dovevano uscire di lì.
Erano di nuovo in trappola.
 
Nozomi si piegò in due, le mani sulle ginocchia e i colpi di tosse a scuoterle il petto. Komachi, al suo fianco, di appoggiò al muro, lasciando ciondolare il capo sotto il colletto del suo maglione, per filtrare l’aria e renderla meno irritante.
Seguendo il suo esempio, la ragazza si portò una manica alla bocca, e fece per lanciarsi nel cuore della nube, quando, improvvisamente, emersero due figure scure e indistinte, doloranti, ricoperte da capo a piedi di uno spesso strato di polvere scura. Rese cieche e spinte come non mai da un desiderio fremente di aria fresca, finirono per non vederla e la travolsero.
Nozomi batté la nuca a terra, investita da Cure Rouge e un altro ragazzo che le giacevano addosso come sacchi di patate. La divisa da Pretty Cure era così opaca da risultare grigia, tappezzata qua e là da strascichi scuri di terra, mentre il chiarore dello sconosciuto, sia dei capelli, sia della pelle, era smorzato a forza.
La ragazza tentò di tossire, aggredita e impastata dalla stessa polvere che teneva prigionieri i due, ma il petto era compresso sotto di loro, e la gola riuscì solo a farsi sfuggire un patetico gemito strozzato.   
Komachi corse in loro aiuto, e Nozomi percepì lentamente in peso svanire e l’addome farsi più leggero. Quando ne ebbe la possibilità, si rialzò e cercò, sotto lo strato di polvere, il viso della sua amica. E lo trovò. Stanco, straziato, stropicciato in pieghe esauste, ma lo trovò.
-Rouge!- esclamò, angosciata –stai bene?-
L’occhiataccia sarcastica che le rivolse funse come risposta.
Mentre l’amica tentava di liberarsi della polvere più insidiosa, Nozomi lanciò uno sguardo curioso a Komachi, intenta a sorreggere lo sconosciuto e ad aiutarlo ad allontanarsi dalla polvere sospesa in una nube scura, immobile eppure ruggente come una bestia a cui era stata sottratta la preda.
Fece mente locale e scoprì di averlo già visto, quella mattina, sulle strisce pedonali.
Un momento …
Cos …
-Ma che cavolo ci fai sveglio?- strillò, sgranando gli occhi.
Lui ricambiò lo sguardo, riuscendo a donare un pizzico di perplessità al vortice di dolore e spavento che contraeva il suo viso.
Nozomi si fissò le mani sui fianchi, in attesa di una risposta soddisfacente.
Lui le concesse un lungo sguardo confuso, poi scosse lievemente il capo.
-E io che ne so!- mormorò, scrollando le spalle- e la polvere intrappolata fra le pieghe delle sue vesti.
La sfacciataggine di Nozomi crollò in un secondo.
-come sarebbe a dire che … - una mano scortese l’afferrò per una spalla, trascinandola in basso e inducendola e tapparsi la bocca.
-Trasformati e vieni con me- ordinò Cure Rouge, tra una pausa e l’altra fra i colpi di tosse.
Nozomi alzò le sopracciglia, presa alla sprovvista. L’amica fece un gesto come a dire “te lo spiego più tardi”, quindi si rivolse a Komachi.
-Occupati dello zoppo, noi abbiamo ancora una questione irrisolta-
Komachi abbandonò per un secondo il ragazzo, fiondandosi su Cure Rouge con la preoccupazione che le saliva alla gola. La prese per la spalle –Dov’è Karen?- chiese, angosciata.
Rouge prese fiato per rispondere, ma, come a volerle rispondere di persona, l’uscita di sicurezza della palestra a qualche metro di distanza si spalancò di colpo, facendo sussultare i presenti, e Cure Acqua si fiondò fuori con una velocità ammirevole, mal sostenuta sulle proprie gambe, seguita a ruota da un ammasso di pelle e muscoli neri, neri come il petrolio e inquietanti come il buio freddo della notte. L’essere si trascinò dietro –letteralmente- la porta,  frantumandola in mille pezzi ed esplodendo in un ringhio minaccioso, mostrante la dentatura spaventosa e la mascella possente.
A tale vista Nozomi perse la capacità di respirare.
Impallidì e fece un passo indietro.
Era convinta che tutto fosse finito. Era convinta che fossero riuscite a riportare una dannata situazione pacifica, dopo le battaglie affrontate e le fatiche subite.
E invece ora si ritrovava di fronte ad un essere disumano decisamente anormale –Be’, di certo non si trattava di un gattino o di un pesce rosso-
Nonostante Kokoda si fosse lasciato scappare qualche parola misteriosa, stuzzicante la curiosità di Nozomi, che lasciava preludere ad una situazione sgradevole, la ragazza non avrebbe mai rivolto i propri pensieri alla possibilità di un nuovo scontro. Il suo bracciale di Pretty Cure giaceva da troppo tempo nel fondo del suo cassetto, o attorno al suo polso senza alcuna funzione specifica, così, giusto per sentirsi rassicurata o, addirittura, come oggetto che le riportasse alla memoria brandelli di “vecchi tempi”.
Komachi si precipitò da Aqua, stesa a terra dolorante, la pelle graffiata e lacerata in più punti, i muscoli stanchi e l’espressione provata.
Nozomi la seguì con sguardo vacuo, distante. Non era sicura di voler riprendere una vita così movimentata. Eppure, sentiva che tutti quei pensieri intrecciati, accavallati, agitati in un susseguirsi incessante e collegato, erano fissati su uno sfondo amaro, che le ricordava perennemente il suo dovere.
Le Pretty Cure non avevano scelta. Non l’avevano mai avuta e mai l’avrebbero avuta. L’ammissione del bracciale aveva sancito di netto la loro seconda vita, una vita forzata, priva di volontà e decisioni, una vita in bilico fra bene e male, una vita basata su due soli valori: “Vittoria” o “sconfitta”.
Si sentì afferrata per un braccio, strappata a forza dalla rete stordente di pensieri in continuo susseguirsi e mutamento. Si voltò, trovandosi inchiodati in viso gli occhi ardenti di Rouge.
-trasformati, Nozomi. Le Pretty Cure devono agire-
 
Komachi lanciò uno rapida occhiata distratta alla bestia, appurando superficialmente la distanza che li separava, quel tanto che bastava per assicurarla di non essere sbranata e di riuscire a portare in salvo Aqua, gemente a terra.
Quando entrambe furono fuori dalla portata degli artigli nemici, Komachi mise in funzione il proprio bracciale, facendosi abbracciare da fasce rifulgenti.
Prese il braccio di Aqua e se lo passo su spalle e collo, in modo da poterla sostenere nella rapida corsa verso Cure Dream, Cure Rouge e Ryan.
La coda dell’essere roteò in un guizzo corvino, Cure Mint si abbasso e trascinò Aqua con se, giusto in tempo perché non fossero sbaragliate brutalmente. Entrambe percepirono lo spostamento d’aria colare nell’incavo della schiena, agghiacciandole.
Quando raggiunsero gli altri, due artigli si conficcarono nel terreno ad un soffio dai loro talloni.
Cure Mint, ansimante di sforzo e imperlata di sudore, sussultò al percepire l’alito pungente dell’essere accarezzarle il corpo.
 
Cure Aqua prese fiato, agitata e pressata dalla vicinanza della bestia.
Un piano, avevano bisogno di un piano. Ora più che mai.
Passò in rassegna i volti dei presenti, soppesando le loro energie e le loro abilità in battaglia. I meccanismi presero a ruotare nella sua testa, urtandosi, collegandosi, intrecciandosi e dando vita a movimenti a catena. Prese a ragionare febbrilmente ad una rapida soluzione. Doveva portare Ryan alla Natts House, in quel modo era troppo esposto e rappresentava un ostacolo alla loro battaglia. Dovevano, nel frattempo, tenere a bada il bestione, impresa non da poco.
Cure Rouge era esausta, distrutta, provata psicologicamente e animata di una rabbia che le avrebbe impedito di ragionare a mente lucida. Lei era esclusa dal combattimento. Doveva riposare e recuperare le energie.  
Cure Dream era fresca, combattiva e potenzialmente pericolosa. Sarebbe stata molto utile per distrarre il nemico e tenergli testa. Lei avrebbe combattuto.
Cure Mint era piena di energie, ma intimorita dalla bestia. Non era tipa da offensiva frontale, diretta, lei era molto utile sul campo difensivo: era in grado di creare scudi e barriere infrangibili, era rassicurante e sapeva tenere a bada il terrore. Lei era perfetta per custodire Ryan.
Lei stessa si offrì per il combattimento, affiancata da Dream sentiva che le ultime energie rimaste sarebbero bastate.
-Bene- esordì, attirando l’attenzione generale –statemi a sentire, questo è il piano: io e Dream teniamo occupato il bestione. Dream lo distrae e io tento di colpirlo- indicò Ryan –Cure Mint, Cure Rouge portatelo alla Natts House a assicurategli l’incolumità- alzò una mano per troncare le proteste di Rouge, la quale voleva tuffarsi nella battaglia e confrontarsi col nemico –sei sfinita. Saresti inutile in questo stato- risponde, aspra. Rouge sembrò incassare il colpo come uno schiaffo in pieno volto.
Cure Mint e Cure Dream annuirono, risolute.
La bestia ruggì, annunciando il suo imminente intervento.
Poco prima che si dividessero, Cure Aqua afferrò Cure Mint per un braccio:
-non mi convince il fatto che sia stato aggredito più volte- sussurrò all’amica –tienilo d’occhio- indicò Ryan con un cenno del capo.
Mint annuì, quindi le due sciolsero la presa.
 
NOTE: si, ok … non è il massimo come capitolo, ma ho sempre meno tempo *congiunge le mani* chiedo umilmente perdono! XD

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Capitolo 15
*** Tentacoli. ***


Ryan non annuì né si mostrò contrario. Rimase impassibile, lo sguardo vacuo e la mente persa in sentieri intricati ed oscuri. La comparsa in rapida successione di più combattenti, il breve dialogo fra pareri contrastanti, l’alito della bestia aleggiante fra di loro. Tutto aveva contribuito a stordirlo e a forzarlo ad allentare la presa sulla sua lucidità. Credeva di aver afferrato la situazione, un guizzo rapido, sfuggente, con dita repentine ed una stretta salda che non si sarebbe lasciata scappare quel poco di informazioni assorbite e intuite. Invece, la comprensione stessa aveva preso a scivolargli lentamente dalle mani, dalla pelle, dalle membra.
Sentiva di essere irrilevante in quel contesto, nonostante lui fosse il centro di tutto. Si, lo aveva capito. Lo aveva intuito. Gli sguardi fuggevoli che riceveva di sottecchi erano al pari di stilettate, sottili eppure profondi, tanto profondi da raggiungere il suo intimo e ferirlo. Ryan non capiva la situazione, non capiva il punto di vista delle combattenti, né capiva il suo.
Sapeva in qualche modo di essere l’occhio del ciclone. La causa e la colpa. Eppure non conosceva soluzioni, né immaginava come diavolo fosse entrato in quel tornado terrificante. Il comportamento di chi gli stava intorno lasciava trapelare dubbio, interesse, domande  e, nel peggiore dei casi, sospetto.
Era tenuto sotto stretta sorveglianza, lo aveva dedotto. Le combattenti avrebbero potuto tranquillamente lasciarlo al suo destino, ordinarli di fuggire e disinteressarsi beatamente di ciò che gli sarebbe accaduto nell’imminente frangente.
No, invece. Aveva ben due guardie del corpo. Era controllato, e non ne conosceva la ragione.
Era diverso, questo lo sapeva. Diverso non da loro, dalle combattenti, da Rin. Diverso dal resto dell’umanità, inconscia del pericolo e ignara di avvenimenti esclusi dalla vita ordinaria. Avvenimenti che nessuna mente riuscirebbe a concepire senza sfumarli di un certo surrealismo o, addirittura, di una certa ilarità. Si, perché, in fondo, ciò che per giorni aveva scosso il suo animo, divorato il suo sonno, segnato il suo viso, si verificava solo nei fumetti.
Era diverso. E non lo pensava per vanità, egocentrismo e idiozie simili. Ne aveva la certezza, perché era l’unico –escluse le combattenti – a non venire abbattuto come un birillo inanimato al momento dell’intervento nemico. Era l’unico che la coscienza non abbandonava quando avvenimenti al di fuori del realismo, esclusi dalla sfera della credibilità umana, si susseguivano a ritmi mozzafiato.
Si, era diverso. Si sentiva diverso. Come un alieno di sette braccia e un occhio. Era come il rosso su sfondo grigio. Come un colore acceso su sfondo monocromo. Come l’eccezione sulla folla.
Come Rin.
Il filo dei suoi pensieri si strozzò con le proprie mani, stridendo come una disco stride quando viene brutalmente interrotto.
Rin?
Di nuovo. Lo aveva fatto di nuovo: si era insinuata nei suoi pensieri con una sfacciataggine degna del suo carattere.
Scosse il capo,come a voler scacciare pensieri sciocchi come quelli, decisamente inadatti al contesto pericoloso in cui era stato inserito a forza, da qualcuno di esterno. Come fosse una partita a scacchi, lui si sentiva una stupida pedina inanimata, impotente e inerme.  I turni si succedevano senza il tempo di un respiro, stretti e accorciati dalla volontà contrastante dei due  giocatori.
-Sei troppo lento, zoppo!- la voce di Rin, distante eppure maledettamente tagliente, allungò le sue braccia e lo afferrò, riportandolo sgarbatamente alla realtà.
La ragazza gli urlava nelle orecchie di aumentare il passo e allungare le falcate. Ma Ryan non rispondeva. Non perché non lo volesse. Non riusciva ad uscire dallo stordimento di incomprensione cui era caduto vittima. L’altra compagna, invece,  lo sorreggeva, nel tentativo di alleviare il peso sulla sua gamba destra, dolorante, sebbene radicalmente migliorata dopo il trattamento di …
Be’, il concetto era che non riusciva ad aumentare il ritmo dei propri passi. Era spossato, a pezzi, frustato. E faticava. A muoversi, a ragionare. Qualsiasi cosa facesse gli costava un immenso sforzo; si sentiva in un mare di melassa che gli bloccava corpo e mente, lo rallentava e lo indeboliva.
Lasciò vagare lo sguardo vuoto nei dintorni, sforzandosi di concentrarsi sulla purezza dei propri sensi, sulla loro veridicità. Si assicurava che non fossero alterati dal panico, dalla fretta pressante, che non fossero vittima di futili illusioni. Ma ormai era ridotto ad uno stato in cui persino il proprio stesso corpo pareva un enigma irrisolvibile.
-va tutto bene- si sentì sussurrare con voce gentile –siamo quasi arrivati-
Sentì le dita della ragazza che lo sorreggeva stringersi più forte sul suo costato. Faticava, era palese. Be’, in fondo non era per nulla un dolce peso, lui. C’era pur sempre il piccolo particolare dell’altezza a fregarlo puntualmente. Riusciva a distinguere, vaga ed indistinta, la sagoma di un edificio in lontananza, probabilmente si trattava della tanto aspirata “Natts House”.
Sospirò di sollievo. Quello riusciva ancora a farlo.
Non sapeva spiegarsi perché si sentisse sollevato, in fondo non aveva idea di cosa lo aspettasse là dentro. I ruoli si sarebbero potuti persino invertire. Chi gli assicurava che non si sarebbe trovato faccia a faccia con qualcosa che sfiorasse l’inferno? Con qualcosa che degenerasse persino messa a confronto con la bestia che se la vedeva, nella palestra comunale, con due combattenti?
Semplice: Rin e la compagna.
Si fidava ciecamente, nonostante non le conoscesse. Forse era ingenuo. Forse troppo espansivo ed estroverso. Forse l’avrebbero fregato.
Chi poteva saperlo?
Scrollò le spalle. Ormai aveva toccato il fondo, era arrivato a sfiorare la pazzia, ad essere torturato giorno e notte da infide allucinazioni terrificanti, a mettere a dura prova il proprio autocontrollo, turbato da molesti sibili, frutto unicamente della sua immaginazione. Non aveva nulla da perdere. Come diceva il proverbio “Tentar non nuoce”.
Avanzò di qualche passo incerto, avvertendo una sempre minore pressione alla gamba, ma in quel medesimo istante la ragazza che lo sosteneva cedette, piegandosi in due per riprendere fiato e implorando per una tregua.
Rin fece un gesto seccato, lanciando uno sguardo inquieto alla propria schiena.
-Lo porto io. Andiamo-
Era angosciata. Forse non credeva nella riuscita del compito delle sue compagne? Forse diffidava della loro resistenza? In fondo erano solo in due. In due contro un bestione bello grosso.
Gli si avvicinò per poter alleggerire il peso con le sue spalle, ma qualcosa andò storto.
Rin sgranò gli occhi, il viso contorno in un espressione indecisa fra lo stupore e il dolore aspro. Le sue pieghe emotive si fecero gradualmente più vivide nei suoi tratti.
Ryan corrugò la fronte, tentando di capire cosa turbasse Rin al punto di pietrificarla e piegarla in una frustrante posa dolorante. Allungò le braccia verso di lei, per impedire che crollasse sul suo stesso corpo. La prese per i polsi, ma lei sembrò non rendersene conto. Il suo capo ciondolò sul petto, le labbra boccheggianti nell’estremo tentativo di catturare aria per i propri polmoni. Alzò lo sguardo, chiuso nella smorfia sofferente del suo viso, e Ryan giurò di vedere il suo fuoco estinguersi pian piano. Rin tentò di aggrapparsi, ma la presa diveniva gradualmente più debole, impotente, finché non scivolò piano a terra, Crollando come un solido muro di mattoni, con una velocità e semplicità disarmante.
Sulla schiena di Rin si contorceva un tentacolo  corvino, lucido, ricoperto di una patina viscida. Non la stava stringendo, non la stava soffocando, non lambiva i suoi fianchi come una morsa terribile, sembrava la stesse assaggiando.
La punta del tentacolo era radicata fra i dorsali di Rin, impiantata nell’abbraccio freddo delle vertebre, scuoteva l’esile corpo della ragazza al ritmo delle sue contorsioni, come crudeli convulsioni squassanti, violente, impietose.
Ryan agì senza pensarci due volte, avanzò e pestò il tentacolo come una ragazzina isterica e aracnofobica  pesta un povero ragno innocente che si fa una scampagnata nella sua camera. Percepì sotto i suoi piedi, nonostante la reazione fosse ovattata e attutita dalla suola e dagli strati di gomma della scarpa, il tentacolo irrigidirsi e contorcersi, nel tentativo di divincolarsi come un serpente sibilante.
E in effetti il sibilo giunse.
Ma non dal tentacolo.
Qualcosa gemette nell’ombra, distante, confuso.
Un’oscurità cupa, tetra, incutente un terrore gelido nonostante il buio le scivolasse addosso, occultandola agli sguardi indiscreti.
Il tentacolo diede uno strattone più forte, inatteso, gettando il ragazzo a terra come se fosse scivolato su una latra ghiacciata, e portandosi con sé Rin, spenta ed inerme, gettandola con una potenza e una velocità inconcepibile contro una rete delimitante un giardino. Il corpo della ragazza non oppose resistenza alcuna e sfondò la rete con tutto il proprio peso, sradicando piante e infangandosi di terra. La sua corsa fu arrestata dalla corteccia di un albero che la frenò impietosamente con un colpo sulla schiena. Rin atterrò ai piedi dell’albero. E lì ci rimase.
 
Accadde tutto troppo in fretta. Cure Mint fece appena in tempo ad alzare lo sguardo, quando Ryan crollò a terra e Rouge fu scagliata brutalmente fuori strada. Il terrore si agganciò nuovamente alle sue viscere, accorciandole il respiro. Due attacchi di seguito, in un temibile susseguirsi stravolgente. Senza lasciare troppo spazio alla sua mente per concepire l’accaduto, si piazzò davanti a Ryan e invocò la “Mint protection”, innalzando una cupola protettrice avvolgente lei e Ryan.
E lo fece giusto in tempo.
Lo scudo era ancora agli inizi quando un secondo tentacolo si abbatté sulla resistenza rifulgente, riportando un potente impatto a Cure Mint. Con grande sforzo, la ragazza si concentrò e continuò l’opera, rivestendo lo scudo di un ulteriore strato protettivo, nel disperato tentativo di renderlo più solido, imponente, infrangibile.
Un tentacolo nero come il petrolio si avventò, feroce come una vipera furiosa, contro lo scudo, trasmettendo il colpo deciso alle braccia di Mint, la quale sussultò sotto la potenza. Notò che, quando il tentacolo si ritirò per acquisire più rincorsa e quindi più potenza, lo scudo, vagamente traslucido, riportò una macchia viscida, più scura, corrosiva.
Veleno.
Quei tentacoli erano pregni di veleno.
-Ryan, togli la scarpa- urlò –subito!-
Il ragazzo la guardò, disorientato, quindi ubbidì senza proteste. Si accorse che la gomma della scarpa era stata corrosa. Si bruciò le dita per toglierla, ma finalmente ci riuscì.
Cure Mint lanciò uno sguardo angosciato a Rouge.
Esanime. Inerme.
Le lacrime le salirono alla gola fino a colarle sulle guance.
Il tentacolo l’aveva afferrata di netto. Esplorata. Corrosa.
Avvelenata.
Stava bene?
Un colpo più forte la fece arretrare di un passo, mentre l’impatto le scuoteva i muscoli.
Strinse i denti. Per quanto egoista fosse la soluzione, non doveva pensare a Rouge. Doveva concentrarsi su se stessa, su Ryan e su ciò che aveva detto Aqua.
Tienilo d’occhio.
Si, Ryan ormai era dentro al problema fino al collo.
Si asciugò le lacrime e strinse forte i denti.
Rouge era forte. Lo era sempre stata. Avrebbe retto, avrebbe resistito. Non avrebbe ceduto al veleno, lo sapeva.
Con un urlo furioso avanzò, recuperando il passo perso. Le lacrime continuavano ad annebbiarle la vista, ma ora era carica di grinta.
Un colpo.
Un altro.
Sempre più potenti.
Prima due tentacoli, poi cinque, poi sette.
Infine dieci.
La schiacciarono letteralmente. Mint sentì le sue giunture urlare di dolore, i suoi muscoli implorare tregua e ogni centimetro del suo corpo urlare in protesta. Cadde sulle ginocchia, i colpi sempre più insostenibili.
Percepì il collo infossarsi fra le spalle dolorosamente, le braccia piegarsi senza che potesse impedirlo. Infine il busto cedere. Si accasciò di lato.
Lei tremò, ma lo scudo era ancora lì.
 
Ryan era incredulo. A bocca aperta osservava la ragazza combattere con la grinta di un leone, opponendo una resistenza tenace anche nel momento in cui era a terra, sfinita, sconfitta.
Lei piangeva. Tremava. Ma non si arrendeva, continuava a combattere con la forza residua raccolta in un angolino della sua mente.
Ormai i tentacoli erano sulla ventina, un ammasso di carne viscida che si divincolava, stringendosi assieme come fossero un unico, enorme ente. Si abbattevano di peso sullo scudo debole, appena percettibile, fragile.
Si accorse che stava piangendo anche lui.
Rin era distante.
Giaceva su un fianco, riversa nella terra, distrutta e in stato di incoscienza.
La compagna era in procinto di fare la stessa fine.
Si trascinò fino a raggiungerla.
Aveva gli occhi chiusi, il corpo abbandonato. Eppure l’espressione era di estrema concentrazione, e il velo di sudore che le ricopriva la fronte in continuo mutamento.
Non si era ancora arresa.
Le prese una mano e la strinse. Come se quel patetico gesto potesse aiutarla nella sua lotta impari.
Il tempo parve dilatarsi, passarono infiniti minuti, in cui lo scudo si piegava inesorabilmente sotto la violenza nemica, e Ryan pregava per un aiuto che sapeva non sarebbe giunto.
Quando un orribile rumore di vetri infranti lo scosse, Ryan percepì il corpo della ragazza fremere, quindi abbandonarsi e perdere calore. Non osò alzare lo sguardo. Sapeva che lo scudo no c’era più.
Sapeva di essere spacciato.
Una rabbia cieca lo percorse come un onda ardente, bruciando il suo corpo e riempiendolo di un energia senza nome.
Rin e la compagna.
Entrambe esanimi per colpa sua.
Ne era terribilmente consapevole.
Lacrime di rabbia gli bruciarono il viso.
Strinse i denti, tra i quali sentì il respiro aumentare, farsi pesante, insostenibile. I polmoni erano frustati dal ritmo del’aria, e le tempie presero a pulsare.
Una calma gelida si posò su di lui come un velo.
Si sentì strano, traboccante di energia e sottile. Il vento lo trapassava da parte a parte senza subire la sua resistenza.
Alzò lo sguardo rabbioso e gli venne spontaneo.
Urlò.
Fino a farsi bruciare la gola.
Una freschezza incredibile gli congelò i muscoli, gli inebriò la mente, mentre una corrente continua d’aria vorticava nel suo corpo.
Un ondata di energia piegò l’erba circostante, scosse le fronde degli alberi, spazzò la ghiaia e innalzò un muro di polvere.
Un incredibile rumore, come un ululato di vento, gli riempì le orecchie, un sapore di pioggia gli stuzzicò la lingua, la vista divenne improvvisamente cieca, abbagliata da un bianco innaturale, sferzato solo da volute eleganti e terse.
In meno di un secondo, tutto finì. E il peso del suo corpo riprese a gravare su Ryan.
Alzò lo sguardo.
Di tentacoli,nemmeno l’ombra.
 
Kurumi urlò di frustrazione, prendendo il cappotto, allacciandosi il bracciale e facendo per uscire.
La porta le si spalancò davanti al naso, offrendole una scena agghiacciante.
Cure Mint si reggeva sui malapena sulle sue gambe, sorretta da Ryan,stravolto, il quale teneva fra le braccia Cure Rouge priva di segni di vita.

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Capitolo 16
*** Mira ***


(Sono schifosamente in ritardo, chiedo scusa!!!) 

Cure Aqua strinse gli occhi, tentando di penetrare la nebbia densa formatasi ed individuare la sagoma goffa della bestia. Era trascorsa una mezzoretta, forse tre quarti d’ora, da quando gli altri erano  fuggiti. Cure Dream non aveva fatto altro che balzare da una parete all’altra, tentando l’offensiva, cercando la crepa nel muro delle difese. Eppure quel guscio acuminato che rivestiva la pelle del nemico impediva all’amica di avvicinarsi troppo e la teneva a debita distanza, creando un ostacolo non indifferente per la riuscita del loro scontro. Gli occhi acuti di Aqua saettarono da un punto all’altro della zona, cercando nella bruma illusoria l’esile linea di Cure Dream.
Improvvisamente arrestò il suo assalto. Si costrinse a ragionare e a rinfrescare la propria mente, rimanere lucida, ragionevole. La continua offensiva impulsiva non l’avrebbe portata ad un risultato ragionevole, solo al logoramento delle energie, sia fisiche che psicologiche. Si, perché, a differenza loro, il nemico non mostrava limiti di affaticamento, continuava a combattere, agitarsi e divincolarsi senza un preciso schema di combattimento. Tentare un casuale sfondo nella sua difesa, senza prima riordinare le proprie azioni, si sarebbe rivelato inutile oltre che estremamente pericoloso; lei e Dream avevano bisogno di rintracciare il punto debole del nemico, la crepa del muro, l’anello debole della catena. Facendo crollare questo,  sarebbe crollato tutto, aculei e fauci comprese.
Annuì decisa, come a confermare a se stessa, le proprie ipotesi e le relative conclusioni, quindi si sforzò di cogliere la sagoma sinuosa di Dream che, senza gettare in frantumi la propria forza di volontà, si scontrava ripetutamente con la difesa pungente del nemico, gettandosi fra le sue fauci, tentando un affondo, scrutando per scorgere un appiglio agevole per i propri fini. Sembrava una pallina da ping-pong impazzita, sfrecciante da destra a sinistra e viceversa, nell’insistente tentativo di abbattere le resistenze nemiche o, in ogni caso, di poterle almeno incrinare.
Nemmeno i suoi occhi abituati a scontri rapidi riuscivano a cogliere ogni particolare degli attacchi di Dream. Era veloce, si, ma non basava la sua offensiva su alcuna tattica, se non quella di dare addosso al nemico ripetutamente senza alcun ordine tra calci e pugni. Se avesse continuato così, oltre che esaurire le proprie energie, avrebbe finito per perdere concentrazione, prima o poi, intaccando la coordinazione perfetta e intralciandosi da sola, offrendo la vittoria al nemico su un piatto d’argento.
Cosa da evitare, possibilmente.
Non appena le fu possibile, Aqua afferrò Dream per un braccio, troncando la sua corsa mozzafiato.
-Dream!- le urlò nelle orecchie perché la sentisse chiaramente, fra il chiasso che emetteva la bestia nemica. Pareva un aeroporto in carne e fauci, più che qualcosa di simile ad un essere vivente.
L’amica si voltò, contrariata dalla stretta di Aqua sul suo polso che le impediva di tornare alla carica.
-che c’è?- urlò a sua volta.
-ho un piano-
Dream sgranò gli occhi, i capelli giacenti mollemente sulla sua schiena e sparsi in lunghe ciocche disordinate fra gli occhi -ancora?- esclamò.
Aqua prese fiato e aprì la bocca per rispondere, ma si dovette zittire e lasciar spazio al suo corpo per evitare che un simpatico aculeo le si incastonasse fra le costole. Balzò indietro, schivando di poco quello che sarebbe potuto rivelarsi un colpo fatale.
-La gola!- vociò per far sì che l’ordine giungesse anche a Dream, distante di qualche metro, inghiottita nella candida foschia densa. Sperò che l’amica avesse udito il suo messaggio, intuito ed agito.
Attese qualche secondo immobile, arco ti tempo in cui l’unico rumore a spezzare il silenzio fu il pesante respiro disgustoso dell’essere.
Ridusse gli occhi a due fessure in modo da poter penetrare il muro bianco che le si parava innanzi e mise all’erta i sensi, pronta a scattare ad ogni minima situazione richiedente il suo intervento.
Improvvisamente un urlo gutturale squarciò l’aria, vibrando nella nebbia con suono rauco ed aggressivo.
-ce l’ho!- sentì dire da Dream.
Aqua chiuse gli occhi, inspirò a fondo,corrugando le sopracciglia in un espressione concentrata. Percepì la familiare ondata gelida pervaderle le membra, rinvigorirle, espandersi dal petto agli arti a centri concentrici, come una goccia increspa il pelo dell’acqua. Alzò leggermente il capo, mentre l’energia le sgorgava nelle vene impetuosa e infallibile.
Aprì gli occhi –Saphire Arrow-
Un ventaglio d’acqua nitida e cristallina si sollevò dai suoi piedi, concentrandosi in un guizzo argentino nei suoi palmi, plasmandosi e danzando flessuosamente in ciò che appariva come un arco.
Un arco senza corda né frecce.
La nebbia si aprì davanti a lei come un sipario, ne uscì la bestia, infuriata, gli occhi infiammati d’ira e i muscoli tesi. Spalancò le fauci e liberò un raggelante ruggito.
E Dream? Dov’era Cure Dream?
Aqua , le braccia tese a mantenere l’arma limpida, indietreggiò di un passo, esplorando febbrilmente lo spazio con lo sguardo, all’estrema ricerca della compagna apparentemente scomparsa.
-Aqua, tieniti pronta!- urlò una voce vicina.
Lei tese con forza l’arco, stringendo i denti sotto lo sforzo e chiudendo un occhio, pronta a mirare la gola del nemico, unico spazio, oltre il viso, il quale si era palesemente rivelato solido come ferro, sgombero di aculei e, a prima vista, provvisto di pelle più sottile e cedevole del resto del corpo.
Le braccia di Dream comparvero sul muso della bestia, alla ricerca di un appiglio su cui fare affidamento per continuare la difficile scalata del dorso della bestia, tra aculei e protuberanze scomode, concludendo con l’afferrare due aculei più corti che spuntavano dalle tempie della bestia a mo’ di corna. L’amica di lasciò andare di peso, strattonando il capo nemico con furia, il quale tentava di dibattersi urlando e agitando pericolosamente gli arti. Alla fine, presa alla sprovvista, la bestia non poté far altro che cedere allo strattone brusco di Dream, lasciando che il capo le cadesse all’indietro, sul collo, lasciando esposta la gola.
Le dita di Aqua agirono di scatto, pronte, nervose, talmente rapide da sorprendere Aqua stessa.
Con un sibilo, il dardo immateriale prese velocità, cominciando la sua corsa abbracciato da perle di acqua fresca e limpida.
Il colpo andò a segno.
 
Ryan corrugò la fronte in una smorfia infastidita. Tentava disperatamente di forzare la propria mente alla concentrazione, ma quella mattina i suoi pensieri si rifiutavano con fermezza di disporsi in file ordinate, controllate, facilmente reprimibili. Aveva, invece, una gran confusione nella testa, un intreccio di ragionamenti e ripensamenti contrastanti che si stringevano e si scioglievano, scandendo un frustante ritmo imprevedibile.
Costrinse il proprio sguardo terso sul foglio, completamente in bianco, liscio e abbandonato sul banco da ben venti minuti. Giocherellò nervosamente con la penna nera fra le dita, producendo un irritante ticchettio che si espandeva nella sala, penetrando l’atmosfera immobile della classe, strisciando fra gli alunni dai capi bassi, intenti a riempire il proprio test.
Ryan si passò una mano sul viso, contraendo gli occhi in una smorfia insofferente. Inevitabilmente, lanciò uno sguardo al banco affiancato alla finestra.
Vuoto.
Seduta alla destra del banco si agitava Nozomi, in preda al suo stesso stato emotivo, braccata da pensieri e preoccupazioni non condivisibili. Teneva lo sguardo, perennemente lucido d’inquietudine, fisso al di là dei vetri della finestra, studiando la rifrazione della luce del sole che guizzava in vivaci giochi luminosi. Con l’indice tamburellava insistentemente sulla superficie del banco, seguendo il ritmo frenetico delle dita di Ryan, che ancora danzavano con la penna, chiusa sotto il suo cappuccio.
I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo, quindi Nozomi espresse tutta la propria insofferenza, incidendola profondamente nelle pieghe del proprio viso e condividendola con Ryan, unico a poterla comprendere, in quel momento.
Il ragazzo forzò gli angoli della bocca, in un tentativo di quello che doveva essere un sorriso ma che, molto probabilmente, risultava più vicino alla colica. Cercava di incoraggiarla e incitare il suo morale a non rovinare a terra. Tentava di impedire che l’umore della ragazza raggiungesse il livello drastico del suo.
Sospirò e si voltò, cercando con lo sguardo la prima domanda del test. L’aveva letta una decina di volte, senza, però, leggerla seriamente. Nella sua mente scorrevano, nette e nitide, le lettere e le parole legate fra loro, ma nessun significato apparente giungeva al suo cervello, ad illuminarlo e a porgergli un appiglio su quel baratro.
Era troppo.
Sbuffò irritato, lasciò cadere la penna con un tintinnio, prese il test, lo accartocciò con rabbia, quindi si alzò ed uscì dalla classe.
Fortunatamente al posto d’insegnante sedeva Kokoda. Forse non gli avrebbe perdonato la trasgressione delle regole scolastiche, ma, perlomeno, ne avrebbe compreso il motivo.
Rimase qualche istante con la schiena appoggiata alla porta, le dita fra i capelli chiari che si stringevano nervosamente.
Rin era ancora alla Natts House.
Esanime.
Era passato un giorno, un giorno intero, ma gli occhi cremisi della ragazza non si erano più aperti.
Nozomi aveva chiamato la sua famiglia, aveva detto che sarebbe rimasta a dormire da lei.
Non era vero.
Rin era ancora alla Natts House.
Si ritrovò, assurdamente, a sorridere. Un sorriso isterico, beninteso, dettato nientemeno che dal nervoso accumulato di recente. L’ultima persona che si sarebbe aspettato di trovare, nella famosa “Natts House”, era un suo professore
Si era chiesto più colte quanto potessero essere gravi,le condizioni di Rin,  e l’aveva domandato, anche. Ovviamente nessuno si era degnato di rispondergli. Kokoda e Natsu gli avevano curato gentilmente le ferite, rassicurato, ma successivamente l’avevano costretto a tornare a casa senza dargli alcuna spiegazione. Gli avevano detto di tornare l’indomani, dopo la scuola.
Lui ci sarebbe tornato comunque, indipendentemente dal parere di quei due.
Ci sarebbe tornato per Rin.
Si passò una mano sul viso, tirandosi la pelle con rabbia.
Perché tutto questo doveva succedere a lui? perché avvenimenti stravolgenti come quelli gli davano il benvenuto in Giappone?
Strinse denti e pugni, costringendosi alla calma. Prese a camminare per i corridoi, senza prestare troppa attenzione a dove mettesse i piedi e verso quale sezione della scuola si stesse dirigendo.
Si, aveva chiesto delle condizioni di Rin. Kurumi gli aveva detto di non preoccuparsi, prima di chiudergli la porta in faccia, escludendolo dal loro mondo misterioso.
Sospirò, immerso nei suoi pensieri, finché una voce familiare non lo riportò alla realtà. Udì dei passi frettolosi echeggiare nel corridoio, quindi la voce pacata di Komachi, venata di una certa tensione, chiamare l’amica Karen.
Ryan s’illuminò. Le avrebbe raggiunte e avrebbe preteso da loro delle spiegazioni. Nozomi non aveva voluto aprir bocca. Ma ora era stanco di stare al gioco, di ubbidire e di sopportare segreti. Voleva sapere e, ora che anche lui ci era dentro fino al collo, voleva condividere il problema con gli altri, affiancarli nella ricerca di una possibile soluzione.
Udì le voci attutite discutere:
-dimmi- rispose Karen.
-vorrei parlarti-
Ci fu un attimo di silenzi in cui Ryan allungò il passo per raggiungerle.
-si tratta di Ryan-
Si bloccò. Come pietrificato, rimase dietro l’angolo con sguardo perso e il respiro ingabbiato nel torace.
 
Komachi sorrise nervosamente, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
-avevi ragione- ammise, lasciando che lo sguardo guizzasse alle sue spalle, come per assicurarsi che non vi fosse nessuno nei paraggi –Ryan è preso di mira dal nemico-
Karen non si scompose, si voltò lentamente, distendendo le pieghe della sua divisa scolastica ocn una calma glaciale -lo dici per via dell’attacco di ieri?-
Lei annuì, agitata –per questo- aggiunse, alzando un dito –ho un sospetto-
Karen corrugò la fronte, interrogativa.
Komachi le si avvicinò ancora, abbassando ulteriormente il tono della voce, nonostante il corridoio fosse deserto.
-Quello che ha avvelenato Rin era un colpo indirizzato a Ryan- 

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Capitolo 17
*** Risveglio ***


Urara uscì in fretta e furia dal teatro, afferrando distrattamente la cartelletta riposta negli armadietti e sostituendo sbrigativamente le scarpe della divisa scolastica con le sue comode ballerine brillanti. Si infilò il giubbino leggero senza dare troppo peso alle maniche della felpa che, sotto il gesto frettoloso, avevano preso ad arrotolarsi fastidiosamente sui gomiti. Uscì dimenticando l’ombrello pieghevole appoggiato al banco di scuola.
Mentre percorreva a grandi passi la strada ,invasa dalla nebbia frizzante, s’imbatté con Ryan, altrettanto spinto da una foga angosciosa che lo costringeva a divorare il marciapiede senza prestare troppa attenzione a ciò che accadeva intorno a lui. Urara lo raggiunse, salutandolo timidamente con un lieve cenno della mano. La ragazza era sempre stata molto espansiva, ma Ryan ancora non lo conosceva abbastanza bene per potersi lasciare andare anche alla più semplice delle confidenze, inoltre, anche se non ne avrebbe parlato con nessuno, il ragazzo le esercitava su di lei un’anonima soggezione, come un rispetto austero infondato. O forse lo vedeva semplicemente sotto la luce sfavillante del coraggio: non molti, era convinta, nella situazione in cui lui si trovava, avrebbero trovato la forza e il coraggio per andare avanti e non lasciarsi intimorire. Be’, di certo non si poteva dire che Ryan non fosse intimidito dalla serie di attacchi nemici, in fondo non aveva tutti i torti: una successione tanto rapida di avvenimenti scombussolanti dovevano avergli stravolto letteralmente le notti se non nettamente la vita quotidiana. Forse le dispiaceva che il ragazzo fosse stato trascinato nell’occhio di un ciclone tanto travolgente …
L’aveva sorpresa, però, la rapida ripresa della coscienza del ragazzo, la logica fredda come ghiaccio che gli era calata addosso come una cascata, sbiadendone l’aspetto in una passività paradossale della situazione. In pochi giorni si era ripreso quasi completamente dal turbamento, impresa non facile a detta di Urara: Ricordava alla perfezione il giorno in cui la sua vita venne capovolta interamente a seguito di un infido attacco che mirava alle sue compagne. Un attacco che l’aveva spaventata a morte. Sapeva, come tutte sapevano, come Ryan potesse sentirsi in una situazione come quella. Tutte ci erano passate. L’unica piccola differenza è che loro, sebbene non ne fossero a conoscenza, disponevano dei mezzi necessari per difendersi. Ryan no.
O così credeva.
Lui le rivolse una fugace occhiata, quindi tentò di sorridere e di palesare il piacere della sua inaspettata compagnia. Urara non sapeva se le cose stessero effettivamente così, probabilmente lei lo infastidiva soltanto, dal momento che fin dall’inizio era stata una delle ragazze che l’avevano arginato dalla verità. Questo, però, a fin di bene. Lasciare che la realtà, in tutta la sua crudeltà, lo inglobasse tanto violentemente sarebbe stato tragico, veramente sconvolgente per un ordinario adolescente in piena regola. Eppure, destino volle che Ryan non fosse buttato fuori dalla doppia realtà con cui tutti inconsciamente avevano a che fare, rischiando la vita ventiquattro ore su ventiquattro.
Urara sperò che Ryan avesse intuito le precauzioni e le preoccupazioni nei suoi confronti che facevano da sfondo ad azioni apparentemente sgarbate, ma in fondo finalizzate alla sua incolumità.
Camminarono a capo chino uno affiancato all’altra: entrambi condividevano la muta destinazione che non necessitava di essere nominata.
Bastò poco, e di fronte a loro comparvero le schiene di Karen e Komachi, inseparabili, circondate dall’usuale alone di dignità. Accorciavano la distanza dalla loro meta a grandi falcate, lunghe e sciolte eppure lievemente indecise, come se la destinazione fosse ardentemente desiderata ma, al contempo, loro avessero un certo timore nel raggiungerla.
Urara condivideva questo loro pensiero.
Giungere alla Natts House avrebbe potuto avere significato positivo o negativo, entrambi divisi da una sottilissima differenza, motivo per cui il gruppo si stava muovendo tanto angosciosamente: Rin.
 
Nozomi fece una prepotente irruzione nella Natts House, spalancando la porta come se volesse lanciarla al pari di una pallina di golf. Natsu, sprofondato nella solita poltrona, sussultò, rischiando di farsi scivolare dalle dita il libro che stava leggendo. Dalle spalle della ragazza presero ad animarsi delle proteste decisamente scocciate, quindi dal fianco sinistro di Nozomi si fece spazio una Kurumi piuttosto impaziente, la quale sgusciò appoggiandosi allo stipite della porta e raggiunse il bancone dietro il quale sedeva tranquillo Kokoda, il viso dipinto in un espressione sorniona, una tazza di te alle labbra pronta per essere svuotata.
-allora?- esordì Kurumi, appoggiandosi pesantemente al bancone.
Kokoda le sorrise, quindi fece segno di togliere le dita dalla superficie di legno –l’ho appena lucidato- si giustificò, provocando un infantile ilarità da parte di Natsu che, dal canto suo, aveva ripreso beatamente a leggere.
Nozomi fece un passo avanti, lasciando che la pressione del gruppo alle sue spalle cedesse di colpo provocando una caduta di gruppo che intasò l’ingresso.
Affiancò Kurumi,la quale stava facendo del proprio meglio per non prendere a schiaffi Kokoda.
-Rin?- chiese angosciata, appoggiando di proposito i palmi, aperti e belli aderenti al legno, sul bancone.
Kokoda scambiò uno sguardo divertito a Natsu, che ricambiò prima di tuffarsi nuovamente nella lettura.
Karen si rialzò da terra, spolverandosi gli abiti e recuperando rapidamente compostezza, levandosi dal viso il velo sgomento che l’aveva celata. Si schiarì la voce, raddrizzando spalle e schiena, quindi si avvicinò con fare severo a Natsu, afferrò il libro e glielo sfilò dalle mani, sostituendolo con il suo sguardo fermo.
-Si è svegliata?-
Kokoda rise, si alzò dalla sedia, alzò un indie per rispondere, ma nel medesimo istante Syrup fece la sua teatrale entrata scendendo dalle scale del piano superiore e sibilando che dovevano chiudere il becco o Rin le avrebbe scuoiate vive.
I visi delle ragazze si illuminarono.
Ci fu un attimo di silenzio in cui la notizia rimase sospesa a mezz’aria, in attesa di calare sui presenti inebriando le menti di gioia.
La prima a reagire fu Nozomi. Nonostante l’avvertimento piuttosto chiaro (e macabro) di Syrup, liberò un urlo acuto, inondandosi la gola di felicità e gettandosi fra le braccia di Kurumi la quale, sorpresa, si ritrovò a sorridere e a ricambiare il gesto, conscia di quanto importante fosse l’amicizia fra Nozomi e Rin.
 
Ryan, ancora fermo all’ingresso sospirò di sollievo, ritrovandosi stampato in viso un sorriso ebete che pareva essere indelebile, per il momento. Il sollievo fu tale che la tensione ,attanagliante i muscoli tesi, scivolò via rapidamente riempiendogli il petto di calore e costringendolo a sostenersi allo stipite della porta. Mai si era sentito tanto rinfrancato, e la visione delle ragazze che esprimevano tutta la loro gioia in intrecci affettuosi di abbracci non faceva altro che migliorare il suo umore. Kokoda e Natsu risero della reazione delle compagne, Syrup si lasciò sfuggire un sorrisetto a braccia conserte.
Il ragazzo si passò una mano in viso, imperlato di sudore. L’apprensione gli aveva accorciato il respiro e messo a dura prova la resistenza. Il suo sguardo cadde alla punta delle sue scarpe da ginnastica, nuove di zecca. Il ricordo tornò al veleno corrosivo che aveva consumato le scarpe precedenti. Un orribile sospetto prese dibattersi nella sua mente, mentre il sorriso gli moriva lentamente sulle labbra.
-in che condizioni è?- mormorò.
Nessuno lo udì. Le ragazze erano troppo impegnate ad urlare di gioia e a sovrastare qualsiasi tentativo di presa della parola, per poter porgere la propria attenzione a qualcuno.
-in che condizioni è?- Ripeté il ragazzo, questa volta urlando, bruciandosi la gola.
Il silenzio si sostituì gradualmente ala confusione gioiosa, quindi, una per una, le ragazzi si voltarono verso di lui, poi, sempre progressivamente, l’attenzione fu spostata su Kokoda.
Il viso del ragazzo fu attraversato da un agghiacciante ombra mesta.
 
Rin strinse gli occhi, increspando il viso in un’espressione di puro fastidio. Un urlo acuto le si insinuò fra le tempie, provocandole una stilettata di dolore poco gradevole.
Era sdraiata su un fianco, la coscienza ancora vacillava e molto spesso si ritrovava a fissare un punto non ben definito per decine di minuti, mentre la consapevolezza del proprio corpo le scivolava via pian piano, per poi strisciare nuovamente nelle sue membra, seguendo un ritmo straziante. Si, spesso si riscuoteva, riacquisendo la vista e accorgendosi di essere appena precipitata in una buca oscura della sua psiche, come se si fosse addormentata attenuando i sensi. Sentiva la sua memoria paragonabile ad un lembo di stoffa liso e lacero: fragile e bucato in più punti.
Nella maggior parte dei casi la ripresa dei sensi avveniva in modo lento e doloroso: il corpo si scuoteva di dosso il torpore del’incoscienza prendendo a pulsare dolorosamente, quindi la schiena veniva attraversata da ondate di caldo infernale, come se avesse preso un sole pazzesco senza crema protettiva; sentiva la pelle bruciare e i muscoli sciogliersi, intrappolati in una rovente reazione al veleno. Poi era la volta dei fianchi, degli addominali, una fascia in particolare, dove il tentacolo l’aveva cinta e stretta, impregnandola di sostanza corrosiva. Quindi le reazioni del corpo prendevano la gola e i polmoni, scatenando, il più delle volte,  attacchi di tosse tanto violenti da conseguire un conato di vomito. Aveva la febbre alta, le palpebre brucianti e gli occhi pesanti. Infine il sottile dolore delle ferite più superficiali, quelle che aveva riportato durante il primo combattimento e quelle da attrito causate dalla brutta caduta nelle ghiaia, fino alla corteccia dell’albero che le aveva strappato la pelle della schiena. I lividi nemmeno li sentiva, il dolore lieve che infondevano non erano nemmeno paragonabili a quello che indolenziva la sua colonna vertebrale per intero.
Una gran confusione al piano di sotto le giunse alle orecchie, facendo impazzire il suo udito e costringendola a chiudersi su se stessa, stringendosi le orecchie, nonostante ogni movimento le procurasse un caldo terribile e un dolore scottante.
Il respiro prese a farsi più lento, il tatto si attenuò, un formicolio le prese lo stomaco e si diffuse in corpo, infine il dolore scomparve, gettato nel baratro di una momentanea incoscienza.
Rin non riuscì a comprendere che l’incoscienza gravante su di lei, questa volta, si trattava di puro e semplice sonno. Era troppo stordita per poter comprendere la differenza che divideva le reazioni del proprio corpo al veleno e le sue semplici necessità.
I’ultima cosa che le guizzò nella mente, prima di gettarsi finalmente in un sonno senza sogni, fu che avrebbe dovuto affrontare la propria famiglia l’indomani. Il pensiero la fece crollare.
 
-è in un brutto stato- intervenne syrup, accomodandosi su una poltrona affiancata a quella di Natsu.
Ryan si lasciò cadere su una sedia nelle vicinanze, troppo stanco e disperato per poter anche solo preservare la volontà di rimanere sulle proprie gambe.
-quanto brutto?- chiese Urara, le lacrime che già cominciavano a stuzzicarle gli occhi.
-Molto- interloquì Natsu, serio –la sua mente è in continua instabilità-
Syrup annuì mesto –si è svegliata cinque volte. La prima pareva la solita Rin. Poi ha perso i sensi improvvisamente, quindi si è risvegliata stordita e in leggera crisi da delirio. La quarta e la terza era ricoperta di sudore, e faticava a rimanere lucida. La quinta  …. –
Si interruppe, sospirando e passandosi una mano sul viso. I presenti trattennero il respiro, inorriditi dalle notizia agghiaccianti.
-alla quinta Rin aveva completamente perso la memoria-
Nozomi per poco non svenne. Fu prontamente sorretta da Kokoda.
-La sua memoria ora è nuovamente intatta- assicurò, nel tentativo di calmare la ragazza –deve solo superare il risveglio e riuscire ad uscire dall’instabilità continua. In fondo le ferite riportate sono gravi-
La sala fu sommersa da un silenzio agghiacciante. 

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Capitolo 18
*** Errore ***


-Abbiamo un altro argomento importante da discutere-
Kokoda scoccò uno sguardo diretto a Ryan, lasciando intendere a tutti i presenti  l’argomento che, di lì a poco, avrebbe sviluppato una sfilza di domande e , purtroppo, una ristrettissima proposta di risposte. Il ragazzo non poté che notare l’attenzione concentrata su di sé; chinò il capo trascinando lo sguardo verso il basso e prendendo a tormentarsi le dita. Probabilmente se l’aspettava, era ormai chiaro a tutti che si trovavano di fronte ad un caso anormale: l’ipotesi della pura coincidenza pareva troppo forzata perché calzasse con gli episodi riguardanti Ryan. No, lui centrava. L’accanimento nemico nei suoi confronti ne era una prova schiacciante, senza contare che nessun umano privo di qualsiasi forma di energia poteva sperare di resistere alla potente scarica di energia nemica: un ondata infida che si insidiava nella mente esposta e ignara della popolazione, fungendo come sonnifero per tenerli a bada mentre il male si radicava incontrastato nella terra, sempre più in profondità, sempre più pericoloso.
-Ryan- cominciò Kokoda, prendendo un gran respiro e passandosi una mano al viso. Era stanco anche lui, non poteva negarlo né nasconderlo. Anche lui, come le Pretty Cure, aveva sperato in una situazione di pace, anche lui , come loro, aveva sviluppato la propria vita, colmandola di interessi ed impegni, anche lui aveva sepolto i ricordi collegati alle loro vite alternative sotto uno strato spesso di tempo, di memoria chiusa in un baule e lasciata in un angolo della sua mente.
Anche lui.
-lo so- la voce limpida e tremante di Ryan prese alla sprovvista i presenti, inducendoli a voltarsi verso di lui con sguardo interrogativo e visi confusi.
Il ragazzo aveva le dita strette in una presa, il capo appoggiato, come se un infinita spossatezza gli pesasse sulle spalle, sulla nuca, piegandolo, flettendolo come un ramoscello sotto la tempesta. Era visibilmente turbato, eppure pareva in qualche modo assente, disinteressato all’argomento. Lo sguardo vacuo rimase inchiodato sulle assi di legno del pavimento, mentre un profondo respiro gli gonfiava petto e schiena.
Kokoda corrugò la fronte, attendendo che continuasse quella sua affermazione così azzardata. Rendendosi conto che il ragazzo non dava segno di voler sviluppare ciò che aveva gettato rapidamente al centro dell’attenzione, un sorriso amaro tirò le sue labbra. Ryan era quello che sapeva di meno. Non poteva certo permettersi il lusso di quell’espressione, nemmeno lui aveva chiara l’intera faccenda.
-Io, Natsu e Kurumi ne abbiamo parlato- proseguì incurante –Credo che tu ti sia accorto della particolare attenzione che ti è stata riservata dal nemico. Dico bene?-
In tutta risposta il ragazzo annuì lentamente, senza distaccarsi dall’atteggiamento distante che gli iniettava in corpo una calma la quale, nell’intimo, non provava.
Komachi si sporse in avanti, alzò la propria sedia e si sistemò al fianco di Ryan, appoggiando una sua mano fresca sull’avambraccio di lui. Era il suo modo per dire che gli era vicino nonostante si conoscessero a malapena: lei era fatta così. La sua sensibilità era delicata, profonda, e la sua personalità era in grado di percepire le sfumature più nascoste dell’anima. Non sopportava la vista di una persona ferita. di qualunque persona si trattasse.
Kooda sospirò. Completare quel discorso si stava rivelando più difficile di quanto si aspettasse. In fondo avrebbe dato conferma ai peggiori pensieri di Ryan, dato vita ai suoi incubi. L’avrebbe gettato ufficialmente nel mare in tempesta dei suoi timori. E, dal canto suo, il ragazzo non stava reagendo per il meglio.
Era calmo, sì, ma era solo una calma apparente. Stava semplicemente frenando le proprie emozioni.
Kokoda avrebbe preferito che il ragazzo si fosse messo a sbraitare, urlare, magari persino prendere a calci qualcosa.
-Ryan, sei braccato dal nemico-
 
Kurumi rilasciò il respiro, trattenuto fino a quel momento nella gabbia dei suoi polmoni. La tensione l’aveva irrigidita al punto di apparire una colonna di granito, ritta sulla poltrona.
 Lanciò uno sguardo nervoso a Ryan. Temeva per la sua reazione. Temeva per il colpo che Kokoda aveva appena sferrato. L’avrebbe incassato?
Si, alla fine lo avrebbe fatto. Era costretto a farlo, che lui lo volesse oppure no.
Ryan si limitò a mordersi l’angolo destro del labbro inferiore.
Dal momento che il ragazzo sembrava chiuso in un silenzio impenetrabile, Kurumi pensò che tanto valeva completare il tutto, offrendogli una buona ragione per rimuginare sul da farsi e lambiccarsi nella conoscenza più  profonda di se stesso, di una parte ancora nella penombra che Ryan avrebbe dovuto illuminare per avere chiara, finalmente, la situazione e le ragioni per cui ora si trovava lì, inchiodato a quella sedia, costretto ad un umiliante fuga, sotto un’incatenante protezione e pressato dai sensi di colpa che gli tagliavano il petto, una preoccupazione per colei che aveva coperto il suo ruolo di preda, pur inconsapevolmente.
-Abbiamo varie ipotesi in merito- disse allora con voce ferma, attirando l’attenzione del ragazzo –ma perché queste possano rivelarsi veritiere necessitiamo della tua collaborazione- con un’occhiata esaminò lo sguardo platino del ragazzo: sfuggiva quello dei presenti, guizzava nei dintorni focalizzando i vari oggetti nella stanza, uno ad uno. Era palesemente nervoso, agitato. Spaventato.
Tuttavia annuì nuovamente.
Kurumi sospirò, accavallando le gambe e tirando indietro le spalle, come a darsi forza -Tutto questo risale all’apparizione della farfalla-
Ryan sussultò, lanciandogli uno sguardo sorpreso. Evidentemente non si sarebbe mai aspettato che l’origine di quel pandemonio fosse qualcosa di tanto banale e apparentemente irrilevante.
La ragazza si scostò una ciocca di capelli dal collo, lasciando che le volute leggere si avvitassero sulla schiena. Quindi lanciò un altro sguardo severo a Ryan, rendendo evidente la richiesta di una risposta.
Lui parve accorgersene, quindi si riscosse dalla sorpresa e si schiarì la voce, domandando cosa volevano sapere.
-Ci  serve sapere se in quel periodo era solita apparire nei dintorni una farfalla come quella- interloquì Natsu con tono di voce incalzante.
Ryan si esibì in un perfetta espressione disorientata –In America non ci sono farfalle come quelle-
I tre si scambiarono uno sguardo angosciato.
-nemmeno in Giappone- riferì Kurumi con un sorrisetto sarcastico che, probabilmente, Ryan non riuscì a decifrare.
-Cosa?- fece infatti, confuso.
-Ci stai dicendo-  insistette Natsu –che la prima volta che hai visto la farfalla è stata quella mattina?-
Ryan annuì.
Un cipiglio contrariato si fece strada tra le pieghe imperscrutabili del viso di Natsu.
-ah- si limitò a dire, prima di concedersi una pausa di riflessione silenziosa –e c’era qualcun altro nei dintorni, quando è successo?-
Ryan si agitò sulla sedia –Successo cosa?-
-Quando hai assorbito il flusso di energia della farfalla- rispose semplicemente Kurumi, compiacendosi dell’espressione stupita che si dipinse non solo sul viso di Ryan, ma anche sul viso delle compagne di squadra.
-si- a rispondere fu, inaspettatamente, Nozomi, la quale dopo aver ascoltato pazientemente la conversazione, si era illuminata. Probabilmente l’argomento le aveva solleticato la memoria, facendole riaffiorare nella mente eventi passati conducibili all’attuale discorso –Io ero lì quando sei svenuto-
Fu la volta di Kurumi a stupirsi.
-Cosa?- sillabò, sgranando gli occhi.
Nozomi scrollò le spalle, corrugando la fronte nel tentativo di ricordare meglio –Si, e c’era anche Rin-
Al solo nominarla, Ryan sprofondò nella poltrona gemendo sotto i colpi strazianti dei sensi di colpa.
-D’accordo- Kurumi fece un segno di noncuranza –c’era qualcuno nei dintorni?- disse, riformulando la domanda.
-Si- rispose Ryan –era … -
-… Yumiko Kate- completò Nozomi.
 
Seguendo gli sprazzi enigmatici di indizi sfuggiti a Kokoda, Natsu e Kurumi, Karen era stata in grado di comporre una matassa di episodi, ipotesi, avvenimenti contrastanti nella propria mente. Ora, lentamente, aveva individuato il capo del filo e stava studiando come sciogliere l’intreccio vincolante per liberarlo in un ipotesi sciolta che filava.
Era appena giunta alla conclusione di una possibile risposa, quando  Il cigolio di una porta al piano superiore fece sobbalzare la ragazza, completamente assorta nel discorso e affogata in un mare di ragionamenti intricati.
Alzando lo sguardo poté incrociare quello confuso di Kokoda e quello accigliato di Syrup. Quest’ultimo s’alzò in piedi e fece per salire le scale, ma una stanca Rin gli si pose di fronte, facendogli un gesto seccando di noncuranza.
Syrup, una volta ripreso dall’iniziale sbigottimento, si limitò a liberarle il passaggio mettendosi di lato, dando una scrollata di spalle all’occhiataccia contrariata di Kurumi.
Quando Rin fu sotto la luce piena della sala, Karen ebbe modo di vedere quanto a fondo il veleno avesse scavato in lei. Aveva l’aria infinitamente spossata, gli occhi lucidi, le palpebre davano l’impressione di pesare come macigni. Senza contare la palese difficoltà che aveva Rin nei movimenti: aveva i muscoli terribilmente irrigiditi.
-ciao- La ragazza si avvicinò tentando di abbozzare un mezzo sorriso alle compagne, nonostante il viso fosse profondamente segnato da aloni scuri sotto gli occhi.
-Rin- esordì Kurumi con un sospiro –devi riposare-
In tutta risposta lei fece un gesto con la mano, come a scacciare le parole futili della ragazza.
Karen si strappò dalla sorpresa che l’aveva lasciata immobile come una maschera di granito.
-Come ti se …?- tentò di dire, ma Nozomi la interruppe subito cacciando un urlo a squarciagola e fiondandosi, decisamente poco ragionevolmente, tra le braccia di Rin che l’accolse nonostante il dolore per il contatto avesse preso a palesarsi nelle grinze della sua espressione.
-Piano- mormorò lei, allontanando delicatamente l’amica da sé.
-Siediti qui Rin!- esclamò Urara picchiettando un posto sul divano accanto a lei e illuminando la stanza con un enorme sorrisone gioioso.
Rin le sorrise di rimando e accettò volentieri la proposta di Urara, affiancandosi all’amica e attirando tutta l’attenzione turbata e riconoscente di Ryan.
A karen saettò nella mente il discorso avvenuto fra lei e Komachi.
Ryan sapeva che il veleno era per lui.
 
Rin crollò sulla sedia indicatale da Urara.
Forse avrebbe dovuto riposare ,come le aveva suggerito Karen, ma non ne poteva più di rimanere inchiodata a quel letto. Non appena aveva percepito i sintomi peggiori scemare dal suo corpo e sfumarsi in qualcosa di sopportabile, aveva deciso di alzarsi e raggiungere gli altri sebbene fosse conscia el veleno ancora in circolo fra le sue vene.
Kokoda si schiarì la gola, attirando l’attenzione dei presenti.
-Come stavamo dicendo- riprese –Ryan ha assimilato il flusso di energia-
Karen annuì concorde –ho un’ipotesi- disse, sicura.
Kurumi alzò un sopracciglio e le diede parola.
-Kokoda, tu eri sicuro che il flusso di energia fosse a stretto contatto con Yumiko, per questo ci hai chiesto di tenerla d’occhio e di indagare su di lei, giusto?- cominciò Karen, liberando finalmente il tumulto di pensieri che si agitava nella sua testa dall’inizio della discussione.
Il ragazzo annuì sorridendo. Karen era sulla giusta strada.
-Ma quando Kurumi ha stabilito un contatto con lei non ha percepito nulla di strano- continuò.
-esatto- rispose lei, sconcertata dalla lucidità e dalla ferma intelligenza della ragazza.
-Questo, però, è avvenuto dopo l’incontro fra Yumiko e Ryan- Karen si portò una mano al mento –Ryan, hai assimilato la farfalla in modo brusco , urtandola, per esempio, oppure quella si è volutamente posata sul tuo corpo?-
Il ragazzo corrugò la fronte, si grattò nervosamente un braccio quindi diede una scrollata di spalle –le ho tagliato la strada. L’ho urtata-
Karen si appoggiò allo schienale della sedia con espressione compiaciuta –come pensavo- disse solo.
 
-Eh?- fece Komachi, guardando storto l’amica in un’evidente richiesta di farsi comprendere meglio.
Lei le sorrise, quindi si animò nella spiegazione dei fatti –Il flusso di energia era indirizzato a Yumiko, proprio come pensava Kokoda. Lei doveva disporre di tutte le caratteristiche necessarie per ospitare il flusso nel proprio corpo e per svilupparlo. Poi, però, mentre il flusso ancora tentava di stabilire un legame con Yumiko, Ryan gli ha brutalmente stravolto il percorso. Probabilmente anche lui deve essere dotato di qualcuna fra le caratteristiche necessarie per l’assimilazione del flusso, per questo motivo, sebbene non fosse stato programmato, Ryan ha assorbito il flusso involontariamente, andandoci a sbattere. L’inadeguatezza completa del suo corpo per il flusso deve aver causato lo svenimento improvviso di cui è caduto vittima se non, oltre a questo fatto, anche la scarica involontaria di energia liberata ieri-
Karen lanciò uno sguardo grave al ragazzo –L’assimilazione del flusso è stato un errore-
Un silenzio improvviso seguì le parole di Karen.
-Sei nel giusto, Karen- sospirò Natsu –e questo comporta che Ryan possieda poteri simili a quelli di voi pretty Cure, ma a causa dell’errore molto probabilmente non ne potrà mai ottenere la piena padronanza-
Ryan sospirò, esasperato. Era chiaro che non ne poteva più di quella storia.
Eppure era appena cominciata. 

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Capitolo 19
*** Fuori posto. ***


L’oscurità prese ad afferrare il manto candido del cielo con le lunghe braccia, avvolgendo le nuvole di spennellate color pesca e donando le prime sfumature violacee, mentre il buio scendeva lento, araldo dell’imminente notte.
Ryan appoggiò il viso al dorso della mano, lasciando che lo sguardo affogasse tra le prime stelle della sera. Era inquieto, agitato, nervoso. Nel suo petto si rimescolava un turbinio informe di emozioni contrastanti, ma lo sfondo non cambiava mai nota: paura. Era letteralmente terrorizzato da ciò che avrebbe potuto incontrare nel prossimo futuro. Era braccato.
Si, questo lo aveva capito. Eppure, le parole taglienti di Kokoda lo avevano sconvolto. Avevano reso la situazione più concreta, reale. Avevano sferrato un forte colpo alla sua consapevolezza, sfumando qualsiasi speranza di fuga dal suo crudele ruolo in quella recita.
Era braccato. Ed era indifeso.
Non aveva alcuna speranza. Aveva acquisito un flusso di energia. Ma non era in grado di utilizzarlo. Non ne aveva la piena padronanza.
Era braccato. Era indifeso. Ed era un Errore.
Se quella mattina, per puro caso, avesse imboccato un vicolo diverso, una piazza gremita di gente, se solo avesse smarrito la strada o se solo la sua cartina geografica si fosse rovinata sotto la pioggia, ora non sarebbe una preda. Se non avesse messo piede su quelle dannate strisce pedonali, ora non dovrebbe pianificare la difesa del suo stesso corpo, non dovrebbe umiliarsi al punto di farsi accompagnare ovunque da una delle combattenti, come un bambino piccolo si fa accompagnare dalla balia perché incapace di badare a se stesso.
Ora non starebbe occultando la propria rabbia, paura, colpa dietro un infida maschera passiva, inutile quanto estranea al tumulto che si agitava nel suo intimo.
Le parole dei presenti in sala si accavallavano una sull’altra, si coprivano, si impastavano in un amalgama  indefinito che non riusciva ad inglobare l’interesse di Ryan nonostante lui fosse al centro della discussione. Ere l’argomento, eppure ne era escluso. Decidevano per lui, evitando accuratamente di chiedere direttamente il suo intervento nella discussione. Pareva che nulla lo riguardasse. E lui rimaneva nell’angolo, ubbidiente, senza protestare. Era stanco:  finora era stato meta di pellegrinaggio per guai e problemi. Sapeva che avrebbe dovuto prendersi le proprie responsabilità, ma come poteva riuscire ad orientarsi in un mondo così diverso? In una realtà cosi paradossale da riconoscerlo come estraneo? Ancora non aveva assimilato l’idea di essere l’occhio del ciclone. Era ancora nella mente del bambino indifeso, dipendente dalle cure altrui, riluttante all’idea di prendere la situazione in mano e maledettamente terrorizzato.
-E’ tardi. Dovrei tornare a casa-
Rin aveva sussurrato con voce rauca, aspra, la gola stanca della battaglia incessante contro il veleno. Fu un semplice sussurro tagliente, ma nella testa di Ryan sovrastò le altre voci e riecheggiò dolorosamente. Si voltò verso la ragazza, che si stringeva nel maglione scuro prestatole da Kokoda. Aveva ancora la febbre, ma continuava ad insistere sul fatto di rimanere partecipe alla riunione.
Nonostante i sintomi pesanti del veleno, che la piegavano, la spossavano e la colpivano incessantemente, Rin manteneva la sua autorità severa e aggressiva, lo sguardo alto, l’atteggiamento scontroso.
La ragazza si alzò, domando il dolore che le trasfigurava i tratti del viso, quindi forzò un mezzo sorrisetto e recuperò la sua sacca da ginnastica.
-D’accordo- le sorrise Kurumi –Riposati- si raccomandò poi.
-Rin, ti accompagno- disse Nozomi con voce squillante, infilandosi la felpa e lanciando una fugace occhiata alla finestra per assicurarsi che le condizioni atmosferiche non pretendessero l’ombrello o una sciarpa.
Ryan era rimasto a fissare Rin alzarsi, lo sguardo vacuo sciolto sul bianco immacolato, quasi accecante, delle bende che le avviluppavano il corpo . Come ipnotizzato, sentì confusamente Nozomi proporsi per farle compagnia. Sempre in bilico fra lucidità e un anonimo torpore, i sensi di colpa presero a torturarlo, colpendolo come schiaffi in pieno viso.
 Rin ci aveva quasi rimesso la pelle. Per colpa sua.
Era lui la preda. A lui era indirizzato il veleno. A lui erano indirizzate le ferite, i tentacoli, le lenzuola pulite  del letto al piano di sopra, le cure di emergenza di Kokoda e Natsu, il rapido volo di Syrup alla ricerca di medicinali efficaci. La lenta e sofferta ripresa dei sensi.
In nemico avrebbe dovuto stringere lui fra le proprie grinfie.
E invece aveva preso lei.
 Si riscosse quando la porta dell’ingresso emise un fastidioso cigolio.
Si alzò di scatto, incapace di reggere oltre quel torpore straziante che, come un’anestesia, gli addormentava i pensieri, nell’estremo tentativo di estraniarsi da ciò che era la dura realtà.
Si voltò e, prima che chiunque fra i presenti potesse fermarlo, uscì e raggiunse a grandi falcate le due che mormoravano nel silenzio della sera.
-Rin- chiamò, a pochi metri di distanza, mentre già la porta della Natts House si spalancava per trascinare il bambino ribelle al caldo delle sue mura, dove sarebbe stato al sicuro, protetto da eventuali attacchi.
La ragazza gli lanciò uno sguardo da sopra la spalla, inarcando un sopracciglio, mentre Nozomi al suo fianco impallidiva alla vista del ragazzo senza alcuna protezione.
-Che vuoi, Stangone?-
Un sorriso tentò le labbra di Ryan; Rin pareva essersi ripresa quel tanto che bastava per permetterle di riprendere la sua opera sarcastica a discapito del ragazzo.
In quel momento, però, Ryan era troppo angosciato perché potesse aprirsi in un sorriso.
-Rin, perdonami- esclamò concitato, avvicinandosi e mutando il suo viso con pieghe mortificate.
-Cosa?- fece lei di rimando, voltandosi confusa.
-Perdonami. Perdonami per la sfuriata sul pullman, per quell’insistente partita da basket che ti ho costretto a giocare, per quelle inutili lacrime negli spogliatoi- abbassò ulteriormente la voce –per averti gettato fra le braccia della morte quando mi ci sarei dovuto gettare io- Si sfogò con voce incrinata, aprendo la diga che conteneva il fiume di parole tra le sue labbra. Aveva un assoluto bisogno di porgerle le sue scuse. Se le meritava: finora lui le aveva ostacolato l’intervento con i suoi capricci insensati, e solo ora si rendeva conto che, nonostante i modi un po’ rudi e ombrosi, la ragazza aveva da sempre avuto ragione.
-Scusa- mormorò ancora a capo basso, lasciando ciondolare le braccia inermi lungo i fianchi. Non sapeva che altro dire per esprimere ciò che provava.
Rin lo squadrò con degli occhi cremisi severi, attenti, calcolatori. Uno sguardo penetrante e sottile come la lama di un coltello. Il suo viso serio, affilato, non tradì alcuna emozione di fronte allo sfogo emotivo di Ryan.
Al ragazzo parve che lo stesse letteralmente spogliando di qualsiasi difesa, aprendo il suo guscio e lasciandolo fragile, esposto. Sotto quegli occhi ardenti Ryan sentì il viso avvampare, l’udito farsi più sordo e ovattato, mentre sul collo e nel petto gli pulsava vivo il battito cupo del cuore. Percepì quasi l’istinto di indietreggiare, di fuggire davanti al giudizio di quello sguardo tanto freddo eppure tanto caloroso al contempo. Ma si sentiva in trappola. Ingabbiato fra le iridi focose e immerso nel nero delle sue pupille sottili. Senza rendersene conto, arrossì vistosamente  e brividi tiepidi gli scivolarono lunga la spina dorsale, mentre percepiva chiaramente le orecchie andargli a fuoco. Senza più riuscire a sostenere la personalità provocante di Rin,  il ragazzo si trovò costretto a piantare lo sguardo a terra, il respiro corto e una confusione sconosciuta che gli attanagliava la lucidità fredda della mente.
-Scuse accettate- disse semplicemente lei, alzando un sopracciglio. Quindi scosse il capo con aria divertita, quasi derisoria. Accennò brevemente un cenno di salutò, poi si voltò e riprese a camminare, stretta fra l’abbraccio morbido del maglione.
Ryan si ritrovò a sorridere, inebetito.
-ragazzo, ti sei cacciato in un bel guaio- la voce diretta di Natsu lo riportò, o almeno ci provò, coi piedi per terra. Si voltò con espressione corrucciata –cosa?- esclamò, incredulo –non è affatto colpa mia se sono tanto sfigato da andare a sbattere contro l’unica farfalla capace di sguinzagliarmi contro eserciti di belve micidiali - proseguì senza più riuscire a contenere la frustrazione.
Natsu gli lanciò uno sguardo duro dopo quelle parole azzardate, poi però allungò un angolo della bocca e scosse il capo –non mi riferivo a quello-
Ryan corrugò la fronte, disorientato e ancora mezzo imbronciato. Che cosa poteva essere peggiore della situazione insicura in cui si trovava ora?
-Cosa?- fece, palesando la sua confusione.
Il ragazzo gli sorrise con fare quasi complice, quindi, indicò con un cenno del capo la sagoma minuta delle ragazze che si stagliava contro il cielo ormai scuro.
-Ti avviso: quella ti rivolta come un calzino- Disse poi, scambiandogli un occhiata eloquente.
Ryan sgranò gli occhi e arrossì violentemente fino alla radice dei capelli.
Ma che aveva capito quel tipo?
-N-no, aspetta che …?- dannazione, aveva balbettato.
Natsu scoppiò a ridere per poi assestargli una pacca amichevole sulla spalla, quasi a volergli esprimere compassione –io ci rinuncerei-
Detto questo fece segno di seguirlo all’interno della Natts House.
Ryan gli andò dietro, mentre tentava inutilmente di sbollire quella forte sensazione che gli spingeva il cuore in gola.
 
Rin aprì la porta di casa. Un fortissimo profumo di caffè fece irruzione nelle sue narici, immergendole gli occhi di un velo pungente di lacrime. Si voltò, salutò Nozomi  con un breve cenno della mano, quindi chiuse la porta, lasciandosi alle spalle Cure Rouge e tutto ciò che aveva subito in quei due giorni sospesi nell’incoscienza. Si sforzò di rivestirsi dei panni quotidiani di Rin mentre percorreva il breve corridoio che dava sul salotto da cui proveniva un tiepido calore e un lieve chiacchiericcio spensierato. Ripassò l’ormai usuale copione che prevedeva l’eliminazione dei possibili sospetti e dubbi che si sarebbero potuti presentare nella mente della famiglia. Ogni indizio riconducibile a Cure Rouge doveva dileguarsi.
Prese un sottile sospiro, si stampò in viso un mezzo sorrisetto sarcastico, quindi voltò l’angolo per il salotto, immergendosi nella fioca luce quotidiana della sala.
Il grande tavolo in legno era inghirlandato dalla madre e i due gemelli più piccoli, piegati sui libri di scuola, intenti in una lettura che, sotto il loro punto di vista, doveva risultare estremamente difficoltosa.
Rin avanzò tra il profumo dei fiori sbocciati che trovavano riposo nella terra fresca dei vasi, posti all’ingresso e appoggiati sulla credenza accanto alla cucina lucida, lasciò scivolare la propria sacca a terra, quindi mise sotto l’acqua il polso, profondamente inciso dal veleno, ripetutamente irritato dall’attrito della manica sulla sua pelle. Si rese conto che il braccio era scosso da forti tremiti, e la morsa che le attanagliava le tempie era una prova crudele che la febbre permaneva nel suo corpo. Si sostenne al ripiano della cucina, mentre gradualmente il suo corpo cedeva sotto i colpi della spossatezza.
Lanciò uno sguardo distratto alla madre, accomodata di fronte ai gemelli, lo sguardo bonario e una tazza di forte caffè nero stretta tra le dita. I capelli le incorniciavano scompostamente il viso stanco e le labbra tese in un sorriso stringevano dolci parole di incoraggiamento, mentre con l’indice scorreva le parole del libro di scuola, tenendo il segno al posto dei figli.
Rin le si avvicinò.
-Ciao- sussurrò flebilmente, lasciandosi cadere su una sedia al suo fianco.
La madre non rispose, troppo assorta nel suo compito. Rin scrollò le spalle e sospirò: ormai ci aveva fatto l’abitudine. Da quando la grave dislessia di Yu e Ai era venuta a galla, la madre dimostrava sempre meno tempo per lei, fino a raggiungere il punto critico in cui a malapena riuscivano a mettere in piedi una discussione che puntualmente si palesava troppo succinta per le esigenze della figlia. Kazuyo si era dimostrata assolutamente dedita ai gemelli e ai loro problemi, e non appena il lavoro le permetteva di lasciare il bancone del negozio, lei si dedicava al difficoltoso incedere dei figli nello studio. E Rin era stata marchiata “sorella maggiore”, colei che doveva prendersi sulle spalle le proprie responsabilità, colei che non aveva bisogno di una mano tesa per andare avanti, colei che era abbastanza matura per cavarsela da sola.
Rin le sfiorò l’avambraccio con le dita, richiamando la sua attenzione.
Lei le rivolse una breve occhiata sorpresa, quindi tornò immediatamente ad Ai, che si esibiva nel pesante tentativo di leggere una parola particolarmente lunga.
-Come stai, tesoro?- chiese con aria distaccata, annuendo rivolta alla gemella in attesa di una conferma alla sua pronuncia.
Rin si strinse nelle spalle –Bene- rispose –Ho affrontato un esercito di bestie fameliche, ho rischiato di venire divorata, poi di rimanerci sotto gli effetti di un veleno. E poi, be’, poi ti ho detto che dormivo da Nozomi quando invece mi contorcevo agonizzante in un lettino della Natts House- sputò diretta, senza freni alla propria lingua.
La madre annuì –interessante- rispose con voce atona, voltando pagina e accarezzando il viso di Yu con un sorriso dolce.
Rin contrasse la mascella, mentre la rabbia le si arrampicava per lo stomaco –Già- disse a denti stretti, domando a stento l’ira per quel  disinteresse nei suoi confronti.
-Be’, me ne vado a letto a vomitare il mio veleno- ringhiò, alzandosi e tentando invano di ignorare fitte infide e capogiri che premevano alla bocca dello stomaco, infondendole uno spiacevole senso di nausea che si ripeteva a sbalzi d’intensità.
Fece per entrare nella propria camera, ma s’imbatté in suo padre, lo sguardo furente e il passo pesante.
-Ferma lì- esordì con tono autoritario, arrestando il tentativo della ragazza di evitare il rimprovero rifugiandosi fra le lenzuola.
Rin si voltò di malavoglia, avvertendo la morsa stringerle le tempie con più forza e gli occhi bruciare, irritati.
-Che c’è?- rispose con voce smorzata, appoggiandosi alla parete.
Il padre le agitò davanti al viso il libretto scolastico, quindi lo aprì su una pagina precisa glielo sbatté chiaro in faccia.
-Questo cos’è?- sbottò irritato.
Rin percepì lo stomaco rivoltarsi e si piegò leggermente con una smorfia dolorosa in viso. L’udito sembrava guastato, ovattato e un ronzio le echeggiava fastidiosamente fra le pareti mentali. Nonostante ciò mascherò il tutto sotto un espressione infastidita.
-Un cinque in chimica- rispose alzando un sopracciglio.
Il padre allargò le braccia con fare esasperato –E di questo cosa mi dici?- indicò la pagina seguente.
Rin si strinse l’addome, mentre le viscere protestavano con un coro sempre più assordante, rimescolandosi e incidendole la carne con fitte inattese.
-Quello è un cinque e mezzo in matematica- rispose con voce soffocata, sopprimendo i gemiti di dolore.
Non ne poteva più, voleva tornare a letto, dormire, riposare.
-Ho sonno, papà, non mi sento bene, vado a … -
Il padre le puntò contro l’indice –ah, non provarci! La conosco, la classica scusa- si portò le mani ai fianchi –Rin, che cosa pensi di fare con questi voti?- ringhiò con rabbia –cosa credi di fare quando arriverai ai livelli universitari?-
Rin percepì una doccia fredda di sudore colarle fra i dorsali.
-Non ci vado all’università- sibilò di rimando, costretta a sorbirsi l’usuale rimprovero del padre e i soliti ragionamenti , inutili e insensati ,a detta usa,che aveva preso a farle da qualche anno.
Lui le rivolse un occhiataccia di fuoco –No? E allora cosa farai? l’imbianchina?- il viso del padre fu attraversato da un sorrisetto di scherno –non sei in grado di tenere in mano un pennello-
Gli occhi di Rin lampeggiarono di un’ira selvaggia, la mandibola compresse i denti, mettendo  a dura prova la loro resistenza. Lui sapeva perfettamente quali erano le sue intenzioni per il futuro. Si, Rin era assolutamente intenzionata a proseguire la via dello sport, a donare il proprio tempo all’attività fisica e a proseguire la strada che si era delineata dagli inizi, da quando aveva avuto i primi contatti con il calcetto. Il padre, però, dopo i primi anni, aveva preso ad opporsi animatamente ai desideri della figlia, pretendendo che tenesse alto l’onore della figlia studiando con impegno ad un’università di fama e guadagnandosi un ottimo lavoro proficuo. Le passioni di Rin erano pressate, ingabbiate, e per i suoi semplici desideri si delineava sempre meno tempo, apparivano inutili davanti all’indifferenza fredda del padre.
Probabilmente il padre le faceva i discorsi per paura che Rin avesse perso la cognizione di ciò che era il mondo fuori dalla scuola. Probabilmente lui si sentiva un eroe che riportava la figlia, stordita dall’abbaglio di una stupida passione infantile, sulla retta via. Probabilmente lui credeva di farlo per il suo bene.
In realtà non faceva altro che toglierle la libertà che Rin da sempre desiderava.
Non aveva voglia di discutere; conversazioni come quelle ne avevano di continuo, e finivano sempre con gli strepiti nervosi del padre che le imponevano di tacere e di porre rimedio alla sua attuale inutilità.
Ringhiò tutto la sua rabbia con uno sguardo affilato, quindi entrò nella sua camera, sbatté con forza la porta e si chiuse a chiave, tenendo al di fuori le assurde pretese del padre.
Si gettò sul letto, affondando il viso nel cuscino, mentre ogni minimo contatto con le zone avvelenate del suo corpo le procurava un bruciore straziante.
Perché si sentiva così maledettamente fuori posto?
 
 
NOTE:
Ringrazio per le loro recensioni:
-Mixxo98
-Kissenlove
-Laelia__
E in particolare:
-Konankohai
-Fnsrlieamhk
Grazie mille! 

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Capitolo 20
*** Rabbia ***


Rin aprì gli occhi.
la sua mente riemerse a fatica dal sonno stordente della mattina, mentre la vista avviava pigramente i meccanismi necessari per inquadrare le assi del soffitto e appropriare il giusto limite alle indistinte macchie di colore. Quando fu certa che i suoi sensi si fossero ridestati al meglio, si issò a sedere delicatamente, senza forzare a strappi bruschi il fisico provato dal veleno.
Fu piacevolmente sorpresa di non cadere vittima di un forte capogiro nell’atto di contrarre l’addome, e la situazione migliorò quando fu in grado di avvertire chiaramente che il capo non era più pressato da una morsa frastornante. Ne dedusse che la febbre le era scesa e, forse, addirittura sbollita completamente. Ciononostante gli angoli degli occhi persistevano in un forte bruciore, mentre ogni giuntura le rendeva difficoltoso il movimento anche più millimetrico.
Sbuffando, si sostenne al comodino per alzarsi, cosa che, tutto sommato, non le riuscì particolarmente dolorosa. Ficcò un braccio nell’ammasso di vestiti accartocciati che teneva sopra quella che un tempo doveva essere una sedia ma che, col passare degli anni, aveva preso la funzione di attaccapanni. Ne estrasse la divisa scolastica ,apparentemente accettabile, giusto per rientrare negli schemi della decenza umana.
Entrò in salotto, tentando di mascherare la propria difficoltà motoria sotto una disinvoltura sciolta che contrastava nettamente con i muscoli rigidi e doloranti. Si passò una mano fra i capelli, trovando difficile riuscire a districare le dita dai nodi mostruosi che si erano creati durante la notte, e sbadigliò a mascella libera, rischiando quasi di slogarsela.
La stanza era riscaldata e l’aria aleggiava tiepida, ma il pavimento era congelato e Rin dovette spostarsi in punta di piedi, dal momento che il giorno prima si era spogliata rapidamente dimenticando le pantofole all’ingresso.
Lanciò un’occhiata stranita al tavolo vuoto e alla sala deserta. Riecheggiava ritmicamente il classico suono attutito del lavandino sgocciolante, mentre il solito profumo di detersivo al limone ,che la madre usava per i piatti, le punse le narici. Di solito, a quell’ora, il tavolo era imbandito per una colazione abbondante e arricchito dai familiari che si affrettavano per ottenere i biscotti più fragranti e il monopolio del microonde.
Rin corrugò la fronte e un dubbio gelido le strisciò sulla schiena.
Lanciò uno sguardo angosciato all’orologio.
Si sentì mancare.
Nel medesimo istante, il cigolio di una porta preannunciò l’entrata in scena del padre, pronto per il lavoro.
La ragazza si grattò la nuca, rifiutando l’evidenza. Non voleva credere che fossero arrivati a tale punto.
Si voltò furente verso il padre, il quale dapprima le lanciò uno sguardo interrogativo, poi si avviò tranquillo alla cucina, scaldando del latte e del caffè.
-Dov’è la mamma?- esordì Rin, allargando le braccia in un segno di esasperazione.
Il padre si voltò a guardarla come se avesse perso completamente il senno –è al lavoro- rispose asciutto, accompagnando il tutto con una lieve alzata di spalle.
Rin percepì un ondata di ghiaccio cingerle il corpo al pari di una doccia fredda.
-Doveva portarmi a scuola oggi!- ringhiò di rimando, percependo chiaramente il sangue aumentare il proprio circolo nelle vene pulsanti –non può essere già partita-
Lui le lanciò uno sguardo a sopracciglia alzate, facendole intendere che si stava sbagliando completamente. Scosse la testa con una risatina irritante –tua madre è al lavoro-
Rin spalancò la bocca e sgranò gli occhi –E Yu ed Ai? Doveva portare a scuola anche loro oggi- sbottò con stizza, indicando il corridoio che dava sulla stanza dei gemelli con un gesto rabbioso.
-L’ha fatto- fu la risposta. Secca. Diretta.
Uno schiaffo in pieno viso.
Rin ci rimase di stucco. Fissò il padre con una maschera di granito che le alterava il viso, mentre le braccia si stringevano convulsamente su sé stesse. Non ci poteva credere. Non ci voleva credere.
-E io?- fece in un flebile sussurro, lasciando che un breve brivido le cavalcasse la spina dorsale, monito di un’ormai imminente crisi di nervi.
-Non ti svegliavi, tesoro- Rispose lui, dandole la schiena, intento a rimescolare lo zucchero all’interno della sua tazza.
Rin rimase in silenzio. Impalata nel bel mezzo del salotto, le braccia strette al petto e l’incredulità fredda che sfumava lentamente, sostituita da una crudele concretezza dei fatti che prendevano consistenza e si mostravano in tutta la loro insensibilità.
Percepì le papille gustative immerse nell’amaro gusto della delusione.
Ignorata.
Ignorata.
Ignorata.
-Perché non l’avete fatto voi?- ringhiò in un esplosione d’ira, senza più riuscire a frenare la violenta tensione che spronava ogni centimetro del suo corpo ad urlare di strazio e di rabbia. Era stata ignorata. Era stata dimenticata. Volutamente lasciata indietro. Una rabbia cieca le cacciò uno scossone convulso fra le membra e le chiuse la bocca dello stomaco.
Il padre la guardò con severità in risposta al forte sfogo emotivo che si era lasciata sfuggire. Nuovamente alzò entrambe le sopracciglia –Pensavo fossi in grado di farlo da sola- rispose tagliente, lo sguardo affilato e l’espressione seria, protesa all’offensiva nei suoi confronti.
Rin avvertì le viscere rimescolarsi fra lo sterno e l’addome, il respiro farsi più corto e l’ira trasfigurarle i tratti, mentre lo sguardo si apriva su un sipario cieco, abbagliato unicamente dall’irrefrenabile desiderio di sparire.
Inutile.
Inutile.
Inutile.
Era lo sfondo costante della sua vita. Un sapore amaro e pungente che la travolgeva. Una minaccia perenne che le puntava contro la lama, che approfittava dei suoi momenti di debolezza per assaltarla, sbranare la sua personalità, la sua autostima, strappandole di dosso pregi e difetti, spezzando la sua indole come un ramo secco. Non voleva essere diversa. Non voleva essere ciò che le chiedeva la famiglia. Non voleva personificarsi in uno stupido automa inanimato, pronto ad assecondare gli ordini assegnati.
Ignorò il padre, le sue parole affilate, il suo sguardo dal disprezzo amaro, il muto messaggio che le scoccava.
Senza più tollerare la sua presenza nella stanza, uscì sbattendo con violenza la porta, sfogando la sua rabbia in quel patetico gesto, superfluo, inefficace perché riuscisse a dissipare l’incendio di rabbia che le dilaniava il petto.
Si infilò le scarpe da tennis e uscì afferrando la cartelletta di scuola abbandonata, dal giorno precedente, a far compagnia alle pantofole. Si avviò con lunghe falcate brusche verso la più vicina fermata del pullman.
Percepiva i contorni degli occhi inumidirsi, le labbra tendersi e la rabbia annodarsi nella gola in un soffocante groppo.
No.
Si arrestò nel bel mezzo del marciapiede, passandosi una mano sul viso.
Non voleva sprecare le proprie emozioni, per quanto negative fossero. Non avrebbe permesso a nessuno di costringerla a versare lacrime vane.
Strinse i pugni.
Il padre aveva scelto di sfidarla.
E lei avrebbe reagito.
 
Nozomi alzò lo sguardo annoiato alla lavagna, riportando ciò che tracciava il gesso  sul suo quaderno in inchiostro blu Appoggiò il capo al palmo della sua mano, fissando di sbieco il banco vuoto di Rin alla sua sinistra. Sospirando fece per tornare alla lezione di matematica, ma incrociò lo sguardo di Ryan.
Nemmeno lui riusciva a darsi pace per l’assenza di Rin. Molto probabilmente i medesimi pensieri sfioravano le loro menti, e la preoccupazione assaliva entrambi allo stesso modo.
Kokoda aveva detto loro che sarebbe stata questione di un paio di giorni, giusto il tempo per espellere il veleno ed eliminare le tossine dal fisico.
Eppure Rin non si faceva vedere.
Forse la febbre non le era scesa. Forse preferiva riposare un altro giorno prima di tornare alla quotidiana routine frenetica.
Forse.
Nozomi chiuse la questione nella sua testa. Era inutile torturarsi con pensieri negativi e speranze contrastanti. Non aveva motivo di preoccupazioni: Rin era forte ed era perfettamente in grado di combattere contro il veleno. Si sarebbe ristabilizzata in fretta.
La campanella suonò, stabilendo il termine dell’attuale lezione e l’inizio della successiva.
La professoressa di matematica racimolò il suo materiale nella borsa, firmò sul registro e fece per alzarsi dal posto di cattedra, quando la porta della classe si spalancò inaspettatamente, facendo trasalire gran parte dei presenti.
Nozomi sgranò gli occhi.
Sulla soglia della classe si appoggiava allo stipite della porta Rin, affannata e in pieno scompiglio; a partire dalla divisa scolastica, piegata in più punti da grinze sottili e accartocciata come un foglio di carta rovinato, all’espressione stravolta, sfiorata dai capelli in completo subbuglio che si contorcevano sul suo collo, sfidando qualsiasi legge della fisica.
La professoressa in questione, una volta ripresa dallo sfiorato infarto, la rimbrottò per i suoi “modi di fare”, quindi pretese la giustifica per il ritardo scolastico.
A quel punto Rin aveva sfoggiato una delle sue migliori occhiatacce seccate, aveva incrociato le braccia al petto e aveva risposto asciutta–Non ce l’ho-
Gli occhi severi della docente guizzarono su di lei con un’espressione acida, quindi  prese fiato per ribattere e, molto probabilmente, per sbatterla fuori dalla classe, ma una voce familiare interruppe la breve discussione fra le due.
-lasci stare, me ne occupo io-
Dalle spalle di Rin comparve Kokoda, munito di materiale scolastico e di un sorrisetto inflessibile stampato in volto.
La collega alzò un sopracciglio, quindi puntò il capo della sua penna contro Rin, con un espressione grinzosa piuttosto simile a quella che assumeva nel momento delle interrogazioni.
-La ragazzina ha un ritardo non giustificato- insisté con voce arcigna.
Il sorriso di Kokoda non diede segni di morire, ma il suo sguardo si fece duro, velante una muta sfida fredda.
-la sua ora è terminata- mise una mano sulla spalla di Rin – me ne occupo io- sillabò, giusto per essere certo che la docente afferrasse il concetto in fretta.
Lei alzò il mento con pieghe acide fra gli angoli della bocca, quindi afferrò in malo modo la borsa e uscì dalla stanza borbottando un saluto formale e puramente professionale.
Nozomi riprese a respirare. Rin aveva rischiato grosso sfidando la terribile docente di matematica. Fortunatamente Kokoda aveva preso in mano la situazione e aveva riportato tutto alla normalità. Disse a Rin di portare la giustifica l’indomani, ma Nozomi lo conosceva: sapeva perfettamente che avrebbe riportato sul registro la giustificazione di Rin: quella era solo una recita formale perché gli alunni non si montassero la testa con lui e decidessero di riportare uscite, ritardi e assenze ingiustificate.
Rin rispose con un cenno del capo al saluto timido di Ryan, quindi si sedette pesantemente al fianco di Nozomi, estraendo quaderno e astuccio.
-Cavolo, Rin! L’hai spuntata per un pelo, questa volta- le sussurrò, assestandogli una lieve gomitata di intesa al braccio.
Lei si ritrasse bruscamene al contatto, tentando di sopprimere un’espressione infastidita e di sorridere di rimando.
Nozomi si maledisse. Evidentemente Rin non si era ancora ripresa del tutto e il veleno aveva reso sensibili alcune zone del suo corpo. Si impose di non toccarla da quel momento, onde evitare che le procurasse del dolore.
-Come stai?- sussurrò.
Rin scrollò le spalle.
E Nozomi si cucì le labbra. Aveva imparato a decifrare i movimenti e i modi di fare dell’amica, a cogliere i messaggi muti che solo i suoi gesti lasciavano trasparire. I sentimenti e le emozioni di Rin erano sempre barricati dietro uno spesso guscio dotato di spine aggressive, pronte a respingere chiunque cercasse di entrarvi senza il suo consenso.
Ma Nozomi, col tempo, era riuscita a studiare la personalità di Rin e aveva lentamente ricominciato a capirla, anche dopo il forte sbalzo di personalità che aveva subito da un paio di anni.
Nozomi era in grado di leggere il suo umore.
E quella mattina Rin era di pessimo umore.
 
Urara si sedette al tavolo della mensa, in attesa che le compagne la raggiungessero per pranzare insieme. Chinò il capo verso destra, giocherellando distrattamente con le ciocche dorate che danzavano sulle sue spalle come molle.
Non dovette aspettare molto: la raggiunsero in fretta Karen e Komachi, seguite dai soliti sguardi curiosi e ammiranti. Le si sedettero affianco accennando un saluto composto e appoggiando al tavolo i vassoi riccamente decorati di pietanze varie.
Subito dopo videro comparire, in coda per riempire i vassoi, Ryan e Nozomi, la quale aveva assunto l’importante compito di sorvegliare sul ragazzo fortemente a rischio, dal momento che si trovavano nella stessa classe.
Urara li seguì con lo sguardo mentre si avvicinavano chiacchierando distrattamente del più e del meno, Nonostante l’ansia di Ryan fosse ancora palese nelle occhiate spaventate che, di tanto in tanto, si lanciava alle spalle, come se si aspettasse di vedere comparire una belva famelica pronta a divorarlo.
Ryan esitò qualche secondo, trovandosi davanti il tavolo con le Pretty Cure riunite, e rimase indeciso sul da farsi, impalato sotto gli sguardi curiosi delle ragazze, mentre Nozomi si sedeva con piena naturalezza, prendendo a raccontare animatamente del diverbio – spassoso, a detta sua- fra la professoressa di matematica e Kokoda.
Urara gli sorrise allegramente – siediti, Ryan- lo invitò, indicandogli la sedia vuota al suo fianco. Il ragazzo ubbidì, visibilmente teso. Era palese che non si trovasse a proprio agio fra di loro, in fondo non le conosceva appieno ed era stato costretto ad avere contatti e rapporti piuttosto stretti improvvisamente. La ragazza fece del suo meglio per farlo integrare nel suo discorso e per non farlo sentire troppo in soggezione, ma il ragazzo si chiudeva in sé stesso e svincolava dalle domande personali che gli porgeva Urara, giusto per dare via ad una conversazione spensierata.
La ragazza dovette rinunciare, quindi permise al ragazzo si mangiare in silenzio, senza trascinarlo forzatamente al centro dell’attenzione: non voleva gettarlo in una situazione più scomoda di quella attuale.
Ad un tratto un curioso brusio attirò l’attenzione del gruppo, Nozomi si sporse, dondolandosi sulla sedia, per riuscire a scorgere uno sprazzo di ciò che stava accadendo.
Urara cercò di penetrare il muro di folla, ma la coda per la mensa era folta, compatta e le impediva di vedere oltre.
Con sua grande sorpresa scorse Rin avvicinarsi a passo sostenuto al tavolo, seguita da sguardi basiti e addirittura spaventati. 
La ragazza posò con violenza il vassoio al tavolo, facendo trasalire le compagne e, catturata una sedia dal tavolo vicino, si avvicinò per trovare uno spazietto fra le amiche. Nozomi le sorrise, scostandosi un poco con la sedia per fare spazio all’amica e facendo segno a Ryan di fare lo stesso. Il ragazzo, con la stessa scioltezza e disinvoltura di una lastra di marmo, si spostò verso sinistra,  chiudendosi in un agitazione man mano più evidente dal momento in cui Rin incastrò la sedia accanto alla sua.
-Che succede, Rin?- fece Komachi, lanciando uno sguardo curioso alla folla ancora in subbuglio.
La ragazza fece un gesto di noncuranza con la mano, conficcando la forchetta nella carne del suo piatto impugnandola come fosse un pugnale.
-Niente- rispose con tono burbero –solo un imbecille di atletica che non accetta la sconfitta da parte di una donna- continuò sibilando di rabbia.
-Ahia- gemette Nozomi.
Rin era fortemente femminista e non accettava la minima insinuazione sul “sesso debole”. Era capace di perdere le staffe per una semplice battuta a tema.
-fammi indovinare- interloquì Karen –quella donna sei tu-
Rin alzò lo sguardo, inarcando le sopracciglia –ovvio- rispose, secca.
-Ahia- gemette ancora Nozomi, rendendo il suo tono più disperato.
Urara posò forchetta e coltello e la guardò ad occhi sgranati. Era abituata al carattere ribelle di Rin, ma si era accorta facilmente dell’aggressività crescente che acquisiva la ragazza col passare dei giorni, fatto che non rientrava minimamente con la semplice indole caratteriale dell’amica.
-Rin, non lo hai toccato, vero?- chiese con angoscia.
Lei ingoiò il boccone e scrollò le spalle.
Pessimo segno.
-Gli ho solo mollato un pugno- rispose con naturalezza, come se quel “solo” potesse giustificare la sua azione.
 
Ryan lanciò uno sguardo incredulo a Rin.
-Gli hai solo … - lasciò morire la frase in gola mentre la ragazza gli lanciava un occhiataccia di fuoco.
Quella ti rivolta come un calzino.
Ryan sbiancò. 

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Capitolo 21
*** Insofferenza. ***


Chiedo scusa per il ritardo, avrei dovuto pubblicare il capitolo giovedì scorso, ma un black-out infame mi ha preso di sprovvista e il capitolo che stavo scrivendo è andato a farsi … ehem … a quel paese.
Così l’ho dovuto riscrivere daccapo.
 ripeto: chiedo scusa a tutti!
 
Ryan sbadigliò, tentando, non senza difficoltà, di uscire dall’incastro scomodo del banco troppo ristretto perché potesse contenere le sue lunghissime gambe. Al termine delle ore di scuola si sentiva sempre più rattrappito, rigido e stordito. Si appoggiò alla superficie liscia e lucida del banco, quindi stirò e contrasse un paio di volte i muscoli delle cosce e dei polpacci, avvertendo l’ormai familiare sensazione di legnosità agli arti. Sospirò e fece per uscire dalla classe, ma una voce lo inchiodò sul posto con prontezza.
Si voltò e lanciò uno sguardo di sottecchi a Nozomi, indaffarata a racimolare tutto il materiale scolastico e assorta nel vano tentativo di comprimerlo dietro la cerniera della sua cartelletta, tanto gonfia da dare l’impressione di essere in procinto di esplodere da un momento all’altro. Ryan si chiese come diavolo riuscisse, ogni singolo giorno, a trovare difficoltà nel cacciare astuccio diario, divisa, e quant’altro in una borsa tanto spaziosa. Molto probabilmente il segreto stava tutto nel fermo rifiuto di piegare la divisa di ricambio, di mettere in ordine penne e matite e di serrare diari e quaderni prima di conficcarli nella cartelletta con una noncuranza da oscar.
Il ragazzo sospirò, fermandosi sulla soglia e appoggiandosi ad uno stipite della porta: la classe si era interamente svuotate, e lui era costretto ad attendere che quella confusionaria di Nozomi riuscisse nella sua ardua impresa giornaliera. In fondo non aveva il permesso di muovere piede senza essere controllato da qualcuno. Gli avevano persino imposto di dormire alla Natts house tre giorni a settimana, ignorando il suo appartamento e i soldi che richiedeva la sua permanenza in quel posto. Soldi spesi inutilmente, dal momento che ne apriva la porta solo ed unicamente quando dimenticava qualcosa a casa o quando aveva impellente bisogno di rimanere da solo qualche ora. Essere perennemente scortato da una specie di guardia del corpo si stava rivelando frustrante e Ryan, nonostante fosse tipo da compagnia, apprezzante la vicinanza di amici e cari e riluttante all’idea della solitudine, si stava gradualmente scoprendo insofferente alla situazione.
Ehi, chi non lo sarebbe stato sapendo di avere un branco di belve ringhianti alle calcagna?
Fortunatamente i suoi genitori erano nell’America lontana, ignari di ciò che stava stravolgendo la vita del figlio. E, sempre fortunatamente, il padre non aveva smesso di prodigarsi per far avere i soldi necessari a Ryan per pagare scuola, appartamento e altri impegni che il ragazzo doveva ancora incastrare nella sua vita.
L’accoglienza in Giappone non era stata delle migliori, eppure lui si sforzava di avere un tono allegro e spensierato ogni volta che riceveva una chiamata dai genitori, in modo da lasciar loro la convinzione che tutto filasse per il verso giusto e assicurando loro, quindi, il sonno tranquillo. Cosa che a lui mancava dal preciso istante in cui aveva lasciato la sua casa natia.
Si passò una mano fra i capelli: era incessantemente intrappolato in un intricato groviglio di angoscia, paura e disagio. Sapeva di essere in pericolo. Era consapevole di essere esposto, vulnerabile. Aveva un mezzo per contrastare zanne e artigli nemici, ma non era in grado di usufruire del suo potere.
In quella storia era un inutile fantoccio. Complicava la vita alle combattenti, rappresentava solo ed unicamente un ostacolo incapace.
Il senso di impotenza del pensiero lo colpiva con maggior forza man mano che i giorni passavano e l’angoscia cresceva.
-Nozomi- la chiamò con incertezza, giocherellando nervosamente con la manica del suo golfino. Non avevano ancora una confidenza piena, nonostante la ragazza facesse di tutto per coinvolgerlo nella vita “umana” delle Pretty Cure. Aveva spesso notato che Rin si escludeva dalle loro uscite di  gruppo e che spesso era assente durante i pomeriggi in cui si ritrovavano alla Natts house per scambiarsi le varie ipotesi sulla loro situazione. Accettava di farne parte solo quando si concretizzava qualcosa, assorbendo le nuove notizie, dopodiché spariva nuovamente. Ryan non sapeva spiegarsi come riuscisse a ricordare ogni minimo impegno che Rin aveva accennato: dal torneo di tennis agli allenamenti di Rugby. Ma se li ricordava. E ogni settimana attendeva con trepidazione il giorno in cui Rin si concedeva del riposo per passare il tempo con loro. Ryan corrugò la fronte e scosse il capo, dissipando il velo di nebbia che quegli insoliti pensieri avevano soffiato nella sua mente. Si accorse che Nozomi lo fissava in attesa di qualcosa.
Si riscosse –mi sono iscritto al club di basket- la informò, con un mezzo sorrisetto – gli allenamenti sarebbero dalle 15 alle 17- Lei acquisì una lieve severità nei lineamenti.
-D’accordo, ti aspetto- disse poi, raccogliendo una gomma che le era sgusciata dalle dita – cerca, però, di avvisarmi prima di un cambiamento sostanziale nella tua routine: devo abituarmi ai tuoi impegni per assicurarmi di poterti far compagnia di continuo- concluse con un sorriso
Il ragazzo annuì. Lanciò un’occhiata annoiata all’orologio da polso: le 15:08. -Posso cominciare ad andare in palestra, nel frattempo- propose con disinvoltura, consapevole del rifiuto certo.
Non gli avrebbero permesso nemmeno di percorrere quei 10 metri che lo separavano dalla palestra della scuola.
Nozomi comparve dal lato opposto del banco, scoccandogli uno sguardo fermo –Ryan, mi dispiace, ma non posso permettertelo-
Come non detto.
Ryan sospirò –lo so- ammise –ma la palestra è vicina, voglio dire non … -
-E con questo?- lo interruppe Nozomi, posando entrambi i palmi della mani sui banchi –cosa farai una volta in palestra? Sei già stato aggredito laggiù, una porta chiusa e dei muri solidi non potranno difenderti-
Lui si mordicchiò il labbro inferiore –Rin potrebbe- disse in un flebile sussurro, avvertendo un tiepido brivido espandersi sulle gote.
Che gli prendeva?
Nozomi alzò le sopracciglia, sorpresa –perché non lo hai detto subito? Se c’è Rin che ti controlla vai pure!- esclamò con un sorriso e uno sguardo sornione ,che a Ryan non piacque per nulla, in risposta all’espressione imbarazzata del ragazzo.
Ryan le indirizzò un cenno di ringraziamento, quindi si voltò e fece per andarsene ma Nozomi lo bloccò una seconda volta.
-in fondo immagino che tu preferisca farti proteggere da lei - disse con voce angelica e innocente, ma con un pizzico di malizia sulla punta della lingua.
Ryan sgranò gli occhi e arrossì violentemente –C-cosa?- rispose voce stridula. Non si sarebbe mai aspettato un allusione tanto diretta e sleale da parte di Nozomi. E poi, andiamo, cosa le passava per la testa?
La ragazza scoppiò a ridere –va’ in palestra, Ryan, sei in ritardo- gli fece notare.
Lui non se lo fece ripetere due volte.
 
Ryan contò 16 passi che lo separavano dalla palestra. Si ritrovò impalato di fronte alla porta della palestra, pensando con una leggera ironia all’impresa appena compiuta: 16 passi da solo.
Il ragazzo sospirò, scuotendo la testa, quindi spinse la pesante porta e fu investito dalla tiepida atmosfera, dal cigolio familiare delle scarpe, dall’eco ritmico del pallone. Percorse il corridoio e lanciò un ‘occhiata curiosa all’interno. La palestra era enorme, leggermente più grande da quella comunale in cui si era misurato contro di Rin. Per giunta era gremita di gente: il team di pallavolo che usciva in massa dagli spogliatoi, il team di basket che si impegnava nel riscaldamento, la semplice folla di curiosi che riempiva gli spalti e che faceva uno scherzoso tifo.
Ryan si ritrovò a sorridere. Almeno in quello, il Giappone non pareva troppo diverso dall’America. Con lo sguardo percorse l’intera folla variegata, ma non riuscì a trovare ciò che cercava. Si strinse nelle spalle e riprese il proprio cammino indirizzato agli spogliatoi dal lato opposto della palestra, facendo attenzione a procedere rasente alla parete quando le squadre di pallavolo gli passarono accanto portando un chiacchiericcio allegro e spensierato. Fece per svoltare l’angolo, quando l’oggetto delle sue ricerche si parò di fronte a lui con prepotenza. Ryan percepì il respiro rifiutarsi di filtrare tra le proprie labbra.
Rin, vestita di semplice canottiera e pantaloncini comodi, parlottava con disinvoltura assieme ad un ragazzo più alto, moro, dal viso gentile e uno spruzzo di lentiggini a colorargli le gote. Doveva far parte della squadra di pallavolo, dal momento che era provvisto di ginocchiere, polsini e la tipica divisa. Insieme stavano esaminando e polemizzando su un volantino piuttosto scadente, a loro detta, del corso di baseball che, di lì a poco, avrebbero aperto nel campo accanto alla scuola.
Ryan avvertì una fitta allo stomaco e un leggero formicolio ai polpastrelli. Rimase impalato sul fondo del corridoio, senza riuscire a staccare lo sguardo dalla ragazza. era incerto sul da farsi: Rin esercitava su di lui una soggezione incredibile, mai provata prima d’ora. Ogni volta che gli occhi tersi si posavano su di lei, la sua presenza prorompente lo metteva in difficoltà e il ragazzo avvertiva il chiaro bisogno di fuggire e il contrastante desiderio di affiancarsi a lei.
Il ragazzo con cui Rin chiacchierava alzò lo sguardo verde, sveglio, e inarcò le sopracciglia con fare sconcertato. Quindi picchiettò sulla spalla di Rin e indicò Ryan, ancora impalato e pietrificato dall’effetto che la ragazza iniettava in lui.
Lei seguì l’indice dell’amico.
Ryan fu letteralmente travolto dallo sguardo di Rin. Percepì le gambe polverizzarsi sotto il suo peso e i polmoni che ancora pretendevano di trattenere l’ossigeno, mentre il cremisi tagliente degli occhi di Rin lo metteva spalle al muro. Letteralmente.
Fu un attimo. Lo sguardo impassibile di Rin si sgretolò per lasciar posto ad un espressione seria, un balenio d’ira accese come lingue di fuoco le iridi della rossa.
Ryan si sentì mancare. Fece un passo indietro, respinto dalla risolutezza scottante di Rin.
Il pallavolista intuì la situazione, quindi salutò frettolosamente la ragazza, la quale non rispose ma gli indirizzò un lievissimo cenno con la mano, giacente lungo il fianco.
Rimasti soli, il corridoio parve freddo ed inospitale, un luogo ostile, buio. Il ricordo della palestra comunale e dell’angoscia provata assalì Ryan con un colpo basso, troncandogli di netto il respiro immettendogli  una sgradevole frenesia nelle vene. Per un breve, terribile, arco di tempo, Ryan fu certo di veder scorrere davanti ai suoi occhi ombre fluide, serpeggianti. La sua vista si tinse di rosso, un rosso acceso, e gli angoli degli occhi presero a bruciargli.
Chiuse  le palpebre e strizzò gli occhi con forza portandosi il palmo della mano all’altezza della tempia.
Lentamente, il respiro si fece regolare, le dita cessarono di tremare, e il bruciore scemò dai suoi occhi chiari.
Si sentì afferrare bruscamente per il polso, quindi aprì gli occhi di scatto, riemergendo dallo stato estraneo alla realtà in cui era  precipitato. Si ritrovò di fronte Rin, lo sguardo diretto, il viso austero, il portamento aggressivo. Sulla pelle percepiva la stretta salda delle sue dita, il lieve contatto d’attrito dei suoi calli ruvidi dovuti alla vita da palestra. Nelle narici fece invasione il suo profumo, non si era mai accorto di quanto fosse forte e inebriante. Non era il classico profumo in boccetta. No, Ryan era pronto a scommettere che Rin non lo approvasse. Era il suo.
Ed era piacevole.
-Che diavolo ci fai qui?- sibilò la ragazza con voce affilata ed una smorfia contrariata.
Ryan subì nuovamente una sorta di stordimento, faticò a riprendere il pieno possesso del proprio corpo e la sua lucidità vacillava con troppa facilita.
-Basket- rispose, prima ancora di potersi mordere la lingua.
Idiota.
Rin alzò un sopracciglio con un sorriso privo di gioia, traboccante di un sarcasmo in perenne procinto di essere sfoderato, di dilagare  dalle labbra della ragazza.
-Ti prendi gioco di me?- sibilò in un sussurro, strappandosi dal viso ogni accenno di espressività. Fece un passo avanti, sbilanciandosi nella graffiante offensiva tipica della sua indole e strinse la presa sul polso di Ryan, comunicandogli che la sua pazienza stava lentamente precipitando, sempre che si fosse mai alzata in volo.
-No- esclamò Ryan in tono timido, preda del forte istinto di sfuggire a quella difficile circostanza.
-Perché sei qui da solo?- ringhiò Rin, animandosi di una rabbia impetuosa, sebbene ancora controllata.
-N-Nozomi è … - tentò Ryan, in un flebile mormorio.
-Sto parlando io- abbaiò lei prendendolo per il colletto e abbassandolo con violenza alla sua altezza –Loro non hanno bisogno di molto tempo per farti fuori. Un secondo, basta un secondo per ammazzarti- Era furiosa. Letteralmente furiosa. I suoi occhi sprizzavano scintille di rabbia, il suo sguardo era divorato da un fuoco vivo, pulsante, un fuoco che, tuttavia, Ryan aveva notato ancora prima che la loro conversazione prendesse piede.
Ryan corrugò la fronte e, invece di reagire allo sfogo di aggressività di Rin nei suoi confronti, le esaminò il viso: il tic nervoso del sopracciglio destro, la mandibola contratta, l’angolo della bocca preda del suo canino.
-Ti senti bene?- fece, sinceramente preoccupato dello stato d’animo della ragazza. Non l’aveva mai vista fuori controllo. Si era spesso esibita in commenti sarcastici, in parole pungenti e spesso si era mostrata iraconda, rabbiosa, combattiva, a volte Ryan le avrebbe persino affibbiato l’aggettivo “sadica”. Ma non aveva mai alzato la voce. Mai era caduta vittima di tic nervosi.
Qualcosa turbava Rin.
Lui?
Eppure aveva accettato le sue scuse.
La rabbia della ragazza parve affievolirsi e placarsi leggermente, giusto quel poco per essere tenuta sottocontrollo. Rin parve cadere vittima di un disorientamento inatteso.
-Senti, perdonami. Nozomi è in classe, io sono venuto qui perché sapevo che frequenti il club di basket- continuò Ryan con prudenza, notando che Rin non aveva intenzione di rispondergli –Non avevo intenzione di … cioè, non volevo innervosirti. Mi dispiace-
La ragazza abbasso le palpebre, prese un gran sospiro e tentò di dissipare, almeno in parte, la tensione che legava il suo corpo.
-D’accordo- rispose, poi, una volta riafferrata lucidità – Ora però va’ da Nozomi. Non è bene che tu rimanga senza protezione-
-Ora ci sei tu- disse di getto Ryan.
Lei alzò un sopracciglio e prese fiato per rispondere, probabilmente molto sgarbatamente, ma la porta d’ingresso della palestra si spalancò.
Apparve Nozomi, intenta a trascinarsi su un fianco la tracolla gonfia di materiale spiegazzato che a sprazzi faceva capolino dalla cerniera non completamente serrata.
Quando alzò lo sguardo e vide i due, non riuscì a trattenere un sorriso e le sue guance si colorarono di un timido rossore –Ho interrotto qualcosa?- chiese portandosi una mano alla bocca.
Ryan avvampò letteralmente.
Rin, invece, non fece una piega, si limitò a sciogliere la presa sul polso del ragazzo e a recuperare una buona distanza, liquidando l’insinuazione di Nozomi con sommesso –figurati-
Lei annuì con aria sorniona, trattenendo uno scoppio di ilarità.
-D’accordo- esordì –Rin, ti dispiace se ti affido Ryan durante le ore di basket? Potrei approfittarne per sforzarmi di studiare-
La rossa dapprima tirò un angolo della bocca, in una lieve espressione scocciata, poi si strinse nelle spalle e acconsentì senza opporsi.
 
Kurumi entrò nella Natts House, legandosi i capelli ribelli dietro la nuca. Notò un piatto ricolmo di biscotti giacente sul tavolo basso della sala. Passandoci accanto ne prese uno e lo strinse fra le labbra mentre ancora litigava con le ciocche di capelli ricci.
Si sedette su una poltrona, sgranocchiando il biscotto croccante, quando comparve dal piano superiore Kokoda.
-Buon appetito- esclamò ironico.
Kurumi gli sorrise, prese un tovagliolo e si pulì le labbra prima di rispondere con un sintetico “grazie”.
Natsu entrò in sala subito dopo Kokoda e si sedette di fianco a kurumi senza distaccare lo sguardo dalle pagine del libro che teneva in mano.
Kurumi lanciò uno sguardo alle scale e, una volta assicurata che non ci fosse nessun’altro al piano superiore, si voltò per controllare che non gli fosse sfuggito nulla nella sala del bancone.
-Dov’è Syrup?-  Domandò sconcertata.
Kokoda scrollò le spalle –aveva detto di avere una consegna impellente da fare-
Non finì di parlare, che la porta si spalancò, rivelando un Syrup piuttosto provato.
-L’ho trovato- annunciò con un filo di voce.
 
NOTE: forse non è un granché come capitolo, ma ,come ho detto prima, ho dovuto riscriverlo in fretta. Mi dispiace. So che si tratta di un altro capitolo di passaggio, non preoccupatevi, l’azione arriverà presto.
Nel frattempo vi chiedo:  la storia prende come protagonisti, ormai l’avrete capito, Rin e Ryan. Vi sembra che i due siano troppo al centro dell’attenzione? Fatemi sapere il vostro parere, così potrò, eventualmente, rimediare.
Graaazie.

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Capitolo 22
*** Grazie. ***


Un mezzo sorrisetto compiaciuto increspò le labbra di Rin, mentre Ryan tentava di raggiungere gli spogliatoi trascinando i piedi e ciondolando sotto il peso della spossatezza. Un buon potenziamento a livello muscolare era esattamente ciò che le serviva per svuotare la mente e sgomberarla da pensieri molesti che riaccendevano le scintille di rabbia sfrigolanti fra i suoi nervi. Sembrava, però, che il piccolo Ryan non trovasse così divertente la preparazione che Rin riservava ai nuovi arrivati.
Be’, in genere nessuno la incaricava di tale compito, spesso era il capitano della squadra maschile ad occuparsene. Haruka, il presidente del club di basket femminile, sosteneva che una preparazione da parte di Rin avrebbe immediatamente troncato anche la più piccola passione sul nascere. Ovviamente scherzava. Questa volta, però, Rin aveva il severo compito di tenere sotto controllo lo spilungone e di assicurarsi che non si cacciasse in guai seri assolutamente esclusi dalla sfera ordinaria della scuola o dello sport. E così, dal momento che Ryan non aveva dato segni di opposizione, si era occupata lei stessa del riscaldamento, dello stretching, del potenziamento, e delle prime tecniche di basket, nonostante la preparazione del ragazzo fosse ad un livello tale da poter comparare il suo.
Molto probabilmente il biondino se n’era pentito.
Sospirò e si deterse il velo di sudore tra le ciocche di capelli con un asciugamano bianco, quindi raccolse la palla da basket giacente ai suoi piedi e la incastrò fra il fianco e l’incavo del gomito. Lanciò una breve occhiata al restate della squadra: la maggior parte era già negli spogliatoi a cambiarsi, molti erano persino appena usciti freschi e puliti dal getto caldo della doccia e si stavano incamminando in quel momento fuori dalla palestra. Solo un paio di compagni erano ancora in campo, ma il più era accomodata sugli spalti, assorta in discussioni animate riguardanti fuoricampo e tattiche d’accatto che avrebbero dovuto applicare alla prossima partita.
Con noncuranza fece scivolare il pallone sui polpastrelli e diede un tenue colpetto con il palmo, facendo canestro perfetto nella cesta nello sgabuzzino della palestra.
Entrò nello spogliatoio, si cambiò in fretta, si sciacquò frettolosamente e uscì con l’asciugamano che le cingeva in un morbido abbraccio il collo umido, lasciandone ciondolare le estremità su spalle e torso.
Mentre attraversava il corridoio che dava su entrambi gli spogliatoi, bussò con poca grazia alla porta dei maschili, urlando a gran voce:
-Datti una mossa, spilungone!-
Si appoggiò alla parete dell’ingresso, attendendo con pazienza snervante che Ryan si decidesse a fare la sua apparizione.
Fu in quel medesimo istante che Haruka Fuduka svoltò l’angolo del corridoio in tutta fretta, urtandole involontariamente una spalla e rischiando che il contenuto della sua sacca facesse un tuffo decisamente scomodo.
Fortunatamente i riflessi pronti di Rin le permisero di afferrare la ragazza giusto in tempo perché non rovinasse a terra, stampandosi le mattonelle del pavimento in piena faccia.
-Haruka- esclamò Rin sorpresa –stai bene?-
Lei scoppiò a ridere e annuì –Sto bene, grazie- riuscì a dire, una volta ripresa dallo stato emotivo in cui avrebbe giurato di aver visto la morte in faccia.
Si sistemò la gonna a balze e scacciò le pieghe dalla sua camicia, quindi riprese compostezza, conservando, però, quel pizzico di ilarità che confermava quanto accaduto cinque secondi prima.
-Rin- riprese, calandosi in volto una maschera di autorevolezza seria che raramente si aveva modo di adocchiare sopra il sorriso solare della ragazza –dovrei parlarti, posso?-
Lei corrugò la fronte, si inumidì le labbra e prese fiato per rispondere, ma il cigolio della porta degli spogliatoi troncò il loro discorso, preannunciando l’imminente entrata in scena di Ryan.
Quando il ragazzo trovò le forze necessarie per trascinarsi fino a loro, Haruka alzò un sopracciglio e non riuscì a trattenere un sorrisetto scaltro –Non dirmelo: E’ il risultato del tuo programma di potenziamento-
-centro- riuscì a biascicare Ryan prima di sostenersi ad una parete per riprendere fiato.
-Piano, biondino, rischia di venirti un infarto- lo schernì Rin con un sorriso sarcastico.
Dopo aver ottenuto in risposta qualcosa di molto simile ad un grugnito, la rossa incrociò le braccia al petto e rivolse la propria attenzione a Haruka –Dimmi- disse solo.
Haruka lasciò vagare lo sguardo verde ai lati –C’è un problema- esordì, spostando insistentemente il proprio peso da un piede all’altro –Rin, con il pagamento del corso sei indietro di due mesi- buttò lì alla fine, senza esitare oltre per evitare di prolungare l’attesa snervante.
Rin, in tutta risposta, si accigliò in un cipiglio confuso –Non capisco- borbottò –eppure le lettere del pagamento sono arrivate. Le ho ritirate io stessa- si posò le mani sui fianchi con aria scocciata –insomma, deve esserci un errore: di questo si occupa … - un balenio saettò nello sguardo cremisi di Rin, mentre la concretezza di ciò che aveva sollevato le si ritorceva contro in tutta la sua crudeltà - … mio padre- completò in un flebile sussurro, sgranando gli occhi e percependo chiaramente un’ondata di rabbia assalirle la gola.
 
Komachi inspirò a pieni polmoni il profumo caratteristico della biblioteca, gustandosi appieno la pace e il silenzio che regnavano incontrastati in quel luogo immutato, pregno di aria sospesa, quasi immobile, che regalava una forte sensazione di estraniazione dal mondo. Per un buon intenditore, valicare la soglia di quella biblioteca significava essere inglobati in un’altra dimensione, dove il tempo era fermo, la realtà pietrificata nel suo scorrere e niente aveva un senso se non le lettere impresse sulle pagine bianche dei libri.
Lasciò serrare le palpebre pesanti sul verde dei suoi occhi, come un sipario cala sullo spettacolo escludendo gli spettatori dal mondo regnante al di là di un semplice strato di tela, lasciandoli in bilico fra due realtà e insoddisfatti dalla, seppur appagante, breve sbirciatina concessa alla fantasia.
In quel mare di silenzio, Komachi si fece cullare dalle correnti fresche del profumo di carta che le invadeva con prepotenza le narici.
Riaprì gli occhi con un sospiro, strappandosi al piacere  dell’ozio. Da un cassetto, estrasse una pila di documenti riguardanti i libri presi in prestito dai vari studenti, le date, gli eventuali ritardi e i dati principali finalizzati al rintracciamento di un particolare studente.
Prese lentamente a compilare il primo documento, a trascrivere i numeri telefonici e le varie informazioni, ad evidenziare i nuovi arrivi fra i libri, a riordinare i libri scaffale per scaffale. All’ingresso la aspettavano due grossi scatoloni ricolmi di libri ordinati, restituiti, rovinati, misti nelle varie categorie che Komachi aveva il compito di regolare.
Aprì uno dei due, raccolse quanti più libri le riuscisse possibile, e li lasciò cadere pesantemente sulla scrivania, prendendo a sfogliarli per avere chiaro in che posizione specifica li dovesse sistemare.
Salì una scala per raggiungere più agevolmente lo scaffale più alto, ma non fece nemmeno in tempo a poggiare il piede sul terzo piolo che la porta della biblioteca si spalancò brutalmente, mandando in pezzi la pacifica atmosfera stabile.
La ragazza trasalì dall’inaspettato boato e per poco non rischiò di allentare la presa sulla scala, finendo a terra con un tuffo decisamente sconsigliabile. Dopo il rischiò si avvinghiò totalmente ai pioli di legno, irrigidendosi e aggrappandosi come fosse il classico ramoscello sul burrone.
-Ehi, Komachi, che ci fai appollaiata là sopra?- intervenne una voce brusca facilmente riconoscibile.
Komachi ridacchiò, si rilassò un poco e si decise a scendere le scale, non senza essere riuscita a portare a termine il proprio compito di bibliotecaria dedita.
-qual buon vento, Rin?- si voltò con il solito sorriso gentile ad ammorbidirle i tratti bonari, ma non appena scorse l’espressione iraconda, trattenuta a stento, dell’amica, dovette sforzarsi per non ingoiare rumorosamente i propri timori.
 L’amica fece un gesto seccato con la mano –tieni d’occhio lo stangone, per favore. Ho una faccenda da risolvere- ringhiò accennando a Ryan, al suo fianco, pallido come un lenzuolo davanti al carattere aggressivo di Rin.
Komachi forzò un ulteriore sorriso e si strinse il dorso di una mano con grazia –non c’è problema- rispose, acconsentendo in fretta alle richiese di Rin la quale, nei momenti in cui cadeva in uno stato d’ira tale, si tramutava in una belva che avrebbe potuto facilmente concorrere con il nemico. Komachi non aveva alcuna voglia di peggiorare lo stato emotivo dell’amica, né di vedersela direttamente con lei, non prima che avesse sbollito il turbinio di rabbia che l’agitava.
Rin annuì –ottimo- così dicendo uscì a grandi falcate, sbattendo la porta con un boato che si trascinò un’eco cupo lungo le pareti dell’intero corridoio.
Komachi alzò le sopracciglia e rimase a fissare, con sempre maggiore perplessità, l’ingresso da poco demolito dalla furia di Rin. Quindi rivolse a Ryan uno sguardo pacato e tranquillo, sorridendogli con aria serena.
-Dì un po’, che le hai fatto?- esordì con una dolce risatina sommessa.
Ryan si riscosse dallo stato di terrore da Rin-in-crisi-di-nervi e sorrise di rimando –niente- rispose grattandosi la nuca con fare imbarazzato –che io sappia- si affrettò ad aggiungere, lanciando uno sguardo limpido alla direzione in cui era scomparsa la ragazza.
-Non farti impressionare- riprese Komachi, con la chiara intenzione di dare via ad un discorso amichevole con il ragazzo; in fondo non aveva ricevuto il migliore dei trattamenti, e il suo disagio all’interno del gruppo era ancora palese –Non è sempre così- rise, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Riprese a scartare uno degli scatoloni, sfogliando libri e volumi con interesse crescente.
-Com’è di solito?- chiese ad un tratto Ryan, affiancandola e offrendole aiuto per le pile più pesanti.
Komachi sorrise e abbassò lo sguardo –energica, passionale, esplosiva- si strinse nelle spalle mentre stringeva fra le braccia un volume di storia –ultimamente è più ombrosa del solito. Ogni tanto rischia persino di sollevare piccole dispute all’interno del nostro gruppo, il che è insolito: siamo da sempre molto uniti- scosse il capo e si inginocchiò per riempire una nicchia vuota con il libro –non so cosa la turbi, ma spero che le passi in fretta- concluse in tono mesto.
Ryan, che si era fatto attento, annuì concorde quindi abbozzò un mezzo sorrisetto timido –posso aiutarti?-
Komachi gli rivolse uno sguardo grato –grazie-
 
Urara sbadigliò con enfasi, ripassando mentalmente ,per l’ennesima volta, il copione assegnatale in vista di un telefilm discretamente popolare.  La faccenda del nuovo nemico non aveva certo giovato alla sua memoria; al contrario le aveva rapito gran parte del tempo, sottraendole la possibilità di prepararsi al meglio. Be’, poco male: avrebbe raggiunto il suo obbiettivo con o senza belve alle calcagna, ormai era decisa ad intraprendere la strada di sua madre, e niente l’avrebbe distratta da tale direzione.
Ripassò daccapo la propria parte e, mentre era in procinto di svoltare sulla via che dava sul parco, adocchiò Rin, seduta contro il muro basso che contornava il campo di calcetto, la fronte sulle ginocchia e un pugno chiuso ad artigliare le erbacce circostanti.
Urara scosse il capo, facendo danzare i codini dorati, quindi le si avvicinò con l’allegria a vivacizzarle il grande sorriso.
-Rin- esordì con voce acuta, accomodandosi di fianco a lei –stavo studiando il mio copione e ti ho vista. Che ci fai qui? Non dovresti avere gli allenamenti?- chiese, con la tipica ingenuità angelica.
Lei alzò lo sguardo acceso d’ira su di lei e contrasse la mandibola. Aveva un aria insofferente, quasi forzata, pareva un uccellino in gabbia, assetato di libertà ma costretto a spazi troppo ristretti per le sue necessità.
A Urara si strinse il cuore alla vista di una delle sue più care amiche piegata. Non stava bene, era evidente. Ma qualcosa suggeriva ad Urara che quel benessere mancato non dipendesse dal veleno o da questioni salutari.
Le sfiorò una mano con le dita fredde.
Rin sospirò –come ti sentiresti se qualcuno ti impedisse di recitare?-
Urara alzò le sopracciglia, colpita dalla domanda inattesa e velante, ne era sicura, una verità di Rin ancora nell’ombra –credo che non potrei vivere senza recitare- rispose sincera. Al solo pensiero di abbandonare il proprio sogno, una morsa non indifferente le iniettava un ansia soffocante nelle vene.
Le labbra di Rin si tirarono in un sorriso amaro –Già- rispose.
-Rin- fece Urara dopo qualche minuto di silenzio –ti voglio bene- si sentì quasi in dovere di dire quelle parole, di esternare quelli che erano i suoi sentimenti sinceri verso l’amica. Sentiva che sia lei che Rin avevano bisogno di quelle parole.
Lei le lanciò uno sguardo leggermente impacciato, quasi sorpreso, poi abbozzò un sorrisetto e biascicò qualcosa in risposta.
Urara riuscì a cogliere un'unica parola nel borbottio imbarazzato di Rin: “grazie”.
 
 
 
NOTE: ehiilà! Okay, ora non uccidetemi, ma molto probabilmente il prossimo capitolo verrà pubblicato giovedì prossimo, dal momento che domenica ho un esibizione e domani e sabato le prove. Scusate, mi farò perdonare, promesso! 

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Capitolo 23
*** Sotto la scrivania. ***


Komachi scoppiò a ridere, portandosi il dorso della mano davanti alla bocca e tenendosi la pancia in un tentativo di alleviare il dolore addominale.
-Dico sul serio - continuò Ryan, cercando il fiato per continuare il discorso senza essere interrotto da sprazzi di ilarità confusi e, a dirla tutta, anche leggermente deliranti.
La ragazza scosse il capo in segno di incredulità, mentre tentava invano di contenere tra le labbra fini e rosee una fragorosa risata.
-No, mi stai mentendo- riuscì a dire tra un sorriso e l’altro –L’hai davvero sfidata a basket?-
Quel ragazzo doveva essere masochista. E uno dei migliori, un professionista.
Insomma, andiamo, quale altro ragazzo sull’intera faccia della terra avrebbe trovato il coraggio di sfidare Rin? Nello sport, per di più! Follia allo stato puro. L’impresa sarebbe stata l’equivalente al presentarsi al cospetto dei nemici armati di cestino da picnic e proporre loro la resa.
In ogni caso Komachi aveva avuto modo di comprendere quanto fosse delizioso Ryan: a primo impatto era timido ed introverso, proprio come lei, ma bastava porgergli un pizzico di confidenza perché si aprisse e mostrasse il lato più gioviale e gentile di sé.
Gli piaceva come persona. Era sensibile, forse leggermente incompreso, e amava rifugiarsi nella propria mente al momento del bisogno. Inoltre aveva piacevolmente scoperto che amava la lettura e il disegno.
Si assomigliavano molto, e gli elementi che li accomunavano permettevano loro di dare il via ad una conversazione tranquilla, senza tensioni o soggezioni di prevalenza da parte di una personalità più forte caratterialmente.
Il viso di Ryan fu provato nuovamente da una risata prepotente, ma riuscì a sopprimerla e ad annuire in risposta, stringendosi nelle spalle, mentre riponeva un libro sullo scaffale più alto.
Komachi sgranò gli occhi, mentre le labbra venivano dipinte in un sorriso gradualmente più divertito –e sei ancora tutto intero?-
Il ragazzo rise –a dire la verità alla fine della partita non ero in grado di reggermi in piedi. Poi, però sono stato costretto a … - Ryan si bloccò di colpo, mordendosi la lingua e rabbuiandosi improvvisamente, fino a sgretolare anche l’ultima briciola di gioia e buon umore nascosta fra le pieghe del suo volto. Si schiarì la gola e lasciò cadere il discorso, ancora troppo provato e scosso dall’esperienza vicina per poterne parlare con leggerezza.
Komachi  intuì al volo la situazione; dapprima non riuscì ad evitare di lasciarsi andare ad un espressione dubbiosa ed interrogativa, poi, però, indossò frettolosamente il migliore dei suoi sorrise e finse di non aver notato l’improvviso cambio d’umore del ragazzo, nonostante questo fosse stato decisamente palese.
-Ti ha battuto?- disse infatti, sforzandosi di mantenere il tono di voce spensierato e scherzoso.
Ryan gli lanciò uno sguardo alzando un sopracciglio –già- disse solo, accennando ad un lieve sorriso amaro.
-Naturale- lo stuzzicò lei, sorridendogli e indirizzandogli una lieve strizzata d’occhio in risposta alla sua espressione piccata.
Il ragazzo schiuse le labbra per risponderle a tono, probabilmente con un’ulteriore provocazione ironica, ma tre forti rintocchi produssero un’eco cupo che strisciò fino a loro, spezzando di netto la conversazione.
Komachi si rizzò dallo scatolone su cui era china per recuperare più agevolmente libri e volumi pesanti, scoccò un’occhiata perplessa all’ingresso serrato e rimase in ascolto.
Un altro boato fece trasalire i due ragazzi, i quali, loro malgrado, impallidirono di netto e si lasciarono prendere intimamente dal panico.
Il suono prese a ripetersi con un ritmo regolare e ritmato; non pareva un bussare insistente alla porta, ma Komachi  aveva un forte bisogno di considerare quella come unica soluzione prevalente ai pensieri pessimisti.
-E’ strano- mormorò –eppure ho lasciato un cartello che informava della provvisoria chiusura della biblioteca-
Ryan gli lanciò uno sguardo traboccante di un’ansia malcelata, mentre il respiro rimaneva vincolato nel petto immobile, una linea immutata che non osava il minimo movimento.
-Forse qualcuno non lo ha letto- tentò il ragazzo con un flebile sussurro, ma se la convinzione nella sua voce vacillava alle prime parole, gradualmente, scemò fino a svanire in un tremito incontrollato.
Komachi storse la bocca, dubbiosa sul da farsi.
Batté più volte le mani per liberarsi i polpastrelli dai granelli di polvere più insidiosi, quindi si lisciò le balze della gonna e si sistemò il colletto –Può darsi che sia Rin-
A quelle parole Ryan riprese a respirare e parve rilassarsi un poco.
-Vado a controllare- disse Komachi con un sorriso rassicurante il quale, tuttavia, tremava sulle sue labbra e vacillava come una foglia al vento.
Ryan annuì mesto, ma alla ragazza non sfuggì la nota di terrore che balenò nei suoi occhi tersi. Era spaventato. Ancora scosso. Comprensibile, in fondo.
L’ennesimo boato scosse la biblioteca.
Komachi iniziava ad avvertire i primi seri dubbi rimescolarsi tra le viscere: quel fragore non aveva nulla a che fare con battito frenetico ed insistente di un pugno sull’ingresso.
No, qualcosa non quadrava.
La ragazza fece qualche passo in avanti, lisciandosi ossessivamente il maglione con fare nervoso.
Ad un tratto si arrestò sul posto, il cuore in gola e una vena pulsante sulla tempia. Si voltò e incrociò il terrore puro di Ryan, il quale indietreggiò istintivamente, un riflesso incondizionato che aveva marcato a fondo nella sua personalità.
Un boato più potente dei precedenti fu la causa dell’improvviso crollo di polvere dal soffitto dell’edificio. Le giunture della porta d’ingresso gemettero con uno stridio agghiacciante. Il respiro saltò il gola a Komachi, otturandole i pensieri  e raschiando lo strato di lucidità dalla sua mente.
-Ryan- fece, ostentando voce ferma che, nonostante i suoi sforzi, risultò in ogni caso esitante.
Un altro boato.
Il legno della porta crepitò.
Il soffitto lasciò cadere nuovamente della polvere.
Un libro cadde dallo scaffale più alto.
-Sotto la scrivania!- ordinò a piena voce, correndo nella sua direzione, afferrandolo per un polso e inducendolo a strapparsi dallo stordimento freddo che lo pressava in una morsa tagliente.
Entrambi si nascosero sotto la scrivania, il respiro affannoso, il cuore a mille e gli occhi guizzanti al minimo movimento incerto.
Con un orribile gemito, la porta cedette.
 
Una folata di vento prorompente sollevò una nube di polvere e danzò fra le ciocche dorate di Urara, la quale fu costretta a stringere le palpebre e a portarsi una mano alla bocca, in modo da filtrare l’aria ed evitare che gola e occhi le si irritassero.
Al suo fianco Rin grugnì, seccata, ed imprecò a mezza voce.
L’udito fu colmato dal rombo assordante del vento, che si insidiava con irruenza in ogni minuscolo foro degli abiti, carezzandole la pelle con un tocco gelido innescante una sgradevole serie di brividi pungenti.
Quindi, così come le aveva travolte, la ventata scemò, arrestando il gioco di danza ingaggiato con le chiome e le felpe delle ragazze.
Urara aprì gli occhi, e abbassò le braccia, precedentemente conserte in protezione al viso, ritrovandosi di fronte alla maestosità fiera di Syrup versione volatile.
-Rin, Urara!- una voce acuta e graffiante attirò la loro attenzione.
Kurumi, in groppa a Syrup, il viso severo e il portamento altero, fece loro cenno di salire in groppa, mentre i boccoli sinuosi ondeggiavano nel cielo senza ordine.
La bionda si scambiò uno sguardo allarmato con Rin, quindi obbedì senza opporsi, porgendo la mano all’amica per rialzarsi.
 
 
Karen sbuffò, passandosi una mano sul viso e tentando di riordinare i lunghi capelli che le piovevano ostinatamente sul viso. Un’altra noiosissima riunione per i club sportivi della scuola l’aveva tenuta inchiodata a quella poltrona per l’intero pomeriggio. Fortunatamente l’aveva spuntata con una soluzione provvisoria ed era riuscita a forzare i membri dell’assemblea, persuadendoli a liquidarla. Stava morendo di fame: non le avevano concesso una pausa nemmeno per la mensa scolastica, inoltre  lei non aveva nessuna pietanza a disposizione.
E ora il suo stomaco si ribellava a gran voce.
Be’, poco male: la situazione si sarebbe risolta con un panino ben imbottito, al diavolo le buone maniere, quando si ha fame, si ha fame!
Avrebbe chiesto cortesemente a Kurumi di permetterle di dare una breve sbirciatina alle dispense che Natsu e Kokoda proteggevano gelosamente.
Con il pensiero fisso di qualcosa, qualsiasi cosa, da mettere sotto i denti, Karen si avviò a grandi passi in direzione della Natts house, camminando rasente ai vari bar e ristoranti e sforzandosi di mantenere un contegno accettabile, nonostante il suo stomaco si ribellasse con fitte poco cortesi.
Il profumo delle pietanze, dal dolce al piccante, dal salato all’amaro, la prese a schiaffi in viso e si infilò senza complimenti tra le sue narici, solleticandole la gola, avvolgendola con braccia impalpabili e al contempo irremovibili.
Alla fine cedette alla tentazione e decise di entrare in una paninoteca nei paraggi, dandola vinta al proprio stomaco divorato dalla fame.
Spinse la porta d’ingresso, la campanella si diede da fare per avvisare il cuoco dell’imminente richiesta di un cliente. Il profumo la travolse all’istante, ma un sottofondo amaro e aggressivo le iniettò irritazione nella gola e costrinse i suoi occhi a rifugiarsi dietro uno spesso velo di lacrime.
Ciononostante voltò l’angolo.
Si ritrovò a fronteggiare l’ennesimo muro di fumo nero, gonfio come una nube in tempesta, inquieto e vorticante.
Tossendo vigorosamente, Karen agitò una mano per liberarsi del fumo che le stuzzicava le vie respiratorie e, quando riuscì ad aprire un breccia fra quel vortice corvino, lo spettacolo che le si presentò innanzi le fece gelare il sangue nelle vene.
Lingue di fuoco si levavano dal bancone, su cui giacevano svenuti ed esamini cinque clienti, in pose scomposte, chi seduto sullo sgabello, chi accasciato a terra.
Un prepotente puzzo di bruciato strinse il costato di Karen, mozzandole il respiro e piegandola in due.
Rapidamente, strappò un lembo della sua camicia celeste che usò per filtrare l’aria e ripararsi dal fumo, quindi scostò il cuoco, svenuto anch’egli sul tagliere a pochi centimetri dai fornelli impazziti.
Dal momento che poteva vantare una certa dimestichezza con l’acqua in generale, ci pensò Cure Aqua a risolvere l situazione, immergendo il tutto sotto la fresca soluzione dell’ Aqua Stream.
Fatto ciò, spalancò le finestre, spense i fornelli per evitare eventuali emissioni di gas pericoloso, ricompose i clienti in pose accettabili dal punto di vista della sopportazione fisica e uscì in fretta.
A corse, percorse l’intera via che la separava dalla Natts House, gli abiti sfavillanti della divisa da Pretty Cure a cingerle il corpo nervoso, armeggiando freneticamente con il cellulare, tentando inutilmente di mettersi in contatto con Komachi al fine di informarsi su Nozomi e Ryan.
La città era silente, immobile, ibernata, pietrificata sotto l’effetto nemico che gravava su di loro.
Chiamò sul cellulare di Komachi.
La chiamata le fu rifiutata.
La richiamò.
Komachi non rispose più.
 
Ryan si costrinse a placare il respiro affannoso, ad ammansire il battito del cuore impazzito e a tentare di riafferrare la lucidità di cui necessitava.
Al suo fianco, Komachi si sforzava di mantenere un portamento sicuro e rassicurante, ostentando risolutezza e ferma  prudenza. Nonostante ciò la sua paura si palesava nei brividi che le scuotevano il corpo, impietosi e diretti.
Il ragazzo prese un gran respiro e tese l’udito, tentando di ampliarlo ad ogni mino spazio presente nella stanza, ad ogni angolo, fessura o foro. La percezione dei suoni divenne malleabile, dilagò nella biblioteca e colmò ogni solco.
Un glaciale silenzio rese immobile il tutto.
Poi un colpo secco. Un tonfo, legno che crepita, giunture che cigolano, respiri affannosi, gemiti gutturali, e passi, passi rapidi e inumani.
Ryan ingoiò il suo stesso respiro, percependo chiaramente una lama di terrore freddo che lo assaliva dalle viscere del proprio corpo, abbracciato da un caldo disgusto che contrastava con forza, gettandolo nell’oblio della nausea.
Cercò le dita di Komachi e le strinse con forza, quasi a volersi aggrappare a lei, unico punto di riferimento, unica luce, in quel contesto ostile.  
Udì un incedere pesante ed insicuro, zoppicante, forse, ma una cosa era certa: chiunque fosse non camminava su due gambe.
Un sibilo acuto si fece spazio tra il respiro affannoso e minaccioso di una bestia, risuonando terribile e glaciale fra le assi di legno della scrivania.
Ryan percepì una doccia di sudore accarezzarli i dorsali, una sgradevole sensazione sperduta radicarsi fra le costole e le tempie inumidite dallo sgomento feroce.
Di nuovo, passi gravi, respiro aspro.
Un vigoroso colpo all’asse di legno della scrivania su cui poggiavano le schiene i due,  l’energia della violenza si trasmise fino a loro i quali, per inerzia, si ritrovarono a venir sbaragliati in avanti.
Nessuno dei due si lasciò sfuggire l’ombra sbiadita di un gemito.
Nessuno dei due osò muovere muscolo.
Nessuno dei due respirò.
Ancora silenzio. Crudele, straziante.
Ryan percepì le prime lacrime pungergli gli angoli degli occhi.
Era tutto sbagliato.
Lui non doveva essere li ora.
Lui doveva studiare, guadagnare il massimo dei voti, laurearsi.
Lentamente, senza emettere il minimo fruscio, si portò una mano al volto, artigliandosi le tempie con le dita, asciugandosi una perla di sudore  che correva lungo la linea delle gote.
Fu allora che vennero condannati.
Un suono debole, roco, appena percettibile, ma assordante nella  silenziosità della biblioteca. Una tenue vibrazione rauca.
Komachi si irrigidì di netto, come una colonna di granito, e sbiancò al pari di un lenzuolo, quindi fece per cercare affannosamente il proprio cellulare, tuffandosi nelle tasche del suo gilet e quando riuscì ad afferrarlo con mani tremanti e respiro rotto, rifiutò la chiamata senza indugio.
Con i polmoni gonfi in petto e un’ondata di panico ad assalirgli la gola, Ryan lanciò una breve occhiata al legno della scrivania, leggermente incrinato sotto la potenza del colpo precedente, ma ancora solido e provvisto delle caratteristiche necessarie per celarli da sguardi indiscreti.
Tese nuovamente l’udito, così come tese ogni muscolo del proprio corpo al pari della corda di un arco.
Ringhi in lontananza.
Si rilassò gradualmente, cominciando a scorgere una più piccola luce di speranza tra le tenebre della paura. Una paura che si prendeva gioco di lui, si beffava di lui, lo scherniva, lo avvolgeva, lo afferrava e lo lasciava, lo confondeva, gli ovattava i sensi, gli spegneva la ragione.
Era stordito.
Fece appena in tempo a riprendere il respiro fra i denti, quando una seconda chiamata scosse le dita di Komachi, la quale, presa dal panico, si sforzò di pigiare il tasto giusto nonostante il tremore incontrastato delle sue dita, divenute ormai incontrollate.
Troppo tardi.
Un ruggito raggelante accompagnò artigli freddi che perforarono con facilità il legno della scrivania, sfiorando la spalla di Ryan di qualche millimetro.
Komachi  lo afferrò per un braccio, fece per alzarsi, ma un fendente brutale dall’alto verso il basso mandò in frantumi il legno, inglobando i due n una nube di schegge di legno perforanti.
Ryan urlò.
 
Nozomi sgranò gli occhi, sorpresa -Oh, quindi è qui che devo sostituire la x con il valore … -
La porta della Natts House fu spalancata brutalmente, attirando tutta l’attenzione sbigottita di Kokoda, Natsu e Nozomi, intenti nello studio.
L’esile sagoma di Cure Aqua si stagliò fiera sull’uscio, piegata dalla fatica, catturata dai raggi cremisi del sole in tramonto che lasciava scivolare le sue braccia sul cielo con un’ultima carezza tiepida.
Ci volle un attimo perché Nozomi comprendesse che quella che aveva davanti non era Karen ma la relativa Cura Aqua e che, di conseguenza, qualcosa non andava per il verso giusto.
-Aqua- dedusse Kokoda, incrociando le braccia al petto con fare confuso –che succede?- chiese, con un tono allarmato che faceva da sfondo ai suoi timori.
Lei lanciò loro uno sguardo gelido –Là fuori dormono tutti!- ringhiò, preda dell’angoscia –dov’è Ryan?-
Nozomi si alzò di scatto, facendo rovesciare la sedia –Con Rin- rispose a fiato corto per l’apprensione –Alla palestra  della scuola-
-Andiamo- ordinò Aqua.

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Capitolo 24
*** Portale. ***


Le braccia di Urara cinsero con forza il torace di Rin, mentre, per inerzia, la forza del volo di Syrup la sbilanciava vigorosamente indietro.
Rin, dal canto suo, non si faceva troppi problemi ad aggrapparsi sgarbatamente alle piume del diretto interessato, scoccandogli stilettate di dolore nel momento di brusche variazioni di volo.
La ragazza alzò il capo, sferzato dalla carezza violenta del vento e percepì le sue dita impalpabili spettinarle i capelli ribelli. Si sforzò di tenere alte le palpebre, di lasciare un piccolo scorcio per la propria vista, ma l’aria era forte e frustava prepotente gli abiti e le lacrime degli occhi.
Ancora non era riuscita a scambiare una sola parola con Kurumi, la quale sedeva a qualche centimetro più avanti, ritta come un fuso, incurante della resistenza schiacciante del vento. Non sapeva perché le avesse richiamate a bordo di Syrup con tanta insistenza, probabilmente, però, non si trattava di un nonnulla. Raramente La ragazza si agitava in modo tale, e quando lo faceva non era mai un buon segno. Che il nemico si fosse messo all’opera nuovamente?
Il volo si fece più rapido, le staffilate ventose più brutali.
Ad un tratto ci fu una discesa del tutto inaspettata che strappò un gridolino, in seguito soffocato dall’aria stessa, a Urara e che rischiò di spingere fuori bordo Kurumi, prontamente afferrata per il cappuccio da Rin.
-Syrup-  Protestò Kurumi, i voluminosi boccoli agguantati in una danza tra i vortici d’aria –Che diavolo ti salta in mente?- ringhiò aggressiva, riuscendo persino a sovrastare l’ululato del volo.
Non ricevette alcuna risposta se non una noncurante alzata di spalle (ali) che, per poco, non fu la causa di un capitombolo di circa una trentina di metri.
Kurumi rilasciò in risposta un gemito frustrato, ma lasciò cadere la breve discussione.
Rin grugnì, seccata, ma quando percepì il capelli ricaderle sulla nuca e le guance solo in parte sfiorate dalla carezza di una delicata brezza, si raddrizzò  e aprì gli occhi con soddisfazione.
Urara le stringeva ancora i fianchi in una morsa d’acciaio, e non mollò la presa nemmeno quando Rin l’assicurò che l’andatura si era fatta accettabile.
Kurumi assestò una gomitata al costato di Rin per attirare l’attenzione e lei, in risposta, dovette sforzarsi molto, ma molto, per non mollarle un pugno in faccia.
Si limitò a lanciarle uno sguardo di fuoco –che vuoi?- ringhiò, scrollando una rabbia che ancora non era assopita.
Lei ricambiò uno sguardo severo, alzando il mento con altezzosità, ma si costrinse a voltare il viso e ad indicare un punto preciso di fronte a loro.
Ancora prima di porgersi per poter scorgere di cosa si trattasse, Rin percepì un’angoscia infondata radicarsi all’altezza del petto, mentre un brivido gelido le rimescolava le viscere.
Con la coda dell’occhio vide indistintamente Urara portarsi una mano alle labbra rosee e sobbalzare leggermente.
Si sporse leggermente, imponendosi di non lasciarsi scappare un’occhiata verso il basso.
Un’aria gelida le afferrò le ossa, un’aria che non aveva niente a che fare con il clima.
Rin riuscì a sbirciare, buttando uno sguardo da sopra la spalla di Kurumi.
E lo vide, in lontananza.
Braccia oscure e inavvertibili di polvere corvina si dimenavano nel cielo, protendendosi verso il vuoto, serrando le dita sull’aria, tendendosi e ripiegandosi, per poi riavvolgersi in una spirale contratta avente la sua origine in un taglio netto, nero come il petrolio, abbracciato da un alone di luce blu, forte, che feriva la vista e attaccava gli occhi.
Pareva che qualcuno, con un pugnale, avesse tracciato un lungo graffio, squarciando la sostanza stessa del cielo, il tessuto limpido tappezzato di nuvole, persino i raggi del sole parevano incapaci di attraversare quelle tenebre tanto profonde.
Tutto pareva trascinato da dita nere, risucchiato, la realtà dava l’impressione di essere liquida, e rischiava di sciogliersi e colare all’interno dello squarcio.
Un lungo brivido gelido si arrampicò sulle vertebre di Rin, e la ragazza dovette distogliere lo sguardo dall’immagine per impedire che le squagliassero gli occhi, come ghiaccio al sole. Eppure quello sfondo cobalto la spronava a riaprirli e le sussurrava parole di incoraggiamento alle orecchie.
Si portò una mano agli occhi e voltò il capo.
Nel suo campo visivo entrò Urara, flebilmente oscurata dalla luce cupa, lo sguardo fisso e un espressione confusa in viso.
-Che diavoleria è?- sibilò Rin all’orecchio di Kurumi.
La ragazza sospirò –se la mia ipotesi è corretta, si tratta di un portale-
-un portale?- interloquì Urara, corrugando la fronte.
- Una specie di soglia. Come una porta che separa il soggiorno dal giardino- Kurumi, lanciò un rapido sguardo al portale, mentre l’angoscia si nascondeva nei tratti del suo viso.
-Dove conduce?- Domandò Rin.
La ragazza si voltò a guardarla con sguardo inquieto e tentò di cacciare un lungo sospiro –ad un’altra dimensione-
Rin inarcò le sopracciglia –Che tipo di dimensione?-
-Demoniaca- Rispose Kurumi secca e diretta –Quella diavoleria vomita demoni sul Giappone-
Rin si inumidì le labbra, mentre Urara fissava ad occhi sgranati il portale, palesemente spaventata.
-Quindi è questa la causa dei nostri problemi- sussurrò la bionda, sfiorandosi le labbra con la punta delle dita.
-C’è una soluzione?- incalzò Rin, senza staccare gli occhi dalla luce scura del portale.
Kurumi annuì –si- disse, ma una piega amara segnò il suo viso –ma è inattuabile-
 
Komachi urlò a pieni polmoni, proteggendosi la vista dalle schegge di legno che sfrecciavano impazzite.
Strinse il polso di Ryan e lo trascinò con forza fuori dalla nube, inducendolo a sgusciare da sotto l’ammasso di legna crollata.
Percepì chiaramente uno spostamento d’aria sfiorarle pericolosamente il viso, quindi il sibilo di un fendente a cavallo di un terrore freddo.
Continuò ad arretrare senza fermarsi, anche a costo di trascinare Ryan per il pavimento.
Il ragazzo, però, le fece il favore di alzarsi sulle proprie gambe.
A quel punto i ruoli si sostituirono: Ryan prese a trascinare Komachi in una folle corsa fra gli scaffali della biblioteca, braccati incessantemente da ringhi taglienti e passi pesanti.
 
Cure Aqua si fiondò sull’ingresso della palestra, ma la porta era solida e fermamente chiusa a chiave. Provò a forzarla con una spallata ma col solo risultato di ottenere ricambiato un contraccolpo terribile.
-E’ chiusa!- gridò a Cure Dream, la quale tentava inutilmente di far breccia nell’ingresso secondario.
La compagna ringhiò di frustrazione e tentò di scassinare la porta, ingaggiando nervosamente una sfida contro la maniglia, finché non le rimase in mano.
Accompagnata dallo sbraitare isterico di Cure Drema, Aqua aggirò la scuola tenendo sotto severo controllo la parete, fino a quando il suoi occhi non incapparono in ciò che stava cercando. Non esattamente un ingresso, certo, ma una finestra sarebbe potuta andare ugualmente.
Richiamò Dream e le indicò la finestra.
Lei annuì e, prima che Aqua potesse fermarla, sfondò il vetro con il Dream attack e fece irruzione nella palestra.
La compagna sospirò, esasperata, e alzò gli occhi al cielo.
-Non pensi che se avessi avuto intenzione di distruggere tutto, lo avrei fatto anche con la porta d’ingresso?- la canzonò, sarcastica, tentando di entrare attraverso lo strappo irregolare nella finestra che protendeva verso di lei fini frammenti taglienti.
L’interno era completamente buio e silente.
I passi di Cure Dream, da qualche parte inghiottita nel buio di fronte a lei, risuonavano quasi assordanti,  seguiti a ruota dall’eco ritmico assorbito gradualmente dalle pareti.
-E perché non lo abbiamo fatto?- rispose con voce acuta.
Aqua alzò entrambi le sopracciglia in una perfetta espressione incredula.
-Perché se ci fosse stato qualcuno all’interno l’avremmo trucidato- Urlò con ovvietà, mentre i primi dubbi prendevano ad affiorare nella sua mente.
Ci fu un attimo di silenzio.
Quindi Cure Dream comparve al suo fianco con un’espressione confusa dipinta in volto.
-Perché, non è forse questo lo scopo dei nostri attacchi?- chiese con un ingenuità da oscar.
Cure Aqua si arrestò sul posto, guardandola con uno sguardo compassionevole che tradiva la sua ammirazione verso il quoziente intellettivo di Nozomi.
-Beata ignoranza- commentò, tagliente, quindi riprese il proprio giro di perlustrazione, tenendosi lo stomaco che si ribellava con sempre maggior insistenza.
 
Ryan fu afferrato ai fianchi con violenza, e in un attimo gli manco il solido terreno sotto le suole delle scarpe. Urlò di terrore e non poté far altro che strattonare Komachi, saldamente ancorata a lui tramite una stretta di mano. La ragazza si voltò e gemette, sbigottita, quando il suo sguardo superò le spalle di Ryan e poté scorgere i nemici con cui avevano a che fare.
Si puntò sui piedi e, piegando leggermente le gambe, si sbilanciò all’indietro, traendo a sé il ragazzo con tutta la forza che aveva in corpo.
Una scossa di dolore attraversò Ryan, il quale si trovava a far parte di un terribile gioco alla fune fra bene e male. Lui era la fune.
La sua spalla era reduce da numerosi strattoni che comportavano un continuo movimento dell’osso e dei muscoli, i tendini bruciavano come tizzoni ardenti e le sue labbra si schiudevano seguendo il ritmo angosciante dei polmoni, stretti nella presa ferrea del nemico.
Con uno sforzo disumano riuscì a liberare un braccio dalle grinfie avversarie, che usò per agitarsi alla cieca, sperando ardentemente di colpire il proprio aggressore in un punto scoperto.
Fu proprio allora che vide le speranze sgretolarsi sotto i colpi del male.
Sul fondo, alle spalle di Komachi, intenta a mantenere la propria posizione, strisciò un’ombra, impacciata e sgraziata, gobba. Nel buio luccicarono due occhi freddi come ghiaccio, inumani, colmi di una crudeltà guidata dal puro e semplice istinto di una bestia.
 
-Come sarebbe a dire “inattuabile”?- sbottò Rin, irritata.
Kurumi  fece per parlare, ma un’esplosione di luce le inondò il viso per un attimo, togliendo il fiato a Urara, spettatrice di quello spettacolo agghiacciante.
Il portale si contrasse e prese a dimenarsi con più forza, dilatando lo spacco dimensionale e infondendo nell’aria un tremendo rumore, come di stoffa strappata, che irrigidì ogni muscolo delle tre e ferì i loro occhi con un’impietosa scarica di luce.
-Syrup!- implorò Kurumi, portandosi le mani agli occhi e gemendo di dolore.
L’amico, in forma di volatile, non se lo fece ripetere due volte e virò, dando la schiena al portale.
Quando furono ad un’opportuna distanza, Urara riaprì gli occhi con cautela e allentò la presa sul dorso di Rin.
-Che cos’è stato?- sussurrò con  un tremito spaventato nella voce.
Kurumi si accarezzò nuovamente gli occhi arrossati –Il portale accresce le sue dimensioni ogni minuto che passa-  Lanciò uno sguardo severo alle compagne –se non lo fermiamo finirà per inglobare il Giappone se non l’intero pianeta-
Quella rivelazione colpì Urara come un pugno alla bocca dello stomaco.
-D’accordo- interloquì Rin, prendendo un gran respiro e sbuffando tutta la tensione –Qual è la soluzione?-
Urara si voltò verso Kurumi, in attesa di una risposta che sperava fosse, almeno i parte, positiva.
Il viso della ragazza fu tagliato da un sorrisetto mesto –Ryan- 

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Capitolo 25
*** Fuori controllo. ***


Con un gemito frustrato Ryan diede un formidabile colpo di reni, torcendo il busto e centrando in pieno la bestia che ansimava alle sue spalle e che lo stringeva con violenza, trafiggendo vesti, pelle e muscoli con terribili artigli acuminati. Ogni minimo movimento procurava irritazione nel suo corpo, smuoveva gli artigli estranei e dilaniava il tessuto muscolare, scoccandogli alle tempie fitte brucianti.
Un verso acuto e stridulo scosse i timpani di Ryan, mentre con gran sollievo percepiva le grinfie del nemico scivolare lentamente al di fuori del proprio corpo, graffiandolo con uno straziante attrito.
Komachi diede uno strattone più forte e riuscì ad allentare la presa nemica, districandolo da quella trappola mortale. La forza della ragazza fu tale che entrambi finirono a terra, l’impatto estirpò ogni possibile respiro a Ryan e la sua mente fu intrappolata in una gabbia impenetrabile di dolore pulsante, mentre il sangue abbandonava, lento e viscoso, i suoi fianchi, infliggendogli colpi di sofferenza ritmici.
La morsa alla sua gola si schiuse per un secondo, lasciando trapelare un gemito strascicato, le forze presero a venirgli meno, l’energia nel suo corpo scemò gradualmente, iniettandogli nelle vene un’agitazione squassante.
Percepì vagamente Komachi agitarsi sotto il peso del suo corpo, quindi afferrarlo per il busto e faticare a liberare le proprie gambe.
-Ryan?- la sua voce giunse ovattata, quasi lontana.
Il ragazzo si sforzò di mettere a fuoco il viso della ragazza, ma i suoi sensi erano indirizzati interamente ai suoi  fianchi, al dolore cocente, e al caldo sangue che gli avviluppava il corpo con una terribile carezza.
Il suo udito catturò dei movimenti veloci e abili di Komachi, un tessuto strapparsi, quindi avvertì le ferite tamponarsi, il sangue assorbirsi e il dolore bruciante al contatto farsi più vivo, prepotente.
Si sentì nuovamente afferrare, la ragazza tentò di rimetterlo sui suoi piedi, gemette in un estremo tentativo di sorreggerlo, ma Ryan riusciva malapena a rispondere ai propri istinti: il cervello scoccava ordini che i muscoli ignoravano, le braccia si rivelavano pesanti come macigni e la maglietta appariva aderente al busto, resa greve dal sangue che appesantiva il tessuto e afferrava lentamente anche il blu dei suoi jeans.
Improvvisamente, un lampo di luce, un boato graffiante e l’urlo di Komachi.
Acuto, agghiacciante, disperato.
Ryan sbarrò gli occhi, la vista si schiarì in un secondo, aprendosi come un sipario di fronte al suo sguardo. Si accorse di essere prono a terra, riverso in una pozza di sangue, il suo sangue,che impregnava di un rosso terrificante le pagine dei libri, bianche, in un contrasto tanto forte da fargli male agli occhi.
Il suo viso si contrasse interamente, mentre la sua coscienza vagava disperatamente alla ricerca della più piccola fonte di energia, per tenere gli occhi aperti, per rialzarsi, per essere d’aiuto. Si sforzò di ruotare sul fianco destro stringendosi convulsamente le ferite, velate della stoffa ormai pregna di rosso, futile tentativo di Komachi, patetica via di salvezza.
Gemette nuovamente, i suoi sensi vagavano senza un ordine preciso, distratti dal dolore intenso.
Poi un’ondata di energia lo travolse, lo colpì come un mare in tempesta, squassandolo e agitando il suo intimo. Un’ondata impalpabile, percepibile solo a lui, comprensibile solo per lui.
E una sensazione familiare. L’aria attorno al suo corpo vibrava, elettrica, quasi frizzante, una lieve luce rifulgeva flebile, di una sfumatura naturale; verde come le foglie, come il primo stelo d’erba che combatte il freddo autunnale, come il tenero bocciolo di un ciliegio. Grigio, traslucido, come la brezza mattutina, come il vento d’autunno, come un vortice d’aria. Bianco, come il cielo d’inverno, come le nuvole soffici, come la nebbia vellutata. E poi blu, come il pelo dell’acqua increspato, come un ciclone marino, come il cielo di notte, spazzato dal vento.
Rilasciò un mezzo sospiro mozzato. Il dolore era straziante, lo afferrava, lo dilaniava con le sue fauci ardenti, giocava con la sua resistenza.
Forse stava delirando.
La testa gli ciondolò di lato. Una mano fresca si posò sul suo petto, una voce dolce, venata di panico, lo incoraggiava, lo spronava a resistere, a combattere.
Komachi.
Strinse con forza i denti, fino a sentirli scricchiolare sotto la pressione.
Un boato ovattato si fece strada fra l’aria densa, colma di energia. Poi un altro. E un altro ancora.
Spalancò nuovamente gli occhi, senza essersi reso conto di averli mai serrati, un fulmine illuminò la sua mente, schiarì i suoi pensieri, colmò il tutto con immagini passate, fauci, grinfie, ringhi, tentacoli, veleno.
E ancora la sensazione di smarrimento, si sentiva isolato, solo, incapace. Un inetto. Era esposto come una chiocciola senza il suo guscio.
Il suo corpo pareva un buco profondo, involucro vuoto, riempito solo da emozioni passeggere, sentimenti che gli sfioravano l’anima e svanivano, come folate di vento.
Con uno sforzo disumano puntò i gomiti, poi i palmi, issò il torace, il busto.
Davanti a lui si ergeva inflessibile Cure Mint, creava lunghi dischi taglienti, chiari di energia frizzante, e li scagliava contro i nemici, imperterrita, barcollante sulle sue gambe, eppure ancora in piedi.
Era già successo. Era già stato pedina di quella situazione, intagliata in profondità fra i suoi ricordi.
Cure Mint affrontava tre bestie, due delle quali gobbe, scheletriche, le ossa risaltavano fra la pelle sottile come spuntoni, il cranio pareva un gonfiore, ricoperto di una ragnatela pulsante di vene, scure, interrotto solo dagli occhi ,rossi come braci, incastonati in convessità tanto scure da parere pozzi. Balzavano da una parete all’altra con incedere agile ma gobbo, accosciato.
Il terzo, dalle fattezze generali di un volatile, sfrecciava con insistenza, perforando le sue difese e ferendola ripetutamente, strappandole gemiti strazianti.
Gli occhi verdi di Cure Mint si posarono su Ryan, in una muta richiesta d’aiuto.
Confuso. Stordito.
Verde.
Come foglie agitate dal vento.
Grigio.
Come la brezza.
Bianco.
Come le nuvole a cavallo delle correnti.
Blu.
Come l’acqua in un ciclone.
Frizzante.
Come l’aria in tempesta.
Si sentì gelare. Ma non era una sensazione sgradevole. Era fresco. Un fresco che lo inebriava, lo distoglieva dal dolore e chiudeva le sue ferite. Ora era traboccante. Colmo di energia, ma al contempo leggero e sottile.
Ali di farfalla.
Si agitavano frenetiche, dettando il ritmo del suo respiro, creando un vortice nel suo petto, infondendogli un’intima sensazione di potere e capacità.
Chiuse gli occhi e sorrise senza motivo. Un’ondata piacevolmente ghiacciata scosse il suo corpo. Non sentiva il bisogno di respirare. Era colmo d’aria.
Davanti agli occhi scorse volute fresche danzare ad un ritmo suo, incastrarsi in sinuosi grovigli per poi svanire, aumentare d’intensità e ricomparire, persistendo in un piacevole gioco su sfondo bianco, luminoso.
Improvvisamente l’intensità aumentò, afferrandogli le tempie con due blocchi di ghiaccio, creando una pressione insopportabile nella sua gabbia toracica, le scie giocose nella sua vista si gonfiarono, minacciose, presero un colore scuro, e lo accecarono.
Ma lui aveva già gli occhi chiusi.
Percepiva chiaramente una spinta dall’interno verso l’esterno rompere le barriere con la realtà, strisciante dentro di sé, avvertì il bisogno di sfogare l’energia che torturava il suo corpo.
Le sue dita cominciarono a dolere con forza, le punte parvero voler scoppiare, Ryan giurò di aver udito il suo sterno crepitare.
Urlò di dolore. Fino flagellarsi la gola, strinse i pugni, conficcò le unghie nella carne.
Dolore.
Dolore.
Dolore.
Era allo stremo. Il legame con la realtà era sottile, una corda debole. Non ricordava in che luogo era. Non ricordava chi era.
Bianco.
Freddo.
Desiderò un fuoco. Desiderò il fuoco per scaldarsi.
Desiderò il cremisi di Rin.
Ryan corrugò la fronte, il corpo frustrato da colpi d’aria terrificanti.
Chi era Rin?
Gemette, percepì una lama ficcarsi nella sua mente.
Rin, Komachi, Nozomi, Urara,, Karen, Kurumi.
Riprese a respirare.
Un vortice di nomi, lettere, visi, colori, profumi, sensazioni.
Kokoda, Natsu, Syrup.
Scorse un arcobaleno. Nuotò in un mare bianco. Protese le braccia verso i colori, mentre i muscoli giacevano ibernati e la mente era torturata da scaglie ghiacciate.
Riemerse e urlò, scacciando dal proprio corpo il dolore, espellendo ciò che non apparteneva a lui.
 
Cure Mint Sgranò gli occhi alla vista di Ryan che si accasciava, esanime ed inerme, su se stesso, ricoprendosi di un pallore mortale nel giro di un paio di secondi. Innalzò frettolosamente uno scudo che, lo sapeva, non sarebbe durato a lungo, ma le avrebbe concesso il tempo necessario per esaminare le condizioni del ragazzo.
Si avvicinò e si chinò su di lui, sfiorandogli la fronte per assicurarsi che le ferite infettate non avessero conseguito un aumento di temperatura eccessivo.
Ma non appena i polpastrelli sfiorarono la sua pelle, Cure Mint si ritrovò costretta a ritrarre il tocco, impressionata dal gelo che attraversava il ragazzo in forti brividi. Nonostante ciò la sua lucidità barcollò nel momento in cui le ferite di Ryan presero a perdere sangue gradualmente, per poi richiudersi da sole lasciando come unica testimone dell’accaduto una rosea cicatrice.
Tento di prendergli il viso fra le mani, ma era talmente freddo da risultare impossibile anche al più breve contatto.
-Ryan- sussurrò in richiamo, seriamente preoccupata, serrata in un angosciosa gabbia.
Poi il pallore del ragazzo peggiorò, la carnagione slavata scemò ancora, sotto le sottili palpebre le sue iridi cominciarono ad agitarsi, e una sequenza di emozioni contrastanti segnarono il suo viso.
Cure Mint lo chiamò ancora, nella futile speranza di vedere il ragazzo aprire gli occhi.
Invece, ciò che notò lei la gettò nello sconforto più totale.
Le punte delle dita di Ryan erano traslucide. Stavano svanendo gradualmente, Mint poteva vedere il rosso del sangue attraverso la sua pelle.
Ora il resto del corpo era bianco come un lenzuolo.
E il petto si gonfiava, ma il ragazzo non respirava. Sembrava condannato ad un eterno inspiro, senza poter più svuotare i polmoni.
Lacrime di terrore misero alla prova il viso di Mint, e la ragazza avvertì chiaramente la lucidità abbandonarla di netto, si sentì sprofondare nella paura, nello sconforto, nel senso di colpa verso di lui.
Non era in grado di salvarlo, non era in grado di capire cosa lo stesse tormentando e, forse, uccidendo.
Lo chiamò urlando, disperata, singhiozzando fra le lacrime calde.
Poi, d’un tratto il ragazzo parve prendere una piega confusa, disorientata, come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa di molto importante.Un brivido scosse il suo corpo.Si tese come la corda di un arco, stringendo denti e pugni, gettò il capo indietro e inarcò la schiena, il dolore era palese.
Mint si portò una mano alla bocca e indietreggiò di un passo.
Percepì lo scudo crollare alle sue spalle, ma ciò che aveva davanti la spaventava più di ciò che minacciava la sua schiena.
Un’ondata di energia la travolse in tutta la sua maestosità, pietrificandola sul posto, l’espressione sgomenta e gli occhi sgranati. Un’energia che col tempo aveva imparato a conoscere.
Non apparteneva agli eserciti del male: Ryan stava per sfogare il proprio  potere senza disporre dei mezzi per contenerlo.
 
 
Cure Dream sbuffò di rabbia –qui non c’è nessuno!- ringhiò frustrata, raggiungendo la compagna che da tempo l’aspettava fuori.
Aqua le lanciò uno sguardo tagliente –Tu hai detto che Ryan era qui-
-Era qui- esclamò lei, allargando le braccia con esasperazione –non ho idea di dove Rin l’abbia portato-
-Dannazione!- imprecò Aqua stringendo i pugni. Poi la sua espressione si illuminò, alzò gli occhi pieni di speranza –un momento, forse … -
Un boato raccapricciante la interruppe, un’ondata di energia frizzante percorse il corpo di Dream, la quale si sentì quasi impotente contro un potere tanto grande. Sgranò gli occhi e scambiò uno sguardo sconcertato con Aqua.
Lei volse gli occhi in direzione del flusso di energia e, pochi secondi dopo, un esplosione d’aria agitò le loro chiome, un attimo prima che una potente colonna d’aria vorticante si innalzasse dal reparto biblioteca della scuola, piegando gli alberi circostanti e trascinando tutto all’interno del proprio occhio.
 
-mi stai dicendo che dobbiamo buttare dentro il portale Ryan?- fece Rin, inarcando un sopracciglio.
-No- esclamò Kurumi sconcertata – Deve essere lui a chiuderlo. Il portale è composta dal medesimo flusso di energia che possiede Ryan-
Urara spalancò gli occhi –e allora diciamogli di chiuderlo e facciamola finita-
Kurumi sospirò –Si potrebbe fare- rispose con voce amara –Se Ryan avesse la padronanza sui suoi poteri-
Rin incrociò le braccia al petto, mordendosi un labbro –cosa succederebbe se usasse i prorpi poteri senza riuscire a contenerli?-
Kurumi fece per rispondere, ma un’ondata di energia torreggiante fece sobbalzare le tre, accapponando loro la pelle.
Si voltarono con sguardo preoccupato, poi una folata di vento le assalì con violenza, respingendo Syrup lontano.
-Rischierebbe di ammazzarsi- ringhiò Kurumi, concludendo ciò che, per loro sfortuna, si era rivelato essere realtà.
 
 
 
NOTE: che nessuno mi chieda cosa mi sono fumata per scrivere la parte di Ryan in balia dei suoi poteri! XD
 

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Capitolo 26
*** Sorriso. ***


Kokoda si portò i polpastrelli alla fronte, sfiorandosi la pelle velata di angoscia, mentre più brividi prepotenti scuotevano il suo corpo e graffiavano i suoi dorsali.
Una ventata di rinnovata energia lo colse impreparato, confondendolo e scollegando i suoi pensieri, disseminandoli come una pila di fogli preda del vento.
Si sorresse alla parete della Natts House, troppo sgomento e sorpreso per riuscire a reagire prontamente contro la torreggiante energia che gli si presentava innanzi, travolgendolo come un fiume in piena e lambendo ogni spazio vuoto di sé.
Alzò gli occhi sgranati per incrociare quelli nocciola di Natsu, altrettanto turbato e schiacciato dalla potenza di quell’incompresa ondata.
-Che cosa diavolo … ?- riuscì a balbettare, prima di essere afferrato nuovamente da dita astratte eppure tanto concrete da riuscire a stringerlo nella sua presa, impalpabili ma al contempo provviste di una consistenza avvertibile. Lunghe volute sfioravano il corpo dei due, solleticando loro i sensi e la loro particolare percezione del surreale.
Un boato scosse l’edificio fino a far tremare le fondamenta, quindi il legno della porta d’ingresso gemette e crepitò, messo a dura prova dalla forte pressione di un vento innaturale, un ciclone che avrebbe potuto rappresentare la disfatta della loro ultima speranza, ultima luce nel dedalo delle tenebre.
Kokoda si voltò a guardare Natsu, inchiodato sul posto da una morsa gelida di terrore –la senti?-
L’amico sospirò piano, cautamente, come se non osasse cedere a movimento più ampio –si- rispose in un sussurro, corrugando la fronte –E’ Ryan-
Kokoda ingoiò rumorosamente i propri dubbi in un boccone amaro, un nodo tanto soffocante da mozzargli il fiato –andiamo-
 
Urara si ritrasse in se stessa, tentando invano di proteggersi dalle impietose raffiche di vento che le frustavano la pelle come una lama e le gelavano il corpo fino alle ossa.
Senza dire una parola, Kurumi ordinò a Syrup di arrestare il proprio volo, quindi si vestì dei cangianti abiti di Milky Rose e, acquisita di conseguenza l’innaturale agilità delle combattenti, riuscì a trovare l’equilibrio necessario per contrastare la forza del vento.
Urara, che involontariamente stingeva ancora con forza i fianchi di Rin, avvertì i movimenti dell’amica suggerirle che era intenzionata ad imitare Rose e, quindi, a tuffarsi in quel mare in burrasca.
Con movimenti frenetici e dita tremanti riuscì a slacciarsi dal corpo rassicurante di Rin, quindi arrotolò la manica e sfiorò il bracciale aureo, respirando a pieni polmoni e preparandosi al tuffo.
-Ferme- ordinò la voce autoritaria di Rose, coraggiosamente ritta ad affronto del vento, inghirlandata dallo sfarzo delle maestose ali di Syrup e avvolta nel burrascoso abbraccio dei suoi ricci inquieti –voi rimanete qui-
-Neanche per sogno- sputò Rin, decisa, sfoderando il proprio bracciale e allacciandoselo al polso.
-Rin, là dentro potrebbe essere pericoloso persino per le Pretty Cure- tentò Rose, nella futile speranza di domare l’indole guerriera della ragazza, la quale, tuttavia, non pareva minimamente intenzionata ad abbandonare la propria decisione.
-Lo è sempre stato- ringhiò infatti, stringendo i pugni con impazienza –si può sapere perché ci tenete tanto a tagliarmi fuori dalla mia vita?- urlò, preda di una furia dettata dalla pura rabbia cieca.
Rose inarcò le sopracciglia, sorpresa dallo sfogo improvviso dell’amica. Urara si sarebbe aspettata una risposta acida, una controbattuta per mettere a cuccia la ribellione di Rin. Invece, Rose le offrì uno sguardo caldo e comprensivo, arricciò leggermente le labbra sottili e inclinò lievemente il capo a destra.
Quindi il suo sguardo passò sul viso giovane di Urara, e la ragazza si sentì quasi in soggezione sotto lo sguardo autoritario e severo della compagna, pareva matura e incredibilmente saggia, il portamento era divenuto austero e il vento fra i capelli favoriva a dare un’impressione torreggiante alla sua figura, slanciandone il corpo.
-Questo non è compito delle Pretty Cure. Questo è compito nostro- le disse, senza indirizzare parole o sguardi a Rin, attirando la piena attenzione della bionda e assicurandosi che afferrasse interamente il concetto. Urara annuì, leggermente sconcertata, intuendo che, anche volendo, le Pretty Cure non sarebbero riuscite ad interrompere un flusso incontrollato di energia, mentre Rose, Kokoda e Natsu erano provvisti di esperienza e conoscenze utili nel campo.
Detto questo, Rose svanì in un balzo, tuffandosi fra le braccia dell’aria e gettandosi a tentoni nell’occhio del ciclone.
Urara lanciò uno sguardo di sottecchi a Rin e, scorgendola sull’orlo delle lacrime, percepì una fitta sgradevole rimescolarle le viscere. Rose aveva intuito che con lei le parole sarebbero state sprecate, inutili. Quando l’ira afferrava Rin c’era poco  da fare, se non aspettare pazientemente che sbollisse. Rose confidava in Urara perché Rin non si gettasse al suo inseguimento spronata dall’orgoglio ferito, ma, in quel momento, Rin aveva tutta l’aria di voler rimanere esattamente dov’era.
 
Rin digrignò i denti, sforzandosi di ricacciare indietro l’ira e il sapore salato delle lacrime. Fin da bambina aveva ricevuto una rigida educazione, fin da piccola le erano stati inculcati in testa valori e principi precisi. Era grazie all’educazione ricevuta che conosceva la fondamentale importanza del dedicarsi appieno ai propri doveri. Ma come poteva farlo, se questi le venivano sottratti dalla vita?
Non era più una bambina: nessuno doveva più allacciarle le ginocchiere per impedire che si sbucciasse la pelle. Avrebbe imparato a proprie spese, avrebbe disinfettato la ferita e starebbe stata costretta a nasconderla sotto un cerotto, per far si che il proprio fallimento non fosse palese agli occhi pretenziosi altrui. Non aveva più bisogno che qualcuno le controllasse la vita, non necessitava che qualcuno le indicasse la giusta via per sé, arrivando persino a rinchiuderla in una gabbia, in una strada a senso unico obbligato, in cui la direzione è solo una, e non c’è possibilità di forzare le sbarre che tengono prigionieri. Perché le sottraevano le possibilità di scegliere? Perché sulla propria strada non c’erano bivi?  
Perché era messa da parte?
 
Mint urlò a pieni polmoni, straziata dall’incontenibile potere di Ryan, che le graffiava la pelle e le dilaniava la carne con violenza, in un tocco brutale ed impietoso. Non sapeva dire da quanto ormai stesse combattendo contro quell’enorme ciclone, quella potenza enorme, torreggiante su di lei fin quasi a schiacciarla. Le raffiche di vento le sferzavano il colpo con colpi atroci, l’afferravano e la gettavano a terra, incuranti, crudeli, la torturavano con impeto e le strappavano a forza il respiro. Era giunta al limite della sopportazione, e l’impotenza della situazione la schiacciava in tutta la sua pienezza.
Ryan era ancora steso a terra, esanime, in guerra contro il suo stesso inconscio aggressivo, in una tensione per non cedere all’offensiva del suo stesso potere.
Nella biblioteca si stava scatenando l’inferno.
Il Giappone era ancora assopito nel suo innaturale torpore.
E lei non poteva fare nulla.
 
Aqua aprì la porta della biblioteca e urlò, investita appieno dalla furia del vento, che riusciva a smuoverla nonostante la sua salda resistenza, che la respingeva con facilità, infondendole un senso penoso di debolezza e incapacità. I cardini della porta saltarono, esplodendo in un vortice di schegge d’acciaio e sbalzandola indietro con la presa ancora salda sulla maniglia della porta.
Gemette di dolore quando la sua schiena si scontrò duramente contro un lampione della strada arrivando persino ad abbatterlo e ad infliggerle un secondo colpo lancinante.
Fortunatamente fu prontamente soccorsa da Dream, che la sorresse per una spalla e la aiutò a riprendersi dalla botta stordente.
Aqua scoccò uno sguardo allarmato all’interno dell’edificio, nel quale si potevano scorgere, attraverso la fessura strappata della porta, potenti raffiche di vento investire ciò che trovavano sul proprio cammino, raccoglierlo, lasciarlo precipitare e ingaggiare un’agghiacciante danza vorticante in ampi cerchi concentrici.
-Là dentro c’è Mint- urlò, per sovrastare la baraonda che emettevano gli imponenti scaffali crollare e l’inquietante ululo minaccioso del vento, gonfio e scuro, monito per i più incauti.
Dream prese a torturarsi il labbro inferiore, lanciando fuggevoli sguardi angosciati tra le fessure dell’edificio, alla speranza di incappare nel corpo, preferibilmente ancora intero, della propria amica.
-C’è anche Ryan- mormorò, preda dello sconforto.
 
Milky Rose afferrò una ringhiera mezza arrugginita che contornava il parco, si aiutò per trarsi più vicino alla biblioteca, lottando incessantemente contro la travolgente prepotenza del vento. Una perla di sudore tentò di percorrerle la linea del viso, ma fu facilmente sbaragliata dall’aria impazzita.
Urlò di dolore quando un residuo di porta la colpì allo stomaco, piegandola in due con violenza e sottraendole ogni possibilità di rimanere ancorata a quell’unico appiglio. Fu strappata con forza da terra, sollevata in cielo, e gettata contro la parete di una casa con tanta forza da incassare i mattoni in un’impronta irregolare.
Molto lentamente, riuscì a ricomporsi e a riafferrare la sfuggevole consapevolezza del proprio corpo, quando fu completamente sicura di non avere ferite profonde che avrebbero compromesso la sua forza, si rialzò in piedi e riprese il lento incedere.
D’un tratto il terreno sotto i suoi piedi parve prendere una consistenza più sottile e morbida e, quando Rose si accorse che non stava avanzando di un passo nonostante i suoi sforzi, una ventata più brutale la travolse, come a voler approfittare della sua momentanea debolezza, e tentò di scagliarla lontano.
Rose percepì il terreno mancare sotto i piedi e si divincolò in un disperato tentativo di rimanere saldata al terreno.
Inaspettatamente accadde.
Si sentì afferrare per un polso e, dal muro di polvere sollevato, vide sbucare indistintamente la sagoma di Kokoda, che la teneva stretta per un braccio e la riportava sui suoi passi, spalleggiato costantemente da Natsu.
Non appena Rose fu nuovamente in grado di camminare, fece un cenno di ringraziamento a ragazzi e, tenendosi stretti in una catena che, quindi, sarebbe risultata più pesante e difficile da travolgere, ripresero ad avanzare lentamente verso la palestra.
 
Natsu si portò una mano al viso, schermando lo sguardo dal vento carico di residui di ogni tipo. Era impossibile persino respirare, avvolto in una stretta violenta come quella.
Si sforzò di continuare a mettere un piede davanti all’altro, nonostante ad ogni passo le ginocchia gli fossero rifiutate, respinte con forza, ma non poteva permettersi di lasciarsi andare, o avrebbe portato con sé anche Kokoda e Mily Rose.
Tentò di sospirare, ma pareva che l’ossigeno non fosse in grado di trapelare quel ciclone che li avvolgeva in scie contrastanti, esercitanti pressioni pericolose sui loro corpi stanche e tesi.
Kokoda, al suo fianco, scivolò sul terreno reso umido dall’aria pregna di acquosità. Per lui e Milky Rose fu uno sforzo disumano riuscire a recuperare il terreno perso, strattonati indietro da quell’infausta mancanza improvvisa.
Natsu ringhiò di dolore e frustrazione, quindi prese in mano la situazione e, a testa bassa per non creare eccessiva resistenza al vento, prese a marciare in avanti, il capo e il torso protesi, le braccia allacciate a quelle di Kokoda, spronato dalla semplice determinazione a chiudere quella faccenda una volta per tutte.
Per un po’ parve funzionare, e quando Natsu avvertì chiaramente le energie scemare completamente fino all’ultima goccia, una voce inattesa li sorprese e li fece sorridere, rinfrancati.
Dal sipario della bufera comparvero Dream e Aqua, allarmate e spossate dal continuo sforzo per la tenace opposizione al potere di Ryan.
I cinque si misero al  riparo dietro un muro, tentando di riprendere fiato e forze.
-e ora che facciamo?- fece Dream abbattuta.
Kokoda lanciò uno sguardo oltre il muretto in pietra, e scorse il ciclone nel pieno della propria potenza, devastare con noncuranza la biblioteca, scoperchiandola delle assi di legno del tetto e infliggere pesanti colpi alle pareti.
-Se non agiamo in fretta Ryan è morto- disse diretto, senza mezzi termini. La situazione doveva apparire chiara in tutta la sua gravità, solo così gli altri avrebbero dato il massimo perché la faccenda avesse un buon fine.
-Noi possiamo serrare il flusso di energia- interloquì Natsu, scoccando sguardi inquieti all’interno della biblioteca. Sapeva perfettamente che Cure Mint si trovava all’interno. E questo non lo aiutava a mantenere ferma lucidità.
-Ma dobbiamo riuscire ad avvicinarci- completò Rose con tono affannoso.
-D’accordo- mormorò Aqua, cominciando ad analizzare la situazione e immergendosi nella consueta riflessione che dava il via ai meccanismi del suo formidabile cervello –Potrei cercare di placare il vento. Ma solo per poco-
-Come credi di farlo?- sbottò Dream, in agitazione per la propria compagna.
Natsu le lanciò uno sguardo di sottecchi, cogliendo la sua agitazione malcelata.
-Lo congelo- rispose lei in un sussurro, ostentando sicurezza.
Kokoda si voltò a guardarla con sguardo traboccante di ammirazione –Pensi che sia abbastanza freddo?- Chiese, torturandosi le dita, divorato dall’impazienza di agire per poter gettare il tutto in un angolino dei propri ricordi, lontano dalla realtà.
-Lo spero- Rispose, ingoiando.
Ci fu un attimo di silenzio, rotto solo dall’agghiacciante urlo di una voce che conoscevano fin troppo bene.
Natsu strinse i denti e si sforzò di mantenere la calma, placando l’irrefrenabile impulso di gettarsi nel ciclone, recuperare Mint e fuggire.
-Allora tentiamo- Disse infine Rose, riscuotendoli dal torpore gelido che li aveva inchiodati sul posto con una morsa greve.
Aqua annuì, si prese un minuto di tempo per prepararsi, quindi rilasciò la tensione in un unico sbuffo e uscì dal riparo, afferrandosi al bordo di una piccola fontana di marmo.
Natsu, Kokoda e Rose si prepararono, tesi e pronti a scattare per occupare ogni minimo secondo concesso loro.
Aqua Evocò il Saphire Arrow, in modo da poter disporre di una precisione elevata perché l’acqua inondasse  l’interno della biblioteca, sgorgando con un colpo secco e meticoloso attraverso la fessura irregolare della porta.
Tese con forza l’arco immateriale, quindi, avvolta in un fresco ventaglio di perle d’acqua, scoccò, preparandosi immediatamente ad evocare l’Aqua tornado, che le avrebbe concesso una maggiore quantità d’acqua, un volta placato anche solo in parte il ciclone con il colpo precedente.
La mira di Cure Aqua non la tradì, ed ebbe successo una seconda volta.
All’interno della biblioteca si udì un gemito acuto e l’ululato del vento parve placarsi un poco, così come la forza che respingeva imperterrita Aqua.
In quel medesimo istante, il restante del tetto della palestra si squarciò, tegole e assi sfrecciarono ovunque, piovendo pericolosamente dal cielo, sfiorando la piccola comitiva e liberando una parte del ciclone impazzito, che poté quindi trovare un’ulteriore punto di sfogo dal quale far fuoriuscire raffiche taglienti.
Natsu alzò lo sguardo, tentando di perforare la nube di polvere e schegge. Ampie ali corvine tagliarono l’aria, un verso stridulo gli fece gelare il sangue nelle vene, quindi un grosso volatile spaccò l’ultima asse del tetto, procurandosi un buon passaggio per fuggire.
Era indubbiamente un Demone: non aveva alcuna caratteristica lontanamente paragonabile ai comuni volatili noti in Giappone.
-Dannazione- Imprecò Dream.
Il piano di Aqua era un’arma a doppio taglio. Il ciclone era stato placato, si, ma ciò aveva spianato la strada ai demoni rinchiusi là dentro, facilitando loro la fuga dalle braccia del vento.
Natsu ridusse gli occhi a due fessure, notando, nella sagoma confusa del demone, una strana protuberanza fra le zampe. Non ci volle molto perché comprendesse che non si trattava di una parte del suo corpo.
Il terrore gli afferrò lo stomaco e gli congelò le viscere –Ha preso Ryan!- Urlò, nella speranza che qualcuno lo sentisse e che agisse, in qualche modo.
Aqua rimase inchiodata sul posto, pietrificata dal dubbio ed indecisa sul da farsi. Avrebbe dovuto evocare anche l’Aqua Tornado per congelare ulteriormente il ciclone, o cosi facendo avrebbe peggiorato la situazione, liberando altri demoni, in caso ci fossero?
Rose si alzò, afferrò per un braccio Kokoda e fece segno a Natsu di seguirla.
-Aqua, concludi- ordinò, accennando alla biblioteca –Dream, tira fuori Mint- Si voltò verso i due ragazzi con aria seria –E noi fermiamo quel ciclone-
-Cosa?- esclamò Dream, incredula –E Ryan?-
Rose si voltò –So dove lo stanno portando. Non c’è da preoccuparsi: troveranno una brutta sorpresa-
 
 
-Che cosa facciamo ora?- Mormorò Urara, stringendosi nel golfino per ripararsi dalle raffiche di vento gelate.
Rin, davanti a lei, sospirò e scrollò le spalle con aria abbattuta –Non lo so, Urara- rispose, alzando lo sguardo sul Portale –Non so più niente-
Urara si strinse nuovamente a lei, questa volta non per sorreggersi, rassicurarsi o proteggersi, questa volta con la chiara intenzione di infonderle affetto.
Improvvisamente la ragazza avvertì i muscoli di Syrup a contatto col suo corpo fremere e irrigidirsi. D’istinto seguì lo sguardo di Rin e scorse il Portale reagire ad un’ulteriore alterazione del flusso dilatandosi ancora di qualche centimetro e accecandole. Sentì la speranza affievolirsi di un poco, come una flebile candela che tenta di combattere il buio, ma che, gradualmente, si spegne.
Con quello sfogo improvviso, Ryan aveva dimostrato esattamente di non aver padronanza sui suoi poteri. Di conseguenza il Giappone era spacciato. Non c’era altro modo per ricucire quello strappo nel cielo, e loro non avrebbe potuto far altro che passare il resto della loro vita a combattere i demoni, attendendo che lo squarcio inglobasse l’umanità, gettandola in una dimensione terrificante.
Urara sospirò, solleticandosi il collo con la chioma aurea, stretta nei caratteristici codini vivaci.
-Il vento si è placato- Constatò Rin con voce atona, piatta, senza dar alcun segno di espressività.
Urara alzò il capo e scoccò uno sguardo ansioso alla biblioteca, appena visibile dalla loro postazione –Hai ragione- rispose –Forse sono riusciti a … - Corrugò la fronte, scorgendo improvvisamente una piccola sagoma scura stagliarsi sul cielo paradossalmente terso del pomeriggio.
Vista l’assenza di chiacchiere, Rin si voltò per assicurarsi che Urara stesse bene, ma ,quando avvistò la macchia indistinta, inclinò leggermente il capo e tentò di dare una forma distinta a ciò che si stava avvicinando così velocemente.
-Syrup- fece Urara, improvvisamente allarmata –cos’è quello?-
L’amico fece manovra e si voltò, ispezionando il cielo con la sua vista acuta.
Si irrigidì all’istante –Un demone- rispose –e ha con sé Ryan-
-Cosa?- sbottò Rin, trasalendo rendendo i suoi sensi vigili.
-Lo vuole gettare nel Portale- spiegò Syrup.
-Perché?- chiese timidamente Urara, nonostante non fosse completamente sicura di voler conoscere la risposta.
-Kurumi ha detto che Ryan possiede il medesimo flusso di energia del portale- Disse lui, scrollando lentamente le scapole per rendere più agevole la cavalcata sulla sua groppa –se lo gettassero all’interno lo strappo raggiungerebbe immediatamente dimensioni enormi-
Urara si senti mancare.
Afferrò il proprio bracciale e, senza pensarci due volte, venne avviluppata dalla luce cristallina di Cure Lemonade e si fiondò sul Demone.
 
-Aspetta!- tentò di fermarla Rin, senza successo, ovviamente. Imprecò più volte, quindi fece virare Syrup in un frontale con il volatile nemico, sperando di spaventarlo e di tenerlo alla larga dal portale.
Nel frattempo Lemonade era riuscita ad assalire in volo il demone, allacciandosi al suo lungo collo spiumato e inducendolo a dimenarsi impazzito, nell’istintivo tentativo di levarsi dalla groppa la compagna rilucente di luce dorata.
Syrup si avvicinò velocemente, tenendosi sempre a debita distanza di sicurezza, giusto per assicurarsi di non ritrovarsi con un artiglio nello stomaco o una lacerazione sul collo.
-Ryan!- urlò Rin, tentando di sovrastare le urla stridule del demone, ancora agitato dalla presenza di Lemonade che, nonostante i forti strattoni, si teneva saldamente aggrappata al collo e non aveva nessuna intenzione di sciogliere la presa.
Il ragazzo, stretto tra le grinfie nemiche, pareva incosciente, ma nell’udire la voce di Rin, il suo viso si increspò in un’espressione confusa ed affaticata.
-Apri quei maledettissimi occhi, stangone!- urlò ancora Rin, ringhiando contro il vento e tentando invano di afferrare il ragazzo, penzoloni ad un altezza vertiginosa.
Incredibilmente l’inconscio di Ryan parve assimilare le informazioni e incassare l’ordine, quindi il ragazzo riemerse dallo stato di torpore in cui si trovava, e, notando in che rassicurante situazione si trovava, per poco non ci tornò con un infarto.
-Ryan!- Rin si sgolò, gridando con aggressività fino a bruciarsi la gola –prendi la mia mano!-
Il ragazzo alzò lo sguardo e sgranò gli occhi, pieni di speranza, alla vista di una possibile salvezza. Tentò di oscillare coraggiosamente sulla presa nemica, cercando disperatamente di afferrare la mano che Rin gli tendeva.
Ma con la furiosa lotta ingaggiata fra Lemonade e il Demone, la situazione si stava facendo decisamente complicata.
Rin tentò di sporgersi il più possibile, rischiando quasi di slogarsi una spalla per tenderla più vicino al corpo del ragazzo.
Le loro dita si sfiorarono.
Ma qualcosa andò storto.
Forse il minuscolo cervello, ammesso che ne avesse uno, del demone si stampò la situazione in testa e digerì ciò che stava accadendo, quindi cercò di impedirlo allontanandosi di scatto da Syrup e rinunciando alla presa su Ryan, mollandolo quindi in balia della gravità.
-No!- gridò Rin, lasciandosi fuggire un’altra imprecazione e protendendosi maggiormente per afferrare il braccio del ragazzo.
Lo afferrò.
Ma perse l’equilibrio e precipitò dalla groppa di Syrup.
 
Ryan urlò a pieni polmoni, mentre i suoi timpani venivano colmati dal terrore di Rin, ancora stretta a lui e che tentava di trarlo a se in una disperata manovra per impedire la disfatta.
Il terreno corse loro incontro con una velocità terrificante, il vento prese a frustarli con forza, tentando di strappare loro chiome e abiti con dita violente e sgarbate.
Il tempo parve dilatarsi, le loro braccia si dimenavano senza ordine nel vuoto, mentre davanti ai loro occhi il suolo si faceva più vicino e crudele. Ryan fece in tempo ad avvertire il terrore azzannargli le viscere, pietrificargli i polmoni e avvertire le tempie pulsare dolorosamente, mentre la voce usciva incontrastata dalle sue labbra, graffiandogli la gola con artigli ardenti.
Improvvisamente Ryan avvertì caldo. Molto caldo. Si sentì quasi bruciare, immergere in cascate ardenti di lava. Poi si accorse di Rin. Ma non era più lei; ora era celata dalle lingue di fuoco di Cure Rouge. La combattente gli strinse il bacino in una presa bruciante, ma Ryan non provò dolore, solo un forte caldo che ricoprì il suo corpo di un velo di sudore.
Persino in quella situazione,trovò il tempo di arrossire.
In un battito di ciglia, la loro caduta cambiò traiettoria grazie ad un guizzo di muscoli di Rouge, i due precipitarono sul tetto di un palazzo torreggiante, alto una trentina di piani.
Rouge strinse con forza Ryan e riuscì a sollevarlo nel momento dell’atterraggio, sostenendo i loro pesi sulle sue sole gambe.
Ma, com’era prevedibile, le ginocchia della ragazza cedettero, schiacciate da un peso troppo grande, nonostante riuscirono ad attutire la velocità della caduta. Rovinarono entrambi sul cemento del tetto piatto.
Ryan rotolò su sé stesso per qualche metro e, quando fu sicuro di non essere più in bilico fra morte e vita, si tasto il corpo alla ricerca di ferite che, fortunatamente, non trovò. Sospirò, lanciando uno sguardo al cielo.
Era stanco, provato, ma ancora tutto intero.
Raggiunse Rouge spostandosi sugli avambracci, dal momento che le gambe tremanti ancora non lo sostenevano.
Giaceva su un fianco, respirava affannosamente e fissava un punto impreciso davanti a sé, tenendosi un ginocchio che tremava ancora per l’enorme sforzo compiuto.
-Ehi- ansimò lui, scostandole una ciocca di capelli che le era ricaduta davanti agli occhi. Lei gli scoccò uno sguardo impassibile, quindi si sollevò sui gomiti.
-Stai bene?- gli chiese in tono leggermente impacciato, tentando di riprendersi dallo spavento.
Ryan annuì e si stampò in viso un mezzo sorrisetto scaltro –credevo mi detestassi-
Lei inarcò le sopracciglia, alzando il mento e squadrandolo con distacco –bisogna tenerseli stretti, i nemici- rispose, sarcastica come sempre.
Ryan cacciò una lieve risatina isterica –io quello non me lo terrei stretto- affermò con assoluta sicurezza, alludendo al demone volatile che Lemonade stava spingendo all’interno del Portale con l’aiuto del Prism Chain.
Rouge gli lanciò uno sguardo ironico –Imbecille- disse, assestandogli una pacca scherzosa sulla nuca.
Ryan non rispose, sgranando gli occhi con espressione sorpresa.
–muoviti, o ti lasciamo qua- gli urlò, facendo segno a Syrup, ancora alle prese con il demone, di raggiungerli
Lui annuì, traboccante di gioia: per la prima volta, Rin gli aveva sorriso.
 

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Capitolo 27
*** Nozomi VS Ryan. ***


Syrup virò, sfiorando gli strati candidi di nuvole che si condensavano attorno a Lemonade, allungando le astratte braccia morbide a cingerle il corpo minuto. Mentre la chioma dorata veniva carezzata dalla flebile brezza gentile, La ragazza non poté evitare di sentirsi rinfrancata al pensiero che le raffiche di vento impietose, che si riversavano sul Giappone qualche istante prima, ora sembravano essersi riappacificate, assopite e quietate.
Con un sospiro che liberò ogni tensione dai suoi muscoli contratti, lanciò uno sguardo sereno a Rouge, alle sue spalle, che ricambiò lo sguardo con un’espressione altamente irritata e una muta richiesta d’aiuto, velata, forse, da una leggerissima venatura d’imbarazzo.
In fondo la sua scorbutica amica non si era mai ritrovata con una pertica avvinghiata alla schiena, in preda ad una crisi di vertigini.
-Ryan- ringhiò infatti, al limite della sopportazione umana -stringi ancora e quando scendiamo di qui ti spezzo le costole una ad una- sibilò scoccandogli uno sguardo di fuoco da sopra la spalla.
Il ragazzo trasalì violentemente e si ritrasse all’istante; molto probabilmente non dubitava delle parole della rossa, in fondo Rouge aveva dimostrato a tutti che ne sarebbe stata in grado, di schiacciare una gabbia toracica, e con estrema facilità, per giunta, vista la forza fisica che aveva sviluppato negli innumerevoli allenamenti.
-S- scusa- balbettò lui, tentando inutilmente di vincere la tentazione di avvinghiarsi a qualcosa per contrastare il volo brusco e meccanico di Syrup il quale, nonostante lo nascondesse abilmente e non lo desse a vedere, faticava non poco a volare con tre persone a bordo dopo un’estenuante battaglia in volo che lo aveva lasciato senza fiato.
-soffri di vertigini?- chiese ingenuamente Lemonade, cercando il suo interlocutore nello scorcio fra le braccia e il busto di Rouge con sguardo vivace.
Lui abbozzò un mezzo sorrisetto indeciso, quindi si strinse nelle spalle –Non proprio- mormorò –L’aereo non mi ha mai intimorito- concluse in tono timido, quindi volse uno sfuggevole sguardo a terra, e se ne pentì immediatamente, a giudicare dalla sua espressione nauseata e decisamente scossa.
Be’, non si poteva certo paragonare un aereo ad un enorme volatile qual’era Syrup. Lemonade glielo fece gentilmente notare, aggiungendo che anche lei era scesa un tantino sottosopra dalla prima esperienza in groppa all’amico.
-Se vomiti, oltre a non avere più le costole dovrai rinunciare anche all’osso del collo, biondino- lo minacciò Rouge in tono secco e diretto, con sguardo autoritario ed espressione asciutta.
Lemonade non riuscì a resistere e scoppiò a ridere. Probabilmente quel poveretto stava prendendo sul serio ogni minima minaccia sibilata da Rouge, senza sapere che era nel suo DNA essere così scontrosa e macabra nel “consigliare caldamente” a qualcuno di seguire il suo parere.
L’andatura si fece meno brusca e Syrup prese a scendere gradualmente di quota, circoscrivendo cerchi concentrici per avere una visione nitida e ampia del terreno sottostante, in modo da effettuare un atterraggio morbido e misurato.
Syrup non aveva ancora toccato terra quando Rouge si fiondò al di sotto, strappandosi con violenza alla presa, involontaria, di Ryan, il quale, per poco, non venne trascinato nel salto, rischiando seriamente l’osso del collo. Era terribilmente in ansia per la sorte di Dream, dopotutto era pur sempre una sua cara amica di infanzia.
Lemonade, lanciò uno sguardo angosciato a terra, notando che Rouge si era accasciata sulla destra, trascinata a terra dal ginocchio. Non doveva averle perdonato quell’atterraggio improvvisato sul tetto del palazzo, in effetti era stato un gesto più che azzardato: si sarebbe potuta ammazzare. Eppure, per l’ennesima volta, Rouge aveva dimostrato di avere a cuore il suo dovere e la sorte di tutti, nonostante a parole o piccoli gesti fosse riluttante a darlo a vedere.
Anche lei si gettò, avviluppata in un turbine aureo di capelli rilucenti.
Corse da Rouge e la aiutò a rialzarsi; il ginocchio non la sorreggeva, faticava ed era scosso da forti tremiti, sollecitato sotto il suo peso. L’amica le fece un gesto di noncuranza.
-Va’ dallo stangone, prima che si prenda un infarto- borbottò, alludendo alla palese difficoltà del ragazzo nello scendere dalla groppa di Syrup,
Lemonade sorrise e raggiunse Ryan.
 
Aqua sospirò, appoggiandosi allo stipite di quello che doveva essere il residuo di una porta. Non che le importasse più di tanto, in quel momento ciò che le premeva era avere qualcosa a cui sostenersi per non rovinare a terra.
Per far sì che Kokoda, Natsu e Rose agissero, era stata costretta a sfruttare la maggior parte della propria energia, sfoderando un sequenza straziante e mozzafiato di acqua per poter congelare al meglio il ciclone, Impresa che si era rivelata ardua, oltre che estremamente pesante, dal momento che l’aria era coinvolta in un turbinio troppo repentino perché riuscisse  a solidificare all’istante le perle cristalline che Aqua si sforzava di immettere incessantemente.
Fortunatamente i tre erano riusciti a sigillare l’eccesso di flusso rapidamente, nonostante ciò li avesse lasciati spossati e avesse prosciugato ogni loro energia.
Al termine di quell’estenuante compito, Rose aveva perso i sensi sotto i colpi infertale dalla richiesta di energia per il sigillo del ciclone, tornando immediatamente a vestire i panni di Kurumi. Kokoda e Natsu, per buona sorte, erano freschi, riposati e avevano potuto contare sul pieno delle loro energie, attingendo appieno alla loro forza.
Aqua non era stata in grado di identificare interamente lo svolgimento del sigillo, ma qualcosa nelle arti dei tre aveva sguinzagliato una serie di brividi striscianti sulla sua spina dorsale, sviando immediatamente il suo istinto indagatore dal fare domande indiscrete.
Emise un mezzo gemito soffocato, piegandosi sulle proprie ginocchia nell’estremo tentativo di riprendere fiato, rinfrancare i polmoni e i muscoli stanchi, bramosi di riposo.
Una mano sulla spalla la fece trasalire. Si voltò bruscamente, tendendosi automaticamente nell’atto di evocare il Saphire Arrow. Ma si arrestò all’istante, rendendosi conto, non senza una certa nota amara, che stava puntando un’arma contro Dream, scossa, ma ancora abbastanza lucida per poter distinguere terra e cielo. Teneva in spalla Cure Mint, accasciata scompostamente sul corpo dell’amica, apparentemente esanime e priva di segni di vita.
Lo sguardo di Aqua si colmò di lacrime in un secondo, mentre il cuore perdeva un battito e le tempie prendevano a pulsare d’angoscia.
-Sta bene- si affrettò a rassicurarla Dream –ha solo perso i sensi-
Lei tirò un sospiro di sollievo, detergendosi un lieve velo di sudore che le patinava la fronte.
-D’accordo- ansimò. Prese la mano di Dream, le rivolse un sorriso stanco e si assicurò che Kurumi fosse in buone mani, sorretta da Kokoda e Natsu –Andiamo a casa-
 
Ryan aprì gli occhi tersi, tentando di mettere a fuoco le assi del soffitto della Natts House. Quella domenica i ragazzi avevano insistito perché passasse la notte al sicuro tra di loro, visto l’accaduto del giorno prima.
Si passò una mano sul viso, sospirando pesantemente.
Ne aveva abbastanza di essere una preda indifesa, di essere il pezzo di carne pronto per essere sbranato. Era frustrante, gli veniva sfilato il controllo della propria vita e, da come aveva potuto appurare in breve tempo, a Ryan era stato sottratto persino il monopolio del proprio corpo.
Il pensiero della sensazione di smarrimento provata nella biblioteca gli sfiorò la mente, una stilettata di dolore lancinante gli perforò le tempie e un brivido ghiacciato gli morse la schiena.
Scosse il capo, come a voler dissipare pensieri che risvegliavano dolori concreti, una visione astratta di sé che lo inquadrava in un guscio vuoto, preda solo di un vortice gonfio e terrificante.
Sospirò, aiutandosi con le braccia rizzò il busto e scostò le lenzuola fresche, allargandosi il colletto della maglia con due dita e respirando a pieni polmoni. Lanciò uno sguardo distratto all’orologio appeso alla parete.
Nonostante fosse molto buio, Ryan riuscì a distinguere confusamente le lancette e, dal momento che era ancora molto presto, decise semplicemente di vestirsi, darsi una rinfrescata e attendere il risveglio degli altri accanto al bancone.
Muovendosi in punta di piedi e aprendo cautamente porte e finestre per non emettere alcun rumore, scese nel piano sottostante, assicurandosi di non aver svegliato nessuno.
Ma quando aprì la porta, la luce della stanza lo accecò per un attimo, istupidendolo, e una voce alquanto squillante, o meglio troppo squillante per dei timpani appena strappati da poche ore di sonno disturbato, lo fece trasalire violentemente, facendogli schizzare il cuore in gola.
-Nozomi!- esclamò sottovoce, portandosi una mano al petto per riafferrare lucidità.
Lei diede un gran sorrisone e i suoi occhi brillarono di una luce allegra –Ti ho beccato!- trillò lei assestandogli una pacca sulla spalla e scoppiando a ridere sguaiatamente –volevi uscire senza una scorta- fece, puntandogli contro l’indice e tentando inutilmente di imitare una piega severa.
Ryan inarcò le sopracciglia con aria ironica –Cosa?- fece, corrugando la fronte e lanciandogli uno sguardo scettico.
In tutta risposta la ragazza esaminò con attenzione l’espressione di Ryan –questa l’hai imparata da Rin- affermò con aria saggia, in piena convinzione delle sue parole.
-abbassa la voce- sbottò Ryan, tentando di sviare il discorso che dava il via a numerose vampe di calore mal soppresse sul suo viso –Stanno ancora dormendo- si giustificò, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Nozomi alzò gli occhi al cielo –si, papà- lo canzonò, abbassando, però, il tono di voce –allora, mi accompagni?-
Ryan le lanciò l’ennesimo sguardo disorientato –dove?-
-alla pasticceria sull’angolo- rispose lei con ovvietà.
Ora si spiegava tutto. Solo una cosa aveva la forza necessaria per indurre Nozomi ad alzarsi dal letto di prima mattina: i dolci.
Il ragazzo abbozzò un sorrisetto divertito, quindi annuì, continuando a fare segno di stare in silenzio. Perlomeno avrebbe allontanato un megafono umano dalle stanze al piano di sopra, assicurando un sonno tranquillo ai compagni, specialmente a Komachi e Kurumi, che faticavano a riprendersi, e inoltre non ne poteva più di rimanere chiuso in casa, non che il giorno prima lo fosse stato, ma, considerando che per tre quarti della giornata era rimasto senza sensi, una buona passeggiata mattutina non gli avrebbe guastato l’umore.
 
Quello che Nozomi non gli aveva detto, è che sarebbero andati in bicicletta. E, dal momento che la sua era comodamente parcheggiata fuori dall’appartamento, la ragazza aveva insistito per dargli uno scomodissimo passaggio.
Fortunatamente il viaggio era stato breve: Nozomi era un gran spericolata, sembrava non aver mai sentito parlare di “freni” e, per di più, aveva una misura alquanto corta dei pedali, motivo per cui Ryan si era dovuto accartocciare sulla sella per non frenare ogni due secondi con l’attrito dei suoi piedi sull’asfalto, cosa che, oltre che a rendere difficoltoso l’incedere, avrebbe potuto staccargli una gamba e, possibilmente, Ryan avrebbe preferito evitarlo.
Una volta riposta la bicicletta accanto ad un lampione, Nozomi schizzò nella pasticceria senza troppi complimenti, infilandosi nella coda di gente che aspettava di essere accontentata.
Ryan preferì rimanere fuori dal negozio, detestava la calca, soprattutto se la gente si lamentava in continuazione per il ritardo dell’ordinazione. Invece decise che si sarebbe seduto fuori dal negozio a godersi una delle poche mattine soleggiate di quell’autunno crudo.
Fece per sedersi, ma quando alzò lo sguardo si arrestò di colpo, pietrificandosi come una statua di marmo. Strinse gli occhi per avere una visione più agevole attraverso le grandi vetrate del bar sull’altro lato della strada.
Ne era certo: all’interno, china sul bancone, intenta in una discussione seria con un ragazzo infilato nella tuta da commesso, c’era Rin, una mano sul mento, gli occhi fissi su un foglio di carta che il ragazzo le stava porgendo, con tanto di penna, e l’espressione pacata e riflessiva.
Ryan osservò con attenzione Rin scostarsi con un movimento secco una ciocca di capelli dietro l’orecchio, quindi appoggiare entrambi i gomiti sul bancone e alzare lo sguardo sul suo interlocutore, domandando qualcosa che giunse muto alle orecchie di Ryan, annullato dalla distanza e dal vetro che li separava.
Persino in quei suoi piccoli gesti quotidiani, Ryan poteva scorgere la grinta graffiante che si dimenava nel petto della ragazza e la sua forte indole ribelle, indomabile come il fuoco stesso.
Nonostante il fresco della mattina indossava abiti leggeri; una maglietta arancione con il timbro di un’associazione sportiva tra le scapole e un disegno stilizzato di una mazza da baseball sull’addome. La felpa, di un blu scuro, le cingeva i fianchi, appesa per le maniche, strette in un nodo serrato. Dal tessuto che le ricadeva su retro, facevano capolino i pantaloni, neri, contornati da strisce bianche che percorrevano l’intero profilo delle gambe, fino a nascondersi nelle comode scarpe da ginnastica bianche.
D’un tratto l’espressione di Rin si ammorbidì leggermente, strinse la mano del commesso con fare soddisfatto e gli sorrise.
Ryan percepì una fitta fastidiosa allo stomaco, quindi fece una smorfia e diede un tenue sospiro.
-Ti ho colto in flagrante, eh?- lo sorprese Nozomi, facendolo sobbalzare per la seconda volta.
-Cosa?- fece lui nuovamente, in tono nervoso venato da impaccio.
La ragazza gli scoccò un’occhiata decisamente poco rassicurante, quindi alzò lo sguardo e con aria sorniona sollevò una mano –Rin!- urlò a pieni a polmoni, agitandosi terribilmente per farsi notare, mentre Ryan si impostava sull’attenti e si irrigidiva sulla sedia peggio di un pezzo di legno.
La ragazza, ancora in procinto di chiudersi la porta del bar alle spalle, lanciò loro un’occhiata distratta, quindi fece un lieve cenno di saluto con la mano, cacciandosi frettolosamente qualcosa nelle tasche dei pantaloni.
-Ryan ti stava spiando- le urlò Nozomi, scoppiando subito a ridere con un pizzico di malizia sulla punta della lingua, arrivando persino a piegarsi in due, mentre Ryan sprofondava sulla sedia e desiderava ardentemente che il terreno si aprisse sotto i suoi piedi e lo inghiottisse di netto. Nozomi gliel’avrebbe pagata, poco ma sicuro.
Rin attraversò le strisce pedonali sistemandosi la felpa in vita –che hai detto?- vociò dal fondo della strada, percorrendo a grandi falcate i metri che li separavano.
Nozomi prese fiato –che … ahia!- esclamò, preda di una gomitata poco cortese assestatale fra le costole da parte di Ryan, arrossito fino alla radice dei capelli e in preda all’agitazione più totale –non la stavo spiando- sibilò a denti stretti, tenendo sotto controllo Rin che avanzava verso di loro. Lei si dipinse un’espressione accattivante in volto –Sei arrossito- lo derise con un sorrisone irritante.
–Non è vero!- protestò lui, ostinandosi a celare l’evidenza.
-Non è vero cosa?- interloquì Rin con tono tagliente, piombata nel mezzo del loro discorso a braccia conserte e l’espressione tipicamente venata di sarcasmo.
Ryan si portò una mano alla fronte, fingendo di riparasi dai timidi raggi di sole, mentre in realtà tentava disperatamente di non dare a vedere il rossore sulle sue gote.
-Che i dolci che ho comprato sono pessimi- rispose Nozomi con assoluta naturalezza, strizzando un occhio a Ryan con aria complice.
Il ragazzo tirò un gran sospiro di sollievo, percependo il cuore riprendersi lentamente da quel colpo basso e le ondate di caldo placarsi gradualmente.
Rin inarcò un sopracciglio con aria scettica, ma non disse altro.
Calò un silenzio alquanto imbarazzante, in cui Nozomi teneva volutamente la bocca chiusa, inducendo Ryan, con occhiate incoraggianti e per nulla spontanee, a dare piede ad una conversazione con Rin, lui, in risposta, gli lanciava occhiatacce eloquenti e cominciò persino a pensare che, in effetti, spezzare qualche costola, di tanto in tanto, non doveva essere tanto male.
-Si può sapere che vi prende?- sbottò Rin con aria scocciata, portandosi le mani a fianchi e facendo passare lo sguardo asciutto da Nozomi a Ryan, in attesa di una spiegazione soddisfacente.
-Niente- rispose Nozomi sorridendole con aria angelica, mentre Ryan si passava una mano sul viso e la fulminava con lo sguardo. Lei gli indirizzò un sorrisetto scaltro, iniettandogli nelle vene una buona dose di istinti omicidi.
Ryan alzò il mento con aria di sfida –E’ stata una mattinata fantastica- cominciò in tono ragionevole, tenendo d’occhio l’amica che annuiva, assaggiando un pasticcino alla crema –Nozomi mi ha dato il permesso di uscire dalla Natts House senza scorta-
Per poco la ragazza non si strozzò con il pasticcino, mentre Rin le scoccava uno sguardo di fuoco puro.
-Nozomi- Ringhiò, mentre lei faceva segno di diniego con le mani, tentando inutilmente di riprendersi fra un colpo di tosse e l’altro, ingoiando il pasticcino quasi completamente intero.
Ryan non riuscì a resistere e si fece travolgere dall’ilarità, sghignazzando con un mezzo retrogusto crudele, soddisfatto della propria contromossa.
-Non è vero!- esclamò l’amica, impreparata a quella reazione perfida –Te lo giuro- piagnucolò, mostrando le mani aperte con le dita bene in vista, una distaccata dall’altra.
Rin sbuffò, irritata –Sentite se avete voglia di perdervi gioco … -
-Come va il ginocchio?- la interruppe subito Ryan, cercando di non mettere in guai troppo seri Nozomi.
Rin, leggermente sconnessa dal salto di argomento che non prevedeva alcun nesso logico, fece una smorfia disorientata quindi scrollò le spalle –Bene- rispose solo.
Ryan si accorse che Rin doveva essere di ottimo umore. Non che lo desse molto a vedere, in verità, ma fino a quel momento non gli aveva ancora inveito contro, minacciato di qualche macabra azione o cose del genere …
Nozomi si lasciò cadere sulla sedia accanto a quella di Ryan, imbronciata.
-Ah … - fu il brillante commento di Ryan.
Altro silenzio imbarazzante.
-Come stanno Komachi e Kurumi?- Domandò Rin, lisciandosi la maglietta con fare del tutto disinvolto.
-Meglio- mormorò Ryan in risposta, notando che la ragazza si portava spesso una mano alla tasca della felpa, come a voler confermare che il foglio all’interno fosse ancora lì.
-E tu, sfigato?- domandò lei, secca e diretta.
-S-sfigato?- fece Ryan, leggermente sconcertato dall’inatteso nomignolo scortese, mentre Nozomi scoppiava a ridere molto infidamente.
-Be’- borbottò lei –Non si può certo dire che ti abbia baciato la fortuna, ultimamente-
Touchè.
-Giusto- mormorò lui, impacciato –E’ solo che avrei preferito non sentirmelo dire così sadicamente-
Oh, incredibile. Aveva appena formulato una frase di senso compiuto.
Rin inarcò nuovamente le sopracciglia, quindi si lasciò sfuggire un mezzo sorrisetto divertito –D’accordo- disse –Mi piacerebbe molto rimanere ad assistere i vostri deliri psicopatici- fece, dipingendosi in viso una perfetta espressione mortificata, nonostante fosse palese che stesse fingendo giusto per canzonarli e schernire il loro comportamento bizzarro –ma ho una cosa molto importante da fare- concluse in tono di voce assorto, fremente come se non riuscisse ad aspettare.
I due la salutarono, mentre Rin si ritirava con il consueto cenno del capo.
E allora Ryan si concesse un lungo sospiro, sgonfiandosi come un palloncino.
Nozomi gli lanciò uno sguardo assassino –certo che sei proprio un infame-
-da che pulpito!- esclamò lui, scoppiando a ridere, subito seguito a ruota da Nozomi.
 
NOTE: Si, lo so, lo so, è un capitolo un tantino noioso, non c’è azione, e i personaggi sono pochi. Volevo semplicemente stringere un po’ i rapporti di Ryan che finora sono stati un tantino freddi.
Comunque colgo l’occasione per ringraziare i lettori della mia storia in particolare:
-Besidejustin
-sere99thehedgehog
-Mixxo98
-Laelia_
-LaylaThePirate
-Konan kohai
-Kissenlove
- Fnsrlieamhk
Che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite e che recensiscono i miei capitoli!
Grazie! (lo so, è la terza volta che faccio ringraziamenti come questi, ma, davvero, mi aiutate molto)
Drawandwrite. 

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Capitolo 28
*** Soddisfazione. ***


-Firma- fece Rin, secca e diretta, sbattendo un foglio spiegazzato sul petto del padre con fare infastidito.
Lui dapprima scattò indietro con il viso, colto alla sprovvista da quel gesto inatteso, poi lanciò uno sguardo severo alla figlia e posò il foglio sul tavolo.
-Scusa?- disse, in tono rigido e leggermente piccato per quella trasgressione verso la sua autorità.
Lei incrociò le braccia al petto con aria stizzita –Mi servono le firme di entrambi i genitori- sbottò con una passività gelida che le ghiacciava il viso –Firma- concluse ancora, riproponendo lo stesso tono irritato.
Il padre gli scoccò uno sguardo iracondo, l’irritazione dovuta alla mancanza di rispetto nei suoi confronti prese a sfociare sul suo viso, ammassandosi fra le rughe profonde della fronte e di contorno agli occhi, chiusi a fessura, puntati come armi fatali sulla figlia.
-Abbassa la cresta, signorina- esordì con fare minaccioso –Stai parlando con tuo padre-
Gli occhi di Rin lampeggiarono d’ira, percepì smuoversi il petto, poi un’ondata di rabbia accendersi come una scintilla non assopita nasce dalla cenere, minacciando un temibile falò.
-Padre?- sibilò a denti stretti, lo sguardo tagliente come la lama di un coltello –Davvero? Sai, non me ne ero resa conto- ringhiò, stringendo con forza i pugni, fino ad avvertire le stilettate di dolore giungere dalle unghie conficcate nella sua carne.
Lui prese fiato per cominciare una delle sue critiche infinite verso la sua personalità, la sua sbandata fuori dalla via giusta e argomenti vari che Rin non aveva assolutamente voglia di affrontare con l’uomo che si autodefiniva suo padre. Ma la ragazza, per una volta, non ci stava. Lui aveva deciso che non l’avrebbe ascoltata, qualsiasi cosa lei dicesse, nemmeno se avesse sfornato il miglior discorso strappalacrime degli ultimi due secoli, e allora lei gli avrebbe parlato solo con i fatti.
Aveva dichiarato guerra, e Rin avrebbe risposto.
-Leggilo!- ringhiò infatti, troncando di netto la futile iniziativa del padre.
Lui sgranò gli occhi, colmi di rimprovero e rabbia, quindi si tastò la tasca della camicia con insistenza, senza staccare lo sguardo sprezzante dal viso risentito di Rin. Sospirò per poi estrarre gli occhiali da vista, inforcarli e spingerli con irritazione sul setto nasale.
Alzò lievemente la testa per poter leggere più agevolmente, mentre Rin picchiettava nervosamente l’indice sul suo stesso braccio, persistendo con il suo atteggiamento indomabile.
-Insomma, si può sapere diamine sta …?- Sua madre fece irruzione nel salotto come un tornado, le vesti del lavoro ancora strette al corpo, il trucco leggermente sbavato e il viso stanco incorniciato disordinatamente dai capelli bruni, dominati solo da una  bandana si un rosa slavato, ristretta attorno alla nuca –Ah, Rin … - sospirò, passandosi una mano sul viso –cercate di non fare rumore, Yu ed Ai stanno cercando di leggere-
Oh, fantastico! Era forse il suo modo per salutarla molto affettuosamente e chiederle come stava, come ogni madre normale presente sulla faccia della terra?
Rin le lanciò un’occhiataccia irritata, quindi controllò di sottecchi la reazione del padre.
E, come si aspettava, il suo viso si illuminò.
-Vuoi davvero lavorare?- esclamò, gli occhi rilucenti di un balenio soddisfatto.
-Ti interesserebbe?- reagì lei, una smorfia rabbiosa sul volto.
-Cosa?- fece sua madre, accorrendo a leggere il permesso per essere assunta nel bar sulla strada principale, accanto a casa, di fronte alla pasticceria che Nozomi amava tanto.
Il padre le sorrise, bonario –Sapevo che avresti fatto la scelta giusta- commentò firmando al volo il permesso, senza pensarci due volte –Be’, avresti potuto trovare lavoro migliore di una semplice commessa. Ma confido perché presto prenderai il controllo dell’intero bar-
Ed ecco nuovamente quelle sue assurde manie megalomani. Non l’aveva mai voluta com’era adesso. Non aveva mai approvato la sua passione per lo sport, la sua vita era stata decisa e segnata dalla nascita, Rin era stata condannata ad una via fra le sbarre dal primo respiro che aveva tratto.
Sua madre la guardò con occhio indagatore per qualche secondo, perplessa e decisamente poco convinta da quell’improvvisa decisione della figlia. Infine, però, spronata con entusiasmo dal marito, acconsentì e firmò il permesso.
-Tesoro- fece in un sussurro, posandole una mano sulla spalla –Vuoi davvero lasciare lo sport?-
Rin respinse con violenza il gesto della madre –E chi ha parlato di abbandonare lo sport?- ringhiò, trattenendo a stento la rabbia che le divorava il petto come fiamme brucianti.
L’espressione del padre si spense all’istante –Puoi ripetere?-
Rin gli strappò il foglio dalle mani, lo piegò e se lo cacciò in tasca, tenendo alto lo sguardo grintoso di sfida –Esatto- lanciò un’occhiata all’orologio –E sarà meglio che mi sbrighi, arriverò in ritardo- Così dicendo afferrò frettolosamente la sacca da ginnastica, già preparata meticolosamente nei minimi dettagli, perché non le mancasse nulla durante l’allenamento, e si diresse all’uscio.
-Dove credi di andare?- tuonò il padre, furibondo, inchiodandola sul posto mentre un brivido freddo scalava la sua schiena.
Si voltò –In palestra- rispose con ovvietà, atteggiando spigliatezza e una glaciale inespressività piatta.
Il padre si strappò a forza una risatina di scherno, venata, però, di un certo nervosismo –Impossibile- stabilì –Io stesso ho interrotto il pagamento dei tuoi corsi sportivi-
La madre lo squadrò, esterrefatta –Che cos’hai fatto?- esclamò, gli occhi sgranati e il viso celato dietro una maschera di pura incredulità.
Oh, oh.
Un sottile sorriso crudo le si tagliò fra gli angoli della bocca.
E così non ne aveva parlato con Kazuya. E lei era troppo occupata con i gemelli perché potesse interferire nelle faccende di Rin, tantomeno si sarebbe mai interessata del rapporto fra la figlia e il padre, dei loro continui disaccordi, litigi, discussioni incessanti, e delle infide frecciatine scoccate da sempre sul suo corpo, mentre lei se ne rimaneva inerme, chinava il capo al’autorità del padre, e lasciava che l’astio le venisse rovesciato addosso. Perché era questo uno dei massimi valori in Giappone: La famiglia.
Ora, però, aveva scelto di reagire.
Non sarebbe più stata una chiocciola senza guscio.
Si sarebbe vestita della stessa ferocia di una tigre agguerrita.
Che questo potesse scrollare la madre dalla sua fissazione angosciante per i gemelli? Perché non le rivolgeva nemmeno una minima attenzione?
-So quello che hai fatto- Sibilò nuovamente Rin, con uno sguardo tanto tagliente da poterlo trafiggere di netto, da parte a parte –Ed è a questo che serve il mio nuovo lavoro- Così dicendo gli sventolò in viso il permesso, firmato in regola da entrambi i genitori, e uscì sbattendo con forza la porta.
 
Karen si scostò i capelli sul lato del collo, sistemandosi il colletto della camicia davanti alla vetrina di un negozio, tanto lucida da poter riflettere la sua immagine. Sorrise flebilmente, soddisfatta del suo portamento e si voltò, incamminandosi per la via principale che portava alla Natts House.
Voltò un angolo e, all’incrocio sul fondo della strada, scorse Rin, affiancata ad un semaforo, intenta a trucidare con lo sguardo ogni automobilista che non si fermava a lasciarle raggiungere l’altro lato della strada.
Sorrise e sollevò un braccio, agitandolo per farsi notare.
-Rin- urlò, notando che l’amica si era fatta prendere troppo dal suo passatempo sadico e non aveva occhi per altro. Lei sollevò lo sguardo, quindi le fece un lieve cenno del capo.
Quando finalmente riuscì a raggiungerla, notò che aveva dipinta in volto un’espressione beata, di pura soddisfazione, come se si stesse gustando appieno il retrogusto di una vittoria.
-Hai vinto una gara?- le chiese infatti, curiosa.
Lei inarcò le sopracciglia, perplessa –No- rispose, corrugando la fronte –Perché?-
Karen si strinse nelle spalle –Hai un’aria soddisfatta-
Rin sorrise, assorta nei propri pensieri, perdendosi con lo sguardo sulla punta delle sue scarpe da ginnastica –A dire la verità- Precisò in un mormorio –Una vittoria l’ho ottenuta- comunicò, un mezzo sorrisetto compiaciuto sulle labbra.
Karen inarcò le sopracciglia, osservandola con fare esitante e sconcertato.
Tra le due calò il silenzio, ma non un silenzio sgradevole, un silenzio che sapeva di complicità e che non voleva essere disturbato.
-Karen- disse infine Rin, indirizzandole un breve sguardo fuggevole –Dovrei occuparmi di una faccenda importante, ora- la informò, posandosi le mani sui fianchi e focalizzando la propria attenzione su un punto impreciso del margine della strada –Ti dispiace se … -
Lei si dipinse in viso l’ennesima espressione perplessa.
Alla fine si strinse nelle spalle decise di non fare domande: il comportamento di Rin in quel momento suggeriva che, nel caso avesse indagato, non avrebbe ottenuto nessuna risposta.
-Assolutamente- rispose, mostrando un sorriso composto e cordiale –A dopo-
 
Kurumi gemette, accasciandosi sul bancone della Natts House e portandosi il palmo alla tempia destra. Quel maledetto vortice si era rivelato decisamente difficile da sopprimere. Era tremendamente stanca, stanca nonostante le avessero riferito del sonno che l’aveva tenuta legata per un’intera giornata.
Sbuffò nuovamente, tartassata dal ritmo impietoso dettato dal pulsare regolare delle sue tempie. Il risveglio non era stato dei migliori, oltre ai dolori che le stringevano sterno e polmoni, si era aggiunta anche l’angoscia per Komachi, stesa sul fianco in un giaciglio improvvisato, di fronte a lei.
Fortunatamente anche lei aveva aperto gli occhi, quella stessa mattina, sebbene ora fosse ancora molto debole e in un grande stato confusionale. Be’, in fondo non doveva preoccuparsi, Ad “occuparsi di lei” c’era Natsu, e Kurumi non aveva nessuna intenzioni di interromperlo, sarebbe potuta piombare in un momento delicato ed inopportuno.
Sghignazzò per un po’, con aria beffarda, condividendo i propri pensieri con Urara, stranamente in orario, e Kokoda, al suo fianco, intendo a slogarsi la mascella per sbadigliare.
Dopo qualche istante giunse anche Ryan, scortato da Nozomi, la quale fece capolino nella sala portandosi un biscotto chiaro, tappezzato di granuli di cioccolato, alla bocca e confabulando qualcosa che sarebbe dovuto risultare come un saluto ma che, con le labbra ricolme di dolci, non si rivelò altro che un mugugno incomprensibile.
Subito dopo Nozomi rischiò di strozzarsi per l’ennesima volta, ma Ryan accorse in suo aiuto, tirando fuori il biscotto molesto con un energica pacca sulla schiena.
-Ah- fece Kokoda, lanciando loro uno sguardo critico –vedo che state diventando molto … intimi-
-Oh, oh- intervenne Kurumi con aria sorniona –cosa sentono le mie orecchie. Non saremo mica gelosi?-
Urara scoppiò a ridere fragorosamente, mentre Kokoda liquidava l’insinuazione piccante di Kurumi con un gesto noncurante.
Nozomi, una volta ripresa dalla morte per soffocamento, mostrò un gran sorrisone –Oh, ma non c’è nulla di cui preoccuparsi- esclamò, ammiccando scherzosamente a Kokoda che, suo malgrado, si ritrovò in una scomoda situazione di imbarazzo –Ryan è intoccabile-
Il biondo corrugò la fronte e le lanciò uno sguardo stranito, senza accorgersi che tutti i presenti, nella sala, avevano colto al volo l’allusione della ragazza.
-Infatti- li sorprese una voce –Lui è di proprietà di Rin- sorrise Karen, chiudendosi la porta alle spalle e indirizzando un sorriso scaltro a Ryan, il quale, rosso come un pomodoro, prese a confabulare delle proteste.
 
 
-Che assurdità!-esclamò Ryan, incrociando le braccia, mentre le guance gli andavano a fuoco.
-Quando glielo dirai?- chiese Urara con voce limpida e squillante.
Ryan alzò l’indice per ribattere e, magari, intimare loro di chiudere il becco, ma venne interrotto all’istante da Karen, la quale sembrava decisamente in vena di sarcasmo.
-Oh, suvvia- disse la ragazza, agitando una mano mentre si sedeva con grazia su una poltrona –Come potrebbe farlo, se ancora deve ammetterlo a se stesso?-
Gli altri scoppiarono a ridere, ma lei gli lanciò un’occhiata seria, che lo mise in seria difficoltà e l costrinse a distogliere lo sguardo.
-Ehi, Ryan!- esclamò Urara, facendo danzare i codini come molle –Guarda!- disse, lanciandogli un blocco per gli appunti completamente scribacchiato.
Lui lo afferrò al volo, quindi lanciò uno sguardo al primo figlio e, all’istante, reagì spalancando gli occhi e disegnandosi in viso una smorfia sfiorante il disgustato –Non si può vedere- esclamò, restituendole il blocco degli appunti che ritraeva lui nelle vesti di una Pretty Cure, con tanto di gonnellina sfavillante e ombelico al vento.
Quello di cui non si era accorto, era che Urara lo aveva ritratto nelle vesti d Cure Rouge.
 
NOTE: ehm, niente, volevo solo informare che fino a domenica ho degli impegni che non posso spostare, quindi per il prossimo capitolo vi toccherà aspettare qualche giorno di più! I’m sorry! 

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Capitolo 29
*** Sconosciuta. ***


Komachi sospirò pesantemente, passandosi una mano sulle palpebre sottili e tremanti, quindi si sostenne con i gomiti puntati sul banco e si sforzò di non sviare la sua mente dalla lezione di letteratura.
Era da una settimana piena che era riuscita a riemergere dallo stato di incoscienza.
E ancora non era riuscia a riafferrare al meglio i propri sensi. Le capitava spesso di ritrovarsi a toccare una foglia, sottile e fragile, e non riuscire a percepirne la freschezza e la consistenza, come se i polpastrelli le si fossero addormentati in un’anestesia inquietante. L’udito le giocava brutti scherzi; di tanto in tanto non registrava la voce di qualcuno, persino quella alta e tonante del professore. E ancora la vista: tappezzata di continuo con macchie scure minuscole ma terribilmente fastidiose, come piccole schegge che attraversavano il suo campo visivo indisturbate e che la inducevano futilmente a torturarsi gli occhi nel tentativo di liberarsene. Persino l’olfatto la tradiva, portandole odori sgradevoli, come di bruciato, alle narici, a cavallo del vento.
L’unico senso che, apparentemente, sembrava ancora in piena funzione era il gusto.
Ciò che preoccupava più Komachi, però, erano le forti mancanze che minavano alle capacità, compresa quella di parlare, scrivere, o addirittura il terrificante sforzo che era costretta a compiere per avere chiare le idee e per colmare improvvisi vuoti nella memoria.
Qualche volta, si era ritrovata nella terrificante posizione di non riuscire più a scrivere: aveva semplicemente posato la punta della penna sul foglio candido, le sue dita avevano preso a tremare e il foglio era stato segnato di soli scarabocchi confusi. Fortunatamente Natsu l’aveva aiutata non poco a recuperare appieno la sua capacità, e Komachi non aveva ancora smesso di ringraziarlo.
La campanella suonò, e lo squillo giunse terribilmente perforante alle orecchie della ragazza, la quale si portò medio e indice alla tempia, mentre tentava di celare la propria confusione nelle grinze del viso, mossa che non passò inosservata agli occhi attenti e calcolatori di Karen.
Le sfiorò il dorso della mano con le dita fresche, quindi le sorrise e le fece cenno di uscire dalla classe.
Komachi sorrise di rimando,  si rialzò e afferrò la propria cartelletta, aspettando con impazienza che il brusio stordente della folla scemasse.  
 
Kurumi spinse la pesante porta di vetro, una piccola campanella emise uno squillo attutito e cristallino ad informare della presenza di un nuovo cliente all’ingresso. La ragazza si passò un braccio attorno al collo e si scostò una ciocca di capelli, lasciandola ricadere sulla schiena in ricci scomposti. Si diresse al bancone e ordinò un tè freddo, rivolgendo un mezzo sorrisetto cordiale al commesso nonostante la sua palese fatica nel riafferrare piena lucidità.
Si diresse ad un tavolo sull’angolo e si lasciò cadere su una sedia morbida, sostenendo il capo con il palmo della mano. Sbuffò, quindi lanciò uno sguardo al menù e buttò un occhio fra le pagine ricoperte di una scrittura vivace, spinta dalla curiosità.
Stava giusto leggendo gli ingredienti di una bevanda dal titolo decisamente improponibile, quando udì una sedia spostarsi al suo fianco. Alzò uno sguardo e sorrise a Komachi, quindi fece segno a Karen di sedersi dall’altro lato.
La ragazza ubbidì –scusa il ritardo- mormorò strizzandole l’occhio con aria complice.
-Intendi per i miseri trenta secondi?- sorrise lei, tenendo gli occhi incollati alla quinta pagina del menù .
Komachi rise –credo che ordinerò una cioccolata calda- osservò, mentre un leggero brivido le percorreva la schiena –fa freddo-
Karen le lanciò uno sguardo preoccupato di sottecchi.
Kurumi riuscì a trattenere eventuali segni manifestanti angoscia o nervosismo: non aveva intenzione di infierire su Komachi. La temperatura non era affatto fredda, specialmente in quel bar, in cui l’aria condizionata era volutamente calda per rendere mite il clima.
Ad un tratto un tonfo secco la fece trasalire; Kurumi alzò gli occhi dal menù e incontrò uno sguardo cremisi che conosceva bene.
Sgranò gli occhi e si riempì di sorpresa.
Rin, di fronte a lei, infilata in una semplice divisa blu, che accoglieva il nome del bar stampato in bianche lettere cubitali sul petto, l’aria stanca e il viso stropicciato, posò pesantemente il bicchiere ricolmo di tè sul loro tavolo, indirizzando loro un lieve cenno di saluto.
-Rin!- esclamò Komachi, piacevolmente sorpresa –Che ci fai qui?-
Kurumi alzò le sopracciglia e le lanciò uno sguardo ironico. La situazione era abbastanza evidente.
-Ci lavora, suppongo- disse infatti, ostentando un atteggiamento naturale nonostante la presenza di Rin avesse sconcertato anche lei.
L’amica annuì con fare leggermente seccato –già- confermò, sbuffando leggermente.
-non dovresti essere al corso di tennis?- interloquì Karen, sistemandosi compostamente un tovagliolo sulle ginocchia e sbirciando il menù con fare attento.
Rin fece un vago gesto con la mano –Ora frequento i corsi serali- disse, per poi essere richiamata a gran voce da un commesso dietro il bancone –be’, ciao- tagliò corto, affrettandosi a soddisfare le varie ordinazioni.
Komachi scosse lievemente il capo –Si sfinirà- commentò, mentre una venatura angosciata segnava il tono della sua voce.
Karen scrollò le spalle –ha fatto la sua scelta- la difese –è pronta a pagarne le conseguenze-
Kurumi arricciò le labbra –Non credevo che la sua famiglia avesse bisogno persino del lavoro della figlia-
L’amica soppresse un sorrisetto enigmatico –non è per la famiglia che lo fa- rispose con ovvietà –è per lei-
-oh- fece Komachi, scoccando uno sguardo timido a Rin, la quale tentava uno slalom fra tavoli e sedie che non compromettesse l’equilibrio del vassoio, carico di bibite, che portava.
Kurumi, invece, trovò più curioso il disinteresse di Karen alle faccende dell’amica. Molto probabilmente avevano avuto un discorso che le aveva svelato l’utilità di quel lavoro, o semplicemente il suo intuito brillante le aveva permesso di inquadrare appieno la situazione.
 
Rin maledisse mentalmente quel dannato ragazzino che l’aveva tartassata tutto il pomeriggio per uno stupido gelato alla fragola che avevano esaurito. Non aveva fatto altro che lamentarsi, frignare, ancora lamentarsi e, dulcis in fundo, scoppiare a piangere come una fontana, strillando manco fosse una dannata scimmia urlatrice al momento del parto.
Infine era riuscita a sedarlo con un semplice gelato alla ciliegia, che prontamente aveva sparso ovunque, rinverniciando pareti e mattonelle del bar.
E così era stata costretta a trattenersi al bar per pulire quel putiferio, sfondando il suo turno di un quarto d’ora e, quindi, rischiando di arrivare tremendamente in ritardo ai corsi di basket.
Mentre correva a perdifiato per la discesa che portava alla fermata dell’autobus, tentò disperatamente di sciogliere il nodo che le stringeva la divisa da lavoro al collo e alla vita, dal momento che ,nell’esatto istante in cui l’ultimo granello zuccheroso di gelato era stato scrostato dal pavimento, si era letteralmente gettata fuori dal bar, ringraziando frettolosamente il datore di lavoro per il compenso anticipato che aveva chiesto al fine pagare il corso di basket, che altrimenti l’avrebbe esclusa per assenza di pagamento.
Imprecò più volte, mentre la sacca da ginnastica urtava incessantemente contro lo zaino che si portava al lavoro e mentre le ginocchia avevano a che fare con la cartelletta di scuola che non riusciva a tenere ferma durante quella folle corsa.
Riuscì a frenare l’autobus, già in procinto di saltare la fermata, giusto in tempo.
Una volta scesa davanti alla palestra della scuola, la corsa riprese più frenetica di prima, strappandole il fiato a colpi violenti e massacrandole le ginocchia con le innumerevoli borse e zaini che non facevano altro che sbatacchiare a destra e sinistra senza ordine.
Si lanciò sulla porta della palestra facendo trasalire visibilmente Haruka, seduta dietro una cattedra, al posto di ricevitore. La ragazza si portò una mano al petto e riprese a respirare.
-Rin!- esclamò con voce squillante –Credevo avessi intenzione di chiudere con questo corso-
-Scherzi?- la aggredì lei con una smorfia, tentando di riprendersi dall’enorme sforzo di quella corsa, e di dare il tempo alla sua milza di recuperare uno stato accettabile.
Le posò sul bancone dei soldi –sono per il mese scorso- ansimò.
Haruka annuì, addolcendo lo sguardo e sorridendole con fare quasi materno –va bene- mormorò, incassando i soldi e aprendole la porta che dava sulla palestra –sbrigati, hanno già terminato il riscaldamento-
Rin sospirò di sollievo –Grazie- esclamò, per poi sfrecciare agli spogliatogli.
 
Ryan si lanciò uno sguardo angosciato nei dintorni. Nozomi l’aveva lasciato in palestra, dal momento che avrebbe potuto contare sulla valida protezione di Rin, eventualmente, ma, per qualche strana ragione, la ragazza non si era ancora presentata.
Che fosse ammalata?
Un’ondata di angoscia lo aggredì.
Se Rin non c’era, lui era solo. Terribilmente esposto e indifeso. Nonostante la folla sostanziosa che si agitava attorno a lui, i suoi sensi percepivano un vuoto e una solitudine fredda che gli ghiacciava il sangue nelle vene.
Strinse con forza il pallone di basket fra le mani.
I suoi occhi tersi presero a guizzare inquieti fra la folla, terrificati da ciò che avrebbero potuto scorgere nel muro vario di gente che correva e chiacchierava indisturbata.
Incrociò uno paio di occhi scuri come la notte, ciglia lunghe, una cascata di capelli corvini e lisci fino alla vita, un corpo sinuoso e slanciato, l’espressione pacata ma terribilmente catturata.
Ryan ingioiò e percepì un brivido freddo cingergli il corpo, mentre si sforzava inutilmente di distogliere lo sguardo da quella donna, che lo osservava, ritta e rigida sugli spalti, nel mezzo della folla: una macchia scura e fredda come un’ombra nel mezzo di un mare caldo di colori.
-Stangone - una voce ferma e tagliente lo riportò con i piedi a terra. Si voltò, ritrovandosi a osservare il cremisi intenso degli occhi di Rin, incastonati in un viso serio ma non aggressivo, venati, però, di una spossatezza poco rassicurante. Il ragazzo non ci fece subito caso: non era mai stato tanto felice di vedere una persona in vita sua, e il pensiero di non essere più solo occupava ogni minimo angolo della sua mente, colmava gli spazi e lo rinfrancava di un calore che scioglieva il ghiaccio di quella donna.
-Rin -cominciò, correndole incontro come un bambino corre incontro alla madre per cercare protezione –Temevo che …-
-Chi è?- lo interruppe lei, lanciando uno sguardo diffidente alla donna sugli spalti.
Un brivido percorse la schiena di Ryan, mentre le viscere si rimescolavano in preda ad un terrore infondato.
-Non lo so- rispose sinceramente, tenendo lo sguardo fisso a terra: non ci teneva, ad incrociare nuovamente quello sguardo freddo, uno sguardo che gli dava la sensazione di essere una preda braccata.
Sensazione che, purtroppo, non gli era affatto nuova.
Per una frazione di secondo, la donna distolse lo sguardo da Ryan, dedicando la sua attenzione a Rin al suo fianco, e scambiando con lei un’ occhiata omicida.
Ryan giurò di poter scorgere scintille minacciare un esplosione di fuoco negli occhi affilati di Rin, mentre la donna porgeva scaglie appuntite di puro ghiaccio nel nero del suo sguardo.
Lei alzò il mento, tornando a fissare Ryan e, prima di uscire dalla palestra, Ryan fu sicuro di scorgere un ghigno agghiacciante disegnarsi sul suo volto.
Si accorse di avere il cuore in gola, mentre brividi rigidi gli squassavano ogni minimo muscolo del corpo.
-andiamo- fece Rin, senza staccare lo sguardo, animato di un fuoco vivo ancora bruciante, dagli spalti.
 
Nozomi entrò in palestra, sedendosi nell’atrio in attesa che Ryan e Rin uscissero dagli spogliatoi, per tornare a casa tutti insieme. Sospirò e si agguantò lo stomaco, il quale si lamentava a gran voce e richiedeva con insistenza di essere riempito. Erano le cinque di sera, non era ancora ora di cena, tuttavia per Nozomi qualsiasi ora del giorno poteva essere dedicata ad uno spuntino.
Sospirò e pregò perché quei due facessero in fretta a cambiarsi: stava morendo di fame!
Finalmente udì una porta aprirsi, quindi Rin fece la sua apparsa nell’ingresso e salutò Nozomi con sorriso stanco, sedendosi di fianco a lei.
Si passò una mano sul viso e sbuffò gettando la testa indietro e appoggiandosi allo schienale della sedia con fare spossato.
-Quanto ci mette?- si lamentò Nozomi –sto morendo di fame!- esclamò, ribadendo il concetto e lanciando fuggevoli sguardi impazienti al suo orologio da polso.
Improvvisamente Rin saltò su come una molla, un’espressione allarmata in volto.
-che c’è?- fece Nozomi, sconcertata.
Senza rispondere, Rin si alzò in tutta fretta ed entrò come un tornado in palestra, divorando il terreno a grandi passi.
Nozomi inarcò le sopracciglia con aria gradualmente più perplessa, quindi si alzò a sua volta e seguì Rin.
Ryan era nel corridoio degli spogliatoi, alle prese con una donna alta e slanciata. Aveva un fisico asciutto, morbido e sottile, i lineamenti quasi serpeggianti, uno sguardo provocante e portava un vestito nero, aderente e stretto alla vita, che metteva in risalto le sue curve generose.
Le due piombarono al principio del discorso, dal momento che la donna si stava giusto presentando.
Tese la mano a Ryan, il quale trasalì, visibilmente teso e a disagio dalla presenza della sconosciuta.
Lei gli indirizzò un sorriso spudorato e uno sguardo sottile –…Sono responsabile di una famosa squadra di basket in occidente, nonché celebre allenatrice di alti livelli- si introdusse con voce bassa e vellutata, porgendo a Ryan quelle sue ciglia kilometriche –Ho notato l’abilità che mostri in campo e … -
-Non ha bisogno di un’allenatrice- ringhiò Rin, afferrando il polso di Ryan, il quale era in procinto di stringere timidamente la mano della donna, e perforandola con uno degli sguardi più taglienti che Nozomi avesse mai avuto l’occasione di scorgere sul viso dell’amica.
La donna ritirò la mano e la squadrò con altezzosità, sostituendo il suo comportamento affabile con una ferma durezza fredda –con chi ho il piacere di parlare?-
Rin mise una mano sul petto di Ryan e lo indusse ad indietreggiare, quindi si frappose fra i due, inchiodandosi a scudo per il ragazzo –potrei farti la stessa domanda- sibilò, acida.
Un balenio d’ira accese gli occhi della donna e, per una frazione di secondo, parve perdere il fascino e la bellezza inquietante che esponeva, rovinando il suo viso liscio e vellutato con grinze rabbiose.
In un battito di ciglia, il volto della donna tornò impassibile, il comportamento composto e un sottile sorriso irritante tirò le sue labbra carnose –Oh- si portò una mano al mento con eleganza –Devi essere l’allenatrice- Dedusse con sguardo sveglio.
-No- rispose lei piccata e ferita nell’orgoglio.
Nozomi sapeva quanto avesse desiderato avere una parte nel corpo preparatorio di basket, o di qualsiasi altro sport.
La donna si esibì in una perfetta espressione sorpresa –Bene- disse allora, inarcando le sopracciglia e cercando lo sguardo di Ryan, il quale, rifugiato dietro la schiena di Rin, aveva seguito la conversazione senza fiatare –Allora immagino che niente possa impedirmi di fare una proposta al ragazzo- continuò in tono tagliente, ammiccando al biondo, che in quel momento avrebbe preferito essere sospeso sulla città come la settimana prima piuttosto che essere spettatore di quella discussione imbarazzante.
-E’ già a livelli professionali- protestò Rin a denti stretti, mantenendo la calma a stento –non ha bisogno di te- sillabò, scandendo bene le parole, una per una.
La donna fece una smorfia piccata e lanciò uno sguardo omicida a Rin, quindi esibì un sorriso, ostentando pacatezza e serenità –Come vuoi- rispose facendo spallucce –in ogni caso io sono convinta che la decisione spetti a lui- lanciò l’ultimo sguardo d’intesa a Ryan, quindi voltò loro la schiena e uscì sul retro. 

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Capitolo 30
*** Passo avanti. ***


-Ahia!- Ryan riemerse dal torpore del sonno con una sgradevole fitta lancinante alla schiena, mentre una scomoda sensazione di soffocamento gli stringeva i polmoni. Man mano che la sua mente riafferrava lucidità e usciva dal buio rassicurante dei suoi sogni, il suo corpo riacquistava sensibilità e gli lanciava segnali sgradevoli alla zona lombare.
Ryan si passò una mano agli occhi, tentando di dissipare il velo appannato del sonno che gli opacizzava la vista, e fece per issarsi a sedere, ma nuovamente un peso sulla schiena lo costrinse prono sul morbido materasso della Natts House.
Chi era il genio che gli si era acciambellato sulla schiena mentre, per la prima volta nel’arco di un mese, riusciva a chiudere occhio senza trasalire per incubi agghiaccianti?
D’un tratto nel suo campo visivo prese ad affiorare una sagoma indistinta che, gradualmente, prese a chiudersi in lineamenti familiari, seguendo il pigro ritmo di ripresa dei sensi di Ryan.
Due lunghi codini dorati rimbalzarono come molle a solleticargli il viso, e due occhi accesi di una luce aurea si colmarono di allegria, incastonati in un viso disteso e vivace.
Ryan si  ritrovò a fissare il viso di Urara al contrario, dal momento che la ragazza sembrava preferire fermamente puntare le sue ginocchia acuminate nella schiena del ragazzo e calarsi davanti al suo viso a testa in giù, piuttosto che scuoterlo o, al limite, svegliarlo a voce, come ogni persona normale avrebbe fatto.
Ma se c’era una cosa che Ryan aveva imparato a non sottovalutare, era Urara. Dietro quel sorrisetto vivace e l’espressione angelica il ragazzo non dubitava che vi si nascondesse una guerriera temeraria e una volontà ferrea invidiabile. E nemmeno una persona normale, per la precisione.
-Buongiorno!- esclamò lei con voce squillante, perforando i poveri timpani di Ryan che ancora dovevano riprendersi dalla quiete del sonno.
In tutta risposta il ragazzo non poté fare a meno di inarcare un sopracciglio con aria ironica, bofonchiando qualcosa che giunse soffocato dal cuscino sotto il suo capo.
Urara scomparve dal suo campo visivo e si risistemò sulla schiena, lasciandosi cadere pesantemente sul dorso di Ryan che reagì irrigidendosi e schizzando fuori dal torpore con una smorfia dolorante e un gridolino omicida.
-Finalmente ti sei svegliato- continuò lei imperterrita, con aria del tutto disinvolta, come se massacrare la schiena di un povero innocente in quel modo fosse la prima cosa da fare la mattina dopo la colazione.
-Urara- fece lui con voce soffocata, schiacciata dal suo peso che, nonostante fosse una ragazza esile e non troppo slanciata, si faceva sentire, concentrato su solo due vertebre –potresti scendere dalla mia schiena?- concluse in tono sofferente.
Ci fu un attimo di silenzio in cui Ryan sperò che la ragazza stesse pensando all’ipotesi di trovarsi una poltrona e pregò perché non si fosse addormentata in quella posizione scomoda.
-No- rispose lei d’un tratto, con tono pacato e assolutamente pacifico –te lo meriti-
-Cosa?- sbottò Ryan, issandosi sui gomiti per tentare di intercettare il suo sguardo –Che ti ho fatto?- Esclamò con una venatura disperata nella voce.
La sentì agitarsi sulla sua schiena,cosa che non fu propriamente gradevole, quindi la udì sfogliare qualcosa, infine gli fu sbattuto in volto un blocco per gli appunti –Guarda- ordinò con una voce che suggeriva l’espressione imbronciata della bionda.
Ryan sospirò, prese il blocco e, una volta messo a fuoco il segno della graffite sul bianco del foglio, inorridì con una smorfia –L’ho già visto- bofonchiò porgendo nuovamente i fogli che lo ritraevano in vesti da Pretty Cure alla ragazza la quale, nonostante ciò, si rifiutò di riprenderli.
-Non lo hai guardato bene- Esclamò Urara con naturalezza.
Il viso di Ryan venne attraversato da un mezzo sorrisetto sarcastico –per forza- si giustificò –è inguardabile-
Urara gli assestò un colpo nel mezzo delle scapole e Ryan fu sicuro di vedersi schizzare fuori dalla gabbia toracica una costola –Ahia!- si lamentò ancora, crollando sul materasso.
-Oh, avanti- insisté lei –non noti niente di particolare?-
Ryan corrugò la fronte –la gonnellina non lo è già a sufficienza?-
Un altro colpo. Questa volta alla nuca.
-Quanto sei egocentrico- sbuffò la ragazza, inducendolo ad alzare entrambe le sopracciglia con aria sconcertata –Osserva il vestito,non il soggetto!- ordinò nuovamente, ostentando una voce spazientita che, nonostante tutto, giunse terribilmente divertita alle orecchie di Ryan.
Lui obbedì scuotendo la testa con un sorrisetto sfiorante l’incredulo.
-Oh- fece improvvisamente, mentre qualsiasi segno di espressività moriva sul suo viso per lasciare il posto ad un rossore acceso.
Urara lo aveva ritratto nelle vesti di Cure Rouge. E lui se ne era accorto solo ora, spronato a forza dall’autrice. Forse avrebbe dovuto chiedere una visita oculistica.
-Scommetto che sei arrossito- lo canzonò Urara  che, nonostante non potesse vederlo, ci aveva azzeccato in pieno.
-Piantala- rispose lui con voce impassibile, sebbene un lievissimo tremito nella voce lasciasse trapelare una certa emozione enigmatica.
Ryan cominciò ad avvertire un caldo terrificante allungare le sue braccia sul collo per poi raggiungere il viso e concentrarsi sulle guance, quindi lasciò cadere il capo sul cuscino, sprofondando nello strato morbido e profumato, all’estrema ricerca di un nascondiglio che occultasse il suo imbarazzo agli occhi invadenti di Urara.
La ragazza sbuffò –Per quanto ancora hai intenzione di negarlo?-
-Negare cosa?- rispose lui, soffocando le parole nel cuscino sottostante.
Urara ammutolì per qualche secondo, arco di tempo che a Ryan parve infinito, dal momento che la ragazza si era rivelata decisamente imprevedibile e, quindi, avrebbe potuto tranquillamente massacrargli la schiena da un momento all’altro, per ripicca alle sue risposte vaghe e disinteressate.
-Sei un pessimo attore- riprese lei dopo un minuto di tensione piena.
Ryan non rispose.
Sprofondò maggiormente il viso nel suo cuscino, sperando che la ragazza si stufasse di avere a che fare con una mummia come lui, nonostante l’ilarità stesse cominciando ad afferrargli gli angoli della bocca e a trascinarli verso l’altro.
Non ne conosceva appieno il motivo, ma Urara, qualsiasi cosa facesse, aveva la capacità di farlo piegare in due dalle risate.
-E hai paura di affrontare l’argomento, per giunta- continuò lei, stuzzicandogli una spalla con l’indice e torturandolo con insistenza.
-Non ho “paura”- protestò lui, piccato nell’orgoglio –E’ solo che non vedo il motivo per cui dovrei affrontarlo-
Urara scese dal dorso del ragazzo con un espressione poco rassicurante dipinta in volto –Ryan ha paura- e prese a saltellargli attorno intonando una canzoncina assolutamente improponibile e schernendo incessantemente la sua mancanza di audacia.
Ryan sollevò il capo per lanciargli uno sguardo compassionevole, quindi scosse la testa e si passò una mano sul viso, accomodandosi su un fianco e voltandole le spalle.
Il ragazzo, però, non aveva fatto i conti con la determinazione di Urara: sarebbe rimasta strimpellare per altri tre secoli, rovinando il suo udito e ogni lontana possibilità di scivolare nuovamente in un sonno rinfrancante, se Karen non avesse fatto irruzione nella stanza con espressione severa.
-Abbassate la voce- ordinò in tono imperioso –Stiamo cercando di ascoltare la TV-
E, dopo aver ghiacciato con lo sguardo i due ragazzi, i quali ammutolirono all’istante e farfugliarono delle scuse, tornò al piano di sotto, lasciando nella sala uno strascico di silenzio assordante in cui i suoi passi sui gradini delle scale echeggiavano fragorosi.
Urara si assicurò che la porta al piano di sotto cigolasse e si serrasse con un tonfo, quindi lanciò a Ryan uno sguardo malizioso e prese fiato.
-D’accordo!- esclamò il ragazzo, al limite della sopportazione umana. Si mise a sedere sul materasso, tenendo sotto severo controllo la ragazza perché non riprendesse a torturarlo –Affrontiamo l’argomento- sospirò, passandosi le dita fra i capelli rilucenti di luce platino.
Urara si disegnò in volto un sorrisetto compiaciuto –Perfetto- esclamò , pacifica, sedendosi a terra di fronte a lui –a te la parola-
Ryan alzò gli occhi al cielo: la situazione si stava facendo decisamente scomoda e oltremodo imbarazzante.
-Ehm … -iniziò, mentre il cuore cominciava a martellargli il petto con insistenza.
Prese fiato per parlare, aprì la bocca, poi la richiuse e sbuffò.
Niente da fare, non ci riusciva. Dannazione, ogni minima volta in cui i suoi pensieri si divincolavano dalla presa fredda della sua mente e si indirizzavano a Rin, lui si ritraeva e non riusciva a pensare lucidamente, non si trovava pronto ad approfondire l’argomento né a parlarne minimamente.
Eppure, ultimamente ci aveva provato. Aveva tentato un approccio con se stesso e, sebbene i risultati si fossero rilevati scarsi, un terribile dubbio aveva preso ad insinuarsi nella sua consapevolezza.
E se Karen avesse ragione?
Se davvero lui …
Ecco, lo aveva fatto di nuovo. Come poteva capire qualcosa di sé se ogni volta che ci provava si ritrovava di fronte una fitta trama di emozioni in tumulto?
Con un verso esasperato si lasciò ricadere sul materasso, il viso vistosamente decorato da un rossore timido e un anonima confusione vorticante nel capo.
Un’improvvisa gomitata al costato lo riportò con i piedi per terra, infondendogli una stilettata di dolore lancinante.
-Che c’è?- Esclamò, irritato dalla sua difficoltà piuttosto palese.
-Avanti- sbuffò Urara con un sorriso mezzo divertito –O preferisci che torni a cantare?-
Improvvisamente una via di fuga illuminò la mente di Ryan come un fulmine a ciel sereno. Forse sarebbe riuscito a svincolare da quel discorso, e avrebbe avuto più tempo per pensarci e capire cosa diavolo gli stesse succedendo.
Si rizzò nuovamente a sedere e lanciò uno sguardo scaltro ad Urara –Che mi dici di Syrup?-
La ragazza inarcò le sopracciglia, sgranò gli occhi e arrossì all’istante, agitandosi sui suoi stessi polpacci –Non stiamo parlando di lui- stabilì corrugando la fronte e fulminandolo con lo sguardo.
-“Scommetto che sei arrossita”- disse lui, imitando la sua vocina squillante e dotandola di una venatura petulante.
Urara gli scoccò un’occhiataccia risentita, quindi sorrise e scosse il capo con esasperazione, scoppiando a ridere, irrimediabilmente seguita da Ryan.
-Va bene- rise lei, prendendo fiato fra uno scoppio d’ilarità e l’altra –Mi piace Syrup- Ammise con calma, senza agitarsi.
Ryan ci rimase di stucco –cosa?- fece, spalancando la bocca con incredulità.
Come ci era riuscita con tanta facilità? Si sentiva un debole, un impedito, un assoluto incapace. Perché lui non ne era in grado?
Urara gli sorrise si rialzò –E’ facile- disse, stringendosi nelle spalle e indovinando al volo i suoi pensieri intimi –Devi solo avere il coraggio di rispondere alle tue domande con sincerità- Detto questo, prese il suo blocco per gli appunti, si infilò le scarpe e scese le scale.
Ryan rimase seduto per qualche secondo, il respiro pietrificato nei polmoni e i pensieri in subbuglio. Aveva un sacco di domande e poche risposte. Si morse il labbro e corrugò la fronte, tentando di dare un nome alle sue sensazioni.
Improvvisamente si alzò aprì la porta e percorse in fretta le scale, finché non raggiunse Urara, in procinto di aprire la porta per il piano sottostante.
-Urara-  la chiamò, appoggiandosi al muro per riprendere fiato. Lei si voltò, le sopracciglia inarcate e lo sguardo interrogativo.
Ryan ingoiò raddrizzò le spalle e prese un grande respiro.
-Rin mi piace- Mormorò, arrossendo all’istante.
In un secondo, percepì una sensazione di leggerezza, come se si fosse sbarazzato di un enorme peso che giaceva sul suo petto da tempo.
Urara si sciolse in un grande sorrisone –complimenti- disse –hai fatto un passo avanti- 

NOTE: perdonate eventuali errori mna l'ho scritto molto frettolosamente! 

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Capitolo 31
*** Odio. ***


Nozomi si raccolse una ciocca di capelli sulla destra e la fermò con una molletta piccola ma appariscente, quindi si passò la spazzola sulla nuca, sciogliendo i nodi più ostinati, e strinse i soliti elastici ai lati del capo nei consueti codini.
Osservò il suo riflesso allo specchio e, quando fu soddisfatta della sua immagine, uscì in salotto, trovando ad aspettarla sua madre, rigida e severa, che le porgeva un toast per colazione e il suo cestino del pranzo, avviluppato in un panno rosa con piccole decorazioni dorate.
Nozomi le rivolse un sorrisone innocente prima di accorgersi di essere in un ritardo mostruoso, quindi cacciò un'esclamazione squillante, strappò colazione e pranzo dalle mani della madre e si precipitò di corsa alla fermata del pullman.
 
Ryan si schiarì la voce con disagio, lasciando scivolare lentamente il suo sguardo sul profilo di Rin, al suo fianco, salda e seria in attesa del pullman. Non appena l’aveva visto gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, scoccando sguardi diffidenti nei dintorni, ma subito dopo si era chiusa nel consueto guscio acuminato che respingeva ogni curiosità invadente.
Da quando era riuscito a rispondere con sincerità alla propria domanda intima, l’umore di Ryan era notevolmente migliorato, ma il suo rapporto con Rin si era, se possibile, irrigidito maggiormente, dal momento che lei sembrava non tener conto di lui e preferiva costantemente stare sulle sue.
Rin era una figura enigmatica e, forse, anche un tantino ambigua. Ryan faticava a cogliere ciò che le passava per la testa, e instaurare un discorso sciolto e disinvolto con lei era possibile solo in caso la ragazza reputasse l’interlocutore degno della sua piena fiducia. E, dal momento che per poco Rin non si era ammazzata per tenere fuori dai guai un inetto come lui, Ryan non era molto convinto di poterci parlare senza intoppi, considerata anche la sua evidente agitazione.
Il pullman comparve dalla curva sull’angolo, percorrendo l’ultimo tratto di strada con lento incedere e sbuffando aria calda e maleodorante. Rin fece per salire sul pullman ma, per un secondo, esitò, lanciando uno sguardo, venato di una certa angoscia, sul fondo della strada opposta. Ryan la imitò, corrugando la fronte, e si accorse solo in quell’istante dell’assenza di Nozomi. Confuso com’era dalla compagnia di Rin, i suoi pensieri erano stati nettamente deviati, e il ragazzo si era interamente scordato di essere una facile preda per qualsiasi demone si stesse aggirando nei paraggi e che, quindi, fosse bisognoso di una scorta. Era Nozomi a doversi occupare di ciò, ma quella mattina non si era presentata.
Rin scrollò le spalle, si voltò verso Ryan e gli fece cenno di salire.
Il ragazzo tirò un angolo della bocca in una smorfia angosciata, percorrendo il corridoio del pullman alla ricerca di un posto vuoto per potersi sedere. Nella sua mente sfrecciavano, freddi e taglienti, pensieri angosciosi; piccoli atti di vita quotidiana che riusciva a godersi solo grazie alla rassicurante presenza di Nozomi, che lo spalleggiava in qualsiasi situazione e lo teneva fuori dai guai peggiori. Ora si sentiva davvero un bambino incapace di badare a se stesso, solo e sperduto, in cerca di un affetto materno dietro cui nascondersi o proteggersi. Persino entrare in classe, in quel momento, gli pareva una prospettiva pericolosa, senza il saldo appoggio della compagna. Si sentiva indifeso, abbandonato ad affrontare qualcosa di troppo grande per le sue possibilità.
Si sedette su un sedile, sospirando e appoggiando una spalla rigida sul vetro freddo del Pullman. Smarrì lo sguardo al di là del finestrino e si mordicchiò l’interno della guancia con insistenza, giocherellando nervosamente con una ciocca candida di capelli.
Con la coda dell’occhio colse, indistinta e confusa, una sagoma occupare il sedile accanto al suo e, aggredito dall’angoscia, si voltò con occhio diffidente.
Rin gli lanciò uno sguardo perplesso –che c’è?- se ne uscì, il tono di voce aspro, stringendosi nelle spalle.
Ryan percepì ogni pensiero e sensazione negativa sciogliersi lentamente come ghiaccio al sole, e trovò impossibile sopprimere un sorriso, prima di avvertire il caratteristico battito del cuore pompare il sangue nelle vene ad un ritmo impazzito, mentre le guance si scaldavano gradualmente.
Ora Rin era al suo fianco. E, nonostante il suo carattere ombroso e apparentemente indisposto nei confronti di chiunque, Ryan non dubitava della sua forza e nemmeno del fatto che fosse in grado di proteggerlo da qualsiasi possibile nemico.
-Niente- rispose in un soffio, riempiendosi lo sguardo di gratitudine e voltando il viso per non dare troppo a vedere il rossore evidente che lo tingeva da capo a piedi.
 
Urara si lasciò cadere sulla sedia della mensa, stanca sotto le pesanti ore di scuola che la piegavano sul banco e stanca di scorgere la luce bluastra che celava uno strappo oscuro, in lontananza, monito di una tenebra che non potevano contrastare. Solo gli occhi delle Pretty Cure erano in grado di scorgerlo tra il sottile velo ingannevole che separava nettamente la loro vita dall’umanità. E la sensazione che presto il portale avrebbe potuto ingigantirsi a tal punto da ingoiare l’intero pianeta era agghiacciante, senza contare l’impotenza che la schiacciava, la soffocava nonostante lei tentasse in tutti i modi di occultare quanto, in realtà, l’intera faccenda le stesse a cuore e la stesse sconfortando.
Karen le si sedette affianco e seguì il suo guardo, calando leggermente le palpebre sugli occhi blu calcolatori e sospirando lievemente. La ragazza prese a punzecchiare ciò che aveva nel piatto con fare distaccato.
-Ciao- la salutò Urara forzando un sorriso degno da lei.
In tutta risposta Karen le indirizzò un sorrisetto mesto e si portò alle labbra una foglia di insalata ben condita.
Kurumi e Rin giunsero insieme, parlottando fra loro con fare assorto, facendosi assorbire appieno dal loro discorso al punto di non salutare nemmeno, nel momento in cui posarono i loro vassoi sul tavolo comune.
-Pensi davvero che sia possibile?- Stava mormorando Kurumi a sguardo basso e fronte corrugata, mentre Rin al suo fianco sospirava e scrollava le spalle con espressione seria, levigata, come se nessuna emozione potesse crepare quella maschera impassibile che le si era posata sul viso –Non lo so. Penso solo che sia troppo presto per perdere la speranza- Rispose sedendosi accanto a Karen.
Urara inclinò leggermente il capo, squadrando le due amiche con curiosità e scambiandosi uno sguardo interrogativo con Karen, la quale, nonostante tutto, non sembrava particolarmente interessata al discorso, e pareva avere la testa altrove, o semplicemente pareva avere faccende più impellenti a cui pensare.
Fu allora che, tra il muro di folla che aspettava di essere servito, comparve Nozomi, completamente spettinata, stretta in una camicia che sfoggiava una macchia di caffè molto chic, sfiatata del respiro e interamente scompigliata, a partire dall’aspetto, leggermente trasandato, fino all’espressione, coperta in un fitto intreccio di angoscia e affanno.
Appoggiò i palmi sul tavolo e si sostenne per prendere fiato, lanciando un’occhiata fuggevole a Rin, di fronte a lei, che la squadrava con severità.
-Dov’è Ryan?- mormorò con un sorrisetto innocente.
Rin parve incenerirla con lo sguardo –In biblioteca con Komachi e Natsu- rispose a denti stretti.
Ci fu un attimo di silenzio in cui la tensione fra le due si faceva più densa ed elettrica.
-Rin mi dispiace- esclamò infine Nozomi –La sveglia non è suonata, ero in ritardo, ho corso fino a …-
-Non mi interessa!- Ringhiò Rin, sovrastando le giustificazioni dell’amica –Nozomi, hai un compito, dannazione. Se non avessi preso il pullman con Ryan, sarebbe rimasto incustodito-
L’amica congiunse le mani e sfoggiò la miglior espressione dispiaciuta –Non succederà più, lo giuro!- piagnucolò –Mi dispiace-
Rin le scoccò l’ultimo sguardo di fuoco, quindi fece un gesto di noncuranza con la mano e prese a divorare le pietanze nel suo vassoio –D’accordo- sibilò solo –Ma tienilo d’occhio. Ultimamente è più braccato di quanto non lo fosse già-
-Che vuoi dire?- Esclamò Urara, in tono allarmato.
Rin sospirò –l’altro giorno, in palestra …-
-oh, andiamo!- interloquì Nozomi, che nel frattempo le si era accomodata di fianco –Intendi forse l’allenatrice che ci provava spudoratamente con Ryan?-
L’amica alzò un sopracciglio e la guardò come si guarda il libretto delle istruzioni tedesco di un televisore nuovo –proprio lei- rispose, impassibile –Quella donna ha qualcosa che non va-
-Oh- fece Urara, alla ricerca disperata di un argomento che non infierisse sul proprio morale già a terra, ma che fornisse risate e allegria almeno alle proprie compagne –Non sarai gelosa?-
Rin ingoiò il boccone e corrugò la fronte con aria confusa –Gelosa di cosa?-
Cielo, quando voleva Rin sapeva essere terribilmente ottusa.
-Di Ryan- rispose Karen con pazienza, posando forchetta e coltello e appoggiando il mento sul dorso della mano. Il discorso pareva aver attirato la propria attenzione al punto di spingerla ad intervenire.
Rin inarcò le sopracciglia e le scoccò un’occhiataccia quasi compassionevole –Sto parlando seriamente- sillabò –Quella donna mi preoccupa non poco-
-Si- rise Nozomi –Anche a me. Soprattutto mi preoccupa quel vestito attillato che si portava addosso e, se mi è concesso dirlo, anche quell’enorme davanzale che … -
-D’accordo- la interruppe Kurumi alzando una mano –Abbiamo afferrato il concetto- Disse, onde evitare che una descrizione decisamente poco opportuna uscisse dalle labbra di Nozomi.
-Piantala!- ringhiò lei –dico sul serio-
Il viso di Urara fu attraversato da un leggero sorrisetto ironico. Forse per Ryan c’era qualche speranza. Rin si mostrava terribilmente protettiva nei suoi confronti e, a quanto pare, anche un pizzico di gelosia la irritava.
-Quindi hai paura che questa allenatrice bellissima ti soffi Ryan da sotto il naso?- Fece con candore, appioppando alla frase due significati contrastanti che avevano come bivio la doppia vita di Rin.
La ragazza la trucidò con lo sguardo, mentre la maschera impassibile si crepava e si sgretolava sotto l’ira bruciante –Grazie tante per la comprensione- sibilò a denti stretti, gettando il proprio vassoio nel cestino con rabbia e svanendo a grandi falcate.
Urara ci rimase di stucco; la bocca le si aprì senza che lei potesse evitarlo e un’espressione inebetita le calò sul viso.
Karen le sfiorò una mano –Non preoccuparti. Non è colpa tua-
-Non volevo- sussurrò Urara, terribilmente pentita di quanto detto.
Kurumi si sostenne sui gomiti –Mi domando cosa le prenda. E’ così intrattabile e nervosa, ultimamente-
Nozomi si strinse nelle spalle e sospirò –Purtroppo non ne vuole parlare-
 
Rin strinse con forza i denti, sopprimendo il forte istinto di gridare contro il mondo. Nessuno la prendeva sul serio: non i suoi genitori, né le sue amiche. Perché si sentiva così terribilmente estranea?
Si sedette pesantemente al suo posto in classe, tamburellando con insistenza le dita sulla superficie fredda e liscia del banco.
Lanciò uno sguardo al di fuori della finestra, dove il portale attendeva i suoi occhi, freddo e immobile, quasi beffardo, sospeso in cielo a divorare il Giappone.
Sospirò e si morse un labbro.
La campanella suonò.
 
Ryan uscì da scuola affiancato da Nozomi. Era rimasto sinceramente sorpreso dall’improvvisa comparsa dell’amica: quella mattina era assente. Probabilmente doveva aver perso il pullman.
Insieme attesero che le compagne uscissero dalle rispettiva classi e, quando il gruppo fu al completo, si avviarono verso la fermata del pullman.
-Oggi ci troviamo alle cinque alla Natts House- annunciò Kurumi, intrecciando il laccio della sua cartelletta attorno al medio e all’indice.
-Non posso- fece Rin con aria distaccata –Devo lavorare-
Ryan le lanciò uno sguardo perplesso. Non sapeva che lavorasse, oltre che ammazzarsi di palestra, occuparsi di tenere sufficiente la media scolastica ed evitare che eventuali demoni facessero qualche vittima.
Era davvero una ragazza fantastica, dai molto talenti e colma di una passione incrollabile.
Eppure in quel momento sembrava spenta, come se il suo fuoco interiore si fosse ridotto ad un flebile fiammella, pericolosamente soggetta a folate di vento che avrebbero potuto soffocarla da un momento all’altro.
Era taciturna, distaccata, nervosa.
-Be’ mi dispiace - rispose Kurumi, leggermente stizzita –Ti farai riferire ciò che si deciderà-
Rin annuì soltanto, prima di chiudersi in un silenzio ostinato che contagiò immediatamente Ryan, il quale era divorato dalla preoccupazione nei suoi confronti e non riusciva a darsi pace per il comportamento tormentato della ragazza.
Avrebbe voluto aiutarla, ma non sapeva come.
Salirono sul pullman, si disposero in vari posti. Rin scese ad una delle prime fermate, dal momento che, in tal modo, le sarebbe risultato più agevole raggiungere il bar in cui lavorava.
Con sua grande sorpresa, la ragazza lo salutò con un lieve del capo, prima di essere celata dalle porte del pullman. Quel gesto, sebbene piccolo e apparentemente insignificante, lo riempì di gioia.
 
Karen lanciò uno sguardo di sottecchi a Kurumi, seduta nel posto davanti al suo, immersa in una lettura di storia dell’arte. Si sporse in avanti, fino ad appoggiare il mento fra l’incavo dei due sedili di fronte e chiamò la compagna in un sussurro.
-Parlavi sul serio?- mormorò, lisciandosi ossessivamente una ciocca di capelli setosa che le ricadeva come un rivolo d’acqua sulla spalla.
Kurumi si voltò e corrugò le sopracciglia con aria confusa –quando?-
-Prima- Karen sospirò –escluderai Rin dal gruppo?-
L’amica fece un gesto seccato con la mano, mentre un’espressione leggermente irritata si faceva strada sul suo viso –ovvio- rispose, asciutta –Non trova il tempo per noi. Non trova il tempo per il Giappone-
-Ma è una di noi- protestò Karen con veemenza –Non puoi lasciarla indietro- sibilo, risentita e leggermente ferita da quella decisione così superficiale.
Kurumi si voltò a guardarla con espressione seria e ostinatezza incontrastata –Karen- disse, conficcando lo sguardo nei suoi occhi profondi –Quanto sei disposta a lasciare indietro per la salvezza umana?-
Quella verità, pronunciata con tanta enfasi e serietà, senza mezzi termini o veli ad attutire le ferite che poteva aprire, la colpì con la forza di uno schiaffo in pieno viso.
Schiuse leggermente le labbra, quindi si zittì e si abbandonò allo schienale del sedile, chiudendo il discorso con un cenno permissivo.
 
Rin si passò una mano sul viso, mordendosi il labbro inferiore fino a percepire il sapore metallico del sangue pungerle la lingua. Si appoggiò al bancone del bar, mentre la voce tonante del datore di lavoro le riempiva i timpani e le colmava la mente, smuovendo scintille d’ira che a fatica riusciva a reprimere. Tuttavia sapeva di doverlo fare, o la sua rabbia e il suo orgoglio l’avrebbero cacciata in un guaio serio, non che finora non lo fosse, data la storia del portale, ma quello di cui non aveva bisogno era sicuramente una ramanzina da parte del  padre che non avrebbe esitato a rinfacciarle di essere un’inetta, infantile e ancora indirizzata a sogni e passioni inutili.
-E’ la terza volta in una settimana che ti “scivola di mano il vassoio”- tuonò il datore di lavoro: un ometto più largo che alto, con la testa lucida e perfettamente calva, il mento segnato dalla patetica imitazione di una barbetta e un rivoltante pizzo sul mento. Come se non bastasse, Rin era assolutamente convinta che l’uomo si fosse conficcato quel minuscolo paio di occhiali in giovane età e, data la sua brillante abilità, non fosse riuscito a spiantarseli dal cranio una volta cresciuto.
Questo non glielo aveva detto, naturalmente.
-mi dispiace- sospirò, massaggiandosi le tempie con spossatezza –non accadrà più-
Lui le puntò contro un indice(che di indice non aveva assolutamente nulla) –lo hai già detto giovedì- sbottò –manderai in fallimento il bar, con i tuoi incidenti-
Rin strinse i denti e ingoiò la risposta velenosa che premeva prepotente sulle sue labbra. Soffocò qualsiasi istinto ribelle e si limitò ad annuire, sconfitta.
L’ometto sospirò e si lasciò cadere sulla sua poltrona, cosa che non fu esattamente gradevole, dal momento che lui non si poteva definire sinonimo di leggerezza –So che sei impegnata con la scuola e lo sport- cominciò, assumendo quell’assurda aria che avrebbe dovuto farlo apparire comprensivo e magnanimo –ma non puoi continuare così. Ti offro un’ultima opportunità- incrociò le dita, alternandole, e si posò le mani sull’enorme pancia compresa a stento dalla camicia bianca –non deludermi-
Rin sospirò di sollievo, ringraziando perché quel supplizio fosse terminato. Si inchinò lievemente, ringraziò e uscì dall’ufficio, uscendo dal bar con fare scoraggiato e trascinandosi dietro i piedi.
Era stanca, infinitamente stanca.
Prese il pullman e tornò a casa, sperando di riuscire a trovare un minimo di pace, perlomeno in camera sua, lontana da tutto e tutti.
Aprì la porta di casa e si lasciò letteralmente cadere sul primo oggetto che assomigliasse anche solo lontanamente a qualcosa su cui sedersi, gettando con noncuranza la borsa contenente l’occorrente per il lavoro sul pavimento, a qualche metro di distanza.
Sua madre era seduta al tavolo al centro della cucina, al telefono con un cliente del negozio, appuntava qualcosa su un foglio scribacchiato e, contemporaneamente, annuiva con fare incoraggiante a Yu ed Ai che combattevano contro la loro dislessia e tentavano di leggere un libro.
Non l’aveva salutata. A dire il vero non si era nemmeno accorta del suo ingresso trionfale. Tipico.
Il padre, invece, prese a scoccarle rapide occhiatine compassionevoli, quasi schernitrici, tanto irritanti quanto infide.
All’ennesimo sguardo di sottecchi Rin raggiunse l’apice della sopportazione –si può sapere che vuoi?- ringhiò, sollevando uno sguardo divorato da fuoco vivo.
Il padre si sedette su una poltrona, sorseggiando un tè caldo e buttando un occhio sul giornale che le aveva procurato la moglie quella mattina –Crollerai- disse solo, con tono di voce naturale e ostentando assoluta spigliatezza.
-scusa?- fece Rin, corrugando la fronte e preparandosi a sfoderare artigli e zanne, in vista di una probabile discussione stremante. Non era sicura di poterla reggere, questa  volta. Aveva già i nervi a fior di pelle, non necessitava che ci si mettesse anche quello che tutti definivano suo padre.
-Sei sfinita- rispose il signor Natsuki, lanciandole uno sguardo beffardo dal margine superiore del giornale –Crollerai. Non sei in grado di reggere lavoro, studio e sport. Prima o poi dovrai allentare la presa su qualcosa, e credo che ti sarà impossibile scegliere di conservare la tua stupida passione-
-Sicuro!- fece Rin con sarcasmo, lanciandogli uno sguardo derisorio. Le sue speranze erano davvero patetiche. Lei non avrebbe mai abbandonato lo sport. Lei gli avrebbe dimostrato che le passioni non sono stupide, né inutili. Gli avrebbe dimostrato che, spalleggiata dallo sport, avrebbe sfondato le barriere del successo e sarebbe diventata indipendente.
Lui bevve un sorso di tè, mantenendo un’espressione altamente irritabile dipinta fra le grinze del viso –Ti sei incastrata con le tue stesse mani, sei schiacciata da te stessa. E quando non sarai più in grado di rialzarti tornerai da me e, forse, non troverai più così sgradevole la proposta che ti ho fatto-
Rin cacciò una risata amara e sprezzante –che discorso strappalacrime- commentò con cattiveria –Sono davvero commossa- detto questo controllò l’orario e si alzò, preparandosi la sacca da ginnastica.
-Credi davvero di poter mantenere tutti i corsi con quel misero lavoro?- la schernì il padre, mettendo da parte il giornale e dedicandosi interamente alla figlia.
-Non sono affari tuoi- rispose Rin, secca e diretta, con fare distaccato e disinteressato, assorta solo a trovare la propria divisa nell’ammasso di panni che aveva accumulato col tempo. L’aveva detto semplicemente per zittirlo, ma in fondo era vero: il lavoro era suo, i corsi erano suoi, la vita era sua.
Lui non c’entrava assolutamente nulla.
-Mamma- fece, infilandosi una felpa leggera, dal momento che gonfi nuvoloni neri preannunciavano un’imminente pioggia –Sono le nove, devo andare a pallavolo-
La madre alzò le sopracciglia, poi sospirò con aria sofferente –Tesoro, sono stanca e i tuoi fratelli non hanno ancora terminato di compiti- rispose con voce flebile –non posso portarti in palestra; prendi un pullman-
Oh, grandioso. Santo cielo, i suoi fratelli stavano leggendo il libro da mezz’ora mentre lei era completamente assorta dalla chiamata del suo cliente: insomma, erano perfettamente in grado di cavarsela da soli, non avevano certo bisogno di una donna ossessionante che rimanesse a fissarli con insistenza come un rapace. E, per giunta, perché diavolo suo padre non si dava una mossa? Non poteva schiodarsi dalla sua comoda poltrona per dare una mano ai suoi figli? No? Era troppo stanco, lui lavorava. Lui faceva successo. Lui si sapeva mantenere.
Lui.
Rin sospirò, sopprimendo a stento l’istinto di mandare tutti al diavolo –Sai perfettamente che dopo le nove non ci sono più coincidenze per la palestra- sibilò a denti stretti.
Lei si passò un polpastrello sulle occhiaie sensibili che le segnavano il viso, come a voler sottolineare quanto le pesasse la sua vita –Non puoi usare la bicicletta?-
-Cosa?- esclamò Rin, allibita –ma è a più di due isolati da qui!- protestò con rabbia.
Non poteva crederci.
Non voleva crederci.
-Tesoro io … - cominciò lei, in tono insofferente, come se parlare con lei le costasse una gran fatica.
-Lascia stare- ringhiò Rin, la rabbia che le montava in corpo come un’ondata arida –ci vado da sola-
Aprì la porta con fare brusco, recuperò la sua bicicletta, sistemò la sella e montò, pronta e determinata ad affrontare anche la madre, a dimostrare che non sarebbe mai crollata.
-Non fare la bambina, Rin- ringhiò una voce alle sue spalle, inchiodandola sul posto. La ragazza si voltò con lingue di fuoco ardente negli occhi. In tutta sincerità, Rin era del parere che fosse il padre il bambino. Lui si era inventato infidi piani e sotterfugi per sottrarle ciò che più le stava a cuore. Lui aveva voluto giocare alla guerra. Lui la stuzzicava come uno stupido bambino.
-Va’ al diavolo- sputò con disprezzo, mentre l’ira le divorava il petto con zanne brucianti.
-Rin!- tuonò suo padre, avvicinandosi con fare minaccioso e la rabbia a trasfigurargli i tratti del viso –Torna immediatamente in casa- ordinò, gonfiando il petto e fulminandola con lo sguardo.
-Neanche per sogno- si rifiutò lei con assoluta sicurezza, mantenendo saldamente la posizione –Devo andare in palestra-
Il viso del padre fu attraversato da un’ondata di collera pura –In tal caso- sibilò con voce bassa e minacciosa, come il ringhio di una bestia prima che balzasse sulla preda, prima che la sbranasse –ti vieto di praticare qualsiasi forma di sport- la prese per un braccio, spronandola a tornare in casa.
-No!- urlò Rin, strappandosi dalla presa del padre e spingendolo indietro con tale violenza da costringerlo ad allontanarsi di almeno tre metri.
Odio.
Rabbia.
Dolore.
Il corpo di Rin era attraversato follemente da sentimenti negativi, alte onde di collera che si infrangevano nella sua mente e le sottraevano il controllo, le strappavano lucidità.
-Esci da quella porta- gridò il padre, furibondo –E non scomodarti a ritornarci- minacciò, puntandole contro l’indice.
Un pugno nello stomaco.
La stava sfrattando di casa? Stava prendendo i provvedimenti più strazianti e dolorosi, più infidi e infami. La stava estraniando. Gettando fuori dalla sua vita.
Perché non capiva? Perché si ostinava a desiderarla diversa? Perché non si sforzava di comprenderla?
-Ti odio!- urlò, come non aveva mai urlato in vita sua, percepì la gola sciogliersi in fuoco puro, il viso caldo di collera, il petto stretto nella morsa freddo dell’odio, il colpo fremente e scosso da forti tremiti convulsi.
E, così dicendo, uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle. 

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Capitolo 32
*** Crollare. ***


Rin strinse con forza il manubrio della bicicletta, mentre le sue gambe spingevano imperterrite i pedali, alimentate solo dalla rabbia bruciante che si dimenava nel petto della ragazza, privandola del respiro, strappandole a forza le energie e prosciugando il fuoco che la teneva in vita, spegnendolo, soffocandolo, opprimendolo.
Si sentiva umiliata, presa in giro, incompresa.
Percepì la rabbia raccogliersi in un groppo in gola, tanto grande da soffocarla, indolenzirle la gola e incendiarle lo sterno, mentre un sottile velo di lacrime si faceva strada con brutalità fra le iridi focose della rossa, forzandole le palpebre.
Rin strinse gli occhi, ricacciando indietro con veemenza le lacrime, combattendo contro se stessa, opponendo una disperata resistenza alla collera, una collera che le squassava il corpo, le graffiava lo stomaco con artigli acuminati, le avvelenava la mente.
A capo chino continuò a pedalare, con tanta foga da rovinare le giunture della bicicletta, tenendosi sulla destra, mentre i chiari delle macchine la accecavano con alternanza, sferzando il suo corpo con spostamenti d’aria pesanti. Ogni muscolo del suo corpo tremava di sofferenza, la sua mente innalzava un coro di odio e si sforzava fino allo stremo per impedire all’ira di sfondare il suo petto, sottile involucro, troppo volubile per includere appieno i suoi sentimenti, quell’impetuoso torrente di fuoco che premeva, spingeva, spaccava e stroncava ogni respiro sul nascere.
Una goccia d’acqua, gelida come ghiaccio, le precipitò sull’avambraccio, teso come la corda di un violino, subito seguita a ruota da un leggera pioggerella frizzante, fredda, ma non abbastanza forte per poter lavare il cuore di Rin, greve di odio e di rabbia, palpitante di sentimenti strazianti. Fu, perlomeno, un sollievo, il fresco velo d’acqua cristallina che prese a precipitarsi dal cielo, carezzandole il corpo bollente d’ira, senza, però, spegnerla.
Bastò poco perché Rin si trovasse in balia di una tempesta fredda, sferzata da perle impetuose di pioggia, investita dal vento, eppure ancora arida, asciutta, divorata dalla rabbia.
La ruota anteriore della sua bicicletta incespicò in un dislivello della strada, colmo di pioggia, facendola inevitabilmente slittare di lato, sbilanciando Rin e trascinandola a terra di peso, in una caduta che le estirpò di netto il respiro e le colpì le scapole.
La vista le si offuscò per un secondo, mentre la nuca le pulsava di dolore.
Lentamente, Rin si mise a sedere su suoi polpacci, allo stremo delle sue possibilità al limite di ogni sopportazione, lasciando cadere le spalle in avanti e chiudendosi in un dolore intimo, non condivisibile. Aveva un polpaccio graffiato, le bruciava, ma il dolore era attutito; ogni senso era attutito, sovrastato solo dalla rabbia che le rendeva il respiro greve, come una bestia iraconda, priva di lucidità umana, guidata dal puro e semplice istinto di sbranare.
Faticava a respirare, ira e odio si le si annodavano in gola, fino a lasciarle nient’altro che una minima fessura per l’aria. Faticava a ragionare, la sua mente si ritraeva, come ferita da aculei aggressivi, si rintanava in un piccolo spazio di sé, lasciando la presa sul controllo del proprio corpo, sulla lucidità, ormai smarrita, sulla capacità di ragionamento.
Dalle viscere del proprio corpo un ruggito di odio si arrampicò per ogni centimetro disponibile, iniettandole nelle vene una furia cieca, una spinta insopprimibile che giunse fino alle labbra e si liberò, straziando la sua gola e graffiando la usa voce. Un urlo terrificante, di chi è colmo d’ira, di chi ha perso il controllo. Di chi è crollato.
 
Ryan si strinse nel cappotto, rabbrividendo leggermente, colto alla sprovvista da quell’improvvisa pioggia impietosa, fortunatamente aveva con sé l’ombrello e ora poteva contare sul riparo rassicurante, sempre sperando che un simpatico fulmine non lo incenerisse.
Dal momento che erano passati parecchi giorni dall’ultimo attacco nemico, Kurumi, pur non essendo riuscita ad appurarne appieno il motivo,gli aveva concesso una serata in tutta tranquillità e, per ogni eventualità, gli aveva lasciato il numero di telefono.
Sospirando alzò lo sguardo sui nuvoloni gonfi e scuri, opponendo resistenza al forte vento freddo che traspirava il suo corpo fino a gelargli le ossa. Gli ricordava terribilmente la sensazione inebriante di freschezza che lo aveva afferrato, un momento prima di perdere coscienza e controllo di sé, scatenando ciò che si sarebbe potuto definire un enorme vortice. Non avere il controllo del proprio corpo si era rivelato terrificante.
Scosse il capo per dissipare dalla mente riflessioni sgradevoli, quella serata voleva passarla senza pensieri e preoccupazioni. Abbassando lo sguardo sulla strada, la speranza parve vacillare, Ryan si arrestò di colpo, inchiodandosi sul posto, mentre il cuore gli balzava in gola.
Davanti a lui, a terra, una sagoma scura, gobba, respirava a fatica, reprimendo a stento una furia incontrollata. Fece un passo indietro; non credeva che il nemico potesse sferrare un attacco quella sera, in fondo era da molto tempo che il portale non si attivava, Kurumi era persino arrivata a pensare che il processo si fosse arrestato.
Il battito del cuore aumentò ad un ritmo impazzito, mentre la paura gelida gli strigliava nel petto. Frugò nella tasca dei jeans, risoluto a chiedere aiuto a Kurumi con il cellulare. Ma, nel medesimo istante in cui le sue dita trovarono ciò che cercavano, una macchina sfiorò il fianco della sagoma indistinta, illuminandola con i chiari quel tanto che bastava per far sussultare nuovamente Ryan.
Lasciò la presa sul cellulare, quindi si avvicinò cautamente, acuendo la vista per poter dare una conferma a ciò che la luce aveva rivelato.
-Rin?- sussurrò, sconcertato –Sei tu?-
Zazzera rossa, spalle larghe da palestra; nonostante la ragazza gli desse la schiena, Ryan non aveva dubbi: Quella che aveva davanti si trattava di Rin.
I battiti del cuore non diedero alcun segno di calmarsi ma, questa volta, la sensazione non fu sgradevole, e un leggero calore prese a scaldargli il petto e a sciogliere il gelo del terrore.
La ragazza trasalì leggermente, quindi gli lanciò un’occhiata di puro fuoco da sopra la spalla, mentre i tratti si facevano aspri e collerici, trasfigurati nettamente da un’ira senza nome.
-No- ringhiò, respingendolo con voce graffiante –vattene-
Solo allora Ryan notò la bicicletta a terra, il manubrio graffiato dall’attrito e il corpo  metallico sverniciato. Fu improvvisamente assalito dall’angoscia. Pur prevedendo la reazione collerica della ragazza, si precipitò da lei, riparandola dalla pioggia.
Aveva il viso contratto in una smorfia perenne, la mandibola serrata a forza, il corpo scosso da violenti tremiti, forse dovuti al freddo: indossava solo la consueta tuta leggera, comprendente la maglietta a maniche corte e pantaloncini a tre quarti. Solo una leggera felpa, lacerata dalla caduta, probabilmente, le avviluppava le spalle. Era completamente lucida di pioggia, annaffiata da capo a piedi, i vestiti le si afflosciavano addosso, incollati al corpo in piena tensione.
 Fece per scostarle una ciocca che le colava fra l’incavo del naso e dell’occhio, ma lei, cogliendolo di sorpresa respinse il gesto con violenza, spingendolo indietro fino a fargli mancare l’equilibrio.
-Vattene- gridò, la furia nella voce, negli occhi, in ogni minimo centimetro di lei.
-Rin- riprese lui imperterrito, incassando il rifiuto senza nemmeno darci troppo peso, al momento ogni pensiero era sovrastato dall’angoscia –Stai bene?- si rialzò, indagando con occhio svelto, scivolando con  lo sguardo sulla ragazza, alla ricerca del più insignificante graffio.
Percepì la pioggia precipitarsi sul suo corpo, raccogliersi in rivoli freschi e cingergli il corpo. Un tuono squassò la terra e un fulmine schiarì la strada, accedendo gli occhi di Rin di una luce terrificante, aggressiva. Uno sguardo affilato, quasi omicida, racchiudente la forza esplosiva di un incendio, il calore delle fiamme, la forza del fuoco. Uno sguardo incontrollato e sperduto, venato di una furia degna di una bestia.
Fece per avvicinarsi a lei, ma Rin lo freddò con la semplice forza dei suoi occhi, inchiodandolo sul posto con il cuore in gola.
Con la rabbia nel corpo, la ragazza si rialzò di scatto, e, in un battito di ciglia, sfrecciò via, urtandolo con una spalla, tanto forte da rischiare di gettarlo a terra.
 
Rin riprese a correre, portando il proprio corpo allo stremo, graffiandosi la gola, stretta nel nodo dell’ira. Le gambe le dolevano per lo sforzo, gli addominali protestavano con un coro sferzante, il polpaccio era una pura esplosione di dolore e la pioggia le entrava nel corpo fino a gelarle il sangue.
Raggiunse i pressi del parco, si appoggiò ad una ringhiera e fu piegata in due dall’impeto dell’affanno, scossa da tremiti gradualmente più violenti e afferrata da una rabbia più accecante. Percepì sulla lingua il disgustoso sapore del sangue, mentre il polpaccio veniva accolto da un macabro abbraccio rosso.
Strinse gli occhi con forza e si portò una mano al collo. Il respiro era sempre più difficoltoso, le pareti della gola le dolevano da impazzire, contratte nell’estremo sforzo di ingoiare il boccone amaro dell’ira.
Udì dei passi frettolosi alla sua schiena e un respiro in affanno, quindi si rizzò e riprese a camminare sotto la pioggia, imperterrita.
-Rin- la voce di Ryan le giunse soffocata, rotta dalla corsa, ma i suoi passi erano sempre più prossimi.
-Va’ al diavolo- reagì lei, fuori di sé.
Il ragazzo ammutolì ma non smise di seguirla nemmeno per un secondo.
 
Ryan aveva intuito quale fosse la meta di Rin. Aveva anche notato la ferita al polpaccio, e inorridiva alla vista del sangue che le colava lentamente sulla pelle candida. Camminarono ancora per venti minuti pieni, e il leggero zoppicare di Rin, inizialmente impercettibile, si fece a mano a mano più pesante ed evidente, fino a rendere ogni passo una sofferenza terribile.
Eppure, la ragazza non cedette finché non raggiunse la palestra. Ormai era notte fonda, qualsiasi corso si fosse svolto la sera, ora era terminato, la porta era chiusa e l’interno deserto e silenzioso.
Si sostenne al muro, riparandosi sotto la tettoia della palestra, la quale sporgeva quel tanto che bastava per garantirle almeno un posto all’asciutto.
Con un gemito straziato Rin si lasciò cadere a terra, appoggiando la schiena alla parete dell’edificio e portandosi le ginocchia al petto, torturandosi le labbra con i denti.
Lui chiuse l’ombrello e si appoggiò al muro, mantenendo una distanza di qualche metro dalla ragazza, la quale non avrebbe retto la sua compagnia, ne era certo.
Rin stava male, ma non voleva ammetterlo, né a lei né a nessun’altro. E Ryan era pronto a scommettere che stesse lottando con tutte le sue forze per non permettere alle lacrime di averla vinta su di lei che, testarda com’era, aveva sviluppato la convinzione che il pianto fosse sinonimo di debolezza e non di emozione. Il suo orgoglio le impediva di crollare, le impediva di mostrarsi volubile, aveva timore di vedere se stessa in lacrime. Se stessa debole.
Rimasero così, in silenzio, Rin intenta a soffocare l’ira, Ryan col respiro sospeso, riluttante all’idea di abbandonarla in quello stato.
-Rin- osò in fine, spezzando il silenzio con voce flebile –ricordi quando mi hai detto che le lacrime non servono a nulla?-
La ragazza parve non reagire, ma il suo fuoco intimo trovò una via di uscita per avvampare, anche solo per un secondo.
-Secondo me non è vero- completò Ryan, con tono di voce vago, ma con un preciso obiettivo.
Quella semplice affermazione, così velata e sfiorante solo in parte i riguardi della ragazza, una lievissima folata di vento, una spintarella appena percettibile, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Rin scoppiò in lacrime, portandosi le mani al viso, tentando invano di celare il pianto, che le rigava il viso come fuoco liquido. Le spalle presero ad essere scosse, i primi singhiozzi brutali si fecero sentire e le squassarono il petto.
Un lieve sorriso si aprì fra gli angoli della bocca di Ryan, scorgere lacrime sgorgare da quegli occhi cremisi lo rinfrancò, non perché fosse felice che Rin stesse male, era felice perché finalmente mostrava dell’umanità, dell’emozione, perché finalmente si era lasciata andare e aveva spezzato la maschera impassibile incollata sul suo viso.
Con cautela le si avvicinò, indeciso sul da farsi: non era ancora sicuro che la ragazza avrebbe gradito la sua compagnia, non ora che era in lacrime. Frugò fra le sue tasche e ne estrasse un fazzoletto di seta.
Lentamente le si accucciò di fianco, porgendole il fazzoletto e lanciandole una fuggevole occhiata in viso.
Era una persona completamente diversa. Aveva finalmente messo in luce una metà della sua personalità che celava da tempo. Ryan provò un brivido enigmatico nello scorgere Rin così diversa: volubile, quasi fragile, come se si potesse sbriciolare sotto il tocco più delicato.
Gli occhi non sprizzavano più scintille impazzite, ma non erano neppure cenere spenta, solo alte lingue di fuoco, fiere ma più dolci e mansuete.
Allungò una mano tremante e accettò il fazzoletto, con il quale tentò di asciugare le lacrime più insistenti, ma quelle continuavano a sgorgare imperterrite, spinte sotto i colpi dei singhiozzi violenti.
Gettò con forza un pugno a terra, lasciando ciondolare il capo fra le ginocchia, mentre un sottilissimo velo di vergogna le solleticava le guance. Vergogna per le proprie lacrime e per la nuova figura di sé, esile e tutt’altro che fiera.
Probabilmente la presenza di Ryan la metteva in soggezione; l’orgoglio della ragazza si ribellava all’idea che occhi diversi dai suoi penetrassero la sua armatura scontrosa. Ma il ragazzo non aveva intenzione di forzarla, solo di confortarla.
-Vuoi che me ne vada?- le chiese con tono premuroso, timoroso di rappresentare un fastidio alla ragazza piuttosto che sostegno disponibile.
Lei rimase dapprima in silenzio, lasciando posto al ticchettio insistente e ritmico della pioggia che scemava gradualmente, fino a dissolversi in una leggerissima pioggerella dispersa dal vento.
Poi scosse lentamente il capo, incassato fra le spalle esili, tormentate dai singhiozzi frequenti e violenti.
Ryan inarcò le sopracciglia, piacevolmente sorpreso e, per una volta, pensò che, forse, anche le persone più forti avevano bisogno di qualcuno su cui appoggiarsi.
Si inumidì le labbra, leggermente imbarazzato, quindi le si sedette accanto appoggiando i gomiti sulle proprie ginocchia. Si ritrovò in una scomoda posizione di incertezza, in cui una parte di lui lo spronava a fare di più, e la parte restante gli bloccava la mente, ricacciando indietro ogni suo pensiero contrastante.
In bilico fra l’osare e non osare, Ryan prese a torturarsi le mani, nervoso e immerso nei propri pensieri finché un singhiozzo più violento lo riportò alla realtà, focalizzando ogni sua attenzione su Rin.
Senza più pensarci due volte, allungò un braccio, passandolo attorno alla sua schiena, le afferrò la spalla e la trasse gentilmente a sé, in un timido contatto non intimo come l’abbraccio, ma abbastanza per infonderle sicurezza. Sbuffò la tensione, aspettando con pazienza che il pianto liberatorio di Rin scemasse, le lacrime si asciugassero, e lei trovasse il coraggio di uscire dal suo guscio d’orgoglio.
 
Rin sospirò pesantemente, un’ultima lacrima bollente fece capolino fra le sue ciglia, inumidendole il viso e segnando la fine di quel pianto.
Una forte emicrania da disidratazione prese a martellarle le tempie con forza, e brividi continui si arrampicarono sul suo corpo. Si portò il palmo alla tempia, mentre i residui delle lacrime le schermavano la visuale.
Tossicchiò, leggermente imbarazzata dalla situazione, riscuotendo Ryan, il quale ritrasse immediatamente il braccio come se fosse stato morso da una serpente.
-Ehm … -esordì, tentando di strapparsi dalla crisi in cui era caduto –Va meglio?-
Lei annuì debolmente. Effettivamente, ora l’angoscia si era fatta più leggera, perlomeno ora le permetteva di respirare.
Ryan si alzò e le porse la mano con timidezza –Vieni- disse, forzandole un sorrisetto.
Rin afferrò la mano e si rialzò, ma quando il ragazzo parlò di riaccompagnarla a casa, di irrigidì di netto, opponendo una ferma resistenza. –No- sussurrò, rabbiosa, quasi spaventata –Ti prego-
Il ragazzo corrugò la fronte senza capire, ma non lasciò la presa sul polso della ragazza, la quale aveva preso a dimenarsi per sgusciare dalle sue dita, mormorando frasi a sprazzi e mezze suppliche.
-Rin- scattò, afferrandola per le spalle e sovrastando le sue proteste con tono di voce ferma –Non ti riporterò a casa, se non è quello che vuoi.
La ragazza si rilassò notevolmente sotto il suo tocco e sospirò di sollievo.
Ryan afferrò l’ombrello, lo aprì e le sorrise –Dove vuoi andare?-
Rin fu afferrata dall’angoscia, si passò una mano sui capelli con fare irrequieto –Non lo so- sospirò con voce incrinata, ventata di un’agitazione piuttosto palese.
Ryan inarcò le sopracciglia e dovette afferrare appieno la situazione, perché la sua espressione si fece improvvisamente grave –D’accordo- disse, senza perdersi d’animo –il mio appartamento è vuoto- Affermò, con assoluta naturalezza – c’è abbastanza spazio per due persone-
Rin alzò lo sguardo, sorpresa dall’estrema premura della proposta, quindi annuì lentamente. Il modo di fare di Ryan l’aveva colpita: Lui non aveva tentato di penetrare la sua riservatezza e il guscio acuminato che rivestiva la sua personalità, al contrario lui l’aveva abbracciato, senza chiedere alcuna spiegazione, senza esaminare la situazione.
-Ehi- sussurrò, abbassando lo sguardo –Grazie-
Ryan le sorrise e, insieme, si gettarono sotto la pioggia. 

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Capitolo 33
*** Buongiorno. ***


Nozomi sbadigliò, trascinandosi a forza fuori dalle lenzuola calde e tentatrici, quindi percorse le scale di casa barcollando leggermente, non ancora in grado di afferrare la piena lucidità e di svegliarsi interamente. Si lasciò cadere pesantemente sul tavolo, sul quale fumava una grande tazza di latte, quindi grugnì un saluto e iniziò la colazione.
La madre le dava la schiena, intenta a preparare il caffè e a controllare che il latte restante non si bruciasse sul fuoco.
-Buongiorno- sorrise la madre, in risposta a quel patetico tentativo della figlia nell’usare il linguaggio umano pochi minuti dopo essere sgusciata fuori dal letto.
La cucina venne riempita di cozzare cristallino, il lento bollire del latte, e un sottofondo di terremoto dovuto alla lavatrice che, nell’altra stanza, si agitava non poco.
-Ieri sera ha chiamato Kazuyo- disse la madre con voce pacata, mentre asciugava una ciotola con uno straccio –Cercava Rin-
Nozomi corrugò la fronte e si arrestò nell’atto di schiodare un pezzo di biscotto dalle fessure dei denti –Che ora era?-
La madre si strinse nelle spalle e inarcò le sopracciglia –Le dieci, circa-
-Ah- fece Nozomi, continuando la sua opera –A quell’ora Rin era in palestra-
Megumi si voltò a guardarla con una vena di preoccupazione fra la trama dei suoi occhi –la madre se n’era dimenticata?- disse, allibita, quasi scandalizzata, come se una tale azione non potesse essere tollerata.
-Non me ne sorprenderei- sibilò Nozomi di rimando, posando il cucchiaio, infilando la sua ciotola nella lavastoviglie e stampando un bacio sulla guancia della madre, prima di correre al piano di sopra per vestirsi.
 
Un dolce profumo invase le narici di Rin, solleticandola e punzecchiandola, spronando le sue palpebre ad aprirsi e la sua mente a strapparsi dal caldo abbraccio del sonno. La ragazza si strinse fra le coperte, senza trovare la forza di aprire gli occhi, e un profumo differente la inebriò, un profumo diverso, familiare, non era amaro, né dolce, ma era gradevole. Si fece forza e aprì leggermente gli occhi, quel poco che bastava per poter scorgere qualcosa attraverso una minima fessura fra le palpebre. Come un lampo, i ricordi della sera prima le riaffiorarono nella mente, stampandosi in caratteri cubitali fra i suoi pensieri. Si lasciò sfuggire un leggero sospiro.
Molto lentamente, lanciò una sbirciatina al di fuori della coperta. Purtroppo, quella non era casa sua. Per un attimo, Rin aveva sperato che fosse stato tutto un incubo beffardo, che in realtà non fosse stata gettata fuori casa e che la sua testardaggine pregna di orgoglio non l’avesse spinta così oltre.
-Buongiorno- una voce timida e gentile la riscosse dai suoi pensieri, distogliendo la sua attenzione dall’amarezza che aveva lasciato quella sera.
Si alzò con il busto, passandosi una mano fra i capelli. Riconobbe il salone di Ryan, il suo divano, le sue coperte, il suo cuscino, il profumo intenso che rilasciava l’enorme maglia che le aveva prestato per scaldarsi ed asciugarsi. E riconobbe il ragazzo, sorridente e premuroso, intento a ornare la tavola con piatti colmi di biscotti e tazze fumanti.
-Buongiorno- rispose Rin con voce flebile, passandosi le dita sulle palpebre tremanti. Gli occhi le bruciavano da impazzire e la testa era nuovamente in vena di emicrania.
-Ti piacciono i biscotti?- chiese Ryan in tono cordiale, mentre si procurava un paio di cucchiai da lasciar cadere nelle tazze.
-Si- fece Rin, colma di gratitudine nei suoi confronti. Ryan l’aveva raccolta come un gatto randagio, affamato e infreddolito. E l’aveva fatto senza voler sapere cosa le fosse successo, senza infierire su di lei, né cercare in alcun modo di tamponare le sue ferite –Grazie- concluse, alzandosi e raggiungendolo per aiutarlo almeno a posare il necessario sulla tavola.
Si sedettero entrambi al tavolo per la colazione, e il ragazzo le disse di averle lavato ed asciugato i vestiti. Buono a sapersi, Rin non aveva intenzione di presentarsi a scuola con dei pantaloni che fungevano da strascico e una maglietta che, per poco, non toccava terra, nonostante fosse terribilmente grata al ragazzo per aver messo a sua disposizione i propri vestiti.
Rin annuì in risposta, grattandosi distrattamente la fronte e annegando nei propri pensieri. Fino a quel momento, Rin non era mai stata colma di stima per quel ragazzo. A volte si era persino ritrovata a pensare che peggiorasse solo la situazione, che collaborasse a cacciarsi nei guai e che non fosse d’aiuto. Poi il suo giudizio era cambiato: era naturale che Ryan si trovasse in situazioni come quelle, in fondo era preso di mira e non era in grado di difendersi. L’aveva sempre trattato con poco riguardo, bruscamente, forse persino calpestando il suo animo gentile, e non se ne era mai accorta.
Eppure, quando lei aveva chiesto aiuto, lui era accorso. E, a differenza di tutti, si era rivelato l’unico a non giudicarla.
Rin si sentiva terribilmente in colpa e, per l’ennesima volta, si ritrovò a pensare che forse “inutile” non fosse una parola troppo lontana da lei.
-Rin- Ryan la riscosse con premura –Stai bene?-fece, l’espressione velata di una leggera angoscia.
Lei si sostenne sul palmo della mano –Posso farti una domanda?-
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, leggermente perplesso –certo-
-Pensi che io sia una persona … - cominciò lei, per poi esitare, non era sicura che la risposta l’aiutasse a uscire dallo stato in cui era - … utile?-
Per poco Ryan non scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi con il latte che stava sorseggiando –Assolutamente no- rispose ironico –Mi hai solo salvato la vita circa una ventina di volte-
Rin arrossì leggermente,quindi sorrise di rimando –Grazie- disse, colma di sollievo, sebbene conscia del fatto che il ragazzo, molto probabilmente, non avesse colto il motivo di quella breve discussione.
 
Komachi, si sedette sul pullman, scorgendo un’elegante macchina scura sfrecciare al fianco del veicolo e, all’interno, Karen che agitava compostamente una mano verso di lei.
Lei fece giusto in tempo a sorridere, quindi prese un libro, e si immerse nella lettura.
-Buongiorno- la voce aspra di Kurumi per poco non la fece trasalire. Chiuse il libro e le sorrise, cordiale –Buongiorno-
L’amica le si sedette accanto sospirando leggermente, lanciando uno sguardo fuggevole al cielo, al di fuori del finestrino, laddove il portale riluceva, sebbene in lontananza, di uno strisciante bagliore cupo.
-Va tutto bene?- le chiese Komachi, nella speranza di distoglierla da pensieri indesiderati. Lei preferiva non volgere lo sguardo verso il portale, le infondeva un’inquietudine fredda, che scemava solo a fine giornata e la privava di serenità.
Kurumi si riscosse –Non lo so- borbottò –Il fatto è che non subiamo attacchi nemici da troppo tempo-
-Be’- rise Komachi, nel tentativo di sdrammatizzare –dovresti esserne felice, no?-
Kurumi non rispose, ma l’espressione che si dipinse in volto non prometteva nulla di buono.
 
Urara canticchiò fra sé e sé, trotterellando verso la fermata e agitando a destra e manca la sua cartelletta ricolma. Stringendo gli occhi scorse Nozomi che correva a perdifiato dalla discesa di casa sua, tentando invano di domare i capelli che le rimbalzavano ovunque, seguendo il ritmo della corsa.
-Buongiorno!- le urlò Urara, ridendo, mentre Nozomi si sbracciava per ricambiare il saluto.
-Tutto bene?- chiese, una volta raggiunta l’amica.
Nozomi riprese fiato e annuì, fece per dire qualcosa ma il suo cellulare prese a vibrare, costringendola a fare attendete Urara ancora qualche secondo.
-Pronto?- fece, alla disperata ricerca di ossigeno –Ah, buongiorno-
Urara inclinò leggermente il capo, curiosa, quando la comparsa di un’accoppiata inaspettata la indusse a sgranare gli occhi: dal fondo della strada, Ryan, le mani in tasca e il capo timidamente basso, era affiancato da una Rin piuttosto pacata e propensa alla sua compagnia.
-Rin?- fece Nozomi, che dava la schiena ai due, corrugando la fronte –No, non l’ho vista-
Urara picchiettò su una spalla dell’amica, indicandole i due che le stavano raggiungendo. Nozomi fu talmente sorpresa che per poco non lasciò cadere il cellulare.
-Aspetti- esclamò all’interlocutore –E’ qui. Si, si. No, a dire la verità-
Quando Rin giunse alla fermata, Urara le si gettò letteralmente addosso, divorata dai sensi di colpa, chiedendola scusa a ripetizione per l’accaduto del giorno prima.
La ragazza dapprima si dipinse un’aria sorpresa e confusa in volto, poi si sciolse leggermente.
-Va’ tutto bene- le rispose sorridendole –Non c’è problema-
Urara percepì angoscia e inquietudine sgretolarsi lentamente, sospirò di sollievo e abbraccio con forza Rin, la quale, impacciata verso i gesti d’affetto, si limitò a qualche pacca sulla spalla.
-Rin- Nozomi le indicò il cellulare –E’ tua madre. Dice che non rispondi alle sue chiamate.
Il viso della ragazza si tramutò in marmo, freddo e impassibile, mentre la mandibola le si contraeva e lo sguardo le si accendeva di un fuoco poco rassicurante.
Ryan le mise una mano su una spalla e le indicò il pullman in arrivo, lanciando un’occhiata eloquente a Nozomi e scuotendo leggermente il capo, inducendola a non toccare il discorso.
La ragazza si grattò leggermente la nuca, quindi, con una scusa, chiuse la chiamata e non ne parlò più.
 
Karen uscì da scuola, lisciandosi la divisa scolastica e aspettando con pazienza che le compagne la raggiungessero. Komachi e Kurumi giunsero assieme, poi fu il turno di Urara e infine di Rin, la quale si precipitò letteralmente fuori dalla classe, pressata dalla fretta, dicendo che era in ritardo per il lavoro e che non aveva tempo per fare la strada di ritorno con loro.
-Non importa- le sorrise Karen –ci vediamo-
Rin stava per partire in quinta, quando Ryan e Nozomi uscirono dalla classe, chiamandola a gran voce. La ragazza si arrestò sul posto, voltandosi con sguardo confuso.
-Che c’è?- urlò, dal fondo della strada.
Ryan fece una breve corsa e la raggiunse, agitando un foglio.
-Che succede?- fece Karen a Nozomi, mentre , insieme, si incamminavano verso i due.
La ragazza le indirizzò un sorrisetto enigmatico –vedrai- disse, beffarda.
Rin prese tra le mani il foglio e lo esaminò, perplessa. D’un tratto il suo viso s’illumino, gli occhi le si sgranarono e la bocca le si aprì, mentre il respiro rimaneva intrappolato nella gabbia toracica.
-Oh mio dio- sussurrò, scorrendo velocemente con gli occhi sulla carta candida. Alzò lo sguardo su Ryan che le sorrideva con timidezza.
-Be’, mi serve la tua firma o … - cominciò, impacciato, ma s’interruppe, sgranando gli occhi e arrossendo fino alla radice dei capelli.
Rin gli gettò le braccia al collo, lanciandosi su di lui, al colmo della gioia, mentre Ryan, colto alla sprovvista, indietreggiava sotto il gesto decisamente inatteso, e avvampava sempre più.
Karen sgranò letteralmente gli occhi. Rin che si cimentava in un gesto d’affetto, di sua iniziativa, per di più, era un evento più unico che raro. Uno di quegli eventi da segnare sul calendario in  pennarello indelebile. Scambiò uno sguardo con Nozomi, la quale era rimasta di stucco a sua volta, nonostante conoscesse il contenuto di quel volantino.
-Ma cosa …? - fece Urara, tentando di capire come Ryan fosse riuscito a capovolgere l’umore di Rin completamente.
-Rin ora è un’allenatrice- spiegò Nozomi con fare divertito –L’allenatrice di Ryan, per essere precisi- 

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Capitolo 34
*** Pareggiare i conti. ***


-Rin- Nozomi prese l’amica per un braccio, sfiorandola con sguardo indagatore e velato di preoccupazione –devi tornare a casa, ricevo decine di chiamate da tua madre ogni giorno. E lo stesso vale per mia mamma- si inumidì le labbra con fare angosciato –Kazuyo chiamerà la polizia se non torni entro stasera-
Lei liquidò l’argomento con un gesto permissivo della mano e un lieve cenno affermativo, mentre, per l’ennesima volta, rileggeva il volantino che l’aveva resa allenatrice.
Nozomi sospirò leggermente e alzò lo sguardo su Karen, al suo fianco, implorandola di intervenire per convincere Rin a farsi ascoltare. Karen era più imperiosa, forse con il suo portamento altero sarebbe riuscita ad attirare l’attenzione della ragazza.
-Rin- cominciò Karen, mettendosi le mani sui fianchi e lanciandole uno sguardo intenso quanto severo –E’ una faccenda seria. Dovresti … -
-So quello che devo fare- ringhiò Rin di rimando, piegando il volantino e cacciandoselo nella tasca dei jeans. –non avete motivo di preoccuparvi- sospirò e lanciò un’occhiata all’orologio da polso.
-Vuoi che ti accompagniamo?- chiese docilmente Urara, lo sguardo traboccante di dolcezza e l’espressione interamente disposta a porgere aiuto all’amica in difficoltà.
-Non credo sia il caso di infastidirla- interloquì Komachi, la quale, più comprensiva delle altre, aveva colto appieno l’espressione profonda di Rin e doveva aver intuito che si trattasse di una faccenda delicata che includeva solo ed unicamente Rin e la sua famiglia. Loro non avevano alcun diritto di irrompere fra le faccende familiari dell’amica, né di giudicare le sue decisioni.
-Non mi infastidite - fece Rin, abbassando lo sguardo –affatto- scrollò le spalle e, con aria assente, si sistemò il laccio della sacca su una spalla, sbuffando flebilmente.
Nozomi scambiò uno sguardo con le compagne. In generale, Rin non si faceva scrupoli a togliersi dai piedi qualcuno che la infastidiva, per questo motivo erano sicure di non darle un dispiacere con la loro compagnia. Anzi, molto probabilmente avrebbe solo che giovato all’umore di Rin, che si era completamente ribaltato dopo aver accennato alla situazione familiare.
Le sfiorò una mano, quindi si incamminarono assieme.
 
Kurumi lanciò uno sguardo angosciato a Rin. Era palesemente nervosa e, man mano che si avvicinavano a casa, la ragazza si tendeva sempre più, fino a diventare un vero e prorpio pezzo di legno, ritirata in un guscio di silenzio e rifugiata dietro un muro ombroso, innalzato da lei stessa contro chiunque tentasse di confortarla in qualche modo.
Giunsero di fronte alla grande porta che dava su un giardino, ornato di splendidi fiori color oro e cobalto. Rin bofonchiò un ringraziamento per averla accompagnata, percorse i pochi gradini e fece per entrare, ma esitò.
Un improvviso urlo giunse alle orecchie dei presenti, facendoli trasalire, nonostante fosse attutito dalla distanza e dalle pareti.
Kurumi lasciò che gli occhi scarlatti indagassero la situazione e l’udito cogliesse ogni minimo particolare. Ora le parole giungevano più chiare e distinte, sebbene ancora lievemente sfocate. La voce di una donna, sfiorante il disperato, piangeva e discuteva animatamente con una seconda voce, più roca, maschile.
-E’ solo colpa tua!- pianse la donna, domata dalla collera, mentre la seconda voce tentava futilmente di ammansirla, ripetendole insistentemente di calmarsi.
-Sei un bambino! Mia figlia è là fuori! Mia figlia è fuggita per colpa tua!-
Rin fece un passo indietro, ritirando la mano tremante e traendo un respiro angosciato. Era evidente che le voci all’interno della casa appartenessero ai suoi genitori. Erano piombate nel bel mezzo di una discussione, e non una di quelle discussioni superficiali, che affiorano a fine giornata spinte dai nervi a pezzi: una discussione seria, pesante. Una vera e propria guerra.
-Non potevo sapere che sarebbe scappata!- si giustificò l’uomo, alzando a sua volta la voce tonante e facendo fremere di rabbia una Rin umiliata e collerica.
-Lei hai reso la vita un inferno!- urlò la donna di rimando –hai preteso che non praticasse più sport, hai preso la decisione di interrompere i pagamenti dei suoi corsi contro la sua volontà! Tu hai … -
-Ho solo cercato di levarle dalla testa quella stupida passione dello sport!- ringhiò lui, interrompendola –non sarà in grado di affrontare ciò che sta la fuori, se continuerà a comportarsi da bambina! Stavo solo cercando di prepararla al futuro-
Kurumi scosse lievemente il capo. In qualche minuto, la situazione di Rin fu chiara e lampante a tutti. Il motivo delle risposte acide, dei ringhi sommessi, degli sguardi taglienti, il motivo del suo comportamento incomprensibile. Tutto i pezzi rientrarono al loro posto in un quadro netto e finalmente accessibile. I sensi di colpa presero ad affondare le loro zanne nel petto di Kurumi. Non era stata in grado di afferrare lo stato di Rin, non l’aveva compresa, non ci aveva nemmeno provato, era solo stata in grado di darle addosso, di attaccarla continuamente e di inasprirla. E ora se ne pentiva terribilmente.
 
Komachi tenne sotto severo controllo Rin, ogni suo movimento, ogni sua reazione. L’amica indietreggiò leggermente,abbassando lo sguardo con rabbia. Stringeva i pugni con forza, contraeva la mascella. Stava sprofondando nuovamente nell’astio.
-Prepararla al futuro!- urlò la donna, scandendo bene le parole taglienti –l’hai spinta là fuori. L’hai lasciata da sola! Tu hai voluto giocare con il fuoco e ora spero sarai contento di esserti ustionato!-
-Kazuyo io ... – tentò la voce maschile –Dove stai andando?-
-A cercarla!- fu la risposta, acida e rabbiosa.
-ma devi occuparti dei gemelli- disse lui, la voce ormai vicina e nitida.
La porta si spalancò di colpo, rivelando la madre di Rin in lacrime, il viso rigato dal trucco scuro colato, i capelli disordinati che le incorniciavano un viso stanco, la divisa del lavoro allentata e il rossetto leggermente sfocato sull’angolo della bocca.
-Al diavolo! Rin ha … - Kazuyo si arrestò di netto, pietrificandosi sulla soglia, mentre gli occhi venivano inondati da rinnovate lacrime fresche. In un battito di ciglia, la donna si fiondò sulla figlia stringendola in un forte abbraccio e scoppiando letteralmente in lacrime, mentre il padre si affacciava dalla porta, il viso stravolto e consunto.
Rin non ricambiò il gesto d’affetto, ma nemmeno lo respinse. Semplicemente rimase inerme fra le braccia della madre, lo sguardo assente e l’espressione vacua. Non si degnò di muovere un solo muscolo, né di mostrare anche il minimo sprazzo di emotività. Come un manichino freddo ed insensibile, involucro di legno, vuoto, rimase sul posto. Solo quando il padre fece per avvicinarsi riacquistò ciò che la poteva distinguere da un oggetto inanimato. Lo sguardo si spostò di scatto, nettamente, scoccando fuoco puro al padre il quale si arrestò sul posto, inchiodato dagli occhi minacciosi della figlia, contornati da segni profondi di rabbia, segni che la ornavano di un sfumatura più matura. Rin pareva cresciuta in poche ore e non esattamente seguendo il sereno esempio del focolare domestico. Era ribelle, una gatta selvatica, insorta alle regole imposte da lui.
Kazuyo sciolse l’abbraccio e cercò il suo sguardo, ma lei persistette nell’infierire su suo padre, ignorandola di netto, trapassandola con lo sguardo, come se fosse solo un corpo immateriale, irrilevante, fuori dalla sua vita. Il signor Natsuki non si perse d’animo e fece per abbracciare la figlia ma lei lo freddò nuovamente, con la lama che sfoderava dai suoi occhi, con le iridi perforanti che parevano aggressive lingue di fuoco selvaggio, pronte a scattare, sibilare.
-Non mi toccare- sibilò lei a denti stretti, un’impassibilità gelida in volto, apparenza superficiale che celava il suo fuoco intimo, che si dimenava e graffiata, divorava e mordeva il suo petto.
-Rin io… - cominciò il padre cautamente.
-No- urlò lei, la rabbia negli occhi –ora parlo io- sibilò.
 
Ryan rimase col fiato sospeso, seguendo lo scambio di battute agghiaccianti. Rin era pregna di rabbia, assetata di vendetta e terribilmente risoluta a pareggiare i conti. Voleva che essi provassero ciò che lei aveva provato. Voleva ribaltare i ruoli.
Estrasse lentamente il volantino firmato, e lo mostrò al padre con aria di sfida –Lo vedi questo?- disse, indicandolo con un’espressione seria, acuminata –E’ il mio lavoro- sorrise con amarezza –sono un’allenatrice-
Il padre fece per parlare ma lei lo mise a tacere nuovamente, come un padrone fa con il cane –posso pagarmi i corsi- ringhiò –e non grazie a te, no. Tu non hai fatto niente, niente- sputò con disprezzo –sono indipendente con questo. Con lo sport. Grazie allo sport-
Un’ondata di rabbia pura trasfigurò il viso della ragazza, donandole un viso di inquietante distacco – Sei stato inutile- pronunciò le parole una distaccata nettamente dall’altra, scandendole bene, caricandole di rabbia e arricchendole del sapore salato delle lacrime – Non è bello sentirselo dire, vero?- mormorò a voce bassa, roca, un ringhio sommesso.
 Lui non poté evitare di abbassare lo sguardo e il capo, crollare sotto la verità delle parole di Rin, sotto l’intensità dei suoi sentimenti, sotto la sua grinta e la sua vittoria.
-Tesoro- sussurrò flebilmente la madre –vieni dentro, ti preparo qualcosa di caldo, vuoi?-
Rin le puntò addosso gli occhi, ma non la guardò seriamente –Non ho tempo per te-
Secca, diretta.
Detto questo, Rin girò i tacchi e li lasciò là, impalati,  in lacrime, deboli e sconfitti.
 
-Secondo voi sta bene?- fece Urara, a qualche passo di distanza da Rin, la quale, chiusa in se stessa, divorava a grandi passi la strada.
-ha pareggiato i conti- rispose Komachi, stringendosi nelle spalle –credo che ne sia soddisfatta-
--Non pensate che possa provare dei rimorsi per quello che ha fatto?- interloquì Nozomi, lanciando uno sguardo angosciato all’amica.
-Cavolo, i miei mi avrebbero già uccisa se … - cominciò Urara con vocina squillante, tentando di trovare altre vie su cui radicarsi  per evitare di infierire sulla situazione, già critica, di Rin.
-I tuoi ti hanno mai negato la recitazione?- ringhiò Karen improvvisamente, con voce apparentemente pacata, ma velata di un gelo autoritario. Scoccò a Urara uno sguardo freddo, che lambì ogni piega spensierata e superficiale della sua mente, come un turbine irruente d’acqua.
Lei scosse il capo, intimidita dall’alone di prevalenza scaturito da Karen.
La ragazza alzò lievemente il mento con fare severo –Ha fatto le sue scelte. Non sono affari nostri- sibilò, passando in rassegna i visi delle compagne con sguardo eloquente.
Ryan annuì, concorde –mi chiedo solo cos’abbia intenzione di fare ora-
Kurumi gli lanciò uno sguardo ironico, alzando il sopracciglio –E io mi chiedo quando troverai il coraggio di dirle che ti piace-
Il ragazzo avvampò vistosamente e cadde inevitabilmente nell’imbarazzo –E questo che c’entra?- rispose, leggermente piccato dal comportamento invadente della ragazza.
Lei si strinse nelle spalle, un mezzo sorrisetto enigmatico chiuso fra gli angoli della bocca.
 
Un’ora dopo, Rin si ritrovò nuovamente di fronte a quella porta, sotto quel tetto, affiancata dalla stessa cassetta della posta, morsa dalla stessa agitazione, animata dalla stessa fiamma.
Aveva concesso loro un’ora per riflettere e riprendersi, per ragionare e per esaminare la situazione con gli occhi della lucidità, non dell’ira, né della disperazione.
Lei stessa ne aveva bisogno, doveva dissipare i rancori, lasciare la presa sulla rabbia e placare la burrasca che le si agitava in corpo. Non aveva intenzioni di riallacciare i legami appieno, ma, mettendo da parte l’orgoglio, era stata costretta ad ammettere di avere un disperato bisogno di un sostegno, un contrafforte, una famiglia su cui appoggiarsi.
Bramava la conferma, non il rifiuto costante. Desiderava  essere considerata, acquisire rilievo, non sparire in una piatta lastra monocroma.
Desiderava poter porgere una mano verso i suoi sogni, piuttosto che soddisfare le ambizioni altrui.
Con un profondo respiro, Rin aprì la porta.
 
NOTE: si, okay. Fa schifo. Scusate, ma  questa settimana non riesco prorpio a scrivere, non so che cosa mi sia successo, ma mi blocco appena metto mano sulla tastiera. Chiedo ancora scusa per il capitolo scarso, che sarebbe dovuto essere molto più ricco, vista la situazione. Cercherò di fare di meglio nel prossimo. 

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Capitolo 35
*** Nuove emozioni. ***


Syrup barcollò nell’ingresso della Natts House, in un disperato tentativo di tenere in equilibrio l’enorme sacco crepitante che lo privava di buona parte del suo campo visivo. Il pane all’interno non faceva che rotolare e sbatacchiare verso destra e sinistra con un brontolio cupo, rischiano di piegare il tutto e trascinare il ragazzo, di corporatura decisamente minuta, per giunta, in uno slalom estremo.
Con uno sbuffo, Syrup appoggiò il sacco con il pane sul primo oggetto che si trovò davanti, il quale, successivamente, si sarebbe sfortunatamente rivelato un Natsu pacato e sereno, alla ricerca di silenzio e quiete per leggere un libro.
Gli scoccò un’occhiataccia da sopra la copertina spessa del volume, ma rimase in silenzio austero e non infierì tragicamente sulla situazione.
Dei passi frettolosi preannunciarono l’imminente entrata in scena da parte di Kokoda, il quale, senza proferire parola alcuna, passò accanto alla poltrona su cui era seduto Natsu, afferrò con noncuranza il sacco e lo appoggiò sul bancone, estraendo un pezzo di pane fresco da mettere sotto i denti. Si sostenne con un gomito sulla superficie lucida, quindi smarrì il suo sguardo al di là del vetro lustrato della finestra.
Syrup alzò un sopracciglio con fare perplesso. Kokoda pareva improvvisamente ritirato in se stesso, in grinze angosciate e dietro uno sguardo inquieto, tanto pulito e limpido da poter quasi scorgere i pensieri attraversargli la mente.
Si strinse nelle spalle, quindi si lasciò cadere a sua volta sul divano, sprofondando fra i materassi con un mugugno soddisfatto.
Per un lungo arco di tempo, nessuno abbandonò la sua posizione. Natsu, imperscrutabile, persisteva imperterrito nella lettura del suo libro, tagliando di tanto in tanto l’aria con il sibilo delle pagine, assordante nel mezzo di quel silenzio denso e pesante. Kokoda non abbandonò per un minuto la sua postazione accanto alla finestra, ruminando il pane senza alcun ritegno. E Syrup rimase accomodato fra i cuscini, intento a far sfrecciare lo sguardo sui due amici, in cerca di una minima reazione che avrebbe potuto confermare un segno di vita.
Infine Kokoda sospirò e lasciò crollare le spalle in avanti, facendo scivolare lo sguardo verso il basso –mi preoccupa- mormorò, l’ansia palese fra le sue corde vocali.
Natsu non esitò a serrare il libro con un tonfo, cosa che non era solito fare, se non in casi estremi.
-Anche a me- rispose, indirizzando all’amico uno sguardo nocciola colmo di angoscia, mentre l’insistente movimento tremulo di una gamba palesava in tutto per tutto quanto i suoi nervi fossero tesi.
Entrambi sollevarono lo sguardo su Syrup il quale, assorto nei suoi ragionamenti, si arrestò nell’atto di sbadigliare –che c’è?- fece poi, disorientato dall’improvvisa attenzione ricevuta.
-Kokoda- mormorò Natsu, riponendo il libro sulla mensola alla sua schiena –Le ragazze sono a scuola. E’ il momento giusto per capire cosa sta succedendo-
In risposta l’amico storse leggermente la bocca, scoccando l’ennesima occhiata al cielo terso di quella mattina –Hai ragione- sospirò, passandosi una mano sul lato del collo –Syrup- chiamò, inchiodandolo con sguardo serio –portaci al portale-
 
Rin si appoggiò al bancone della palestra, sorridendo ad Haruka che le porgeva la divisa smagliante di allenatrice, inclusa in una busta incolore, strizzandole un occhio con aria scaltra.
-E così ce l’hai fatta, Natsuki- esclamò con soddisfazione, gonfiando il petto come se il successo l’avesse conquistato lei e non Rin.
La rossa le sorrise di rimando, finalmente colma di gioia e fiera per quel traguardo tanto agognato quanto inatteso -Non ci speravo più- mormorò, senza riuscire a strapparsi dalle labbra quel sorrisetto commosso che l’aveva accompagnata quotidianamente.
Haruka scoppiò a ridere di cuore, assestandole una leggera pacca amichevole sulla spalla e porgendole alcuni documenti da leggere e firmare –Non è facile avere a che fare con te- esclamò in tono ironico, lasciandosi cadere sulla sedia a rotelle che teneva dietro la scrivania d’ingresso.
Rin inarcò le sopracciglia con fare teatrale e fece per rispondere a tono con sarcasmo, ma la porta d’ingresso coprì le sue parole e una voce squillante, fin troppo familiare, troncò di netto le sue intenzioni.
Nozomi l’affiancò, un sorrisone sornione stampato in volto, mentre Ryan la seguiva tenendo la sacca da ginnastica a penzoloni sulla schiena.
-Salve, coach- scherzò il ragazzo, sorridendole con una timida ironia.
Rin gli scoccò un’occhiata divertita –Ciao, pivello- rispose, firmando un volantino con un mezzo sorriso euforico stretto fra le labbra.
Il sorriso di Nozomi si allungò come un elastico, fino a toccare entrambe le orecchie con gli angoli della bocca –Rin ti schiaccerà- sussurrò a Ryan, portandosi una mano ad un lato del viso, fingendo l’intenzione di impedire alla diretta interessata di ascoltare il discorso.
Haruka annuì con fare saggio –Condoglianze, ragazzo- disse, prima di scoppiare a ridere sguaiatamente, battendo una mano sulla scrivania.
Rin scosse la testa, ostentando un’aria impassibile. Ormai era abituata ai nomignoli scherzosi che le affibbiavano i compagni di squadra, giusto per canzonare il suo fare risoluto e instancabile.
-Comincia pure- disse a Ryan con voce leggermente distaccata, assorta nella lettura di un documento, stampato in un fitto carattere scuro –Ti raggiungo-
Il ragazzo salutò Nozomi quindi si avviò per gli spogliatoi.
Rin firmò l’ultimo documento, quindi spinse la pila di fogli verso Haruka con espressione volutamente annoiata. Lei rise, afferrò i fogli, li unì con una graffetta e li infilò in una cartelletta, scribacchiandoci sopra qualcosa per poi chiuderli in un cassetto.
-Ora puoi andare- le disse con un sorriso sincero, notando l’impazienza fremente di Rin che le impediva di aspettare oltre per gettarsi sul campo.
Lei annuì, prese la sua sacca e imboccò il corridoio per gli spogliatoi femminili. Camminò di fianco ad un’apertura che dava direttamente sul campo da basket e vi lanciò un’occhiata pigra. Ryan stava facendo un leggero stretching per scaldarsi, torcendo il busto e flettendosi per toccarsi le punte dei piedi. Senza rendersene conto rallentò l’andatura e, con lo sguardo, esitò più di quanto avrebbe dovuto e voluto.
-Non ti vedo quella faccia addosso da molto tempo- esclamò Nozomi, comparsa dal nulla al suo fianco, il consueto sorrisone scaltro a tagliarle i lineamenti sornioni.
Rin le lanciò un’occhiata annoiata –hmm?- fece solo, inarcando un sopracciglio e appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta.
-da quando hai regalato un braccialetto a quel ragazzo, ricordi?- continuò Nozomi, nella speranza di sollecitare la sua mente a spingere gli ingranaggi, arrugginiti da troppo tempo su quel fronte.
Rin rimase impassibile.
L’amica sospirò – Dall’ultima volta che ti sei presa una cotta- sbottò infine, tentando di spiattellare in faccia a Rin la situazione al completo.
Rin non diede segni di aver afferrato il concetto di quella discussione.
-D’accordo- si arrese Nozomi –Parliamo di Ryan- concluse, incrociando le braccia al petto e calandosi in viso un’aria mezza imbronciata.
-Che dobbiamo dire?- fece Rin, corrugando la fronte e infilandosi nella perfetta incarnazione della perplessità.
Nozomi finse di suicidarsi brutalmente, facendole scappare un mezzo sorrisetto, sebbene confuso.
-Non hai notato niente di strano in lui?- riprese l’amica, gesticolando in modo esasperato e lanciandole occhiate eloquenti –Nessun particolare interesse nei tuoi confronti?-
-Cosa?- disse Rin, l’ilarità già in procinto di sprizzare fra le pieghe del suo volto –ma di che stai parlando?- chiese, incrociando le braccia.
-Sveglia, Rin!- sbottò Nozomi, terribilmente spazientita ed esasperata. Indicò Ryan con entrambe le braccia e spalancò gli occhi –Ryan è cotto di te!- sillabò lentamente, in modo che la ragazza potesse afferrare appieno il succo della situazione.
Detto questo sbuffò e scosse leggermente il capo, tornando all’ingresso borbottando e brontolando con mugugni incomprensibili, lasciando Rin impalata, nel bel mezzo del corridoio.
Il sorriso divertito morì sulle labbra della rossa e una smorfia meditabonda prese a stirarle i tratti. Alzò lo sguardo su Ryan, ma non fu nemmeno in grado di ragionare sulla faccenda, perché un problema maggiore le si parò innanzi.
 
Ryan si posò le mani sulla zona lombare della schiena e si inarcò leggermente, contraendo i dorsali e distendendo gli addominali. Lanciò un’occhiata impaziente all’orologio appeso sulla parete, in attesa fremente dell’intervento di Rin.
-Ryan- una voce bassa e vellutata gli accarezzò i timpani. Una voce familiare, già udita prima, ma che non trovò una persona conosciuta a cui essere collegata.
Si voltò, scostandosi un ciuffo candido dal viso. E per poco non si prese un infarto.
-Felice di rivederti- sorrise la donna anonima, stretta nel solito vestito nero, terribilmente attillato, mentre una cascata di capelli corvini, lisci e lucenti, le accarezzavano lo sprazzo di schiena che l’abito lasciava scoperto.
Con un mezzo sorrisetto, che Ryan reputò terribilmente ammiccante, gli si avvicinò porgendogli la mano.
Ryan fece passare lo sguardo dalla mano al viso di lei, mentre una profonda diffidenza affondava le zanne nel suo petto. Rin non si fidava di lei. Aveva impedito che avessero alcun contatto, anche solo a livello fisico, e l’aveva scacciata in malo modo. Ryan confidava ciecamente in Rin, di conseguenza si ravvide dallo stringere la mano di quella donna, semplicemente forzò un sorrisetto, ma non disse nulla.
Lei inarcò le sopracciglia e arricciò le labbra carnose, rilasciando il braccio lungo il fianco –vorrei farti una proposta- continuò, mentre Ryan riprendeva gli esercizi, sperando che lo lasciasse in pace e trovasse qualcun altro da tormentare.
-D’accordo- rispose lui con fare freddo, sapendo perfettamente che, di qualunque proposta si trattasse, l’avrebbe fermamente rifiutata.
-In privato- specificò lei, scostandosi una lunga ciocca di capelli dal collo con aria teatrale.
Ryan si bloccò sul posto, mentre il cuore gli schizzava in gola. Non aveva idea di cosa fare. Quella donna non gli ispirava affatto fiducia, e il ragazzo era sempre più riluttante ad avere a che fare con lei. In fondo, però, sarebbe potuta essere semplicemente una sua impressione. I suoi compagni di basket le scoccavano sguardi tutt’altro che riluttanti, ciò significava che erano in grado di vederla e sentirla e che, quindi, non si trovava di fronte ad una sorta di demone. O almeno sperava.
-Veramente dovrei … - cominciò timidamente.
-Perfetto- lo interruppe lei bruscamente, afferrandolo per un polso e trascinandolo nella sala dell’infermeria.
Quando la donna chiuse a chiave la porta, Ryan si sentì mancare.
 
Rin si avviò con decisione in direzione dell’infermeria, divorando a grandi passi i metri che la distanziavano da quella piccola sala. Con la mascella contratta e l’irritazione bruciante nelle vene, Rin tentò di fare irruzione nella stanza, ma la porta le si parò davanti chiusa a chiave. Forzò freneticamente la serratura e la maniglia ma senza alcun risultato.
Un brivido gelido percorse la schiena di Rin, mentre il pensiero che Ryan fosse chiuso in una stanza claustrofobica con quella che si definiva allenatrice ma che, a detta sua, era tutt’altro, le faceva saltare letteralmente i nervi.
 
Ryan arretrò fino al muro, rischiando di fare cadere i vari strumenti di medicina accumulati sul comodino, mentre il respiro gli si bloccava nei polmoni e l’ansia cresceva fino a chiudergli la gola.
La donna rivelò un sorriso che si trasformò ben presto in un ghigno agghiacciante, mentre si avvicinava con aria minacciosa e con lento incedere.
Un bussare frenetico spezzò il silenzio della stanza e una piccolissima scintilla di speranza si accese nel petto di Ryan.
La donna parve non farci alcun caso e continuò ad avanzare, mentre i suoi tratti prendevano pieghe prepotenti e gli occhi acquisivano un balenio pericoloso.
-Ehi, allenatrice dei miei stivali!- urlò una voce aggressiva, attutita dalla distanza, al di fuori della sala –Apri questa porta- ordinò, ringhiando come una bestia prima dell’agguato.
Lei non la sentì nemmeno, il suo viso si nascose in grinze da predatrice e Ryan fu certo di udire un sibilo raccapricciante avvilupparlo in una morsa di terrore, mentre ricordi sgradevoli gli rimescolavano le viscere.
-Aprila o giuro che la sfondo!- urlò Rin, perché Ryan era sicuro che si trattasse di lei, domata dalla furia.
Il ragazzo prese ad agitarsi palesemente, chiuso in trappola da quella donna spaventosa, bella e inquietante al contempo. Eppure, in quel momento, pareva aver smarrito ciò per cui la si poteva definire bella.
Un’aria accattivante si palesò nel suo comportamento, e si aggravò gradualmente, finché un tonfo forte, secco, non squassò le pareti, forzò i cardini e fece gemere il legno.
Allora un lampo di angoscia attraversò lo sguardo della donna e la piccola scintilla di speranza prese fuoco e scaldò il corpo di Ryan, spaventato a morte.
Un secondo tonfo, più forte del precedente, fece crepitare la porta, e il tintinnio della serratura che saltava rimbombò in tutta la sala.
Al terzo colpo, la porta cedette, i cardini balzarono via, la chiave schizzò sul muro e Rin fini nella stanza, assorbita in una nuvola di polvere scura, gonfia e minacciosa, ma mai quanto l’espressione omicida  che calava sui tratti di Rin.
Solo lei sarebbe stata in grado di sfondare una porta a spallate. Ryan percepì il sollievo rilassargli completamente il corpo e una forte gratitudine rinfrancarlo.
La donna si voltò, portandosi una mano al petto e calzando l’imitazione dello stupore –Che modi!- protestò con voce scandalizzata, poi, una volta osservata bene Rin, si rilassò leggermente –Gli stavo solo facendo una porpos … -
-Taci- abbaiò Rin, alzando il mento e trucidandola con lo sguardo, acceso di un fuoco spaventoso –Fuori di qui- sibilò.
La donna afferrò dei tratti feroci , una rabbia cieca prese a trasfigurarle il volto e, per un attimo, parve in procinto di agire in qualche modo ma, quando il suo sguardo si posò oltre la spalla di Rin, parve quietarsi improvvisamente e, senza battere ciglio, uscì dalla stanza.
Rin si assicurò che scomparisse dalla sua vista, quindi si voltò, ritrovandosi di fronte una schiera di giocatori da basket incuriositi dalla confusione che aveva creato quell’irruzione forzata.
-Volete anche i popcorn?- ringhiò nella loro direzione, spaventandoli a morte e inducendoli a tornare ai loro allenamenti. Solo allora, Rin si rilassò leggermente, passandosi una mano sul viso e lanciando uno sguardo a  Ryan.
Lui sospirò e si lasciò cadere sulla sedia più vicina, sbuffando la tensione accumulata fino a quel momento. Per un attimo, aveva temuto che quella donna potesse sfoderare un coltello dal nulla e piantarglielo nel petto, vista la sua espressione folle.
-Stai bene?- gli chiese, avvicinandosi e porgendogli una mano per alzarsi.
Bastò quel semplice gesto perché Ryan si dimenticasse improvvisamente l’accaduto, sostituendo di netto l’angoscia ad una forte emozione che accelerò i battiti del suo cuore.
Annuì mestamente, afferrandole la mano e facendosi aiutare.
Uscirono dalla stanza, entrambi con il fiato corto e provati dalla situazione.
-Rin- esordì il ragazzo –ti ringrazio. Quella donna mi fa davvero venire brividi-
La ragazza si voltò a guardarlo come se fosse un estraneo con tre braccia, un solo occhio e le infradito infilate con un paio di orrendi calzini.
-Che c’è?- fece lui, temendo di aver detto qualcosa che avrebbe fatto meglio a tacere.
-Ho avuto la stessa sensazione- mormorò Rin con aria assorta –Ma le altre non mi hanno creduto-
Ryan corrugò la fronte, mentre l’ennesimo brivido faceva l’arrampicata sulle sue vertebre. Molto probabilmente impallidì –pensi che sia un demone?- sussurrò senza fiato, terrorizzato all’idea di essere entrato in contatto con un nemico.
-Non lo so- rispose lei, rilassando l’espressione –Non pensarci. In caso ci fosse qualche problema sarò pronta a prendere a spallate anche lei, se sarà necessario- forzò un sorriso per rassicurarlo e lui le fu terribilmente grato.
Le sorrise. Si guardò leggermente attorno e, dal momento che il corridoio era deserto e silente, colse subito l’occasione, riportando alla mente le parole incoraggianti di Urara.
-Rin- mormorò, lo sguardo basso, il respiro irregolare e le gambe terribilmente molli. Prese fiato, poi lo rilasciò, mentre il cuore martellava così forte che, per un attimo, temette che potesse udirlo persino lei. Era il momento giusto per dirglielo. Era il momento giusto per aprirsi a lei.
Prese coraggio e aprì la bocca. Per un secondo, si trovò veramente ad un passo dal dichiararsi.
Ma la prospettiva di un rifiuto era troppo forte e minacciosa. Un’ombra cupa proiettata sui pensieri positivi, un’ombra tanto grande da coprirli completamente. Chiuse la bocca, contraendo la mascella e maledicendo la sua codardia.
-Ti senti bene?- fece Rin avvicinandosi e esaminandolo con sguardo indagatore, alla ricerca di segni negativi.
-Si – rispose distrattamente Ryan –No!- si corresse, inducendo Rin a corrugare la fronte e a lanciargli un’occhiata esitante –No, a dire la verità. Mi fa male … - Il ragazzo pensò febbrilmente ad una giustificazione valida e fulminea –Mi fa male la spalla. Mi chiedevo se potessi darmi una controllata- concluse tutto d’un fiato, portandosi una mano alla spalla sinistra e fingendo dolore.
Be’, perlomeno avrebbe guadagnato tempo per stare con lei da solo.
-Io?- fece Rin, indicandosi un pollice e inarcando le sopracciglia, tentennante –L’infermiera è più esperta e …-
-Non la sopporto- rispose Ryan di getto, implorando mentalmente perdono alla simpatia donna paffutella qual’era l’infermiera.
Rin rimase in silenzio qualche secondo, poi annuì leggermente, senza abbandonare una lieve sfumatura confusa –D’accordo- fece infine, stringendosi nelle spalle e aprendo la porta del suo studio, nuovo di zecca.
 
Rin entrò nello studio, chiudendosi la porta alle spalle, rimuginando sul comportamento decisamente insolito da parte di Ryan. La breve discussione ingaggiata con Nozomi le riaffiorò nella mente e, mentre cominciava seriamente a prendere in considerazione l’ipotesi di aver colpito Ryan, si lavò le mani con del sapone.
Prese un asciugamano e si voltò per chiedere al ragazzo dove percepisse dolore, ma per poco non le prese un infarto, dal momento che si ritrovò davanti un imbarazzatissimo Ryan a torso nudo. Infarto infondato, tra l’altro, era del tutto ovvio che per controllare la spalla quella dovesse essere esposta e nuda. Si voltò nuovamente, ingoiando il cuore che le era schizzato in gola con un infido colpo basso, e si appoggiò al bordo del lavandino, sbuffando profondamente, mentre un’anonima vampata di caldo prendeva a cingerle il collo e carezzarle le gote.
Quando percepì di essere nuovamente stabile, si voltò di nuovo, facendo scivolare lo sguardo sul fisico asciutto di Ryan il quale, rosso come un pomodoro, teneva lo sguardo basso e fuggiva disperatamente il suo.
Gli si avvicinò, leggermente impacciata, quindi poggiò le sue dita fredde sulla scapola del ragazzo, il quale reagì all’istante, trasalendo suo malgrado e rabbrividendo.
-qui ti fa male?- cominciò Rin, tentando di mantenere il suo tono piatto e impassibile, nonostante un enigmatico tremito mai provato prima le scuotesse la voce.
-No- farfugliò lui in risposta.
Per un buon arco di tempo, la loro conversazione fu interamente fredda e formale, un semplice interrogatorio a livello professionale.
Poi  Rin decise improvvisamente di cambiare tono e discorso.
-Ehi- mormorò, leggermente tesa per l’imbarazzo della situazione –Ho parlato con Nozomi … - disse in tono vago, passando sul laterale della spalla e tastando i muscoli asciutti del ragazzo, chiedendosi se fosse davvero il caso di toccare quell’argomento per farsi dire la verità –Mi ha detto che … - esitò. No, forse non era davvero il caso. Lo avrebbe solo infilato in una posizione scomoda e lui l’avrebbe detestato a vita per questo. Come per voler confermare i suoi pensieri, il ragazzo si irrigidì nettamente sotto il suo tocco –Niente- si affrettò ad annullare lei –lascia stare- concluse, delineando il profilo del bicipite con l’indice e il medio.
-Rin- fece lui, dopo qualche minuto di pesante silenzio –Ora stai bene?-
La ragazza colse all’istante l’allusione a ciò che era successo qualche giorno prima, all’atteggiamento ruvido con cui si era approcciata ai suoi genitori e alla forte discussione pesante che avevano avuto.
E, probabilmente, anche allo stato con cui l’aveva trovata sotto la pioggia.
-Ora si, stangone- sorrise lei, tentando di alleviare la situazione e renderla meno soffocante ed imbarazzante.
Il ragazzo scosse il capo con fare divertito –Quando mi chiamerai con il mio nome?- fece, tenendo lo sguardo basso ma sciogliendo la tensione che c’era fra loro.
-Cosa?- rispose lei, passando sul lato frontale e tastando la sua clavicola, alla ricerca di un punto dolorante su cui fondarsi.
-Stangone, biondino, pivello, zoppo, persino sfigato!- rise Ryan lanciandole uno sguardo di sottecchi –Quando mi chiamerai con il mio nome?-
Rin sorrise con aria accattivante –e cosa ti fa pensare che lo farò?- mormorò con voce teatrale, in attesa di una risposta a tono che, però, non giunse. Ryan rimase in silenzio e non diede alcun segno di voler continuare la discussione.
Rin corrugò la fronte e si voltò per capire se ci fosse qualcosa di storto, ma quando lo fece, il suo sguardo si incrociò a quello di Ryan e i loro occhi si intrecciarono per la prima volta, senza che uno dei due distogliesse lo sguardo.
Senza volerlo, Rin si ritrovò a pensare che gli occhi chiari di Ryan fossero splendidi . Il pensiero, così terribilmente inadatto alla sua personalità, la fece improvvisamente avvampare, mentre il suo stomaco cadeva vittima di una strana vertigine indefinibile.
Stretta nell’abbraccio di emozioni sconosciute, lo vide inclinare lievemente il capo verso destra, mentre il battito del cuore colmava ogni suo spazio e la assordava.
 
 
NOTE: lo so, mi state maledicendo. :D scommetto che mi odiate perché ho spezzato il capitolo in questo particolare punto *MWAHAHAH* 

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Capitolo 36
*** Nuovi misteri. ***


Natsu strinse con forza le braccia attorno al collo di Syrup, nella sua enorme versione volatile, e abbassò il capo, rifugiandosi dalle sferzate violente d’aria. Kokoda, alle sue spalle, si portò l’avambraccio sulla fronte per sviare le folate d’aria dagli occhi sensibili.
La luce intensa e bluastra del portale allungò le sue impalpabili braccia fioche verso di loro, velandoli di un sottile riflesso tremulo.
Natsu alzò lo sguardo e percepì un’anonima morsa incorporea rivoltargli le viscere e chiudergli la gola, mentre lo squarcio, scuro e minaccioso, gravava pesante sulle loro teste, agitando lunghi tentacoli di luce al cielo, mentre il taglio irregolare, che pareva squarciare il tessuto stesso del cielo, imitava un vero e proprio pozzo oscuro, profondo quanto agghiacciante.
Percepì Kokoda rizzarsi con il busto e sporgersi leggermente dalla groppa di Syrup, mentre il gelo naturale di quella quota prendeva a squassare il corpo di entrambi.
-Non subisce più strattoni- urlò Kokoda, per sovrastare il vento che gli strappava le parole dalla bocca e le portava via con sé –Sembra che il processo si sia arrestato- continuò, senza staccare gli occhi da quello squarcio, tanto aguzzo e orrendo da parere un’orripilante bocca verticale, dotata di zanne acuminate e mascelle possenti.
-Forse è così- intervenne Syrup, rallentando progressivamente fino a raggiungere una distanza ragionevole dal portale.
-Forse- interloquì Natsu con voce mesta, lanciando sguardi indagatori al portale,il quale da tempo non aveva provveduto a sputare creature disgustose sul Giappone né ad aumentare le proprie dimensioni, espandere le proprie braccia e strappare ancora l’azzurro del cielo.
Si voltò per rivolgersi a Kokoda –Non mi convince- urlò, prima di accorgersi dello sguardo ceruleo dell’amico, perso oltre le sue spalle e contornato di un espressione che non prometteva nulla di buono.
Si volse nuovamente in direzione del portale, seguendo il suo sguardo, e un’esplosione improvvisa di luce lo inglobò, lasciandogli solo il tempo di sgranare gli occhi, terrorizzato.
 
Ryan inclinò lievemente il capo verso destra, serrando gli occhi con forza, senza trovare il coraggio di specchiarli in quelli cremisi di Rin, troppo timoroso di potervi leggere un rifiuto palese o un’ostinata incomprensione. Si calò timidamente sulla ragazza, la quale, fredda e severa, pareva una rigida colonna di granito inchiodata al pavimento.
La sensazione fu quella di gettarsi su un ponte pericolante e malfermo, sospeso su un burrone oscuro, senza sapere per certo se quello sarebbe stato in grado di sorreggere il suo peso o l’avrebbe gettato nell’ombra del burrone.
Per una minima frazione di secondo, le loro labbra si sfiorarono, sguinzagliando una serie di scosse stordenti fra i dorsali di Ryan. Fu un bacio veloce, fuggevole, nient’altro che un timido contatto fugace, scatenante, però, un vortice di emozioni in subbuglio nel petto del ragazzo.
Si ritrasse immediatamente, per paura di essere respinto, forse persino con violenza, ma si scoprì incapace di distanziarsi dalle sue labbra per più di qualche centimetro. Percepì il lieve respiro della ragazza carezzargli il viso e colmargli i lineamenti, mentre i suoi stessi polmoni si rifiutavano di riprendere a trarre ossigeno.
La ragazza non diede segni di alcuna sorta di reazione, come pietrificata, rimase ritta e rigida sul posto, lo sguardo assorto e l’espressione assolutamente piatta.
Poi, d’un tratto, le sue dita, impietrite nell’atto di sollecitare tendini e muscoli all’altezza della clavicola, scivolarono con cautela, seguendo la linea delle sue spalle  e raggiungendo l’attaccatura laterale del collo, lasciandosi dietro un fioco strascico freddo che fece letteralmente rabbrividire Ryan, ormai vittima di un vortice d’emozioni troppo travolgente perché potesse uscirne con facilità.
Ingoiò, ma la sua gola pareva stretta quanto un ago e la sua mente non aveva più alcuna intenzioni di seguire né la lucidità né la fredda ragione. Il suo corpo stava lentamente sfuggendo al suo controllo, ormai fioco, e prese a tremare flebilmente in un ritmo dettato dall’emozione mozzafiato.
Rin si levò sulle punte quel tanto che bastava per colmare la breve distanza fra di loro e, con grande sorpresa di Ryan, premette con forza le labbra sulla sua bocca, gettando il cervello del ragazzo in un angolino buio della sua mente.
Dapprima, Ryan fu talmente sorpreso dal gesto di Rin, che rimase impalato, il respiro sospeso, gli occhi sgranati e il corpo in piena tensione, rigido come un pezzo di legno. Poi, un’onda bruciante prese ad attraversare il suo corpo, provocando forte vertigini al suo stomaco e rischiando di fargli scoppiare il cuore.
Anch’egli fece scivolare le proprie mani sui fianchi esili di Rin, traendola a sé in un’unione sempre più intima, stretta, approfondendo gradualmente il loro contatto e acquisendo sicurezza man mano, come in un sogno o in una realtà parallela.
Rin percorse il collo del ragazzo con la destra, posando il palmo fresco sulla nuca e fece per infilare le sue dita fra i suoi capelli candidi, ma un improvviso bussare alla porta dello studio mandò a pezzi l’atmosfera come uno specchio.
La ragazza si strappò letteralmente dalle sue braccia e dalle sue labbra, come a riprendere improvvisamente consapevolezza di sé e riemergere da un torpore stordente. Un brivido gelido afferrò la schiena del ragazzo, mentre il pensiero che quello non fosse stato un gesto voluto prendeva a torturarlo con angoscia.
I due ebbero giusto il tempo di lanciarsi un breve sguardo fugace, colmo di sorpresa e venato di incredulità, quando la porta dello studio si spalancò, rivelando Haruka intenta a sfogliare un paio di volantini.
-Rin, hai un attimo?- fece, alzando lo sguardo e lanciando un’occhiata sconcertata a Ryan, a petto nudo, lievemente ansimante e scosso da flebili tremiti –va tutto bene?- disse allora, alzando le sopracciglia e facendo oscillare lo sguardo da lui e Rin.
La ragazza si riscosse –Si- rispose, ostentando assoluta naturalezza –la tua spalla è sana- disse poi, rivolgendosi a Ryan ma senza indirizzargli i soliti sguardi impassibili, solo occhiate fugaci e terribilmente imbarazzate. Detto questo fece per uscire con Haruka, ma Nozomi sbucò dal nulla, sgusciando dal fianco della presidentessa del club di basket con aria allarmata –Rin- ansimò, sorreggendosi sulle sue stesse ginocchia –siamo nei guai-
 
Karen, lanciò un’occhiata impaziente alla palestra, calmandosi soltanto quando vide uscire a corse Nozomi, Rin e Ryan. Quindi fece cenno a Komachi e Urara, al suo fianco, di incamminarsi.
-Che succede?- fece Rin agitata, lanciando sguardi inquieti nei dintorni.
In tutta risposta, Karen alzò lo sguardo al cielo, inducendo i presenti a fare lo stesso. Il portale si stava agitando, dimenando, producendo un rumore come di strappo, confondendo la propria immagine come qualcosa di indefinibile e indistinto, una macchia confusa che lasciava strascichi sfocati ovunque.
-Che cosa diavolo …?- fece Rin con angoscia, mentre Ryan, al suo fianco, si agitava palesemente.
-Non lo sappiamo- interloquì Urara, schiacciata dall’ansia.
–dobbiamo raggiungere la Natts House e avvertire gli altri- esclamò Komachi, cercando conferme nelle espressioni dei suoi compagni.
Rin annuì –andiamo- disse, e, in un battito di ciglia, si precipitarono in una folle corsa.
 
Urara scoccò l’ennesimo sguardo a ciò che rimaneva del portale, una massa indefinibile, eppure terribilmente spaventosa. Si chiese cosa stesse succedendo, si chiese se fossero in pericolo, si chiese se dovessero intervenire, ma, naturalmente, nessuna risposta scese a placare la sua angoscia.
Corse come mai aveva fatto prima; non ne conosceva il motivo, ma qualcosa la spingeva a raggiungere in fretta la Natts House, sebbene quello strano cambiamento non stesse dando alcun segno negativo.
Voltò l’angolo frettolosamente e, con sua sorpresa, si ritrovò davanti una ragazza alta, i capelli mossi e gli occhi chiari puntati al cielo, nello stesso punto in cui il portale si dimenava. Inchiodò di netto, ma non abbastanza in fretta per evitare di travolgerla.
-ahia- gemette la bionda, portandosi una mano alla nuca e sbirciando con un occhio la reazione della ragazza dal viso terribilmente familiare. Solo allora la riconobbe.
Yumiko Kate.
 
Komachi, lanciò uno sguardo angosciato alla ragazza che, nonostante fosse piombata a terra, teneva lo sguardo vacuo fisso in cielo. Com’era possibile che lei vedesse il portale? Solo loro ne erano in grado.
Aiutò Urara ad alzarsi, sempre tenendo sotto controllo le reazioni di Yumiko.Pareva assorta, quasi ipnotizzata, i suoi occhi riflettevano la luce blu del portale, eppure non potevano vederlo.
-Tu lo vedi?- esclamò Rin di getto, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Karen, la quale pretendeva che tutto ciò che includesse le Pretty Cure fosse taciuto ad estranei.
-No- rispose lei, la voce piatta ed inespressiva –lo sento- poi si voltò e scambiò una lunga occhiata con Ryan, il quale, colto alla sprovvista, rimase a sua volta impalato a fissarla negli occhi, come se fra i due ci fosse un sottile legame, un filo appena percepibile che li univa.
Il ragazzo le porse la mano per rialzarsi, e lei gliela strinse, sotto gli occhi sconcertati delle ragazze.
Nel preciso istante in cui le loro dita si strinsero una flebile luce sembro animare il corpo del ragazzo, mentre Yumiko parve smarrire la ragione e, con un gemito, le sue palpebre si serrarono e lei si accasciò su un fianco, subito seguita da Ryan, che cadde riverso a terra, privo di sensi.
 
-sono svenuti entrambi?- fece Kurumi, sgranando gli occhi e lanciando uno sguardo ai due, adagiati su due poltrone distinte della Natts House, entrambi preda di un sonno enigmatico.
Urara annuì – All’improvviso- confermò, gesticolando per rendere l’idea.
-E per di più- intervenne Karen con voce severa –Spero vi siate accorti di quello che sta succedendo in cielo, vero?- disse, l’angoscia palese nella voce.
Kurumi sospirò, passandosi una mano sul viso –E non è finita- mormorò lasciandosi cadere con fare esausto sul divano.
Nozomi corrugò la fronte –Che intendi?- fece, poi, guardandosi attorno inarcò le sopracciglia –Dove sono gli altri?-
Kurumi le scoccò un’occhiata inquieta, mentre si agitava sul materasso del divano –Sono scomparsi-

 

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Capitolo 37
*** Speranza. ***


-Dobbiamo fare qualcosa- mormorò Nozomi in preda all’ansia, scoccando insistenti occhiate dalla finestra, laddove il portale riluceva di un blu cupo e minacciava con le sue zanne corvine.
-Dobbiamo cercarli- concordò Urara, in piena agitazione per gli amici, chi smarriti, chi ancora profondamente preda di un torpore anonimo.
-Lo so!- ringhiò Kurumi, zittendole all’istante e lasciandosi cadere sulla sedia dietro al bancone. Si portò una mano alla tempia e sospirò piano, calando le palpebre per calmarsi e afferrare una giusta lucidità. Non  era facile gestire la situazione da sola. Non era facile ora che i ragazzi non erano al suo fianco, a ragionare con lei, a suggerirle ciò che andava fatto e ciò che sarebbe stato meglio lasciar perdere. La situazione era sempre peggio, e Kurumi non riusciva a calarsi in una fredda ragionevolezza per poter riflettere al meglio; stava lentamente scivolando nello sconforto e, se non fosse riuscita a riacquistare sicurezza, avrebbe lascito perdere tutto e il controllo le sarebbe scivolato dalle mani come sabbia al vento.
-D’accordo- fece infine, inspirando profondamente –Qualcuno li deve cercare- affermò, alzandosi e appoggiando i palmi sul bancone. Passò in rassegna i visi delle compagne, quindi annuì con aria mesta –Nozomi e Karen, cercate a sud della città- ordinò –Urara e Komachi, rimarrete qui a badare a Ryan e Yumiko-
Urara saltò su e fece per protestare, ma Kurumi levò una mano con fare secco –Serve che tu stia qui. Komachi non può contrastare un demone da sola. Nessuno può farlo-
Si scostò una ciocca dal collo –Quanto a me- si mordicchiò leggermente il labbro –cercherò nei pressi del portale- inchiodò Rin con lo sguardo –voglio Rin con me-
Lei dapprima inarcò le sopracciglia, sembrò esitare, lanciando una fuggevole occhiata ai due amici giacenti sulle poltrone, ma durò un battito di ciglia, quindi annuì con aria risoluta –Conta su di me-
 
Ryan gemette leggermente. Percepiva una forte morsa stringergli il capo e tenergli prigioniere le tempie pulsanti. Avvertiva una strana sensazione di sé, si sentiva pieno, completo, fresco e carico al contempo. La sua mente era completamente immersa nel buio e il suo cervello faticava a rimettere insieme i pezzi e ragionava a rilento.
Fece una smorfia, quindi sollevò le palpebre, pesanti come macigni, e riemerse dal suo sonno.
Dapprima la vista non fu altro che un insieme di macchie sfocate e indistinte, nient’altro che una tremula visione di colori slavati e poco concordanti fra loro. Poi, molto lentamente, le macchie presero gradualmente ad acquisire un significato sempre più concreto.
-Ryan?- una voce conosciuta gli giunse alle orecchie, stimolando i suoi sensi a sgusciare via dalla presa infida del torpore.
Ruotò il capo di lato e riconobbe Komachi, china su di lui, l’espressione stropicciata d’angoscia e gli occhi verdi che spaziavano sul suo viso –come ti senti?-
Lui si portò una mano alla fronte e chiuse le palpebre brucianti –strano- rispose sincero, riaprendo gli occhi celesti sulla sala vuota –dov’è Rin?- lo chiese senza nemmeno pensarci, gli uscì dalle labbra spontaneo, non dovette nemmeno faticare per comporre quel pensiero nella sua mente debole e intorpidita.
-Con Kurumi- rispose solo lei, forzando un sorriso pacato per nulla spontaneo.
-è sveglia- la voce acuta di Urara riscosse Komachi, la quale dapprima scoccò uno sguardo alla sua destra, poi annuì e raggiunse l’amica, china su una differente poltrona. Vi giaceva una ragazza slanciata dai capelli mossi, scuri, le pupille abbracciate da un blu intenso e l’espressione confusa.
-Ciao- le sorrise Komachi, tentando di assumere appieno un’aria rassicurante –ti senti meglio?-
La ragazza le cacciò uno sguardo perplesso e disorientato, quindi corrugò la fronte e si guardò attorno –dove sono?- chiese flebilmente.
-Ricordi nulla?- domandò a sua volta Urara, accomodandosi al fianco della ragazza.
Lei si sforzò di scavare nella sua mente, ma tutto ciò che riaffiorò fu l’ultima lezione di lettere a scuola, prima che si scontrasse con Ryan e che piombasse nel sonno.
Ryan, al contrario, ricordava bene il loro incontro. Nel momento in cui il ragazzo le aveva stretto la mano, una scossa repentina gli aveva attraversato il corpo di netto, lasciandosi dietro un gradevole strascico fresco e un delicato aroma frizzante. Da quel momento gli pareva dia avere il corpo colmo d’aria, gli pareva di respirare con ogni centimetro della propria pelle e non con naso e bocca, percepiva come un vortice in miniatura squassargli il petto e agitarsi fra le sue viscere, come una corrente d’aria. Percepiva chiaramente la sensazione inebriante che lo aveva afferrato un minuto prima di perdere il controllo del suo stesso potere.
 
Karen aprì la porta della Natts House, stringendosi fra le proprie braccia e scaldandosi per attrito. Gli sguardi speranzosi che Urara e Komachi levarono su di lei furono letteralmente strazianti. Con aria abbattuta serrò la porta alle sue spalle –Niente- disse solo. La loro ricerca non aveva dato alcun frutto.
Nozomi al suo fianco, sbuffò tutta la tensione, quindi si lasciò cadere sulla prima sedia disponibile e rimase in ostinato silenzio.
-Perlomeno vi siete svegliati- mormorò Karen, accennando un breve sorriso a Ryan e portando il proprio cappotto all’appendiabiti più vicino.
Komachi le lanciò uno sguardo preoccupato, quindi si alzò e fece per spiegarle la situazione, ma fu interrotta dall’improvvisa entrata in scena di Rin e Kurumi, le quali piombarono nella stanza con il fiato corto. Entrambe scossero la testa, mandando in frantumi anche le briciole di speranza rimaste nei cuori delle compagne.
-Niente da fare- ansimò Rin, appoggiandosi allo stipite della porta –Non c’è traccia di loro- concluse, passandosi una mano sul viso.
-Kurumi- fece Komachi con urgenza, afferrandole un avambraccio. Scambiò con lei uno sguardo serio quindi sospirò lievemente –Yumiko non ricorda nulla-
 
Rin si sentì estremamente sollevata quando scorse Ryan reagire al meglio dal sonno, sveglio e vigile, dall’aspetto carico e fresco come una rosa. Era sollevata, ma al contempo abbattuta. Natsu, Kokoda e Syrup non si trovavano, il portale si dimenava sempre più furiosamente, Yumiko appariva dal nulla, cadeva nel sonno e ora non ricordava assolutamente nulla. Kurumi era terribilmente tesa e schiacciata dal peso della responsabilità. E lei era smarrita, sia nella situazione attuale, sia nei propri pensieri e rivalutazioni.
Kurumi, dopo essersi consultata con Komachi e Karen, si avvicinò con cautela alla ragazza, le sorrise e le propose di uscire a prendere una fresca boccata d’aria per schiarirsi le idee. Quando le due furono fuori, Karen si avvicinò a loro e prese a spiegare a mezza voce i ragionamenti, le ipotesi e le conclusioni a cui erano arrivate.
-Secondo Kurumi- iniziò –il flusso di energia ora è stabile. Pare, e ripeto; non ne siamo sicure, che Yumiko fosse stata soggetta anche alla più flebile diramazione del flusso e che, quindi, contenesse nel prorpio corpo una minima quantità di energia, nient’altro che un residuo in realtà. Per questo motivo, forse, la ragazza era in grado di sentire il portale o scorgere ombre che altri non potevano vedere. L’energia, però, era solo una piccolissima parte, ciò le rendeva impossibile resistere al nemico nel momento degli attacchi- scoccò uno sguardo serio a Ryan –Tra Ryan e Yumiko c’è sempre stato un flebile legame, lo stesso flusso di energia in due corpi diversi, in due quantità diverse. E’ per questo motivo che Ryan non è mai stato in grado di controllare il prorpio potere: il flusso era ancora instabile, in bilico fra due corpi- si inumidì le labbra e prese fiato –Il contatto avvenuto fra i due corpi potrebbe aver tagliato questo legame una volta per tutte-
Ryan corrugò la fronte –spiegati meglio- fece, sporgendosi in avanti e facendosi attento.
Karen annuì –la stretta di mano ha messo in contatto le parti separate del flusso, unendole in un solo corpo-
Ci fu un attimo di silenzio sgomento in cui tutti assimilavano le nuove informazioni.
-quale dei due?- fece infine Rin, alla quale non piaceva girare attorno al punto piuttosto che raggiungerlo direttamente, senza nasconderlo dietro veli attenuanti.
Komachi scoccò un’occhiata alla porta della Natts House –Kurumi ha condotto fuori Yumiko- rispose –se la ragazza vede il portale, e Ryan anche, le nostre ipotesi sono sbagliate- si mordicchiò un labbro con impazienza –Se Yumiko non vede né sente il portale, Ryan ha acquisito il pieno possesso del flusso-
 
Kurumi rientrò sola alla Natts House, lo sguardo serio ma l’espressione venata di un’enigmatica speranza.
-Allora?- Saltò su Urara, angosciata.
Kurumi scosse il capo –Non lo vede- disse, sorridendo con sincerità –l’ho accompagnata a casa-
Tutti i presenti volsero lo sguardo a Ryan, il quale, pallido come un lenzuolo, cominciava a comprendere la situazione.
-Non capite?- esclamò Kurumi, sorridendo –Ryan ora è in grado di sigillare il portale. Il flusso è stabile. Abbiamo una soluzione!-
 
Mentre le compagne ridevano e si riprendevano, sollevate perlomeno dalla soluzione per il portale, Rin scoccò uno sguardo di sottecchi a Ryan, il quale non sembrava aver troppa voglia di ridere, né aveva ripreso colorito, al contrario l’idea di dover affrontare il portale doveva averlo scosso più di quanto le altre immaginassero.
Si passò una mano sul viso e, in silenzio, uscì dalla Natts House.
I presenti non fecero alcuna domanda sull’improvviso cambio d’umore del ragazzo, né gli impedirono di prendere una boccata d’aria. In fondo quello era il suo compito, e se lui si fosse rifiutato di compierlo, l’intero Giappone, se non peggio, sarebbe stato invaso da orde di demoni e infine inghiottito nell’ombra delle fauci del portale.
Rin sorseggiò un bicchiere d’acqua, temporeggiando contro il suo istinto di seguire il ragazzo, che si faceva gradualmente più intenso e insopprimibile. Infine ingoiò di getto tutta l’acqua all’interno del bicchiere e, senza dire una parola, uscì a sua volta, lasciando sconcertate le compagne.
Una volta fuori inspirò con gusto l’aria frizzante di inizio inverno e, passandosi una mano fra i capelli corti, non poté accarezzare il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere, una volta faccia a faccia con il portale.
Non ci mise molto per trovare Ryan, accostato di schiena ad un muretto in pietra, lo sguardo fisso al cielo, laddove una cupa ombra strappava il paradossale celeste tappezzato di nuvole. Si avvicinò lentamente, senza nemmeno sapere cosa fare né cosa dire: non era riuscita a tornare con il pensiero a qualche ora prima. Non era in grado di pensarci, non era in grado ricordare, né tantomeno di guardare il ragazzo in faccia senza provare un terrificante imbarazzo.
Lo affiancò, senza ricevere reazioni da parte sua. Era stretto nella morsa dell’angoscia, era palese. Si torturava il labbro inferiore con insistenza e non si dava pace in alcun modo.
Rin, per la prima volta, provò un desiderio struggente di vedere le sue labbra aprirsi in un sorriso spensierato, i suoi occhi colmarsi di serenità e la sua espressione spianarsi di sollievo.
Ma non ne era in grado.
Levò anch’ella lo sguardo al cielo e inspirò profondamente. Sapeva che le compagne lo avrebbero spronato ad agire al più presto. Sapeva che tutto sarebbe finito al più presto, restava da decidere se nel bene o nel male.
Tanto valeva che il ragazzo conoscesse la piena verità.
-Ho un problema- esordì lei, la voce ferma ma un sottile tremito a scuoterle lo stomaco.
Lui la spiò di sottecchi e sospirò –Spero non sia grave- rispose timidamente, abbassando il capo e celando lo sguardo con le ciocche più lunghe e sfuggevoli della sua chioma.
Il solito altruista esagerato.
-lo è- fece Rin, la voce piatta e uniforme –è gravissimo-
-mi dispiace- mormorò lui sinceramente –Vuoi parlarne?-
Rin inspirò a fondo. Un brivido le afferrò la spina dorsale, mentre si preparava per fare un passo alla cieca.
-Mi sono innamorata- disse d’un fiato, non senza uno sforzo notevole contro il suo forte orgoglio che da tempo aveva rifiutato sentimenti come quelli o, semplicemente, si era reso impermeabile alla sensibilità –di te- concluse a fatica.
Ryan tentò di soffocare la sorpresa di quell’affermazione, ma non poté evitare di sgranare gli occhi chiari e di smettere di respirare per qualche secondo. Contrasse la mascella e alzò lo sguardo quel tanto che bastava per poter scorgere il viso della ragazza.
Un viso terribilmente imbarazzato, ornato di un rossore mai visto prima sulle sue gote.
Rin cominciò a cadere preda della confusione, mentre vampe di calore salivano come un’onda a percorrerle il corpo. Non si era mai ritrovata in quella posizione, mai nell’occhio di un vortice d’emozioni tanto travolgenti.
D’un tratto avvertì un tocco leggero sul dorso della mano, posata inerme sul muretto. Le dita di Ryan cercarono gli incavi delle sue e, una volta trovati, strinsero con forza. Rin non riuscì a trattenere un sorriso timido, quindi ricambiò a sua volta la stretta.

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Capitolo 38
*** agire. ***


 Nozomi si lasciò cadere su una poltrona –cosa facciamo?-
-Calmiamoci, per ora- rispose Komachi, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio –In fondo non è ancora certo che Ryan possa chiudere il portale- 
-deve farlo- rispose secca Kurumi, misurando a grandi passi il salotto. 
-E se non ci riuscisse?- intervenne Karen.
-Ce la farà- fu la risposa asciutta ed evasiva –Domani agiremo- 
-Domani?- reagì ancora Karen, sgranando gli occhi con fare contrariato –Non è ancora in grado di …-
-Domani- ringhiò Kurumi, scoccandogli uno sguardo tagliente e dipingendosi in viso un’espressione che non ammetteva alcuna replica.
-Non è saggio- continuò lei imperterrita.
-E credi che sia più saggio aspettare che il portale chiuda le sue zanne su tutti noi?- ringhiò Kurumi di rimando, sbilanciandosi in un’aggressiva impazienza –Domani agiremo e Ryan chiuderà quel dannato portale- concluse. 
-E Syrup?- fece timidamente Urara –Kokoda, Natsu?-
Kurumi abbassò lo sguardo e si morse un labbro con forza, fino a fare sbiancare la carne –Il portale è una priorità- rispose con voce amara. 
-Cosa?- esclamò Karen allibita, affrontando Kurumi a pieno petto e ringhiando a due centimetri dal suo viso. 
La ragazza non si fece intimidire, anzi, prese fiato per rimettere a cuccia l’insurrezione e riacquistare il controllo della situazione, quando una vigorosa folata di vento spalancò le imposte della finestra vicina, fece gemere il legno, e un anonimo velo di tenebre si posò sull’intero Giappone, spazzando il pavimento e avvolgendo i presenti in turbinii scomposti di capelli.
Nozomi trasalì violentemente il cuore in gola e un’agghiacciante brivido a scivolarle fra i dorsali, e, imitando le compagne, si precipitò fuori, unendosi a Rin e Ryan che, stretti l’un nell’altra, si riparavano dietro un muretto in pietra.
Alzando lo sguardo, non poté vedere l’azzurro limpido del cielo. Non poté vedere la luce rinfrancante del sole, né tantomeno le stelle o la luna. Solo un buio freddo e impenetrabile, un’oscurità densa e pungente. Il portale era dieci colte più grande e orde di demoni urlanti si riversavano sulla città addormentata senza sosta.
Kurumi prese fiato –Muoviamoci- ansimò, ostentando una sicurezza che nel’intimo non provava –non possiamo più aspettare- 
 
 
 
 
NOTE: lo so, è corto (volutamente). Ma vi avviso che da domenica (fino a sabato non ci sono) ci sarà una sequenza di capitoli veloci ed è una cosa voluta, perciò non preoccupatevi XD 

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Capitolo 39
*** Milky Rose ***


Rin alzò lo sguardo e rabbrividì di fronte a quell’agghiacciante panorama oscuro, denso, pregno di malvagità e di un chiarore bluastro che minava alla lucidità ferma della mente. Per un breve, terrificante istante, una scossa di terrore puro le afferrò il petto con dita impalpabili, pressandola in una morsa che non le diede alcuna possibilità di respiro. Poi, lentamente, la presa scemò, e una fredda consapevolezza calò su di lei come un velo, occultando la paura alla sua vista.
Conosceva il suo dovere. Sapeva ciò che doveva fare e non si sarebbe tirata indietro.
Ingabbiando i polmoni in una danza frenetica, lanciò uno sguardo serio e risoluto a Ryan, al suo fianco, il naso volto a ciò che divorava il cielo con infidi morsi e il petto in un tumulto di respiri e battiti accavallati l’un sull’altro.
-Andiamo- abbaiò ancora Kurumi, spronando le compagne a strapparsi dal terrore e a gettarsi in ciò che sapevano di dover fare –la costruzione più alta e prossima al centro del Portale è il Tempio costruito sulla cima della collina a Nord- senza attendere proteste o assensi, si gettò nella direzione per il Tempio, affrontando violente sferzate d’aria e sgusciando fuori dalla portata delle orde di demoni, sempre più gonfie e minacciose.
Rin fece per seguirla in una cieca fiducia, ma Ryan le afferrò il polso e la inchiodò sul posto.
-Rin- ansimò il ragazzo, gli occhi sbarrati e il viso colmo d’angoscia –non ce la faccio- mormorò in un sussurro, mentre il tremito del suo corpo diveniva frenetico e irregolare –non lo posso fare-
Lei strinse a sua volta la presa del ragazzo, scoccando uno sguardo fiero e serio nell’abbraccio delle sue iridi candide –Ryan- sillabò con grinta –tu ce la farai- affermò con piena sicurezza, cercando conferma nel suo sguardo spaurito.
Un altro lungo strappo risuonò nell’aria, vibrante di ringhi, e un’esplosione accecante di luce cupa avvolse i presenti.
Senza pensarci due volte, Rin strattonò il ragazzo e lo trascinò con sé in una folle corsa, ansimando alle calcagna delle proprie compagne e assorta nell’estremo tentativo di difenderlo dalle grinfie ingorde dei demoni circostanti.
Nell’impeto della propria corsa, non colse l’inchiodata improvvisa di Urara, davanti a lei, e finì per travolgerla.
-Ma che diavolo …?- si preparò ad imprecare sonoramente, ma quando alzò lo sguardo al cielo ogni parola in procinto di trovare spiraglio fra le sue labbra venne neutralizzata. Di fronte a loro, Alta e ripida, si ergeva crudele la più lunga e straziante scalinata che avessero mai visto nella loro intera vita e, severo sulla cima, si stagliava distante il tempio.
Pensate che sia tutto? No, ovviamente, no.
Una valanga di demoni urlanti, neri come la notte, armati fino ai denti, si riversava lungo tutto il fianco della collina e si precipitava come massi lungo i sottili scalini.
-Diamoci da fare- sopirò lei.
 
Fece del suo meglio, ma, per quanto si sforzasse, Lemonade non riusciva a progredire di un solo scalino, nemmeno dopo essersi calata nei panni di combattente: la scalinata era colma di demoni, agitata da un mare tenebroso in continua increspatura, strepitante e stridente di ringhi agghiaccianti. Non uno spiraglio compariva a fare coraggio a lei e alle sue compagne, non una lontana illusione di una breccia in quel muro interveniva a dar loro speranza, solo nero, nero e arti che si agitavano con moti convulsi, ringhi e sibili omicida, occhi rossi e sottili come lame, denti aguzzi, grinfie acuminate, un vortice scuro di corpi accavallati l’un sull’altro.
La bionda respinse un demone con un potente calcio alla bocca di quello che doveva essere lo stomaco, quindi si trovò costretta ad arretrare di qualche passo, preda di ansimi roventi. Una perla di sudore le percorse la tempia, la mandibola le si contrasse e la vista divenne più difficoltosa, persa in quel mare oscuro.
-Non ce la faccio- urlò infine, sovrastata dal peso dei corpi nemici, scalciando e sgomitando a destra e manca, nella disperata speranza di liberare uno spiraglio per riuscire a respirare.
Cure Mint giunse in suo aiuto, evocando l’Emerald Saucer e portandola fuori dalla portata dei demoni più pericolosi.
-Rose!- Urlò Aqua, da qualche parte inglobata nel mare in tempesta di demoni urlanti –Scendono in città-
Lemonade si voltò per appurare che fosse la verità e, purtroppo, Aqua non si sbagliava. Un’ombra terrificante lambiva i fianchi della città, mentre già la via principale veniva inondata dall’orrore dei demoni. Avrebbero ucciso. Non avrebbero avuto alcuna pietà. Per nessuno.
Un brivido ghiacciato sprofondò fra le viscere della bionda, mentre l’orrore di ciò che stava accadendo si riversava in tutta la sua concretezza sul viso delle sue compagne.
-Non importa- ringhiò una voce alla sua destra prima di esplodere in una maestosa rosa cobalto che si chiuse sui demoni, serrando i petali delicati ma saldi come ferro, unico colore in una tempesta scura –La nostra meta è il portale- continuò Rose, aggressiva nel mezzo di un cerchio vuoto, monito per i nemici più incauti, facili prede della rosa blu.
-laggiù ci sono le nostre famiglie- insistette Aqua, scoccandole uno sguardo tagliente –Non possiamo lasciare che devastino la città-
Rose scosse il capo –una volta richiuso il portale, tutti gli effetti avuti sul Giappone svaniranno- rispose con sicurezza, alzando il mento e contraendo la mandibola –Limitati ad ascoltare chi ne sa più di te, Aqua- sibilò, al culmine della sopportazione e irritata terribilmente dal peso che la situazione le riponeva sulle spalle.
Nello sguardo di Aqua balenò un lampo d’ira, ma svanì in un secondo, interrotto dall’impeto dei demoni inarrestabili, i quale davano loro addosso senza pensarci due volte.
Perlomeno la maggior parte di loro era stupida. Purtroppo, però, “la maggior parte” sarebbe stata in grado di ricoprire l’intero Giappone, vista la quantità improponibile.
Lemonade si asciugò un velo di sudore dalla fronte, quindi si morse il labbro e lanciò uno sguardo fuggevole al tempio sulla cima della collina. Era vicino alla bocca del portale. Era esattamente ciò di cui avevano bisogno. Eppure troppo lontano perché potessero raggiungerlo.
-Se continuiamo così non ce la faremo mai!- ringhiò Rouge, mentre tentava disperatamente di tener lontani i demoni dal corpo di Ryan, il quale, terrorizzato e spaesato, si limitava a tenerli a debita distanza con un bastone raccolto da terra.
-D’accordo- fece ad un tratto Rose –vi apro una breccia fra i demoni, sfruttatela al meglio- così dicendo respinse un nemico e si preparò ad un’aspra battaglia, forse il più disperato ed estremo scontro affrontato fino a quel momento.
-Non ti lasciamo indietro- protestò Lemonade, irritata dalla proposta dell’amica. Si voltò per trovare appoggio e conferma fra le sue compagne, ma esse fuggirono il suo sguardo e abbassarono il capo, consapevoli della situazione e concordi con Rose.
-E’ l’unica soluzione- mormorò Cure Mint, sfiorandole un avambraccio –se lei li distrae noi potremo arrivare al Tempio-
-Rimango con te- si offrì Aqua, risoluta, il viso graffiato e imbrattato di terra.
-Non ne ho bisogno- ansimò Rose di rimando, tentando di protestare contro l’assurda proposta della compagna.
-Non c’è parola che possa convincermi a cambiare idea- sibilò lei di rimando, ancorata saldamente ai propri principi –io rimango-
Lemonade scosse il capo –No- ringhiò fermamente –Non vi lascio-
-Vi raggiungeremo, Lemonade- Disse Rose, forzandole un sorriso –te lo prometto-
Un soffocante nodo alla gola prese a filtrare il suo respiro –Non voglio- riuscì ad urlare, prima di essere afferrata per il bacino da Cure Dream e fatta allontanare contro la propria volontà dalle sue compagne, dimenandosi e divincolandosi dalla presa, urlando il prorpio rifiuto a gran voce, mentre le lacrime rigavano calde il suo viso.
 
-Verranno a riprenderci- mormorò Rose, cercando il coraggio di affrontare il muro di demoni che le si parava di fronte. Sapeva perfettamente che non sarebbe stato così. Sapeva di aver fatto una promessa a vuoto. E sapeva di star alimentando delle false speranze.
-Smettila di recitare- rispose Aqua con un sorriso amaro –Non c’è via di fuga per noi-
Come aveva immaginato. Aqua aveva intuito. Lei era troppo intelligente per farsi condizionare da futili speranze. La situazione le era chiara. Sapeva che non avrebbe fatto ritorno. Lo sapeva fin dall’inizio, eppure aveva preso la decisione di affiancarla. Aveva preso la decisione di affrontare la morte senza tirarsi indietro, spinta dal pensiero che ciò avrebbe fatto guadagnare tempo prezioso alle sue compagne.
Un forte tremito scosse il corpo di Rose. Le urla di Lemonade risuonavano ancora chiare per la vallata, giungevano alle sue orecchie e rendevano ogni minuto più insopportabile. Ingoiò il boccone amaro della paura e cercò il coraggio in sé –Diamoci dentro- ansimò.
 
Aqua colpì al viso un demone, quindi si ritrasse, scossa dallo strazio e spossata dal combattimento disperato. Più demoni colpivano, più essi parevano agguerriti e numerosi. Era ormai da tempo che stavano combattendo senza sosta, e sperò ardentemente che quello non fosse stato uno scontro inutile, che le sue compagne avessero sfruttato al meglio ogni minuto e che Lemonade avesse afferrato ciò che era necessario.
Una mano le afferrò il polso e lei reagì, dominata dal puro istinto di difendersi. Si arrestò giusto in tempo per rendersi conto che era Rose a stringerle il braccio e non un demone urlante.
-Guardati attorno- le disse in un soffio, lo sguardo pregno di terrore e il corpo in piena tensione.
I demoni si erano chiusi ad accerchiarle in una gabbia scura, ma non sembravano intenzionati ad attaccarle. Al contrario se ne stavano a distanza, impalati, i visi deformati dalla rabbia e gli sguardi bramanti sangue. Ma non si muovevano.
Poi, lentamente, i più vicini parvero perdere colore, mentre la consistenza delle loro carni perdeva solidità e si sbriciolava come sabbia portata dal vento.
Inizialmente Aqua sorrise. Pensò ad un segno positivo, sperò che quello fosse l’effetto del portale serrato da Ryan.
Purtroppo, questa volta, aveva tremendamente torto.
I corpi nemici si sbriciolarono completamente dissolvendosi nell’aria sottoforma di una sottile polvere scura, una nube temporalesca che vorticava loro attorno, imprigionandole in uno spazio tanto ristretto da impedir loro quasi di respirare.
D’un tratto, senza che esse potessero in qualche modo agire o difendersi, la nube colpì Rose con forza, sbalzandola lontano e inglobandola in un vortice di tenebre.
Senza pensarci due volte, Aqua si precipitò in suo aiuto, terrorizzata dalle urla strazianti della compagna.
Fu tutto inutile. Come insetti impazziti, la nube la spazzò via e la allontanò da Rose, la quale gridava e si dimenava divorata dal terrore e oscurata dalla polvere che premeva, attaccava e insisteva, cercando una via nel suo corpo, mordendole la carne e colmando ogni foro della sua pelle.
Un ultimo, terribile urlo straziante vibrò nell’aria, colpendo Aqua peggio di un maglio allo stomaco.
Poi tutto finì così com’era cominciato.
Il corpo di Rose giaceva inerme, riverso sulla pietra fredda, scomposto sui gradini impietosi.
Il cuore di Aqua si fermò.
Si precipitò verso l’amica, le si inginocchiò di fianco, la scosse, la chiamò e la schiaffeggiò persino.
Nessuna reazione giunse a confortarla.
Prorpio quando la speranza stava per allentare la presa sul cuore di Aqua, una convulsione violenta scosse il corpo di Rose, mentre i muscoli fremevano e guizzavano impazziti sotto la sua pelle.
La ragazza si  chinò su di lei e la chiamò ancora.
Allora gli occhi di Rose si spalancarono di scatto e intercettarono quelli di Aqua.
Non era il suo sguardo. Non era lo sguardo di Rose.
Quelli erano occhi rossi, rossi come rubini e vacui, persi, contornati da grinze di collera e una folle espressione desiderosa.
Prima ancora che potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, Aqua si ritrovò stesa a terra, le lunghe dita forti di Rose a bloccarle i polsi, il peso del suo corpo a inchiodarla al suolo, e le sue zanne conficcate dolorosamente nel suo collo, mentre con il capo strattonava e tentava di strapparle la carne di dosso come un cane fa con l’osso.
Il dolore giunse ancor prima della consapevolezza, straziandole il petto e lanciandole una stilettata sottile lungo tutto il collo. Il suo intero corpo si irrigidì, inarcò la schiena e urlò di dolore, agitandosi con violenza, disperatamente, guidata dal puro istinto del prorpio corpo.
E il corpo supplicava che il dolore gli fosse risparmiato. Che quella tortura terminasse, che il sangue caldo e viscoso arrestasse la sua lenta corsa al terreno, che quella morsa bruciante come tizzoni ardenti si schiudesse.
Agì di conseguenza. Non fu in grado di controllarsi minimamente, il dolore era perforante, acuto, bruciante. Liberò un braccio dalla presa salda e assestò un brutale colpo allo sterno di Rose la quale, emettendo un gorgogliante gemito strozzato, le cadde addosso di peso.
Aqua prese un respiro a fatica. Subito dopo la cognizione di ciò che aveva fatto le si presentò innanzi fredda e dura come ghiaccio. Cautamente sgusciò dal peso della compagna portandosi le dita al collo, pulsante come non mai. Non aveva mai provato un dolore tanto forte: i muscoli erano lesionati, quasi sdruciti, la pelle non esisteva più, uno strappo fresco si arrampicava dalla spalla all’attaccatura della mascella. E poi il sangue.
Fresco, rosso, così viscoso e nauseante, colava come cera sul suo corpo, imbevendo la divisa e imbrattandola di un rosso orripilante.
Ma la cosa più terrificante erano i denti.
Segni di denti, profondi, acuminati, segnavano con forza il suo corpo, solcando la sua pelle premendo sulla ferita fresca.
Un forte tremito prese a squassarle il corpo senza pietà, paura e orrore si mescolarono in un amalgama amaro, amalgama che le colmò il corpo e le confuse la mente.
Rose si rialzò scompostamente, gli arti che ciondolavano lungo il corpo, privi di vita, le gambe tremanti e il capo vacillante sul suo stesso petto, avvolto da ricci scomposti, come una marionetta senza fili.
I suoi movimenti erano meccanici, bruschi, incontrollati.
Alzò il capo, i capelli le ricadevano lungo la linea del naso, dagli angoli della bocca colavano rivoli di sangue scuro, del suo sangue. L’espressione folle le trasfigurò i lineamenti nuovamente, mentre un sorriso sghembo le tagliava il viso di netto.
-Amica- ringhiò porgendole le braccia con un gesto meccanico, mentre gli avambracci ciondolavano nuovamente verso il terreno, incontrollati. La sua voce era terrificante, agghiacciante. Era roca, profonda, un terrificante canto proveniente dalle viscere della terra, pareva una coesione di più voci diverse, un coro freddo e folle –compagna-
Fu davvero troppo. Una smorfia involontaria increspò il viso di Aqua, il disprezzo netto la spinse ad arretrare, mentre brividi freddi avvolgevano il uso corpo e si arrampicavano crudeli sulla sua spina dorsale.
Rose scoppiò a ridere fragorosamente, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e si gettò nuovamente all’attacco.
Senza pensarci due volte, Aqua evocò il Saphire Arrow, impugnò il limpido arco cristallino e lo puntò con orrore contro la propria compagna, mentre il respiro le si faceva corto e la paura metteva le sue radici nel suo petto.
 
Rose urlò. Ma niente uscì dalle sue labbra.
Indietreggiò. Ma nessun muscolo le diede ascolto.
Era spenta. Messa in disparte, esclusa in un angolo buio.
Impotente spettatrice inerme di un massacro.
Erano sue le forti braccia che bloccavano il corpo di Aqua.
Erano suoi gli occhi che guardavano con desiderio folle la carne della compagna.
Erano suoi i denti che straziavano e dilaniavano muscoli e legamenti.
Era sua la lingua che si gustava il sangue con soddisfazione.
Era sua la voce, la risata che si beffava di Aqua.
Eppure lei non era altro che una spettatrice. Impotente. Messa in ginocchio. Le stava facendo del male, la stava massacrando, aveva tentato di strapparle le membra dal corpo. E le era piaciuto.
No.
No.
No.
Era tutto sbagliato. Non voleva. Non doveva.
Perché?
Il tuo stesso corpo si lanciò nuovamente sulla compagna, la quale non fu in grado di vedere in lei un nemico né, di conseguenza, di reagire. La colpì al costato, la costrinse in ginocchio, tenendola per i capelli, umiliandola.
Poi, finalmente, Aqua reagì. La spinse lontano, arretrò, gli occhi colmi di orrore e l’espressione allibita. La vide puntarle contro il luminoso arco d’acqua, ma le mani le tremavano, la freccia vacillava sul suo sostegno e l’orrore segnava con sempre maggior intensità lo stato d’animo di Aqua.
Colpiscimi.
Una supplica.
Colpiscimi.
Una preghiera.
Colpiscimi.
 Un desiderio folle.
-Colpiscimi!-
Rose spalancò gli occhi. La sua voce. La sua voce.
Riprese  respirare, mosse lentamente il capo, ma il demone che c’era in lei era ancora in agguato, pronto a riafferrare la sua mente e ad approfittare di ogni minimo spiraglio nel suo controllo.
-Colpiscimi!- supplicò, pressata dalla fretta. Cadde in ginocchio, mentre la confusione si riversava limpida negli occhi di Aqua –Ti prego-
Lei le lanciò uno sguardo indagatore, sospettoso e fece per avvicinarsi.
-No!- urlò Rose, accasciandosi su se stessa e lottando contro un sonno infondato, un terribile torpore che avrebbe spazzato via la sua consapevolezza come sabbia –Colpiscimi-
Aqua rimase impalata sul posto, il terrore sul viso e una confusione palese a premerle sulle tempie, le sopracciglia corrugate e l’aria disorientata.
Rose percepì, lontano e vago, un lieve senso di impotenza, la presa sul controllo che si allentava lentamente ma irrefrenabilmente, le palpebre pesanti e il terrore freddo aggredirla.
Chinò il capo e prese a respirare a fatica, mentre forti convulsioni le squassavano il corpo. Non voleva aggredirla. Non voleva perdere ancora il controllo delle proprie azioni.
-Colpiscimi- ansimò nuovamente.
 
Aqua strinse i denti –Non ci riesco!- sbottò infine, le lacrime a solcarle il viso imbrattato.
Come poteva chiederle di colpirla? Era Rose. Era una sua compagna. Una sua amica. Era Kurumi.
No. Non era abbastanza forte per farlo.
-Aqua- gridò Rose in pieno pianto disperato –Ti prego-
Lei scosse il capo, si asciugò le lacrime con un gesto brusco della manica, ma quelle continuavano imperterrite la loro corsa e lei cominciava ad allentare la presa sulla lucidità fredda.
Era confusa. Non sapeva cosa fare, non conosceva più il suo ruolo nella storia. Non sapeva cosa si stesse agitando nel petto di Milky Rose, non sapeva più se fosse lei a parlare o il demone. Il suo sguardo vacillava: per qualche tempo era limpido, ma subito ecco che si trasfigurava in qualcosa di ostile, venato dalla follia.
L’unica cosa che sapeva era che, dopo quella battaglia, una di loro due sarebbe stata un’assassina. E lei non lo voleva essere.
Mentre violenti singhiozzi le squassavano il petto, abbassò lentamente l’arco, chinando il capo e attendendo la reazione immediata della compagna.
Lei si rialzò, il corpo in pieno bilico fra la personalità di Kurumi e la prepotenza del demone. Un ghigno terrificante stravolse il suo viso, ma lacrime salate stonavano con la cattiveria e la malvagità che aleggiava nei suoi occhi.
Mormorò qualcosa. A fatica, con voce strozzata, ma abbastanza forte perché Aqua cogliesse le parole e il significato.
Quanto sei disposta a lasciare indietro per la salvezza umana?
Lei era disposta a lasciare indietro la sua vita. E Aqua doveva lasciarla andare.
Ci fu un attimo di silenzio straziante, poi Rose perse completamente il controllo e si lanciò su di lei, la quale, però, fu abbastanza pronta di spirito per sollevare la mira e scoccare un colpo di perle d’acqua in pieno petto.
Scoccare quel colpo fu come perdere un pezzo di sé.
Gli occhi di Rose persero ciò che avevano di vivo, divennero vacui, spenti, mentre, gradualmente, il suo corpo si lasciava andare e si accasciava scompostamente, riverso nel terreno, senza vita.
 
 
NOTE: Prima di tutto: ci tenevo a chiedere scusa ai lettori e soprattutto ai recensori che mi seguono, dato che so che qualcuno (E credo non pochi) potrebbe esserci rimasto male o non aver gradito il mini-capitolo qual’era lo scorso. Insisto col chiedere scusa, non era in programma, ho avuto un improvviso cambio di programmi che mi ha lasciata senza tempo per scrivere un capitolo serio, così ho dovuto rimediare velocemente ed è uscito quell’obbrobrio scritto in circa dieci minuti XD Chiedo ancora scusa e spero di aver rimediato con questo! 

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Capitolo 40
*** Cure Aqua. ***


Cure Aqua cadde in ginocchio, il viso rigato dalle lacrime, la disperazione a divorarle il petto. Aveva ucciso una sua compagna. Aveva ucciso.
Non l’avrebbe mai più rivista, Rose si era spenta come una candela al vento e lei aveva le dita imbrattate del suo sangue rosso. Un rosso intenso e indelebile, un rosso stampato nella sua mente, che non sarebbe mai svanito dai suoi occhi colmi di lacrime.
Aveva ucciso.
Allungò una mano sul viso pallido ed esanime della sua compagna. Le chiuse gli occhi vacui con dita tremanti, mentre i suoi polpastrelli saggiavano il terribile gelo delle carni di Rose.
 I singhiozzi si fecero più violenti, impietosi, la disperazione allungava le sue braccia su di lei, cingendola in un gelido abbraccio che l’allontanava dalla prontezza di spirito e dalla consueta lucidità ferma.
Non era più in grado di ragionare, ormai era stata risucchiata in labirinto oscuro di emozioni e le lacrime che le colmavano gli occhi le impedivano di poter scorgere anche la più piccola via di fuga.
In un battito di ciglia il viso in lacrime di Lemonade, le sue urla e le sue suppliche le scoccarono un brivido nella mente, mentre la vera consapevolezza delle sue azioni si faceva man mano più concreta e le donava un forte senso di nausea.
Si abbandonò sul petto inanimato della compagna, sfogando tutto il suo pianto brutale e urlando la sua disperazione al cielo. Come l’avrebbe spiegato alle altre? Chi le avrebbe creduto? Era un’assassina, aveva ucciso, come avrebbero fatto a fidarsi ancora di lei?
D’un tratto un enigmatico gelo estremo ghiacciò le carni di Aqua, mentre una luce fredda ed ostile si faceva spazio nel petto di Rose, riversa scompostamente sulla scalinata marmorea.
Aqua si ritrasse dal contatto con la compagna, ma non trovò la forza di allontanarsi dal suo corpo, ora divorato da una tenebra anonima che le avviluppava il corpo con sempre maggior intensità.
Spaventata, la ragazza indietreggiò quel tanto che bastava per non essere toccata da quell’ombra gelida, mentre una doccia di brividi intensi ed insistenti le scivolava fra i dorsali.
Come in un incubo, una nube temporalesca di sabbia scura, corvina, prese a vorticare impetuosamente sul corpo freddo di Rose, andando a ricomporsi indistintamente in una sagoma umanoide, nient’altro che una fioca ombra sprovvista di volume, di particolari, muscoli o sangue.
Gracchiando aggressivamente, la figura si contorse e si dimenò poggiando le proprie braccia al terreno e tirandosi con forza all’esterno del corpo della compagna, come ad uscire da un posso oscuro e profondo.
Con orrore, Aqua notò che era priva di metà corpo: dalla vita in giù non le rimaneva nient’altro che leggeri sprazzi d’ombra confusa, un taglio forte ed irregolare, come uno strappo nella carne che, tuttavia, non possedeva.
La ragazza indietreggiò, già provata dalla disperazione, ora preda di un rinnovato terrore. L’ombra si avvicinò a tentoni, strisciando e traendosi a lei con incedere lento, difficoltoso, ma continuo. Sibilava come una vipera, ringhiava come una bestia e allungava le braccia impalpabili verso il suo corpo tremante.
Senza pensarci due volte, Aqua evocò l’Aqua tornado, ma il getto argenteo non fece altro che passare oltre la sagoma scura, perdendosi nel terreno circostante senza sfiorare l’ombra immateriale, la quale continuava ad accorciare le distanze, imperterrita.
Afferrata improvvisamente dall’infida morsa del terrore, la ragazza evocò in sequenza tutte le sue capacità, una dopo l’altra, in una micidiale raffica spossante, ma nessuna delle sue offensive parve funzionare, e ben preso Aqua si ritrovò costretta ai margini della scalinata, priva di spazio per reagire, stanca e disperata.
Poi, in un istante, i suoi ingranaggi ripresero a funzionare, forse spinti dalla disperazione, forse stanchi di essere inglobati dalla paura e pressati dalle lacrime.
L’ombra doveva aver preso il corpo di Rose nel pieno della propria potenza.
Lei aveva ucciso Rose.
E colpito, di conseguenza, il demone.
Il demone era fuoriuscito dal corpo esanime di Rose spezzato, sfiancato.
Come un fulmine a ciel sereno, la risposta a quell’enigma attraversò la mente di Aqua, illuminandola.
Il demone non avrebbe mai retto un secondo colpo.
Si arrestò sul posto, i muscoli tesi e rigidi, la mandibola contratta e l’adrenalina di un nuovo rischio a squassarle il corpo. Non senza fatica, abbatté tutte le proprie resistenze, aprì i battenti delle sue difese e attese il demone a braccia aperte.
Prendimi.
Un brivido freddo si arrampicò sul corpo di Aqua. Quello che stava per fare non aveva rimedio né ritorno. Ma rappresentava una soluzione per le compagne.
Invece di indietreggiare, Aqua avanzò, il corpo inerme a lasciare che la propria energia fluisse libera in circolo, i muscoli rilassati, la paura nel petto.
Come previsto, il demone si fiondò su di lei in un balzo, travolgendola con impeto, scomponendosi di netto in una nube di polvere scura ed infida, invadente. La avvolse con forza, esercitando una pressione terribile sul suo corpo, Aqua percepiva chiaramente sottili rivoli di energia negativa fare irruzioni in ogni spiraglio del prorpio corpo, forzandola e colpendo con forza le sue tempie.
Un sottile dolore acuto penetrò in ogni centimetro di sé, mentre pulsazioni forti e dolorose rischiarono di farla impazzire nettamente.
Avvertì il controllo scivolarle lentamente dalle dita, le palpebre pesanti come macigni, il cervello spegnersi e il corpo in continuo formicolio.
Urlò di dolore, ma la propria voce si perse nella sua gola, fra le sue corde vocali, e una terribile presenza si sostituiva alla sua, chiudendo la sua mente in una gabbia e gettandola lontano dal suo corpo.
Senza volerlo veramente, le sue gambe la indussero al alzarsi, un sibilo scivolò tagliente lunga la sua gola e la vista le si annebbiò.
Per un lungo, terrificante istante, credette di smarrire la coscienza e la forza per ribellarsi, sollevarsi e opporsi fermamente agli ordini del demone.
Poi, lentamente, riuscì a riprendersi, ad abituarsi alla situazione e ad esaminare la presenza oscura che risiedeva dentro di lei.
Aveva sottovalutato la sua forza. Non avrebbe mai creduto che qualcuno potesse veramente strapparle il comando delle proprie azioni, ma, per poco, quel demone non ci era riuscito. La sua potenza l’aveva lasciata d stucco, l’improvviso istinto di uccidere, di versare sangue indipendentemente da chi si trovasse sotto le proprie grinfie, per un istante si era rivelato veramente insopprimibile, qualcosa di devastante, destabilizzante, un torpore che le scollegava mente e corpo, che la trasformava in qualcosa che non era.
Con uno sforzo disumano, si oppose all’ordine di risalire la scalinata, probabilmente per cercare e braccare le compagne, ignare della sua attuale forma e situazione. Urlò di rabbia e di sforzo, ingaggiando una dura battaglia mentale con il demone. Apparentemente Aqua risultava nientemeno che un corpo in piena tensione, rigido come un pezzo di marmo e contratto come non mai, inchiodato sul posto, l’aria sofferente e lo sforzo liquefatto in perle di sudore.
Era come un’agghiacciante tiro alla fune, ad u estremo il demone, all’altro Aqua e la fune non era nientemeno che il controllo completo del suo corpo. Una singola, lieve sbandata, e la fune sarebbe scivolata dalle mani di uno dei due.
Accompagnata da un ultimo, straziante strattone, Aqua urlò di spossatezza, riacquistando ciò che le apparteneva.
Preda di ansimi roventi e lancinanti, Aqua sottomise a forza il demone nel suo corpo e si inginocchiò nuovamente al fianco di Rose, prevalendo sui colpi terribili del nemico, il quale non abbassava la guardia un solo secondo, cercando uno spiraglio fra le sue difese e bombardandola di infidi istinti agghiaccianti, difficili da sopprimere.
Non si capacitava di come la compagna fosse riuscita a prevalere sulla forza del demone anche solo per poco. Ora il nemico stava agendo su di lei con le forze dimezzate, con la metà della pressione che doveva aver esercitato su Rose, dal momento che una buona parte giaceva inerme e morta da qualche parte, nel corpo di Milky Rose. Nonostante ciò, Aqua, faticava ugualmente a tenere a bada l’impeto del demone.
Con braccia tremanti di sforzo, ma anche di paura fresca e imminente, Aqua evocò il Saphire Arrow e, con il sorriso sulle labbra, si puntò la freccia sotto il mento.
Percepì il demone agitarsi nel suo corpo, nervoso, tentando di trovare una via di fuga dal suo corpo per fuoriuscirne e fuggire, ma Aqua non glielo permise, con la sola forza mentale riuscì a tenerlo in gabbia, in trappola.
-Non lascerò che approfitti di me- sibilò con disprezzo, ringhiando la propria furia con rabbia cieca –se io me ne vado, tu vieni con me-
E, così dicendo, chiuse gli occhi, prese un respiro tremante e raccolse tutto il coraggio di cui disponeva.
Poi, in un attimo, tutto finì, e il suo corpo rovinò inerme con un tonfo sordo, scomposto al fianco di Rose, mentre il demone al suo interno moriva lentamente, preda di un colpo fatale che non aveva potuto evitare. 

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Capitolo 41
*** Cure Dream. ***


Ryan si appoggiò su uno degli scalini, il respiro corto e ansimi roventi a sferzargli gola e polmoni. Non aveva mai corso tanto in vita sua e la scalinata si stava rivelando ripida, crudele e terribilmente infestata di demoni di ogni genere e sorta che si riversavano senza ordine sul fianco della collina, impedendo loro un incedere accettabile.
Era confuso e perdeva sicurezza ad ogni scalino che superava. Non era sicuro di potercela fare, non era sicuro di essere pregno del potere necessario per poter fermare quell’inferno. Insomma, andiamo, l’ultima volta che era entrato in contatto con il proprio flusso di energia aveva causato un vortice terrificante, e per poco non aveva ammazzato Cure Mint.
Si fermarono per riprendere fiato, protetti dalla Mint Protection che consentiva loro  una breve pausa.
-non me la sento- mormorò Ryan a bassa voce, facendo in modo che solo Rouge, al suo fianco, udisse le sue parole allarmanti –non mi sento diverso dopo l’incontro con Yumiko-
Lei gli scoccò un’occhiata interrogativa, catturando con il palmo una goccia di sudore che le imperlava la fronte –Ce la farai- disse solo, piegandosi sulle sue stesse ginocchia.
Ryan contrasse la mascella –E’ solo che mi sembra tutto troppo facile- sussurrò, ripensando allo scambio di energia avvenuto fra lui e la ragazza cui era indirizzato il flusso puro di energia. Al ragazzo pareva una coincidenza davvero forzata.
Rouge lo incenerì con lo sguardo, si rialzò e si avvicinò fino a sfiorargli il viso –la vita umana spenta in un sonno che potrebbe divenire permanente, un portale che rischia di inglobare l’intero pianeta, orde di demoni che invadono e saccheggiando la città, Aqua e Rose che … - si interruppe bruscamente, mordendosi la lingua, per poi lanciare un fuggevole sguardo di sottecchi a Lemonade, seduta distante da loro, gli occhi rossi e gonfi di lacrime –TI sembra ancora troppo facile?- ringhiò infine.
Ryan ammutolì all’istante e abbassò lo sguardo, sconfitto.
-Preparatevi- interloquì Mint –sto per richiamare lo scudo- 
-Che cos’è?- se ne uscì invece Dream, alzandosi dalla sua postazione e chinandosi su una zolla di terra poco distante.
Rouge corrugò la fronte e le si avvicinò, seguita a ruota da Ryan.
Incastrato nella terra scura, riflettente la timida luce bluastra che filtrava dalle fronde degli alberi, risplendeva uno specchio incorniciato di ornamenti sfarzosi e volute eleganti.
-Uno specchio- rispose solo Rouge, impassibile, per poi rialzarsi e scuotere Lemonade per avvertirla dell’imminente ripresa del combattimento.
Dream inclinò lievemente il capo verso destra, si accucciò al fianco dell’oggetto e lo osservò con attenzione, colpita dalle ferite imbrattate di sangue che rifletteva sul suo viso, ferita dall’aria stanca e abbattuta dalla luce dei suoi occhi, spenta e priva di speranza.
Sospirò lievemente, lanciando uno sguardo mesto a Ryan, poco distante, il quale ricambiò con un sospiro e scuotendo lievemente il capo, alzando lo sguardo sul tempio, distante, stagliato come un’ombra sul cielo cupo, divorato e dilaniato dal portale.
Fece per tornare da Rouge, ma un verso sgomento di Dream lo strappò dalla sua malinconia, inducendolo a raggiungerla e alzare la guardia per qualsiasi evenienza.
-che c’è?- le chiese, sfiorandole una spalla con angoscia.
Lei fece un balzo indietro, il viso inorridito e un glaciale terrore a gelarle gli occhi. Si limitò ad indicare lo specchio riverso nel terreno.
Ryan sussultò e, anch’egli, non poté evitare di percepire il sangue ghiacciarsi nelle vene. Sulla superficie lucida, argentea e limpida dello specchio, il riflesso di Dream si contorceva e svaniva lentamente, lasciando posto ad un viso conosciuto, disperato: Kokoda.
Dream si portò una mano alla bocca, mentre il riflesso piangeva e si disperava, scuotendo lo specchio con pugni e colpi di ogni genere, come un animale selvatico chiuso in gabbia, dietro le sbarre.
Ryan fu talmente sorpreso che si dimenticò sia di respirare sia di potersi muovere. Riflesso sullo specchio c’era Kokoda, ne era certo. Eppure tra loro egli non era presente. Non restava che un’unica, agghiacciante ipotesi: Kokoda era dentro lo specchio, dall’altra parte.
Lo vide scoppiare in lacrime, mentre allungava una mano e la appoggiava sulla superficie fredda dello specchio, implorando futilmente aiuto e chiamando a gran voce il nome di Nozomi, sebbene loro non potessero udirlo.
Ryan si voltò verso Dream, trovandola in lacrime, sconvolta e spaurita. Come ipnotizzata, si avvicinò allungando le dita affusolate verso lo specchio argenteo. Senza pensarci due volte fece coincidere la propria mano con quella di Kokoda.
E, in un battito di ciglia, venne afferrata da braccia argentee e trascinata all’interno dello specchio contro la sua volontà, lasciando a Ryan solo il tempo di urlare, sgomento.
 
Cure Dream sollevò le palpebre tremanti, una visione offuscata e sbiadita le si presentò nel campo visivo, ma nessun colore intervenne ad arricchire ciò che i suoi occhi riuscivano a scorgere.
Scosse il capo, stordita, quindi si rialzò dal suolo.
Doveva essere caduta, in qualche modo e l’impatto le aveva strappato i sensi per un po’, istupidendola con violenza tale da impedirle di potersi riprendere in un tempo relativamente breve.
Non riusciva a vedere nulla, non capiva se era la vista ad averla abbandonata o se fosse terribilmente buio il luogo in cui si trovasse.
Fece qualche passo in avanti, tendendo le mani ben salde davanti a sé, onde evitare che urtasse poco piacevolmente contro un oggetto.
-Rouge?- sussurrò nel silenzio, ottenendo in risposta nientemeno che la sua stessa voce, attutita e persa nel buio denso.
-Mint?- l’aria stessa pareva irrespirabile: faceva caldo e una cappa terribile gravava su di lei, come se la gravità avesse improvvisamente deciso di farsi più violenta.
-Lemonade?- Un’acuta agitazione cominciava ad affondare le radici nel suo petto, agitandola, squassandola e pressandola.
-Ryan?- urlò al buio, disperata, mentre una sensazione di abbandono le scavava il corpo e si insinuava in lei.
In risposta non ottenne nient’altro che una crudele eco della propria voce, timbrata di disperazione.
Era sola.
Improvvisamente un sibilo acuto la fece trasalire, spezzando il silenzio quieto e strisciando nel buio, come un serpente in agguato.
Dream alzò immediatamente la guardia, lanciando occhiate rapide nei dintorni, nel disperato tentativo di scorgere qualcosa, qualsiasi cosa, per potersi difendere, capire.
Gradualmente, il buio denso del luogo si diradò, aprendosi come un sipario davanti agli occhi grandi di paura di Nozomi.
Di fronte a lei, stesi a terra, privi di sensi, comparvero Kokoda, Natsu e Syrup.
Senza pensarci due volte, Dream si gettò d’impulso nella loro direzione, le lacrime agli occhi e una nota di gioia in procinto di nascerle nel petto.
Ma, ad un passo dagli amici, il terreno, se di quello si trattava, esplose in mille crepe e un enorme frammento acuminato dai mille riflessi rischiò di trapassare Dream da parte a parte.
Fortunatamente il sesto senso della ragazza era riuscito a fermarla prima che la trappola scattasse, riportando solo un lieve taglio superficiale alla guancia.
Indietreggiò con il cuore in gola, mentre una goccia di sudore le percorreva la linea della mandibola.
dal frammento, tanto lucido e limpido da parere uno specchio nacque un secondo sibilo, più acuto, vicino ed emotivo: pareva una risata, un malevolo ghigno che tagliò l’aria come una lama.
Quindi due lunghe braccia argentee si tesero bramose ed ingorde verso la carne di Dream, mentre giocavano con i mille riflessi di una luce inesistente.
La ragazza continuò ad indietreggiare, tenendosi fuori dalla portata di quelle dita, le quali si tendevano e si contorcevano, bramanti la stretta di carne e il calore del sangue.
D’un tratto la sua schiena si scontrò contro una superficie liscia e terribilmente fredda, ponendo fine alla sua ritirata estrema.
Scartò di lato senza fatica le grinfie argentee, ed ebbe modo di osservarle da più vicino: erano composte di una materia insolita: parevano liquide, ma dense al contempo, giocavano con mille riflessi diversi, come bolle luminose che accarezzavano la sua materia.
Erano talmente cristalline, argentee, da parere di risplendere di un’inquietante luce propria.
Riprese ad indietreggiare, e dal frammento emerse, progressivamente, un viso argenteo, ma tanto riflettente da rendere agli occhi impossibile scorgere i lineamenti, troppo sommersi e lambiti di una luce accecante.
Per l’ennesima volta la sua schiena si scontrò contro una superficie liscia, quindi si voltò e, con orrore, si ritrovò accerchiata da frammenti squadrati, perfettamente lucidi, specchi senza alcun riflesso.
Un tocco gelido come il ghiaccio intorpidì la sua spalla inducendola a sottrarsi di getto da quel contatto inatteso quanto sgradito.
Si ritrovò ad urlare di orrore e dolore, mentre la sua pelle riprendeva colorito e le sue ossa si scrollavano il gelo di dosso .Era stato un contatto devastante, destabilizzante, qualcosa di mai provato prima, qualcosa che intorpidiva i sensi e ghiacciava le carni.
Alzò lo sguardo ma fu accecata dai riflessi luminosi che emanava la creatura di fronte a lei. Era senza dubbio un demone, ostile, astuto. Doveva aver catturato i tre amici con un infido trucco, lo stesso trucco che aveva teso la rete su di lei, braccandola.
Passò alla controffensiva , gettandosi sul demone, la gamba tesa in un potente calcio sul fianco ma, con sgomento, si accorse che la sua mossa era stata copiata alla perfezione e che il demone le si stava scagliandosi contro con la stessa forza ed abilità.
Non riuscì a trovare il tempo per ritirare la sua offensiva e l’impatto fu letteralmente devastante.
Cure Drem venne spazzata via con potenza, mentre un gelo mozzafiato le si radicava nel corpo, lasciandola senza respiro, vista e consapevolezza per qualche secondo.
Al contrario, la gamba di Dream era passata attraverso la materia del demone, come in un getto d’acqua gelida e il nemico non riportò nessuna sorta di ferita minima.
Tenendosi il fianco, la ragazza si rialzò, tentando disperatamente di riprendere fiato, ma la sua gola pareva stretta come un ago e il suo corpo era ancora provato dal terribile gelo per potersi muovere con scioltezza.
Il nemico riprese ad avanzare con lentezza estenuante, accorciando le distanze e carezzandole la pelle con un gelo infondato.
Dream fu letteralmente afferrata dal panico: era sola, gettata in un luogo buio freddo, perseguitata da una creatura ostile. Era in trappola.
Era confusa e non godeva certo di una buona lucidità, in quel momento l’unico pensiero che si stagliava chiaro e netto nella sua mente era il fermo rifiuto di un contatto, anche il più minimo e velato, con quel demone rifulgente.
Continuò ad indietreggiare, scartare, schivare e sfuggire le grinfie nemiche, urtando incessantemente contro gli specchi che, prontamente, si innalzavano alla sua schiena, chiudendola in una gabbia.
Giunta all’apice della sopportazione si voltò e, senza più rifletterci, con una brutale ginocchiata, riempì di crepe lo specchio alla sua schiena, che scoppiò in una miriade di frantumi e schegge rilucenti, le quali si infilarono infidamente sotto la pelle della ragazza, ricoprendola di piccole ferite ardenti come  fuoco.
Gemendo di un dolore pulsante, Dream si voltò nuovamente verso il demone per tenerlo sotto rigido controllo e non concedergli la minima mossa libera.
Ma, sconcertata, si accorse che il demone stesso, imitando alla perfezione ogni suo movimento, aveva mandato in frantumi uno degli specchi alla sua schiena e sibilava di dolore per le ferite incassate.
Ferite che Dream non era riuscita ad aprire.
Scorgendo il nemico in difficoltà, la ragazza colse al volo l’istante e, evocando il Crystal Shot,attaccò di getto il nemico, guidata dalla semplice e pura impulsività.
Con suo grande turbamento, la creatura si mostrò in grado di imitare alla perfezione persino le sue abilità da Pretty Cure e, come se non bastasse, l’offensiva di Dream trovò spazio nel corpo rifulgente del nemico senza colpirlo, al contrario della copia che si abbatté su di lei con uno schianto terrificante, mandando in frantumi diversi specchi e avvolgendola in una nube tagliente di frammenti.
Si ritrovò nuovamente stesa a terra.
Ogni centimetro del suo corpo le doleva da impazzire e non v’era zone in cui la sua pelle fosse rimasta intatta.
A fatica si rialzò sulle gambe tremanti, mentre un rivolo di sangue caldo e viscoso le scivolava dall’angolo della bocca.
Il demone era ancora là, in piedi, composto, di fronte a lei, nella perfetta imitazione della sua attuale posa.
Non era stato sfiorato minimamente dai suoi attacchi, ma dalle schegge di specchio che avevano liberato si, e questo era un buon punto per trovare la soluzione a quella battaglia impari.
Muovendosi in circolo e mantenendo le debite distanze, Cure Dream raccolse un pezzo di specchio argenteo, tagliente, freddo come il ghiaccio e assorbente ogni luce nelle circostanze. Guidata dal ritmo impazzito del prorpio cuore, dettato dal terrore, scagliò con tutta la forza che aveva il frammento contro il demone, il quale, riproducendola meticolosamente, raccolse a sua volta un frammento e lo scagliò contro di lei.
Dream si gettò a terra per schivare il colpo, ma non aveva calcolato che lo stesso avrebbe fatto anche il demone, salvandosi e tenendosi fuori dalla portata di simili attacchi.
La ragazza strinse i denti,mentre una profonda disperazione le straziava il petto e affondava le proprie zanne nel suo cuore, palpitante di una gelida paura.
Con la coda dell’occhio scorse il demone avanzare ancora, lentamente, come a gustarsi la sua paura. Avanzare era l’unico movimento che sembrava riuscirgli senza imitarla. Il nemico voleva palesemente stabilire un contatto con lei, e Dream voleva sfuggirlo più di ogni altra cosa.
Si rialzò, ma l’unico cosa che le riuscì fu di rimanere impalata, spossata dallo scambio terribile di attacchi in sequenza, in trappola fra gli specchi squadrati che le impedivano la fuga.
Fu allora che, con un inatteso scatto repentino, il demone le si fiondò contro, arrestandosi solo a due centimetri dal suo corpo, mostrando il suo viso, provvisto di terribili zanne bianche, immacolate, rifulgenti come la luce stessa, eppure inquietanti come il buio. Gli occhi erano vacui, lattei anch’essi, le guance scavate e la chioma non era altro che un’insieme di raggi di luce accecanti, intrecciati fra loro in un amalgama terribile.
Dream urlò di terrore, urlò come mai aveva fatto, mentre il cuore si rifiutava di raccogliere un altro, singolo battito.
Priva di anche la più minima briciola di lucidità, afferrò un frammento di specchio, spesso almeno quanto un arancio e, con un rigido movimento secco, lo conficcò nel corpo del demone, il quale ringhiò e gemette di un dolore straziante, mentre il suo corpo veniva gradualmente raggiunto anche dalle più piccole crepe.
La ragazza percepì tra le labbra il sapore metallico del sangue e, abbassando lo sguardo, vide un frammento di specchio conficcato nel suo addome, che la trapassava da parte a parte, ricoprendosi di un macabro abbraccio rosso spento, afferrato ad un estremo dalle dita rigide del nemico.
Ancora una volta, l’aveva imitata.
La vista le si offuscò, ed ogni centimetro del suo corpo era straziato da un dolore sempre più acuto e insopprimibile, eppure un anonimo torpore, un sonno inquietante, calò sulle palpebre di Dream, prosciugandole le forze.
Senza nemmeno accorgersene, cadde a terra riversa nel prorpio sangue caldo, mentre i frammenti del demone le scrosciavano addosso come una pioggia luminosa.
Allora chiuse gli occhi per non riaprirli mai più. 

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Capitolo 42
*** Cure Lemonade. ***


 
Mint si morse il labbro con forza, tentando invano di ricacciare indietro le lacrime salate che lambivano i suoi occhi smeraldo.  La vista di Rouge in ginocchio, urlante, chiamante a gran voce la compagna orami perduta fra i recessi di quello specchio, culla inattesa di un terribile demone, la devastava. 
Una minima scintilla di speranza bruciava ancora nel petto di Mint, ma, in fondo al cuore, sapeva perfettamente che anche le vite di Aqua e Rose si erano spente. Non le percepiva più, lei non le sentiva.
Scoppiò in un tacito pianto, mentre la Mint Protection si dissolveva lentamente. Avevano superato tanti ostacoli, persino quelli più insormontabili, avevano piegato le forze più potenti, erano state in grado di sigillare un segreto, aiutare un amico, persino salvare un intero mondo dalle grinfie di un nemico oscuro.
Ed erano sempre rimaste assieme. L’una al fianco dell’altra, spalleggiandosi in battaglia, sostenendosi senza tregua, guardandosi le spalle e curandosi a vicenda le ferite.
E ora erano spezzate. Come se il legame che le univa, una fune che le teneva legate, si fosse spezzato, tagliato volontariamente.
Ingoiando un soffocante groppo alla gola, Mint prese un gran sospiro, calò le palpebre tremanti e lasciò che un’ultima lacrima percorresse le sue gote.
Poi, investita da una doccia di fredda consapevolezza, una lucidità impassibile, un guscio di ghiaccio che la estraniava dal dolore, sfiorò una spalla di Rouge, inginocchiata a terra, lo specchio vuoto fra le mani, una graffiante smorfia di ferocia tagliata fra gli spigoli del suo viso.
Lei alzò lo sguardo, bruciante di un fuoco omicida, incontrollato, divampante in ogni angolo di sé e, contraendo la mandibola fino allo spasmo, si rialzò, il portamento fiero, il mento alto, e la muta sete di vendetta stretta fra i denti.
-Muoviamoci- ringhiò, avviandosi per la scalinata a grandi passi, falciando senza la minima pietà qualsiasi demone le si parasse innanzi, spezzando loro le ossa e strappando la carne dai corpi mutilati. 
Ryan si passò una mano sul viso, lucido di lacrime, segnato dalla disperazione, ma seguì Rouge, guidato dalla cieca fiducia, come a inseguire la luce di una faro nelle tenebre più dense.
Stretta nell’abbraccio di un’impassibilità necessaria, Mint fece per imitarlo meccanicamente, ma esitò.
Voltandosi, scorse Lemonade, accucciata al margine della scalinata, ripiegata, come a rintanarsi in se stessa dalla cruda realtà, una realtà che le faceva male, che soffocava la sua luce.
-Lemonade- sussurrò avvicinandosi –Andiamo-
La bionda scosse il capo dorato, ritirandosi ancora più a fondo nel suo guscio di dolore –Io non vengo-
-Muoviti- abbaiò Rouge, la rabbia evidente nel corpo, nel viso, fra i denti –non abbiamo tempo-
-Ne ho abbastanza!- urlò Lemonade, scoppiando in lacrime disperate e balzando sui piedi, sorprendendo tutti con una voce aggressiva, una voce che non si sposava per nulla con il suo viso angelico, candido, rigato di sincero dolore –Io non vengo- sillabò, alzando al cielo l’urlo straziante di chi è disperato.
Era troppo.
Era troppo anche per lei.
Soprattutto per lei.
Un lampo balenò nello sguardo di Rouge, un lampo rifulgente quanto un fulmine, monito di una terribile tempesta imminente –Ho detto muoviti- sibilò, trattenendo a stento la rabbia squassante che le divorava, centimetro dopo centimetro, l’umanità dal corpo.
-No- ringhiò Lemonade a sua volta, gli occhi colmi di lacrime, il dolore palese fra le pieghe del suo viso, un fermo rifiuto di avanzare, di fare un altro passo su quel sentiero fatale.
Troppo repentino perché qualcuno potesse impedirlo, uno schiaffo secco e violento risuonò sulla scalinata, agitando i corvi sui rami più bassi.
Lemonade, l’espressione allibita, si portò la punta delle dita alla guancia, laddove la pelle prendeva gradualmente un colore più arrossato, segnando la sagoma distinta di un palmo severo.
-Credi che mi diverta?- abbaiò Rouge –Credi che sia facile per noi vedere gli amici morire sotto i nostri occhi?- Le si avvicinò con fare minaccioso, mentre il fuoco divampava scottante nei suoi occhi –Non sei l’unica a soffrire, Lemonade – sibilò a due centimetri dal suo viso sconvolto.
Cadde un silenzio pesante, in cui gli occhi della ragazza si fecero grandi di orrore, dolore e un sincero rimorso per le proprie azioni.
-Muoviamoci- ringhiò ancora Rouge, voltandole le spalle e avviandosi alla cime della scalinata, gli occhi fissi sul tempio, divorata da una pericolosa frenesia omicida.
Tenendo lo sguardo basso, Mint non esitò più e seguì i passi della compagna.
 
Lemonade rimase per qualche minuto impalata sul posto, le braccia inermi ai fianchi, il capo basso e la guancia a bruciarle come fuoco. 
Era stanca.
Terribilmente stanca di quella situazione. Sentiva di essere fragile, sentiva che non avrebbe retto ad un'altra perdita, si sarebbe spezzata in una miriade di frantumi e avrebbe ceduto.
Le lacrime si rifiutavano di arrestare la loro corsa, gli occhi le bruciavano, irritati, ma il peggio era il suo petto: si sentiva fatta a brandelli dal dolore, spezzata dal pianto.
Era stanca. 
Ma doveva reagire, doveva essere forte. Come Rouge.
 
Ryan si voltò indietro. Nessuna traccia di Lemonade.
Era rimasta indietro, sola.
Percepì una violenta stilettata al petto, si sent’ colpevole come non mai, non se la sentiva di lasciarla indietro, non voleva.
Alzò lo sguardo su Rouge, di fronte a lui, responsabile della più sanguinosa carneficina mai vista prima. Non aveva alcuna pietà, mossa solo dall’ira incontrollata, divampava come un falò, facendo a brandelli ogni centimetro di carne che finiva fra le sue mani.
Era un’immagine orripilante, terribile. La ragazza era letteralmente trasfigurata dall’odio, come se non fosse più in sé,  una furia impulsiva, dettata e consumata da una rabbia cieca.
L’idea di mettere fuori gioco o stordire i nemici non era soddisfacente per lei, era troppo poco, non colmava il vuoto della sua ira, lei voleva ucciderli, nettamente, senza pietà, infieriva sui cadaveri, si macchiava di sangue e trovava piacere nel dolore dei demoni.
All’ennesimo crepitio di un collo spezzato, Ryan le afferrò i polsi e la voltò verso di lui, troppo provato perché potesse sopportare una brutalità tanto forte.  Gli si mostrò un viso trasfigurato dalla collera, arrossato dal sangue viscido delle creature, degli occhi freddi e taglienti come lame.
Senza pensarci due volte, la ragazza prese a dibattersi, tentando invano di divincolarsi dalla sua presa la quale, tuttavia, si stringeva saldamente –lasciami- urlò fuori di sé.
-Rouge- la chiamò lui, con voce pacata ma ferma –stai esagerando- mormorò, tentando di calmarla con voce leggera –Devi controllarti-
L a ragazza parve non ascoltarlo nemmeno, i suoi occhi erano puntati solo ed unicamente sulle sue prossime vittime, sulla carne che avrebbe strappato, sul sangue che avrebbe versato. Voleva solo la vendetta. Voleva solo che pagassero per ciò che avevano fatto. Che pagassero le vite perdute con altrettante vite.
Il dolore e la morte la stavano facendo impazzire.
Ryan le prese il viso e la costrinse a guardarlo negli occhi –calmati- mormorò, continuando a ripeterlo a mezza voce, finché non fu certo che il suo fuoco collerico si fosse placato. Quindi lasciò la presa e le indicò le sue vittime, riverse nel loro stesso sangue, tanto mutilate da apparire quasi una poltiglia, demoni trasfigurati, forme impossibili da indovinare, un vero e proprio massacro.
-Tu non sei questo- le disse, scavato dal dolore –Ti prego, Rouge-
-Hai ragione- sussurrò lei, ansimando come una bestia selvatica –Hai ragione- ripeté annuendo lentamente e sigillando la propria ira in un freddo controllo.
-Grazie- sospirò lui, sollevato.
-Andiamo- interloquì Mint,–Non abbiamo molto tempo-
 
Rouge volse lo sguardo al tempio.
Non erano troppo lontani, con una buona corsa l’avrebbero raggiunto senza troppi intoppi, il problema principale rimanevano i demoni, ora il fiume in corsa di quelle creature ripugnanti sembrava essersi lievemente sfoltito, ma di demoni pericolosi se ne aggiravano ancora. Andavano assolutamente evitati, uno di loro avrebbe potuto spezzare le loro vite come un esile fuscello senza riportare gravi danni.
Dovevano muoversi, e alla svelta, dal momento che, fortunatamente, creature letali per quattro, si corresse, tre persone, non ne avevano incontrate.
Stava giusto per spronare i compagni alla corsa, quando un basso ringhio gutturale le gelò il sangue nelle vene.
Si voltò, imitata all’istante da Ryan e Mint, acuì la vista, si sforzò di penetrare il moro di oscurità che strisciava fra gli alberi della foresta, ai margini della scalinata, che si arrampicavano lungo tutto il fianco della collina.
Nuovamente un ringhio, poi un altro, seguito da un quarto e da un quinto. Tutti in posizioni diverse, sempre più vicini e minacciosi.
-Andiamocene- sussurrò Rouge in un attimo di piena apprensione, quindi si voltò, prese Ryan per un polso e lo trascinò con se in una folle corsa sulla scalinata, accertandosi di tanto in tanto che Mint fosse al loro fianco.
Improvvisamente il ringhiò echeggiò forte e chiaro di fronte a loro, al che si arrestarono di scatto, come pietrificati, e non furono in grado di fare nient’altro che rimanersene impalati lì, nel mezzo della scalinata, i sensi all’erta e la paura nel petto.
Rouge lanciò frenetiche occhiate nei dintorni, pressata da una pesante angoscia, finché non incontrò due occhi rossi, rossi come tizzoni ardenti, rifulgenti di una luce maligna fra il folto degli alberi scuri.
-A destra- urlò, ma non fece nemmeno in tempo di aprire la bocca che gli occhi scomparvero in un turbine repentino, spazzando l’aria con una velocità impressionante e cambiando postazione.
-Rouge- intervenne Milt con apprensione, inducendola a voltarsi, rigida come un pezzo di legno.
Si ritrovò di fronte una bestia spaventosa, un quadrupede  ricoperto di peluria, più folta all’altezza del collo taurino, il muso lungo, spigoloso, affilato come un’arma letale. Le narici dilatate ad assaporare il suo odore, la sua paura, zanne acuminate ricurve che facevano capolino dalle labbra inferiori. Sferzava l’aria con due code robuste e nervose come fruste infernali, pronte a flagellare e stringere.  Gli occhi rossi erano incassati fra grinze feroci, nei pressi del naso, esageratamente distanti dal resto del corpo e ravvicinanti l’un coll’altro.
Il  corpo ricordava vagamente quello di un cane, era, però, ornato di una pelliccia, come una criniera, e le zampe erano feline e, sulla cima del capo, un corno riluceva affilato.
Ringhiava feroce, ma non di trionfo, di sconfitta.
Porgeva le sue zanne e il suo corno tagliente a Rouge, in una carica terrificante, ma non era in grado di avanzare:  una catena luminosa lo teneva a bada, una catena rifulgente di una luce rinnovata che lei conosceva bene.
Lemonade.
 
 
Lemonade alzò lo sguardo aureo sui compagni –Muovetevi- ansimò, puntandosi con i piedi sul terreno circostante e stringendo con forza i denti, nell’estremo tentativo di contrastare la forza della carica nemica.  Diede un forte strattone alle Prism Chain, cercando disperatamente di smuovere il demone, stretto sull’estremo opposto, in una posizione di piena tensione –vi raggiungo-
Rouge le sorrise, quindi annuì e fece segno agli altri di seguirla.
Purtroppo, il demone aveva preso di mira Rouge e, senza alcun preavviso, si precipitò alla carica, prendendo di piena sprovvista Lemonade, la quale non poté evitare di opporre una patetica resistenza prima di crollare e lasciarsi letteralmente trascinare in una corsa stremante, durante la quale dovette fare i conti con ogni, minimo scalino che le torturava il corpo, graffiandola e riempiendola di lividi.
Urlò con tutta la voce che aveva, si svuotò i  polmoni con brutalità, fino a flagellarsi la gola con la sua stessa voce, mentre il dolore la afferrava ad ogni rialzo, sporgenza o concavità della scalinata.
Alzando lo sguardo poté scorgere le schiene dei compagni a poca distanza dal corno nemico: ancora qualche metro e li avrebbe raggiunti, squartati ed uccisi.
No.
Lei glielo avrebbe impedito. Non gli avrebbe permesso di fare altre vittime, i demoni le avevano portato via troppe vite a cui teneva e per questo avrebbero pagato.
Poi, maestoso e oscuro, comparve il tempio all’orizzonte, la scalinata si dissolse lentamente in un dislivello e fu allora che Lemonade credé di impazzire di dolore.
Il terreno che separava il termine della scalinata e l’ingresso del tempio era puro sterrato: una ghiaia bruciante, sassi acuminati, radici e terriccio.
Il suo corpo venne sferzato, la forza d’attrito le mandò in brandelli gran parte della divisa e, con quella si portò via anche la sua pelle, le squartò letteralmente una guancia, un masso appuntito le perforò il costato, ma lei non mollò mai la presa sulle sue catene.
Il demone era troppo veloce perché potesse catturarlo una seconda volta, se se lo fosse lasciato scappare per loro non ci sarebbe stata alcuna speranza.
I compagni si diressero nel quadriportico del tempio: nient’altro che una struttura composta da colonne di dimensioni impressionanti, sorreggenti un solido soffitto, una struttura a parte, non aveva nulla a che vedere con il tempio, era persino distaccato dall’ingresso, in antichità i bisognosi trovavano riparo sotto il quadriportico e pregavano per una vita migliore.
Fu allora che trovò la soluzione.
Senza più esitare, con uno sforzo sovrumano, usò la catena legata alla mano destra per arpionare una delle colonne enormi, mentre l’altra cingeva ancora il collo massiccio del demone, assorto nella corsa e assetato di sangue.
L’impatto fu terrificante.
Lemonade riuscì ad arrestare la corsa del demone, ma in compenso lo strattone che ricevette fu qualcosa di devastante: percepì chiaramente lo sterno scricchiolare, le costole crepitare ed ogni muscolo del proprio corpo estendersi fino al limite.
Urlò di dolore, ma non trovò altra voce per esprimere ciò che provava: le sue corde vocali erano bruciate dal suo strazio.
Il demone ringhiò di rabbia e, senza darsi per vinto, tentò di avanzare, mettendo a dura prova i legamenti di Lemonade, che innalzarono al cielo un coro di dolore puro.
Se avesse continuato con quel ritmo, le avrebbe realmente strappato un braccio. E Lemonade non era sicura di essere molto lontana dallo slogarsi una spalla.
Il dolore era insopportabile, una vera e propria tortura, si sentiva un elastico rigido, fragile sotto due forze contrastanti qual’erano la salda posizione della colonna e la collerica corsa del demone.
Pianse il suo dolore, si rigò le guance graffiate, nient’altro che carne viva e pulsante, scoperchiate del proprio rivestimento di pelle. Il sangue le colava caldo e viscoso lungo il collo, il petto, il costato le lanciava fitte infide e ad ogni respiro Lemonade era sicura di essere ad un passo dalla morte.
Percepì un dolore acuto al petto, come uno strappo su un fazzoletto di stoffa. Si sarebbe spezzata in due, sarebbe stata  strappata e fatta a brandelli come una vecchia pergamena resa fragile dallo scorrere del tempo.
Proprio quando la vista prese ad offuscarsi e i sensi attenuarsi, la tortura cessò e il dolore scemò lentamente.
La spalla le pulsava da impazzire, probabilmente era uscita dalla sua nicchia di carne, ma Lemonade non aveva la forza di guardare in che stato fosse.
Alzò solo lo sguardo, giusto in tempo per vedere riflesso nelle proprie iridi il corno del nemico correrle incontro ad una velocità terrificante. Spronata dal puro e semplice senso di sopravvivenza, si gettò di lato un secondo prima che il demone si schiantasse sulla colonna di granito, producendo uno schianto secco che riecheggiò in tutto il tempio.
Pressata da una frenetica fretta, Lemonade raggiunse il punto in cui la catena la teneva ancorata alla colonna e tentò disperatamente di slegarsi.
Nel frattempo crepe ingorde presero a divorare e ad arrampicarsi lungo il gigante di granito, raggiungendo in poco tempo il soffitto ed espandendo una ragnatela di grinze pericolanti.
Il demone ringhiò e strepitò di rabbia e dolore, agitandosi per disincastrarsi dalla colonna che lo teneva in trappola.
Lemonade alzò gli occhi al soffitto.
La polvere scendeva copiosa e un forte tremito squassava la pietra del luogo.
Stava crollando.
Colta dal terrore tentò di slegarsi ma il nemico riuscì a farlo prima di lei, caricandola e mancandola per davvero poco.
Allora  la ragazza riuscì a liberarsi dalla sua postazione, gli cinse il collo con entrambe le catene e lasciò che la caricasse, per poi spiccare all’ultimo minuto un balzo inatteso, che la incastrò sulla groppa del nemico. Allora tirò, tirò con tutta la forza che le rimaneva, tirò fino a farsi tremare i muscoli dallo sforzo, mentre la bestia sbalzava e divincolava, nel tentativo di disarcionarla.
Con un ultimo, straziante strattone, Lemonade riuscì a soffocare il nemico, il quale divenne gradualmente più debole, fino a crollare sul proprio corpo.
Un ritaglio di soffitto cadde pesantemente alla sua destra, mentre la polvere prendeva ad opacizzare ogni suo colore, infettandole il sangue fresco.
Lemonade trovò solo la forza di piangere mentre, alzando gli occhi al cielo, vedeva la colonna crollarle addosso in tutta la sua maestosità, seppellendola in una tomba senza via di uscita. 

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Capitolo 43
*** Cure Mint. ***


NOTE: chiedo scusa per il ritardo di questo capitolo, ma fatti personali mi hanno distratta per un po’ e no ho potuto scrivere, pardon!
 
 
Il cuore di Ryan perse un battito quando un rombo squassò il tempio e grossi ritagli di granito presero a piovere sul quadriportico dell’ingresso. Le colonne iniziarono a barcollare come giganti oscuri, le pareti si incrinarono minacciose e il soffitto veniva divorato da una ragnatela di crepe sempre più fitta.
Ma il peggio fu l’urlo, acuto e straziante, che si levò quell’attimo prima che il crollo seppellisse il tutto, amici e nemici, senza alcuna distinzione, come un giudice crudele ed imparziale.
Fu allora che un peso grosso quanto un macigno rischiò di soffocarlo fra le lacrime, mentre l’affilata consapevolezza di aver perso un’amica strisciava in lui e affondava le zanne nelle sue carni.
Lanciò uno sguardo alle sue spalle, ma tutto ciò che riuscì a vedere fu l’ingresso che, troppo rapidamente perché potesse evitarlo in qualche modo, veniva otturato da una cascata di macigni e rovine.
In un attimo, tutto calò nel buio più pesto.
La sensazione di smarrimento si fece subito sentire, chiara ed impietosa, mentre un tremito sempre più incontrollato lambiva ogni angolo del suo corpo.
Erano stati risparmiati. La sala del tempio aveva retto il crollo del quadriportico, bloccando l’ingresso, ma erano stati risparmiati.
Con mano tremanti, allungò le dita di fronte a sé, nel tentativo di afferrare o trovare le compagne.
Ma Mint lo precedette. Lo afferrò per le spalle, giungendogli dalla schiena, spronandolo con gentilezza ad avanzare, mormorando parole di confronto e incoraggiandolo incessantemente, sebbene il suo tono di voce suggerisse che stava soffrendo, che lacrime calde rigavano il suo viso e che una quarta ferita era stata aperta nel suo petto.
-Dov’è Rouge?- chiese lui,  sforzandosi invano di distinguere qualcosa in quel labirinto oscuro qual’era la sala centrale del tempio.
Qualcuno alla sua destra gli afferrò l’avambraccio, stringendolo con forza –Sono qui- sussurrò lei in risposta, mentre una nota di dolore graffiava la sua voce rabbiosa.
-Stai bene?- fece lui, angosciato dal pensiero che la ragazza potesse ricadere in un rinnovato attacco d’ira, di folle dolore.
-Si- rispose lei asciutta –vedo una scalinata, dobbiamo salire il più in alto possibile per chiudere il portale-
Ryan percepì un timore strisciargli nel cuore, il timore di non essere all’altezza per il prorpio compito, il timore di non essere cambiato, di non poter controllare il prorpio potere.
Come una terribile consapevolezza, quel timore lo afferrò e non lo lasciò più andare.
 
Di quell’ulteriore scalinata, Mint ricordò solo il buio, pesante, angosciante, gravante sulle sue spalle come un macigno che le impediva il respiro. Era terrorizzata, stanca e ferita come non lo era mai stata.
Le speranze di rivedere le proprie compagne erano ormai spente, Mint sapeva fin troppo bene che né Rose, né Aqua, né tantomeno Dream sarebbero tornate da lei. E ora anche la flebile luce di Lemonade scemava inarrestabilmente.
Contro la sua ferma volontà, un nodo le si gonfiò in gola, mentre lacrime salate le ferivano gli occhi e le strappavano a forza la lucidità.
Era stanca di quella faccenda.
Era giunta al limite.
Non avrebbe assistito ad un altro assassinio.
Giunse al termine della scalinata a corto di fiato, costretta a terra dai singhiozzi violenti, mentre i capelli le si incollavano al viso imperlato di sudore e il corpo implorava a gran voce una tregua che lei non poteva permettersi.
Si sentì afferrare per un braccio, quindi le forti braccia di Rouge la costrinsero nuovamente sulle proprie gambe, e la sua voce affilata e autoritaria le ordinò di proseguire.
Mint ingoiò a forza l’amaro boccone delle lacrime, quindi alzò lo sguardo e rimase letteralmente accecata dal bagliore blu che irrompeva nella sala superiore in spessi fasci impalpabili. freddi  e di un’inquietante bellezza, strisciavano sulle pareti e sulle assi del pavimento con un incedere estenuante, carezzando loro i corpi, come se il portale potesse vederli, percepirli attraverso essi.
-Arrampichiamoci sul tetto- ansimò Rouge spalancando con un violento calcio una delle finestre e tendendo la mano a Ryan, visibilmente turbato, pallido come un lenzuolo – c’è una torre più alta sulla destra-
Mint annuì, quindi imitò i compagni e, afferrando qualsiasi oggetto si offrisse da spuntone o appiglio, prese ad inerpicarsi sul fianco della parete, la quale crepitava e gemeva in modo poco rassicurante ogni qualvolta uno di loro disponeva male il prorpio peso sulle assi.
Strinse con forza i denti, mentre rinnovate lacrime di dolore e sforzo le sferzavano il viso: i muscoli le tremavano, stremati,il respiro era reso corto dalla corsa, il suo flusso di energia era instabile e fioco.
Aiutata da Rouge, riuscì a trarsi a forza sulle tegole del tempio, mentre il respiro si faceva ardente nella sua gola, dettato dal terribile ritmo del suo cuore in subbuglio.
-Forza- abbaiò ancora Rouge, animata da un fuoco di rabbia, dolore, spinta dalla semplice e pura sete di vendetta –Abbiamo poco tempo-
Detto questo, senza conceder un secondo in più perché potessero riprendere fiato, trascinò Mint e Ryan in un’ultima, straziante corsa contro il tempo.
Mint urlò, frustrata dall’enorme sforzo che pressava il suo corpo e spremeva i suoi muscoli di ogni energia, ma non smise di correre. Nemmeno quando le tegole presero a scivolare sotto le sue suole, rischiando di trascinarla i una caduta da cui non avrebbe fatto ritorno.
Raggiunsero la base della torre più alta, incorporata fra le tegole e le assi del tetto, Rouge fece segno a Ryan di salire per primo, mentre il sudore rifulgeva del terribile riverbero del portale.
Mint si concesse un breve sguardo al cielo.
Era letteralmente divorato, strappato brutalmente come un sottile straccio. I fasci luminosi che emanava il portale si tendevano e si ritraevano ad arpionare il nulla, come dita ingorde, mentre un alone oscuro espandeva e radicava le proprie tenebre in ogni angolo del cielo, come un’ombra cupa gravante sulla popolazione.
La città era una vista orribile.
Un fiume in piena di demoni si riversava in ogni centimetro di essa, formicolando ovunque, distruggendo e devastando. Il pensiero che là ci fosse anche la sua famiglia, colpì lo stomaco di Mint con tanta forza da gettarla, per un breve istante, nel freddo abbraccio delle vertigini.
Si sforzò di riscuotersi e, a forza, tornò col pensiero all’imminente arrampicata per la torre. Rouge era già salita e, molto probabilmente, ora si trovava faccia a faccia con il centro del portale; la bocca, il nucleo, la fonte di tutto.
Allungò una mano per afferrare un appiglio, strizzando gli occhi, sperando con tutta sé stessa che tutto finisse per il meglio, che Ryan riuscisse a sigillare quello strappo nel cielo, che Rouge sopravvivesse.
Ma un imprevisto stravolse di netto i suoi piani e le sue speranze.
Si sentì improvvisamente afferrare per una caviglia con forza brutale, la pelle in prossimità della morsa di ferro prese a bruciarle da impazzire, irritata, mentre una forza anonima la trascinava verso il basso, strappandola al suo appiglio e riportandola fra le tegole contro la sua volontà.
Mint tentò di urlare, ma qualcosa afferrò prontamente il suo polpaccio destro, sguinzagliandole in corpo una serie di scosse lancinante che le strappavano di continuo il respiro.
Si dimenò e si agitò, ma quando si voltò per scorgere in viso il proprio aggressore, quello si dissolse, lasciando la presa sulle sue gambe e facendo in modo che potesse riafferrare il respiro.
Allora gemette e pianse di dolore: il suo corpo era letteralmente sfregiato, ricoperto di tagli e perforato dagli angoli delle tegole, scomposte e sfuggite dalla loro nicchia nel tetto. La caviglia e il polpaccio le formicolavano dolorosamente, la pelle era arrossata, infiammata, e bruciava come se si fosse ustionata.
Percepì un carezza calda e viscosa colarle lungo il fianco, e un brutto presentimento strisciarle accanto.
Abbassò lo sguardo e, con orrore, notò un frammento di tegola incastrato fra le sue carni, tappezzato del suo sangue scuro. Con mano tremante, impugnò l’estremità che fuoriusciva dal suo corpo e, stringendo denti, pugni e occhi, lo estrasse con uno strattone, urlando di strazio e dolore, graffiandosi la gola e rigandosi il viso di lacrime.
Allora crollò in ginocchio, sostenendosi su un solo fianco, mentre i suoi muscoli pulsavano dolorosamente, e il respiro rimaneva ingabbiato nei polmoni in colpi convulsi. Contrasse completamente il suo viso in grinze di dolore, mentre un fiume di sangue le cingeva l’addome e colava con lentezza estenuante lungo il suo corpo.
Fece per tamponarsi la ferita, ma qualcosa la colpì con forza sulla nuca, costringendola riversa fra i frammenti appunti del tetto in pezzi.
Con l’udito riuscì a cogliere un sibilo sospetto alla sinistra e, senza esitare, raccolse le energie residue ed evocò la Mint Protection giusto in tempo per risparmiarsi un ulteriore colpo, il quale andò a schiantarsi contro la protezione innalzata al momento.
Non trovò le forze per rialzarsi, per rizzarsi a sedere, né tantomeno per muovere un dito. Era concentrata solo ed unicamente alla protezione, sebbene fosse flebile e fragile.
Sapeva perfettamente che un demone la stava attaccando, e che quello era uno scontro assolutamente impari. Sarebbe stata sottomessa, schiacciata con facilità. Avrebbe potuto semplicemente arrendersi, in modo da farla finita senza soffrire, senza tirare la sua morte imminente per le lunghe.
Ma non si trattava di lei ora. Non era l’unica pedina in gioco.
Ryan e Rouge avevano bisogno di tempo, e lei avrebbe fatto il possibile per intrattenere e distrarre i demoni.
un colpo.
Un altro.
Sempre più potenti.
Forzavano la sua protezione con violenza.
Sentiva che stava per cedere, che non sarebbe riuscita a resistere oltre. Non ce l’avrebbe fatta.
Aveva completamente perso di vista il suo corpo, ormai era solo un ammasso di membra, carne e sangue inutile, ora ciò che importava era la sua mente, la sua fredda lucidità e la sua concentrazione.
Estraniò le stilettate di dolore, eliminò la consapevolezza del proprio corpo e indirizzò tutte le sue energie allo scudo, ormai persino malapena visibile.
Mentre i colpi si susseguivano con forza, senza tregua, una strana sensazione prese ad infiltrarsi nella mente di Mint, come un ricordo, una sensazione già provata, una situazione familiare.
Era già stata vittima di quei colpi. Era già stata attaccata in quel modo. Si era già difesa con la Mint Protection.
E aveva fallito.
Sbarrò gli occhi e, ignorando improvvisamente dolore, stanchezza e strazio, alzò il capo, mentre i pezzi di un quadro finora inaccessibile si ricomponevano finalmente in un codice comprensibile.
Nel medesimo istante, lo scudo andò in frantumi come vetro, piovendole addosso come una pioggia rifulgente la luce blu del portale. Con orrore si sentì afferrare per la vita, il suo corpo venne sollevato letteralmente, inerme e troppo provato perché riuscisse a reagire anche solo minimamente.
Scosse brucianti attraversarono la sua schiena, i suoi fianchi, contrassero i suoi muscoli, spingendoli a reagire impulsivamente con convulsioni strazianti.
Fu come se il tempo si dilatasse.
Come se il tutto stesse avvenendo al rallentatore.
Mint ebbe il tempo per trarre un ultimo, lungo, respiro tremante.
Venne gettata via.
Come un rifiuto, come una nullità, un oggetto rotto.
Cadde inerme da più di dieci metri d’altezza.
Mentre l’abbraccio crudele della caduta le cingeva il corpo esanime, il terreno le correva incontro ad una velocità inarrestabile, e lo sguardo, ancora rivolto verso il cielo, riuscì a cogliere un ultimo particolare, prima di spegnersi in una tenebra senza ritorno.
Capelli.
Lunghi capelli corvini.
 

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Capitolo 44
*** Perdere le speranze. ***


NOTE *indossa un giubbotto antiproiettile sotto l’armatura d’acciaio e il casco da MotoGP* non uccidetemi, vi prego: abbiate pietà di me! Sono in ritardo, chiedo umilmente perdono *si inginocchia* la pigrizia mi ha assalita improvvisamente! AAAAAAAAARRRRRGGGGGHHHHH!!!!
 
Un brivido gelido si sciolse fra i dorsali di Cure Rouge, mentre con lo sguardo catturava ogni singolo riflesso inquietante del portale, senza riuscire a distogliere le iridi cremisi da quel blu singolare, terribile quanto inspiegabilmente affascinante, quasi seducente.
La bocca del portale era nera, nera come ali di corvo, densa come la notte e profonda come un pozzo senza fondo.
Un formicolio anonimo si espanse in ogni centimetro del suo corpo, mentre una strisciante sensazione di impotenza si arpionava nel suo petto, avvelenandole il coraggio e la ferma lucidità.
Strinse con forza i denti, tentando invano di regolarizzare il respiro.
Riusciva a percepirla.
Riusciva a percepire la potenza del portale solo fronteggiandolo da più di tre metri di distanza: era devastante, la schiacciava, le pressava il corpo e le strappava le speranze, facendole a brandelli.
-Avanti- riuscì ad ansimare fra i denti –Chiudilo-
Ryan al suo fianco, prese ad agitarsi palesemente, senza riuscire a schiodarsi dalla sua posizione rigida. Una goccia di sudore gli imperlò la tempia, mentre ansimi angoscianti gli frustavano la gola e squassavano il suo petto con sempre maggior violenza.
Un urlo raggelante spezzò il silenzio surreale che era calato fra di loro, una voce che conoscevano bene, l’ultima voce che alle loro orecchie suonava ancora amica.
Poi un tonfo. Sordo, terribile.
Il tonfo di un corpo, il crepitio di ossa spezzate.
Una lacrima graffiò il viso di Rouge, mentre si ripeteva invano di riafferrare lucidità, di riprendersi, di non lasciarsi sprofondare nello sconforto più totale.
Ma era difficile, terribilmente difficile.
Salutò Cure MInt con un’ultima lacrima bollente, quindi si ripromise di non pensarci più, di accantonare la morta in un angolo della sua mente e non tirarla mai più in causa.
-Chiudilo- supplicò, afferrandogli un avambraccio e stringendolo con forza –Chiudi il portale-
Era al limite, non era in grado di poter sopportare altro, solo Ryan aveva il potere di seppellire quella terribile faccenda una volta per tutte, solo lui era in grado di sistemare la situazione.
E la soluzione era così vicina.
Ma il ragazzo era pietrificato, chiuso in una morsa di puro terrore, paura, angoscia, tutto dipendeva da lui, un solo, minimo errore e avrebbe condannato l’intera umanità.
Sulle spalle aveva una grossa responsabilità, e lui ne era consapevole, terribilmente, ed era terrorizzato, aveva smarrito qualsiasi via per poter aggrapparsi anche al più fioco equilibrio freddo.
-Chiudilo – ringhiò Rouge, afferrandolo per le spalle, scoppiando in lacrime salate, senza più riuscire a contenere il suo dolore.
 
 
Ryan si riscosse, distolse lo sguardo dalla luce terribile del portale per inchiodarlo nel cremisi degli occhi di Rouge, colmi di lacrime, traboccanti di sofferenza e di una muta supplica.
Aveva paura.
Non se la sentiva. Non si sentiva pronto ad avvicinarsi a quel portale. E se non fosse riuscito a controllare il flusso del suo potere? E se, invece di salvare l’umanità, avesse peggiorato la situazione? Se non ci fosse riuscito? Cosa avrebbero fatto allora?
Era troppo.
Non poteva sopportarlo, aveva un carico troppo pesante sulle sue spalle, un carico che avrebbe finito per schiacciarlo.
Eppure la vista di Rouge, così disperata, agguerrita e grintosa, gli infuse un anonimo senso di sicurezza, una sicurezza che non aveva e non si poteva permettere nemmeno di sperare.
Se solo fosse stata lei la custode del flusso di energia, Ryan era sicuro che allora si sarebbe catapultata senza esitazione alcuna, avrebbe svolto il suo compito senza alcuna sorta di ripensamento, si sarebbe presa la sua responsabilità e avrebbe sistemato la situazione con la determinazione che solo lei possedeva.
Me era lui.
Cacciò un respiro soffocato, quindi allacciò le proprie braccia sui fianchi esili di Rouge, traendola a se in un abbraccio disperato, sperando  che lei gli infondesse la forza per svolgere il suo compito, che anche solo un po’ della sua grinta rendesse meno atroce la sua mansione.
Dopo una prima esitazione di sorpresa, Rouge ricambiò il gesto d’affetto -ce la puoi fare- gli sussurrò , le labbra a sfiorargli l’orecchio, mentre le braccia gli si stringevano al collo fin quasi a strozzarlo.
Ryan strinse con forza gli occhi, due lacrime bollenti come fuoco gli inondarono il viso, quindi si sorprese ad annuire e, suo malgrado, si dovette sciogliere da Rouge, la quale gli forzò un tentativo di sorriso, indicandogli il portale con un cenno del capo.
Il ragazzo ingoiò, la vista appannata da lacrime di fuoco, quindi si avvicinò al portale, trovandosi più di una volta ad esitare, a sfiorare il pensiero di tornare indietro, di correre a casa e soffocare il suo pianto fra le piume di un cuscino.
Ma doveva rimanere ancorato alla realtà, doveva pensare concretamente e riflettere sul da farsi.
Allungò una mano e immediatamente un’ondata di energia lo investì, istupidendolo, sguinzagliando nelle sue vene un formicolio gelido, mentre il suo cervello e i suoi sensi combattevano in un estremo tentativo di riprendersi dal torpore stordente.
-io non lo farei-
Una voce bassa, leggera, quasi provocante, solleticò i timpani di Ryan, il quale, senza nemmeno volerlo, si ritrovò a ritrarre il braccio in un sussulto, angosciato.
Si voltò a guardare Rouge, in cerca di rassicurazione, ma nessun segno incoraggiante segnava il suo viso. Corrugava la fronte con fare confuso e si guardava attorno con insistenza, certa di essere osservata ma consapevole di non essere a conoscenza d’altro.
-chi sei?- ringhiò Rouge, aggressiva –fatti vedere-
Seguì un silenzio angosciante, rotto solo da bassi sibili minacciosi, striscianti, fruscii poco rassicuranti, dapprima confusi, poi sempre più chiari.
Ryan fu assalito dal panico: qualcuno o qualcosa stava accorciando le distanze fra loro, e lui non era sicuro di voler sapere di cosa si trattasse né di voler averci a che fare minimamente.
Il desiderio di voltarsi, fuggire, correre, svegliarsi da quell’incubo senza fine si faceva sempre più prepotente, insopportabile, una tortura pressante che lo gettava sotto una doccia di sconforto, annegandolo nell’insicurezza, nel terrore.
-Muoviti- la voce di Rouge lo riscosse dal vortice di angoscia cui era caduto vittima –chiudi il portale- insisté lei.
Aveva capito che qualcosa non andava per il verso giusto, lo spronava perché tutto finisse, perché finalmente sigillasse il portale, seppellendo i terribili avvenimenti sotto la coltre dei ricordi. Lo spronava perché facesse in fretta, perché non fossero raggiunti da qualcosa che avrebbe potuto segnare non solo la loro fine, ma anche la fine dell’intera umanità.
Ryan annuì, stordito, quasi inebetito dal terrore pulsante che lo assordava.
Tese nuovamente un braccio verso il portale, serrò gli occhi e, traendo un profondo respiro, cercò dentro di sé, cercò nel suo petto, nel suo sangue, nella sua mente, cercò il flusso di energia, la sua essenza, il suo centro.
-Rassegnati ragazzino- nuovamente un sibilo corse sulla colonna sonora di Ryan, distraendolo e facendolo rabbrividire –ci siamo già passati, o sbaglio?-
-fatti vedere- urlò Rouge, fuori di sé –codardo!-
Un terribile ghigno gelido strisciò fra di loro, afferrando le viscere di Ryan con dita impalpabili, e rimescolandole, avvelenandole di terrore.
Ci siamo già passati.
Ryan si morse un labbro. Aveva ragione. Chiunque fosse, era a conoscenza di ciò che era a successo, sapeva che il controllo del flusso era già sfuggito a Ryan, sapeva che tutto dipendeva da lui: avrebbe potuto sigillare il portale, si, ma avrebbe anche potuto scatenare un vortice di energia devastante, vortice che, senza Rose, Kokoda, Natsu e Syrup, sarebbe stato impossibile da arrestare.
le sue dita presero a tremare incontrollate. La tensione gli afferrò i muscoli, lo contrasse fino allo spasmo e lo tese come la corda di un arco.
-Chiudi il portale- lo spronò ancora Rouge –non ascoltare-
Fu allora che, dalle tenebre scivolò alla luce una sagoma sinuosa, filiforme, dei tratti fin troppo familiari.
Una cascata di capelli corvini, occhi scuri come la notte, un corpo perfetto, slanciato, formoso, ma inspiegabilmente freddo ed inquietante, e lo sguardo, bramoso quanto folle, viscido, quasi velenoso.
Quella donna era riuscita a seguirlo, a trovarlo anche allora.
-Tu!- ringhiò Rouge furiosa, la ferocia nello sguardo, un fuoco di rabbia esplosiva soppresso a stento.
La donna le rivolse un ghigno compiaciuto, una stilettata di pura soddisfazione – felice di rivedervi-
-avrei dovuto farti fuori molto prima- sibilò Rouge, senza più contenere frustrazione e dolore.
-Non è un pensiero carino- rispose lei, fingendosi ferita dalle parole affilate dell’avversaria.
-Penso io a lei- abbaiò Cure Rouge, animata da una rabbia cieca –tu pensa al portale- ordinò a Ryan, parandosi fra la donna e il ragazzo.
Nonostante la paura cieca di poter perdere anche lei, Ryan riconobbe che era l’unica scelta possibile e, stringendo le lacrime fra le ciglia, voltò le spalle alle due avversarie, focalizzando la sua completa concentrazione al portale.
-E’ inutile- sentì sibilare la donna –Ryan non può chiudere il portale-
Il respiro del ragazzo rimase incastrato fra sterno e gola.
-Taci- ringhiò Rouge, e dai suoni che seguirono Ryan poté dedurre che la battaglia era iniziata e che lui aveva da sfruttare solo il tempo che Rouge gli poteva concedere.
Riscuotendosi, chiuse gli occhi e analizzò il flusso del portale, cercando elementi in comune con ciò che sentiva dibattersi nel petto. Andò più a fondo, scavò il profondità, sempre più giù, tentò di conoscersi, di trovare un nome e un luogo al flusso intrappolato nel suo corpo.
-Ryan non è in grado- sentì sibilare la donna, mentre tonfi sordi e colpi secchi lasciavano intendere ritmo e frenesia del duello che Rouge ingaggiava con lei –non controlla il suo flusso-
-Sta’ zitta!- l’urlo di pura rabbia collerica vibrò nell’aria, mentre un colpo più potente tagliava il silenzio e una vampa di calore, a cavallo di un’esplosione luminosa, investì le spalle di Ryan. 
L’ennesimo ghigno scaltro risuonò nel buio –andiamo- sibilò –credi davvero che l’incontro con Yumiko abbia cambiato qualcosa?-
Ryan si fece improvvisamente attento, mentre una goccia di sudore colava inarrestabilmente lungo la sua tempia.
-Ryan non è cambiato- rise la donna.
 
Rouge si lanciò sulla donna come una tigre sulla sua preda, afferrandole la gola con una mano e sbattendola con violenza contro il muro ruvido di una torre.
Non aveva ancora capito che ruolo avesse quella donna in quella faccenda, non aveva capito cosa c’entrasse una donna come lei con i demoni partoriti da quell’orrore, ma non le importava, era un’avversaria, e tanto bastava perché le mandasse a pezzi i nervi.
-Che ne sai tu di Yumiko?- sibilò a due centimetri dal suo viso, la rabbia a trasfigurarle i tratti e forti istinti omicidi a guidare il suo fuoco.
La donna emise un gemito gorgogliante, tentando invano di liberarsi dalla stretta d’acciaio di Rouge. Tuttavia trovò la forza di sorridere in quel suo modo tanto odioso ed irritante –quella non era Yumiko- riuscì ad ansimare, la voce strozzata e gli occhi rossi di sforzo –ero io-
 
Il cuore di Ryan smise di battere.
Come in un incubo il suo respiro si rifiutò di filtrare fra le sue labbra.
Lasciò cadere il braccio precedentemente proteso alla bocca del portale, abbandonandolo al fianco, inerme.
Non c’era più speranza.
Non c’era più via d’uscita.
Erano spacciati.
 
-Stai mentendo-ringhiò Rouge, strattonando la donna e sbattendola nuovamente contro la pietra dura e fredda.
Scoccò un breve sguardo a Ryan e, con suo grande orrore, lo trovò arreso.
Le parole della donna erano riuscite a squassarlo, erano riuscite a raggiungerlo e distoglierlo dal suo compito.
-Che stai facendo?- urlò, disperata. Non poteva mollare, non poteva lasciarsi andare, non dopo il sacrificio delle sue compagne –Chiudi il portale-
-Non lo può fare- rise la donna, approfittando di quella breve distrazione per potersi liberare dalla stretta –Non è cambiato-
Una rabbia cieca prese a montarle alla testa, mentre vampe di calore incontrastato preannunciavano uno sfogo di fuoco incontrollato.
Senza esitare sferrò un pugno terrificante al viso della donna, un pugno di tale potenza da gettarla lontano, fra le tegole.
-Taci- intimò nuovamente, oscurata da una collera mai provata prima, una collera bruciante che le divorava lucidità e umanità, una collera che l’avrebbe portata all’omicidio più brutale.
La donna sembrò non sentirla nemmeno, con una piena disinvoltura si rialzò e, tagliandosi un ghigno sghembo in viso scoppiò in un fragorosa risata folle –siete così ingenui- sibilò, le labbra spaccate dalla violenza di Rouge, rivoli di sangue ad avvolgere il suo corpo in un abbraccio macabro –era tutto calcolato- un terribile alone scuro delineò la sua sagoma –ho preso le sembianze di Yumiko, mi sono scontrata volutamente con Ryan- rise –l’ho stordito con una scarica per far si che svenisse. E voi – i capelli presero a volteggiare nell’aria senza alcuna logica, come se la gravità non agisse su di loro –Voi ci siete cascati così facilmente. Avete subito pensato alla prospettiva che Ryan potesse aver acquisito il potere di chiudere il portale, e l’avete portato qui- zanne acuminate, umide di bava, fecero capolino dalle labbra carnose della donna, mentre il viso veniva trasfigurato in tratti spaventosi –Vi ringrazio, davvero: senza di voi non sarei mai riuscita a portarlo in pasto al portale-
 
Ryan cadde in ginocchio, mentre lacrime impietose gli frustavano il viso.
Spacciati.
Era stato così stupido.
Lui l’aveva percepito, lui sapeva che nulla era cambiato in lui.
Eppure aveva fatto il gioco del nemico, condannando a morte l’intera  umanità.
 
-Stai mentendo- abbaiò Rouge –Dimmi, dal momento che sei in grado di assumere le sembianze altrui, allora perché mai non ti sei spacciata per una nostra compagna? Sarebbe stato facile per te pugnalarci alle spalle-
La donna lasciò ricadere il capo all’indietro, ridendo di follia e di trionfo –Vedi, non sono in grado di assumere le sembianze di chiunque- così dicendo si alzò lentamente, un balenio spaventoso negli occhi –solo delle persone che ho ucciso con le mie mani- e mentre pronunciava le parole, la sua pelle si stirò, si schiarì, i suoi capelli si ritirarono e si tinsero del colore del muschio, mentre gli occhi si scioglievano in un verde familiare.
In pochi minuti, sotto gli occhi cremisi di Rouge, si innalzò fiera Cure Mint. 

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Capitolo 45
*** Cure Rouge & Ryan Gray. ***


Rouge sgranò gli occhi mentre una vera e propria pugnalata la colpiva dritta allo stomaco.
Cure Mint.
Di fronte a lei, la divisa imbrattata di sangue scuro, il viso graffiato, lesionato da impatti terribili, se ne stava impalata e impassibile Cure Mint. Era identica. In ogni minimo dettaglio, Rouge rivedeva la sua compagna, la sua amica, il suo sacrificio. Ma in una cosa la donna differiva dalla vera e originale Cure Mint: lo sguardo. Lo sguardo verde, docile, il viso angelico e il sorriso bonario, l’espressione rassicurante, la risata pronta per chiunque.
No, Mint non c’entrava nulla con ciò che aveva davanti Rouge: un automa, un guscio vuoto, nient’altro che un semplice involucro ingannevole.
Si morse il labbro fino a farsi male, fino a pungersi la lingua con il sapore metallico del sangue.
Rabbia.
Non poteva permettersi di sfruttare il corpo dell’amica a suo piacimento, no, questo no. Non poteva permettersi di indossare una patetica maschera beffarda . L’aveva uccisa, aveva ucciso Mint e non se ne pentiva, tutt’altro:  sfoggiava il suo nuovo aspetto con espressione compiaciuta con un sorriso trionfale.
Se pensava che sarebbe bastato un trucco tanto semplice per mandarla fuori di testa si sbagliava, si sbagliava di grosso. Finché quel manichino con le sembianze fisiche di Mint presentava uno sguardo folle, un ghigno malefico, finché la donna giocava con il viso bonario, finché ne stravolgeva i tratti in espressioni improponibili, Rouge non aveva dubbi su chi si trovasse di fronte a lei.
-l’hai uccisa- ansimò la ragazza fra i denti, trattenendo a stendo una rabbia cieca, una collera bruciante che le divorava man mano ogni centimetro di lucidità.
-l’hai uccisa!- urlò, fuori di sé, fino a farsi bruciare la gola, fino a stremarsi le corde vocali, e si gettò all’attacco, iraconda, impulsiva, senza più pensarci, accattonando ogni fioca imitazione di una riflessione, lasciando pieno controllo all’istinto combattivo del proprio corpo.
Assestò una ginocchiata allo sterno della nemica, costringendola in ginocchio con un gemito straziante. Percepì la rotula affondare nella carne del petto, incontrare le ossa, l’impatto squassarle i muscoli e il corpo avversario accasciarsi su di lei. 
Le afferrò i capelli e, con uno strattone, gettò il corpo lontano,  accecata da una collera insopprimibile. Non le lasciò nemmeno il tempo per un respiro, si gettò su di lei in una raffica di colpi in sequenza, imprevedibili, rapidi quanto vigorosi.
Non sentiva, non vedeva, non provava nulla durante quella folle danza macabra: aveva in pugno l’origine di tutti i suoi mali, delle sue sofferenze; aveva stampato nella mente l’orrore della morte, aveva assaggiato il sapore amaro della solitudine e aveva provato sulla propria pelle il dolore della sconfitta.
E, ora che era ad un passo da una vendetta tanto agognata, non avrebbe lasciato correre, non si sarebbe lasciata scappare un’occasione tanto provocante.
Sbatté a terra il corpo avversario, stringendole le spalle con violenza e torreggiando su di lei, trionfale, mentre l’urlo straziante della nemica si levava nel cielo, vibrando sul suo capo.
Fu allora che qualcosa cambiò.
 Un balenio diverso rifulse nel verde degli occhi di Mint, un sorriso stanco stirò le sue labbra rosee, il viso si spianò e le sopracciglia si rilassarono in un’espressione dolce, mentre ogni muscolo sotto la presa di Rouge si allentava lentamente.
Senza nemmeno rendersene conto, Rouge riconobbe un’amica in quel corpo martoriato. La sua mente venne inondata di ricordi, soffocata da immagini di una Komachi serena, e ingannata da uno sguardo addolcito.
Poi, con uno sforzo disumano, riemerse dai ricordi felici, nonostante la stanchezza, il dolore e lo strazio le sussurrassero di lasciarsi andare, di affogare in quel mare sereno, di rifugiarsi laddove il dolore non poteva allungare le sue braccia bramose.
Troppo tardi.
Quella minima, breve esitazione bastò perché la nemica si liberasse della morsa ferrea di Rouge, sbalzandola indietro con un calcio in pieno petto che le estirpò di netto il respiro, lasciandola boccheggiante al suolo.
Strinse i denti e contrasse l’addome, cercando di riafferrare dell’aria con un gemito strozzato. Si appoggiò sul braccio sinistro, mentre il destro corse ad allacciarsi allo stomaco, che si ribellava con fitte nauseanti. Fece per rialzarsi, ma la nemica la raggiunse prima e la atterrò calpestandola con un piede, umiliandola a terra mentre il tacco le si conficcava con prepotenza fra le vertebre del collo.
Rouge gemette di dolore e tentò di divincolarsi, ma ad ogni minimo movimento il collo le scoccava fitte lancinanti, scosse dolorose che le legavano l’intero corpo in un’immobilità forzata.
Il corpo le bruciava di sforzo, la mente la privava di lucidità, ma la determinazione era ancora bruciante e cresceva a pari passo con l’ira incontrollata, un’ira che l’avrebbe portata a battersi fino all’ultimo respiro. La vendetta era troppo invitante perché potesse ignorarne l’offerta.
Con un formidabile colpo di reni, Rouge riuscì a prendere alla sprovvista la nemica, le afferrò una caviglia e la trascinò a terra, ribaltando la situazione e ringhiando tutta la propria rabbia cieca.
Non si sarebbe lasciata ingannare, non una seconda volta.
Non era Mint.
Era un demone.
Non era Mint.
Le sferrò un pugno alla bocca dello stomaco, dal basso verso l’alto, e percepì sulle nocche impietose l’abbraccio gelido della gabbia toracica, quindi la costrinse nuovamente spalle al suolo, continuando a colpirla  senza più alcuna esitazione.
L’avversaria ebbe la prontezza di spirito di afferrarle un polso e deviare il pugno indirizzato al suo viso, sfruttando la forza e l’impeto di Rouge per lasciarla cadere sul lato, mentre un ginocchio già la colpiva fra la scapole, sguinzagliandole un vero e proprio guizzo di dolore, una lama perforante che le arrivò fino alle tempie, tagliandole in due il cervello.
Urlò ,urlò di dolore, ma non si lasciò abbattere e, con grinta, conficcò un gomito fra il fianco e la spalla della donna con tanta forza da sollevarla temporaneamente dalla sua posizione. Strappò un gemito di dolore all’avversaria e se lo gustò con tutto il cuore, ma non ebbe altro tempo per la soddisfazione: un colpo alla nuca la atterrò nuovamente, inibendole i sensi e allentando il suo controllo.
Si costrinse alla ripresa immediata, ma la nemica ormai torreggiava su di lei e la inchiodava al terreno con forza. Nonostante la vista le giocasse brutti scherzi, Rouge riuscì ancora a reagire, e stampò la suola della propria scarpa fra l’occhio e il naso del viso avversario, costringendola ad indietreggiare, rabbiosa.
Al limite delle proprie forze, Rouge si trascinò fuori dalla portata nemica, scossa da violenti colpi di tosse e provata da un dolore tanto acuto da farle desiderare la morte immediata.
Era distrutta. Era stanca.
Ma non si sarebbe arresa: avrebbe lottato fino all’ultimo respiro per vendicare chi le stava a cuore.
Per vendicare e per proteggere.
Nessuno le avrebbe toccato Ryan, non l’avrebbe data vinta a quella dannata donna.
Ebbe giusto il tempo per riprendere un minimo di fiato, quando la nemica le si fiondò nuovamente contro, riprendendo una battaglia destinata a non terminare mai.
 
Ryan strinse i pugni, mentre lacrime salate gli correvano lungo il viso, innaffiando le tegole spezzate del tetto. La luce blu del portale lo accecava, la bocca oscura era esattamente di fronte a lui, ma Ryan chinava il capo, impotente contro la forza schiacciante di quello strappo nel cielo.
Erano spacciati.
Non c’era più alcuna speranza.
Ogni minima forza, ogni goccia di volontà gli scivolò via dalle dita, dalla sua presa ormai fioca.
I tonfi sordi, gli urli, i gemiti e il dolore della battaglia ingaggiata alle sue spalle raggiungevano le sue orecchie ovattati, attutiti, insignificanti di fronte al suo profondo sconforto.
Era tutto perduto.
I sacrifici, le lacrime, gli sforzi compiuti.
Tutto vano.
Scosse il capo: ormai erano giunti al termine del gioco, e loro avevano perso.
 
Uno schiaffo terrificante colpì il viso di Rouge con tale impeto da sbilanciare il suo già precario equilibrio. Cadde a terra, stremata, indolenzita e  subito la sua avversaria le fu sopra, riempiendola di colpi che ormai suonavano insignificanti rispetto al dolore che già provava.
Era distrutta: aveva i nervi a pezzi ed era morta psicologicamente. La sua mente non funzionava, le tesseva trappole fra i ricordi, buchi neri nella memoria. Le portava alla luce i visi delle proprie compagne e le giornate di sport sotto il sole cocente.
Contrasse gli addominali colpì il nemico nell’incavo fra la coscia e il polpaccio, in modo da farle crollare il sostegno delle gambe.
ormai reagire gli sembrava ordinario, come se il suo corpo si fosse ormai adattato alla situazione e non facesse altro che colpire, difendersi e contrarsi nell’estremo tentativo di spezzare quella catena, di atterrare il nemico e farla finita.
Assestò una gomitata nello sterno della nemica.
Rouge era una spettatrice. Una spettatrice impotente.
Con un pugno, il labbro di Rouge si spaccò.
I suoi sensi erano ormai minimi, il suo dolore pulsava come non mai e la assordava, la accecava, le riempiva la mente e la allontanava dal suo corpo, entità ormai a parte, ruolo principale in quella battaglia.
Le colpì il collo con lo stinco.
Il controllo era sempre più flebile, sempre più fuggevole, le scivolava dai muscoli con una lentezza estenuante.
Si ritrovò a terra, il viso premuto contro il suolo e il dolore come  unica compagnia.
Era stanca.
Si sentiva terribilmente stremata, le palpebre erano pesanti, i sensi erano fiochi, la vista sempre più sfocata, la sua forza vitale al limite.
Un freddo torpore prese padronanza del suo corpo, finché le palpebre le caddero inevitabilmente sugli occhi, calandole sulla vista come un sipario a fine opera.
 
Ryan si sentì afferrare per una spalla, quindi si irrigidì di netto e trasalì con violenza. Si alzò di scatto e si voltò, pronto a colpire, a reagire.
Ma si ritrovò di fronte Rouge, sorridente, trionfale –va tutto bene- gli disse afferrandogli una mano e stringendola con forza –quella donna è morta-
Una minima sensazione di sollievo alleggerì il petto di Ryan, il quale tentò di sorridere, ma le sue labbra erano ormai morte da tempo, e non si potevano permettere nemmeno il minimo sorriso.
-E’ finita, Rouge- sussurrò, chinando il capo, mentre una lacrima gli pungeva l’angolo dell’occhio –E’ finita-
Lei sospirò –mi dispiace- mormorò, abbattuta –tutti i nostri sforzi sono stati inutili, inutili come il sacrificio delle Pretty Cure-
Il corpo di Ryan venne scosso da singhiozzi violenti, mentre la realtà lo schiacciava in tutta la sua tragica verità.
Rouge protese le sue braccia verso il ragazzo, allacciandole al suo collo e, alzandosi sulle punte, arrivò a sussurrargli all’orecchio –va tutto bene, Ryan- sibilò, con un tono insolito per chi ormai si è rassegnato alla morte –sei con me-
Va tutto bene, Ryan.
Ryan.
Rouge non l’aveva mai chiamato con il suo nome.
 Piuttosto non lo chiamava affatto.
Con un rapido sguardo, scorse in lontananza, nascosto, il corpo scomposto di Rouge.
Della vera Rouge.
Con orrore, afferrò la consapevolezza della situazione e si accorse che la donna dalle sembianze ingannevoli lo stava spingendo lentamente verso la bocca del portale.
-Tu non sei Rouge- gridò, spingendola via, tremante di rabbia, dolore e orrore –tu l’hai uccisa!-
Il suo viso venne trasfigurato da un ghigno orribile, e una risata folle prese ad echeggiare fra i resti del tempio.
-molto astuto- sibilò lei, assumendo man mano un’espressione omicida, aggressiva, un’espressione che, sul volto di Rin sembrava quasi qualcosa di profano – peccato sia troppo tardi-
Fece per gettarsi contro di lui, ma qualcosa andò storto. Si bloccò nell’atto di spiccare un balzo e, corrugando la fronte si guardò le mani le quale, gradualmente, prendevano a colorarsi di scuro, a sprazzi, come se stesse assumendo una carnagione differente.
Con un’onda progressiva, l’aspetto dell’avversaria mutò, la divisa rossa da Pretty Cure venne rimpiazzata da quella verde di Mint, mentre i capelli ribelli si ammansivano in una cascata scomposta e gli occhi cremisi si tingevano del colore scuro del muschio.
-no- ringhiò lei, incredula e rabbiosa, osservando con occhi sgranati il proprio corpo.
Ryan indietreggiò di un passo, il cuore in gola, ma si sciolse in un primo sorriso quando, da sopra le spalle della nemica, vide stagliarsi una sagoma rossa, rossa come il fuoco, rabbiosa come un incendio indomabile.
 
No.
Rouge non poteva morire.
Aveva ancora un conto in sospeso, e non se ne sarebbe andata prima di essersi macchiata le mani del sangue del demone.
Non sarebbe morta.
Non si sarebbe arresa alla morte.
Non si sarebbe lasciata andare.
Il respiro riprese a fluire nelle sue narici, gonfiandole il petto, il vigore e il sangue ripresero ad essere pompati nelle vene e nei muscoli, la mente riemerse dalle tenebre dense di un riposo profondo.
Era stata ad un passo dalla morte.
Era caduta nell’incoscienza, aveva sfiorato la tenebra eterna.
Ma non era così che doveva andare, lei non aveva ancora finito.  
 
Rouge afferrò il capo della nemica con entrambe le mani e appoggiò il proprio mento sulla sua spalla, fino a sfiorarle l’orecchio con le labbra, tese in una smorfia di collera pura.
-Non è così facile uccidermi, bastarda- sibilò, e le bastò un semplice guizzo di muscoli, un movimento brusco.
 Le spezzò il collo.
Poi tutto finì.
 
Ryan distolse lo sguardo quando il corpo esanime del nemico cadde riverso fra le tegole e le assi del tetto. Ma, subito dopo, fu Rouge ad accasciarsi in ginocchio, stremata, privata di ogni minima energia.
Il ragazzo si precipitò di lei e la sostenne, ma era troppo tardi: la pelle di Rouge era fredda, le palpebre erano calate e il corpo era privo di ogni segno di vita.
Rouge si era spenta come una candela.
E lui era rimasto solo.
Ryan la strinse con forza fra le sue braccia, pianse come non aveva mai fatto in vita sua, urlò di un dolore tanto profondo da farlo impazzire.
Si accasciò sul corpo della ragazza, soffocando il suo pianto più sincero nel suo profumo, fra i suoi capelli, nel cremisi degli occhi che a lui piacevano tanto.
la sua gola prese a dolere, i suoi occhi si ribellarono al pianto, mentre i polmoni e lo sterno finivano vittima dei singhiozzi più violenti.
Gliel’avevano portata via. Gli aveva portato via Rin, la sua Rin.
E lui era rimasto lì, solo, esposto, debole, inutile.
Attese finché non versò tutte le lacrime che aveva a disposizione, quindi sigillò il dolore nel suo petto e tentò di metterlo da parte almeno per un po’.
Kurumi e Karen, Nozomi, Urara, Komachi, persino Rin.
Gliele avevano strappate tutte.
Ringhiò di rabbia e lanciò un urlo iracondo al cielo, quindi si rialzò, strinse i denti fino a sentirli scricchiolare sotto la forza della sua mandibola.
Si voltò verso il portale e questa volta guardò dritto nello strappo oscuro, lo fece come si guarda negli occhi una persona per scorgerne i pensieri più intimi e profondi.
Non chinò il capo.
Non distolse lo sguardo.
Sfoderò denti ed unghie, e immerse un braccio all’interno dello strappo.
Lo fece con rabbia, ringhiando, sprofondò fino alla spalla.
Se non poteva chiudere il portale, perlomeno avrebbe raggiunto le sue compagne.
Ma lo avrebbe fatto tentando.
Tentando per l’umanità, tentando per la Natts House, per le Pretty Cure e per Rin.
Fu una sensazione insolita, singolare. Fu come immergere il braccio in un ghiaccio denso, ma una pressione fortissima gli stringeva ogni muscolo e lo spingeva fuori dalla sua nicchia di carne.
Improvvisamente una scossa gli afferrò i tendini e si trasmise in ogni centimetro del suo corpo, poi si sentì quasi afferrare, e ancora fu gelo, quindi ebbe l’impressione che qualcuno lo stesse tirando all’interno del portale, ma lui si oppose, si puntò sui piedi e non lasciò che quella forza avesse la meglio su di lui.
Nuovamente una scossa, questa volta più forte: una stilettata di dolore allo stato puro, gli raggiunse le tempie, le trapanò.
Ryan strinse i denti e chiuse gli occhi in una smorfia, resistette al dolore e richiamò a sé il suo flusso.
Lo sentì chiaramente fluire nelle vene, lo sentì abbattere la diga che lo teneva sotto controllo e dilagare nel suo corpo, libero e senza più alcuna restrizione.
Tentò di controllarlo, tentò di chiamarlo a sé, ma quello lo ignorava, era una corrente troppo forte perché lui riuscisse a fermarla.
Si sentì svuotare lentamente, come se il portale stesse risucchiando il suo flusso, lo stesse vuotando della sua energia, risparmiandone solo il corpo, inutile involucro esanime.
Una scossa più forte delle precedenti si arrampicò su ogni singolo muscolo del suo corpo, stringendolo in una presa bruciante che lo stordì al punto di sfiorare l’incoscienza.
Ma si costrinse lucido e non lasciò che il portale gli impedisse di raccogliere un minimo della sua energia.
Percepì chiaramente il proprio flusso strabordare con un impeto incontrollato, mentre un anonima pressione gli schiacciava il petto e gli svuotava i polmoni.
Non riuscì a trattenere un gemito di dolore quando i muscoli si tirarono fino allo spasmo, preda di dita impalpabili ingaggianti un crudele gioco col suo corpo.
Sentì quasi lo sterno strapparsi, le costole aprirsi sotto la pressione, le tempie cedere verso l’interno e le vene scoppiare.
Urlò di dolore, ma ormai la sua gola era sconfitta, le sue corde vocali morte.
La coscienza prese a scivolare con lentezza estenuante, mentre Ryan tentava disperatamente di non lasciarsela scappare.
No.
Non si sarebbe arreso ancora.
Per una volta sarebbe stato utile.
Avrebbe chiuso il portale.
Avrebbe portato in vita le persone a lui care.
E lo avrebbe fatto senza desistere una sola volta.
Con un urlo straziante, liberò tutta la sua energia, sperando che bastasse, sperando che ricucisse lo strappo in cielo, che tutto tornasse com’era prima.
Una luce accecante lo investì, inglobò il suo corpo, poi quello di Rouge, il tempio intero, tutta lo collina, la città, il Giappone e oltre.
Si sentì privare di ogni energia, percepì il suo corpo svuotarsi come una spugna e, per un attimo, ebbe la terribile sensazione che la sua energia non sarebbe bastata.
Cadde in ginocchio, le palpebre divennero pesanti come macigni, le energie gli scivolarono via e lui divenne debole, debole come non mai.
Poi giunse al limite e si accasciò a terra, precipitando nella piena incoscienza.
Quello che non vide fu il nero del portale chiudersi lentamente in se stesso, l’azzurro limpido impadronirsi del cielo e raggi di sole illuminare il Giappone. 

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Capitolo 46
*** vittoria, amicizie e amori. ***


Nozomi aprì gli occhi e assaporò con tutta se stessa il morbido profumo delle lenzuola di casa sua. Sprofondò il viso fra le piume del cuscino e sospirò di pace e sollievo. Si rigirò nel fresco abbraccio  del materasso e attese ancora qualche minuto, prima di riuscire a trovare una minima volontà di strapparsi al torpore del mattino.
Alla fine fu la fame a stanarla dal suo habitat naturale.
Nozomi, spronata dallo stomaco esigente, si trovò costretta a trascinarsi in cucina, gli occhi ancora ostacolati dal lieve velo del sonno e il corpo completamente rilassato. Lanciò uno sguardo rapido all’orologio appeso alla parete. Notò che era terribilmente in ritardo, ma non si agitò particolarmente: ormai era un’abitudine, tanto valeva godersi la colazione con calma. Sapeva perfettamente che Kurumi non le avrebbe perdonato un ulteriore ritardo ma, be’, per una volta Nozomi si concesse il piacere di non temere una sua compagna.
Si pettinò distrattamente, lasciando vagare lo sguardo sul suo viso ancora assonnato, quindi si vestì e fece per uscire, ma la voce pacata e serena di sua madre la inchiodarono sul posto. La vide uscire dalla sua camera da letto, strofinandosi un occhio.
-Dove vai, tesoro? È domenica- le chiese, sorridendole, bonaria. Molto probabilmente si aspettava che la figlia si stesse preparando per andare a scuola, nonostante fosse domenica mattina.
Nozomi le sorrise e, per poco, non scoppiò in lacrime, vedendola così tranquilla, ignara di tutto ciò che aveva rischiato e passato –Vado alla Natts House con gli altri- rispose con le lacrime agli occhi. Quindi non poté evitare di precipitarsi dalla madre e stringerla in un forte abbraccio, mentre una lacrima di gioia le solleticava le gote.
 
-è in ritardo- stabilì Kurumi, lasciandosi cadere su una poltrona della Natts House.
sempre in ritardo- la corresse Kokoda, assorto in un ardua battaglia contro le parole crociate.
La ragazza non poté evitare di sorridere lievemente. Tutto era tornato alla normalità. Le domeniche mattine passate insieme, i ritardi di Nozomi, il silenzio complice fra Kokoda e Natsu.
Sospirò e si appoggiò al palmo della mano, mentre la gioia e il sollievo di un pericolo scampato si mischiavano nel suo petto, aumentandole i battiti.
Serrò le palpebre e si concesse un attimo di pace, assaporò il silenzio della sala, il profumo dei volumi che leggeva sempre Natsu, ascoltò il sibilo delle pagine che voltava Kokoda e il ticchettio della sua penna sulla superficie del bancone.
Infine la porta cigolò e Kurumi aprì gli occhi.
Karen entrò nella Natts House e rimase impalata sulla soglia, gli occhi blu inchiodati in quelli di Kurumi e una forte intesa a legare le due compagne, partecipi di un terribile passato che aveva fato affiorare tutto il loro coraggio e la loro forza di spirito.
Mancò poco che Kurumi scoppiasse a piangere, ma si alzò e strinse in un caldo abbraccio l’amica, la quale non aspettava altro per ricambiare quel gesto, mentre lacrime salate le solcavano il viso e forti singhiozzi le scuotevano il corpo.
 
Karen soffocò il prorpio pianto sulla spalla della compagna. Rivederla così, sorridente, serena, avvolta dalla quotidianità mite delle sue giornate, era stato qualcosa di assolutamente meraviglioso. Voleva cancellare l’ultima immagine che aveva di Kurumi, l’immagine del suo corpo a terra, scomposto, gli occhi vacui, senza vita, la pelle pallida e una disperata supplica fra le labbra. Voleva cancellare la freccia di Cure Aqua, che trapassava da parte a parte il corpo esile di Milky Rose. Voleva cancellarla e sostituirla con il sorriso attuale della sua compagna, voleva che più nulla riuscisse a spezzare la loro complicità.
-sei stata coraggiosa, Karen- le sussurrò l’amica all’orecchio –grazie-
Karen annuì debolmente, mentre lacrime copiose le bagnavano il viso –non parliamone più- supplicò, asciugandosi un angolo dell’occhio.
Kurumi le sorrise e sciolse l’abbraccio, quindi acconsentì e sprofondò nuovamente nella poltrona, passandosi una mano fra i capelli mossi.
La porta si aprì nuovamente, rivelando Komachi.
 
Komachi si chiuse debolmente la porta alle spalle, quindi lanciò uno sguardo nei dintorni e sorrise a Karen, la quale presentava palesi segni di lacrime sul viso rigato. Era entrata alla Natts House con la ripromessa di non scoppiare a piangere, ma persino la fredda Karen si era lasciata andare, come poteva Komachi, la sensibilità in persona, resistere ad un istinto tanto forte?
Salutò gli altri, scambiando brevi sguardi sereni con Kurumi, quindi il suo sguardo si incrociò con gli occhi di Natsu e il cuore di Komachi perse un battito.
 
Natsu si sciolse in un sorriso appena accennato quando, inaspettatamente, Komachi gli si sedette di fianco, appoggiando il capo sulla sua spalla e sospirando di un sollievo meritato.
Avevano passato un periodo terribile, un periodo scuro in cui sembrava smarrita la speranza stessa, eppure, quando tutto sembrava perduto e anche il minio accenno  di illusione era svanito, allora qualcosa era cambiato. La luce del sole ritornata a rifulgere in cielo, la vita era nata nuovamente nella città, i danni si erano riparati e il respiro era tornato a fluire nei suoi polmoni.
Sospirando di una pace tanto agognata, Natsu allacciò un braccio attorno alle spalle di Komachi e si godette il momento con tutto se stesso.
 
Urara entrò alla Natts House, assicurandosi che il vassoio che teneva in mano non pendesse né a destra né a sinistra. Regalò un sorrisone solare a tutti i presenti e appoggiò il vassoio, con tanto di targhetta dorata che ne lasciava indovinare il contenuto, sul tavolo al centro della sala.
Nel medesimo istante, si udirono del passi frettolosi provenire dalla scala che metteva in contatto il pianoterra con il primo piano. In pochi minuti, fece irruzione nella sala un Syrup piuttosto assonnato, i capelli scompigliati, le palpebre tremanti e i vestiti abbandonati disordinatamente sul suo corpo asciutto.
 
Syrup si sedette accanto a Kurumi e indirizzò un lieve cenno di saluto a Karen, Komachi ed Urara. Urara. Aveva indossato un grazioso vestito verde, leggero, semplice eppure terribilmente elegante, così contornato dai boccoli dorati della ragazza.
Lei gli sorrise e scartò il vassoio che aveva portato, estraendone un pasticcino alla crema, uno dei suoi preferiti. Gli si avvicinò e glielo porse, aprendosi in un sorrisone solare.
Lui inarcò le sopracciglia e accettò di buon grado il pasticcino –grazie- mormorò, ricambiando debolmente il sorriso.
Urara si strinse nella spalle, quindi si sporse verso di lui e gli stampò un timido bacio sulla guancia. Il cuore di Syrup gli schizzò in gola, mentre il pasticcino che stava mangiando sembrava non avere alcuna voglia di farsi ingoiare.
Dopo qualche colpo estremo di tosse, Syrup riuscì a liberarsi del dolce molesto, quindi lanciò un breve sguardo smarrito ad Urara, la quale, in tutta risposta, gli regalò una breve risatina cristallina che fece cambiare nettamente colore al viso di Syrup.
 
Kokoda alzò lo sguardo dal cruciverba che aveva assorbito la sua intera attenzione quando, con il passo felpato degno di un branco di mammut, Nozomi fece la sua entrata trionfale nella sala. Ansimava come un malato in preda ad un attacco di asma: probabilmente aveva dovuto correre a perdifiato per arrivare ad un orario decente che, nonostante tutto, era comunque fuori dalla richiesta di Kurumi.
-pasticcini!- esclamò, fiondandosi sul vassoio che fu prontamente portato in salvo da Kurumi, la quale non aveva alcuna intenzione di lasciarsi soffiare da sotto il naso tutti i dolci.
Il ragazzo si appoggiò al palmo della mano e si godette la tipica scena quotidiana fra Kurumi e Nozomi che si contendevano un pasticcino. Assaporò la gioia e il calore di quelle risate e sprofondò nei sorrisi rinfrancanti dei presenti. Con un profondo sospiro di sollievo, mise da parte le parole crociate, si sedette di fianco a Nozomi e le strinse una mano, indirizzandole il sorriso più sereno che potesse regalarle.
 
Rouge svoltò l’angolo, assorta nei propri pensieri, mentre lo sguardo non riuscì ad evitarsi di schizzare al cielo ogni due per tre, come a voler confermare che il sole fosse ancora là, caldo e luminoso a schiarire l’azzurro di un cielo che per troppo tempo non era stato sereno.
Rallentò l’andatura e rimase impalata nel bel mezzo del marciapiede ad ammirare la luce timida del mattino che le sfiorava il viso.
-non riesci a crederci nemmeno tu, eh?- una voce familiare la distolse dai suoi pensieri, mentre due occhi chiari e una zazzera color platino le si parano davanti, arricchiti da un mezzo sorriso stanco che vivacizzava un viso scavato.
Scosse lievemente il capo, sorridendo con dolcezza a Ryan, il quale arrossì lievemente e le si affiancò. Le aveva raccontato tutto. Le aveva raccontato di come aveva liberato il prorpio flusso, di come era riuscito a contenerlo e di come aveva stabilito un contatto con il portale. Ma anche i suoi ricordi erano confusi, sfocati. Qualcosa di indefinito che, nonostante tutto, le aveva restituito la sua quotidianità, le sue compagne, la sua famiglia e le giornate di sport.
-Rin- esordì Ryan, portandosi una mano fra i capelli e scompigliandoseli con fare timido.
-hm?- rispose lei, sistemandosi il laccio della sacca sulla spalla e lanciandogli un breve sguardo interrogativo. Notò che Ryan stava cambiando letteralmente colore e che stava avvampando terribilmente.
Un sorriso forzò le sue labbra. Le stava per chiedere qualcosa di intimo, era così goffo quando si doveva parlare di quello che c’era fra loro.
-E’ vero?- chiese, rallentando l’andatura e inchiodando gli occhi chiari nei suoi –E’ vero che sei innamorata di me?- e, così dicendo, assunse il colore della sua maglietta, la quale, naturalmente, era di un rosso acceso.
Rin non poté fare a meno di arrossire lievemente a sua volta, quindi si grattò la nuca con imbarazzo –non lo so- rispose con sincerità –l’ho detto di getto, senza pensarci. Non so cosa sia veramente l’amore, sono troppo inesperta per avere la presunzione di dichiararmi “innamorata”- continuò, mentre Ryan, questa volta, impallidiva, forse per paura che Rin stesse per scaricarlo –so solo che mi piaci- farfugliò con una buona dose di imbarazzo –e che ti voglio bene-
Prese un profondo respiro. Dannazione, non aveva mai forzato tanto il suo orgoglio, ne aveva mai sudato tanto nel pronunciare una frase.
Ryan si sciolse in un sorriso timido, mentre un violento rossore colorava la sua pelle candida -anch’io- disse solo, cercando l’intreccio rassicurante della mano di Rin. La ragazza ricambiò il gesto, quindi si voltò verso di lui e trovò lo sguardo sincero di Ryan.
Inclinò lievemente il capo, si alzò sulle punte e, allacciandole braccia attorno alle sue spalle, premette delicatamente le labbra sulle sue, mentre gli angoli della bocca spingevano forti verso l’alto, in un dolce sorriso traboccante di gioia.
Ryan, dopo un primo momento di sorpresa e superato il momentaneo imbarazzo, le cinse i fianchi con le braccia e ricambiò il bacio, approfondendolo.
-ti chiedo solo una cosa- sussurrò il ragazzo una volta che si furono nuovamente avviati per la Natts House –non chiamarmi mai con il mio nome: potrebbe prendermi un infarto-
 
Ryan prese un grande respiro e sorrise a Rin, al suo fianco, che gli stringeva una mano. Aprì la porta della Natts House e, insieme, entrarono nella sala.
Il chiacchiericcio cessò di colpo, mentre tutti gli sguardi si posarono su di loro, colmi di riconoscimento, di gioia, spensieratezza e lacrime calde.
i due sorrisero ai presenti e si trovarono posto a sedere sul divano di fianco al bancone, accompagnati da un silenzio denso, significativo, non imbarazzante né spiacevole. Un silenzio complice, condiviso da tutti, un silenzio sereno che nessuno sentiva di dover spezzare, come se nessuna parola in quel momento sarebbe stata abbastanza significativa per poterlo riempire, per poter comparare la sensazione di complicità che univa tutti come un filo impalpabile.
Tutti i presenti, senza scambiarsi alcuna parola, alzarono i bicchieri e brindarono alla vittoria del bene sul male.
 
NOTE:  e siamo giunti alla fine. L’ultimissimo capitolo di questa storia kilometrica. Cavolo, so già che mi mancheranno i personaggi XD Be’, ringrazio infinitamente tutti i lettori che mi hanno seguiti e in particolare:
animeemangafan 
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channyangy96 
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cure marine_ 
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che hanno inserito la mia storia fra le preferite.
 
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Che hanno inserito la mia storia fra le seguite.
cure marine_ 
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KonanKohai 
sere99thehedgehog 
che hanno inserito la mia storia fra le ricordate.
 
Tutti i lettori che hanno lasciato recensioni ai miei capitoli e in particolare, molo particolare:
Fnsrlieamhk 
KonanKohai
Che mi hanno sempre seguita con le loro recensioni puntuali e sincere. Grazie davvero tantissimo!
 
Drawandwrite. 

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