Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Il varco tra i mondi - Introduzione *** Capitolo 2: *** Prologo *** Capitolo 3: *** Capitolo primo: Il reame della luna splendente *** Capitolo 4: *** Capitolo secondo: Antichi nemici *** Capitolo 5: *** Capitolo terzo: Un nuovo inizio *** Capitolo 6: *** Capitolo quarto: La scacchiera è pronta *** Capitolo 7: *** Capitolo quinto: Primo interludio *** Capitolo 8: *** Capitolo sesto: Hybris *** Capitolo 9: *** Capitolo settimo: Fiamme dall'interno *** Capitolo 10: *** Capitolo ottavo: Gli spiriti della battaglia *** Capitolo 11: *** Capitolo nono: Il risveglio *** Capitolo 12: *** Capitolo decimo: Secondo interludio. Sogni. *** Capitolo 13: *** Capitolo undicesimo: Vortici di speranza *** Capitolo 14: *** Capitolo dodicesimo: La madre dei mali *** Capitolo 15: *** Capitolo tredicesimo: La guerra infuria *** Capitolo 16: *** Capitolo quattordicesimo: Battaglia al Quinto Cerchio *** Capitolo 17: *** Capitolo quindicesimo: Terzo interludio. Mare. *** Capitolo 18: *** Capitolo sedicesimo: Il falco all'attacco *** Capitolo 19: *** Capitolo diciassettesimo: Togetherness *** Capitolo 20: *** Capitolo diciottesimo: La colonia nascosta *** Capitolo 21: *** Capitolo diciannovesimo: Tumulti del cuore. *** Capitolo 22: *** Capitolo ventesimo: Quarto interludio. Sole. *** Capitolo 23: *** Capitolo ventunesimo: Scomode verità *** Capitolo 24: *** Capitolo ventiduesimo: L'urlo di guerra *** Capitolo 25: *** Capitolo ventitreesimo: Tra luce e ombra *** Capitolo 26: *** Capitolo ventiquattresimo: Per il mio futuro! *** Capitolo 27: *** Capitolo venticinquesimo: Quinto interludio. Arcobaleno. *** Capitolo 28: *** Capitolo ventiseiesimo: Il volo dell'ippogrifo *** Capitolo 29: *** Capitolo ventisettesimo: Il continente perduto *** Capitolo 30: *** Capitolo ventottesimo: Fuori dalla gabbia *** Capitolo 31: *** Capitolo ventinovesimo: Cosmi ruggenti *** Capitolo 32: *** Capitolo trentesimo: Sesto interludio. Luna. *** Capitolo 33: *** Capitolo trentunesimo: La furia del mare *** Capitolo 34: *** Capitolo trentaduesimo: Il figlio del drago *** Capitolo 35: *** Capitolo trentatreesimo: Un uomo d'azione. *** Capitolo 36: *** Capitolo trentaquattresimo: Cala la notte. *** Capitolo 37: *** Capitolo trentacinquesimo: Settimo interludio. Natura. *** Capitolo 38: *** Capitolo trentaseiesimo: Lotta per il trono. *** Capitolo 39: *** Capitolo trentasettesimo: Una verità. *** Capitolo 40: *** Capitolo trentottesimo: Fratelli. *** Capitolo 41: *** Capitolo trentanovesimo: Soltanto un respiro. *** Capitolo 42: *** Capitolo quarantesimo: L'ultima alleanza *** Capitolo 43: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Il varco tra i mondi - Introduzione ***
Liberamente ispirata a “I CAVALIERI DELLO ZODIACO”, di M. Kurumada
ALEDILEO presenta
I CAVALIERI DELLO ZODIACO
6
Il varco tra i
mondi
SAGA DI AVALON
Parte 2 di 4
Some say the world will end
in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
(Robert Frost)
Note dell’autore: per una migliore comprensione di questa fan
fiction, è consigliabile la lettura, nell’ordine, di “Di Dei e di Rimpianti”,
dei tre capitoli della Trilogia di Flegias e di “L’avvento
dell’inverno”, primo capitolo della Saga di Avalon.
"Questi personaggi non mi
appartengono, ma sono proprietà di MasamiKurumada;
questa storia è stata scritta
senza alcuno scopo di lucro."
Sedeva nelle sue stanze, nelle sale del Grande
Sacerdote di Atene, sul velluto rosso che le era stato offerto in dono
cinquecento anni prima, da un mercante di stoffe di Venezia che aveva sfidato
le perigliose acque del Mediterraneo, incurante del pericolo turco, solo per
presentarsi al suo cospetto, e ringraziarla di aver dato a suo figlio uno scopo
per cui vivere. E per cui morire.
La Dea sospirò, carezzando la stoffa vermiglia,
delicata come il volto del Cavaliere che l’aveva onorevolmente servita,
combattendo al suo fianco per la giustizia. E morendo prima ancora di
compiere sedici anni. Uno dei tanti che aveva strappato alla fanciullezza,
alla felicità, alla vita.
Non doveva sentirsi in colpa. Lei non aveva
obbligato nessuno, non aveva minacciato nessuno dei Cavalieri, dei servitori,
dei soldati semplici che erano caduti invocando il suo nome. Nessuna delle
migliaia di anime che nei secoli avevano varcato la Bocca di Ade, per lei. Né
il Cavaliere di Pegasus, né Adamant il valoroso, né
gli alchimisti di Mu, né il primo Capricorno
depositario della Sacra Excalibur, né Shin
dell’Ariete, né Micene di Sagitter.
E allora perché continuava a sentirsi così? Perché
continuava a dolersi, sentendosi responsabile del sangue versato, del manto
scarlatto che aveva annaffiato i bei campi di Britannia, le gelide terre del
Nord, le aride distese del Sahara o i gradini di marmo della scalinata del
Grande Tempio?
“È il peso dei sopravvissuti l’onere più difficile
da sopportare!” –Aveva detto un giorno a Shin dell’Ariete,
quando lo aveva sentito piangere per la perdita di tutti i suoi compagni,
durante la Guerra Sacra che aveva dilaniato l’Europa a metà del Diciottesimo
Secolo. –“Devi vivere anche per loro! Devi essere uomo abbastanza per onorare
le loro morti con la tua vita!”
Com’era strano, adesso, ricordare quelle parole. Le
apparivano lontane, portate via dal vento, affidate a un ricordo che nessuna
soddisfazione più le dava. Shin era morto e con lui
tutti i Cavalieri della sua generazione, e di quella precedente e di quella
ancora precedente. Tutti erano caduti mentre lei era rimasta, lei ancora
esisteva.
Perché? Si chiese di nuovo, spostandosi i lunghi capelli
viola dietro la schiena, con un gesto così freddo da apparirle innaturale.
Forse una risposta l’aveva, l’unica che non avrebbe
voluto darsi, perché accettarla avrebbe significato vanificare gli sforzi di
coloro che avevano creduto in lei, al punto da dare la vita per quel sogno. E
quella risposta gliel’avevano data i suoi antichi nemici. Nettuno, Ares, Ade,
Crono, in parte anche suo padre, sia pur senza ostilità.
La sua vita era una maledizione e tale infausto
destino si estendeva a coloro che la accompagnavano, a coloro che standole
accanto soffrivano e perivano. Del resto di nient’altro era stata capace, in
tutte le sue reincarnazioni, se non generare dolore e morte tra le fila di
coloro che le erano devoti e la amavano come una madre.
E quale madre vivrebbe così a lungo da vedere tutti
i suoi figli cadere nell’ombra?
Eppure, per quanto dura e difficoltosa le apparisse
l’esistenza a volte, costretta a sopportare il ricordo del passato, un peso che
le schiacciava il cuore, mozzandole il respiro, aveva deciso di non cedere, di
non lasciarsi dominare dai tumulti dell’animo e del cuore e di continuare a
fare quello per cui era nata. Quello per cui così tante volte si era
reincarnata sulla Terra, ad ogni occasione in cui la malvagità era aumentata e
la sua presenza si era rivelata necessaria per contrastarla.
La mia presenza, o quella dei Cavalieri che in mio
nome combattono? Si chiese, spostando lo sguardo alla sua destra, dove tre ragazzi che
amava stavano parlando tra loro, a bassa voce, per non disturbare la sua
meditazione, convinti che la Dea fosse stanca per le battaglie sostenute di
recente.
“Milady!” –Esclamò Pegasus, notando che la fanciulla
aveva volto lo sguardo nella loro direzione.
“Sto bene, grazie, Pegasus!”
–Rispose Atena con un sorriso.
“È
successo ancora?” –Chiese Andromeda.
“Sì!” –Annuì la Dea. –“Sembra che non riesca a
controllare il flusso dei miei ricordi, che continuamente, non appena chiudo
gli occhi, mi aggrediscono e mi portano indietro nel tempo, sempre più
indietro! E ogni volta, lo ammetto, c’è sempre qualcosa in più che riesco a
ricordare, un frammento di memorie sepolte nella Divina Volontà di Atena che
ancora non ho completamente recuperato!”
“Il Grande Mur ha definito
come “resistenza” questo atteggiamento della vostra mente, un meccanismo
psichico, di difesa se vogliamo definirlo così, che impedisce a contenuti rimossi
un tempo di tornare nuovamente coscienti!”
“È probabile che sia così! Soltanto quando tutte le
barriere della mia mente saranno state abbattute potrò finalmente essere Atena!
Finalmente essere la Dea!”
“E quel momento… quando
arriverà?” –Chiese Pegasus, con voce titubante.
Non voleva dirlo, davanti alla Dea che aveva giurato
di proteggere, né di fronte ai suoi compagni, ma c’era qualcosa, nell’idea che
la Divina Volontà prendesse pieno possesso del corpo di Isabel, che lo
spaventava. Qualcosa che gli faceva temere che, qualora fosse accaduto,
l’avrebbe persa per sempre, separati da una distanza che non sarebbe più stato
in grado di colmare.
La distanza tra un uomo e un Dio.
Atena non rispose, limitandosi ad un sorriso scarso,
ma fu un’altra voce, ben più profonda e magnifica, a parlare per lei.
“Il tempo è prossimo, Dea della Guerra, affinché la
tua crescita sia completa! E certo non è casuale che quel momento sia adesso!”
Pegasus e i suoi amici si voltarono verso il portone
d’ingresso, dove l’elegante sagoma del Signore dell’Isola Sacra era apparsa.
Rivestito delle sue bianche vesti, dai ricami color argento, che parevano
fluttuare a ogni movimento aggraziato dell’uomo, Avalon camminò sul tappeto
rosso, seguito da tre Cavalieri delle Stelle.
“Sono lieto di rivedervi, Cavalieri dello Zodiaco!”
–Esclamò, fermandosi ai piedi della rampa che conduceva al trono, sui cui
gradini Pegasus, Phoenix e Andromeda si erano appena messi in piedi. Un po’
sorpresi da quella visita per loro improvvisa.
Non così era Atena.
“Siete pronta, instancabile figlia di Zeus, Atritonia?” –Domandò Avalon, offrendole il braccio. La
fanciulla annuì, alzandosi in piedi e afferrando lo Scettro di Nike, poggiato a
fianco del trono, prima di accettare il braccio del Signore dell’Isola Sacra e
incamminarsi assieme a lui verso la grande terrazza sul retro.
Alle loro spalle Pegasus, Andromeda e Phoenix si
accodarono ai tre Cavalieri delle Stelle, sebbene conoscessero soltanto due di
loro.
“Reis, Jonathan e Matthew!
Su di loro è ricaduta la mia scelta!” –Declamò Avalon, uscendo all’aria aperta,
in quella fresca notte d’autunno, prima di voltarsi verso i Cavalieri dello
Zodiaco. –“Sono invece loro che ti accompagneranno?”
“Sì!” –Rispose Atena, di fronte agli occhi straniti
di Pegasus e degli altri, che ancora non avevano chiaro il motivo
dell’improvvisa convocazione.
Erano ancora ad Atene, alloggiati assieme ai soldati
semplici, con cui condividevano il rancio e le fatiche della ricostruzione del
Grande Tempio, quando Mur dell’Ariete li aveva
raggiunti, informandoli che la Dea voleva conferire con loro quanto prima. E
pregandoli anche di portare con sé gli scrigni delle Armature Divine.
Incuriositi, Pegasus, Phoenix e Andromeda avevano
comunque obbedito alle direttive del Cavaliere di Ariete, ma non avrebbero
certo immaginato che il Signore dell’Isola Sacra sarebbe stato presente a
quell’incontro. Del resto, quell’uomo era ancora un mistero, per loro come per
altri.
“Molto bene! Possiamo procedere! Jonathan?!”
–Esclamò Avalon, rivolgendosi al Custode dello Scettro d’Oro.
Il ragazzo dai capelli biondo cenere annuì,
sollevando il Talismano ed espandendo il proprio cosmo, luminoso ed etereo, di
fronte agli occhi trasognati di Pegasus e dei suoi compagni, che osservarono
sciami di comete avvolgersi attorno al suo corpo, in uno sfavillio di luci.
“Finora avete ammirato soltanto la potenza offensiva
di quest’asta dorata, Cavalieri!” –Parlò Jonathan, con gli occhi chiusi. –“I
devastanti raggi di energia che è in grado di emettere, al pari della spada
custodita da Reis! Ma vi è un altro potere che
contraddistingue il manufatto da me protetto, il vero potere del Cavaliere dei
Sogni!” –E nel dir questo il fiore sulla cima dello scettro si aprì, emettendo
un ventaglio di luce dorata che rischiarò la sera di Atene.
“Meraviglioso…” –Mormorò
Andromeda, affascinato. E Reis, in piedi accanto a
lui, gli pose una mano su una spalla, sorridendogli amabilmente.
“Voi sapete dove vanno a finire i sogni? Le fantasie
smarrite dagli uomini? Le cose che gli uomini dimenticano, troppo indolenti per
sforzarsi di ricordare? Molti credono che vadano perduti, ma in realtà niente
lo è mai! Neppure i sogni, pur che si abbia la forza di lottare affinché si
avverino!” –Continuò Jonathan. –“Proprio di tali voli pindarici, perduti o
correnti, io sono il custode! L’uomo preposto alla difesa del varco che conduce
ad altri mondi! Io sono il Cavaliere dei Sogni e questa è la mia luce!”
Lo sfavillante ventaglio si rivolse verso il basso,
chiudendosi attorno al piccolo gruppo e generando una colonna di luce aurea che
li circondò, squarciando il cielo e sollevandosi
verso le profondità dell’universo. In quella colonna di luce Avalon sorrise,
tenendo Atena al suo fianco, prima che entrambi ne venissero inghiottiti,
seguiti all’istante da Pegasus, Andromeda, Phoenix, Reis,
Matthew e Jonathan.
Alla
Settima Casa Libra vide la spirale luminosa sprofondare nel cielo notturno.
Atena lo aveva preventivamente informato di quel che sarebbe successo,
affidandogli il comando del Grande Tempio in sua assenza. Il Cavaliere d’Oro
sospirò, augurandosi che Nike proteggesse la Dea e i suoi compagni anche quella
volta.
Capitolo 3 *** Capitolo primo: Il reame della luna splendente ***
CAPITOLO PRIMO: IL
REAME DELLA LUNA SPLENDENTE.
Quando
Pegasus riaprì gli occhi si accorse di essere ancora vivo. E quello era di
sicuro un buon inizio. Sbatté le palpebre un paio di volte, per liberarsi dal
fastidioso riverbero di luce ancora impresso sulla retina, cercando i compagni
con lo sguardo. Erano tutti attorno a lui, nella stessa posizione in cui erano
disposti alla Tredicesima Casa, sebbene fosse chiaro a tutti che non erano più
al Grande Tempio. Né in Grecia.
Guardandosi
intorno, Pegasus vide che si trovavano su un pianerottolo rialzato, in cima ad
una rampa di scale che poi proseguiva divenendo un sentiero lastricato che
conduceva a un ampio complesso templare, che si stagliava marmoreo contro lo
sfondo di un cielo scuro. Un’architettura simile ai tanti santuari eretti in
onore agli Dei greci, pur non avendolo mai visto fino ad allora.
Fu
una candida voce femminile ad attirare l’attenzione dei presenti, facendoli
voltare verso il basso, laddove una donna rivestita di argentei abiti aveva
appena iniziato a salire lungo la scalinata.
“Avete
superato ogni mia aspettativa! Rapidi e solerti, me ne compiaccio! Ma
soprattutto vi ringrazio!” –Esclamò, raggiungendo infine la piattaforma
sopraelevata dove Atena, Avalon e i loro Cavalieri attendevano.
Là,
Pegasus poté osservarla meglio, notando le vesti sontuose, come quelle che
aveva visto addosso a Era o a Demetra, la lunga chioma violacea, costellata da
numerose trecce, e la coroncina argentea con una luna intarsiata che riluceva
tra i capelli. E capì che colei che aveva di fronte era una Dea. Ne percepì,
pulsante, l’essenza vitale, il cosmo che fluiva attorno a loro, solleticandoli,
studiandoli e infine abbracciandoli.
“Divina
Selene!” –Commentò allora Avalon, inchinandosi. –“Con
piacere vi rivedo, sebbene le circostanze non siano di festa, e con eguale
piacere vedo che la vostra bellezza è rimasta intatta!”
“Il
piacere è mio, Signore dell’Isola Sacra. Piacere e riconoscenza per aver
risposto al mio appello ed aver portato validi aiuti. Cos’altro potrei
aspettarmi, del resto, da una Divinità che così tanto ha lottato per difendere
l’umanità e il loro diritto alla vita ogni qual volta l’oscurità abbia tentato
di sopprimerla?” –Sorrise la Dea, spostando lo sguardo su Lady Isabel. –“Non ci
incontriamo da millenni, e il tuo corpo era ben diverso, ma riconosco il tuo
cuore, così pieno d’amore e speranza per il futuro!”
“Anch’io
ti ho riconosciuto e ti ringrazio per averci accolto nel tuo regno!” –Rispose
la fanciulla dai capelli viola, accennando un inchino, prima che l’altra
Divinità la pregasse di rialzarsi, non essendo il tempo né il luogo per le
riverenze. –“Pegasus, Cavalieri, permettete che vi presenti Selene,
la Dea della Luna, figlia dei Titani Iperione e Tia, e sovrana del Reame della Luna Splendente!”
“Se…Selene?!” –Balbettarono i
Cavalieri dello Zodiaco, ancora troppo confusi dal rapido susseguirsi degli
eventi.
Jonathan
sorrise, comprendendo lo stupore dei ragazzi, prima di poggiare una mano sulla
spalla di Pegasus, invitandolo a guardarsi intorno, veramente intorno,
spaziando con lo sguardo laddove l’occhio fosse capace di arrivare, fino a
perdersi nell’oscurità che riluceva oltre l’orizzonte. Una notte così profonda
da sembrare irreale.
“Non… è possibile…” –Mormorò il
Cavaliere, iniziando a comprendere.
Oltre
la piattaforma sopraelevata, oltre il complesso templare, il terreno digradava
leggermente, quasi fossero in cima ad una collina, ma al termine di essa, oltre
la curva dell’orizzonte, Pegasus non vide niente. Vide soltanto un cielo scuro
macchiato di stelle che parevano fissarlo da lontano, burlandosi della sua
ingenuità, e un pianeta, verde e azzurro, avvolto da strati di nuvole bianche.
Un’immagine che, come Phoenix e Andromeda, aveva ammirato più volte negli
atlanti scolastici. Del resto la Terra vista dalla Luna appariva davvero così.
“Non
possiamo essere davvero…”
“Sulla
Luna?!” –Ironizzò Jonathan. –“Certo che ci siamo! È stato lo Scettro dei Sogni
a portarci qua, aprendo un varco dimensionale!”
“E
qua sarebbe…?”
“Il
Reame della Luna Splendente, di cui sono Dea e sovrana!” –Intervenne allora Selene, facendo cenno ai presenti di seguirla lungo la
scalinata. –“Non dovresti essere troppo sorpreso, Cavaliere di Pegasus! Da quel
che so, non è certo il primo mondo divino che visiti! Hai camminato sul fondo
del mare, respirando tranquillamente; hai varcato la soglia di Ade, pur senza morire…”
“Per
non parlare dell’Olimpo e della vera Asgard, oltre le nuvole!” –Puntualizzò
Avalon.
“Forse
non trovi il mio regno abbastanza attraente? Chissà che le mie figlie non
riescano a farti cambiare idea!” –Rise Selene, giunta
ormai ai piedi della gradinata, dove un uomo dai capelli celesti, rivestito
soltanto di un chitone bianco, la attendeva. Sorridendo, la Dea gli prese le
mani tra le proprie, prima di baciarlo sulle labbra, per poi voltarsi verso il
gruppo e presentarlo. –“Il mio sposo, Endimione!”
“Sono
onorato di incontrare guerrieri così valorosi! Le gesta dei Cavalieri di Atena
costellano le leggende, anzi creano esse stesse le leggende!” –Parlò allora
l’uomo, prima di dare il braccio a Selene e
incamminarsi assieme verso il Santuario della Luna, presto seguiti da Atena e
Avalon e dai loro sei Cavalieri.
“Non
capisco! Come può esistere una simile struttura sulla luna? E come è possibile
che i satelliti non l’abbiano mai individuata?” –Bofonchiò Pegasus, agitandosi
tra Andromeda e Phoenix.
“Come
il Grande Tempio è protetto da scudi invisibili, sorretti dalla Divina Volontà
di Atena, ugualmente il Reame Beato è celato dal cosmo di Selene,
impedendo a qualunque essere non divino di localizzarlo!” –Chiarì Jonathan,
aggiungendo tra sé. –“E non soltanto!”
“Del
resto, se la tecnologia e la scienza terrestri superassero i poteri di un Dio,
la stessa esistenza degli Dei verrebbe meno, non trovi Pegasus?!” –Intervenne Reis, mentre Matthew, al suo fianco, si guardava intorno
ammirato e esterrefatto. Per quanto fosse stato in precedenza informato
riguardo alla loro destinazione, trovarsi lì, in un altro mondo, fu una
sensazione straniante, ma se Avalon lo aveva scelto, concedendogli il
privilegio di quella prima missione, doveva sentirsi onorato e conscio delle
proprie potenzialità.
Non
dovettero camminare molto per arrivare ai cancelli della residenza della Dea
della Luna, la cui struttura ricordava quella di una delle Dodici Case di
Atene, con un corpo centrale di forma rettangolare, circondato da ampi
colonnati. L’unica differenza era costituita dalla presenza di un piano
superiore, di forma sferica, che pareva risplendere di luce cristallina. Vista
dal basso, quella cupola somigliava proprio ad una gobba della luna, come
Pegasus l’aveva spesso vista sedendo sul molo della Darsena assieme a Lamia o a sua sorella.
Già, Patricia. Si disse il ragazzo, abbandonandosi a un sospiro.
Nonostante l’avesse ritrovata, al termine della Guerra Sacra contro Ade, a
volte si chiedeva se era davvero così, non riuscendo mai a trascorrere del
tempo con lei. Anche adesso non la vedeva da una settimana, da quando aveva
lasciato Nuova Luxor per volare ad Atene e affrontare la minaccia dell’inverno.
Le aveva fatto mandare un messaggio, per tranquillizzarla, ma avrebbe voluto
vederla di persona, abbracciarla, correre con lei come facevano da bambini,
quasi a voler dimostrare a entrambi che il tempo non aveva vinto, che erano ancora
giovani e pieni di vita.
A volte mi chiedo se è davvero così. Se
sia mai stato così.
La
voce maestosa del Signore dell’Isola Sacra distrasse il Cavaliere dai suoi
pensieri, portandolo a sollevare lo sguardo verso l’ingresso del Santuario
della Luna, dove una moltitudine di ragazze si era radunata per salutare gli
ospiti. Sgranando gli occhi, e strappando un sorriso imbarazzato a Phoenix e
Andromeda, Pegasus non poté non notare la bellezza di tutte quelle giovani,
abbigliate come ninfe, dai visi solari e dai capelli lucidi come stelle.
“Sono
certo che non le hai dimenticate, Atena.” –Stava dicendo in quel momento la Dea
della Luna. –“Sono le mie cinquanta figlie! Ma ti dispenso dall’onere di
ricordare tutti i loro nomi!”
“Dimenticare
simili bellezze sarebbe impossibile!” –Commentò Jonathan, guadagnandosi un
sorriso di approvazione da parte di Matthew e un’occhiata torva di Reis, cui rispose con un colpo di tosse, rimettendosi in
posizione di guardia.
“Le
mie figlie si occuperanno di rendere confortevole il vostro soggiorno, per
quanto questi tempi oscuri possano permetterlo! Non esitate a chiedere
qualunque cosa possa soddisfare le vostre necessità!” –Chiarì Selene, congedando poi le ragazze, che tornarono alle loro
mansioni, prima di invitare Avalon e Atena all’interno del tempio.
Fu
mentre ne varcavano la soglia che un pizzicare d’arpa li raggiunse. Una musica
soave cullò i loro affannati spiriti, donando pace e freschezza.
Voltando
lo sguardo, Pegasus vide un giovane dai capelli castani seduto su un muretto
tra le colonne, lo sguardo perso nel cosmo, le mani intente
a solleticare le corde dello strumento musicale in suo possesso, pur senza
guardarle, profondo conoscitore di una melodia che aveva scelto per dare loro
il benvenuto.
Atena
parve riconoscerla, anche se non seppe dirsi dove e quando l’avesse udita. Fu
Avalon a venirle in aiuto, mentre il ragazzo depositava l’arpa, avvicinandosi
per salutare gli invitati greci.
“Mount
Badon. Diciotto anni dopo il crollo dell’Impero
Romano d’Occidente.”
La
Dea dai capelli viola trasalì, mentre ricordi di un passato lontano le
affastellavano la mente. Immagini di sangue e battaglie, in cui aveva indossato
la sua Veste Divina e lottato al fianco di suo padre, stretta tra l’Egida e
Nike, per combattere l’oscurità. E quella melodia…
quella melodia l’aveva suonata un bardo e doveva ricordarle qualcosa. Un
avvertimento forse?
“Dea
Atena, permettimi di presentarti Asterios, il
Principino della Luna!” –Esclamò Selene, baciando in
fronte il giovane musicista, che poi si inchinò, prendendo la mano della
Vergine Dea e posandovi sopra le labbra carnose.
“Incantato!”
–Sorrise amabile.
“Non
sapevo tu avessi anche un figlio.” –Commentò Atena, rivolgendosi a Selene, che si limitò a rispondere sibillina.
“Infatti.
Ho solo figlie femmine!”
“Quante
smancerie!” –Bofonchiò Pegasus a denti stretti, prima che Andromeda lo colpisse
con una gomitata, sferragliando le loro corazze. –“E non abbiamo ancora capito
cosa ci facciamo qua. Bah, sulla luna! Dove andremo la prossima volta? A
combattere contro i Marziani?”
In
quel momento il suolo sotto di loro tremò, anticipando un fragoroso boato e il
tipico rumore che i Cavalieri avevano associato al crollo di un edificio.
Voltandosi verso destra, videro luci scarlatte e dorate rischiarare
l’orizzonte, contorcendosi come fulmini e incastrandosi tra loro. E da quella
direzione arrivò correndo un uomo, rivestito da un’armatura di colore indaco e
avorio, di fattura simile a quelle dei Cavalieri Celesti.
“Capitano!
Cos’è accaduto?” –Incalzò Selene, presto raggiunta
dall’uomo, che si inginocchiò ai suoi piedi, senza perdersi in saluti verso gli
ospiti.
“Il
nono cerchio è stato preso! Chandra sta cercando di
contrastarli ma non potrà impedire che penetrino all’interno del perimetro.
Anzi, qualcuno è già entrato!”
Endimione,
a tali notizie, strinse le mani di Selene, il cui
volto tradiva adesso nervosismo e tristezza. Anche alcune ragazze, rimaste
fuori ad osservare incuriosite i nuovi arrivati, si agitarono, abbandonandosi a
improvvisi pianti e grida impaurite. Asterios, in
mezzo a loro, rimase impassibile, ma a Pegasus parve di vedere il suo sguardo
cercare quello di Avalon e fissarlo per un paio di interminabili secondi.
“Entriamo.
Non c’è più tempo!” –Disse allora il Signore dell’Isola Sacra, scuotendo la Dea
della Luna da quelle tragiche notizie.
Selene
annuì, conducendo i presenti al piano superiore dell’edificio, all’interno di
quella bolla che in realtà era un’unica grande sala dalle pareti trasparenti.
Una sfera attraverso la quale era possibile ammirare l’intera superficie lunare
correre ai loro lati, fino a scivolare bassa all’orizzonte.
Come
la Dea ebbe modo di spiegare, il Reame della Luna era diviso in nove cerchi
concentrici che si allargavano attorno al nucleo centrale, sito in cima ad un
leggero rilievo. Guardando attraverso i vetri, i Cavalieri dello Zodiaco videro
le mura dei vari cerchi ergersi sotto di loro. Contarono sette recinti, ma
quando giunsero all’ottavo videro fumo, fiamme e lampi di luce sormontarlo.
“Ecco
perché siete qua!” –Chiarì Selene, la voce per la
prima volta incrinata dal dispiacere. –“Per aiutarmi a salvare questo mondo
perfetto, che mai aveva conosciuto una guerra in tutti questi millenni. Per
confortare una Divinità illusa che aveva davvero ritenuto possibile vivere
fuori dai tumulti del mondo.”
“Non
parlare così, mia adorata!” –La sorresse allora Endimione,
aiutandola a sedersi al proprio scranno. –“Hai sempre governato con saggezza,
ne siamo tutti consapevoli. E non hai certo causato tu questo vile attacco!”
“Chi
vi sta attaccando? E perché?” –Chiese allora Pegasus, che percepiva violente
energie cosmiche scontrarsi presso la cinta più esterna delle mura.
“Dovresti
riconoscere almeno un cosmo, Pegasus! È quello di un tuo vecchio nemico, con cui
ti sei duramente confrontato!” –Esclamò allora Avalon, invitando il ragazzo a
concentrarsi, ancora di più, fino a percepire la sanguinaria e bellicosa natura
del cosmo di un Dio creduto perduto.
“Non
può essere!!!” –Gridò, cercando con lo sguardo Phoenix e Andromeda, anche loro
atterriti dall’inaspettata rivelazione.
Era
l’infuocato cosmo del figlio di Zeus che avevano affrontato pochi mesi addietro
nelle Stanze del Grande Sacerdote, ad Atene, e che adesso stava squassando la
tranquillità del Reame della Luna Splendente.
Ares,
Nume della Guerra, e funesto ai mortali.
***
Ascanio
era in ginocchio e teneva la mano dell’Antico, disteso su una branda di paglia
e foglie nella sua capanna sull’isola di Avalon. Passava ore al suo capezzale,
aiutando le sacerdotesse ad accudirlo, sebbene ben poco da fare vi fosse
rimasto.
Il
Primo Saggio giaceva incosciente da quando lo spirito tenebroso di Flegias aveva abbandonato il suo corpo, lasciandolo fiacco
e svuotato. Così lo aveva trovato Ascanio, quando era
ritornato all’Isola Sacra dopo aver aiutato Nikolaos
ad Atlantide, stupendosi di quanto apparisse invecchiato, di quanto la sua vera
età stesse salendo in superficie, un cancro che ormai non poteva più essere
arginato. Sospirò, ricordando gli eventi degli ultimi giorni, consapevole che
l’ora oscura a lungo paventata era arrivata.
Aveva
appena lasciato Atlantide quando il cosmo del suo mentore lo aveva raggiunto,
pregandolo di raggiungere Jonathan e Reis in Nord
Europa e di condurli ad Avalon quanto prima. Prontamente aveva obbedito,
recuperando i compagni e comparendo assieme a loro sull’alto colle del Tor, vicino alla cittadina di Glastonbury.
Là, in quel tardo pomeriggio, i tre Cavalieri delle Stelle avevano sgranato gli
occhi, di fronte a quel cumulo di bruma oscura che pareva avvolgere l’Isola
Sacra, una caligine di origine nient’affatto naturale. Avevano tentato di farsi
strada tra le nebbie, capendo ben presto di non poter andare oltre, e capendo
anche perché Avalon aveva voluto che Jonathan rientrasse. Solo lui infatti
poteva aprire il varco, eludendo l’ombra che era calata sull’isola.
Il
ragazzo dai capelli color cenere aveva annuito, evocando il potere dello
Scettro d’Oro e traslando se stesso e i due Cavalieri nel cuore dell’Isola
Sacra. Avalon era andato loro incontro, affannando nel raccontare quel che era
accaduto, dall’attacco di Flegias alla possessione
dell’Antico fino al sorgere di quella cortina di tenebra, sicuramente un ultimo
regalo del suo antico compagno di addestramento. Tutti segni, a suo dire, dello
scoccare dell’ora fatidica.
“È
tempo di metterci in cammino!” –Aveva commentato sibillino, scambiando qualche
parola con Andrei in privato, prima che quest’ultimo lasciasse l’isola,
accompagnato da Jonathan, per tornare sul lago Titicaca.
Reis si
era ritirata nel suo giaciglio, per rinfrescarsi e riposarsi, e Ascanio era rimasto lì, a pochi passi dal Signore
dell’Isola Sacra il cui sguardo sembrava per la prima volta preoccupato. Ma
poi, quando aveva sollevato il volto, fissando il ragazzo, Avalon aveva
sorriso, parlando per tranquillizzarlo.
“Non
hai niente da temere, figlio dell’Isola Sacra! I serpenti che porti tatuati
sulle braccia sono indice della tua saggezza, della conoscenza antica che ti
permetterà di far fronte ad ogni difficoltà. Ho fiducia in te, Ascanio, più che in ogni altro Cavaliere delle Stelle.
Oserei dire che per me sei come un figlio, ma sarebbe un’affermazione errata in
quanto tu vali molto di più. Sei il mio erede, destinato a succedermi alla
guida dell’Isola Sacra!”
Quelle
parole avevano colpito nel segno, stordendo il cuore pensoso del Comandante dei
Cavalieri delle Stelle, che non si sarebbe mai aspettato una simile
confessione, da parte di un uomo che ben celati teneva sempre i suoi
sentimenti. Avalon aveva compreso lo smarrimento del ragazzo, lo aveva
rassicurato con una pacca su una spalla e lo aveva invitato a riposarsi un po’,
poiché presto avrebbero avuto bisogno di tutte le forze disponibili.
“Vorrei
averne, davvero!” –Mormorò, stringendo le nodose dita dell’Antico tra le
proprie, quasi potesse ridar loro la vitalità di un tempo, quando il mondo era
giovane e Tegel era uno dei Sette. Uno dei primi eptasophoi che
affrontarono l’ombra.
“Gu.. guarda…” –Frusciò la debole
voce dell’Antico, parlando per la prima volta dopo giorni. Ascanio
ne fu stupefatto e si mosse per chiamare qualcuno che potesse curarlo, ma
l’uomo prevenne ogni suo gesto, afferrandolo per la mano e ripetendo a fatica.
–“Guarda!”
Quel
tocco fece vibrare i loro cosmi, dando ad Ascanio la
consapevolezza di quel che avrebbe dovuto fare, di quel che l’Antico si
aspettava da lui. Inspirò profondamente, concentrando i sensi, prima di usare
quel potere.
“Metempsicosis.”
La
trasmigrazione dell’anima, che permise alla sua coscienza di fluire dentro il
corpo del Primo Saggio, e di sapere.
Le
visioni arrivarono repentine, travolgendo il ragazzo e impegnandolo in uno
sforzo mentale per dominarle, per mantenerle in ordine. E per apprendere,
finalmente, quel che accadde millenni addietro. Fu così che li vide, giovani e
armati, rivestiti di lucenti armature di mithril, le
stesse che tutt’oggi Jonathan e gli altri Cavalieri delle Stelle indossavano.
“Attento
alle spalle, Vasteras!” –Gridò una voce, avvisando
l’amico di balzare indietro e puntando l’arma che custodiva contro l’ombra. Una
scarica di energia azzurra riempì l’aria, dilaniando nel profondo la creatura
tenebrosa e impedendogli di mietere una nuova vittima. –“Allontanati! Non… posso resistere a lungo!”
“Sono
con te!” –Intervenne allora un’agile figura, sfoderando la lama capace di
tagliare le stelle. –“Spada di luce!!!”
Il
rinnovato assalto spinse l’ombra indietro, dirigendola verso il cuore della
piana desertica dove Galen la stava aspettando,
disposto in cerchio assieme agli altri compagni. I tre sfiniti combattenti si
scambiarono un’occhiata convinta, annuendo e espandendo il proprio cosmo,
concretizzandolo in luminosi talismani di energia.
“Ora!!!”
–Gridò Galen, impugnando il manufatto e liberando
un’intensa fiamma scarlatta, presto seguita da uno scintillante arcobaleno
energetico e da un’onda di pura luce, che investirono la grande ombra,
facendola avvampare e infuriare.
“Il momento solenne è arrivato!” –Risuonò allora la
voce di Tegel, ergendosi in volo al di sopra dei
presenti, mentre il talismano da lui custodito fluttuava in aria di fronte a
sé, assorbendo la maligna aura del loro nemico. –“Un patto è un patto, e noi lo
abbiamo appena suggellato! Che le nostre anime ne siano testimoni, che i nostri
spiriti possano essere dannati in eterno se mai verremo meno all’estremo
impegno!”
“Non accadrà!” –Risposero in coro i sei compagni
dell’uomo, infondendo ai talismani la loro massima potenza. –“Ktêmaesaei!”
Una gigantesca esplosione riempì l’aria, distorcendo
il tempo e lo spazio e annientando le visioni nella mente di Ascanio, lasciando soltanto un nulla immenso. Quel che era
accaduto in seguito, lo aveva appreso nel corso degli anni da Avalon e dallo
stesso Primo Saggio, unico sopravvissuto dei sette combattenti originari.
“Come
avete potuto vivere così a lungo?” –Gli chiese, intuendo parte della risposta.
“Grazie
all’energia spirituale che permea ogni essere vivente, fonte di vita e di
morte. Come credi che sia nato, il cosmo, Ascanio? È
un dono del nostro creatore. Imparando a conoscerlo e a controllarlo, può
limitare l’invecchiamento di un corpo terreno, permettendo allo spirito di
perdurare. Fino ad oggi.”
“Una
forma estrema di rallentamento cardiaco, come uno dei miei maestri ricevette in
dono da Atena.” –Intuì il Comandante dei Cavalieri delle Stelle, ottenendo un
cenno d’assenso dall’Antico. –“E allora perché non usate il cosmo per
ringiovanire? Per ritornare l’aitante giovane di un tempo?”
“Perché
quel tempo è passato, Ascanio. Ogni cosa ha un posto
nell’universo, ogni persona ha un ruolo, e il mio quest’oggi si è esaurito.
Ultimo dei sette saggi, porterò a termine la missione che ci demmo quel giorno,
rispettando la promessa fatta ai miei compagni. Trovare degni custodi cui
affidare i talismani, e proteggerli per sempre.” –Sospirò, rompendo la
sincronia tra le loro menti. A fatica, l’anziano mentore di Avalon sollevò il
braccio destro, sfiorando con le dita la fronte del ragazzo. –“Ktêmaesaei!”
–Ripeté, lasciando che tutta la sua energia vitale, tutta la sua forza celata,
fluisse in lui.
“Ma…magister, cosa fate? Così
facendo voi…” –Tentennò Ascanio,
terrorizzato da una simile prospettiva. Ma l’Antico lo tranquillizzò con un
sorriso.
“Il
corpo è solo un temporaneo contenitore di una potenza ben più grande, che
travalica i limiti stessi dell’esistenza. Lo imparerai anche tu, come io l’ho
appreso in migliaia di anni, preparandomi a questo. I Talismani, presi
singolarmente, sono solo oggetti materiali, ben lavorati ma non così diversi da
altri manufatti divini. Ciò che li rende unici, e ciò che Anhar
non ha mai compreso, è l’essenza che li permea, la coscienza dei forgiatori che
permane dentro di loro. Ti sei mai chiesto perché i Talismani appaiano quando
voi li invocate? E
perché quello sciocco che tradì la gilda dell’equilibrio non li abbia mai
trovati mentre Jonathan e gli altri sono riusciti a risvegliarli? Perché in
essi vive il cosmo di coloro che li hanno forgiati e che hanno atteso, in
silenzio, il passare dei secoli, aspettando i cuori impavidi che li avrebbero
impugnati un giorno. Il giorno dell’ira.” –Spiegò l’uomo, mentre tutta la sua
coscienza interiore passava dalle rachitiche dita dentro ad Ascanio,
fino all’ultima stilla di cosmo. –“Quando
Galen morì, quindici anni fa, la sua forza non andò
perduta, ma fluì dentro lo Specchio del Sole, che Febo
dopo poco risvegliò. Ugualmente quest’oggi io muoio felice, Ascanio,
perché so che il Talismano da me preservato troverà degno custode. Dei sette,
ve ne è uno che non è mai stato usato, perché il saggio che lo aveva creato non
vi aveva ancora fatto confluire la sua anima. È il momento di chiudere il
cerchio. È il momento di farti dono dell’ultimo dei Talismani, il più potente
dei Sette. Va a te, discendente di re, a te che possiedi i dragoni intrecciati
di vita e di morte. Sai dove trovarlo, adesso… ti
appartiene.” –E spirò, l’ultimo dei grandi eroi del Mondo Antico.
Ascanio
rimase in silenzio per qualche minuto, lasciando che le lacrime scivolassero
sul suo volto ruvido, incapace di trattenerle. Adagiò la mano del Primo Saggio
sul giaciglio di foglie e la osservò ingiallire, travolta da un autunno
improvviso. Privo del cosmo che lo manteneva in vita, il corpo dell’Antico
appassì, sgretolandosi dopo pochi istanti e divenendo polvere. Si concesse
ancora qualche istante, l’allievo di Avalon, prima di mettersi in piedi e
cacciar via i tristi ricordi.
Uscì
a passo svelto dalla tenda, dirigendosi verso l’alto colle dell’isola, laddove
si ergeva da secoli il pozzo dalle sacre acque, riparato dalla cinta di
megaliti. Proprio in quel luogo, intriso di mistica energia, Avalon anni
addietro glielo aveva mostrato e adesso sapeva di poterne disporre, sapeva che
avrebbe dovuto disporne per affrontare la prova ultima della loro esistenza.
Giunse
sulla cima del colle, camminando a piedi scalzi sull’erba, fino a poggiare le
mani sulle sponde del pozzo e guardare al suo interno. Socchiuse gli occhi ed
espanse il cosmo, entrando in sintonia con le correnti energetiche che
spiravano sull’alto colle e che gli diedero ulteriore vigore. Quanto gli bastò
per risvegliare l’ultimo Talismano.
Le
acque del calice ribollirono all’improvviso, mentre un’intensa luce rischiarò
la cima dell’isola, proveniente dalle profondità della stessa. Una colonna
chiara e vivida che dal pozzo si innalzò verso il cielo, sfondando la coltre di
tetra foschia. E là, all’interno di quel pilastro di luce, apparve il manufatto
di cui era appena divenuto custode. Lo vide per pochi istanti, prima che
venisse di nuovo risucchiato dalla luce, la stessa che fagocitò l’intero
spiazzo. Il pozzo tremò, l’erba cresciuta all’esterno venne incenerita da
un’intensa fiamma, rivelandone i bordi e le fattezze, mentre l’intera struttura
si sollevava e le acque si riversavano al di fuori, invadendo l’alto colle di
Avalon.
Ascanio
focalizzò il cosmo sul pozzo, rivelandolo per quello che era realmente, e
sorrise, lieto e fiero di indossare infine la sua armatura. La struttura si
scompose all’istante, mentre i vari pezzi che la componevano andavano ad
aderire al fisico prestante del ragazzo, rivestendolo poco dopo. Adesso il suo
percorso poteva dirsi completo, il percorso iniziato anni addietro in Cina,
proseguito ad Atene e infine a Glastonbury. Ma per
esserne degno avrebbe dovuto affrontare l’ultima prova, il motivo per cui
Avalon lo aveva richiamato sull’isola.
“Ve
ne andate?!” –Aveva borbottato stupefatto, qualche ora prima, quando il suo
mentore aveva spiegato che lui, Reis e Matthew
avrebbero raggiunto Atene, dove Jonathan li attendeva. –“Credevo che fosse
impossibile, per voi, superare questa coltre di tenebra.”
“Dovresti
aver capito, Ascanio, che ben poche sono le cose che
non sono in grado di fare.” –Gli aveva sorriso Avalon. –“Non era per liberarmi
che ti ho chiesto di tornare. Ma per vedere se tu sei in grado di uscire.”
E
adesso avrebbe dovuto dimostrarlo. Adesso, in piedi sul molo di legno che
fungeva da attracco per le barche che sfidavano il lago, con la bieca foschia
che gli turbinava attorno, nascondendo l’isola agli occhi di chiunque.
“Tu
puoi aprire le nebbie! Sei l’unico, oltre a me, che possa farlo! Sei il
Cavaliere della Natura, il Comandante dei Sette, iniziato ai misteri di Avalon!
Pensa a cosa è importante nella tua vita e trai forza da ciò!” –Gli aveva detto
il Signore dell’Isola Sacra.
Ascanio
socchiuse gli occhi, espandendo il proprio cosmo, portandolo fino al
parossismo, forte dell’eredità ricevuta, da suo padre e dal Primo Saggio, e
sollevò il braccio destro al cielo, invocando le nebbie di Avalon. Quando
riaprì gli occhi, non poté trattenere un sorriso compiaciuto alla vista del
varco che si era aperto di fronte a sé, un varco che conduceva a Glastonbury.
Si
voltò verso l’isola e solo allora notò la processione di druidi, sacerdotesse e
fedeli che lo aveva raggiunto intonando un lamento funebre. Uno dopo l’altro,
avevano atteso che il custode del drago bianco e del drago rosso mostrasse loro
la via e adesso erano in ginocchio di fronte a lui, riconoscendone l’autorità.
In quel momento Ascanio capì che quel che Avalon gli
aveva detto era vero. Un giorno sarebbe stato il suo erede e il nuovo Signore
dell’Isola Sacra.
“Non
è possibile!” –Esclamò Pegasus, ancora stupefatto da quella rivelazione. –“Ares
è morto! Lo abbiamo visto noi stessi venire risucchiato da un cono d’ombra! È
stato Flegias ad eliminarlo, quando ormai non serviva più ai suoi scopi!”
“È
andata davvero così?!” –Mormorò Andromeda, dando conferma anche ai pensieri del
fratello.
Erano
tutti seduti nell’Occhio, la grande sala al piano superiore del Santuario della
Luna, sotto la cupola di vetro luminoso attraverso la quale era possibile
osservare l’universo e le stelle lontane. L’arredo era minimo, costituito
soltanto da un ampio tavolo la cui forma rotonda ricordava quella di una luna
piena, attorno al quale i fedeli di Avalon, di Atena e di Selene si erano
riuniti.
“Temo
che quel che vedeste quella sera ad Atene sia stata solo la sua temporanea
scomparsa, non la fine! Nessuno, in fondo, ha mai sentito esplodere il suo
cosmo!” –Concluse Avalon.
“Lo
sapevate?” –Domandò allora Pegasus.
“Lo
paventavamo.” –Si limitò a rispondere il Signore dell’Isola Sacra. –“Temevamo
che quel raggio d’ombra fosse in realtà un trasferimento, un modo per
nascondere la precipitosa fuga di un Dio che aveva ancora un ruolo da giocare
negli eventi del mondo. Temevamo che esistesse qualcuno di ancor più potente in
grado di asservire il bellicoso spirito di Ares alla sua causa. Ma per quanto i
nostri occhi spaziassero sul pianeta, mostrandocelo attraverso le acque del
Pozzo Sacro, di Ares Brotoloigos perdemmo ogni traccia. Viscido e silente, il
distruttore di uomini ha atteso nell’ombra, tramando nuovi inganni ai danni loro
e degli Dei a lui ostili!”
“Incredibile!
Rabbrividisco al pensiero che possano esistere Divinità più potenti di Ares,
capaci di piegare il suo cosmo!” –Mormorò Andromeda.
“Egli
non è certamente solo!” –Chiarì Avalon, cui Selene rispose con un cenno di
assenso, alzandosi dalla tavola rotonda e incamminandosi verso la vetrata che
dava sui cerchi inferiori, laddove i suoi devoti stavano combattendo.
“Affatto.
Pare che l’antica stirpe degli Dei della Guerra sia stata restaurata!”
–Sospirò, mentre un grido di donna, turpe e violento, squarciava l’aria, facendo
tremare persino la grande bolla del Santuario della Luna. –“Discordia lo
affianca, Signora della Contesa e sua antica compagna nelle razzie del Mondo
Antico!”
“E
le figlie di lei, le Makhai, i bellicosi spiriti che inneggiavano alla guerra e
al clangore della lotta!” –Concluse Endimione, raggiungendo l’amata, le cui
ultime notti più volte erano state interrotte dagli urli osceni delle Divinità
Guerriere, che parevano ululare alle loro anime, senza concedere loro pace.
“Le
Makhai?! Le seminatrici di morte, i cui nomi si perdono nella leggenda!”
–Esclamò Atena, visibilmente sconvolta.
“Sento
le loro urla fin nelle vene. Ribollono nel mio sangue, scuotendomi ogni volta
in cui, poggiato il capo sul cuscino, tento di chiudere gli occhi e riposarmi!”
–Sospirò Selene.
“Discordia?
Le Makhai? Cos’è questo, un sabbia di streghe e fantasmi del passato?!”
–Bofonchiò Pegasus, prima che Avalon prendesse nuovamente la parola,
anticipando quel che Atena e i suoi paladini stavano per obiettare.
“Temo
che la presenza di Eris, Dea della Contesa, sia colpa mia! Cavalieri di Atena,
avrei dovuto parlarvene in precedenza, ma non abbiamo avuto modo di scambiare
qualche parola in più se non quelle che la guerra ci ha imposto di pronunciare.
Pur tuttavia sento il dovere di confessarvi quel che accadde lo scorso anno!
Terminato il vostro scontro con Discordia, che avevo osservato attentamente,
pronto a intervenire qualora ve ne fosse stata necessità, percepii un’energia
irata persistere ancora, sia pur debole, sull’isola di Hokkaido, proprio dove
la Madre dei Mali aveva sollevato un santuario occasionale. Mi ci recai e
trovai la fonte di quelle vibrazioni: la mela d’oro, ove lo spirito di
Discordia era perdurato!”
“Che
cosa?! Ma io la distrussi, con la freccia di Sagitter!!!” –Obiettò prontamente
Pegasus.
“Credesti
di distruggerla. Ma un’arma umana, sia pur impugnata dal più valente dei
Cavalieri, non può arrecare permanente danno ad un involucro divino, poiché
tale devi considerare l’amaro frutto che ancora ha mietuto vittime! Ma per
comprenderne il potere dobbiamo risalire agli albori del mondo, alle prime
contese divine, quando Zeus, per punire Eris per aver provocato l’ennesima
zizzania tra gli Olimpi, e sono certo che Atena potrebbe confermare le mie
parole, ricordando lei stessa la contesa per la mela alla Dea più bella, si
decise infine a bandirla dal Monte Sacro e dalla Terra intera, tanto grande e
fresco era il potere del Signore del Fulmine all’epoca! La maledizione che Zeus
le inflisse la legò per sempre alla cometa Lepar, che in quel momento
transitava attorno alla Terra, vincolando ad essa la sua esistenza! Indi per
cui, per quanto il suo corpo mortale venne trafitto della freccia del
Sagittario, la sua Divina Volontà, legata alla cometa, ha perdurato, ricreando
la mela d’oro, simbolo primigenio della contesa, e attendendo sofferente un
nuovo corpo da adescare, come fece con la giovane fanciulla dell’orfanotrofio!”
“È
terribile!” –Esclamò Andromeda. –“Quindi, finché la cometa Lepar esisterà,
anche Discordia non potrà essere uccisa del tutto?”
“Proprio
per porre rimedio a questa nefasta possibilità decisi di portare la mela ad
Avalon, per spezzare il legame con la cometa! Non fu semplice, lo ammetto! I
sigilli del giovane Zeus erano ancora forti, ma grazie all’aiuto dei druidi
riuscii nell’impresa! In questo modo, una volta uccisa, Discordia non sarebbe
più potuta rinascere! Così informai Atena, pregandola di nascondere la mela
d’oro nella Sala del Sigillo, il luogo più protetto dell’intero Santuario, in
modo da tenerne sotto controllo la rinascita, ed ella concesse ad un messo a
lei fidato di raggiungere le coste del Galles e recuperare il prezioso carico,
che, per quel che vedo, è invece andato perduto! Me ne dispiaccio! Ritenevo
improbabile che qualcuno potesse percepirne la presenza, eppure le demoniache
figlie vi sono riuscite! Forse soltanto loro avrebbero potuto seguirne il
tracciato cosmico!”
Fu
allora che Atena si voltò verso Pegasus, Phoenix e Andromeda, confermando le
parole del Signore dell’Isola Sacra. –“Avevo chiesto a un mio collaboratore,
Cliff O’Kents, di occuparsene, approfittando del rientro della Nike dalle coste
scozzesi! Ma sia lui che Tisifone sono scomparsi!”
“Che
cosa?!” –Gridò Pegasus. –“Quando? Perché non siamo stati informati?!”
“Avrei
voluto parlarvene. Un giorno di questi lo avrei fatto. Ma stavo cercando di
mettermi in contatto con la Sacerdotessa prima di allarmarvi; temo che sia
stata ferita da un improvviso attacco!”
“E…
ci siete riuscita?!”
“Purtroppo
no.” –Chiosò Atena, distogliendo lo sguardo, mentre una lacrima le solcava una
guancia. Sapeva che Pegasus la stava fissando, che la stava giudicando con i
suoi occhi neri, con il balenio intenso della sua iride che non sarebbe
riuscita ad affrontare in quel momento, nonostante fosse una Dea. Nonostante
fosse la sua Dea. O forse, si disse,
sospirando amaramente, proprio per quello.
“Mi
dispiace avervi coinvolto!” –Esclamò allora Selene, richiamando l’attenzione
dei presenti. –“Avevo inviato un messaggio ad Avalon, per rinverdire un’antica
promessa, non mi aspettavo che anche i Cavalieri di Atena accorressero in
nostro aiuto. Non è la vostra guerra, me ne rendo conto, non è il vostro regno
ad essere attaccato. Quello, fin troppo avete dimostrato di essere degni di
proteggerlo. Pur tuttavia devo chiedervi di rimanere, ve lo chiedo in tutta
umiltà, perché coloro che presiedono i nove cerchi di luna hanno ben poche
capacità belliche, non avendo alla lotta armata destinato la loro esistenza.
Soltanto il mio capitano, il valoroso Shen Gado dell’Ippogrifo, è un abile combattente,
ma da solo, contro l’intera famiglia degli Dei della Guerra, ben poco potrebbe
fare!”
“Sono
pronto a morire per voi, Divina Selene!” –Commentò il condottiero, alzandosi
prontamente in piedi e attirando gli sguardi dei Cavalieri di Atena su di sé.
Da
quando erano entrati nell’Occhio, Shen Gado non aveva più parlato, anzi,
precisò Pegasus, non aveva mai parlato, né rivolto loro parola alcuna, da
quando erano giunti al Santuario della Luna. Pareva che tutte le sue attenzioni
fossero dirette a Selene e alla guerra in corso, perché era chiaro, e gli
sguardi che ogni tanto rivolgeva oltre la cupola di vetro lo confermavano, che
là l’Ippogrifo voleva volare. Sopra la guerra. A vivere e a morire per il Reame
che aveva giurato di difendere.
Tanta dedizione… Mormorò Pegasus, senza nascondere un moto di
comprensione verso di lui, sebbene ben poca empatia avesse mostrato nei loro
confronti. Una devozione che in fondo non era diversa da quella che da anni
mostrava verso Lady Isabel.
“Perché
sta accadendo tutto questo? Perché?” –Pianse Selene, gettandosi a terra e
coprendosi il volto con le mani.
Endimione
si chinò subito su di lei, sussurrandole parole dolci e pregandola di essere
forte. Anche Atena si mosse, per porgerle aiuto, prima che la voce del Signore
dell’Isola Sacra la richiamasse.
“Ho
esteso io l’invito ai Cavalieri di Atena e alla loro Dea, credendo che, di
fronte al risvegliarsi di antichi nemici, avessero conti in sospeso che
desiderassero saldare. Oltre che per il loro innato senso di giustizia che li
ha sempre portati a combattere cause ritenute inizialmente perse ai confini del
mondo conosciuto, o persino più in là. Ma di fronte al precipitarsi degli
eventi, mi rendo conto di non aver concesso loro scelta. Perdonatemi, Cavalieri
dello Zodiaco, per avervi privato di questo diritto, avrei dovuto informarvi
prima di trascinarvi in questa nuova campagna militare!”
“Signore
dell’Isola Sacra, non siamo divenuti Cavalieri di Atena per voltare le spalle
alla giustizia o alla libertà dei popoli minacciati!” –Esclamò allora Pegasus,
alzandosi in piedi, subito affiancato da Andromeda e da Phoenix. –“Non
lasceremo Ares e Discordia liberi di distruggere questo mondo! Fin troppo
sangue è stato sparso a causa loro! Scorpio e i Cavalieri di Bronzo, di Acciaio
e dell’Olimpo gridano ancora vendetta! Non lo abbiamo dimenticato!”
Selene
sorrise a quelle accorate parole, rialzandosi grazie all’aiuto di Endimione e
muovendo appena le labbra, per pronunciare un sentito ringraziamento.
“Coraggio
Cavalieri, andiamo! Non vedo l’ora di tornare a prendere a cazzotti Ares!”
–Avvampò Pegasus, venendo però frenato da Andromeda.
“Non
essere incauto! È di una Divinità che stai parlando, e una delle più
pericolose! Ricordi lo scontro nelle Stanze del Sacerdote? Neppure in cinque
riuscimmo a piegarlo! E dovremmo riuscirci in tre?”
“Credo
che il vostro valore, da allora, sia ulteriormente avanzato, Cavaliere di
Andromeda! E non mi riferisco ai vostri ideali o all’indubbio senso dell’onore
che vi contraddistingue, bensì alla padronanza dei sensi e alla capacità di
bruciare il cosmo, capacità che, come è noto, permette il superamento di propri
precedenti limiti.” –Spiegò Avalon. –“Avete da tempo scavalcato il confine
dell’essere umano, divenendo qualcosa che sta oltre, padroni di un’essenza che
appartiene soltanto agli Dei.”
“Agli
Dei?!” –Balbettarono i Cavalieri dello Zodiaco, non capendo le parole del
Signore dell’Isola Sacra, che quindi riprese a parlare.
“Quando
affrontaste i Cavalieri d’Oro, ad Atene, risvegliaste l’essenza del cosmo, il
settimo senso, che imparaste a padroneggiare ad Asgard e nel Regno Sottomarino,
divenendo veri e propri Cavalieri d’Oro. Quando scendeste in Ade, vi spingeste
oltre, raggiungendo l’ottavo senso, la capacità di restare vivi nell’aldilà,
quella che per degli esseri umani parrebbe una contraddizione in termini. Ma
quel che avete fatto in seguito, e lo avete fatto inconsapevolmente, vi ha
portato ancora un gradino più in alto, a un tanto così dall’essere Divinità.
Avete acquisito il nono senso!”.
“Il
nono senso?! Ma quanti ce ne sono?!” –Bofonchiò Pegasus.
“Nove
coscienze. Poiché non vi è altro che un uomo possa raggiungere, se non uno
status superiore a quello dell’esistenza. Uno status divino.” –Precisò Avalon,
e alle sue parole anche Selene e Atena annuirono. –“Non so con esattezza quando
avete risvegliato quest’ultima coscienza, forse durante la scalata all’Olimpo,
o negli scontri con i figli di Ares, ma di certo ne avete affinato l’uso in seguito,
guerreggiando per i nove mondi di Asgard e giungendo infine qua, dove non
potreste stare se non possedeste il senso ultimo!”
“Avalon
dice il vero, Cavalieri!” –Intervenne Selene, notando lo sbigottimento negli
occhi dei tre compagni. –“Soltanto agli Dei è consentito permanere nel Reame
della Luna Splendente, soltanto ad esseri dotati del Nono Senso! Ed infatti
tutti gli abitanti del mio regno sono Divinità, o discendenti di Divinità. Il
mio amato Endimione, figlio di Zeus e della ninfa Calica, le mie figlie, di
stirpe divina, e infine coloro che proteggono i nove cerchi: i Seleniti, le
Divinità della Luna dedite al culto degli astri in varie religioni terrestri.”
“Quello
che avete sentito accendersi, pochi attimi fa, era il cosmo di Tsukuyomi,
Divinità lunare dello shintoismo, mentre questo che arde di impazienza
appartiene a Tecciztecatl, Selenite di Urano
e Dio della Luna presso i popoli aztechi.” –Concluse Endimione.
“Si
stanno facendo pericolosamente vicini se già il custode del settimo cerchio
appresta le sue difese!” –Rifletté Asterios, ottenendo uno sguardo di assenso
da parte di Avalon.
“Cavalieri
di Atena, non temete! Il nono senso avvampa in voi, lo percepisco! Siatene
consapevoli e sfruttatelo al meglio! Fatelo esplodere, trascendendo la vostra natura
umana e raggiungendo lo stadio ultimo dell’esistenza, divenendo pari a delle
Divinità! Divenendo voi stessi Dei!”
“È davvero possibile?! Per un essere umano… divenire
una Divinità?!” –Mormorò Andromeda.
“La vostra esistenza qui lo testimonia, Cavalieri.
Nessun essere privo del Nono Senso potrebbe rimanere vivo in questo regno.”
“Anche i Cavalieri delle Stelle possiedono il Nono
Senso?” – Chiese allora Pegasus, cui Avalon rispose con un sorriso.
“Quand’anche non fosse così, non avrebbero problemi
a rimanere in questo reame in virtù delle armature che indossano, intrise dello
spirito primordiale dei creatori dei Talismani.”
“Vi è una sola eccezione al proposito che dominò me
e le altre Divinità lunari quando, stanchi delle guerre terrestri, lasciammo il
pianeta per costruire il nostro Elisio privato. Una valorosa eccezione,
rappresentata dall’unico uomo cui abbia mai concesso di dimorare nel reame
beato. Il vittorioso Shen Gado dell’Ippogrifo, che salvò la mia primogenita
dalla violenza di nove giganti, e nelle cui mani metto di nuovo la sua vita,
assieme a quella di tutte le mie altre figlie e dell’uomo che amo.”
Il silenzioso guerriero non disse alcunché,
limitandosi a indossare l’elmo sopra i mossi capelli rossicci e a incamminarsi
verso l’uscita dell’Occhio, le ali della corazza che fluttuavano in aria
seguendone i movimenti. Fu la voce di Pegasus a fermarlo poco prima che
lasciasse la sala.
“Aspetta, Shen Gado! Verremo con te! Concedici
l’onore di affiancarti, e di farci da guida, in questa nuova perigliosa guerra!”
Il comandante dei Seleniti non disse alcunché,
limitandosi ad annuire e a spostarsi di lato, per invitare i Cavalieri dello
Zodiaco e delle Stelle a precederlo, ma a Pegasus parve di vedere l’ombra di un
sorriso profilarsi sul suo volto teso.
“Siate prudenti!” –Commentò Lady Isabel, indugiando
con lo sguardo sul suo Primo Cavaliere.
Prima di andarsene, il ragazzo mise una mano sul
pettorale della corazza di Andromeda, sperando che non se ne avesse a male. Lui
e Phoenix ne avevamo brevemente parlato ed entrambi si erano rivelati
d’accordo.
“Resta con Atena e Selene! Qualcuno dovrà
proteggerle! Non mi fido di Ares! Se è vero che i Seleniti non sono in grado di
combattere, potrebbe sbaragliare in fretta le linee difensive e giungere a
palazzo! Non deve trovarle indifese!”
Andromeda storse un po’ il naso, sospirando all’idea
che gli amici continuassero a vederlo come il coniglio del racconto di Sirio,
ma ritenne comunque che la valutazione di Pegasus fosse corretta. Per cui
rimase sulla soglia, ad osservare l’amico e il fratello correre dietro
all’Ippogrifo, seguiti dai tre Cavalieri delle Stelle. Quel che Andromeda non
vide fu una figura minuta che, nascosta nel corridoio, aveva ascoltato l’intera
conversazione, prendendo infine la sua decisione.
Nell’Occhio erano rimasti soltanto Endimione e
Selene, crollata nuovamente su una sedia, il respiro affannato e numerose gocce
di sudore che le imperlavano il viso. Da quella distanza, Andromeda non poté
udire cosa le stesse dicendo, ma era certo che il sempiterno giovane stesse
cercando di consolare il suo cuore, dandole quella sicurezza, quella speranza,
che solo chi ama può riuscire a darti.
Gli stessi pensieri albergavano nella mente di Lady
Isabel, che era rimasta a fissare la coppia per qualche minuto, incapace di
dire alcunché. O semplicemente troppo presa dai suoi turbamenti personali per
poter prestare soccorso alla Divinità amica.
Alla vista di quell’amore, così intenso, così puro,
così dannatamente umano, la Duchessa di Thule non poté fare a meno di chiedersi
se anche lei, un giorno, avrebbe potuto goderne. Se anche lei, quando tutto
fosse finito, avrebbe potuto provare quella stessa sensazione, quella felicità
improvvisa, che per millenni si era negata. Oppure
sarò condannata ad essere sempre Atena, la Vergine Dea della Guerra Giusta?
***
Il
primo a rompere il momento di silenzio fu proprio colui che lo aveva chiesto,
per ricordare e commemorare coloro che non c’erano più, ma che non per questo,
a detta sua, avrebbero rinunciato a lottare per la giustizia, da qualunque
luogo li avesse attesi dopo la morte.
“Sono
certo che, anche in questo momento, Gemini, Scorpio e Micene rimangono fedeli
Cavalieri di Atena, al pari di Toro, Acquarius, Capricorn e oserei dire anche
di Cancer e Fish!” – Chiosò il Cavaliere d’Oro della Vergine, concludendo il
suo breve intervento iniziale.
Gli
altri partecipanti, riuniti attorno a lui, annuirono, abbandonandosi a un
leggero sospiro, leggero ma veloce, per non permettere a tristi ricordi di
riaffiorare.
“Ti
ringrazio per l’accoglienza, Cavaliere di Virgo, e per averci concesso di usare
la tua casa per quest’incontro. Sebbene non ne abbia l’ufficialità, in quanto
solo Atena o il suo rappresentante in Terra possono convocarlo, questo è de
facto un Chrysos Synagein!” – Commentò Libra, spostando lo sguardo sugli altri
uomini presenti.
Ioria
del Leone assentì, stringendo i pugni in silenzio, affiancato da Mur che si
precipitò a chiarire le ragioni di quell’incontro.
“Da
tempo non prendevamo un momento per noi, sopraffatti come siamo stati,
nell’ultimo anno, dalle guerre continue che siamo stati chiamati ad
affrontare.”
“Un
altro anno, un’altra guerra. Pare che nessun secolo sia così fortunato da
potersene ritenere privo.” –Intervenne allora Virgo, seduto sul trono a forma di
fiore di loto, al centro del Sesto Tempio dello Zodiaco.
“Pur
tuttavia mai come negli ultimi mesi, da quando Cristal il Cigno ci liberò dalla
prigionia di Hel, a così estenuanti e ininterrotte prove siamo stati chiamati!
Sembra che il mondo intero stia precipitando verso la sua distruzione!”
“O
che qualcuno voglia farvelo precipitare!” –Chiosò Dohko, strusciandosi il mento
con le dita. Al che Virgo annuì, sempre tenendo gli occhi chiusi.
“Appurato
questo, che non è una novità, possiamo passare al vero motivo di
quest’incontro, Cavaliere di Libra?” –Incalzò Ioria.
“Sono
stato io a chiederlo, in verità!” –Parlò allora Mur, attirando gli sguardi dei
compagni. –“Ho una richiesta da fare, una richiesta che ho già avanzato a
Dohko, e di cui volevo rendervi partecipi! Ho bisogno di allontanarmi dal
Grande Tempio per qualche giorno! So che non è il momento migliore per gite
fuori porta, ma è un atto necessario, che sento di dover compiere per fugare il
dubbio che covo nell’animo.”
“Che
sta succedendo, Mur? Di cosa vai parlando?” –Replicò il custode del Quinto
Tempio.
“Da
giorni le mie notti sono tempestate di incubi. Visioni terrificanti in cui vedo
mia madre agonizzare sanguinante, singhiozzare, delirare e urlare il mio nome a
gran voce, come mai le ho sentito fare, priva di quella calma, di quel
controllo, che hanno sempre contraddistinto la nostra stirpe. Temo che qualcosa
di terribile le sia accaduto, e il fatto di non riuscire a contattarla
telepaticamente mi preoccupa.” –Spiegò il Cavaliere di Ariete, ripetendo quanto
già detto poche ore prima a Libra.
“Ed
io già ti ho detto che le tue preoccupazioni potrebbero essere infondate. Anzi,
certamente lo sono. Sei stanco e spossato, come tutti noi, ma non dobbiamo
permetterci facili allarmismi. Nondimeno vi è dell’altro. Ben lo so. Lo
sospettavo da tempo, sebbene Shin non me ne avesse mai parlato.”
A
quelle parole Ioria fissò Dohko con sguardo stranito, mentre anche Virgo, in
silenzio, seguiva interessato quella conversazione.
“La
colonia segreta.” –Mormorò Mur.
“Quale
colonia?!” –Sbraitò il Leone, stufo di tutti quei segreti.
“La
colonia dei discendenti di Mu, da cui proveniamo Kiki ed io. E di cui il mio
maestro Shin è stato autorevole membro.” –Precisò l’Ariete. –“È là che mia
madre vive, ed è là che l’ombra è calata. Lo sento. Per questo vi chiedo,
venerabile Maestro, in quanto Cavaliere più anziano, e alla presenza di amici e
compagni, di accordarmi il permesso per recarmi in Asia a verificare quanto sta
accadendo.”
“E io ti concedo quel permesso, Mur dell’Ariete. La tua missione è importante
anche per gli equilibri del mondo. Perciò va’, indaga e riferisci al consiglio
quanto prima!”
“Vi
ringrazio. Sarò di ritorno quanto prima.” –Si inchinò in segno di rispetto e
poi si mosse, uscendo dalla Sesta Casa dello Zodiaco.
“Informerò
Atena quando ritornerà dalla missione con Avalon! Sono certo che anche lei
avrebbe acconsentito.” –Commentò Libra, prima di incamminarsi verso l’uscita
sul retro, lasciando Ioria e Virgo da soli.
“Beh,
se non c’è altro…” –Esclamò il Cavaliere di Leo, facendo per muoversi, ma venne
trattenuto dalle parole del parigrado.
“Un’ultima
cosa, Ioria. Sono contento che siamo rimasti noi. Ciò che sto per dirti è di
estrema importanza, per Atena e per te soprattutto, ma sono certo che Dohko lo
troverebbe un argomento un po’ frivolo.”
Ioria
si voltò, fissando Virgo con sguardo incuriosito, per quanto avesse già capito
a cosa il compagno stesse alludendo. Lo sorprese, invece, vedere che il
Cavaliere aprì gli occhi mentre pronunciava il nome di una donna a cui era
legato. Una donna che non era stato capace di amare.
Castalia.
“Come
Libra ci ha riferito, la Sacerdotessa dell’Aquila, di ritorno dalla missione
umanitaria in Canada, è stata invitata da Atena a fermarsi in Bretagna per
investigare sulla sorte della compagna, il Cavaliere dell’Ofiuco, di cui si
sono perse le tracce da quasi una settimana!”
“Conosco
bene i fatti, Virgo.”
“Ma
da giorni non abbiamo più notizie neppure dall’Aquila e la situazione è
diventata degna di inquietudine. Cosa farà quindi il Leone?”
“Cosa
dovrei fare? Farmi travolgere dai sentimenti e abbandonare il mio posto? Con
Pegasus, Atena, e adesso persino Mur, in missione, le difese del Grande Tempio
sono già fin troppo sguarnite. Dobbiamo avere fiducia, Virgo. Fiducia nei
nostri compagni. Sono certo che Castalia sta bene, e anche Tisifone!” –Mormorò
Ioria, cercando di trattenere l’apprensione che invece l’aveva invaso.
–“Inoltre anche Asher sta convergendo verso il Mar Celtico!”
“Umpf,
un Cavaliere di Bronzo, e neppure dei più capaci.” –Lo schernì Virgo. –“ Se davvero un pericolo ha
investito le Sacerdotesse Guerriero, credi che un ragazzino come lui sia in
grado di portare loro aiuto? Perderemmo tre Cavalieri e in un momento di crisi
come questo non possiamo permettercelo. Stavo pensando di andare personalmente
a verificare la situazione, sempre che tu non voglia assumerti l’onere di
questo salvataggio. In tal caso, mi farei prontamente da parte.”
Ioria non disse alcunché, limitandosi a spostare lo
sguardo dal Cavaliere d’Oro al vuoto che li circondava, il vuoto in cui i suoi
occhi verdi vagarono per qualche istante, tentando di afferrare una risposta,
all’apparenza vacua e lontana ma in realtà ben più vicina e consistente di
quanto il ragazzo credesse.
Sbuffò, infastidito, prima di dare le spalle al
Custode della Porta Eterna e incamminarsi verso l’uscita. Virgo sogghignò,
percependone l’incertezza e i tumulti del cuore, consapevole che il Leone
avesse già preso la sua decisione.
Capitolo 5 *** Capitolo terzo: Un nuovo inizio ***
CAPITOLO TERZO: UN NUOVO INIZIO.
Pegasus
e Phoenix correvano verso la battaglia, seguiti da Jonathan, Reis e Matthew. Li guidava Shen
Gado dell’Ippogrifo, che ben conosceva i passaggi più celeri per il Primo
Cerchio.
Il
Capitano della Guardia aveva spiegato ai suoi improvvisati compagni d’arme la
struttura del reame della Luna, suddiviso in nove anelli concentrici che si
allargavano attorno a un nucleo centrale, dal primo, più interno, al nono, il
più esterno, nonché quello in cui iniziava la Via Maestra attraverso il regno.
Nove cerchi separati da alte e robuste mura di sabbia lunare, pervasa dal cosmo
degli Dei fondatori. Nove cerchi che prendevano il nome dai pianeti del sistema
solare, il cui schema volevano idealmente ricreare, ponendo la residenza di
Selene e Endimione al centro, il sole del loro regno.
“Eccoci
al primo, difeso da Igaluk, Selenite di Mercurio e
Divinità lunare presso i popoli inuit!” –Incalzò Shen Gado, varcando la soglia con un agile balzo.
Pegasus
e gli altri lo seguirono, stupendosi al qual tempo del paesaggio in cui si
ritrovarono, una landa glaciale costellata da rozzi speroni di ghiaccio che
sgorgavano dal terreno. Non molto
dissimile dalla Siberia in cui Cristal ha vissuto,
pensò il ragazzo, ricordando quand’era corso in aiuto dell’amico, anni
addietro.
“Ogni
Selenite personalizza la propria parte di regno a modo suo, ricreandovi le
bellezze della terra natia, formandole con il proprio cosmo divino.” –Commentò Reis, intuendo i pensieri del Cavaliere.
“Ariunngaipaa!”
–Esclamò un uomo, facendosi loro
incontro. –“Benvenuti al Primo Cerchio! Non abbiamo mai avuto così numerose
visite come quest’oggi! Ma non tutte piacevoli!” –Dai tratti somatici tipici
degli abitanti delle terre artiche, Igaluk era
piuttosto basso, dieci centimetri meno di Pegasus e Phoenix, sebbene di
corporatura apparisse ben piazzato, da ciò che la sua singolare corazza
lasciava trasparire. Era un’armatura bianca e azzurra molto coprente, che ben
si intonava al paesaggio circostante, con cui, a seconda dei riflessi di luce,
riusciva persino a confondersi. Sulle spalle, sulle braccia e sulle ginocchia
portava delle smussate lastre circolari che a Pegasus parvero degli scudi un
po’ grezzi, e forse assai ingombranti in battaglia. Ma poi ricordò le parole di
Selene e di Shen Gado sul ruolo avuto dai Seleniti
fin da quando il reame della Luna era stato fondato. Un ruolo puramente
difensivo, di protettori dell’ultimo paradiso perduto, e riconobbe che lo scudo
era in tal caso l’arma più adatta.
“Igaluk! Com’è la situazione? Sento cosmi maligni saturare
l’aria!” –Chiese subito Shen Gado, ricevendo in
cambio uno sguardo preoccupato.
“Bil e Hjúki stanno facendo la
spola tra i nove cerchi per darci tutte le notizie! Non che ce ne sia effettivo
bisogno, essendo tutti coscienti dello spegnersi del cosmo di un compagno. Ma è
un modo, per i giovani apprendisti, di sentirsi utili e dare il loro
contributo!” –Rispose il Selenite di Mercurio. –“I nostri invasori stanno per
varcare la soglia del Settimo Cerchio e non so quanto il vecchio Tecciztecatl
potrà resistere contro quelle furie! Mai percepito cosmi così bellicosi!”
“È
là che andremo, allora! A portare aiuto!” –Esclamò il Capitano della Guardia, e
anche Pegasus e gli altri annuirono, prima di salutare Igaluk
e sfrecciare lungo la piana ghiacciata.
Subito
i Cavalieri di Atena notarono che Shen Gado non
procedette in linea retta, bensì virò verso destra, scivolando tra le grezze
stalagmiti con l’agilità e la sicurezza di chi quella strada aveva percorso più
volte. Dopo una corsa di pochi minuti si fermò di fronte a un varco incassato
nel muro di ghiaccio che separava il Primo Cerchio dal Secondo, un pertugio
così stretto che, se non lo avesse indicato loro, non lo avrebbero notato.
“Dunque
le uscite non sono tutte lungo la stessa direzione...” –Commentò Pegasus. Al
che Shen Gado annuì, spiegando che la sinuosità della
Via Maestra era un ulteriore strumento di precauzione che i Seleniti avevano
adottato millenni addietro, quando edificarono il loro regno.
“Solo
chi conosce la strada sa dove andare, gli altri devono procedere per tentativi,
costretti anche a girare in tondo.”
“Oppure
possono semplicemente sfondare il muro!” –Ironizzò Pegasus, ricevendo
un’occhiata stizzita da parte di Reis e Jonathan.
“Non
è così semplice. Dovrebbero avere forza sufficiente per vincere la resistenza
offerta dal cosmo di Selene e della Divinità preposta alla difesa di quel cerchio…” –Disse Shen Gado, ma la
sua spiegazione fu interrotta da un improvviso scuotersi del suolo lunare, che
zittì per un momento tutti i presenti, facendoli trasalire.
“Voi
non lo conoscete… ma Ares è un tipo che va per le
spicce!” –Esclamò Pegasus sarcastico, prima di fare cenno agli altri di
infilarsi nello stretto passaggio tra i due anelli, aumentando la loro velocità.
Matthew,
l’ultimo ad entrare, si fermò dopo pochi passi, guardandosi alle spalle
perplesso e concentrando i propri sensi.
“Tutto
bene?” –Gli chiese Reis, fermatasi ad aspettarlo.
“Sì.”
–Commentò il ragazzo. –“Mi era sembrato di percepire qualcosa…
o qualcuno…” –Non disse altro e riprese a correre
assieme al Cavaliere di Luce, lasciandosi alle spalle il Cerchio di Mercurio e
la figura ignota che, da dietro un rilievo ghiacciato, li osservava attenta.
***
Flare era
magnifica, quel giorno. Scivolava leggiadra tra la folla festosa, in un abito
bianco che sua madre aveva cucito per lei molti inverni addietro, per
un’occasione importante, magari il suo sposalizio. Dispensava sorrisi agli
abitanti di Midgard, riuniti per celebrare la fine di
un’era e l’inizio di una nuova, intrattenendosi a parlare con loro e ricevendo
carezze e benedizioni.
Il
Salone del Fuoco della fortezza era gremito di gente, non solo residenti nella
cittadella ma anche taglialegna, arcieri e gente comune, a lungo vissuta nei
boschi del regno, che aveva scelto di abbandonare il proprio silenzioso
isolamento per radunarsi a palazzo in quell’occasione solenne. Triste e al
tempo stesso fonte di speranza. Non capitava tutti i giorni, infatti, di
assistere all’incoronazione della nuova Regina di Midgard.
Flare
avrebbe voluto che la cerimonia avesse luogo all’esterno, nel piazzale
retrostante la rocca, sia per accogliere un maggior numero di persone, sia per
rendere onore alla sorella, che là amava pregare Odino, circondata da tutti i
fedeli. Ma lo spazio era ancora inagibile, a causa degli scontri con i Giganti
di Fuoco, per quanto i suoi consiglieri avessero già provveduto a organizzare i
lavori di rifacimento. Molti volontari stavano arrivando da tutte le terre del
nord, per dare il loro contributo alla ricostruzione del piazzale, sgombrandolo
dalla macerie e dalla neve, e all’edificazione di una nuova statua di Odino,
un’impresa titanica pari a quella di cui avevano sentito parlare nei racconti
degli avi. A Flare si strinse il cuore dalla gioia
nell’apprendere con quanta sincera devozione il popolo di Midgard
credesse negli antichi Dei e nei loro rappresentanti in terra, anche dopo
quanto era accaduto, anche dopo le violenze subite, e le parole di Enji le diedero ulteriore conferma.
“Ho
servito il casato di Polaris fin dalla fanciullezza e
posso dirvi, mia Signora, che nessuna Celebrante di Odino è stata amata come
vostra sorella. Lei era proprio come la cittadella, che si erge a picco sul
Mare Artico, sfidando fiera le intemperie del mondo. E voi rischiate di esserlo
ancora di più!”
La
nuova regnante non disse niente, limitandosi a sorridere al devoto consigliere,
che la accompagnava lungo il salone, seguiti a breve distanza da un gruppo di
Guardie della Cittadella, una porzione del poderoso servizio di sicurezza che
Bard, d’accordo anche con Cristal, aveva allestito
quel giorno, a protezione di Flare e del popolo. Per
quanto entrambi non temessero attacchi specifici, dopo quanto era successo con Loki giorni addietro avevano deciso di non correre rischi.
Proprio
il giovane allievo di Orion la attendeva ai piedi
della scalinata che conduceva al trono, splendido nella sua uniforme di
servizio, con il Cavaliere del Cigno al suo fianco. Dismessi i panni del
combattente, Cristal indossava abiti prettamente
nordici, che Flare gli aveva fornito prendendoli dal
guardaroba di famiglia. Anche Kiki era presente,
rimasto a Midgard assieme all’amico per sostenere Flare, in un completo così elegante quanto barocco che lo
faceva assomigliare ad un valletto di corte.
“Rivoglio
i miei vestiti!” –Bofonchiò il ragazzino, grattandosi il fondo schiena.
–“Questi mi danno il prurito!”
Cristal
non poté trattenere una risata genuina, prima di rimanere a bocca aperta quando
la nuova Celebrante di Odino gli si parò di fronte, con i voluminosi capelli
biondi che le ricadevano liberi sulla veste. Flare
sorrise ai giovani, fermandosi di fronte al nuovo Comandante della Guardia e
baciandolo in fronte, ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per
Asgard e per il casato di Polaris.
“Orion non avrebbe potuto istruire allievo migliore! Sono
sicuro che è fiero di te, come tutti noi!” –Gli disse, sorridendo, prima di
salire i pochi scalini del palco e voltarsi verso il popolo riunito. Il suo
popolo. Quello che era chiamata a difendere e confortare.
“Wotan, verndaoss!” –Esordì, invocando la protezione del Signore
degli Asi. –“Genti di Asgard! Genti di Midgard! La vostra presenza qua mi onora, la vostra fiducia
mi rasserena, la vostra speranza mi darà la forza per muovermi lungo nuovi
sentieri, che mai avrei immaginato di percorrere così presto! Mia sorella, la
mia adorata sorella, amava questa terra, ricca di insidie e misteri, di fascino
e nascosto calore, e per questa terra ha dato la vita, affrontando l’ombra e le
fiamme! Da sola, ha scelto di uscire dal mondo affinché il mondo potesse
continuare a esistere, convinta nel profondo che dopo un’epoca oscura sarebbe
succeduta la luce, come le due essenze si rincorrono dai giorni della
creazione!” –Parlò la ragazza, con voce calma, sostenuta dal ricordo di Ilda e
dallo sguardo fermo di colui che amava, tutto ciò che ancora le restava di quel
sogno di felicità inseguito da bambina.
“Leggo
la paura nei vostri occhi, il timore per il futuro, soprattutto adesso che il
nostro suolo è stato violato, il nostro santuario incendiato, la statua del
Signore degli Asi sfregiata. Ma leggo anche, nei
vostri cuori come nel mio, la voglia di ricostruire, di andare avanti, di non
cedere, forti e solidi come le rocce con cui la cittadella è stata issata, come
le radici del possente Yggdrasill, che da solo poteva
sostenere nove mondi. Noi non siamo chiamati a così estenuante impresa, poiché
solo di un mondo dovremo sobbarcarci il peso. Il nostro! Il recinto di mezzo
cui siamo confinati a vivere! Sentiamoci lieti di ciò, perché un peso non è, né
deve esserlo. Deve essere un’opportunità! Per tutti noi. Così dobbiamo viverla,
e io la vivrò con voi!” –Quindi, alzando una mano per sopire la moltitudine di
applausi scatenatisi dalla folla, fece un gesto che stupì la maggioranza dei
presenti, ma non Cristal. Si inginocchiò, giunse le
mani e pregò. –“Odino non è morto! Non ancora! Egli continuerà a vivere
fintantoché noi crederemo in lui! E un giorno, tra molti misseri, quando i lupi
mangeranno il sole e la luna e un nuovo inverno scenderà, Odino ritornerà per
lottare al nostro fianco! Odino è con noi! Wotansjálfrermeðoss!”
La
stessa frase fu ripetuta da Cristal, Enji, Bard e, bocca dopo bocca, da tutti i presenti, in un
mormorio sommesso che aumentò d’intensità divenendo una vera e propria
invocazione. Una speranza cui aggrapparsi in un momento di passaggio.
“Odino
è con noi!”
“Che
sia davvero così?” –Non poté evitare di chiedersi una delle tre figure che,
dall’alta balconata del Salone del Fuoco, osservavano la cerimonia riparati
dietro le colonne.
“Nessuno
conosce i destini del mondo!” –Commentò una voce di donna. –“Avì! Persa è
l’antica sapienza di Mimir, esaurita la fonte, nessun
oracolo li rivelerà più.”
“Fate attenzione a non rivelare i vostri cosmi! Il
giovane comandante è un ragazzino, ma il Cavaliere di Atena è combattente
esperto e non faticherebbe a percepirne traccia!” –Redarguì l’uomo che per
primo aveva parlato.
“Cosa
ne pensi della nuova sovrana di Midgard?” –Intervenne
allora una terza voce, poggiando la mano sulla sua spalla. –“Non ha la flemma
della sorella!”
“Questo è vero. Pur tuttavia possiede un cuore grande e misericordioso, colmo
d’amore. Di nient’altro questa terra ha bisogno!”
***
Il
Selenite di Saturno ricordò a Pegasus un nobile Dio conosciuto di recente, lo
splendente Balder, figlio di Odino, al cui stesso
pantheon il custode del Sesto Cerchio apparteneva. Il suo nome era Mani ed era
alto e ben piazzato, imponente nella sua armatura di foggia nordica, in grado di
combinare una rara bellezza con un’indiscussa attitudine guerriera, dote assai
rara tra i Seleniti. Salutò con trasporto Pegasus e Phoenix, di cui sembrava
conoscere molto bene la vita e le avventure.
“Heilir, Cavalieri
di Atena! Vi ho osservato a lungo, seguendo le vostre vicende nelle acque del
secchio Sǿgr,
l’unico specchio che mi è rimasto sul vecchio mondo!” –Esclamò l’uomo, con voce distinta e vellutata.
–“Percepisco il vostro buon cuore e non mi stupisce che il figlio di Odino
abbia ceduto la sua luce a uno di voi! Fanne tesoro, Cavaliere di Pegasus,
perché, avì,
temo che tutti i mondi stiano precipitando in un abisso di tenebra che neppure
il Sole di Asgard potrebbe rischiarare!”
“È
stato un onore per me, per tutti noi, guerreggiare a fianco di Balder e di Odino, nobile Mani! Possano aver trovato pace,
qualunque mondo li abbia accolti dopo la morte!” –Rispose Pegasus, e anche
Phoenix e i Cavalieri delle Stelle annuirono con rispetto, ma prima che
potessero aggiungere alcunché furono distratti dalle grida di due ragazzi, di
una dozzina d’anni non di più, che arrivarono correndo, anticipando un
fragoroso boato e il sollevarsi di una nube di polvere alle loro spalle.
“Il
Settimo Cerchio…” –Commentò Mani, vedendo vampe
rossastre lampeggiare tra le rovine del muro crollato.
“Sono
qua! Gli invasori hanno conquistato il Cerchio di Urano!” –Gridarono Bil e Hjúki, gli apprendisti di
Mani.
“Andiamo!”
–Esclamò Pegasus, stringendo i pugni e lanciandosi avanti, seguito da Phoenix, Reis e Jonathan. Il Capitano della Guardia rimase assieme a
Mani, avendo concordato in precedenza, assieme ai Cavalieri di Atena, la
strategia da adottare: loro sarebbero stati la testa dell’ariete, decisi a
sfondare le linee nemiche, mentre Shen Gado e i
Seleniti avrebbero costituito la retroguardia, proteggendo i passaggi tra i cerchi.
–“L’ultima difesa prima di giungere da Isabel.” –Chiosò il Primo Cavaliere
della Dea Atena, lanciandosi verso il varco aperto nel muro del Settimo
Cerchio, ove, in mezzo al fumo e alle fiamme, alcune figure corazzate avevano
iniziato ad apparire. –“Dove sei, Aresss?!”
Una
moltitudine di uomini e donne, rivestiti dalle stesse corazze violacee e
scarlatte, e armati di tutto punto, si fece loro incontro, vociando
all’impazzata, generando un gran frastuono con le grida e il loro confuso
avanzare. Osservandoli meglio, i Cavalieri di Atena notarono che i componenti
dell’esercito nemico erano tutti molto simili tra loro, divisi perfettamente in
uguale numero di maschi e di femmine, giovani e forti, come fossero nati per la
guerra.
“Non
fatevi ingannare dal loro aspetto adolescenziale! È un inganno tessuto ad arte
per impietosire gli avversari!” –Commentò allora Reis.
–“Gli uomini che vedete sono i Phonoi, diabolici
figli di Discordia, gli inarrestabili guerrieri dell’omicidio, e non si
fermeranno finché non avranno reciso la testa dell’ultimo abitante della Luna!”
“Mentre
le armigere dalle belle fattezze ma dal volto pallido, quasi spettrale, sono le
Androctasie, spiriti della battaglia e del macello!”
–Intervenne Jonathan, che aveva iniziato ad espandere il proprio cosmo dorato.
–“Appartengono alla grande famiglia degli Dei della Guerra, rampolli di Eris e di chissà quale abominio! Ci occuperemo noi di loro,
siamo avvezzi ai combattimenti di massa e ci piace fare a gara tra chi abbatte
più nemici!”
“Ricordi
nell’Inferno? Di quanti Spectre ti ho battuto, bel
biondino?” –Ironizzò Reis, sfoderando la lama di cui
era custode.
“Spectre?! Vuoi forse dirmi che eravate scesi in Ade con
noi?!” –Balbettò Pegasus.
“Naturalmente.
Non vi era venuto il dubbio di non essere soli?! Quanti Spectre
avete sconfitto voi Cavalieri di Atena? Una cinquantina? Beh, ora sapete chi ha
fatto fuori l’altra metà!”
“Saremmo
venuti anche nell’Elisio a prestarvi aiuto, ma le nostre corazze non avevano
ricevuto sangue divino!” –Concluse Jonathan, proprio mentre un gruppo di Phonoi si faceva loro incontro, le armi sfoderate e pronte
al massacro. –“Qua invece possiamo combattere tutti insieme! Andate!!!” –Li
incitò, concentrando una sfera di energia nella mano e scagliandola in mezzo al
gruppo di nemici. –“Cometa d’oro,
apri la via!!!”
L’esplosione
disintegrò numerosi Phonoi, scagliandone altri
tutt’intorno ed esponendoli al rapido assalto di Reis,
piombata su di loro a spada tesa, determinata a non offrire al nemico neanche
un pertugio per invadere il Cerchio di Saturno.
“Ora!!!”
–Ripeté concitatamente la ragazza, mentre Pegasus e Phoenix sfrecciavano nel
varco, protetti dai fendenti scagliati dai Cavalieri delle Stelle. –“Buona
fortuna, amici! A tutti noi!” –Aggiunse, prima di travolgere alcuni avversari
con un vortice di energia dorata. Solo allora, in quell’istante in cui riuscì a
rifiatare, realizzò che Matthew non era più con loro.
***
Il
Cavaliere dell’Arcobaleno era rimasto indietro. Volutamente.
Appena
entrato nel Quinto Cerchio, custodito dal Selenite di Giove, aveva deciso di
staccarsi dal gruppo e verificare un’intuizione che lo aveva invaso fin da
quando avevano lasciato il palazzo. La sensazione che qualcuno li stesse
seguendo.
Ne
aveva avuto sentore nella piana di ghiaccio del Primo Cerchio e poi in seguito,
fino a divenire un timore costante nel varco che conduceva all’anello di Thot, che, per omaggiare le calde terre ove era stato a
lungo venerato, aveva ricreato una versione ridotta del deserto egiziano,
completa pure di piccole piramidi utilizzate come alloggi. Proprio dietro una
di queste costruzioni Matthew si era nascosto, poco distante dal tunnel scavato
nel muro con cui si accedeva al Cerchio di Giove, mentre Reis
e gli altri sparivano nel desertico orizzonte.
Non
dovette attendere molto per avere risposta ai suoi dubbi, poiché una snella
figura avvolta in un mantello si affacciò cauta dal varco, guardandosi intorno
fugacemente prima di individuare le tracce sulla sabbia. Dal suo punto
riparato, Matthew ne ammirò l’astuzia con cui aveva cura di procedere proprio
laddove Pegasus e gli altri erano passati, calpestando le loro stesse impronte
per non lasciarne altre sul terreno.
“Basta
così! Rivelati ora!” –Disse il Cavaliere dell’Arcobaleno, balzando fuori dal
nascondiglio e lanciandosi contro la sconosciuta figura, che, sorpresa
dall’improvvisa aggressione, non riuscì a difendersi, ruzzolando a terra
assieme al ragazzo. –“Uh?!” –Mormorò Matthew, che aveva udito la voce
dell’inseguitore lamentarsi per la caduta.
Forse dovrei dire inseguitrice. Rifletté, osservando il grazioso corpo palesatosi
dopo la perdita del mantello.
Era
una ragazza alta e snella, con lunghi capelli castani striati d’oro e il volto
delicato su cui rifulgevano due occhi verdi. Era vestita con abiti semplici e
pezzi di armatura di varie forme e dimensioni, come se fossero stati presi alla
rinfusa da corazze diverse. Sembrava seccata da quell’imprevisto, ma
nient’affatto ostile alla causa per cui Matthew e i suoi compagni stavano
combattendo.
“E
tu chi sei?!” –Domandò il ragazzo, sgranando gli occhi.
“Umpf, chi vuoi che sia? Non ci sono molti abitanti in
questo paradiso imperfetto!” –Commentò lei, scuotendosi la sabbia di dosso.
–“Una famiglia reale e dieci cani da guardia!”
Matthew
rimase attonito per qualche secondo, riflettendo sulle sue parole, prima di
ricordarsi dove l’aveva vista. Poco prima di entrare nell’Occhio, neanche due
ore addietro. Assieme alle sue sorelle.
“Sei
una delle figlie di Selene!!!” –Esclamò, ottenendo in risposta un sospiro
stanco.
“Elanor!”
–Ammise lei. –“La primogenita, per l’esattezza.”
“Cosa
fai qua? Tua madre ti starà cercando! Dovresti essere a palazzo con la tua
famiglia!”
“Proprio
dove non voglio stare!” –Commentò lei, schiva. –“Non ho intenzione di
nascondermi e lasciare ad altri l’onere della difesa. No, io voglio
combattere!”
“Stai
scherzando?! Sei una ragazzina!!! Quanti anni hai? Sedici?”
A
quelle parole Elanor ammutolì, imbronciata, prima di fissare Matthew con
sguardo sprezzante e osservare lo stupore dipingersi sul suo volto quando si
sentì sollevare da terra e spingere contro il muro di confine.
“Tele… cinesi?!” –Balbettò il Cavaliere delle Stelle.
“Non
prendermi per una sprovveduta! Sono pur sempre la figlia di una Divinità! E non
è forse una donna colei che impugna la fulgida lama? L’ho vista, poc’anzi
nell’Occhio! Fiera e pronta alla battaglia! Come una vera Amazzone! Io voglio
essere come lei, voglio lottare! Voglio vivere e morire per qualcosa, non
conservarmi in eterno sotto un guscio di vetro!”
“Per
questa ragione ti sei fatta un’armatura da sola?!”
Elanor
annuì, per poi liberare il ragazzo dalla sua morsa mentale e farlo scivolare a
terra. –“Non è il massimo, lo so, ma protegge il cuore e altri punti vitali.
Del resto, con gli scarti delle corazze dei Seleniti non avrei potuto creare di
meglio. Quanto meno se mia madre non mi avesse tarpato le ali e non fossi stata
costretta ad allenarmi di nascosto!”
“Che
vuoi dire?!”
“La divina Selene ha
rinunciato a combattere quando ha lasciato la Terra, disinteressandosi dei suoi
problemi e delle vicende di uomini e Dei, uscendo di fatto dalla storia. Tutto
quel che le è interessato è stato l’amore di Endimione
e il benessere delle sue figlie, che per secoli ha tenuto sotto una campana di
cristallo, letteralmente, per paura che ci accadesse qualcosa. Non sono neppure
mai potuta uscire da palazzo, per percorrere da sola la Via Maestra!!!”
“Ecco perché ci hai seguito, perché sapevi che Shen Gado avrebbe fatto strada!”
“La guerra che mia madre ha tanto voluto evitarci è
arrivata e per colpa sua non siamo pronti ad affrontarla! Per colpa della sua
negligenza tattica abbiamo dovuto chiamare rinforzi, perché i nostri custodi
sono Divinità ammuffite e non guerrieri in forze! È umiliante, non trovi? Se
mia madre ci avesse insegnato a combattere, avremmo potuto occuparcene da
soli!”
“Non vi è vergogna nel chiedere aiuto, Elanor! Io
stesso, per molti anni, ho rinunciato a combattere e a proseguire nei miei
studi, temendo il passato e forse il futuro, finché non ho perso colei che
amavo. Da allora ho imparato l’umiltà e la necessità di agire in gruppo, per
contrastare un nemico comune, un nemico che a volte siamo troppo deboli per
affrontare da soli!” –Sospirò Matthew. –“Non ti fermerò, se vuoi combattere.
Non spetta a me farlo. ma assicurati di essere sicura delle tue scelte, poiché
non potrai tornare indietro una volta scesa sul campo di battaglia!”
Elanor accennò un sorriso, assentendo alle parole
del ragazzo, che non fecero altro che confermare la sua decisione. Quando fece
per chiedergli se avessero potuto procedere assieme, vide l’ombra del braccio
di Matthew sul terreno sabbioso. La colpì alla nuca, facendola cadere al suolo,
priva di sensi.
“Perdonami, Principessa della Luna! Il battesimo
della guerra è un rito che non dovrai affrontare quest’oggi!” –Mormorò, prima
di avvolgerla nel mantello e muoversi per depositarla dentro una piramide, ove
avrebbe potuto riposare.
Fu allora che un turbine di sabbia lo sollevò in
malo modo, schiantandolo contro il muro di confine e facendolo ruzzolare a
terra, assieme al corpo inerte di Elanor. Mentre Matthew si rimetteva in piedi,
tossendo e con la vista arrossata dai granelli di rena, vide un uomo
avvicinarsi ad ampie falcate e capì che sarebbero sorti problemi.
Alto e slanciato, con un’armatura dalle diverse
tonalità di marrone e due ali scure ripiegate sulla schiena, che simboleggiava
l’ibis sacro agli egizi, aveva un aspetto nient’affatto amichevole e subito lo
apostrofò, chiedendogli chi fosse e perché avesse colpito quella ragazza.
“Matthew è il mio nome, sono un Cavaliere di
Avalon!” –Si premurò subito di chiarire il ragazzo, incalzato dalle domande
dell’uomo.
“Perché non sei passato con il resto dei tuoi
compagni? Cosa facevi nascosto nelle mie terre con questa…
chi è questa ragazzina?” –Esclamò, per poi riconoscere la figlia primogenita di
Selene. –“Che cosa le hai fatto? L’hai ferita?”
“No, affatto, lei voleva combattere, io le ho detto
di tornare all’Occhio!” –Ma le parole del Cavaliere delle Stelle caddero nel
vento, lo stesso furioso turbine di sabbia che il Selenite di Giove aveva
appena sollevato.
“Thot, Custode del Quinto
Cerchio, non ama le menzogne!” –Chiarì l’uomo, preparandosi alla battaglia.
Capitolo 6 *** Capitolo quarto: La scacchiera è pronta ***
CAPITOLO QUARTO:
LA SCACCHIERA E’ PRONTA.
La
reggia di Zeus era deserta, ben pochi vi dimoravano più.
Morti
i Cavalieri Celesti, nella guerra scatenata da Flegias,
massacrati gli Dei e le loro certezze di immortalità, sgozzati i satiri, le
ninfe e gli abitanti del Monte Sacro, restavano soltanto Zeus e la sua sposa, e
una cerchia ristretta di fedelissimi. Ciononostante, da una settimana il Cronide pareva aver riacquistato una parte della superba
vitalità tipica dei giorni in cui il mondo era giovane ed egli si era appena
assiso sull’olimpico trono. Ed era la presenza di un’altra Divinità, da lui
ridestata, ad aver contribuito al miglioramento del suo umore.
“Nettuno,
fratello mio, sono lieto di constatare che hai recuperato del tutto le forze,
lo percepisco dalla freschezza del tuo cosmo, simile a mareggiata che si
solleva impetuosa nel breve arco di un istante!” –Esclamò il Tonante, entrando
nelle stanze riservate al mitologico fratello e congedando Ganimede e le
ancelle, che lo avevano assistito durante la convalescenza.
“Mi
sento meglio, dici il vero, Zeus. E non ho bisogno di un consulto di Asclepio per comprendere che è a te che devo il mio
repentino recupero!” –Disse l’Imperatore dei Mari, alzandosi dal letto in cui
aveva riposato negli ultimi giorni, dopo che Ascanio
e Nikolaos avevano risvegliato il suo vero corpo da
un sonno durato secoli. –“Sento la folgore palpitare dentro di me, una
sensazione elettrizzante, lo ammetto, dovuta all’Ichor
di cui ti sei privato per farmene dono. Un gesto gentile, che non dimenticherò,
puoi esserne certo!”
“Una
cortesia tra fratelli, chiamiamola così, resasi necessaria dalle circostanze.”
–Si affrettò a chiudere il discorso Zeus, mentre entrambi si incamminavano
fuori dalla reggia, per passeggiare nel sempreverde giardino attorno.
“Tra
fratelli che non si vedevano da secoli e che, perdonami se puntualizzo, non
sono mai stati in così affiatati rapporti. Cos’altro vuoi condividere con me?”
–Domandò Nettuno, sornione, e poi, notando che il fratello non accennava a rispondergli,
riprese a parlare. –“Apprezzo il tentativo, Zeus, ma non sono in vendita. Per
cui adesso parla, cosa vuoi realmente? La mia forza, ciò è indubbio, ma non
credo di poterti offrire altro, non avendo un’armata da far combattere. Tutti i
miei generali in quest’epoca sono già morti e passeranno anni prima che la mia
divina volontà possa riunirne altri. Non posso aumentare le file delle tue
sparute legioni!”
“Questo
no. Però puoi fortificarle.” –Confessò infine Zeus, fermandosi al centro del
giardino fiorito.
“Come?!”
–Esclamò Nettuno, stupito, prima che lo sguardo indagatore del Signore degli
Dei scavasse nei recessi della sua anima, portandolo a ricordare. E a
comprendere. –“Il giacimento di oricalco!”
“Non
ho dimenticato, fratello, che Atlantide nascondeva la più grande riserva di
oricalco del Mondo Antico, così ricca da generare l’invidia di molti. E proprio
alle tue scorte attingemmo, per armare i nostri eserciti, quando i Titani
minacciarono la terza stirpe cosmica! Ugualmente adesso, in vista della fine,
debbo chiederti di potervi attingere ancora, un’ultima volta!”
“Non
entro da secoli, forse millenni, nel giacimento di oricalco ma non vi è motivo
di credere che sia stato violato, del resto nessuno, a parte noi due, era a
conoscenza della sua ubicazione.” –Rifletté Nettuno, annuendo con fare deciso.
–“Le mie scorte sono a tua disposizione, Zeus Tonante, è il minimo che possa
fare per ringraziarti di avermi risvegliato, anche se avrei preferito per
un’occasione migliore!”
“Vorrei
anch’io che vivessimo in tempi diversi…” –Mormorò
Zeus, concedendosi un sospiro addolorato. –“Tempi che non rischiassero di
concludersi a breve. Possono sembrare ironiche le mie parole, dette da un Dio
che vive da millenni, ma vorrei davvero poter tornare indietro, a giorni più
felici, per poter rivivere i fasti olimpici che a causa della mia debolezza
sono scomparsi.”
“Tetre
parole le tue. Sei davvero così angosciato, Signore del Fulmine?”
“Vivo
da secoli in quest’angoscia, forse da millenni, dalla fine della Titanomachia.
Quando ci penso, quando ripenso alle sue parole, maledico me stesso per aver
udito, per avergli tenuto la mano mentre moriva e aver appreso quel che sarebbe
accaduto! È sciocco, lo so, è futile e umano ma a volte vorrei che Vasteras non mi avesse mai detto niente, vorrei non aver
avuto un così previdente consigliere! Se fosse stato zitto, se fosse morto senza
avvisarmi, avrei vissuto un’esistenza tranquilla, priva di angustie, invece
l’ansia mi ha invaso, l’ansia della fine di tutte le cose, anche degli Dei. Ho
cercato di scacciarla in ogni modo, viaggiando, girando il mondo, concedendomi
a folli amori impossibili, che mi ricordassero di essere sempre giovane e
maschio, e abbandonandomi a dissolutezze di ogni genere, celebrazioni e
gozzoviglie. Tutto solo ed esclusivamente allo scopo di nascondere il fatto che
la nostra ora sarebbe comunque giunta. E la fine del paradiso olimpico con
essa.”
“Paradiso olimpico?! Non è un controsenso per un
regno che pace e serenità non ha mai visto se non nei sogni e nelle idilliache
speranze degli uomini?” –Azzardò Nettuno, ricordando che gli Olimpi si sono
fatti la guerra per secoli. –“Era contro Eracle, Ade contro Atena, io stesso
contro Atena. E, da quel che mi hai detto, tuo figlio il bellicoso non ha
ancora rinunciato ai suoi progetti imperiali!””
“Le ragioni di mio figlio sono indecifrabili anche
se temo abbia ceduto all’ombra. È l’unica spiegazione plausibile per
giustificare la sua ritrovata esistenza terrena. Per questo dobbiamo sbrigarci!
Nettuno, ti chiedo di raggiungere Atlantide oggi stesso e recuperare le scorte
di oricalco, di modo che mio figlio Efesto possa
lavorarlo quanto prima!”
“Come comandi, Zeus Tonante!” –Concordò il sovrano
dei silenti abissi, dando le spalle al fratello e incamminandosi verso la
reggia.
Solo allora notò la delicata figura di Demetra, Dea
delle Coltivazioni, a una ventina di metri di distanza, intenta a prendersi
cura di una siepe di rose, una varietà particolare, dai petali color avorio,
che era riuscita a far crescere sul Monte Sacro. Le sorrise, passando oltre e
lasciandola ai suoi lavoretti. Anche Zeus rientrò nella reggia e la sorella
rimase sola nel quieto giardino, quello stesso giardino che solo pochi mesi
prima era stato devastato dalle vampe di Tifone, ma che il suo cosmo aveva
curato, rinvigorendo il terreno e permettendo alla flora di rinascere.
Per Zeus, e probabilmente anche per gli altri Dei
sopravvissuti, infondere così tanto tempo e risorse alla cura di un terreno che
presto sarebbe tornato ad essere un campo di battaglia era solo uno spreco di
energie preziose, che Demetra avrebbe fatto meglio a conservare, poiché se la
grande ombra li avesse sommersi anche la sua luce avrebbe rischiato di
spegnersi. Sospirando, la sorella di Zeus si incamminò nel roseto, per cogliere
alcuni fiori e preparare un elegante mazzo che avrebbe portato a una coppia
molto speciale. Una famiglia che viveva alle pendici del Monte Sacro e a cui la
Dea del Grano e dell’Agricoltura molto doveva.
L’anziana coppia era costituita da Elena e Deucalione, i genitori del Luogotenente dell’Olimpo, che
Demetra aveva avuto modo di conoscere, e di apprezzare, dopo la fine della
Grande Guerra. In virtù dei meriti conquistati dal figlio, Zeus aveva persino
invitato i due mortali a vivere a palazzo, ricevendo un cortese ma fermo
rifiuto, preferendo essi continuare a vivere nell’intimità della loro dimora.
Così, a ogni quarto di luna nuova, la Dea aveva preso l’abitudine di recarsi a
fare loro visita, portando fiori e semi per le coltivazioni. Ma quando quel
giorno arrivò al Bianco Cancello, limite estremo dei possedimenti olimpici, una
strana sensazione la invase.
L’eccessiva quiete del bosco, il malinconico ricordo
dei giorni in cui Bronte del Tuono occupava il
valico, impedendo a qualunque estraneo di accedere al Monte Sacro, nonché i
timori di Zeus per l’ultima guerra, rallentarono il suo passo, incutendole un
insolito timore. Ma, più di ogni altra cosa, la atterrì l’odore di sangue che
permeava l’aria. Acre, pungente, a tratti nauseabondo. Le venne sbattuto in
faccia da un’improvvisa, quanto insolita, brezza, che le fece gelare il sangue.
Soprattutto quando capì da dove proveniva.
Gettando a terra il bel mazzo di rose, Demetra
iniziò a correre, lasciandosi il sentiero alle spalle e sfrecciando in mezzo
agli alberi, giungendo in un lampo di fronte alla casetta di legno. La porta
divelta, la cucina messa a soqquadro, schizzi di sangue sul muro. E i corpi
massacrati di Elena e Deucalione sul pavimento, le
mani e i piedi recisi dagli stanchi corpi e messi a bollire in un pentolone sul
caminetto.
Di fronte a quell’orrore, Demetra vomitò.
Per quanto avesse visto passare tutte le ere del
mondo, e le barbarie a cui spesso uomini e Dei si abbandonavano, quella
violenza gratuita la scosse più di altre guerre passate, forse perché la
toccava vicino. O forse perché adesso avrebbe dovuto trovare la forza di
annunciare a Nikolaos la morte dei suoi genitori,
morte che non era riuscita ad evitare.
A cosa giova
essere una Dea, allora, se non possiamo proteggere i nostri cari? A cosa
servono i nostri poteri se dobbiamo assistere impotenti a tutte queste stragi?
Non seppe rispondersi, prostrata a terra da un nuovo
conato di dolore.
***
La
prima cosa che Pegasus e Phoenix notarono entrando nel settimo anello del regno
lunare furono le fiamme. Un’immensa distesa di vampe infuocate che pareva
divorassero ogni cosa sul loro cammino. Quella che un tempo era stata una bella
pianura fiorita, dove gli animali potevano correre in libertà, era stata
fagocitata da una fiamma la cui impronta Pegasus ben conosceva.
“Aresss!!!” –Gridò. E la sua voce fece ondeggiare le vampe
infernali, fino a rivelare una striscia di terra ancora intatta in cui il
ragazzo e l’amico si lanciarono, giungendo infine al centro del Cerchio di
Urano, in una radura ove il custode stava combattendo.
Shen Gado
aveva parlato loro al riguardo ma Tecciztecatl si presentò ben più bizzarro di
quanto lo avessero potuto immaginare. Era un uomo vecchio d’aspetto, dalla
barba canuta e dalle folte ciglia bianche, così folte che gli coprivano parte
degli occhi, e indossava un’armatura tanto coprente quanto originale, il cui
simbolo era decisamente un coniglio. Riprova diedero loro l’elmo marrone, cui
erano fissate due lunghe e affusolate orecchie, la coda corta e la copertura
per i piedi, decisamente ben più grande di quelle solitamente in uso. Ma per
quanto anziano, il guardiano del Cerchio di Urano pareva non essere privo di
vigoria, tanto intento era a fronteggiare un gruppo di Phonoi
da non essersi neppure accorto dell’arrivo dei due Cavalieri di Atena.
“Muori,
vecchiaccio!” –Ringhiò un guerriero, mulinando un’ascia da guerra. Ma
Tecciztecatl fu svelto a balzare a piedi uniti all’indietro, evitando al
contempo anche l’affondo di una lancia.
“Vecchio
sì, ma non stolto!” –Commentò calmo il Selenite di Urano, allungando una mano
dietro la schiena e afferrando quello che a Pegasus parve il fondo di un
pentolone ma che, guardando meglio, identificò come il guscio di un’enorme
conchiglia. Tecciztecatl la impugnò come fosse uno scudo, parando con essa gli
affondi delle armi nemiche, prima di travolgerne un paio con una sfera di
energia.
I Phonoi rimasti si riunirono tra loro, puntando le lame
verso il vecchio custode e tartassandolo con una sventagliata di attacchi
energetici, impegnandolo sulla difensiva, fino a farlo crollare a terra per il
contraccolpo. Pegasus e Phoenix decisero di intervenire in quel momento.
“Fulmine di Pegasus!!!” –Gridò il
ragazzo, sfrecciando in mezzo al gruppo di nemici e massacrandone a decine con
i suoi pugni lucenti. Quelli che furono svelti abbastanza per gettarsi di lato
vennero raggiunti dalle piume infuocate della fenice, che maciullarono i loro
volti, prima che Phoenix piombasse tra loro, scaraventandoli lontano con un
solo battito d’ali.
“Oh
meno male! Credevo avrei dovuto combattere ancora da solo! Non ho più il fiato
per queste imprese!” –Borbottò Tecciztecatl, prima di guardare stranito i due
nuovi arrivati. –“E voi chi siete? Credevo che Mani o Thot
fossero giunti in mio soccorso!”
“Non
da solo dovrai lottare, valoroso Tecciztecatl, ma al fianco dei Cavalieri di
Atena, qua per prestarti aiuto, se ci concederai questo onore!” –Esclamò
Pegasus, presentando se stesso e l’amico.
“Da
quando morire in guerra è un onore, ragazzo?!” –Bofonchiò il Selenite di Urano,
salvo poi ringraziare entrambi per il loro intervento. –“Sarei voluto correre a
difendere la breccia nel Settimo Cerchio che questi dannati han creato, ma le
fiamme che mi circondano mi intimoriscono. Ho una paura dannata del fuoco,
ragazzo, una fobia che mi perseguita da secoli.”
“Paura
del fuoco?! Quale eresia!” –Ringhiò allora una quarta voce, risuonando feroce
per tutto il cerchio e scuotendo le vampe fino in profondità. –“Pirofobia
significa paura della vita! Perché il fuoco è la fiamma dell’esistenza, l’olio
che apre i cancelli della vittoria! Della mia vittoria! Ahrahrahr!”
“Umpf… mostrati, canaglia, e vediamo di regolare i nostri
conti una volta per tutte!” –Ironizzò Pegasus, strusciandosi il naso divertito,
mentre Phoenix, al suo fianco, muoveva lo sguardo sull’oceano di fiamme attorno
a loro, cercando di individuare la provenienza di quella voce che entrambi ben
conoscevano.
“E
sia! Fiat fŏcus!” –Commentò il
creatore delle vampe di fuoco, mentre queste si allargavano di lato, mostrando
l’avvicinarsi di un carro da guerra, che proveniva dall’ormai distrutto Cerchio
di Nettuno. Seduti in bella mostra, sul pianale anteriore del carro, un uomo e
una donna dai perfidi sguardi sorridevano estasiati, inebriandosi dell’aria di
lotta armata che permeava il suolo lunare.
“Ci rivediamo, Cavaliere di Pegasus! E a quanto vedo
sei ancora il solito bamboccio impertinente! Il tempo non ti ha fatto maturare
se ancora non hai capito quanto vano sia il tuo claudicante agire!” –Esclamò Ares,
Dio della Guerra, alzandosi in piedi sul carro e fissando gli avversari
dall’alto, con disprezzo e superiorità.
Il suo aspetto fisico era lo stesso di mesi
addietro, quando si erano scontrati ai Templi dell’Ira, il volto da bello e
bastardo, un filo di barba incolta, ma la scarlatta Veste Divina era
immacolata, priva di graffi, tirata a lucido per l’ultima guerra. Nella mano
destra stringeva una lunga lancia avvolta dalle fiamme, simile a quelle degli
antichi opliti, la cui punta gocciolava ancora del fresco sangue di cui si era
imbevuta.
“Non posso dire di esserne felice, Ares!” –Ironizzò
Pegasus. –“Ma farò buon viso a cattiva sorte. Cos’altro potrei fare? A parte,
si intende, riempirti di botte!” –Non aggiunse altro e scattò avanti a pugno
teso, liberando migliaia di comete di energia.
“Al tuo posto!” –Ringhiò il Nume, muovendo con
rapidità la lancia in un’infinita serie di affondi, ciascuno perfettamente
mirato a distruggere ogni singola sfera energetica, vanificando l’intero
assalto di Pegasus. –“Dòruàimatos!”
–Latrò, mirando a una coscia del Cavaliere, che fu svelto a gettarsi di lato,
piombando nell’oceano di fiamme ma riuscendo a evitare la lama.
“Ragazzo!!!” –Gridò Tecciztecatl, vedendo le vampe
rossastre chiudersi su Pegasus, come petali di un fiore, e temendo per lui.
Scambiò una rapida occhiata con Phoenix prima che entrambi si lanciassero
avanti.
“Ce n’è anche per te, stai tranquillo, vecchio!”
–Tuonò Ares, volgendo lo sguardo su di loro e scagliandoli indietro, ben oltre
il limitare del cerchio di fiamme, tra i cadaveri dei Phonoi
ormai divorati dalle vampe scarlatte.
“Aaahhh!!!” –Urlo il Selenite di Urano, travolto da
un improvviso e fecondo terrore. Pareva che ovunque si girasse lingue di fuoco
lo avvolgessero, insinuandosi negli spazi liberi della sua corazza e
divorandogli il corpo. D’un tratto, Tecciztecatl vide se stesso ossuto e
rachitico camminare in un oceano di magma, il volto scavato dalle gocce di lava
che gli cadevano dagli occhi, la bocca vomitante sangue e fiamme. Disperato, si
portò le mani alla testa, strappandosi l’elmo, spezzando le orecchie di
coniglio e iniziando a darsi colpi sul capo, per cancellare quelle visioni, per
spazzar via quel presente di vecchiaia, dolore e morte in cui era precipitato,
così lontano dai fasti cui pareva essere destinato quando era giovane. Quando il mondo era giovane.
“Sarei potuto essere il Dio del Sole…”
–Mormorò, ricordando la giovinezza nelle terre che in seguito sarebbero state
chiamate America. –“Se non avessi avuto paura del fuoco. E invece divenni
Signore della Luna e Nanauatzin, più umile e
coraggioso, prese il posto che avrei potuto ottenere, sacrificandosi nelle
fiamme per continuare a brillare per il mondo e per gli uomini.”
“Non… cedere ai ricordi…” –Disse infine una voce, spezzando le visioni del
custode del Cerchio di Urano. –“Non dargliela vinta, a quel bastardo di Ares!”
–Aggiunse, permettendo a Tecciztecatl di riconoscere il giovane Pegasus,
anch’egli intento a lottare con le vampe infuocate. –“Sei vittima del suo colpo
segreto, le Onde di Terrore, con cui
fa emergere le paure nascoste nell’animo di ognuno. Trova la forza di
fronteggiarle, non farti divorare dall’amarezza di ciò che fu!”
“Hai…ragione…
ragazzo! Tecciztecatl non sarà vinto da un rimpianto!” –Riconobbe infine il
Selenite di Urano, bruciando il proprio cosmo, sempre di più, ricordando la
magnificenza di un tempo, i regali preziosi e il corallo che gli uomini gli
offrivano, l’inebriante sensazione di essere un Dio. –“Per il sole e la luna,
se hai ragione! Grazie, figliolo!”
“In fondo, sono solo trucchi da cartomante!”
–Ironizzò Pegasus, che nel frattempo si era rimesso in piedi.
“Oh, davvero?!” –Ghignò Ares, balzando con
un’agilità improvvisa nello spiazzo, proprio in mezzo a Pegasus, Phoenix e
Tecciztecatl. Impugnando la lancia al centro, la mosse a spazzare, colpendo il
Cavaliere della Fenice tra collo e spalla, sbattendolo a terra, quindi,
roteando l’asta vorticosamente, si preparò a parare la tempesta di pugni che
Pegasus aveva già scatenato.
Uno dopo l’altro i suoi colpi si spensero sull’arma
di Ares e alcuni gli vennero persino rimandati indietro, obbligando il ragazzo
a balzare di lato. Ma quando vide il Dio impugnare di nuovo saldamente la
Lancia di Sangue, Pegasus sollevò le difese, concentrando i sensi per parare
l’affondo. In un attimo Ares prese la mira e colpì.
Pegasus non riuscì neppure a gridare, tanto rapido e
sorprendente era stato quell’attacco. Poté solo osservare il corpo ferito di
Tecciztecatl accasciarsi a terra, con uno squarcio sul ventre, laddove la Dòruàimatos lo
aveva trapassato, dopo un’ultima veloce rotazione.
“Bastardooo!!!” –Gridò
Pegasus, scattando avanti e lasciando esplodere il suo cosmo.
Phoenix, che intanto si era rimesso in piedi, corse
ad affiancare l’amico ma un tridente si conficcò proprio di fronte a lui,
esplodendo e scagliandolo indietro.
“Non ti sarai dimenticato di me, bel giovane?!”
–Rise sguaiata una donna dai crespi capelli blu. –“Sarebbe scortese non
dedicare le giuste attenzioni a una signora, soprattutto se è di carattere
pretenzioso come lo sono io! Ah ah ah!”
Il Cavaliere della Fenice strinse i denti,
preparandosi al periglioso scontro con un secondo demone del loro passato
recente. Discordia, Dea della Contesa e Madre dei Mali, pareva non attendere
altro.
***
Che
Andromeda fosse inquieto era evidente.
Il
suo sguardo guizzava dalla grande vetrata esterna, su cui balenavano vampe e
folgori di scontri lontani, alla Dea che doveva proteggere, la fanciulla dai
capelli viola inginocchiata a mani giunte al centro dell’Occhio, immersa nella
sua preghiera fin da quando Pegasus e gli altri avevano abbandonato la reggia
di Selene.
Per dare loro forza. Per essere le ali
in grado di tenerli in piedi quando le gambe non li reggeranno più. Così Atena aveva motivato la sua scelta, quando la
Dea della Luna le aveva chiesto se non preferisse una più comoda sistemazione. Ho sopportato ben altro che il marmo di un
pavimento. Aggiunse, riferendosi alle rigide temperature di Asgard o ai
flutti oceanici che l’avevano quasi affogata nella Colonna Portante. E come lei
avevano fatto i suoi Cavalieri, di cui Andromeda faceva parte, anche se per
tanto tempo si era sentito scomodo in quei panni.
Lei
lo capiva, voleva essere là fuori, a dare la vita per il fratello e i suoi
compagni. E non a fare da balia a una Dea che pareva non essere mai in grado di
difendersi.
“Va’!”
–Si limitò a dirgli Lady Isabel, non appena il ragazzo le si avvicinò, per
verificare che non fosse troppo stanca.
Andromeda
la fissò con sguardo incuriosito, prima che Atena gli rinnovasse l’invito ad
andare. –“Saprò difendermi!” –Aggiunse, rivelando un oggetto nascosto sotto la
lunga veste bianca. Qualcosa di cui neppure Pegasus era a conoscenza.
Il
Cavaliere annuì, ringraziando la Dea e porgendo i propri saluti a Selene che,
circondata da una decina di figlie, sedeva sconsolata al tavolo rotondo,
interrogandosi sul futuro del suo reame. Quindi corse via nei corridoi del
santuario, scendendo al piano inferiore e cercando la via che conduceva al
Primo Cerchio. Fu proprio prima di uscire dalla reggia che lo sentì, un odore
particolarmente acuto.
Un
odore di salvia bruciata.
Storcendo
il naso, stranito, Andromeda mosse qualche passo verso un salone laterale, da
cui l’aroma pareva provenire. Il portone di accesso era quasi del tutto
accostato, soltanto uno spiraglio permise al Cavaliere di cogliere le voci
dall’interno, pur non riuscendo a vedere in faccia coloro che stavano parlando,
due uomini sicuramente. Per quanto fossero vicini, pochi passi, non di più,
Andromeda faticava nell’udire quel che stessero dicendo.
“La
situazione è ben più preoccupante di quanto abbia lasciato trasparire durante
il consiglio. Mai avrei immaginato che avrebbero mosso guerra al reame della
Luna Splendente! Di tutti i regni divini, ero certo che questo sarebbe stato
l’unico a rimanere completamente al sicuro. Non credevo neppure fossero a
conoscenza della sua esistenza!” –Esclamò la prima voce.
“Ne
eravamo tutti convinti, non devi crucciarti. È un errore che l’intera gilda ha
commesso, persino io che a lungo in quest’Eldorado ho dimorato.” –Rispose un
secondo uomo.
“Non
è soltanto il regno di Selene ad essere sotto attacco.” –Riprese allora la
voce, stupendo il suo interlocutore. –“Si stanno risvegliando, Asterios! Come il cosmo dei Titani e del loro signore Crono
ridestò creature nel mito a loro fedeli, ugualmente il suo ritorno sta
richiamando in vita la sua oscura progenie. Bestie immonde minacciano
l’equilibrio del mondo e presto cingeranno d’assedio altri regni divini, per
fame, spirito bellico o vendetta! Non abbiamo le forze per difenderli tutti!”
“Dobbiamo intervenire all'istante allora, estirpando
la mala erba prima che cresca!” –Incalzò l’altro, venendo subito rassicurato
dal compagno.
“Ho già dato mandato a un nostro comune amico di
occuparsene! Del resto, nessuno più di lui è desideroso di scendere in guerra!”
“Quello che non capisco è come abbiano potuto
scoprire l’ubicazione del talismano, perché è chiaro che sono qua per questo! Solamente
noi quattro sapevamo dove era nascosto e siamo stati più che attenti a
rivelarlo ad altri!”
“A ben pensarci…” –Mormorò
il primo uomo. –“Eravamo in cinque a saperlo.”
“Cinque?!
Ma Anhar non ha mai saputo niente di ciò!”
“Non
mi riferivo a lui, ma al mio mentore.” –E, non appena ebbe pronunciato quella
frase, Avalon capì. –“Lo ha appreso da lui!!! Dai suoi ricordi, dalla sua
coscienza prigioniera dell’ombra che lo aveva invaso sulla cima dell’Isola
Sacra! Ecco perché Anhar mi ha attaccato giorni fa!
Non voleva uccidermi, no! Voleva soltanto le memorie del Primo Saggio,
succhiargliele fino all’ultima stilla di linfa vitale! E così facendo, oltre ad
aver ghermito la sua vita, ha appreso anche quel che Tegel
sapeva! La vera natura dei Talismani!”
“Quel
farabutto!!!” –Ringhiò il suo interlocutore. –“Ora capisco gli istinti omicidi
di Andrei… Anch’io vorrei averlo tra le mani per…” –Ma nel vedere lo sguardo rattristato del compagno, Asterios addolcì il dono della voce, prendendogli le mani e
obbligandolo a guardarlo negli occhi. –“Mi dispiace per il tuo mentore, era un
brav’uomo, ci ha addestrato e preparato per molti anni al secondo avvento.
Rimpiango la sua tragica fine.”
“Non
farlo! La sua
missione è compiuta. Egli adesso è con il talismano, egli è il talismano, e gli
darà sempiterna forza!” –Concluse Avalon, mentre una lacrima gli colava giù
dagli occhi argentei. Quindi si voltò verso il portone, spalancandolo con la
sola forza del pensiero e spingendo Andromeda a balzare indietro di scatto, per
non essere investito in pieno.
“I tuoi sensi sono acuti, Cavaliere, se sei riuscito
a percepire la nostra presenza in questa sala, nonostante avessi avvolto i
nostri corpi in una nebbia atta a celarli, e bruciato della salvia per coprire
le nostri voci.” –Sorrise Avalon, prima di aggiungere, con fare interrogativo.
–“Di una cosa però sono stupito. Che tu abbia compreso la nostra
conversazione.”
“Non era mia intenzione mancarvi di rispetto, mio
Signore. Mi sono semplicemente trovato…”
“Non è quello che intendevo. Ci sarà tempo per
parlarne con Atena e Pegasus, quando Ares e Discordia saranno sconfitti. No, mi
riferivo ad altro. Spiegami, Cavaliere di Andromeda, come sei riuscito a capire
quel che stavamo dicendo, nonostante stessimo parlando in antico gaelico?”
Andromeda
sgranò gli occhi esterrefatto. Fece per rispondere qualcosa, dire ad Avalon
chesi sbagliava, che non era possibile
che avessero parlato in quella lingua a lui ignota, quando infine, dagli abissi
della sua coscienza, emerse una luce lontana. Un unico nome che già gli aveva
offerto un dono straordinario.
Capitolo 7 *** Capitolo quinto: Primo interludio ***
CAPITOLO QUINTO: PRIMO INTERLUDIO
LUCE.
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Ventesimo anno prima del secondo avvento.
La diga di cemento armato si ergeva a poche miglia
da lì, stagliandosi verso il cielo fin quasi a coprirlo. Orribile a vedersi,
incombeva sul villaggio ricordando ai suoi abitanti che le loro vite erano
nelle sue mani e che avrebbe potuto prenderle in qualsiasi momento. Reis la
guardava con frustrazione, sapendo di non potersi opporre a quel potere. Così,
quando l’immensa struttura collassò, squarciata da enormi crepe rigurgitanti
fiumane d’acqua, non poté far altro che socchiudere gli occhi, radunare il suo
cosmo e portare le braccia avanti, palmi aperti verso la furia montante, per
generare una barriera con cui affrontare la mareggiata. Consapevole di non
poterla arrestare del tutto, avrebbe quantomeno potuto limitare i danni,
cercando di salvare il maggior numero di persone.
Impaurite e tremanti, le sentì radunarsi dietro di
lei, piangere e implorare il perdono divino, e Reis fu certa di sentire anche
la voce di sua madre e suo padre in quel cumulo di anime tristi, sebbene non
fosse in grado di distinguerle, né loro potessero vederla. Sospirò, riportando
lo sguardo sulle braccia tese avanti a sé, concentrate nel generare un cuneo di
luce che permetteva alla gigantesca marea di defluire ai lati della barriera,
lasciando intatto il villaggio che si apriva alle sue spalle.
Posso farcela! Disse a se stessa, per
quanto la pressione sulle sue gracili braccia stesse aumentando a dismisura. Stavolta ce la farò! Aggiunse,
stringendo i denti, mentre le vene le si ingrossavano e dalle ferite aperte
sulle mani e sul volto iniziava a zampillare il sangue per lo sforzo eccessivo.
Una nuova ondata, ancor più fragorosa della
precedente, si schiantò sul suo cuneo difensivo, mandandolo in frantumi e
investendo in pieno la ragazza e gli abitanti del villaggio, risucchiandoli in
un torbido vortice di desolazione. Travolta dalla piena, sommersa dalle onde
dei ricordi, Reis si sentì intrappolata, avvinghiata ad alghe da cui non
riusciva a liberarsi, percependone la forza per intero. La afferravano, per
quanto lottasse, la strattonavano, la trascinavano nelle fangose profondità del
passato, togliendole ogni via di fuga. Perché ogni volta che ci provava, ogni volta
in cui invocava aiuto, la sua bocca si riempiva di acqua e fango, il suo
respiro strozzato risuonava macabro su un fondale di morti, liberando solo una
bolla. Un’ultima bolla che, al momento di esplodere in superficie, avrebbe
segnato la sua nuova morte.
Mi… dispiace. Bisbigliò anche quella
volta. Non vi ho salvato!
“Quante volte ancora volete farmi morire?!” –Esclamò
la bambina, aprendo gli occhi e cercando di recuperare il controllo del proprio
battito cardiaco, aumentato a dismisura dopo l’ultima ondata.
“Quante sarà necessario per impedire che ciò avvenga
realmente!” –Commentò calma la voce del suo istruttore, seduto davanti a lei,
con la schiena appoggiata ad un albero di mele.
“E quando sarò pronta?”
“Quando riuscirai a superare indenne i traumi del
passato!” –Si limitò a rispondere il suo maestro, alzandosi da terra e
facendole cenno di seguirlo lungo il sentiero che, tra l’erba, saliva lungo il
pendio dell’isola, passando in mezzo a folti meleti.
Reis adorava correre tra gli alberi, arrampicarsi
sui rami e aiutare le sacerdotesse a cogliere le mele, molto più che stare
china negli orti a strappare erbe o a preparare decotti o infusi. La parte
pratica del suo addestramento, quella prettamente fisica, era quella che
preferiva e che le aveva permesso di essere una bambina in splendida forma,
molto più bella e in salute delle sue coetanee, e gran parte del merito andava
all’ambiente in cui aveva vissuto fin da quando aveva due anni.
“Ricordi il tuo villaggio nel Galles? L’alluvione
che lo spazzò via? Sono passati otto anni da allora ma è ancora nella tua
mente. Lo rivedi, quel momento nefasto, ogni volta in cui chiudi gli occhi,
ogni volta in cui ti addormenti; lo percepisco. Se non sei ancora crollata, se
sei ancora in grado di alzarti e correre, lo devi al cosmo che pulsa dentro te,
lo stesso cosmo che ti ha salvato quando eri ancora una bambina. Non
sottovalutarne la forza, ma non sopravvalutare la tua resistenza. Il tuo
involucro è quello di un essere umano!”
“Sei un uomo buono!” –Esclamò improvvisamente la
piccola, fermandosi al limitare del sentiero e lasciando andare la mano
dell’uomo. –“Saresti un buon padre, sai, maestro?”
“Se fossi tuo padre ti sculaccerei per la tua
impertinenza!” –Commentò questi, alzando l’indice destro.
“Perdonatemi, maestro!” –Chinò il capo la bambina,
prima che alcune sacerdotesse la chiamassero, affinché le aiutasse con la
raccolta delle mele.
Avalon la guardò allontanarsi e correre scalza tra
l’erba, felice, come dovrebbe essere una bambina di dieci anni. E non succube
del peso del mondo. Sospirò, chiedendosi se fosse giusto prenderne la vita,
così, come fosse un bene di sua proprietà, e addestrarla per un solo unico
scopo di guerra.
“Questo è ciò che i Talismani hanno deciso! Non
crucciarti per il suo destino, ma sii fiero per ciò che diverrà!” –Lo raggiunse
allora una voce, mentre l’anziana sagoma del Primo Saggio gli si avvicinò. –“Antalya non avrebbe potuto affidare la Spada di Luce a un
essere umano indegno della sua fiducia! Se lo ha fatto è perché….”
“So perché lo ha fatto! Percepisco anch’io il cosmo
di luce che alberga nell’animo di Reis!” –Precisò Avalon. –“Pur tuttavia non ha
ancora vinto il trauma della sua infanzia, l’alluvione in cui morirono i suoi
genitori! Tutte le simulazioni mentali effettuate lo dimostrano: per quanto
eccella in ogni altra materia, esercizio o difficoltà, non è mai riuscita a
superare quella prova! A liberarsi di quel retaggio! Dovrà avere la mente
sgombra da ogni preoccupazione per poter brandire al meglio il Talismano che le
è stato assegnato!”
“E come pensi di prepararla al riguardo?”
“Chiederò ad un amico di occuparsene!” –Commentò
Avalon, voltandosi verso il mare di nebbia che circondava l’isola. Lo fendette
con lo sguardo, cercando l’alto colle che si ergeva sull’altra sponda del lago,
laddove riluceva pallido, al sole di mezzogiorno, quel che restava di un antico
luogo rituale. Una rozza torre che gli abitanti della vicina cittadina
chiamavano Tor, senza sapere che proprio quella
costruzione era il portale per penetrare i segreti del colle stesso. Era il
varco per scendere all’inferno.
***
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Sedicesimo anno prima del secondo
avvento
“Mi
congratulo con voi! Avete portato a termine un complesso percorso di
formazione, umana e guerriera! Sia io che Andrei siamo fieri dei risultati da
voi ottenuti!” –Esclamò fiero il Signore dell’Isola Sacra, ergendosi ai piedi
del Pozzo Sacro sulla cima di Avalon.
Di
fronte a lui, in rispettoso silenzio, stavano inginocchiati i tre Cavalieri
delle Stelle che per primi avevano risvegliato i Talismani dentro di loro.
“Oggi
siete soltanto tre, ma un giorno sarete sette, quando gli altri prescelti
prenderanno coscienza del cosmo che alberga dentro di loro! Sette come il più
sacro dei numeri in tutte le cosmogonie del mondo! Sette furono le meraviglie
del Mondo Antico, sette i savi greci, sette gli Apkallu
mesopotamici, sette i chakra o punti di forza
nell’induismo, sette le colonne che reggono le volte dei sette mari, sette le
stelle dell’Orsa Maggiore da cui Midgard trasse i
suoi difensori, sette i colori di Bifrost, la via che
conduce a un altro mondo, sette i circuiti del labirinto che secondo la tribù
amerindia dei Tohono O’odham
è scavato nel sacro monte Baboquivari. E infine sette
sono i piani che livellano i pendii del Tor, la
nostra montagna sacra!” –Aggiunse, muovendo appena la mano di lato, in modo da
aprire il velo di nebbia che avvolgeva l’isola e mostrare ai Cavalieri delle
Stelle la cima della collina di Glastonbury, ove i
resti di un’antica torre rilucevano sotto il sole al tramonto. –“Ed è là che
andrete! Per adempiere all’ultima prova, che decreterà se siete degni o meno
della fiducia che i Sette Saggi hanno riposto in voi! Sono certo che
riuscirete, non ho motivo di diffidare della loro scelta!”
“Vi
accompagnerò io!” –Esclamò allora Andrei, facendosi avanti, per una volta privo
della scarlatta armatura e rivestito soltanto da una rustica tunica.
“Reis,
tu andrai per prima!” –Precisò Avalon, prima di mettersi a sedere, in posizione
meditativa, accanto al Pozzo Sacro.
La
ragazza annuì, alzandosi in piedi e incamminandosi dietro al Signore del Fuoco,
senza timore. Per quanto il suo mentore avesse parlato a tutti, era certa che
le sue parole fossero dirette a lei in particolare. Fossero il desiderio di un
uomo di vedere la figlia sbocciare, liberando il cosmo di luce albergante
dentro di lei.
In
silenzio, Reis percorse il sentiero che si inerpicava attorno al colle sacro,
curvando per sette livelli fino alla sommità, giungendovi quando ormai il sole
era tramontato e solo alcune torce rischiaravano l’ingresso ai resti della
tozza torre. Era la prima volta che gli dedicava più di un fugace sguardo e fu
sorpresa nel ritrovarsi a compiangerlo, quel monolite solitario, ultimo resto
di una struttura che le ere del mondo avevano eroso. Ma tu ancora ti ergi, impavida bandiera di solitudine! Perché?
La
risposta le fu chiara dopo pochi passi, quando, entrando al suo interno, si
ritrovò in una cella stretta, priva di aperture, mentre Andrei si fermava
proprio sulla soglia, non osando violarne la sacralità. Senza dire alcunché, le
porse i propri auguri con un cenno del capo, prima che il portone si
richiudesse, lasciandola sola e nel buio più completo. Inspirando
profondamente, Reis si impose di non avere paura, cercando di capire cosa
avrebbe dovuto fare. Socchiuse le palpebre, nel tentativo di strappare una sia
pur debole vittoria all’oscurità, ma non riuscì comunque a vedere alcunché, non
essendoci davvero niente da vedere.
Solo
da sentire.
D’un
tratto possenti correnti d’aria si sollevarono, scarmigliandole le vesti e i
capelli, correnti che, dovette ammettere con stupore, provenivano da sotto di
lei. Dal terreno. No, adesso non c’è più!
Non vi era più traccia del suolo sotto i suoi piedi, vi era solo un vuoto ampio
ove la ragazza stava precipitando, cullata dallo sbuffare di venti caldi. Possibile? Si disse, ricordando antiche
leggende gallesi su forze potenti che dimoravano nella cavità della collina. Che il ventre del Tor
sia davvero la porta per l’Inferno?
Più
precipitava e più gli sbuffi aumentavano di intensità, divenendo correnti
birichine che spiravano da ogni direzione, schiacciandola, comprimendola,
torcendole braccia e gambe in pose innaturali, al punto da far scricchiolare
ogni osso del suo corpo. Decisa a reagire, Reis espanse il proprio cosmo,
sempre di più, per generare una bolla di energia che potesse ripararla dalle
fastidiose lame di vento. Ma per riuscirvi, per stabilizzare la discesa agli
inferi, dovette bruciare la propria energia interiore come mai aveva fatto
prima, poiché sentiva che ancora non bastava, che i risultati ottenuti finora
erano insufficienti, e non l’avrebbero salvata. Il controllo dei cinque sensi,
la perspicacia offerta dal sesto, persino la padronanza del settimo senso, che
faceva di lei un Cavaliere di livello superiore, ancora non bastavano. E allora
ricordò le parole di Avalon, le parole con cui l’aveva salutata poc’anzi.
“C’è sempre un oltre cui ambire. In tutte le cose.”
Eccolo.
Quello era il suo confine da superare.
“Aaahhh!!!” –Reis bruciò ogni stilla di cosmo, generando
onde di luce che annientarono le correnti d’aria e frenarono la sua caduta, o
così le parve poiché poco dopo si ritrovò con i piedi su qualcosa di solido.
Voltando
lo sguardo attorno capì di essere su un suolo di roccia dura, al centro di una
grande caverna sotterranea. La luminosità era scarsa e sembrava provenire dal ruscellare stanco di un fiumiciattolo che scorreva a pochi
passi da lei. Per il resto non c’era altro, solo un sepolcrale silenzio.
“Ben
fatto, ragazza! Proprio ben fatto!” –Parlò una squillante voce all’improvviso,
facendo trasalire il Cavaliere delle Stelle, che spostò lo sguardo in ogni
direzione per individuarne la provenienza. –“Del resto, se tu non avessi
risvegliato l’Ottavo Senso saresti morta! Perché ai vivi non è certo permesso
rimanere in Annwn!”
“Che
c’è, non ti piace? Non è di tuo gusto? È strano che tu lo pensi, del resto sei
tu che così lo stai immaginando!” –Aggiunse la voce, mentre una fulgida polvere
di stelle iniziava a cadere sulla riva del torrente, depositandosi su una
roccia sull’altra sponda. Là, su quel masso, apparve poco dopo un’evanescente
figura, dai contorni indistinti, tanto che Reis ebbe bisogno di avvicinarsi per
poterla osservare bene.
Sorrideva,
l’uomo seduto sulla roccia, inzuppando i piedi nudi nell’acqua del rio e
divertendosi a schizzettare la ragazza, che stordita si chiedeva chi fosse quel
bizzarro personaggio.
“Già
conosci la risposta alla tua domanda! Se questo è Annwn,
io non posso che esserne il sovrano! Arawn, per
servirti!” –Esclamò l’uomo, balzando in piedi e accennando un inchino tra mille
sorrisi.
“Il
signore dell’Altro Mondo celtico…”
“Già
già, è uno dei miei tanti titoli, ma tu puoi chiamarmi soltanto Arawn! Come io ti chiamerò Reis, è questo il tuo nome non è
vero, graziosa bambina?”
“Non
sono una bambina! Ho tredici anni, sono una ragazza ormai!” –Rispose lei, con
tono infastidito.
“Ouch! Una vera adulta! E allora dimmi, dall’alto della
saggezza accumulata in così tanti anni di vita, sai cosa facciamo adesso? Non
lo sai? Oh, eppure è molto semplice! Giochiamo!” –Rise Arawn,
facendo una capriola e ruzzolando all’indietro, senza mai cadere a terra,
limitandosi a rotolare a mezz’aria. –“Sono sempre solo in queste terre oscure,
nessuno viene mai a trovarmi, nessuno di vivo, intendo, e non voglio perdere
l’occasione per divertirmi un po’!”
“Non
sono qua per giocare, Arawn! Devo adempiere alla mia
missione di Cavaliere!” –Esclamò Reis, capendo di aver perso anche fin troppo
tempo con quel buffone che tutto sembrava fuorché un potente e intimorente
sovrano infernale.
“Uh
uh! Un buon proposito il tuo, ma temo che dovrai posticiparlo! Non è buona
educazione rifiutare l’invito di un re! La tua mamma non te lo ha insegnato?”
–Ghignò Arawn, mentre Reis si voltava a fissarlo con
sguardo duro. –“Suvvia, mettiti comoda! Non ci vorrà molto!” –E schioccò le
dita, con cui fece sollevare un masso dal suolo per permettere alla ragazza di sedervisi. –“Beh, in verità potrebbe essere un gioco molto
veloce! Tutto dipende, come dire, da quanto sarai abile…
a sopravvivere!” –Aggiunse sibilando e mostrando a Reis la sua bianca
dentatura, una sfilza di lame di luce che sembrarono trafiggerle il cuore.
La
ragazza si mosse svelta per andarsene ma si accorse di non riuscire a muoversi,
bloccata a sedere dalla presa mentale del suo interlocutore, che aveva appena
fatto comparire un libro nella sua mano. Un robusto tomo di carta ingiallita che
presentò come Mabinogion.
“Questo, cara mia, è uno
dei PreiddeuAnnwfn,
i tesori dell'Annwn, più prezioso persino della mia
muta di levrieri da caccia! E sai cosa rende magico questo testo? Il fatto che
chiunque, compresa tu, litigiosa e bellicosa bambina dagli occhi verdi, è
costretto a fare tutto quel che c’è scritto! Senza possibilità alcuna di
opporsi!”
“Che cosa? È assurdo!
Perché dovrei farlo?”
“Perché?! Ah ah ah! Come perché? Non è ovvio?!” –Sghignazzò Arawn, chinando il volto e allungando il collo fino a
portarsi di fronte allo sguardo preoccupato di Reis. –“Perché io lo comando! Ah
ah ah! E ora balla, bambina! Balla per me!” –E le
gambe di Reis iniziarono a muoversi e a battere il ritmo, pur senza molta
grazia, costringendo il corpo della ragazza a prodigarsi in piroette e estrosi
giri di vita, di fronte allo sguardo divertito del signore dell’Oltretomba.
“Tutto questo è stupido!
Smettila!!!” –Gridò con rabbia il Cavaliere di Luce.
“Davvero? Beh, se non
vuoi ballare, vattene! Che c’è? Non sai dov’è l’uscita?!” –Ironizzò Arawn, mentre Reis stringeva i denti, non riuscendo a
opporsi al potere mentale che l’aveva resa suo burattino. –“Uff,
quanto sei noiosa!” –E l’uomo schioccò le dita, liberandola dall’asservimento.
–“In tutta onestà, sei un caso disperato! Mai visto una donna ballare peggio di
te! Hai la sensualità di una scopa di saggina! Alla tua età, in una corte medievale, avresti
già ricevuto i rudimenti per diventare un’ottima dama e non una…una… beh, quel che sei!”
“Non voglio essere una dama di corte! È roba da
femmine deboli!” –Bofonchiò Reis.
“E cosa vuoi essere?”
“Un guerriero!” –Rispose fiera.
“E perché?”
Quell’interrogativo sembrò impensierirla per un
momento, lasciandola in silenzio e forzandola a chiedersi davvero cosa volesse.
Per sé.
“Ok, cambio domanda!” –Ironizzò Arawn,
alzando le braccia al cielo.
“Smettila di farmi domande, voglio andarmene!”
“Non puoi!”
“E perché?”
“Non è ovvio? Perché io te lo vieto!” –Rise Arawn, aprendo il Mabinogion e
bloccando la ragazza sul posto. –“Sei orfana, in fondo, dove vorresti andare?
Non hai una casa o una famiglia che ti aspetti, nessun focolare cui fare
ritorno!”
“Voglio tornare ad Avalon, dal mio maestro e dai
miei compagni!”
“Da quei druidi vecchi e bavosi? Una compagnia ben poco
divertente! Nemmeno salutano quando, morti e decrepiti, discendono nelle mie
profondità! Ma se ne senti la mancanza, sarò gentile e vi farò riunire!”
–Esclamò Arawn, sfiorando il libro, mentre dalle
pagine ingiallite sorgevano alcune fulgide evanescenze che presto assunsero la
sagoma dei druidi e delle Sacerdotesse dell’isola sacra. Reis sussultò
riconoscendone i volti, stanchi ma sapienti, carichi di una gentilezza che non
le avevano mai fatto mancare in quegli anni. Li vide voltarsi verso di lei, cercare
di sorriderle, sforzarsi di non farla preoccupare, e poi li vede contorcere,
avvilupparsi su loro stessi e ardere, consumandosi intensamente nell’arco di
brevi istanti.
“Cosa stai facendo? Che hai fatto?!”
“Li ho portati da te! Non mi avevi detto che ti
mancavano?”
“Ma li stai uccidendo!!!”
“È naturale! Sono vivi, non hanno risvegliato
l’ottavo livello della conoscenza, per cui non possono rimanere in Annwn. Se non da morti!” –Rise Arawn,
continuando ad evocare sagome di persone a Reis note. –“Non approvi? Poco
importa! Non hai certo modo di impedirmelo!”
“Lo credi tu!” –Avvampò la ragazza, bruciando il
proprio cosmo, adesso per una ragione ben precisa. Difendere coloro che
l’avevano accolta nella loro casa, dandole persino un nome, e verso cui provava
infinita riconoscenza. –“Ardi, cosmo di luce!!!” –Gridò, mentre le sue vesti
andavano in cenere e la sua morbida pelle veniva ricoperta da una scintillante
corazza dalle forme aerodinamiche. –“Pagherai per la tua malvagità, Arawn!!!” –Urlò, lanciandosi contro di lui, il pugno carico
di energia cosmica.
“Uhm… Può darsi!”
–Commentò il re degli inferi, portandosi una mano davanti alla bocca, incapace
di trattenere uno sbadiglio. –“O forse no!” –Aggiunse, fissando con sguardo
malizioso il Cavaliere delle Stelle. –“Mabynnogyon!”
La corsa di Reis si
interruppe bruscamente, con il braccio piegato e pronto a colpire ma senza
poterlo portare del tutto avanti. Frustrata, la ragazza tentò di bruciare
ancora il cosmo, ma venne spinta indietro da una mossa violenta di Arawn che le sbatté letteralmente il libro in faccia,
scaraventandola contro una parete della caverna.
“Tuttut!
Non sottovalutare il potere delle parole, ragazza! Sono come pugnali, a volte,
e possono penetrare in profondità! Tornando a noi…
dove eravamo rimasti? Ah sì, non vuoi essere la mia ballerina! Poco male, il
mondo dell’arte non subirà una grave perdita, ma cos’altro potresti essere?!”
“Io… so già chi sono!”
–Esclamò Reis, rimettendosi in piedi a fatica. –“Sono il Cavaliere di Luce e
questa è la mia lama!” –Aggiunse, alzando un braccio al cielo e evocando il
Talismano da lei custodito. –“Spada di
Luce!!!” –E scattò avanti, brandendo l’arma e liberando migliaia di
fendenti energetici, che saturarono in fretta la cavità sotterranea,
dirigendosi verso Arawn, aggredendolo come fauci da
ogni direzione.
“Mabynnogyon!” –Tuonò di nuovo il sovrano infero,
fermando l’assalto di Reis, paralizzandolo in un preciso momento del tempo
cosmico e disperdendolo poi con un semplice movimento del braccio. –“Sei
migliorata! Ma non è abbastanza!” –Le disse, prostrandola a terra con il suo
potere mentale, mentre la forma del Mabinogion
aumentava a dismisura, sprofondandola al suolo.
Schiacciata da tale
devastante potere, Reis sentì in bocca il sapore della sconfitta, nella forma
dei grumi di terra che le cascavano sul viso. Ansimò, decisa a resistere,
riversando tutta la sua forza nelle braccia sollevate sopra di sé, per cercare
di frenare la pressione dell’antico tomo. Tossì, respirando a fatica, la bocca
impastata, la trachea che non riusciva a filtrare aria. Si sentì soffocare,
ricordando di essersi già sentita così. Quel giorno.
“Non…
può succedere di nuovo!” –Rifletté, ripensando a coloro che aveva perso. Coloro
che, troppo giovane e inesperta, non aveva potuto salvare. –“Non accadrà di
nuovo! Ho giurato a me stessa che finché sarò viva nessun amico morirà perché
io non ho saputo difenderlo! Onorerò coloro che mi hanno dato una nuova vita, una nuova luce!”
–Esclamò, lasciando avvampare il suo cosmo, lasciandolo libero di espandersi
come una supernova, rischiarando la caverna, le viscere del Tor,
il tramonto di Avalon.
“Era quello che volevo sentire!” –Commentò Arawn appagato, mentre Reis, impugnata la spada, la
sollevava in alto, lacerando il Mabinogion con mille
strali di luce, prima di balzare fuori e lanciarsi verso di lui. –“Flashingsword!!!”
I dardi sfolgoranti trapassarono la figura del re
infero, dilaniandone le forme fino a smembrarla. Solo all’ultimo istante,
esaurita la carica dell’attacco, Reis notò che Arawn
sorrideva.
Avrebbe voluto chiedergli spiegazioni ma si accorse
di non riuscire più ad esercitare alcun controllo sul suo corpo, mentre il
paesaggio attorno a sé sembrava mutare, il sovrano infero scomparire e la
caverna dissolversi in una volta stellata. Riconoscendo l’odore di brughiera,
Reis si voltò, capendo di essere tornata a casa, sulla cima del Tor, e trovò Avalon di fronte a sé, le mani giunte, in
chiaro segno di attesa.
“Hai superato il trauma
della tua infanzia, ragazza! Adesso sei pronta per affrontare il mondo, con
tutti i suoi pericoli!”
“Se permettete, maestro mio,
vorrei chiamarmi Reis di Lighthouse, in onore vostro
e dei druidi che hanno visto in me la luce del domani!” –Esclamò il Cavaliere,
inginocchiandosi.
Avalon le sorrise,
facendole cenno di alzarsi e di seguirlo lungo gli erbosi pendii del Tor, i capelli solleticati dal vento della notte. Reis non
l’aveva notato prima, ma il suo mentore stringeva qualcosa in mano, un piccolo
oggetto d’oro. Forse un anello? Si chiese, sforzandosi di non essere
troppo curiosa, ben sapendo quanto egli non amasse che gli venissero poste
domande.
“È accaduto qualcosa di
spiacevole, Reis!” –Le confessò infine, sulle rive silenti del lago. –“Un amico
ci ha lasciato! E presto dovremo agire, scendendo personalmente in campo!”
“Avete una missione da
affidarmi, maestro?”
“A te e ai tuoi compagni!
Ognuno avrà un obiettivo preciso! Ma ti spiegherò tutto domattina, questa notte
pensa solo a goderti il meritato riposo, fiera dei tuoi risultati!”
“Devo preparare qualcosa?”
“Non credo avrai bisogno
di niente, in quella terra lontana! Vestiti leggeri e forse un cappello per
ripararti il volto dal sole!” –Sorrise Avalon, aprendo infine il velo di nebbia
per tornare sull’isola.
“Fatti
sotto, canaglia!” –Esclamò Pegasus, cercando di mascherare con ironia la paura
che lo strapotere del suo avversario inculcava in lui. Sebbene, alla vista del
Dio armato e sanguinario che gli si stagliava di fronte, nel cuore del Cerchio
di Urano, vi fossero davvero pochi motivi per sorridere.
“Non
aspettavo altro, cane d’un Cavaliere!” –Ringhiò Ares con voce possente,
torcendo le labbra in un ghigno bastardo. La lancia nella sua mano avvampò in
una spirale fiammeggiante mentre il Dio la puntava avanti, in rapidi e
virulenti affondi, che Pegasus fu svelto ad evitare, balzando di lato in lato,
senza uno schema preciso, sperando di trovare un’apertura sufficiente per
contrattaccare.
Ma
Ares non gli dava tempo per riflettere, muovendo l’arma con precisione e
velocità, stupendo lo stesso Cavaliere per l’agilità che pareva dimostrare, pur
con quell’armatura da battaglia che lo rivestiva, utile certamente ma anche
pesante.
Eppure non mostra segni di stanchezza.
Anzi, sembra persino più in forze rispetto al nostro ultimo scontro. Rifletté Pegasus, schivando un affondo nemico, che
aveva mirato dritto al suo viso. E non
difetta di precisione. Aggiunse, con un brivido, ritenendo di non poter
rimanere passivo ancora a lungo. Approfittando di un nuovo tentativo di
piantargli la lancia nel volto, Pegasus si buttò indietro, le ali dell’armatura
ripiegate su se stesse, fece una capriola e atterrò in verticale, molleggiando
sulle mani e usandole poi per darsi una spinta verso l’alto.
“Hop!”
–Esclamò, spalancando le ali del destriero celeste ed espandendo il proprio
cosmo. –“C’è aria pulita, quassù.” –Ironizzò, gettandosi poi sul Dio nemico con
il pugno sfrigolante energia cosmica. –“Fulmine
di Pegasus!!!”
L’attacco
dall’alto obbligò Ares a cambiare posizione, puntando continuamente la lancia
per distruggere ogni singola sfera energetica che il Cavaliere dirigeva verso
di lui, in un impegno continuo e costante che, se pur lo stancò, non lo
rabbuiò. Anzi, nell’ultimo affondo spinse la lancia in profondità, avvolta in
spirali di fiamma che turbinarono attorno al corpo di Pegasus, distraendolo al
punto da farlo sbandare ed esporlo al rinnovato assalto del Dio.
“Sei
mio!” –Digrignò i denti Ares, sollevando un turbine di vampe energetiche con cui
travolse il Cavaliere di Atena, scaraventandolo molti metri addietro, fino a
farlo sbattere contro il muro che separava il Cerchio di Urano da quello di
Nettuno.
Nel
loro continuo scontrarsi, i due contendenti si erano allontanati dal centro del
cerchio, lasciando spazio a sufficienza affinché Phoenix e Discordia potessero
confrontarsi. Anche il resto dell’esercito dei Signori della Guerra era andato
oltre e Ares poteva sentire le loro grida, e quello delle Makhai, infiammare
l’aria, accrescendo in lui la fame di guerra. Del resto, di quella era sempre
stato bramoso, al punto da meritarsi l’epiteto di insaziabile.
Aatospolemoio lo
chiamavano gli antichi greci. E sebbene i secoli fossero passati, gli uomini e
i loro regni nati e sepolti, egli ancora restava il sanguinario, furioso,
distruttore di uomini. E di Dei.
Aggiunse con un ghigno, ricordando imprese recenti.
Divertito,
accostò due dita alla bocca e fischiò, voltandosi verso lo spiazzo ove aveva
ferito il Selenite e lasciato il suo carro da guerra, lo stesso carro che
adesso gli stava venendo incontro trainato da due particolari creature. Anche
Pegasus, appena rimessosi in piedi, le notò, tenendosi la testa stordito dallo
schianto, e non riuscì a reprimere un moto di disgusto di fronte alla nuova diavoleria
del crudele Dio.
“Che
razza di bestie da soma usi?!” –Bofonchiò, osservando le due violacee
evanescenze farsi più vicine, per quanto non riuscisse a distinguerne i tratti.
“Il
motivo per cui sono stato costretto a ritardare il nostro incontro, del resto
due spiriti sono ancora troppo pochi per correre veloce. Ma quando ne avrò
nove, vedrai come sfreccerò. Ben più rapido di quanto non possa muovermi
adesso!” –Sogghignò Ares, ottenendo uno sguardo confuso da parte del ragazzo
che subito chiese chi fossero costoro. –“Spiriti di certo non combattivi come
te, e forse neanche come il vecchio che ho infilzato poc’anzi. Pare che i loro
nomi fossero Chandra e Tsukuyomi,
i custodi dei cerchi più esterni. Misera vita la loro, dimenticati e poco
venerati dai seguaci dell’induismo e dello scintoismo, si sono esiliati dal
mondo solo per incontrare una triste morte su quest’ermo satellite. Triste ma
di certo non veloce. Ooh, no! Sai bene che a me piace… giocare! Ahrahrahr!!!”
“Bastardo!!!
Li hai torturati?!” –Avvampò Pegasus, schizzando avanti, proprio come Ares si
aspettava. Gli bastò muovere un braccio a spazzare per generare un’onda di
energia fiammeggiante con cui investì il Cavaliere di Atena, frenando la sua
corsa e spingendolo in alto, senza difese, esposto al taglio della sua arma.
“Dòruàimatos!!!”
–Tuonò, portando un unico preciso affondo che raggiunse Pegasus sull’interno
del braccio, poco sopra l’ascella, laddove l’armatura divina non lo proteggeva.
Fu un taglio veloce, prima che il Cavaliere spazzasse via le fiamme con
un’esplosione di cosmo e balzasse indietro, a distanza di sicurezza.
Sebbene mai nessuno spazio sia ampio
abbastanza per contenere la furia bellica di Ares. Bofonchiò, toccandosi la ferita sanguinante e
stringendo i denti, per quanto gli dolesse, come se le fiamme dell’inferno gli
avessero invaso l’animo.
Ares
lo notò e ne fu soddisfatto. –“Sei prevedibile! Pur tuttavia mi diverto a
lottare con te, Cavaliere di Pegasus! Mai nessuno mi ha impegnato a fondo come
tu mi obblighi a fare! Tiri fuori il lato migliore di me, sentiti onorato di
ciò!”
“Figuriamoci
il lato peggiore!” –Ironizzò Pegasus.
“Oh,
presto conoscerai anche quello! Meriti di conoscerlo, in virtù dei peccati di
cui tu e i tuoi compagni vi siete macchiati! La colpa più grave ricade su di
voi e porta un nome preciso: hybris!”
“Hybris?!”
“La
tracotanza con cui avete osato sfidare il divino! La superbia con cui avete
violato leggi immutabili che asseriscono la superiorità degli Dei sugli esseri
umani! Solo per questo meritate la morte! Il fatto poi che siate succubi di
quell’insulsa verginella, che da secoli seduce ragazzini in pubertà mandandoli
a morire al posto suo, non fa che aumentare il piacere di uccidervi!” –Ghignò
il sanguigno figlio di Zeus, senza perdersi l’espressione indignata comparsa
sul volto del ragazzo nell’udir parlare in quel modo della sua Dea.
“Non
osare offendere Atena, farabutto che non sei degno neppure…”
“Vedi?!
Ha sedotto anche te! Ahrahrahr! Che cosa ti ha offerto, Cavaliere? Con quale malizia
ha ottenebrato il tuo senso di giudizio, spento la tua obiettività e convintoti
al suicidio? Perché solo morte incontrerai quest’oggi, sfidando Ares Brotoloigos!”
“Che
cosa mi ha dato?! Che cosa mi ha dato?!” –Strillò Pegasus, faticando a reprimere
la rabbia, salvo poi rendersi conto, mentre il suo inconscio rispondeva candido
alla domanda di Ares, che tutto quell’ardore che covava dentro, e che da mesi
reprimeva, non era affatto rabbia ma un sentimento più puro e più bello, capace
di scuotere universi interi. –“Mi ha dato amore!!!” –Ammise, infiammando il suo
cosmo oltre ogni limite, stupendo lo stesso Ares e obbligandolo persino a un
passo indietro. –“Qualcosa che tu non hai mai avuto, né mai avrai! Cometa di Pegasus, splendi!!!”
“Maledetto
moccioso impertinente!” –Ringhiò il Dio, portando avanti la Lancia di Sangue,
avvolta in un turbine di fiamme, e lasciando che l’attacco del Cavaliere vi
collidesse. Per qualche secondo i due poteri rimasero in equilibrio, con
Pegasus che brillava nel suo cosmo azzurrino e Ares che avvampava in mille
striature rossastre. Ma poi, temendo che il ragazzo potesse spingersi oltre, e
consapevole di quel che aveva risvegliato, il figlio di Zeus espanse
ulteriormente il suo cosmo, muovendo il braccio sinistro e liberando un secondo
assalto che prese Pegasus alla sprovvista.
“Ira di Ares!!!” –Ruggì, investendo il
ragazzo in pieno. Per quanto non lanciato a piena potenza, il colpo fu
sufficiente per sbalzare Pegasus indietro, di nuovo contro il devastato muro di
confine, permettendo ad Ares di trafiggerlo una seconda volta con la lancia,
stavolta nell’interno coscia, strappandogli un grido di sofferenza.
“Godo!
Sì, godo come un cane in calore nell’udire i tuoi gemiti selvaggi! Gemiti che
io ti ho procurato!” –Lo irrise il Nume, mentre Pegasus si accasciava a terra,
tenendosi la gamba dolorante. –“Suvvia sono solo due tagli! Sii uomo per
sopportarli! In fondo, quanti me ne hai provocati tu? Due figli almeno me li
hai portati via! Non che mi curassi del loro destino, ma Phobos
e Deimos avrebbero potuto essermi ancora utili!”
“Ti
ascolti quando parli?” –Ansimò Pegasus, faticando nel rimettersi in piedi. –“O
sono solo i deliri di un Dio prossimo al tramonto? Perché se ti udissi,
rabbrividiresti, tanto meschini e vacui sono i tuoi pensieri. I pensieri di un
uomo solo, senza amici, famiglia o amore. I pensieri di un vecchio inacidito
vinto dalla vita.”
“Belle
parole, Pegasus, ti applaudirei quasi, non avessi una mano impegnata a reggere
la lancia che ti perforerà il cuore!” –Rise Ares, manovrando l’arma divina in
nuovi pericolosi affondi. –“Dòruàimatos!!!” –Tuonò, investendo Pegasus con il suo attacco per la terza volta.
Stanco
e ferito, il ragazzo fece appena in tempo a voltarsi, venendo raggiunto sulla
schiena dalla lancia nemica, che gli sfondò l’ala sinistra, conficcandosi poi
nell’armatura, che ne frenò la perforazione.
“Le
vestigia che indossi ti hanno salvato. Merito del mithril
di cui Efesto ti ha fatto dono, l’ultimo rimasuglio
dello splendore olimpico. Quasi mi commuove il pensiero che l’abbia ceduto a
voi, zingari destinati a cadere per mia mano!” –Ringhiò Ares, balzando su
Pegasus e immobilizzando il ragazzo a terra sotto il peso suo e del suo cosmo
infuocato. –“Ma alla lunga anche la miglior difesa ha una falla. Basta una
crepa per far crollare una diga! Ahrahr!” –Ghignò, imprimendo maggior forza alla sua lancia,
nel tentativo di sfondare la corazza e piantarla nel corpo agonizzante di
Pegasus. –“Che c’è, ragazzo? Sei fiacco? Non dormi bene la notte? Io invece sono
fresco di forze e pronto a mille giorni di guerra!”
Il
Cavaliere non rispose, continuando a radunare le proprie energie, pur dovendo
ammettere che le parole di Ares erano vere. Era davvero stanco. Stanco della
guerra, stanco delle morti e delle barbarie, stanco di dover lottare
continuamente senza mai potersi riposare. A volte lo invadeva la consapevolezza
di non aver fatto altro nella vita, di non essere degno di ulteriore ricordo
che non la lapide che avrebbero posto sulla sua tomba, a imperitura memoria del
combattente che non riposava mai.
Eppure…Mormorò, stringendo i pugni, incurante degli affondi
nemici. Tutte queste battaglie, tutto
questo correre e andare avanti, contro sempre nuovi nemici, deve essere servito
qualcosa, non soltanto a riempire lo spazio vuoto di questa parentesi di vita
terrena. Queste battaglie, queste esperienze devono essere servite…
a migliorarmi. A farmi crescere. A essere uomo. Sì!!! Avvampò, espandendo
il proprio cosmo azzurro. Sono un uomo,
prima ancora di essere un Cavaliere. E amo, disperatamente amo!
“Isabeeel!!!” –Gridò il paladino della speranza, lasciando
divampare il suo cosmo, che scaraventò Ares molti metri addietro, facendolo
ruzzolare per la prima volta a terra e perdere la presa della lancia, tanto
intensa era stata la deflagrazione. –“Per noi combatto. Per il nostro futuro.
Non solo per te. Stavolta, anche per me!!!” –Si disse, rimettendosi in piedi,
nello stesso momento in cui anche il Dio della Guerra si rialzava, e
lanciandosi contro di lui, liberando una luminosa cometa energetica.
Ares
non si fece prendere alla sprovvista, scatenando al qual tempo una furiosa
danza di vampe incendiarie, contrastando l’attacco e generando una bolla di
energia cosmica che le due forze in campo alternativamente riuscivano a
spingere verso l’avversario pur senza venirne travolti.
Fu il Nume a spezzare l’equilibrio, concedendosi un ghigno beffardo quando vide
Pegasus respirare a fatica, fino a costringersi a poggiare un ginocchio a
terra, il volto madido di sudore. –“Avevo dimenticato di dirtelo, ma la Lancia
di Sangue è intrisa di curaro. Lo conosci? Un delizioso veleno di fabbricazione
casalinga. Un apprendista della Regina Nera ne strappò la ricetta agli indigeni
di un tempio in Amazzonia, dopo averli torturati! Perdoni la mia smemoratezza?
Sto invecchiando, in fondo! Ahrahr!”
–Rise il Dio, incrementando la potenza del suo attacco fino a travolgere il
Cavaliere di Atena e schiantarlo a terra, facendogli perdere persino l’elmo
dell’armatura. –“Potrei lasciarti al suolo agonizzante e attendere che il
veleno faccia il suo effetto! Potenziato dal mio cosmo divino, impiegherà ben
poco a prenderti la vita, ma sarebbe come concederti un lungo lasso di tempo
che non meriti vivere!”
“Ma..
ledetto…” –Tossì Pegasus, che adesso comprese come
mai i suoi riflessi si fossero appannati negli ultimi scambi di colpi. Fece per
rialzarsi, ma un turbine di fiamme lo piegò a terra, forzandolo a rimanere
immobile intanto che Ares sollevava la lancia e gli diceva addio.
“Oplà!!!”
–Gridò allora una voce, mentre un’esile figura balzava contro la schiena del
Dio, spingendolo in avanti e facendogli perdere la presa sulla lancia,
spezzando anche la concentrazione necessaria per evocare le vampe di fuoco.
–“Appena in tempo, a quanto pare! Sveglia, ragazzo! Hop hop!”
“Abbattuto
da un patetico coniglio lunare?!” –Ringhiò Ares, che aveva riconosciuto il
vecchio custode del Cerchio di Urano. –“La senilità ti ha estorto il senno?!”
–Avvampò, rialzandosi prontamente e dirigendo un violento assalto infuocato
contro Tecciztecatl, che fu lesto a saltare all’indietro, sempre a piedi uniti,
atterrando dietro al carro da guerra, che gli offrì temporaneo riparo dalla
furia del Nume.
“La
senilità mi ha cambiato in molti modi, Ares, ma non mi ha reso indolente o codardo,
solo un po’ smemorato. Ma la vista di quel ragazzo che con disprezzo hai
massacrato mi ha ricordato chi sono! Un Dio di pace, che assieme a otto
compagni accettò l’offerta della greca Selene di
fondare un nuovo mondo, liberi di vivere e invecchiare assieme.” –Commentò
Tecciztecatl, mentre il cosmo infuocato di Ares distruggeva parte del suo
stesso carro. –“Quando abbandonammo la Terra, e i suoi mali, vi lasciammo anche
una parte della nostra essenza divina, quella che dipendeva dalla venerazione e
dall’amore sincero dei nostri fedeli, convinti di poterne fare a meno, di non
averne bisogno nel paradiso che avremmo edificato. Ingenui, non pensammo che ci
avrebbe reso deboli!”
“E
ciò è evidente!” –Tuonò Ares, investendo il Selenite di Urano con una tempesta
di fuoco e schiantandolo a terra, con larghe crepe sulla corazza e la pelle
ustionata. Tecciztecatl tentò di proteggersi con la sua conchiglia, ma il Nume
la distrusse con il suo cosmo rovente, privandolo di ogni difesa.
“Lascialo
stare!!! È me che vuoi!” –Urlò Pegasus, cercando di rimettersi in piedi ma
crollando di nuovo, piegato dal potente veleno che gli mozzava il respiro.
“Ti
sbagli, Cavaliere! Voglio entrambi! Voglio tutto questo mondo!Dòruàimatos!” –Latrò Ares, richiamando la Lancia di Sangue e
piantandola nel palmo della mano di Tecciztecatl. –“Inchiodato al suolo, da
dove potrai guardarmi in lacrime, implorando pietà! Morirai così, vecchio
giullare, nello stesso modo in cui sono morti i vetusti Dei che ti han
preceduto!” –E iniziò a radunare il cosmo sulla punta dell’indice, per liberare
il terribile colpo segreto in grado di far strage del suo animo. E ridurlo al
fantasma di una bestia da soma.
Nell’udire
quelle parole il Selenite di Urano torse lo sguardo a fatica verso i resti del
carro da guerra, laddove gli spiriti urlanti di Chandra
e Tsukuyomi, i volti ormai irriconoscibili, si
contorcevano smaniosi. Ricordò i loro volti felici quando misero per la prima
volta piede sulla Luna, ricordò le speranze per un futuro di pace e la promessa
che scambiarono, assieme agli altri sei custodi, di invecchiare assieme, senza
permettere a nessuno di morire da solo.
“Mi…dispiace…” –Pianse
Tecciztecatl, trovando in quelle lacrime la forza per reagire. Estrasse di
forza la mano da sotto la lancia, incurante del dolore di ossa e tessuti
distrutti, quindi, con una rapida torsione del busto, puntò le gambe verso
Ares, portando le ginocchia al petto e poi distendendo gli arti all’improvviso,
colpendo il Dio in faccia e spingendolo indietro bruscamente. –“Perduti i
ricordi, infrante le promesse, resta solo la vendetta e un nuovo proposito.”
–Disse a se stesso, radunando tutte le sue forze per l’ultimo attacco. –“Balzo del coniglio lunare!” –Esclamò,
saltando appena in tempo per evitare la Lancia di Sangue e poi piombando su
Ares e colpendolo di nuovo in faccia, facendogli persino volar via l’elmo.
Irato
come non mai, il Nume della Guerra riuscì comunque a mantenersi in piedi,
afferrando per un piede il bizzarro combattente e sbattendolo al suolo più
volte, crepando del tutto la già provata corazza.
“Ti
farò allo spiedo, vecchio coniglio rinsecchito!” –Sibilò, non ottenendo altra
risposta che un placido silenzio. Del resto, quel che il Selenite voleva dire a
Pegasus già glielo aveva comunicato. Adesso poteva solo morire. –“Ira di Ares!!!” –Furono le ultime
parole che udì, prima di essere annientato.
“Non
esiste niente di impossibile in questo mondo, ragazzo. Nessuna vetta che l’uomo
non possa raggiungere, checché ne dicano gli Dei. Neppure loro infatti riuscirebbero
ad impedire a un vecchio di morire felice.” –Gli aveva sorriso Tecciztecatl, e
adesso forte di quell’aiuto Pegasus bruciò il proprio cosmo, riuscendo a
rimettersi in piedi.
“Curaro
o meno, io ti ucciderò, Ares!” –Affermò, portando avanti ilbraccio destro e chiudendo le dita della mano
una dopo l’altra, a pugno.
***
Sebbene
non fosse sul campo di battaglia, quel che stava accadendo al Cerchio di Urano
Isabel lo aveva impresso davanti agli occhi, marchiato a fuoco nelle memorie
della sua esistenza. Sangue, ambascia e
morte. Di offrire altro era mai stata capace? Si chiese, non riuscendo a
darsi alcuna risposta, tranne quella più evidente. Un pallido no.
Sospirando,
tentò di rimettersi in piedi, ma la fatica per la preghiera continua e
l’affastellarsi di visioni nella sua mente l’aveva stancata più di quanto
avesse creduto, e se non fosse stato per le braccia che l’afferrarono
prontamente sarebbe di certo caduta.
“Mio
Signore…” –Mormorò, riconoscendo le decorate vesti
argentee del Custode dell’Isola Sacra, che le sorrise e la aiutò a sedersi al
tavolo poco distante.
Selene si
era ritirata nelle sue stanze, a piangere o a cercare consolazione nel marito,
e l’Occhio era completamente vuoto, ad eccezione di una figura che attendeva in
rispettoso silenzio sulla soglia. Ma Atena non la notò, la mente persa sul
campo di battaglia, nel tentativo di seguire i destini di Cavalieri a cui aveva
fatto da matrigna più che da madre. Eppure, ogni volta in cui pensava a
Pegasus, ogni volta in cui lo immaginava rialzarsi pesto e logoro per
affrontare comunque il nemico, le visioni aumentavano, il respiro si faceva
affannoso, il delirio cosmico la pervadeva e non sapeva spiegarsi perché.
“Adesso
tutto vi sarà chiaro!” –Le disse il Signore dell’Isola Sacra, sfiorandole la
fronte con un dito e dipingendovi un segno con tinte azzurre. Una luna
sorgente.
Bastò
quel tocco, quel lieve pizzicore, a precipitarla di nuovo tra i ricordi delle
sue vite passate, per abbracciarle tutte, fin dal suo concepimento.
Boccheggiando, Atena fu travolta da un flusso estenuante di visioni, che
camminavano di pari passo con le sue reincarnazioni, avvenute in momenti
fondanti della storia umana. Una, più di ogni altra, pareva riservarle ricordi
maggiori, memorie insepolte mai del tutto obliate.
Quel volto…, mormorò Atena, ricordando l’eroe che uccise la famelica bestia
divenendo di diritto il suo Primo Cavaliere, l’archetipo di una stirpe di eroi.
E dando vita alla maledizione!
“Ricordate,
Dea Atena! Non abbiate paura!” –Commentò Avalon con voce pacata, sostenendola
nel suo viaggio ma accorgendosi ben presto del cambiamento in atto, non
abbisognando lei più della sua guida. –“Abbandonate la Vergine Dea, la
fanciulla che non voleva amare, e diventate ciò che siete preposta ad essere!”
Fu
allora che Atena la udì, nitida nella sua mente, la melodia pizzicata quel
giorno a Mount Badon, sull’alto colle di Britannia,
quando a fianco di Zeus Tonante aveva fronteggiato il nemico. E assieme a loro
c’erano i Cavalieri di Glastonbury, i bianchi destrieri
cresciuti ad Avalon, guidati dal Signore dell’Isola Sacra in persona. Era stato
il loro ultimo incontro, quindici secoli addietro, ma lo avevano suggellato con
la promessa di combattere di nuovo insieme.
“Quando?”
–Aveva chiesto la Dea dal volto stanco al termine della campagna bellica.
Avalon
non aveva risposto, limitandosi a sorridere e a lasciare che le note di un’arpa
riempissero il cielo, le stesse note che, le aveva detto, avrebbe udito alla
fine dei tempi, a scandire gli ultimi atti di un’infinita guerra tra luce e
ombra.
“E
quel momento è ora!” –Esclamò la figura rimasta in disparte, l’uomo che Selene aveva presentato come Principino della Luna, il
bardo che secoli addietro suonò quel motivo a Mount Badon.
Un motivo di vittoria, per celebrare la sconfitta del nemico comune, con valore
anche di memorandum. –“Ora che siamo alla fine di tutte le cose!”
“Ricordi,
Atena? Ricordi chi sei?” –Le chiese Avalon, cui la donna annuì, fissandolo
negli occhi argentei.
“Sono
Atena! La Dea della Guerra!”
***
La
deflagrazione energetica scagliò entrambi indietro di parecchi metri, aprendo
per la prima volta uno squarcio sulla Veste Divina di Ares. Che ne fosse
consapevole o meno, Pegasus aveva risvegliato il Nono Senso e questo intimoriva
il Dio della Guerra, deciso a scrivere la parola fine su quella battaglia,
forte anche del curaro che aveva intossicato il ragazzo e gli rendeva pesante
ogni singolo respiro. Dalla sua parte, oltre alla maggior freschezza di forze,
aveva anche un’arma capace di perforare una corazza divina, la Dòruàimatos, un’arma che di Ichor si era cibata più volte.
Ma mai abbastanza! Sogghignò il Nume, impugnando l’asta infuocata e
puntandola avanti, liberando migliaia e migliaia di strali venefici contro il
Cavaliere, che ormai si muoveva più per istinto di sopravvivenza che non per
reale coscienza.
Bruciando
il cosmo, Pegasus riuscì a respingere numerosi affondi della Lancia di Sangue,
evitando quelli laterali, che non lo impensierivano, e concentrandosi su quelli
che puntavano al volto e ai pochi punti scoperti della sua corazza. Ma proprio
quelli, come temeva, erano la maggior parte.
In strategia, Ares non è certo carente! Si disse, proprio mentre il Dio, calando con violenza
un piede al suolo, generava una faglia fin sotto i piedi del ragazzo, da cui
vampe infuocate iniziarono a scaturire, travolgendo il Cavaliere e
scaraventandolo indietro. Pegasus tossì, affannando nel disperato tentativo di
rimettersi in piedi, ma venne afferrato per il collo dalle massicce mani di
Ares, il quale, abbandonata la lancia, voleva godersi il tanto atteso momento
di trionfo, assaporandolo fino in fondo, ubriacandosi del sangue che a breve
sarebbe sgorgato dalla gola del ragazzo.
“Guarda,
Vergine Dea, la fine dei ragazzi a cui hai promesso il cielo! L’abisso oscuro
di Tartaro invece li attende! Compiangili e pentiti per la tua dannata
esistenza!”
Pegasus
non rispose, lasciando il Nume alle sue chiacchiere di gloria, convinto che
volesse soltanto distrarlo. Distrarlo dalla sua missione e dal suo futuro. E non è a questo che devi pensare, Pegasus. Disse
una voce dentro sé, rifocillando il suo animo inquieto. Ma ai motivi per cui devi vincere. Sono tanti, e li conosci bene.Troppi anche solo per avvalorare la lontana ipotesi di una sconfitta.
Per cosa combatti, Pegasus? Te lo chiedi da anni, da quando salisti sul ring al
Palazzo dei Tornei e non credo la risposta sia cambiata. Anzi, gli anni le
hanno dato ancora più valore.
Per rendere
giustizia a coloro che ho perso, e che Ares ha ucciso! Sospirò, ricordando i volti
dei Cavalieri di Bronzo e d’Acciaio sterminati durante la Grande Guerra,
assieme al Custode dell’Ottava Casa dello Zodiaco. E l’idea che su quelle
picche, ad essiccare al sole, avrebbero potuto esserci anche Patricia e Fiore
di Luna lo fece rabbrividire. Ma pensando alla sorella gli sovvenne il secondo
motivo che lo spingeva a lottare, la seconda parte della risposta.
Percoloro che mi aspettano a Luxor! Sorrise, ricordando l’infanzia al
collegio Saint Charles, le corse con la sorella che lo cullava quando era
stanco, i giochi con Lamia e le partite a pallone con
Smarty e Sancho. Partite a
cui spesso anche Andromeda, Sirio e Cristal si erano
uniti. Ed era certo che, se ne avesse avuto occasione, anche Phoenix non si
sarebbe tirato indietro.
Per i fratelli
di sangue con cui ho diviso la vita! Fratelli che da anni lottavano al suo fianco, in
nome di Atena.
E per coloro
che amo!
Non ebbe bisogno di aggiungere altro, che l’immagine
di Isabel con i capelli mossi dal vento, seduta tra le sue gambe in un fresco
tramonto, era stampata di fronte ai suoi occhi, memento mori di ciò che non
sarebbe mai potuto essere.
Con un ultimo ruggito, radunò le energie rimaste,
forte dei sentimenti accumulati in anni di battaglie, e sollevò le mani fino ad
afferrare i bracciali dell’armatura di Ares, intento a stritolargli il collo.
Nonostante la vista annebbiata e il respiro rantolante, ne vide lo stupore e ne
udì il grido scioccato e scocciato quando, facendosi forza, allontanò le
braccia del Nume dal suo collo, lasciando le callose dita ad afferrare il
vuoto. Gli avrebbe volentieri sputato in faccia, avesse avuto abbastanza saliva
da offrirgli. Invece poté solo colpirlo con una sventagliata di calci, da
distanza ravvicinata, sufficienti per spingerlo indietro e schiantarlo su quel
che restava del suo carro da guerra.
Quando si rialzò, gridando come un forsennato, Ares
osservò con orrore una crepa sul pettorale della Veste Divina, proprio dove la
scarica di calci di Pegasus lo aveva raggiunto.
“Quel che mi hai detto poc’anzi lo rigiro a te,
bamboccio! Sei morto! Dòruàimatos!!!”
–Sbraitò, scattando avanti, lancia in pugno, e liberando migliaia di strali
incandescenti.
Pegasus avrebbe voluto rispondergli a tono, ma,
troppo debole per parlare, poté soltanto muovere il braccio per inerzia, per
parare gli affondi nemici. Ma quando sentì di averne mancati un paio, quando
sentì la lama cozzare contro l’Armatura Divina, capì di non essere in grado di
combattere ancora. E cadde, ginocchia a terra, proprio mentre l’assetata lancia
mirava al suo collo.
Sdeng!
Un suono cristallino, sia pur metallico, lo scosse
dal torpore, costringendolo a risollevare lo sguardo spento verso la figura che
improvvisamente si era posta di fronte a lui, riparandolo dietro un massiccio
scudo rotondo. Non capì chi fosse, a chi appartenesse quell’armatura dorata,
finché la donna non si voltò a guardarlo, e a sorridergli.
“Per una volta lascia che sia io a proteggere te!”
–Commentò, prima di essere richiamata dalla rude voce del figlio di Zeus.
“Finalmente scendi in campo, Atena Parthenos!”
“Quell’epiteto più non mi appartiene!” –Esclamò la
fanciulla dai capelli viola, bardata dalla sua Veste Divina, con lo Scettro di
Nike nella mano destra e l’Egida a protezione del braccio sinistro. –“Adesso
che ho ritrovato me stessa, la Dea che era in me! Io sono Atena Promachos, la conduttrice degli eserciti in battaglia! Io
sono la Dea Guerriera!”
Avalon, con la mano appoggiata al vetro dell’Occhio,
ne udì le parole e sorrise.
Sghignazzava
fragorosamente nel salone principale della Sesta Casa, gustandosi, nelle fiamme
del braciere, la guerra in corso sulla Luna, guerra che presto sarebbe
dilagata, incendiando la Terra intera. Del
resto, e di questo era sommamente convinto, da una sola scintilla divampano incendi soffusi. Come ebbe a dire
quel brav’uomo di Lucrezio.
E
il pianeta, a suo credere, offriva molti arbusti secchi che lo avrebbero
permesso.
Gli uomini! Sogghignò, espandendo il cosmo e lasciando che le
fiamme della visione turbinassero attorno a sé, fino a generare un mosaico sul
muro laterale che gli mostrò tutti gli eventi in corso.
Mio padre guerreggia appagato, facendo
strage di quegli sciocchi Seleniti, convinto di poter sedere vittorioso al
tavolo delle trattative, alla fine della guerra, e presentare il suo conto! Mi
sembra quasi di sentirla, la sua brama di potere, che già lo incorona
governatore di qualche provincia del nascituro impero delle tenebre. La vedo,
colare sulla sua barbetta, l’acquolina che rivela la sua fame di gloria! Lo
sento, il fremito eccitato che accompagna il tendersi del muscolo quando
impugna la Lancia di Sangue, piantandola nel corpo sventrato della sua vittima,
quasi servisse a riaffermare la sua patriarcale e virile autorità!
Povero sciocco! Non ha mai compreso a che gioco stiamo invece giocando! Una corsa al
trono da cui è escluso! Pur tuttavia, quell’ardore selvaggio, quella furia
animalesca che riversa in guerra, mi affascina e mi appartiene! O, quantomeno,
appartiene al semidio chiamato Flegias, il figlio di
Ares che fui un tempo!Rise l’uomo dalle sembianze del
Cavaliere della Vergine, mentre le fiamme oscure cambiavano forma, mostrando
nuove immagini a colui che possedeva la Vista.
La Vista. Uno dei pochi doni che Avalon gli aveva fatto, uno
dei pochi segreti che era riuscito a carpire all’Isola Sacra, e che gli aveva
permesso di sopravvivere per così tanto tempo. Persino Loki
se ne era stupito. Persino Odino doveva ricorrere alla Fonte di Mimir per sapere, per vedere. Egli invece doveva soltanto
evocare le tetre fiamme, prodromo dell’incendio purificatore.
Surtr lo aveva
capito, che il mondo sarebbe finito così. E anche quel poeta inglese di cui
adesso mi sfugge il nome lo aveva predetto. Dicono taluni
che il mondo finirà nel fuoco, altri nel ghiaccio. Io propendo per il primo! Ah
ah ah! E
guardò ancora, osservando Pegasus fronteggiare suo padre mentre i Cavalieri
delle Stelle tentavano di frenare l’avanzata degli Spiriti della Battaglia, e
gli altri Seleniti si organizzavano per affrontare i figli di Eris. Doveva esserci anche Avalon con loro, ne era certo,
per quanto non riuscisse a trovarlo, nascosto come sempre ai suoi poteri
oscuri. Di certo osservava gli eventi dalla reggia di Selene,
codardo e presuntuoso, convinto di poter manovrare le sue pedine e ottenere
facile vittoria.
Bastardo! Avvampò, mentre le fiamme attorno a lui divamparono
in ogni angolo della casa, rischiarandone le silenziose profondità. Ma subito
riprese controllo di sé, temendo che qualcuno potesse scoprirlo. E rise,
compiaciuto dall’errore che Avalon per la prima volta aveva commesso.
Egli crede davvero che mi interessi
l’ultimo talismano? Umpf, ho abbandonato ormai l’idea
di impossessarmene, da quando ho compreso, grazie alle memorie di Tegel, quel che realmente sono. Ma se non posso averli,
posso almeno arrestarne la furia e distrarre i nostri nemici da altri obiettivi. Ghignò, mentre le fiamme turbinavano ancora,
rivelando un volto calmo che ben conosceva. Il viso di un uomo che stava
camminando tra alte montagne innevate, diretto verso segreti che finora non
erano stati rivelati. Neppure ad Atena.
E,
quale ironia, sarebbe stato proprio lui, un Cavaliere di Atena (o presunto tale!) ad autorizzare tale
missione.
Virgo
rise, o quantomeno fu il suo corpo a farlo. La coscienza ormai era stata
annientata, sopraffatta da un potere più grande di lui. Un potere più grande di
qualsiasi essere vivente, che presto si sarebbe rivelato al mondo intero. Pochi attimi ancora, poche ore, e la
sconfitta delle benigne stelle sarà definitiva! La configurazione astrale è
ormai stata ricreata e il Signore di…
“Maestro?!”
Una
voce all’improvviso ruppe il tombale silenzio, obbligando il Cavaliere a
voltarsi di scatto verso l’ingresso lontano e a spegnere d’un sol colpo tutte
le fiamme, lasciandone solo alcune a baluginare sul trono a forma di fiore di
loto.
“Maestro,
siete in casa?” –Ripeté la voce femminile, mentre timidi passi iniziavano a
risuonare sul marmoreo suolo del Sesto Tempio.
Aguzzando
la vista, Virgo riuscì a intravedere un’esile figura
affacciarsi tra le statue dell’ingresso, identificandola come una ragazza sui
vent’anni, con mossi capelli castani. Indossava vesti molto povere, una
semplice tunica gialla fissata in vita da un cordone, e questo gli permise di
capire subito chi fosse. Uno dei discepoli che il Cavaliere d’Oro aveva
addestrato in UttarPradesh
anni addietro, la giovane portata da Iemisch
sull’Isola delle Ombre per farne un’arma al servizio dell’oscurità.
Cosa diavolo vuole? Digrignò i denti il Custode del Sesto Tempio,
imponendosi la calma mentre si incamminava verso l’atrio, per accogliere
l’allieva.
“Riconosco
la tua voce! Tirtha, la Pellegrina!” –Esclamò,
fermandosi a qualche metro di distanza, evitando le lame di luce che filtravano
tra le colonne all’ingresso.
“Sono
lieta di rivedervi, maestro!” –Si inchinò la giovane, con fare compito,
rialzandosi solo quando l’uomo, spostandosi di lato, le fece cenno di
precederla all’interno della casa. –“Perdonatemi se vi ho recato disturbo! Ho
forse interrotto la vostra meditazione?”
“Posso
riprenderla in qualsiasi momento! Ma dimmi, cosa ti porta nella mia umile
dimora? Che cosa turba la tua giovane anima?”
“Voi
avete sentito?! Oh maestro, ero certa che avrei trovato conforto in voi!
L’ombra, maestro… l’ombra non mi ha ancora…” –Esclamò la ragazza, il respiro mozzato da un
singulto.
“Controlla
le tue lacrime e non temere giudizio alcuno! Solo i muri e le colonne del sesto
tempio sono in ascolto! Che cosa ti ha fatto…
l’ombra?” –La incitò Virgo, che aveva iniziato a
comprendere quel che stesse accadendo alla ragazza.
“Non
mi ha ancora lasciato! La sento, maestro! È in me!” –Confessò, sollevando gli
occhi tremanti verso il volto del Cavaliere, che quasi si dispiacque per non
poterle sorridere, per non poterle dire che lo aveva sospettato.
È naturale, del resto. La distruzione
del mio corpo mortale e dell’Isola delle Ombre hanno rappresentato solo una
sconfitta momentanea. Ma quando il varco si è aperto, le creature oscure che
avevano infettato il suo animo hanno trovato nuovo nutrimento! Un plancton di
tenebra di cui cibarsi e grazie al quale crescere! Sogghignò Virgo, pensando a
come poter sfruttare quella nuova interessante scoperta.
“Maestro?!”
–La voce atterrita della Pellegrina lo rubò di nuovo ai suoi pensieri,
portandolo a voltarsi infastidito verso di lei, che subito chinò lo sguardo,
temendo di averlo deluso confessandole il suo intimo segreto. –“Vi prego di
scusarmi, ma non sapevo dove andare! Non potevo rimanere ad Angkor, non con
questo male nel cuore! Non con il timore di poter ferire Pavit
o uno dei santoni che spesso meditano con noi sotto il bassorilievo del Kurma! No, vivere con questo peso sarebbe impossibile! Per
cui vi chiedo, oh illuminato, c’è una cura? Una salvezza per la mia anima? O
solo nella morte potrò trovare pace?!”
“Una
cura?! Ma certo mia cara! Fidati di me! Farò in modo di mettere fine quanto
prima alla psicomachia che ti dilania il cuore!” –Le
sussurrò con voce melodiosa il Cavaliere, carezzandole il mento con un dito,
cullandola con parole che così disperatamente voleva udire. Ma quando Virgo schiuse gli occhi, fissandola con quelle iridi
intrise di fuoco e ombra, Tirtha trasalì, spalancando
la bocca per gridare, ma venendo prontamente afferrata dalla mano destra
dell’uomo, che le strizzò il collo, mozzandole il fiato, gettandola poi a
terra.
“Silenzio,
mia cara! Non l’hai invocato poc’anzi? E già vuoi rimangiarti la parola?! Non
si fa così, proprio no, birichina!” –Le sibilò, montando sopra di lei e
bloccandole ogni movimento. –“Sei venuta alla Sesta Casa, mi hai arrecato
disturbo, interrompendo le mie elucubrazioni, per avere una panacea che ponesse
fine al tuo dissidio, e io te la sto offrendo! Accetta l’ombra! Abbracciane la
causa, falla tua! Ti darà forza, ti farà essere ben più potente della ragazzina
vestita di stracci e odorosa di giungla che nelle notti senza stelle cerca
conforto nell’amico devoto, senza concedersi mai! Ah ah ah!
Un’esistenza a metà hai sempre vissuto, come apprendista, che non è mai
diventato Cavaliere, come donna, che non ha mai avuto soddisfazioni, e adesso
come essere umano, dilaniato da un conflitto tra ombra e luce, un conflitto che
credevi di aver vinto ma che il risveglio del mio Signore ha riacceso in te!”
“Cosa… state dicendo, maestro? Vi prego!” –Singhiozzò Tirtha, mentre le mani di Virgo
bramose le strappavano la tunica, carezzandole il corpo e i seni sodi, fino a
stringerli con violenza.
“Abbraccia… l’ombra!!! O muori divorata da essa!!!”
–Ringhiò, avvolgendola nel suo cosmo tenebroso e lasciando che la sua natura
animalesca emergesse. Glielo vide negli occhi, che si tinsero di nero, mentre
boccheggiava delirante, invocando pietà. –“Questa è la mia pietà! Risparmiarti un’esistenza
di dolore, lacerata in due metà!”
“Che
cosa state facendo?!” –Esclamò una terza voce all’improvviso.
Volgendo
lo sguardo verso l’ingresso, Virgo vide un giovane
dai capelli fulvi fissarli con occhi stupefatti e trattenne una risata al
pensiero di quanto sconvolta potesse essere la sua mente adesso, dopo aver
visto il suo nobile ed etereo maestro a cavalcioni sopra l’allieva seminuda.
“Pavit!” –Esclamò, ricordandosi il nome dello sciocco
discepolo. –“Aspettavamo proprio te! Vuoi unirti ai festeggiamenti?”
“Festeggia… maestro ma che succede? Vi sentite bene?!
“Mai
stato meglio! Anche se temo che non potrò dire lo stesso di te, tra poco!”
–Sibilò, rimettendosi in piedi e offrendo la mano a Tirtha,
che in silenzio la afferrò, la mente avvolta in una nuvola d’ombra, lo sguardo
ormai perso nel buio.
“Tirtha?! Cos’hai? Cos’è accaduto? Perché hai lasciato
Angkor in fretta e in solitudine?”
“Cercava
risposte, la donna che ami! E le ha trovate qua alla Sesta Casa, al Tempio
della Vergine d’Oro!” –Ironizzò il Cavaliere, abbandonandosi a un riso
sguaiato.
“Voi… tu non puoi essere il mio mentore!” –Esclamò infine Pavit, inorridito.
“Quale
intuito! Tardivo ma efficace!” –Si limitò a commentare l’uomo, prima di dare a Tirtha il suo primo ordine. –“Uccidilo!”
La
ragazza si lanciò contro il compagno, graffiandogli il volto con artigli di
tenebra e poi muovendosi per colpirlo con un calcio in pieno petto, inebriata
dal ruscellare del sangue sul volto ferito. Ma Pavit,
dopo la sorpresa iniziale, fu svelto a muoversi all’indietro, afferrando la
gamba dell’amica e sbattendola in terra, pensando al qual tempo una soluzione
per impedirle di nuocergli pur senza ucciderla.
“Il
dubbio ti dilania, non è vero? Ucciderla o essere ucciso, questo è il
problema!” –Rise Virgo, osservando la scena
divertito. –“Ed in effetti è un gran problema, quanto meno per te, poiché lei
non si fermerà finché non sarai morto!”
“Che
cosa le hai fatto, bastardo? Riconosco la tua voce, adesso! Sei il Maestro di
Ombre contro cui il mio maestro lottò mesi addietro!” –Disse Pavit, mentre Tirtha intanto si
rialzava e gli si lanciava di nuovo contro, gli artigli di tenebra pronti a
sgozzarlo.
“Le
ho dato una ragione per vivere! Ora fai la tua scelta, Pavit
il Devoto!”
“Mai!”
–Avvampò il discepolo, bruciando il proprio cosmo e generando un’onda di luce
con cui travolse Tirtha, scaraventandola contro il
muro. Quindi si voltò verso Virgo, per affrontare
anche lui, ma questi non era più di fronte al trono. Lesto, era sgusciato alle
sue spalle, paralizzandolo con una morsa mentale.
“Meno
uno!” –Ghignò il Cavaliere, affondando il braccio nella schiena del ragazzo e
strappandogli il cuore. Quindi, mentre Tirtha si
rimetteva in piedi, le fece cenno di avvicinarsi e glielo lanciò, facendola poi
cadere sopra di lui.
“Virgo!!!” –Gridò allora una voce, mentre lo sferragliare di
un’armatura anticipava l’arrivo di un uomo dall’entrata posteriore del tempio.
–“Dei dell’Olimpo! Cos’è questa carneficina?!” –Tuonò Libra, sputando nel
salone principale, mentre il parigrado gli si faceva incontro, con lo sguardo
affranto e pieno di lacrime.
“Dohko, ti prego, non ucciderla! Lei non sa cosa sta
facendo! È malata!”
“Malata?!
Ma chi sono costoro? I tuoi… discepoli?!” –Li
riconobbe, mentre Virgo iniziava a raccontare cos’era
accaduto. La scoperta dell’ombra annidata nel suo cuore da parte di Tirtha, la fuga dall’Indocina, la battaglia per l’anima che
era infuriata mentre il maestro aveva cercato di liberarla da tale oscura
tenebra e infine la vittoria dell’ombra, che l’aveva spinta a uccidere il
compagno. –“Per Atena! È terribile!”
“Il
mio cuore è straziato da indicibili tormenti, Dohko!
Ed è tutta colpa mia! Ho fallito! Ho cercato di purificare il suo cuore ma
l’ombra è così radicata, così forte, come mai l’ho percepita prima d’ora, da
avermi respinto!”
“Io… l’ho sentita!” –Annuì il Cavaliere di Libra.
“Davvero?!”
–Incalzò preoccupato il parigrado, temendo che il suo gioco fosse stato
scoperto.
“Mentre meditavo alla Settima Casa, è esplosa nella mia mente, come una macchia
su un velo bianco! Per questo sono intervenuto! Non in tempo, a quanto pare!”
“Ti
prego, concedimi di curarla! È pericolosa, è vero, è un’assassina, ma è pur
sempre una mia allieva! E non ha colpe, di per sé!”
Libra
rimase qualche secondo pensieroso, osservando Tirtha
china sul corpo di Pavit, il cuore macellato a pochi
passi di distanza, lo sguardo furioso di una tigre pronta ad azzannare. Fece
per avvicinarsi, ma la ragazza si sollevò, sfoderando artigli di pura tenebra e
un ghigno demoniaco, prima di avventarsi anche su di lui.
“Dohko!!!” –Gridò Virgo, vedendo
oscuri fendenti abbattersi sullo scudo dorato del Cavaliere, pur senza
scalfirlo, in un flusso continuo di cieco furore.
“Perdonami,
amico mio! Ma devo fermarla!” –Si limitò a commentare il custode della Settima
Casa, prima di concentrare il cosmo sul braccio e muoverlo dal basso verso
l’alto, generando un dragone di energia che travolse Tirtha,
schiantandola contro una colonna molti metri addietro.
Virgo
corse subito da lei, per verificarne le condizioni, e sentì il cuore battere
ancora, capendo che il Cavaliere aveva soltanto voluto stordirla. Con il volto
rigato da false lacrime, lo ringraziò più volte, chiedendo clemenza per lei.
“Sarà Atena a giudicare i suoi peccati! Per adesso dobbiamo impedirle di ferire
ancora! La condurremo alla prigione di Capo Sounion,
dove il cosmo della Dea la tratterrà fino al suo ritorno!”
“Solo
Atena può darle pace! Non potrei sopportare anche la sua perdita, è l’ultimo
dei miei discepoli! L’ultimo di dieci allievi che la guerra mi ha rubato!”
“Comprendo
il tuo dolore, amico mio! È accaduto a molti di noi!” –Esclamò Dohko, ponendo una mano sulla spalla del parigrado. Quindi
si incamminò verso l’uscita, portando Tirtha con sé e
dicendo che avrebbe mandato alcuni soldati ad occuparsi del cadavere di Pavit. Si fermò un istante, ponderando tra sé un enigma che
non riusciva a decifrare. Per un momento, per un solo momento, gli era parso di
percepire due cosmi di ebano alla Sesta Casa. Poi scosse la testa e iniziò a
scendere la scalinata, certo di essersi sbagliato.
Virgo,
rimasto al centro del salone, si spostò i capelli all’indietro, concedendosi un
sorriso malefico. Stava vincendo.
***
Al
Cerchio di Saturno Reis e Jonathan erano in
difficoltà.
L’ondata
di Phonoi e di Androctasie
sembrava inarrestabile e soprattutto interminabile. Per ogni guerriero che
uccidevano, altri dieci ne arrivavano e ben presto i Cavalieri delle Stelle
sentirono la pressione di tale furiosa avanzata sulla loro pelle. L’unica cosa
positiva, pensò Jonathan, era che, di fronte a quel brulicante ammasso di
nemici, ovunque puntasse lo Scettro d’Oro era certo di colpire qualcuno, anche
senza impegnarsi troppo nel prendere la mira. Ma quella misera consolazione non
mitigò lo sforzo di entrambi, che alla fine furono spinti lontano dal varco nel
muro, mentre l’esercito dei Signori della Guerra dilagava all’interno del Sesto
Cerchio.
“Maledizione!
Sono troppi!” –Strinse i denti Reis, impegnando con
la spada una lama avversaria, prima di sfilarla e infilzare il proprio
oppositore.
“Serve
un’azione congiunta! Uniamo i nostri colpi segreti!” –Propose Jonathan,
bruciando il proprio cosmo lucente, presto imitato dalla compagna.
“Vortice scintillante di luce!” –Gridò Reis, liberando un turbine che travolse alcune decine di
guerrieri, scaraventandoli in ogni direzione, le corazze squarciate da fulgidi
fendenti. Quelli che riuscirono a evitarlo, o ne vennero solo sfiorati, si
esposero al repentino assalto dell’allievo di Andrei, che aveva già concentrato
il cosmo sul palmo della mano, generando migliaia di comete energetiche.
“Ora
mi sento meglio!” –Commentò il ragazzo dai capelli biondo cenere, soffiandoli
via dal volto sudato su cui gli si erano fastidiosamente appiccicati.
“Quando
torniamo ad Avalon, ti farò tagliare quel cespuglio che hai in testa!”
–Ironizzò la compagna. –“Simili distrazioni generano ritardi nei tuoi
attacchi!”
“Ah,
davvero? Eppure mi sembra di tenere il passo!”
“Sensazione
sbagliata! Ho eliminato quasi il doppio dei tuoi avversari!” –Concluse Reis, balzando alle spalle di due Androctasie
e colpendole poi con un rapido affondo. Per un momento si incupì, guardando i
loro corpi giovanili crollare nel sangue e nella polvere, riflettendo che,
fossero state umane come lei, sarebbero state sue coetanee e forse, in un’altra
vita, avrebbero potuto essere amiche, uscire insieme, frequentarsi e vivere una
realtà diversa, che non il continuo mondo di guerra in cui erano immersi. Ma
poi ricordò chi erano, le figlie di Discordia, colpevoli, al pari della
genitrice, di molti mali nel mondo. –“Vostra madre vi ha generato, facendovi
dono dello status di Divinità, ma siete stati voi, con le vostre turpi azioni,
ad inquinare tale rango, lasciando che gli uomini vi identificassero con gli spiriti
del macello! Voi, da Dei siete divenuti mostri!”
“Tu
credi?” –Parlò allora una voce, risuonando sopra la molesta cacofonia della
battaglia. –“È un’opinione interessante, quella di chi sostiene che anche gli
Dei dispongano del libero arbitrio, qualità di cui finora ho sempre udito
uomini farsene vanto! Dovremmo parlarne! Se al termine di questo scontro sarai
ancora viva! Ih ihih!”
–Rise la stessa voce femminile, prima che il rimbombare confuso di migliaia di
piedi, pesanti come zoccoli, riempisse l’aria.
Anche
i Phonoi e le Androctasie
lo udirono, scattando lesti verso i lati del varco nel muro, mentre una
devastante onda d’urto squassava il suolo lunare, investendo in pieno il
Cavaliere di Luce e scagliandolo in aria, assieme ad alcuni guerrieri nemici
che non erano riusciti a portarsi in tempo fuori dal suo raggio d’azione.
“Che
diavoleria è questa?!” –Esclamò Jonathan, stringendo lo Scettro d’Oro di fronte
a sé, pronto a ripararsi da un eventuale assalto, e osservando nel contempo Reis rimettersi in piedi a fatica.
“Non
diavoli siamo, ma spiriti bellicosi! Gli spiriti per eccellenza della
battaglia, le voci che animano i soldati in lotta, infoiano il loro ardore e
mantengono saldo il loro proposito di andare avanti! Vittoriosi sempre,
arrendevoli mai!” –Gli rispose una voce femminile, mentre alcune figure
avanzavano tra la polvere sollevata dall’ultimo assalto, rivelandosi agli occhi
dei Cavalieri delle Stelle.
Erano
tre donne, alte e snelle, dall’impeccabile fisico guerriero, i capelli tagliati
corti, da uomo, il volto una maschera di ghiaccio. Erano rivestite da corazze
violacee e rossastre, coprenti quanto una Veste Divina, sebbene Jonathan non
fosse certo che Efesto avesse mai costruito alcunché
per tali violenti spiriti. Prima ancora che si presentassero, il ragazzo capì
chi aveva di fronte, e capì anche che quello scontro non sarebbe stato affatto
facile.
“Noi
siamo le Makhai, gli spiriti della battaglia!” –Continuò colei che aveva
parlato finora, la donna al centro del trio, quella con i corti capelli biondi.
Forse persino più biondi di Jonathan, al punto da sembrare quasi bianchi. –“Io
sono Kydoimos, la confusione!”
“E
io sono Homados, il rumore della battaglia!” –Le fece eco la sorella dai
capelli viola, prima che anche la terza parlasse. –“Proioxis,
l’avanzata impetuosa! Ma di questa caratteristica vi siete certo già accorti!”
–Aggiunse, con un ghigno beffardo, diretto soprattutto a Reis,
ancora acciaccata dall’onda d’urto.
“Ora
che queste insulse formalità sono state sbrigate, possiamo proseguire per la
nostra strada!” –Esclamò allora Kydoimos, iniziando
ad avanzare, subito imitata da tutti i Phonoi e le Androctasie, che si erano riorganizzati in falangi
compatte, tenendosi comunque a debita distanza dal trio.
“Dove
credete di andare?!” –Intervenne Jonathan, il cui scettro stava iniziando a
pulsare vivida energia.
“Che
domanda sciocca! Al palazzo di Selene!” –Continuò il
demone del frastuono in battaglia, sottolineando l’ovvietà di
quell’affermazione seguitando ad avanzare.
“Temo
che non vi sarà così semplice!” –Esclamarono i Cavalieri delle Stelle,
scambiandosi un rapido sguardo prima di lanciarsi entrambi alla carica.
“Ah
no?!” –Sbuffò Kydoimos annoiata, prima di voltarsi
verso la sorella dai capelli neri, che subito annuì, facendosi avanti e aprendo
le braccia di lato. Subito un’onda di energia si propagò dal suo corpo,
investendo in pieno Reis e Jonathan e scaraventandoli
indietro, facendoli ruzzolare per molti metri sul suolo lunare e strappando
loro persino la presa delle armi.
Risolto
quel piccolo contrattempo, Kydoimos ricominciò a
camminare, affiancata dalle sorelle, guidando l’esercito della guerra verso il
cuore del Cerchio di Saturno.
“As…pettate! Lo scontro è appena
iniziato!” –Esclamò Jonathan, facendo forza su un ginocchio per rimettersi in
piedi.
“A
me pare che sia finito da un pezzo!” –Gli rispose la Makhai del frastuono,
senza neppure fermarsi.
“Non
mi ignorare!!!” –Avvampò il Cavaliere delle Stelle, il palmo stretto attorno ad
un globo di energia. Non attese risposta e scattò avanti, liberando il suo
colpo segreto.
“Non
chiedere troppo!” –Digrignò i denti Proioxis,
voltandosi all’improvviso e balzando di fronte al giovane. La cometa lucente,
che stava sfrecciando verso di lei, frenò la sua corsa, venendo infine
rispedita indietro ad una velocità persino maggiore.
“Jonathaaan!!!” –Gridò Reis,
vedendo il compagno colpito in faccia dal suo stesso attacco e scaraventato
indietro, con la maschera dell’armatura in frantumi.
“Se
ti ignorassi, sarebbe certo meglio, per te!” –Concluse la figlia di Eris, prima di fare cenno alle sorelle di proseguire. –“Pur
tuttavia, dato che molto hai insistito, rimarrò qui a farvi compagnia, finché
non avrete esalato il vostro ultimo respiro! E, state sicuri, accadrà molto
presto, perché nessuna difesa può contrastare l’avanzata furiosa delle Makhai!”
“Non… possiamo lasciarle passare…”
–Balbettò Jonathan, faticando a rialzarsi.
Reis capì
i pensieri del compagno. Con Pegasus e Phoenix impegnati contro Ares e
Discordia al Settimo Cerchio, e loro costretti all’immobilità, soltanto Shen Gado avrebbe potuto impedire che quell’esercito
furioso si riversasse sui Seleniti, e poi sulla residenza di Selene. Ma se persino loro, addestrati ad Avalon, erano in
difficoltà contro uno solo di quei demoni, cosa avrebbe potuto fare il sia pur
valoroso Capitano della Luna?
“Vai!”
–Affermò infine il Cavaliere di Luce, mentre l’amico si rimetteva in piedi.
–“Appena avrai l’occasione, vai!” –Ripeté, prima di scattare avanti, la spada
saldamente in pugno. Ma prima ancora che potesse gridare alcunché, Proioxis aveva già sollevato il piede e stava calando il
tacco sul terreno.
“Forse
non avete capito…” –Sibilò, mentre una devastante
onda di energia scuoteva il suolo lunare, rimbombando sotto di loro e attorno a
loro e travolgendoli di nuovo. –“Nessuno di voi andrà da nessuna parte! Mia
sarà la mano che vi scorterà ai gradini di Tartaro! Mio il calcio nel
posteriore per farvi precipitare entrambi! Addio Cavalieri di Avalon, questa di
Proioxis è l’Avanzata
Impetuosa!!!” –Aggiunse, spalancando le mani e generando una devastante
onda d’urto, simile a un maroso di pura energia, che sfrecciò verso di loro,
fagocitando in fretta il poco spazio restante.
Jonathan
e Reis cercarono di disperderla, colpendola con raggi
energetici, ma quando comprese che non vi sarebbero riusciti, quest’ultima fu
svelta ad afferrare l’amico e portarlo dietro una barriera che aveva appena
creato, una scintillante cascata di luce che avvolse entrambi a spirale, mentre
l’onda li investiva in pieno, schiantandoli molti metri addietro, con le
armature crepate in più punti.
Capitolo 10 *** Capitolo ottavo: Gli spiriti della battaglia ***
CAPITOLO OTTAVO: GLI
SPIRITI DELLA BATTAGLIA.
Quando
Shen Gado vide l’esercito dei Signori della Guerra
avvicinarsi al varco che dal Cerchio di Saturno conduceva a quello di Giove
capì che i Cavalieri di Atena e di Avalon avevano fallito. Non li compianse, né
li biasimò, avendo percepito l’intensità cosmica dei loro avversari, Divinità
devote alla battaglia e alla strage, Divinità che esistevano all’unico scopo di
generare un conflitto perenne. Divinità, ammise infine, spostando lo sguardo
sul Selenite che si ergeva solitario all’ingresso del passaggio, ben diverse
dagli stanchi Numi che le ostilità del mondo terreno avevano rifuggito.
“Arrivano!”
–Parlò allora Mani, le mani sudate strette sul lungo bastone che reggeva in
mano, l’unica arma di cui disponesse.
“Dubito
che quel legno stantio servirà a qualcosa, contro quelle furie!” –Commentò il
Capitano della Guardia, ma il Selenite lo pregò di mostrare rispetto.
“Questo
bastone è stato ricavato dal legno di Yggdrasill,
l’Albero dell’Universo! Fu Odino a farmene dono, molti misseri addietro, quando
lasciai Asgard, affinché potessi piantarlo in più fertile suolo! Non ho
dimenticato le sue parole e la sua speranza!”
Shen Gado
non disse alcunché, limitandosi a riportare lo sguardo sullo squadrone nemico
che ormai era giunto a una decina di piedi di distanza. Era guidato da due
donne alte e snelle, il cui cosmo ostentatamente aggressivo collideva con le
forme perfette dei loro corpi, quasi Fidia in persona
li avesse scolpiti. Fu proprio una di loro, una bionda dai capelli a spazzola,
a sollevare un braccio, fermando l’avanzata dei suoi sottoposti.
“Sei
tu il Selenite preposto alla difesa del prossimo varco?” –Esclamò con voce
stridula, rivolgendosi a Mani.
“Esattamente!
Il mio nome è Mani, Selenite di Sa…” –Ma Kydoimos non lo fece neppure presentare, scattando avanti
alla velocità della luce, afferrandolo per la gola e sbattendolo contro il muro
alle sue spalle.
“Non
ti ho chiesto una biografia, solo una breve e monosillabica risposta! Sì o no!
Non è difficile, neppure per voi esuli stralunati di questo miserrimo regnuccio!” –Ringhiò, sfoderando affilati canini. Poi,
vedendo il terrore nello sguardo del Dio lunare, che nella foga aveva
addirittura perso la presa sul bastone di legno, scoppiò a ridere, lasciandolo
ricadere a terra e dandogli un buffetto sulla guancia, divertita. –“Perdona la
mia irruenza, bel maschio nordico, ma abbiamo sprecato fin troppo tempo con
quei patetici Cavalieri delle Stelle che avevano pensato di sbarrarci il passo!
Quale fatua illusione in così poco tempo caduta! Adesso dobbiamo recuperare!
Coraggio, spiriti della battaglia, avanziamo!” –Urlò, facendo cenno ai Phonoi e alle Androctasie di
rimettersi in marcia.
“Stai
scherzando, voglio sperare!” –Disse allora Shen Gado,
costringendo Kydoimos a sollevare lo sguardo su di
lui, ritto in piedi sulla cima dell’alto muro di confine.
“Spera
pure! In fondo, cos’altro ti resta?!”
“Combattere!!!”
–Avvampò il Capitano, espandendo il cosmo adamantino. Quindi si lanciò in aria,
roteando su se stesso e iniziando a precipitare verso terra, con la gamba tesa
diretta al volto della Makhai, che non rimase inerte ad attendere di essere
colpita.
Lesta,
Kydoimos mosse un passo indietro, proprio mentre la
rotazione trivellante del corpo di Shen Gado generava
un buco nel suolo e sul suo volto si palesava un’espressione scontenta, per
aver mancato il bersaglio. La Makhai approfittò di quel momento per colpirlo al
volto con un pugno di energia, ma il corpo del Capitano roteò di nuovo, mentre
le ali della corazza si spalancavano in uno sfarfallio di luci, deviando
l’assalto della crudele Divinità e spingendola persino di lato, sorpresa da
quell’inconsueta mossa.
“Kydoimos!!!” –Fece per intervenire allora Homados,
fermandosi dopo neppure due passi, ben sapendo quanto la sorella odiasse che
qualcuno interferisse nelle faccende proprie. Soprattutto dopo essere stata
pubblicamente umiliata di fronte alle truppe.
“Dunque
anche l’ippogrifo possiede artigli! E io che credevo tu fossi solo un equino
con le ali!” –Sibilò il demone della confusione. –“Per rimediare a questo mio
errore, ti concederò di morire per primo! Shamara!!!” –Esclamò, mentre una
torbida evanescenza nasceva dalle sue dita per poi avvilupparsi attorno al
corpo del Capitano della Guardia, entrando dentro di lui, senza che potesse
fare alcunché per impedirlo. Un attimo dopo il valoroso Shen
Gado cadde a terra goffamente, accasciandosi con lo sguardo perso nel nulla,
gli occhi ancora aperti in un’espressione di sconfitta inattesa.
“Che… cosa gli hai fatto?!” –Balbettò Mani, rimettendosi in
piedi.
“Non
lo so! E credimi, non ti piacerebbe affatto sapere quale tormento gli spiriti
maligni da me evocati infliggono ogni volta al malcapitato cui strappano
l’anima!”
“È… morto?!” –Singhiozzò il Selenite, incredulo.
“Lo
sarà presto! Sbrigati a pronunciare il rito funebre! Ih ihih!” –Quindi, volgendosi verso Homados e il resto
dell’esercito, gridò loro di ripartire, salvo poi trovarsi Mani, con il bastone
saldo in pugno, a sbarrargli la strada.
“Un
rito funebre lo pronuncerò per te, strega!!!” –Gridò questi, muovendo l’arma in
un rapido affondo, che Kydoimos non ebbe problema
alcuno ad evitare, balzando indietro con un’agile capriola, atterrando sulle
mani e poi dandosi la spinta per saltare di nuovo in avanti, colpendo il
Selenite in pieno volto.
“La
mia grazia non ti era bastata? Hai dunque voluto sprecare l’unica occasione di
salvezza, stupida ammuffita Divinità?!” –Ringhiò la Makhai, strattonando il
corpo di Mani con il braccio destro, mentre con il sinistro lo riempiva di
pugni e graffi.
“Immeritata…grazia…” –Borbottò il
Selenite, strappando un’espressione sorpresa alla figlia di Eris,
che lo guardò per la prima volta con una luce di interesse. Ma prima che
potesse aggiungere altro venne travolta da uno scroscio di energia acquatica e
spinta indietro, mentre una pioggia di bastoni cadeva dal cielo tempestandole
la corazza. Non appena capì cos’era successo, Kydoimos
annientò il puerile assalto con un’onda di energia, che travolse anche i due
apprendisti, schiantandoli al muro assieme al loro mentore. –“Bil! Hjúki! Che fate ancora qua?
Vi avevo detto di correre a palazzo! Là sareste stati al sicuro!”
“Non
potevamo lasciarvi da solo, padre! Combattere è anche nostro dovere!” –Dissero
i due ragazzini, che, nascosti nel tunnel, avevano seguito l’intera scena,
decidendo infine di attaccare la Makhai.
“Vostro
dovere è divenuto morire, adesso!” –Sentenziò quest’ultima, il volto irato
dalla frustrazione. Berciò ordini a Homados di avanzare assieme al resto dell’esercito,
incurante di quel che la sorella le stava dicendo, e avanzò a passo deciso fino
a portarsi di fronte a Mani e ai suoi apprendisti, le unghie delle sue mani
divenuti affilati artigli di cosmo. –“Ma dato che il sesto cerchio è stato
preso, pur con il vostro intenso tentativo di resistenza, non c’è più motivo di
avere fretta! Per cui, siatene certi, la vostra morte non sarà immediata e
scevra di dolore! Tutt’altro!” –Sibilò, calando la mano sul Selenite di
Saturno.
***
Il
secondo assalto fece ancor più male del precedente. Di questo Jonathan ebbe
conferma tastandosi la fronte indolenzita e sanguinante. Reis,
pochi metri più in là, giaceva distesa sulla schiena, gli occhi chiusi, forse
svenuta dall’impatto con l’ultima onda d’urto, per cui avrebbe dovuto
combattere anche per lei.
“Cavaliere
fino in fondo!” –Si disse, faticando nel rimettersi in piedi, le ossa che gli
dolevano per le percosse subite.
“Ti
rialzi ancora? Sono impressionata, ragazzo!” –Lo derise Proioxis, avvicinandosi
a passo svelto. –“Ma se lo fai per essere alla mia altezza, te ne dispenso,
tranquillo! Tanto saresti comunque più basso di me! E a me gli uomini bassi
proprio non piacciono!” –Aggiunse, muovendo rapida la gamba destra, colpendo il
ragazzo sul viso e spingendolo indietro. Ma Jonathan, che si aspettava tale
mossa, sfruttò il calcio per balzare lontano, effettuando una capriola a
mezz’aria e atterrando in piedi. Un istante dopo lo Scettro d’Oro apparve nella
sua mano, incupendo la Makhai che sfrecciò verso di lui con i pugni intrisi di
energia cosmica.
“Aberrazione della luce!” –Esclamò il
Cavaliere delle Stelle, mentre continui lampi di luce venivano emessi dal fiore
in cima all’asta, disturbando la carica della Divinità e facendole mancare il
bersaglio. Fu troppo però pensare che non avrebbe previsto un attacco diretto,
così, mentre Jonathan roteava lesto il Talismano, per schiantarlo sul suo
collo, Proioxis balzò indietro, aprendo poi le braccia di lato ed espandendo il
proprio cosmo.
A
quella vista, il ragazzo strinse i denti, capendo quel che nell’arco di un
secondo sarebbe accaduto. Così afferrò Reis
bruscamente, trascinandola quanto più distante possibile dall’onda d’urto
scatenata dalla Makhai, che riuscì solo in parte a raggiungerli, sbilanciandoli
e facendoli ruzzolare a terra, senza però ulteriori ferite.
“Sfuggente
e fastidioso! Ma perché mi stupisco, sei come tutti gli uomini, in fondo!”
–Ghignò Proixis, mentre Jonathan, depositata la
compagna al suolo, si rialzava per affrontarla.
“Parli
come se di uomini tu ne abbia avuti molti! Al riguardo mi permetto di
dubitarne!”
“Anche
arrogante! Motivo in più per sopprimerti quanto prima! Nonostante tu non sia un
Cavaliere di Atena, e come tale non oggetto diretto della mia vendetta, hai
fatto tutto il possibile per diventarlo!”
“Vendetta?
Che ti hanno fatto i Cavalieri di Atena?” –Domandò Jonathan incuriosito,
approfittando di quel momento per recuperare le forze.
“Umpf, hanno ucciso mia sorella, quei miserabili! Palioxis, la ritirata confusa! Era la più giovane di noi
quattro! Morta sulla nave che abbiamo assalito per recuperare lo spirito di
nostra madre, colpita alle spalle da un servitore della Dea! Che vergogna!”
“Che
cosa ti fa vergognare? Il fatto che un umano si sia azzardato a uccidere una
Divinità o che la Divinità fosse così debole da farsi uccidere da un umano?!”
“Irritante!
Lo aggiungo alla lista degli aggettivi atti a descriverti!” –Ringhiò Palioxis, aprendo i pugni di lato e concentrando sfere di
energia attorno a ognuno di essi. Quindi, con felina agilità, scattò verso
Jonathan, muovendo un braccio dopo l’altro, in una raffica continua di pugni e
di affondi.
Il
ragazzo tentò di difendersi con lo scettro, lasciando che le bombe di luce
esplodessero a contatto con l’asta, spingendo ogni volta entrambi i contendenti
indietro, quindi, notando che tale strategia non sarebbe servita a niente,
decise di contrattaccare, liberando il suo colpo segreto da distanza
ravvicinata.
“Cometa d’oro!!!” –Esclamò, muovendo il
braccio sinistro dal basso verso l’alto, mentre ancora con il destro impugnava
lo Scettro d’Oro per parare i colpi nemici.
Sorpresa
da quell’assalto, Proioxis fu comunque svelta a balzare di lato, venendo solo
raggiunta al basso ventre dalla sfera di energia infuocata, che le sfrigolò la
corazza, strappandole un certo disappunto.
“Sono
contento, in fondo!” –Ansimò il ragazzo, ancora con il braccio teso e il palmo
aperto verso la nemica. –“Sapere che verso qualcuno provi interesse è
consolante! Credevo che a voi Makhai il significato di certi termini fossero
ignoti: amore, amicizia, affetto…”
“Lo
sono, infatti. Per noi, spiriti della battaglia, niente sta più in alto della
famiglia! la sacra stirpe dei Signori della Guerra, che nel Mondo Antico
incendiava i campi di battaglia, risuonando al suono di trombe e grida furiose,
mentre gli stendardi scarlatti di Ares e i vessilli violacei di Eris marcavano il territorio appena conquistato!” –Declamò
Proioxis con improvviso orgoglio. –“Noi tutti, figli e figlie della Madre dei
Mali, siamo molto più che amici. Siamo uniti da un legame indissolubile che ci
rende parte dello stesso tutto e ora! Siamo nati e vissuti insieme e in
silenzio, nell’ombra, abbiamo atteso per secoli il ritorno della nostra
genitrice, che ci avrebbe condotto all’ultima guerra!”
“Un
invidiabile destino…” –Ironizzò Jonathan. –“A
nient’altro sei servita se non a soddisfare i suoi piani di guerra, mai libera
di scegliere il tuo cammino!”
“È
qua che sbagli, Cavaliere di Avalon!” –Affermò la Makhai con tono serio. –“Come
dissi poc’anzi alla tua compagna, il libero arbitrio è prerogativa anche delle
Divinità, non solo degli uomini! È un dono, del resto, che gli Dei han concesso
agli uomini, in quanto loro per primi hanno dovuto e saputo scegliere! È un
dono antico, che risale alle primissime contese divine, quando Gea, la Madre Terra, creò un’arma sterminatrice in grado di
recidere la vita del suo sposo, facendone dono al figlio che l’avrebbe ucciso
in suo nome. Gea scelse di creare la MegasDrepanon, di andare contro
l’ordine che Urano aveva costruito, ordine di cui lei avrebbe fatto parte sul
trono dei vincitori. Allo stesso modo Crono scelse di brandire l’arma, evirando
il padre e decretando la fine della prima generazione cosmica. Sai meglio di me
cosa accadde in seguito, millenni dopo. La storia si ripeté. Per una strana
ironia, anche Crono cadde, ucciso dal figlio, e la guerra che seguì la sua
morte infuriò sul Monte Sacro, obbligando Olimpi e Titani a fare le loro
scelte. Scelte di campo, scelte di vita, scelte che segnarono i destini del
mondo. Per cui, per tornare alla tua domanda, sì, il libero arbitrio è
prerogativa anche degli Dei: mia madre ci ha creato, ci ha infuso il suo odio
verso gli Olimpi, ma siamo stati noi a coltivarlo, noi a inebriarci del sangue
e della morte, delle grida dei soldati in guerra, della furia delle schiere in
lotta! Noi siamo le Makhai, gli Spiriti della Battaglia, l’espressione più pura
del conflitto universale in cui versa questo mondo! E, tra tutte, io sono
Proioxis, colei che avanza decisa, la Dea dietro la quale le altre si accodano
dopo che questa ha aperto loro la strada! Avanzata
imperiosa!!!”
La
devastante onda d’urto sfrecciò verso Jonathan, che nel frattempo aveva riposto
lo Scettro d’Oro nell’apposito aggancio sulla schiena, aprendo al qual tempo le
braccia per generare uno scudo di energia con cui cercare di rallentare
l’assalto della Makhai. Consapevole che non avrebbe potuto sopportare una così
feroce pressione, il ragazzo si preparò all’impatto, che fu peggio di quel che
si aspettasse. La Barriera Astrale
resistette per pochi secondi, giusto il tempo di rendere altamente letale un
attacco mortale, prima di schiantarsi e esporre i Cavalieri delle Stelle al
poderoso assalto, che li travolse e sballottò in aria, fino a schiantarsi
contro il muro del Sesto Cerchio.
“Pare
che sia tutto!” –Commentò Proioxis, volgendo infine loro le spalle e iniziando
a incamminarsi dietro alle sorelle. Per un attimo la invase la tentazione di
affacciarsi al Cerchio di Urano e vedere questi famigerati Cavalieri di Atena,
da cui la madre le aveva messe in guardia, quasi fossero più temibili di Zeus.
Ma nel sentire accendersi gli infuocati cosmi di Discordia e Ares, capì che
erano nel pieno dei loro giochi e di certo non avrebbero gradito intrusione
alcuna. Così si rimise in marcia lungo la Via Maestra, salvo poi essere fermata
dopo qualche passo da alcune voci stanche.
“Te
ne vai proprio adesso?” –Esclamò Jonathan, rimettendosi in piedi a fatica, il
volto una maschera di sudore, sangue e capelli sfilacciati. –“Ora sei tu che ti
comporti come tutte le donne e mi lasci insoddisfatto sul più bello!”
“Quale
ardore! Per un miserabile in punto di morte!” –Sibilò Proioxis, voltandosi e
notando che anche Reis si era ripresa e aveva
affiancato il compagno. –“Spiacente solo di non averti fatto morire prima!” –E
allargò le braccia, espandendo il proprio cosmo. –“Ma sono in tempo per
rimediare!”
“Stai pronta!” –Mormorò il Cavaliere dei Sogni, radunando le forze. Reis fece altrettanto evocando le loro barriere, proprio
mentre l’Avanzata Impetuosa li
raggiungeva, spingendoli indietro. Grazie alle loro difese congiunte,
riuscirono a non essere travolti, ma la pressione risultò presto insostenibile,
impegnando entrambi in uno sforzo notevole per arginare la devastante onda
d’urto.
Fu
Reis a smuovere la situazione, con una repentina
intuizione. Si gettò in terra, sfiorando il suolo con la mano e lasciando che
il cosmo dorato vi fluisse, generando sottili ma intense correnti d’energia che
vorticarono fino a raggiungere Proioxis, esplodendo all’improvviso sotto e
attorno a lei. –“Vortice scintillante di
luce!” –Tuonò l’allieva di Avalon, osservando soddisfatta la Makhai venir
sollevata da terra dall’improvviso turbinio di stelle. –“È tua!!!”
Senza
farselo ripetere una seconda volta, Jonathan, dissoltasi l’onda temibile, aveva
già impugnato lo Scettro d’Oro puntandolo verso il corpo della nemica e adesso
lo stava tempestando di continui raggi di energia. Così fitta fu la pioggia
che, per quanto la Dea cercasse di recuperare il controllo sul suo corpo, venne
comunque raggiunta in diversi punti, l’armatura graffiata e in alcune parti
pure scheggiata.
“E
non è finita!” –Commentò Reis, scattando avanti,
mentre Proioxis ricadeva al suolo, atterrando compostamente. La lama lucente
sfrecciò verso il suo volto ma la Makhai fu lesta a spostarsi di lato, colpendo
poi la ragazza con un calcio su un fianco e facendola ruzzolare lontano. Quando
questa si rialzò per ritentare, capì che la Dea aveva già sollevato
impenetrabile muraglia difensiva e infatti i suoi fendenti luminosi vennero
respinti.
“Interessante!”
–Mormorò allora Jonathan, avvicinandosi e attirando lo sguardo stupito di
entrambe le donne. –“La barriera di cui ti servi per rimandare indietro i
nostri attacchi! Mi chiedevo come avevi fatto finora, se erano i tuoi poteri
mentali a permettertelo o altro! La risposta invece è semplice, l’ho avuta
sotto gli occhi per tutto il tempo senza afferrarla! Questa barriera non è
altro che l’onda d’urto che fermenta, il poderoso assalto che scagli contro i
nemici, ridotto adesso ad uno stato primordiale, ma già pulsante!”
“Hai
buon’occhio! Per una Signora della Guerra la difesa in sé non esiste, non è
altro che il ribollire inquieto di un fiume in procinto di riversarsi sul campo
di battaglia! È l’eccitazione che precede l’attacco, il guanto sulla spada
pronto per sguainarla!”
“Efficace… Mantenendola in tensione costante sei sempre
pronta ad attaccare, oltre che in grado di difenderti da assalti diretti!”
–Rifletté Jonathan, mentre Reis lo raggiungeva, intuendo
quel che l’amico non avesse voluto dire. Quanto ciò costava alla Dea in termini
di dispendio energetico. Uno sforzo
continuo.
Lo
comprese e non nascose un moto di disprezzo per la Makhai, per la sua esistenza
infelice. –“Ti compiango, in fondo, figlia del Male! Non hai mai avuto pace, né
mai la avrai! E la tua barriera lo dimostra, è l’espressione della tensione
incessante che ti pervade l’animo, sempre pronta ad azzannare, sempre timorosa
di un attacco nemico, sempre in guerra!”
“È
lo spirito battagliero che ci contraddistingue, Reis
di Lighthouse! Il furor bellico che marchia il nostro
Ichor e di cui sono fiera! Non pretendo che lo
comprendiate! No, pretendo soltanto che moriate! Avanzata impetuosa!!!” –E scagliò nuovamente il proprio colpo
segreto, ma Jonathan e Reis, che si erano preparati,
furono svelti a lanciarsi di lato, ognuno in una direzione diversa, evitando il
grosso dell’onda d’urto e venendo anzi sospinti dalla stessa. Non attesero
neppure che l’attacco scemasse, voltandosi verso la Dea non appena ebbero
sfiorato il suolo con la punta dei piedi, armi in pugno, i cosmi rifulgenti di
polvere di stelle.
La
luce dello scettro baluginò improvvisa, ma i raggi energetici vennero presto
spenti dal movimento del braccio di Proioxis, che generò un’onda di cosmo con
cui travolse Jonathan, spingendolo indietro. Quindi si voltò verso la direzione
opposta, ma Reis aveva approfittato di quel momento
per portarsi di fronte a lei, sotto di lei, la spada già puntata e pronta a
piantarsi nel suo ventre. Fu con velocità estrema che Proioxis riuscì a
schivare l’affondo, girandosi su un fianco e osservando con orrore la lama
stridere sulla sua corazza. Proprio dove Jonathan l’aveva colpita in
precedenza.
La
Veste Divina andò in frantumi e sangue imbrattò la scintillante lama di fronte
agli occhi attoniti e furibondi della Makhai, che allontanò Reis
facendo esplodere il proprio cosmo. La deflagrazione scagliò il Cavaliere di
Luce indietro, togliendogli l’elmo della corazza, ma Jonathan fu subito su di
lei, per aiutarla a rimanere in piedi, approfittando di quel breve contatto per
dirle di avere un piano.
“Dobbiamo
rifarlo! Ma, scemata l’onda di energia, tu attaccherai per prima!”
La
ragazza non capì come la ripetizione di quella strategia potesse aiutarli a
vincere un’avversaria che adesso, dopo le ultime ferite ricevute, pareva più
decisa che mai a eliminarli. Eppure lo sguardo che Jonathan le risolse, il
sorriso di un amico che chiede di avere fiducia in lui, le fugò ogni dubbio e
le ricordò che cosa li rendeva diversi dagli Dei, e da questi spiriti della
battaglia. Un sentimento chiamato
amicizia.
Così
bruciò il cosmo e Jonathan fece altrettanto, mentre Proioxis, sul cui volto
lampeggiava l’ira, apriva le braccia, radunando l’energia per scagliare una devastante
onda d’urto. Un attimo dopo, persino più in fretta di quel che i Cavalieri si
aspettassero, l’assalto li raggiunse, obbligandoli a sfrecciare al massimo
della velocità consentita dalle loro forze per non esserne sopraffatti. Appena
fuori dal suo raggio d’azione, Reis si voltò verso la
Makhai, con la Spada di Luce in pugno, ma, come aveva previsto, la Dea aveva
subito sollevato la guardia, non desiderando essere colta di sorpresa una
seconda volta.
L’onda
di energia da distanza ravvicinata la schiaffeggiò contro il muro di confine,
strappandole più di un lamento e scheggiando l’Armatura delle Stelle, ma quando
la ragazza torse lo sguardo per vedere se anche Jonathan avesse incontrato
uguale sorte, rimase stupita nel vedere che il compagno non si era mosso
affatto. Era rimasto nello stesso punto dopo aver evitato l’Avanzata impetuosa, gli occhi
socchiusi, intento a radunare ogni stilla di energia che ancora gli rimaneva,
mentre tutto attorno a sé e sopra di sé, vorticavano migliaia e migliaia di
comete lucenti. Scie di energia pura, globi abbaglianti che sembravano
provenire da una nube sferica che si agitava nell’aria, decine di metri sopra
il ragazzo.
“Che… cos’è quest’inquietudine?!” –Balbettò Proioxis,
muovendo d’istinto un passo indietro di fronte a così accecante scintillio
cosmico.
“È
la casa di tutte le comete! La galassia lontana e silenziosa da cui provengono
le più pure luminescenze dell’universo!” –Spiegò Jonathan, aprendo infine gli
occhi, mentre tutte le comete sfrecciarono verso la Makhai, lasciandosi dietro
code di luce. –“Questa è la Grande Nube
di Oort!!!”
“Maledizione!!!”
–Proioxis aprì subito le braccia, generando l’onda distruttiva, che annientò
migliaia di comete, ma per quante ne distruggesse altre ne ricomparivano, forti
di quella vicinanza alla casa madre che le rendeva inestinguibile potere. Una
dopo l’altra le comete traforarono l’attacco della Dea, aprendo sempre nuove e
più ampie brecce nella sua onda, che prestò collassò, disperdendosi e
permettendo alle sfere energetiche di raggiungere la Makhai. –“Io… devo scappare!!! Devo…” –Ma
con orrore Proioxis non riuscì a muovere le gambe. Abbassando lo sguardo, notò Reis, strusciata fino ai suoi piedi, che le sorrideva
compiaciuta, dopo averle piantato la Spada di Luce in un piede, inchiodandola
così a terra. –“Eris, madre mia, aiutami!!!” –Poté
soltanto urlare mentre l’immenso ammasso stellare la investiva in pieno,
disintegrando armatura, corpo e spirito.
“Non
so come si usa, nella vostra bella famiglia, ma nella mia vecchia Inghilterra
in questi casi si dice goodbye!” –Commentò Reis,
ruzzolando fuori dal raggio d’azione della detonazione energetica.
***
Tanto
leggero era il passo di Ermes da risultare impercettibile ad orecchio umano.
Eppure Zeus, in meditazione sul Trono del Fulmine, lo udì comunque, posando lo
sguardo sul vecchio amico, inginocchiatosi in riverente attesa ai piedi della
scalinata. Percependo il peso di quello sguardo, il fedele messaggero parlò.
“Nettuno
è partito, mio Signore! Il suo cosmo già rifulge oltre le colonne d’Eracle!”
“Molto
bene! La solerzia di mio fratello è impareggiabile! Per gli affari che lo
interessano, ovviamente!”
Ermes
non disse alcunché, aspettando che fosse il Signore del Fumine
ad aggiungere altro. Ormai aveva imparato a conoscerlo e sapeva quando Zeus
stesse pensando a qualcosa.
“Dispiega
le tue ali, Messaggero Olimpico! E controlla le sue mosse, rimanendo sempre a
debita distanza! Fai attenzione, sebbene abbia riposato per secoli, la potenza
del tridente di Nettuno è indubbia, seconda soltanto alla divina folgore cui
sei fedele. Perciò, non sottovalutare la sua astuzia!”
“So
come osservare senza essere visto!” –Si limitò a commentare Ermes, alzandosi e
annuendo. Quindi, prima di incamminarsi fuori dalla Sala del Trono, arrischiò
una considerazione. –“Nonostante lo abbiate risvegliato, non vi fidate ancora
di lui, non è vero? Le parole di Atena hanno lasciato il segno.”
“Mio
caro Ermes…” –Sorrise allora Zeus, soddisfatto della
perspicacia del vecchio amico. –“Vi sono solo due persone, in questo strano
mondo, cui io riponga la massima fiducia! Una combatte sulla Luna, l’altra è in
questa stanza! Da tutti gli altri, mi tengo alla giusta distanza!”
“Mio
Signore, voi mi onorate…” –Balbettò il Dio dei
Mercanti e del Commercio, prima che Zeus gli desse le spalle, dirigendosi verso
la grande finestra che dava sul giardino della reggia. –“Sarò degno della
vostra fiducia!” –Aggiunse, allontanandosi.
“Già
lo sei, da molto tempo. Vorrei esserlo anch’io, della tua.” –Commentò tra sé il
Signore dell’Olimpo, fissando il cielo e il mondo che si apriva di là dal
vetro.
Il
richiudersi del portone alle sue spalle fece capire a Zeus di essere rimasto
solo, come ormai pareva passare molto del suo tempo. Le parole che Avalon gli
aveva rivolto bruciavano ancora nel suo animo inquieto, ricordandogli di essere
un re senza corona, un sovrano privo di eserciti, avendo assistito alla loro
distruzione in un’inutile guerra che di sacro ben poco aveva. Solo il dolore
inferto ai sopravvissuti.
Sospirando,
il Dio tornò a sedere sul trono, muovendo lo sguardo verso oriente.
Là,
tra le impervie vette del Caucaso, millenni addietro aveva incatenato il Titano
Prometeo, reo di aver disobbedito ai suoi ordini, per amore degli uomini. Poi
Eracle lo aveva liberato, permettendogli di ottenere il perdono dal padre.
Questa parte della storia era nota a tutti, ma ciò che ben pochi sapevano,
anche tra gli Olimpi, era che in tempi recenti un altro prigioniero era stato
condannato ad eguale sorte.
Prima
che Avalon venisse ad ammonirlo, prima delle Panatenee e di Ascanio,
un altro uomo aveva conquistato il Signore del Fulmine per le sue qualità
guerriere, per il suo spirito indomito che pareva non temere nemmeno la morte.
Per il suo desiderio di ascendere al cielo più alto, liberandosi dai retaggi
dell’umana esistenza. Ma, come Icaro aveva volato troppo vicino al sole,
anch’egli aveva ardito più del dovuto, ricevendo la giusta punizione.
Zeus
si carezzò la barba incolta, osservando le sofferenze del giovane incatenato e
chiedendosi se non fosse giunto il momento di comportarsi come sua figlia,
offrendo o meno il perdono regale all’uomo che volle farsi Dio.
Scherzando,
Febo lo aveva detto a Marins
durante la loro uscita notturna, ma nessuno dei due avrebbe potuto immaginare
ciò a cui stavano andando incontro. Nonostante Avalon li avessi informati,
nonostante si fossero preparati per tutta la vita, la realtà li sopraffece,
prostrandoli a terra, vinti.
Adesso
i loro corpi esanimi erano crocifissi al muro, nei sotterranei del tempio che
avevano a lungo cercato. Languivano pallidi e nudi, mentre decine di serpi
nere, attorcigliate ai loro arti, succhiavano via la loro essenza vitale, il
loro cosmo, lasciandolo fluire nelle bare di ebano che giacevano sul pavimento
e che servivano a favorire la rinascita.
Una
macabra pozza che una figura ammantata di nero osservava sogghignando.
Il Maestro ha avuto un’ottima idea,
ispirandosi alla cattività di Loki. Non l’avrei
creduto, eppure il procedimento funziona. Distillando il cosmo dei Cavalieri
delle Stelle, lo useremo per nutrire le oscure creature che dormono da
millenni, aspettando l’avvento del Signore di tutte le cose. Rifletté, avvicinandosi al corpo di Marins e torcendogli la testa con forza. Lo fissò, ma non
trovò niente in quello sguardo vacuo, solo un’infinita assenza, dovuta alla completa
perdita di sé.
“Dubito
che vi risponderà, mia Signora!” –Commentò allora una roca voce, emergendo
dalle tenebre del sotterraneo. –“Con il vostro permesso ho usato metodi che non
prevedono riguardo alcuno per lo spirito e per il corpo, bensì un lento e
doloroso supplizio.”
“So
bene che nell’infliggere pena e sofferenza sei maestra, Algea!”
–Si limitò a rispondere la figura ammantata, presto raggiunta dal suo
interlocutore, una vecchia zoppa e gobba, che si inchinò al suo fianco,
attendendo ordini. La donna vestita di nero la fissò dall’alto verso il basso,
senza nascondere uno sguardo di disprezzo per la sua deformità fisica e per
l’odore di lezzo che le sue vesti emanavano. –“Anche se, a quanto vedo, non hai
ancora ottenuto risultati significativi. Cos’altro hai scoperto? Che il biondo
è il figlio di Amon Ra? Già lo sapevamo! Che il suo
compagno ha visto il padre morire e ancora ne soffre? Cosa ce ne importa?! Ben
più vitali segreti devi strappare alle loro menti! Informazioni utili alla
nostra causa!”
“Me
ne dolgo, mia Signora, ma ho incontrato resistenze inaspettate nei miei
tentativi di violare la loro psiche, persino adesso che sono deboli e moribondi
riescono a trovare la forza per opporsi!”
“Difese
mentali. È naturale, per dei combattenti addestrati ad Avalon! I nostri nemici
sono astuti e ben preparati! Molto bene, sarà ancora più divertente distruggere
tutti i loro propositi e le loro speranze di successo…”
“Non
si preoccupi, comunque, sono certa che a breve riuscirò a penetrare le loro difese
e a carpire i loro segreti!”
“Sbrigati
allora! Ben poco tempo ti resta, a giudicare dal baluginare fioco del loro
cosmo! E non devo essere io a ricordarti che con la loro morte finirebbero
anche le tue possibilità di essere utile, vecchia storpia!”
Algea
inghiottì a fatica, chinando il capo, prima di avvicinarsi di nuovo ai corpi di
Febo e Marins per
sperimentare ulteriori forme di tortura.
Sorridendo
soddisfatta, la tenebrosa figura se ne andò, inerpicandosi lungo le rozze scale
di pietra fino a portarsi al primo livello di quel tempio nascente. Quando la
costruzione sarebbe stata completa, persino per lei sarebbe stato difficile
orientarsi in quel dedalo di corridoi, cunicoli e celle, sebbene non fossero
luoghi ove amasse dimorare a lungo, preferendo gli spazi ampi del cielo.
“Non
vi avevo sentito rientrare, mia Signora! Siete stata a verificare lo stato di
caducità dei nostri ospiti?” –Esclamò una voce, distraendola dai suoi pensieri.
Si voltò di scatto, gli occhi in tensione e pronti ad azzannare, per trovarsi
di fronte un giovane ben vestito, con un sontuoso abito violaceo, intonato al
colore bizzarro dei suoi lunghi capelli rosa.
“Non
devo certo giustificare le mie azioni con te, Polemos! Né con nessun’altro che
qui dimora!” –Sibilò in risposta, infastidita per essere stata sorpresa, o
forse controllata. –“Io vado, vengo e torno quando voglio!”
“Indiscutibilmente.”
–Commentò sibillino il giovane dai capelli rosa, accennando un inchino. Quindi,
ad un gesto dell’altra Divinità, la seguì lungo il tunnel di pietra, sbucando
in un salone più ampio, ove rozze torce piantate negli interstizi tra le pietre
del pavimento, diffondevano un cauto bagliore, riflettendosi sulle oscure
corazze di coloro che erano in attesa.
“Salute
a te, Lord Comandante, e a voi, Nera Signora!” –Esclamò un guerriero dai
capelli biondi e gli occhi violacei, rivestito da una cotta da battaglia,
mentre alle sue spalle tre gigantesche figure accennarono un saluto, che al
soldato parve più un sibilo.
“Non
è ancora Lord Comandante!” –Puntualizzò la donna, godendosi divertita
l’espressione compunta comparsa sul volto del giovane, che preferì ignorare la
precisione per dirottare altrove la sua attenzione.
“Se
posso rubarvi qualche attimo del vostro prezioso tempo, gradirei informarvi
della situazione sulla luna! La campagna bellica non sta procedendo alla
velocità che speravo, velocità che avremmo mantenuto se ne avessi avuto il
completo comando. I Cavalieri di Atena e di Avalon sono intervenuti e sappiamo
bene quanto Ares sia già stato sul punto di fallire con loro! Cosa ci
garantisce che non accada di nuovo? Del resto, è evidente a tutti i presenti in
questa sala che il figlio di Zeus è un incapace! Un barbaro privo di raziocinio
che crede che in guerra gli eserciti debbano ruggire in campo aperto,
azzannandosi fino a strapparsi di dosso gli ultimi brandelli di pelle, anche a
costo di essere squartati vivi!”
“Deduco
che tu non approvi i suoi metodi, Polemos!”
“Li
aborro. La guerra è un’arte, la mia arte. E sarei lieto di metterla a vostra
disposizione!” –Affermò deciso, genuflettendosi leggermente,
“Avremo
modo di ammirarti all’opera, Demone della guerra e della battaglia! E sono
certa che mi farai impazzire! Ben più di quanto il muscoloso corpo di cui ti
sei impossessato già non faccia adesso! Ighigh! Ma Ares ha ricevuto un incarico preciso e sono certa
che farà di tutto pur di svolgerlo, anche se dovesse costargli la vita! Del
resto sai bene da chi provengono gli ordini! O hai forse intenzione di
contrastare la sua volontà?”
“Non
mi permetterei mai!” –Chinò il capo Polemos, sfuggendo allo sguardo indagatore
della sua interlocutrice.
“Credo
che non ti sia chiaro il vero motivo dell’attacco al Reame della Luna
Splendente! Te lo dirò in poche parole, e lo dirò anche a voi, fedelissimi, per
cui ascoltate la mia roca voce! Duplice intento nasconde in verità questa
battaglia: da un lato infatti, con Avalon e Atena impegnati in prima persona
sulla luna, possiamo distogliere la loro attenzione da altri obiettivi per noi
interessanti e verso cui i nostri eserciti già si dirigono. Inoltre, ed è bene
che tutti lo sappiano, sia i senescenti druidi che nelle nebbie si celano
impauriti per fuggire allo sguardo dell’Unico, sia gli Dei di Grecia, di Asgard
o di qualunque altro puerile regno sia nato in questo breve arco del tempo
cosmico: noi siamo qua!!!” –Declamò, quasi strillando ed espandendo il proprio
cosmo, che pervase l’intero salone, allungandosi come un manto di tenebra su
tutti loro, facendoli rabbrividire e ponendo fine ad ogni chiacchiericcio.
–“Che sentano la nostra potenza! Che percepiscano la nostra rinascita! Non vi è
angolo del pianeta che i nostri artigli non possano ghermire! Non vi è spazio
in cui noi non possiamo giungere e che possa considerarsi al sicuro! Ighigh! Se Ares e le sgualdrine
delle Makhai moriranno, cosa vuoi che mi importi? Piangeremo forse la loro
dipartita? Tu la piangerai, Polemos?! Che muoiano tutti, che moriate tutti!
Meglio così! Presto disporremo di tutti gli eserciti della Terra, a qualunque Dio siano devoti,
poiché in fondo tutti gli Dei non sono altro che un unico Dio! Il nostro! E a
noi risponderanno!”
“Sì, mia Signora!” –Rispose Polemos con enfasi, e
anche gli altri presenti annuirono.
“A questo proposito, come procede la rinascita? I
nostri figli e fratelli saranno presto tra noi?”
“Il risveglio avanza a passi da gigante, grazie
all’accelerata degli ultimi giorni. Oltre alle Makhai, ai Phonoi
e alle Androctasie, che sono già scesi in guerra,
anche alcune Astrazioni sono tornate a nuova vita, così come gruppi di Neikea e di Pseudologoi,
bellicosi spiriti portatori di dolori e malevolenze per il genere umano! E
persino le Empuse hanno accettato il nostro invito!
Si uniranno a noi con gioia, a condizione che vengano lasciate libere di
scorazzare per il mondo e divorare le loro prede!”
“Ighigh!
Adoro quelle vacche bastarde!” –Commentò la figura ammantata. –“Ci riserveranno
grandi sorprese, ne sono certa!”
“Pochi giorni ancora, forse poche ore, e la
rinascita dell’Esercito delle Tenebre sarà completa!” –Concluse Polemos.
“Quando potremo scendere in guerra? Voglio
affrontare quei cani rabbiosi dei Cavalieri di Atena!” –Intervenne allora il
guerriero in armatura, attirando lo sguardo irato del supposto Lord Comandante.
“Porta pazienza, giovane soldato! E impara a
mostrare deferenza per i tuoi superiori! Forse il tuo maestro non te l’ha
insegnato?” –Ghignò la donna vestita di nero, senza perdersi il rossore
improvviso comparso sul volto di Polemos.
“Chiedo venia, mia Signora, ma grande è il mio
desiderio di confrontarmi di nuovo con loro, soprattutto con uno di essi!
Abbiamo un conto in sospeso da migliaia di anni, risalente al primo Cavaliere
di Pegasus, e sono curioso di vedere se il suo discendente si mostrerà
all’altezza!” –Spiegò il guerriero, prima di venir zittito da un gesto
imperioso del suo istruttore.
“Una cosa però potrebbe disturbarci! Abbiamo
ricevuto un messaggio dall’Olimpo! Sembra che Zeus abbia risvegliato Nettuno,
il vero mitologico Dio, per averlo al suo fianco nell’ultima guerra, con tutte
le ricchezze celate nel continente perduto!”
“Uhm, interessante! Questa è la prima notizia
davvero interessante di questa giornata noiosa! Pare che il mare stia offrendo
regali un po’ a tutti, in questi giorni!” –Commentò la donna tra sé, dando le
spalle ai presenti e riflettendo su quest’informazione. –“Non che la ricomparsa
del re pescatore mi inquieti, ma è opportuno sbarazzarcene prima che diventi un
fastidio! E so già a chi affidare quest’incarico!”
“A noi, mia Signora?! A noi?!” –Incalzò il soldato
dai capelli biondi.
“No!!!” –Lo fulminò la figura ammantata, centrandolo
in pieno con una scarica di energia violetta e scagliandolo contro un muro
dell’edificio, facendolo crollare su di lui. –“Che ti serva da lezione! Mai
interrompere una signora mentre parla! Ighigh!” –Aggiunse, prima di rivolgersi a un imbarazzato
Polemos. –“Poiché noto che sei ancora impegnato con l’addestramento del tuo
allievo, non ti tratterrò oltre!”
“No, mia Signora, io posso…
esservi utile!” –Cercò di incalzare l’uomo dai capelli rosa, non ottenendo
altro che un riso di scherno.
Fu la rauca voce di Algea
a distrarre i presenti, portando la notizia del risveglio di due ulteriori
Divinità.
“Nutrirsi del cosmo dei Cavalieri delle Stelle ha
permesso loro di recuperare in fretta le forze!” –Esclamò la vecchia, avanzando
a piccoli passi verso il centro del salone, mentre due figure sconosciute
rimasero dietro di lei, ai lati dell’ingresso, quasi temessero quei lievi
sprazzi di luce che le torce diffondevano nella stanza. –“Dovete capirli, si
sono appena svegliati da un sonno di oscurità durato secoli! Abbiamo avuto
tutti la stessa reazione, più o meno, quando abbiamo riaperto gli occhi! Ih ihih!”
“Presentatevi!” –Ordinò la figura ammantata di nero,
mentre i due nuovi arrivati muovevano un passo avanti, lasciando scivolare a
terra una viscosa sostanza bianca di cui i loro corpi nudi erano intrisi.
Il primo era un uomo alto e robusto, con mossi
capelli grigi, il petto ricoperto da una vistosa peluria, ugualmente evidente sulle
braccia e sulla gambe. Le ampie spalle erano leggermente incurvate, le mani
dalle dita carnose pronte per serrarsi attorno a un collo nemico.
“Il mio nome è Horkos,
figlio di Eris! Rappresento la maledizione inflitta a
coloro che tradiscano un giuramento!” –A tali parole le tre gigantesche figure,
finora rimaste in disparte, sibilarono soddisfatte, in segno di saluto.
La signora oscura sorrise sotto il mantello, prima
di rivolgere lo sguardo alla seconda figura, dalla corporatura di donna,
sebbene ben poco attraente. Certo non quanto lei.
“Io sono Lethe, che è
Dimenticanza!” –Si limitò a commentare la Dea dallo sguardo spento e dai
fianchi larghi, anch’ella figlia della Regina della Contesa.
“Molto bene! Le fila del nostro esercito si
ingrossano, proprio adesso che ho una nuova missione da assegnare! Horkos! Lethe! Venite con me!
Faremo un pezzo di strada insieme, per conoscerci meglio, prima che io mi
separi da voi per occuparmi di una certa faccenda!” –Non disse altro e si
incamminò negli angusti corridoi del santuario, seguita dagli Dei appena
ritornati in vita.
Algea tornò zoppicando nelle
segrete, e anche gli altri presenti si dispersero, lasciando il solo Polemos in
piedi vicino a un altare di pietra. Adirato oltre ogni dire, il demone furioso
batté un pugno sull’ara, spaccandola al centro, e continuando a tempestarla di
pugni finché non l’ebbe disintegrata del tutto.
Un rumore di pietra smossa alle sue spalle lo fece
voltare, proprio mentre il soldato punito affannava nel rimettersi in piedi,
liberandosi dalle macerie franate su di lui. Polemos gli si avvicinò,
sollevandolo di peso e sbattendolo al muro.
“Sei un idiota! Avrei potuto farmi assegnare un
incarico, invece per colpa tua dovrò ancora attendere e il titolo di Lord
Comandante, di cui ti fai stupidamente vanto, si allontana sempre più!”
“Mi dispiace, maestro…”
–Si rabbuiò il guerriero. –“Volevo soltanto…aiutarvi… mostrarvi la mia totale accondiscendenza e
desiderio di seguirvi in guerra!”
“Guerra a cui, se continuiamo ad aspettare l’arrivo
degli ordini, rischiamo di non partecipare affatto, e ciò intaccherebbe la mia
posizione gerarchica! Con tutti questi Dei che tornano in vita, ci sarà una
gran folla desiderosa di compiacerlo! Questo non deve accadere!” –Ringhiò
Polemos, spostandosi i lunghi capelli rosa sulla schiena. –“E non accadrà!
Preparati, andiamo in missione!”
“Cosa avete in mente, Lord Comandante? Oh
perdonatemi, precorro i tempi ma voi per me lo siete già!”
“Fai bene a pensarlo, Chimera! Perché quest’oggi lo diverrò!”
***
Quando
tutti ebbero lasciato il desolato atrio, una pietra incastrata in un muro
scivolò di lato, anticipando l’uscita di una testa ricoperta da un cappuccio
color marrone e oro. L’uomo si guardò intorno circospetto, attento a percepire
il minimo rumore che potesse indurlo alla fuga, quindi si fece forza ed uscì
completamente dal tunnel, acquattandosi tra le ombre. Spostò lo sguardo
sull’intera sala, cercando eventuali sentinelle nascoste, prima di incamminarsi
rasente al muro verso i sotterranei. La quasi totale mancanza di illuminazione
giocò a suo favore, per quanto limitasse la sua velocità, costringendolo a fare
attenzione a non inciampare in eventuali ostacoli. Stringendo i denti per la
tensione, infilò la rampa che conduceva alle segrete, per trovare conferma ai
sospetti del Dio cui era devoto. Non ebbe il coraggio di affacciarsi
completamente, temendo che la vecchia zoppa intenta a scavare nei ricordi di Febo e Marins si accorgesse di
lui, ma memorizzò quel che doveva, prima di ritornare sui suoi passi. A fatica
ripercorse il tunnel incavato nel muro, faticando nel tortuoso labirinto di
cunicoli fino a uscire all’esterno, da una vetusta grata di scolo. Cercando di
non pensare al putridume di quella fogna, la spinse con i piedi, più e più
volte, finché non cedette, permettendogli di passare e essere finalmente fuori
dal santuario. Allora iniziò a correre, avvolgendosi nel mantello color sabbia
in grado di mimetizzarlo con il brullo ambiente circostante, e quando credette di essere a sufficiente distanza dal tempio
oscuro, si portò due dita alla bocca e fischiò.
Non
passarono che pochi istanti che due artigli robusti lo afferrarono per le
spalle, sradicandolo letteralmente da terra e portandolo via, in volo, verso
sudovest, al di là del fiume Hotan. Arrischiandosi finalmente a respirare,
quasi all’interno del tempio avesse temuto di essere udito per quello, rilassò
i muscoli e sollevò lo sguardo, per ammirare la magnificenza del falco dal
delicato piumaggio che lo aveva prelevato.
Continuarono
a volare per una buona mezz’ora, finché le propaggini dei Monti Kunlun, confine sud-orientale del Taklamakan,
non apparvero all’orizzonte, e allora l’enorme uccello iniziò a scendere,
dirigendosi verso una valle incassata tra le montagne dove i loro compagni li
stavano attendendo.
“Guardate!
Ce l’hanno fatta! Naveed è di ritorno!” –Esclamò un
uomo, indicando il cielo, mentre il possente falco planava verso il campo, tra
le grida festose dei soldati rimasti in trepidante attesa.
Una
donna al suo fianco sbatté i piccoli occhi riparati da spesse lenti graduate
per mettere a fuoco l’immagine del nobile rapace che scendeva su di loro,
depositando con cura l’uomo a terra, prima di posarsi a sua volta sul freddo
suolo di quella terra lontana da casa. Pochi attimi dopo le sue forme mutarono,
rivelando il bel volto che tutti i soldati lì accampati conoscevano e a cui
tutti avevano giurato fedeltà.
Il
suo nome era Horus, il Dio Falco, detto il lontano.
Era
un uomo alto e robusto, dal fisico scolpito e dai lunghi capelli castani, capo
di quella spedizione di pronto intervento allestita per un unico scopo. La
salvezza di colui che considerava suo fratello.
“In
piedi, in piedi! Non è tempo di omaggi, ma di azione!” –Esclamò il Dio
egiziano, mentre alcuni servitori, prontamente accorsi, gli porgevano coperte e
vestiti per avvolgere il suo muscoloso corpo. –“Naveed,
voglio un resoconto completo sulla fortezza oscura! Quanti nemici la
presiedono? Struttura, trappole, sistemi difensivi? E, soprattutto, Febo è ancora vivo?”
“Sì,
mio Signore. L’ho osservato per qualche istante, notando il suo petto alzarsi e
abbassarsi leggermente, ma… è prigioniero, di un
maleficio io credo, ed esposto a continua tortura!” –Parlò il giovane soldato,
iniziando a spiegare tutto ciò che aveva visto, tutte le informazioni che aveva
memorizzato. –“Sono nei sotterranei, che sembrano essere una cella chiusa, non
accessibili dall’esterno!”
“Per
cui dovremo entrare dall’ingresso principale, non possiamo certo far passare le
truppe armate dal tunnel che hai scoperto!” –Meditò Horus.
“Non solo per quello, mio Signore, ma per un altro motivo…
So che sembra pazzesco ma c’è la possibilità di non ritrovarlo affatto. Il
percorso che ho seguito al ritorno non era lo stesso di quando sono entrato, era… cambiato! E anche mentre uscivo strisciando, ho avuto
la sensazione che il tempio stesse mutando forma… Ho
persino creduto che mi avrebbe fagocitato!”
“Non
essere sciocco!” –Disse uno dei soldati attorno. –“Già! Avrai sbagliato
strada!” –Fece eco un altro, prima che Horus li zittisse tutti.
“Credo
che Naveed dica il vero! Quel tempio potrebbe davvero
essere un’entità vivente, come Karnak, retta dalla Divina Volontà degli
Antichi! Del resto, a sentire la nostra archeologa, fino a qualche giorno fa
non esisteva neppure! Non è vero, Dottoressa Hasegawa?”
La
donna dagli occhiali a fondo di bottiglia sorrise timidamente, per essere stata
chiamata in causa, prima di annuire e mostrare alcune carte, la mappatura della
zona desertica a est del fiume Hotan, proprio dove Febo
e Marins avevano chiesto di concentrare le
esplorazioni. Ma non vi erano segni che facessero presagire la presenza di
insediamenti o di una qualsiasi struttura umana.
“Dovrebbe
esserci solo deserto laggiù! Quanto meno questo era ciò che c’era fino a pochi
giorni fa!” –Parlò la scienziata.
“Un
tempio sorto dal nulla! Questo significa che il risveglio degli Antichi è
iniziato, e presto sarà completo! Dobbiamo agire ora, e in fretta, prima che
acquistino una forza tale da non poterci opporre! Un nuovo Apopi
è qualcosa di cui non abbiamo bisogno! Jarrah, manda
un messaggio al Sommo Ra, che invii rinforzi il prima possibile!” –Declamò
Horus, indicando un soldato che subito corse a liberare un ibis sacro, legando
un piccolo papiro a una sua zampa.
“Non
credo che potremo permetterci di aspettare così tanto, mio Signore! Il momento
propizio è adesso!” –Riprese a parlare Naveed. –“Le
due entità più potenti hanno lasciato il santuario, la prima mutandosi in un
rapace di tenebra e volando via, verso l’Europa, l’altro andandosene assieme a
un soldato più giovane. Il tempio è quasi deserto, eccezion fatta per la
vecchia che tortura il nobile Febo e tre enormi
figure che non sono riuscito a individuare. Se ne stavano nell’ombra, a
parlottare tra loro. Ho cercato di decifrarne il linguaggio ma alle mie
orecchie giungevano solo sibili spettrali!”
“Temo
di sapere chi siano queste tre mostruosità!” –Sospirò Horus, soppesando la
situazione. Attaccare adesso il santuario sarebbe stata una mossa azzardata,
vista la scarsità di forze al suo comando, una pattuglia di esploratori, più
adatti ad incursioni rapide che ad uno scontro diretto. Pur tuttavia, aspettare
i rinforzi avrebbe permesso ai nemici di rafforzarsi, in quantità e in potenza,
riducendo al qual tempo le speranze di ritrovare Febo
e Marins vivi. –“Maledizione!”
“I
dubbi non si addicono ad un condottiero, che deve essere lesto nel decidere!
Anche quando la bilancia del destino è inclinata dalla parte a lui avversa!”
–Esclamò allora una voce, mentre un uomo alto e dal volto magro e austero
usciva dalla tenda in cui aveva riposato fino a quel momento.
Nel
trovarselo di fronte, ricoperto dalla sua Veste Divina, tutti i soldati
prontamente si inginocchiarono, e nessuno osò sollevare lo sguardo, per non
incrociare il suo. Persino la Dottoressa Hasegawa
provò un certo timore verso il nuovo arrivato, finendo per genuflettersi a sua
volta, ma senza rinunciare a dargli un’occhiata incuriosita. Il bastone d’oro
incurvato, il flagello e il pastorale incrociati sul pettorale dell’armatura,
il lungo copricapo ornato dall’Ureo e da due piume di struzzo ai lati non
lasciavano dubbi sulla sua persona. La studiosa trasalì, realizzando di essere
di fronte alla Divinità egizia dell’Oltretomba.
“Padre!”
–Commentò Horus, non sapendo che il Dio li avesse raggiunti sui Monti Kunlun.
“Se
lo scopo di questa spedizione è salvare il figlio di Amon
Ra, dobbiamo agire adesso, o la missione sarà fallita in partenza perché Febo presto sarà morto e neppure io potrò riportarlo
indietro dal terribile Amenti cui è destinato!”
–Esclamò Osiride a gran voce. –“La mia sposa, la dolce Iside, osservando il
moto delle stelle, mi ha informato che il varco tra i mondi non è ancora del
tutto aperto, e questo li rende vulnerabili! Per cui dispiega la tue ali,
giovane falco, è tempo di innalzarsi!”
“Come
comandi!” –Annuì Horus, dando ordine ai soldati di prepararsi ad una partenza
immediata. –“Dottoressa Hasegawa, esprimiamo
gratitudine per la sua competenza, grazie alla quale sarà molto più semplice
ritrovare il figlio di Amon Ra! Da questo momento è
dispensata da ogni onere, si senta libera di andarsene dove e quando lo
desidera, anche a Karnak se in futuro vorrà farci visita e studiare i nostri
usi e costumi!”
“Io… sono preoccupata per le sorti di Marins
e di Febo!” –Esitò la donna, intimorita ma al tempo
stesso affascinata dal ritrovarsi in piena mitologia, e desiderosa anche di
saperne di più.
“La
terremo aggiornata, ma una guerra non è posto adatto ad una studiosa! Beh,
forse persino tutto questo le sembrerà stupefacente, non è vero? Uomini falco,
divinità antiche, soldati egizi che marciano nel Taklamakan?”
–Sorrise il giovane Dio.
“Non troppo, in verità. Quando ero giovane, agli inizi della mia carriera
archeologica, ho vissuto esperienze non troppo dissimili, proprio nelle terre
da cui provenite!”
Horus
annuì, dando ordine a un gruppo ridotto di soldati di scortare la donna al suo
campo base, da dove era stata prelevata il giorno prima, e di accompagnare poi
tutta la sua spedizione lontano da quel deserto, la cui eterna pace sarebbe a
breve stata turbata da un violento conflitto.
“Mettiamoci
in marcia! Ci aspetta un’ardua missione! Indossate i mantelli simbiotici e
azzerate i vostri cosmi! Dobbiamo sfruttare quanto più possibile l’effetto
sorpresa!” –Esclamò il giovane Dio, mentre l’intera squadra d’assalto si
armava, iniziando a incamminarsi verso il valico che li avrebbe condotti fuori
dai Monti Kunlun. –“Che Amon
Ra vegli su di noi!” –Aggiunse, mutando forma e spalancando le ali del rapace
dall’argenteo piumaggio.
In
quello stesso momento, molte miglia a sud-ovest, nel cuore del Santuario di
Karnak, una donna sedeva sulla scalinata posteriore intenta a suonare il
sistro, scuotendo lo strumento con fare ritmato, quasi fosse vittima di una
qualche malia.
Nonostante
la distanza, nonostante il suo amato e suo figlio avessero deciso di non usare
i loro poteri cosmici, per non essere individuati dagli occupanti del tempio
nemico, Iside sapeva perfettamente quello che stava accadendo, lo stava vivendo
sulla sua pelle, come fosse stata presente.
“Torneranno!”
–Esclamò una voce all’improvviso, strappando la Dea al suo stato di trance.
–“Inoltre Horus possiede il tiet, non è così? Nessuna
forza potrebbe opporsi al potere di quel talismano, che custodisce tutto
l’amore di Iside!”
La
Dea della Maternità accennò un sorriso, senza mutare l’espressione preoccupata
del suo volto, e si augurò che il Nodo della Vita, in cui aveva canalizzato la
sua energia protettiva, funzionasse anche contro la grande ombra nascente.
Capitolo 12 *** Capitolo decimo: Secondo interludio. Sogni. ***
CAPITOLO DECIMO:
SECONDO INTERLUDIO
SOGNI.
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Ventunesimo anno prima del secondo
avvento.
Le
fiamme stavano soffocando il santuario di Inti, ad Isla del Sol, cingendo d’assedio l’ultimo grande complesso
templare andino. Andrei, ancora frastornato dalla botta ricevuta, stava
cercando di rimettersi in piedi, riordinando i confusi frammenti di ricordi che
gli affastellavano la mente. Frammenti di caos.
Ricordava
i fedeli riuniti, i tre giorni di digiuno, l’attesa per la festa per il
solstizio d’inverno. E una coppa. Sì,
una coppa che gli era sfuggita di mano dopo averne bevuto il contenuto. Per
essere chicha
era stata decisamente preparata con un eccessivo contenuto alcolico. O forse
non era l’alcol ad aver obnubilato i suoi sensi così tanto?
Pianti
di donna e grida lontane lo scossero, mentre poggiava un ginocchio al suolo,
facendo leva per rialzarsi e osservare sconvolto la devastazione del suo mondo,
la fine di quell’isola di pace in cui aveva a lungo vissuto. Da quando aveva
deciso di abbandonare l’isolazionismo cui i suoi fratelli parevano invece
essersi votati, soprattutto uno.
Dall’alto
ingresso del tempio di Inti, posizionato sulla
sommità di una gradinata che risaliva il versante orientale della costruzione,
vide una coltre di fiamme nere e fumo sovrastare Isla
del Sol. Laddove, fino a poche ore prima, aveva visto uomini e donne pregare
assieme, invocando la benedizione del Signore del Giorno, adesso ardeva
un’immensa carneficina, una strage che non era stato in grado di evitare. Ma di
tempo per torturarsi inutilmente, macellandosi l’animo con un infecondo senso
di colpa, ne avrebbe avuto. Prima però avrebbe affrontato colui che quella
carneficina aveva scatenato, colui che aveva osato violare la sacralità dell’IntiRaimi.
Non
ebbe neanche bisogno di impegnarsi troppo a scandagliare l’isola con il cosmo,
non sembrando il suo avversario affatto interessato a celarlo. Anzi pareva
proprio che stesse urlando al mondo di essere lì, ritto ai piedi del tempio,
avvolto in un turbinar di vampe nere che sinuose si avvoltolavano attorno al
suo corpo. Pareva che niente lo intimorisse, né l’anatema che i sacerdoti gli
avevano lanciato non appena aveva dato ordine di profanare il tempio di ApuPunchau, né l’eventualità di
uno scontro con un uomo che conosceva bene, figli entrambi dello stesso
creatore.
“Anhaaar!!!” –Gridò Andrei, e la sua voce rombò dall’alto
colle fino a invadere tutta l’isola, risuonando furiosa sulle violate acque del
Lago Titicaca.
Il
suo nemico accennò un sorriso, perfido e divertito, muovendo un piede e
issandosi sul primo scalino della gradinata, molti metri sotto di lui, prima di
sollevare il viso e trafiggerlo con sguardo insolente. Quasi rispondessero a
una melodia silenziosa, suonata dall’oscuro direttore d’orchestra, le tetre
vampe presero ad ardere con intensità maggiore, strisciando lungo la scalinata
del tempio e piombando su Andrei, per soffocarlo e ghermire la sua vita.
“Dovrai
fare molto di più, se vorrai vincermi.” –Si limitò a commentare quest’ultimo,
socchiudendo gli occhi e mormorando alcune parole in quechua, per evocare il
fuoco. –“Nina lawray.” –Radunato il cosmo, lo fece
esplodere poco dopo, risucchiando le oscure vampe in un più esteso vortice di
fuoco, che iniziò a turbinare attorno a lui, prima che Andrei lo dirigesse
verso il basso.
“Aurora infuocata!!!”
Anhar fu
svelto a balzare di lato, evitando di essere travolto e rimediando solo una
lieve ustione al braccio sinistro, comunque riparato dalla sua scarlatta
armatura. Quando cercò di nuovo Andrei con lo sguardo vide che l’uomo era in
ginocchio, prostrato da un affanno improvviso di cui egli ben conosceva la
causa. Sogghignò, complimentandosi con se stesso per come aveva distrutto
l’esile parvenza di felicità in cui l’antico compagno si era cullato per
qualche anno, prima di scattare lungo la scalinata, superando gli ultimi
gradini con un balzo, avvolto nel suo cosmo incendiario.
“Che
sia la notte più nera ad accoglierti! Apocalisse
Divina!!!”
La
tempesta di fuoco e ombra sollevò lo stanco corpo di Andrei scaraventandolo di
peso contro la parete esterna del tempio di Inti,
facendola crollare su di lui dopo poco e scagliando di sotto frammenti di
pietra e mattoni, tra le grida terrorizzate dei fedeli che erano rimasti a
guardare. Una silenziosa preghiera al Dio della Luce, affinché desse loro un
segno.
Passando
accanto alle macerie crollate, Anhar entrò nella
piccola sala sulla sommità del tempio, l’ultima che ancora doveva controllare,
dopo aver lasciato le celle inferiori ai suoi sottoposti. Uno spazio ristretto,
in verità, riservato ai sommi officianti di Inti, su
cui spaziava lo sguardo protettore di un volto umano incorniciato all’interno
di un sole d’oro. Un’antica rappresentazione del Dio generatore della vita,
fulcro del Tahuantinsuyo,
l’Impero Inca.
“Temo
che stanotte il numero dei tuoi già miserrimi accoliti si ridurrà
drasticamente, mio caro Inti! Non che mi dispiaccia,
anzi in verità non posso che goderne! A nient’altro infatti auspico se non al
crollo di tutti i nuovi falsi Dei, e tu, in fondo, sei un giovincello rispetto
ad altri! E farai la stessa fine di Quetzalcoatl!”
–Ironizzò Anhar, specchiando il suo ruvido volto nel
disco d’oro agganciato alla parete e immaginando, compiaciuto, di farne
realizzare uno con le sue fattezze. –“Ma anziché raggi di sole, tutto intorno
ci vorrei delle fiamme scarlatte e nere! Oh sì, lo appenderò nella mia camera
da letto, sulla cima dell’Olimpo, quando sarà mio!”
“Dovrebbero
metterci dei teschi, al posto delle fiamme, cane spregevole! Uno per ogni amico
che hai tradito, uno per ogni giuramento disatteso!” –Ringhiò una voce,
distraendo il Rosso Fuoco dai suoi viaggi mentali.
“Ancora
vivo?! Sono deluso! Il veleno di cui la coppa era ripiena avrebbe dovuto
prostrarti inerme e invece ancora t’affanni nel tuo intestardito agire? Farò
uccidere la mia schiava per non aver eseguito alla lettera i miei comandi!”
–Ghignò Anhar.
“Tu
non farai uccidere più nessuno!” –Avvampò Andrei, espandendo il proprio cosmo,
ma il suo avversario gli scagliò contro il disco d’oro, facendolo roteare
vorticosamente, al fine di mozzargli la testa.
Andrei
fu svelto a rotolare di lato, evitandolo, ma già Anhar
si era lanciato su di lui. Come il guerriero si aspettava.
Concedendosi
un sorriso, Andrei sfiorò il pavimento del tempio, infondendogli il calore del
suo cosmo, mentre un muro di fuoco sorgeva di fronte a lui, a sbarrare il passo
al violento carnefice.
“Fermarmi
con delle fiamme?! Idea poco produttiva!” –Ridacchiò Anhar,
ma non appena mosse il braccio per scacciarle, queste presero vita,
avvolgendosi attorno al suo arto e strisciando poi lungo il suo corpo,
penetrando persino la cotta divina che indossava. –“Aaargh!!!
Razza di maledetto! Che fiamme hai volto contro di me?!”
“Le
fiamme della speranza!” –Commentò pacato Andrei. –“Quelle che mai potrai
sopire!” –E si scagliò contro di lui, il palmo della mano carico di rovente
energia cosmica, che poggiò contro il pettorale della corazza di Anhar prima di liberarla. –“Aurora infuocata! Esplodi!!!”
La
detonazione ravvicinata scaraventò il guerriero indietro, avvolgendolo in una
fiammeggiante cometa che distrusse il muro retrostante, proseguendo la sua
corsa fino a schiantarsi nelle acque del lago, estinguendosi con un gran boato.
Nonostante
la teatralità della scena, Andrei non poté fare a meno di pensare che quel
problema non era certo stato risolto, solo momentaneamente accantonato. Di
altri doveva invece occuparsi adesso, per quanto la testa gli martellasse e il
solo respirare provocasse in lui affanno. Il veleno che aveva bevuto con
l’inganno aveva ottenebrato i suoi sensi, rendendolo debole e vulnerabile.
E
altri avrebbero pagato per la sua debolezza.
***
Jonathan
correva per i corridoi del tempio di Inti, tenendo
una mano sulla ferita al fianco destro. Aveva aiutato le guardie a liberare
l’ingresso del santuario, occupato da quei misteriosi nemici comparsi dal cielo
poche ore prima, ma era stato colpito di striscio da un colpo di lama. Strinse
i denti, sperando che non fosse avvelenata, e continuò ad avanzare, passando in
mezzo a cadaveri che non voleva guardare in faccia, per paura di ritrovarci un
volto amico.
Stava
scendendo nel cuore del tempio, dove i supremi officianti avevano dato maggiore
resistenza, anche a giudicare dal numero di nemici morti sparsi nelle gallerie.
Pur tuttavia era certo che l’attacco non fosse ancora finito. No, non poteva
considerarsi tale finché quegli aggressori non avessero avuto ciò per cui erano
venuti. Come gli antichi conquistadores, avrebbero
preteso il loro tributo. Il loro tesoro.
“Come
osate mettermi le mani addosso?!” –Gridò d’improvviso una voce di donna,
riscuotendo il bambino dai suoi pensieri. Una donna che ben conosceva.
Col
cuore in affanno, scivolò tra le ombre dei corridoi interni fino ad arrivare
alla sala più profonda del tempio, dove gli officianti si riunivano per
celebrare i loro riti. Il sancta sanctorum del Tempio di Inti.
Facendosi
forza, Jonathan sporse la testa e osservò la violenza consumarsi in fretta, al
centro di quello spazio, dove gli invasori del tempio avevano radunato i
sacerdoti e le sacerdotesse superstiti, uno sparuto gruppo impaurito, che
sembrava aggrapparsi alla veste di una donna dal carattere fiero.
“State
violando il tempio del Dio del Sole! La sua ira vi coglierà tutti, servi delle tenebre!
Alla prima luce del giorno, di voi resteranno solo ceneri!” –Gridò la vestale,
prima di essere zittita dal manrovescio di un uomo.
“Taci,
serva, e mostraci i segreti del tempio! So che custodite ancora antiche pozioni
di guarigione, arti magiche da utilizzare in guerra, veleni naturali e forse
anche la formula dell’immortalità? Ighighigh!” –Ghignò un uomo
rivestito da una tunica nera, fermata in vita da una fascia grigia. –“Prendete
tutto quel che ci può essere utile! Fate razzia di ogni elemento che possa
aiutarci a comprendere questo mistero!” –Gridò, rivolto agli uomini che lo
accompagnavano.
“Fermi!
Smettetela! Ma cosa state facendo? Cosa volete? Perché ci avete assalito?! Inti è un Dio di pace!”
“Conoscenza.
È questo che cerchiamo!” –Rispose l’uomo, placando infine la voce. –“Il mio
signore ritiene che questo santuario celi un segreto perso dagli albori del
tempo. Difficile a dimostrarsi, in verità, poiché nessuno conosce la forma di
questo così importante, e al tempo stesso evanescente, manufatto. Per tale
motivo io, che sono ben più pratico, preferisco concentrarmi sulle cose
materiali dell’esistenza, anziché inseguire fatui sogni di dominio. Io, che
della Regina Nera sono l’ultimo alchimista!”
“La
Regina Nera?! La leggendaria isola da cui provengono i guerrieri oscuri, figli
delle tenebre?” –Tremò la donna prigioniera.
“Delle
loro corazze sono l’artefice. Athanor, per servirvi.”
–Ironizzò, facendo un inchino, prima di berciare nuovi ordini ai suoi
scagnozzi.
Fu
allora che Jonathan spuntò fuori dal suo nascondiglio, balzando agilmente sulla
schiena di un invasore e tranciandogli la gola con una lama. A tal vista, gli
altri uomini si lanciarono su di lui, lance in pugno, ma il bambino fu svelto a
evitare gli affondi, cercando riparo dietro gli arredi della sala.
“Tuttut.” –Mormorò Athanor, facendo cenno ai suoi servitori di abbassare le
armi e tornare a occuparsi delle loro faccende prioritarie. Quindi, voltandosi
verso Jonathan, ne bloccò i movimenti, inchiodandolo sul posto con lo sguardo.
–“Inutile che tu tenti di fuggirmi, bel bambino, sforzeresti soltanto i tuoi
muscoli per niente. Sei prigioniero della mia morsa telecinetica, ma lo sarai
per poco, il tempo necessario per tagliarti la gola, come tu l’hai tagliata al
mio collaboratore. Sai come si dice? Occhio per occhio…”
–Commentò calmo, obbligando con la forza della mente il braccio di Jonathan a
spostarsi verso la sua carotide, con la lama pronta a reciderla.
“Nooo!!!” –Gridò la donna, perdendo tutta la sua flemma e
gettandosi in avanti, subito fermata dalla scorta dell’alchimista nero, che
sogghignò serafico, contento di aver colpito nel segno.
“Pare
che tu non sia un orfanello smarrito. Non è così?” –Esclamò, voltandosi verso
la donna che, in lacrime, non toglieva lo sguardo da Jonathan. –“Sacerdotessa e
madre, a quale dei due doveri sarai più fedele?” –Le chiese, afferrandole il
mento e obbligandola a guardarlo negli occhi. –“Lo scopriremo presto.” –E, nel
dir questo, sbatté Jonathan contro un tavolo, piantandogli la lama nel palmo
aperto di una mano.
“Brutto
bastardo, lascialo andare!!!” –Ringhiò furibonda la madre del ragazzo.
“Dimmi cos’è che il mio padrone sta cercando, che cosa disperatamente invade i
suoi sogni costringendoci a vagare per il pianeta e a saccheggiare tutti i
sacri templi che incontriamo! Quale talismano è mai nascosto in questa putrida
isoletta dimenticata dagli Dei, persino dal vostro? Parla vacca, o lo sgozzo
come un agnello sacrificale!!!” –Gridò Athanor,
stritolando il collo della donna e fiatandole in faccia il suo mortifero
proposito.
La
sacerdotessa di Inti, con gli occhi iniettati di
sangue e lacrime, guardò un’ultima volta il bambino biondo bloccato sul tavolo
dalla telecinesi del nemico, accennando un sorriso, troppo breve e troppo poco
sentito per racchiudere tutto quel che provava. Tutto quel che avrebbe perduto.
Poi spostò lo sguardo su Athanor, risalendo dalle
labbra avvizzite lungo il naso deforme e fissandolo negli occhi, con tutta la
risolutezza che poté trovare in quel momento di disperazione estrema. Lo fissò
e gli sputò in faccia, di fronte agli sguardi attoniti dei sacerdoti e dei
soldati invasori. E lo avrebbe fatto di nuovo, se l’alchimista oscuro non le
avesse torto la testa in una posa innaturale, fino a schiantarle l’osso del collo.
Morta,
il suo corpo si afflosciò sul pavimento, tra i singhiozzi dell’alto clero e le
grida del bambino.
Stanco
di quei drammi familiari, Athanor scaraventò Jonathan
contro il resto dei sacerdoti, gettandoli a terra, prima di dare l’ultimo
ordine ai suoi scagnozzi.
“Incendiate
tutto!” –Esclamò, prima di incamminarsi a passo svelto nei corridoi del tempio,
diretto verso l’esterno.
Anche
quella missione, come quelle ai templi di Cuzco e di Chichén Itzá era stata
inutile, un nulla di fatto. Che cosa stesse cercando Flegias,
o Anhar come a volte si faceva chiamare, lui ancora
non l’aveva capito e forse non l’avrebbe mai compreso. Del resto Athanor viveva per sopravvivere, e per farlo doveva servire
il Rosso Fuoco, fintanto che l’alleanza avrebbe fruttato ad entrambi. Così da
queste razzie in America Meridionale aveva recuperato alcuni papiri antichi,
ricette per veleni e medicamenti, istruzioni per lavorare i metalli e ogni
altro tipo di informazione utile per accrescere la sua continua fame di sapere.
Ma di fantomatici talismani creati all’alba dei tempi da una cricca di saggi, Athanor non aveva trovato traccia.
Uscito fuori dal complesso templare, si portò due
dita alla bocca e fischiò, attendendo che l’enorme Roc
planasse su di lui per recuperarlo e portarlo via da quell’ennesimo insuccesso.
Almeno quel magnifico esemplare, risvegliato e manipolato dall’oscuro potere
della Pietra Nera di Flegias, era stato un suo
trionfo, e anche il figlio di Ares lo aveva apprezzato.
***
Alla
vista della madre uccisa di fronte ai suoi occhi, Jonathan esplose in un urlo
furioso. Per tutto il tempo in cui era stato bloccato dalla psicocinesi di Athanor, aveva cercato di rimanere calmo, di concentrare i
sensi, come il suo precettore gli aveva insegnato, di raffreddare l’ardore del
suo spirito, ma gli era stato impossibile sfuggire alla morsa mentale
dell’alchimista oscuro.
Del
resto aveva soltanto nove anni. E anche se in seguito si sarebbe maledetto e
colpevolizzato per non aver saputo fare di più, in quel momento piangere per la
madre morta era tutto quel che gli era concesso. Fu allora che, mentre
carezzava il corpo spezzato e le mani prive di vita, le mani che l’avevano
cullato e protetto per anni, il fuoco che covava dentro riuscì infine a trovare
la via per accendersi.
“Aaahhh!!!” –Gridò, stringendo i pugni e alzando lo
sguardo, mentre un’aura color avorio lo avvolgeva, una luminescenza così accesa
che obbligò tutti i presenti a coprirsi gli occhi.
Quando
riuscirono di nuovo a vedere, notarono che il bambino si era rimesso in piedi e
che in mano stringeva una lunga asta dorata, apparsa dal nulla.
“Inqa.” –Mormorò Jonathan, assaporandone la potenza
intrinseca. Con un balzo fu sugli aggressori, mulinando l’arma come una spada e
colpendoli uno dopo l’altro, gettandoli a terra o spingendoli indietro, mentre
l’aura attorno al suo corpo cresceva di intensità, stupendo persino i sacerdoti
ancora vivi.
Infine,
come fosse un gesto che aveva sempre compiuto, sollevò l’asta, la cui sommità
rivelò un fiore in procinto di sbocciare, e mormorò alcune parole.
“Scettro
d’oro, illumina la via!!!” –E mille strali luminosi sgorgarono dalla cima
dell’arma, trafiggendo gli invasori del tempio di Inti
e ponendo fine alla loro vita.
Ammirati,
gli officianti rimasti vivi si inginocchiarono attorno a lui, alzando e
abbassando le mani, in onore al ritorno del loro signore. Non ebbero dubbi, il
Signore del Giorno era tornato a Isla del Sol per
salvare le loro vite.
Jonathan,
stanco per l’improvviso sforzo e confuso dal rapido succedersi degli eventi,
non seppe cosa dire, accasciandosi a terra a pochi passi dalla madre, che tentò
di raggiungere allungando un braccio.
Fu
così che li trovò Andrei, quando arrivò correndo seguito dai soldati inca che
era riuscito a riorganizzare in fretta. Vicini, eppure ormai separati per
l’eternità.
Con
palese tristezza nel volto, il Signore del Fuoco si avvicinò al bambino,
sollevandolo e avvolgendolo in una coperta, prima di affidarlo ad alcune
badanti che provvedessero a medicare le sue ferite e a nutrirlo. Quindi si
chinò sul corpo della sacerdotessa di Inti.
Juana. Mormorò l’uomo, spostandole i capelli rossicci dal
volto, in un tenero gesto che molte volte aveva ripetuto nella loro intimità.
Hai scelto di morire pur di non rivelare
la verità. Perdonami se ho tardato, perdonami se non sono riuscito a salvarti. Pianse Andrei, lasciando che le lacrime cadessero sul
volto della donna che aveva amato. Aveva sentito spegnersi la sua vita, mentre
correva nel cuore del complesso templare, aveva sentito le grida disperate
quando Juana credeva che Athanor
avrebbe ucciso suo figlio, ma ancor di più aveva udito le ultime parole che la
donna gli aveva diretto.
Proteggi nostro figlio. Egli nasconde la
luce che illuminerà il mondo.
Andrei
annuì, pulendosi le lacrime e sollevando la donna, adagiandola su un tavolo
vicino, fissandola per l’ultima volta.
Avalon
aveva ragione, si disse. Non avrebbero dovuto legarsi con gli esseri umani, non
avrebbero dovuto condividere gioie e dolori con loro, perché ciò li avrebbe resi
deboli e li avrebbe allontanati dalla loro missione di garanti dell’equilibrio.
Forse
era vero. Eppure, in fondo al cuore, Andrei non poté nascondere un sorriso,
pensando al figlio che aveva avuto con Juana. Un
bambino che nascondeva un segreto celato da millenni. Uno dei Talismani per cui
Anhar aveva dato fuoco al tempio di Inti, e che Andrei era quasi riuscito a perdere. Cosa
sarebbe accaduto se Jonathan fosse morto?
Il
Signore del Fuoco scosse la testa, preferendo allontanare simili nefasti pensieri,
lasciando ad Avalon le speculazioni filosofiche sugli incroci possibilistici
della vita. Quel che era davvero importante, adesso, era addestrare Jonathan al
gravoso compito che lo attendeva, fortificarlo, proteggerlo e prepararlo al
secondo avvento.
Egli è uno dei Prescelti. Il cosmo di Menara è in lui.
“Ti
insegnerò tutto quello che so!” –Gli disse, qualche ora dopo, quando il bambino
riprese i sensi, in una capanna usata come rifugio per i feriti. –“Sui
Talismani in generale, e in particolare sul tuo, lo Scettro d’Oro o Scettro dei
Sogni!”
“Scettro
dei Sogni?!” –Borbottò Jonathan, non comprendendo.
“Sì,
questo è il nome che il suo creatore gli diede. Perché vedi, Jonathan, l’asta
che impugni non è soltanto uno scettro, ma una chiave, che apre il varco che
conduce ad altri mondi. Varco di cui tu, Cavaliere dei Sogni, sarai il
guardiano!”
***
“Non
dire niente, ti prego. Ne sono consapevole!” –Esclamò Andrei, mentre la figura
dalle vesti argentee si avvicinava, frusciando leggera tra l’erba, senza
neppure schiacciarla.
“Oh,
lo so!” –Sorrise Avalon infine, fermandosi al centro del cerchio di monoliti.
–“Quel che importa è che tu lo sia davvero, e che tu sia pronto per andare
avanti!”
Andrei annuì, immaginando quel che l’antico compagno gli avrebbe detto. Quel
che gli avrebbe chiesto.
“Tuo
figlio rimarrà ad Avalon, terminerò il suo addestramento! Non ci vorrà molto, è
un ragazzo sveglio, di mente acuta, ed è stato istruito bene, sia da te, che
dai sacerdoti del tempio di Inti! Conosce la forza
dei misteri così come del tirar di spada! A Reis farà
piacere avere qualcuno della sua età con cui confrontarsi!” –Quindi si zittì un
attimo, prima di concedersi una risata genuina, così cristallina da stupire lo
stesso Andrei. –“Tuo figlio, uno dei Sette?! Il destino gioca in modo
imprevedibile con le nostre vite! Anche se questo non modifica il nostro
obiettivo finale! Egli non dovrà mai sapere che sei suo padre, gli diremo che è
orfano, come Reis, come tanti altri giovani ed eroici
combattenti, e ciò gli dovrà bastare! Nella solitudine troverà la forza,
l’affetto lo renderebbe debole! E la debolezza è dote che i custodi dei
Talismani non devono possedere! Devono essere forti e intransigenti per reggere
l’unica luce in grado di rischiarare l’universo!”
“Io… sono d’accordo con te! Per lui sarò solo il suo
maestro! Nessuno, comunque, al di fuori della gilda conosce la sua paternità!”
–Commentò Andrei, stringendo i pugni. –“Chiarito questo, che ne è di Anhar? Dove si è nascosto quella carogna infame?”
“Nelle
stesse ombre dietro cui si cela da secoli, nascondendosi persino alle acque del
Pozzo Sacro! Ombre da cui furtivamente esce, di tanto in tanto, per spargere
ulteriori semi di disgrazia! In Africa ho percepito la sua presenza l’ultima
volta, tra le dune sabbiose del Sahara! E non è un caso che poche ore dopo
abbia avvertito un fremito, un incresparsi improvviso nelle acque della visione…”
“Cosa
vuoi dire?!” –Incalzò Andrei, mentre entrambi si avvicinavano all’orlo del
Pozzo Sacro, osservando al suo interno.
Le
calme acque si agitarono all’improvviso, mostrando una violenta tempesta
imperversare in un canale marino, sollevando navi e scagliandole contro gli
scogli o ribaltandole sulle spiagge, tra le grida disperate dei marinai. Su
tutto aleggiava una oscura presenza, un vento di fiamme nere carico di un
rancore covato per secoli.
“Che
cos’è questo luogo?”
“Mar
Ionio. Canale di Sicilia.” –Chiarì Avalon, lasciando che l’amico metabolizzasse
l’informazione. E capisse.
“Tifone?!
È stato risvegliato?!”
“I
suoi sigilli si sono improvvisamente indeboliti e di certo l’odio che affama il
suo cuore potrebbe spingerlo a liberarsi quanto prima. Per questo sto
lavorando, per ripristinarli in fretta, prima che provochi ulteriori danni.”
“Vado
a ucciderlo!” –Affermò Andrei. Ma Avalon lo bloccò, afferrandolo per il braccio
e scuotendo la testa.
“Torna
a Isla del Sol, la ricostruzione del tempio di Inti deve procedere! Il tuo popolo ha bisogno di speranza,
di fiducia, della tua rasserenante presenza, perché un giorno, non lontano,
dovrà tornare a combattere! E, se vuoi che lo facciano con determinazione, devi
dare loro un motivo, una guida da seguire!”
“Che
ne sarà di Tifone?”
“Un
mio allievo se ne sta occupando.” –Commentò schivo Avalon, prima di riportare
lo sguardo sulle acque del Pozzo Sacro. Là, tra il mulinare delle correnti e il
luccichio delle anime perse, la sagoma di un uomo apparve poco dopo. Il Signore
dell’Isola Sacra lo riconobbe subito, anche se il suo corpo era celato da un
mantello, e sorrise.
Presto
i Talismani sarebbero stati riuniti e Micene di Sagitter
avrebbe ricevuto in dono la luce più pura. Lui, soltanto lui, poteva essere il
Cavaliere della Leggenda. Di questo, il suo maestro era assolutamente sicuro.
Capitolo 13 *** Capitolo undicesimo: Vortici di speranza ***
CAPITOLO UNDICESIMO: VORTICI DI SPERANZA.
Castalia
era sconfortata. E anche quel sole appena sorto in lontananza non la faceva ben
sperare. Sospirò, prima di rientrare nella capanna, pulirsi il viso al lavello
e mettersi addosso la cotta di rame e bronzo che indossava durante le ricerche,
preparandosi a una nuova giornata di fallimenti. Purtroppo, per quanto a lungo
l’avessero cercata, per quanto attentamente avessero scandagliato mari e coste,
di Tisifone ancora non avevano trovato tracce e ogni
giorno che passava rendeva sempre più flebile la speranza di ritrovarla.
Stava
tornando dal Canada quando aveva ricevuto nuovi ordini direttamente da Atena,
informata della scomparsa della nave su cui viaggiavano la Sacerdotessa dell’Ofiuco e i suoi collaboratori. E proprio la Dea le aveva
chiesto di occuparsi delle ricerche, affiancandole una squadra di recupero
inviata apposta da Nuova Luxor, capitanata da un fedelissimo di Lady Isabel, un
professore che anni addietro aveva persino creato delle armature. Con l’appoggio
della Grande Fondazione, Castalia e la squadra al suo comando avevano
perlustrato il Mar Celtico, partendo dall’ultima posizione rilevata della nave
di Tisifone, dedicando particolare attenzione alle
coste francesi, verso cui le correnti tendevano a confluire.
Dall’Ile de Batz, Castalia si era
progressivamente spostata verso l’estremità della penisola di Bretagna, fino
all’Ile de Ouessant,
laddove la Fondazione aveva installato una base provvisoria. Un punto
strategicamente perfetto per controllare ambo le coste della penisola francese
e per lavorare in segretezza, essendo l’isola poco popolata. Ma tutte le
speranze che aveva nutrito quel giorno, quando aveva stretto la mano al
professore giapponese giunto di corsa dall’altra parte del globo con un jet a
reazione della Fondazione Thule, portando con sé un
carico di macchinari fantascientifici, adesso parevano scomparse, appannate
dalla stessa foschia che al mattino permeava le coste dell’isolotto, rendendo
ancora più complesse le ricerche.
“Finalmente
sei sveglia!” –La richiamò una voce giovanile. –“Il professore ci ha mandato a
cercare! Pare che il radar dei fratelli abbia rilevato qualcosa in mare aperto!
Per ora è un segnale molto debole, ma a parer suo vale la pena di indagare!”
“Certamente.”
–Si limitò a rispondere Castalia, sorridendo sotto la maschera al giovane dai
capelli castani con cui era stata a stretto contatto negli ultimi giorni.
Asher
non colse il tentennamento della ragazza o se anche se ne accorse fu bravo a
non darlo a vedere, limitandosi a farle cenno di precederlo lungo il
camminamento di legno che si snodava tra le baracche del piccolo porto di Cadoran, sul versante settentrionale dell’Ile de Ouessant, poco distante
dal faro di Stiff, scelto dal Professore per lavorare
nell’isolamento più completo.
Anche
Asher aveva ricevuto precise istruzioni da Atena, per cui, dopo aver lasciato
la Svezia, aveva raggiunto le coste francesi, impegnandosi a fondo nelle
ricerche.
Senza perdere neanche in un’occasione determinazione
e tenacia. Osservò la Sacerdotessa
dell’Aquila, ritrovando nel ragazzo alcuni aspetti che le ricordarono l’allievo
che aveva addestrato ad Atene. E che
adesso combatte chissà dove in questa guerra che pare non avere fine.
Aggiunse, poco prima di entrare dentro la stazione di ricerca, dandosi della
stupida per essersi lasciata travolgere così facilmente dal senso di sconfitta.
Cosa avrebbe dovuto fare Pegasus
all’ingresso della Casa del Toro? Voltarsi e tornare indietro o affrontarne il
corpulento custode, pur con il rischio di perdere la vita? Si rispose da
sola, reperendo nel ricordo dell’allievo la forza per andare avanti. Ti troveremo, Tisifone!
Ti troverò, amica mia! Concluse, entrando nella base.
“Buone
notizie, Castalia! Oh sì, spero proprio che lo siano!” –Disse il Professor Rigel, mostrando alla ragazza e ad Asher i risultati di
alcune ricerche effettuate in mare aperto, seguendo un’ipotetica linea retta
che dal faro di Stiff correva verso le coste della
Cornovaglia. –“Proprio in questo punto i nostri strumenti di rivelazione hanno
individuato qualcosa, qualcosa che non dovrebbe esserci, non essendo sulla
rotta ufficiale di alcuna nave. Ho già inviato i fratelli a controllare!”
“Molto
bene, Professor Rigel, la vostra efficienza supera la
vostra preparazione!” –Commentò la donna, che nutriva grande stima per
l’operato dello scienziato, soprattutto da quando, due giorni addietro, gli
aveva mostrato la sua ultima creazione. I fratelli a cui faceva, con tono
fiero, riferimento.
“Oh,
mi lusingate, Castalia! Voi non…” –Ma prima che il
professore potesse aggiungere altro una serie di interruttori iniziò a
lampeggiare, anticipando il risuonare frenetico di un fastidioso allarme. –“Ma
cosa succede?” –Esclamò l’uomo, correndo verso i monitor, dove alcuni tecnici
parlavano tra loro in tono concitato. –“Sembra che tutte le nostre boe
rivelatrici siano impazzite… e di alcune…
abbiamo perso il segnale, quasi fossero state disattivate o…”
“Distrutte.”
–Mormorò Castalia, e Asher le diede ragione, battendo un pugno nel palmo dell’altra
mano, prima di correre all’esterno dietro di lei. A fatica trattennero
un’espressione di stupore nell’osservare la violenta tempesta che stava
sferzando il porto, devastando tutte le sue strutture e sradicando ponti e
capanne.
No, rifletté il Cavaliere d’Argento. Non
è una tempesta. Le correnti d’aria soffiano in una ben precisa direzione. Osservò,
notando come tutto quel caos riuscisse comunque ad avere una parvenza d’ordine,
rappresentata proprio dall’occhio di quel ciclone inatteso. È una tempesta circolare, simile a un
tornado o a un…,
aggiunse, notando che persino le acque del mare non erano esenti da quella
furia, …vortice.
E
proprio al centro di quel tornado, che ormai aveva violentato la sempiterna
calma di quell’isola, cambiandone per sempre anche la morfologia, era appena
apparso un uomo, i cui lineamenti da lontano non riusciva ancora a definire,
sebbene fosse certa che indossasse un’armatura.
Un Cavaliere?! Mormorò, cercando di individuarlo ma stando attenta
a non essere travolta dal mulinare imperterrito del vortice o dai pezzi di
legno o pietra che precipitavano in ogni direzione. Fu solo l’intervento di
Asher, che balzò su di lei, schiacciandola a terra, che impedì ad una trave
appuntita di mozzarle il collo, ma neppure il ragazzo poté proteggerla dalla
furia di quel turbine che puntava dritto verso di loro.
“Non
troppo presto!” –Parlò infine lo sconosciuto apparso dal mare, e al suono della
sua voce il mulinello d’aria e acqua si allargò, sfumando ai lati e scagliando
verso l’entroterra tutto ciò che aveva fagocitato nella sua breve, ma
devastante, marcia. –“Prima di uccidervi desidero sapere. Chi siete? Anzi no,
questo già lo so. La maschera che porti sul volto, donna, è sufficiente per
indicarti come Sacerdotessa Guerriero. Quel che mi chiedo è cosa fanno due
Cavalieri di Atena così a nord, ben fuori dalla vostra area di giurisdizione.”
“Perché
vuoi saperlo? E chi sei tu?” –Incalzò Castalia, facendosi forza col tono della
sua stessa voce.
“Siete
giovani, per questo siete scusati!” –Rise lo sconosciuto, il corpo ricoperto da
una corazza azzurrognola, molto coprente. –“Ma se foste vissuti secoli
addietro, quando il mondo era giovane e gli uomini provavano reverenziale paura
nei confronti del mare, allora il mio nome avreste di certo conosciuto. E lo
avreste temuto. Perché io sono Cariddi, l’irrequieto. Il generatore di vortici
così devastanti che persino l’eroico Ulisse ebbe di me timore, preferendo
affrontare Scilla, che rischiare la sorte nelle mie profondità!”
“Ca… Cariddi?!” –Mormorarono Asher e Castalia, che ben
conoscevano le leggende su quel pericolo marino. –“E cosa fai qua? Anche tu sei
piuttosto a nord, rispetto al tuo campo d’azione, non è vero?”
“In
un certo senso sì! Ma è da molto tempo che non dimoro presso le coste di
Sicilia, preferendo vagare per gli oceani, in modo da non essere
rintracciabile.” –Disse, incupendosi per un istante, per poi tornare al tono
gioviale ma fermo avuto fin dall’inizio. –“Ciò è irrilevante, comunque. Quanto
meno per chi sta per morire! In tutta onestà, uccidere due Cavalieri di Atena
mi reca dispiacere, perché in passato ho avuto simpatia per la vostra Dea. Pur
tuttavia gli ordini sono ordini e sincerarmi che non vi fossero superstiti
equivale a far fuori chiunque metta il naso in affari che non gli competono!”
“Tu
sai cosa è accaduto alla Sacerdotessa mia compagna?” –Esclamò Castalia, avendo
compreso a cosa si riferisse. –“Parla, che ne è di lei?”
“Solo
il mare lo sa.” –Rispose Cariddi, alzando le spalle.
“Bastardo!!!”
–Ringhiò Asher, chiudendo le dita a pugno e iniziando a espandere il proprio
cosmo. Prima che Castalia potesse dirgli alcunché, il ragazzo era già corso
avanti, balzando su Cariddi e muovendo il braccio per colpirlo in pieno volto,
ma, come la Sacerdotessa notò prontamente, l’uomo fu più veloce, girando il
capo e lasciando che il pugno di Asher fendesse l’aria, prima di afferrarlo a
mezz’aria e sbatterlo al suolo.
“Un
rottame tra i relitti.” –Commentò Cariddi, sprofondando il ragazzo tra le travi
di legno del vecchio pontile.
“Ehi,
ci sono anch’io!” –Lo chiamò allora Castalia, prima di balzare su di lui con un
calcio acrobatico. E venire prontamente scaraventata indietro.
“Lo
noto.” –Ironizzò l’uomo, incamminandosi verso di lei. Ma fu di nuovo distratto
da Asher, che, risollevatosi, stava bruciando il cosmo, richiamando a sé
l’armatura dell’Unicorno, che subito apparve e si dispose sul suo corpo. –“Non
ti servirà a molto. Credimi.” –Disse, mentre il Cavaliere di Bronzo spiccava un
balzo, portandosi al di sopra di Cariddi per poi piombare su di lui con una
mitragliata di calci.
“Criniera dell’Unicorno!!!”
“Che
nome sciocco per un semplice calcio volante!” –Commentò Cariddi, con aria
divertita, muovendosi ad una velocità superiore a quella del ragazzo, di cui
poté osservare ogni singolo movimento. Quando si stancò, soffocò con la mano
destra uno sbadiglio, prima di afferrare la gamba tesa di Asher con la sinistra
e sbatterlo a terra. Una volta, due volte, dieci volte, fino a crepargli
l’armatura e spaccargli l’elmo della corazza, imbrattandogli il volto di
sangue. Infine lo scagliò in aria, preparandosi a colpirlo con un fascio di
energia cosmica, ma Castalia lo anticipò, balzando in alto e recuperando
l’amico.
“Stai…attenta…” –Mormorò Asher,
sputando sangue. –“Sembra calmo e tranquillo ma la sua forza fisica è
devastante.”
“Come
nei vortici che genero, uguale forza pervade le mie braccia!” –Chiosò Cariddi
trionfante. –“E non è potere che una donna e un ragazzino possono vincere!”
“Questo
lo vedremo!” –Esclamò Castalia, che aveva a sua volta indossato l’armatura
dell’Aquila. –“Cometa pungente!!!”
–Aggiunse, scatenando il colpo segreto che aveva insegnato a Pegasus.
“Quattrocentosedici
colpi al secondo! Non male davvero, per un Cavaliere del tuo rango! E sono
convinto che se ti lasciassi scatenare potresti anche migliorarti!” –Ammise
Cariddi, con un’espressione di genuino stupore. –“Ma sei ancora troppo debole
per affrontare una creatura divina! Fatti un favore e muori!” –Concluse,
avanzando tra gli attacchi di Castalia e chiudendo infine la mano sul suo pugno
destro teso. Lo stritolò, tra le grida della donna e lo scricchiolare della
corazza, prima di scagliare in alto il corpo nemico e colpirlo con una sfera
energetica.
“Ca… Castalia!!!” –Urlò Asher, rimettendosi in piedi.
–“Maledetto, non ci lasceremo vincere così! Abbiamo una missione da portare a
termine e non ho intenzione di deludere la fiducia che Atena ha riposto in me!
No, non la deluderò!!!” –Ed espanse ulteriormente il suo cosmo, come mai fatto
prima, sostenuto dal ricordo di Lady Isabel, dal suo sorriso, dalla prospettiva
di renderla soddisfatta di sé. –“Assaggia il corno della giustizia! Rifulgi, Corno d’Argento!!!” –E portò avanti il
braccio destro, generando una cometa energetica che sfrecciò verso Cariddi,
coprendo in un lampo la distanza tra loro, solo per schiantarsi sul palmo
aperto del misterioso guerriero, che la spense poco dopo, di fronte agli occhi
angosciati di Asher. –“A…allora…
siamo proprio inutili?!” –Mormorò, crollando a terra, assieme a tutte le sue
convinzioni.
“Ora
che lo avete capito, restate fermi, di modo che possa farvi fuori con un solo
attacco!” –Commentò Cariddi, mentre Castalia a fatica si trascinava verso
Asher.
“Resta
fermo tu!” –Gridò una voce all’improvviso, facendo voltare i contendenti verso
la cima del promontorio ove fino a poche ore prima si ergeva la base di ricerca
della Fondazione, adesso un cumulo di macerie.
Il
Professor Rigel e alcuni soldati che Isabel aveva
dato loro in scorta puntavano i fucili in direzione di Cariddi e, dai puntini
rossi apparsi sulla corazza dell’uomo, parevano dotati di ottima mira,
nonostante la distanza.
“Sca… scappate!!!” –Rantolò Castalia. Ma fu troppo tardi.
Prima
ancora che il rumore degli spari giungesse alle loro orecchie, Cariddi aveva
già raggiunto i tiratori, lasciandosi alle spalle le pallottole e le grida
della Sacerdotessa. Gli bastò muovere un braccio a spazzare per generare
un’onda di energia con cui investì i soldati, sollevandoli e scaraventandoli
indietro, le pelli lacerate, quasi strappate via, dal mulinare violento del suo
cosmo.
“Rimane
solo lei, a quanto pare.” –Commentò, osservando il volto terrorizzato del
Professor Rigel, per poi allungare il braccio e
strappargli il fucile che non riusciva a far funzionare. Lo stritolò con le sue
dita, mentre con l’altra mano afferrava la faccia dell’uomo, distruggendogli
gli occhiali e sollevandolo da terra, incurante delle sue urla di terrore.
“Lascialo
stare! Siamo noi i tuoi avversari!” –Gridarono allora Castalia e Asher, rimessisi
a fatica in piedi. –“Non hai dunque onore nel guerreggiare con semplici esseri
umani?”
“E
voi, ai miei occhi, cosa siete?” –Ironizzò Cariddi, voltandosi e scagliando
loro contro il corpo ferito dello scienziato. Castalia lo afferrò al volo,
prima che sbattesse la testa a terra, mentre Asher, avvolto nel suo cosmo
violaceo, si lanciava contro il nemico.
“Corno d’argentooo!!!”
–L’attacco energetico sfrecciò verso Cariddi, che lo evitò semplicemente
spostandosi a destra, per poi colpire il ragazzo sul dorso con un pugno che gli
schiantò lo schienale dell’armatura. Non fece in tempo a infierire perché già
Castalia era balzata su di lui, gli artigli dell’aquila pronti a ghermire. Ma
bastò che Cariddi spostasse lo sguardo su di lei per sollevare un turbine di
energia che ne frenò il volo, spezzandone parti della corazza, prima di
risucchiare anche Asher al suo interno, farli roteare assieme e scaraventarli a
riva, tra i relitti del porticciolo.
“Bene,
sembra che il problema superstiti sia stato risolto. Incaute Makhai, mi state
facendo tardare all’appuntamento con il mio signore, l’unico che possa vantarsi
del titolo di Imperatore dei Mari!” –Commentò Cariddi, passando tra i cadaveri
dei soldati e dirigendosi verso la baia, laddove le acque già stavano increspandosi
all’avvicinarsi del suo cosmo, pronte ad aprirsi per accoglierlo.
Fu
allora che lo raggiunse il lamento di Castalia, presto seguito da quello di
Asher, che, doloranti, tentavano di risollevarsi ancora, come il loro vecchio
allievo e amico aveva sempre fatto. Tanta testardaggine strappò un sorriso al
loro avversario.
“Come si dice da queste
parti, Kentoc'h mervelevetbezañsaotret!
Meglio la morte che la macchia, eh?” –E espanse infine il proprio cosmo,
rivelandolo ai due Cavalieri come mai lo aveva ostentato prima. Ansimando a
fatica, sia Castalia che Asher ne percepirono la magnificenza e anche la
profondità, simile a un gorgo abissale di cui non si riesce a vedere la fine.
–“La vostra devozione merita un premio, vi onorerò del mio colpo segreto!
Siatene fieri, e addio!” –Ma prima ancora che riuscisse a rivelare tale potere,
la terra tremò sotto i suoi piedi, mentre lunghi filamenti verdastri saettarono
fuori, avvinghiandosi attorno al suo corpo. –“Che…
cosa sono?!”
“Le liane dell’Eridano!” –Esclamò allora una voce, limpida e cristallina,
mentre le liane aumentavano in quantità, e anche nella forza della loro
stretta, percorse adesso da un vigoroso cosmo celeste. –“E questo è il mio
gorgo!!!” –Aggiunse, anticipando l’arrivo di un globo di energia azzurrina, che
si schiantò sul pettorale dell’armatura di Cariddi, scagliandolo in alto,
incenerendo le stesse liane.
“Questa…voce…” –Mormorò Castalia, muovendo lo sguardo nella
direzione dell’uomo appena comparso sull’isola, un uomo a cui si era unita
tempo addietro. –“Niko…laos…”
–E svenne, certa di essere adesso al sicuro.
“Riposa, dolce Castalia!”
–Commentò il nuovo arrivato, fermandosi accanto ai corpi feriti dell’Aquila e
dell’Unicorno e sincerandosi che non fossero in fin di vita. –“Il tuo cosmo mi
ha guidato fin qua. Ti tenevo d’occhio da giorni, da quando hai mancato il
nostro appuntamento per mettere anima e corpo nella ricerca di un’amica. E
finalmente ti ho individuato.”
“Un altro Cavaliere di
Atena?!” –Ghignò allora Cariddi, rimessosi in piedi. –“Avresti fatto meglio a
restartene in Grecia, perché se dei due pivelli ho avuto pietà, tu mi hai fatto
proprio arrabbiare con quest’attacco a sorpresa!”
“Non a un Cavaliere di
Atena ti rivolgi, guerriero sconosciuto, ma al Luogotenente dell’Olimpo, Nikolaos dell’Eridano
Celeste!” –Esclamò fiero il ragazzo, rivestito dalla sua lucente cotta
turchina.
“Eridano
eh?! Ho sentito parlare di te… i fiumi mormorano, del
resto, e io ascolto le acque. Sei l’ultimo della tua stirpe, l’ultimo Cavaliere
Celeste, e l’unico umano tra le guardie scelte di Zeus. Perché? Cosa ti rende
diverso?”
“La fede nel futuro e il
desiderio di proteggere coloro che amo.” –Rispose il giovane, iniziando ad
espandere il cosmo. –“E se l’uno o l’altro tu minacci, io ti combatterò!”
“E sia! Ma non chiamarmi
guerriero, usa il mio nome, che è Cariddi! Un nome che dovresti conoscere o
che, in ogni caso, conoscerai presto!”
“Pagherai per il dolore
che hai inflitto a questi innocenti! Gorgo
dell’Eridano!!!” –Avvampò Nikolaos,
concentrando il cosmo in una sfera di energia celeste e scagliandola verso
Cariddi alla velocità della luce.
“Umpf! Mi hai sorpreso una volta, non la seconda!”
–Commentò quest’ultimo, aprendo le braccia di lato mentre un violento vortice
iniziava a turbinare attorno a sé, generando una barriera roteante contro cui
l’assalto del Luogotenente si schiantò. Anzi, come ebbe a notare lo stesso Nikolaos, venne risucchiato al suo interno, disgregandosi
in macchie di energia che vorticarono attorno a Cariddi, salendo a spirale
verso l’alto, fino a esplodere nel cielo lontano.
“Così intenso è il
mulinare di quel turbine…” –Rifletté il Cavaliere
Celeste.
“E
niente può sottrarsi alla sua forza di attrazione.” –Concluse Cariddi, aprendo
il palmo della mano avanti a sé e spingendo il vortice verso Nikolaos, dandogli la forma di una barriera verticale
d’aria, che schiacciò a terra il Luogotenente, schiaffeggiando il suo corpo con
violente scariche di energia. –“Come ben puoi vedere.” –Aggiunse, volgendo il
palmo verso il cielo e sollevando al qual tempo il suo avversario, travolto dal
vortice di energia.
“Maledizione,
devo reagire!” –Esclamò Nikolaos, cercando di
recuperare una postura corretta e al tempo stesso incendiando il proprio cosmo,
fino a generare una sfera di energia tra le mani, pronto per scagliarla contro
Cariddi. Ma questi intensificò il proprio assalto, scagliando il ragazzo ancora
più in alto, facendogli persino perdere il controllo sulla sfera, che gli
esplose tra le mani, scheggiando la sua corazza, per poi scaraventarlo decine
di metri addietro.
“Pare
che tu sia un po’ meglio degli altri due. Anche se inferiore alle mie
aspettative. Da un Cavaliere Celeste mi aspetto di più, e lo so perché ne ho
affrontati in passato. Giasone, Castore, Polluce, gli Argonauti, erano tutti eroi leggendari, semidei, figli, come
me, di Divinità. Tu invece non sei nessuno, solo un banale essere umano, e come
tale inferiore!”
“Non…parlare… di Giasone e dei
miei compagni, caduti contro l’ombra che ammanta questo scorcio di secolo!”
–Disse Nikolaos, affannando nel rimettersi in piedi.
–“Ombra di cui tu fai parte! E che è mio dovere spazzar via! Correnti… dell’Eridano!”
–Aggiunse, sfiorando il suolo con la mano carica di vitalità cosmica.
Getti
d’energia acquatica sgorgarono dal terreno sotto e attorno ai piedi di Cariddi,
schiantandosi sulla sua corazza e destabilizzandolo per qualche istante, quanto
gli ci volle per recuperare una posizione eretta, annientando quei fiotti
d’acqua con un’onda di cosmo. Quel breve attimo bastò a Nikolaos
per portarsi di fronte a lui, una sfera di energia rilucente sulla mano destra.
La poggiò sul pettorale del nemico, lasciandola sfrigolare e strappandogli un
gemito, di sorpresa e di disappunto, prima che questi lo scaraventasse indietro
con un vortice d’aria, schiantandolo poco distante da Castalia e da Asher.
“Ardito!”
–Commentò Cariddi, osservando la crepa ancora fumante sull’armatura, prima di
spostare lo sguardo sul Cavaliere di Zeus, che già si era rimesso in piedi.
–“Ti onorerò con il mio massimo colpo, il possente maelstrom che tutto
risucchia! Raggiungi i tuoi compagni, Luogotenente dell’Olimpo, e dì loro che
hai tenuto alto il nome di cui ti fregi! Addio! Moskstraumen!!!”
–Gridò, sollevando il braccio destro al cielo e generando un gigantesco
vortice, che piombò su Nikolaos, Castalia e Asher in
una frazione di secondo, risucchiandoli al proprio interno e facendoli
turbinare nel cielo sopra l’Ile de Ouessant.
“Vana è ogni resistenza.
Chi viene inghiottito dal maelstrom incontra solo morte. Una morte atroce,
dovuta all’enorme pressione interna al gorgo che spezza tutte le ossa.” –Spiegò
Cariddi, placando infine la sua tecnica, dal cui fondo fuoriuscirono i corpi
malconci dei tre Cavalieri. Uno dopo l’altro si schiantarono a riva, tra i
frammenti insanguinati delle loro corazze, sotto lo sguardo vigile del
generatore di vortici.
Alla vista di quei corpi
contusi, delle pose innaturali assunte dai loro arti, Cariddi sospirò, prima di
dare loro le spalle e incamminarsi verso l’oceano. Verso casa.
Questo dolore…
è fortissimo. Rantolò Nikolaos, cercando di rimettersi in piedi. L’Armatura
Divina era distrutta in più punti, ma la sua maggiore resistenza gli aveva
impedito di riportare danni peggiori, come invece temeva fosse accaduto a
Castalia e Asher. Ma era come se sentisse rotta ogni singola ossa del corpo. A
fatica cercò di recuperare controllo di sé, focalizzandosi prima sulle dita,
muovendole piano, una ad una, quasi a sincerarsi di averle ancora tutte. Le
trascinò sul terreno sabbioso, determinato a stringerle a pugno ma incapace di
farlo, incapace di trovare la forza per chiuderle. E se anche vi riuscissi… non ho modo di
vincere Cariddi. Non ho tecniche che possano danneggiarlo, rifletté. Del
resto non era per quello che era divenuto un Cavaliere Celeste.
“Non
per attaccare, non per arrecare offesa, bensì per difendere la nostra bella
Terra. E coloro che la popolano.” –Aveva detto quel giorno ai suoi genitori,
mostrando loro la cotta celeste che Efesto aveva
appositamente forgiato per lui.
“Anche
noi avremmo dovuto difendere la nostra terra, il nostro regno. Eppure un giorno
ci fu chiesto di attaccare, di scendere in guerra per il nostro Signore!”
–Dissero allora tre voci, raggiungendo l’animo di Nikolaos.
Tre voci lontane che gli ricordarono i giorni dell’investitura, quando li aveva
incontrati la prima volta, fieri e possenti, e così grandi gli erano apparsi da
cingere l’Olimpo in un unico abbraccio.
“Ma
voi…siete…Bronte del Tuono, Sterope del
Fulmine e Arge lo Splendore…”
“I
Ciclopi Celesti!” –Parlarono tronfi gli antichi difensori del Bianco Cancello.
–“Incaricati dal Sommo Zeus di presidiare i confini del suo regno, fino al
giorno in cui non ci fu detto di uscirne per iniziare una guerra sbagliata. Una
guerra ove tu, Luogotenente, fosti l’unico a rimirare lontano. Una guerra ove
perirono i tuoi compagni. Adesso sei l’ultimo rimasto, l’ultimo Cavaliere
Celeste, su te ricade la responsabilità e l’onore di lottare fino alla fine! In
nome di Zeus e di coloro che hanno rivestito quel ruolo nel corso di millenni, combatti anche per noi, che
fummo ingannati e credemmo nell’ombra! Combatti, giovane Ciclope!”
Quelle parole rincuorarono l’animo di Nikolaos, ma ancor più fece la scarica di energia che
improvvisamente pervase ogni membra del suo corpo, come se i Ciclopi avessero
acceso una miccia che attendeva silente dentro di lui. Bruciando il cosmo, il
ragazzo si rimise in piedi, liberandosi dell’elmo a maschera, ormai distrutto,
e spazzandosi i capelli insanguinati all’indietro, quasi a voler gettar via
ogni residuo di stanchezza.
Nel percepire l’avvampare del suo cosmo, Cariddi si
fermò, voltandosi sorpreso, ma non troppo dispiaciuto per il nuovo scontro che
avrebbe dovuto sostenere.
“Non ti è bastato discendere una volta nel
maelstrom? Vuoi dunque precipitarvi di nuovo? Che sia per follia o per un
disperato bisogno di sentirti alla pari con coloro che ti hanno preceduto, io
ti accontenterò! Ecco, Luogotenente, questo di Cariddi è il Moskstraumen!!!”
Il gigantesco gorgo
travolse Nikolaos, risucchiandolo al suo interno,
fioca fiammella di cosmo baluginante in un abisso di tenebra. Ma anziché
risputarlo poco dopo, con la corazza distrutta e le ossa maciullate, il
maelstrom dovette tenerlo in sé, perché il Cavaliere Celeste era determinato a
non lasciarsi travolgere.
“Ma cosa…
sta facendo?!” –Borbottò Cariddi, cercando di penetrare con lo sguardo
all’interno del vortice. A fatica, riuscì a percepire la presenza di Nikolaos, in piedi, con le gambe divaricate, al centro del
gorgo, il cosmo che risplendeva come non mai. Un cosmo celeste avvolto adesso
da saettanti scariche azzurre.
“Aaaahhh!!!”
–Gridò il Luogotenente, le braccia aperte ai lati, le mani che tentavano di
afferrare quella turbinante oscurità. Mani che racchiudevano adesso la forza di
tre Ciclopi Celesti, i custodi del fulmine, la sacra arma di Zeus. A Nikolaos parve di udire la voce di Arge,
mentre le sue dita affondavano nel gorgo, come la Spada del Fulmine sempre
squarciava i corpi nemici. Poi gli parve di sentire Bronte
sollevare il vortice da terra, con la sua immensa forza, mentre le folgori
lucenti di Sterope pervadevano l’intera struttura. –“Io… sono l’ultimo dei Cavalieri Celesti. L’ultimo Ciclope
Celeste!!!” –Ringhiò a squarciagola Nikolaos, di
fronte agli occhi sbalorditi di Cariddi. –“Zeus, aiutamiii!!!”
Con il cosmo al
parossismo, il Luogotenente deviò la direzione del maelstrom, fino a farlo
schiantare contro lo stesso Cariddi, che ne venne risucchiato all’interno.
Quindi, sfruttando le ultime forze, fu abile a spingerlo verso il mare aperto,
lasciando che esplodesse in lontananza, agitando le acque per un’ultima volta.
Solo alla fine crollò sulla sabbia, affondando la faccia nella rena bagnata, e
lì avrebbe voluto rimanere, per riposarsi e riprendere fiato, quando si ricordò
di Castalia e di Asher e delle loro condizioni critiche.
Rantolando, cercò di
rimettersi in piedi, poggiando un ginocchio a terra, ma la stanchezza lo fece
cadere di lato. Fu afferrato in tempo da due braccia snelle, che lo aiutarono a
rialzarsi e lo accompagnarono fino al limitare della baia, dove Castalia e
Asher erano stati distesi. Entrambi palesemente feriti.
“Non si affatichi!” –Disse
il Professor Rigel, che aveva soccorso, appena aveva
potuto, anche gli altri due Cavalieri. Aveva il volto sporco di sangue e
schegge di vetro ancora infilate nella pelle, ma la sua risoluzione non era
venuta meno.
“Dobbiamo…
tornare in Grecia…” –Mormorò Nikolaos.
–“Per curarci. Per medicare le loro ferite.” –E anche lo scienziato dovette
dargli ragione, sebbene non sapesse in quel momento come avrebbe potuto
aiutarli. La nave di ricerca era ancora in mare aperto e non sarebbe rientrata
fino a sera e, dopo la distruzione della base, non aveva neanche modo di
mettersi in contatto con i suoi occupanti.
Fu uno improvviso sbatter
d’ali a distrarre entrambi da foschi pensieri.
“Se permettete, vi verrò
in aiuto!” –Esclamò una placida voce, mentre Nikolaos
muoveva lo sguardo verso il cielo, contro cui si stagliava una delicata figura
ammantata di luce. –“Posso trasportarvi io in Grecia!”
Capitolo 14 *** Capitolo dodicesimo: La madre dei mali ***
CAPITOLO DODICESIMO: LA MADRE DEI MALI.
A
Phoenix, Discordia parve ancora più pazza di quando l’avevano affrontata l’anno
prima, dopo aver preso possesso del corpo di una ragazza dell’orfanotrofio
Saint Charles, servendosene per rapire Lady Isabel, della cui forza aveva
tentato di cibarsi.
Un parassita. Rifletté il Cavaliere, evitando le scariche
energetiche che la Dea gli stava scagliando contro tramite un elegante, quanto
pericoloso, tridente. Aveva cercato più volte di avvicinarsi, di travolgerla
con un attacco diretto, ma l’agilità della Signora della Contesa era tale da
tenere a distanza persino un combattente esperto come lui, stupito dalla grazia
che stava riversando in battaglia. Non sembrava neppure che stesse combattendo,
tutta intenta a ridere sguaiatamente, mulinando la venefica arma verso Phoenix,
quasi stesse danzando sulle note di una musica silente, una musica che solo la
Dea pareva udire.
“Un
requiem di morte!” –Commentò infine, rivolgendosi per la prima volta a lui. –“è questa la deliziosa melodia che mi
solletica l’orecchio, portata dal vento lunare. Una ballata di sangue suonata
dalle mie figlie, che ne dirigono il ritmo con le uccisioni. Ogni ferita è una
nota, ogni cuore strappato è un fa diesis, ogni vittima lasciata alla spalle è
una chiave di violino, che segna l’inizio e la fine di una nuova ballata!”
“Te
lo hanno mai detto che sei fuori di testa?!” –Ironizzò Phoenix, bruciando il
proprio cosmo fiammeggiante.
“Preoccupati
della tua, di teste, Cavaliere! Perché tra poco potresti non averla più, al
posto giusto!” –Sghignazzò Eris, portando avanti il
tridente con un colpo secco e mirando al collo del ragazzo, che fu svelto a
balzare indietro, ferito solo di striscio.
Alla
vista del sangue ruscellare fresco sulla pelle del nemico, Discordia ebbe un
sussulto, e a Phoenix parve di vedere nei suoi occhi un’eccitazione
incredibile, una fame che così poche volte aveva rimirato negli sguardi dei
suoi avversari.
“Dunque
quel che il mito racconta è vero!” –Commentò, deciso a studiare la reazione
della Dea, in cerca di un suo punto debole. –“Sei davvero più sanguinaria di
Ares!”
“Quel
caro ragazzo! Ah ah ah! È a me che deve tutto,
potrebbe considerarmi la sua matrigna, colei che l’ha avvezzato all’arte della
guerra!” –Declamò fiera. –“Sebbene diverso sia il nostro approccio! A lui piace
giocare, muovere i soldatini, far marciare gli eserciti fino a sentire lo
scontro tra gli scudi e le spade, il clangore della lotta furiosa, l’estasi
della lancia tesa! Io, invece, a meno crudi pensieri dirigo la mia mente! Non
all’atto in sé, ma alla volontà che sta dietro una dichiarazione di guerra!
All’ostilità che domina l’animo dei contendenti, al preciso e bramato desiderio
di uno scontro armato, che segna la fine di ogni trattativa e l’abbassarsi di
uomini e Dei ad un unico livello! La guerra è come la morte, la grande
pacificatrice! La contesa finale che dirime ogni angoscia dell’animo!”
“Contesa
che tu hai voluto, che tu hai provocato! Quante guerre hai fomentato? Quanti
uomini hai corrotto, spingendoli a lasciarsi dominare dall’ira, rovinando le
loro vite?!”
“Tutt’altro.
Ho dato loro un motivo per cui vivere, uno scopo che riempisse il vuoto
languore della loro esistenza, lasciando emergere sentimenti che già covavano
dentro i loro animi! Ricordi le rose di rabbia? Che Ares più volte sfruttò nel
corso dei secoli? Io ne fui la creatrice, la giardiniera oscura che praticò
segreti innesti! Un’arte, quella del giardinaggio, che da millenni coltivo, da
quando creai una squisita mela da destinare alla Dea più bella!”
“Sei
malata!!!” –Tuonò Phoenix, scattando avanti, con il pugno teso e avvolto dalle
fiamme. Ma bastò che la Dea lo fissasse per inchiodarlo sul posto, i muscoli in
tensione, l’energia cosmica pronta a deflagrare.
“E
tu sei morta, araba fenice!” –Sibilò Discordia, prima di travolgere il ragazzo
con un’onda di energia e scagliarlo molti metri addietro. Non gli diede neppure
tempo di rifiatare, balzando su di lui, con la lama del tridente mirante alla
sua gola, obbligando Phoenix a rotolare sul suolo lunare per evitare l’affondo.
Si rimise in piedi in fretta e furia, scagliando alcune piume metalliche contro
la Dea, che le distrusse mulinando l’arma avanti a sé, lo sguardo accecato
dalla frenesia, la lingua che percorreva le labbra, avida di sangue e morte. –“Trofeo
della mia superiorità guerriera presto sarai! Che Ares si tenga il cavallino
rampante, io preferisco te, Ikki di Phoenix!”
“Uh?!”
–Balbettò il Cavaliere nell’udire il nome scelto dai suoi genitori, nome che
ben poco usava, ricordandogli un’infanzia che presto era divenuta età adulta.
“Abbiamo
molte cose in comune, caro mio, non soltanto l’inquieto spirito che ci pervade
e ci porta ad essere sempre in lotta con tutti! Ma anche il simbolo da cui
traiamo forza è simile! Per te è la fenice, l’uccello immortale in grado di
risorgere dalle sue ceneri; per me la mela d’oro, ove Zeus racchiuse la mia
anima secoli addietro, seccato dal mio ennesimo dispetto! Quello sciocco! Umpf! Non capiva che volevo soltanto animare la festa! Ah
ah ah!”
“Noi
non siamo simili, Eris! Io sono un Cavaliere che
combatte affinché il mondo non conosca più guerre, affinché non vi siano più
orfani come me e mio fratello!”
“Già!
Parliamo dei tuoi genitori! Personaggi interessanti, da quel che ricordo! Tu
sai perché sono morti?”
“Che… cosa?!” –Esclamò Phoenix, preso alla sprovvista da
quella domanda.
“Non
lo sai, lo immaginavo. Forse ti avranno raccontato che sono morti per una
malattia, o in un incidente, una di quelle tragedie che ahimè segnano la vita
di molti! Ma la verità, la cruda verità, ti è sempre stata celata, anche dal
patrigno della parte umana della tua Dea, tale Duca Alman,
che di certo sapeva! Permettimi allora di aggiornarti al riguardo! I tuoi
genitori sono morti in nome mio, vittime dello spirito di discordia che da
millenni spargo nel mondo! Oooh, sì, ricordo il
martellare inquieto del cuore di tuo padre, quel giorno in cui rientrò a casa,
dicendo alla moglie di aver perso il lavoro! Proprio allora che era nato tuo
fratello, un’altra bocca da sfamare! E, si sa, in questi casi, quando la disperazione
invade l’animo umano, sono sempre i figli a rimetterci! Tuo padre voleva
liberarsi di Andromeda, portarlo ad una parrocchia vicina, sperando che i preti
si sarebbero presi cura di lui… ma tua madre no, lei
era una donna dai sani principi, una sciocca versione umana di Atena! Disse al
marito che non avrebbe abbandonato i suoi figli, che avrebbe preferito morire
piuttosto che commettere una simile infamia! Per ironia, il marito esaudì il
suo desiderio poco dopo… Nacque un litigio, un
violento litigio, in cui tuo padre, in preda all’ira, colpì la donna che ti
generò, uccidendola. Sconvolto dall’omicidio, si gettò dalla finestra, morendo
a sua volta. Una bella storia, vero, Phoenix? E non guardarmi così, non me la
sto mica inventando! Non incolpare me della debolezza di tuo padre o
dell’idealismo di tua madre, motivi per cui entrambi sono morti!”
“Io… non ti incolpo per questo…
Discordia!” –Commentò Phoenix, inspirando lentamente, per trattenere una rabbia
che gli stava macerando il cuore, e che doveva riuscire a controllare. –“Io ti
incolpo per la tua stessa esistenza, votata al male, a nient’altro! Tu hai
generato i mali del mondo che Prometeo rinchiuse nel vaso! Se tu fossi stata
Dea di pace, come Atena, ben diversa sarebbe stata la storia dell’umanità! Per
tutti i torti di cui ti sei macchiata, io ti sconfiggerò, Eris!!!
Prendi, il battito d’ali capace di infrangere le stelle! Ali della Fenice!!!”
L’infuocata
tempesta di energia dilaniò il suolo lunare, venendo udita persino da Pegasus e
Ares, dall’altro lato dell’anello di Urano, convergendo sulla Signora del
Dolore, che non sembrava affatto preoccupata. Tra le fiamme e la polvere
sollevata, Phoenix la vide muovere le labbra, mormorando parole che non riuscì
a comprendere. Poté solo vedere un lampo di luce rifulgere di fronte a sé,
sopra la testa della Dea, un lampo così potente da frenare la sua tempesta di
fuoco e disperderla. Anzi no, non
disperderla, bensì… attirarla a sé. Mormorò
attonito, riconoscendo l’icona diabolica apparsa tra i due contendenti.
Una mela d’oro.
Discordia
sorrise, mentre tutta l’energia prodotta dal Cavaliere della Fenice veniva
risucchiata all’interno della mela, per poi essere liberata in un secondo
momento dall’altro lato della stessa, quasi fosse un effluvio di cui la Dea si
nutrì.
“Yum! Delizioso! In questo pugno c’era tutto il tuo rancore,
Phoenix! Tutto l’odio che ti ha divorato il cuore per anni, dalla morte dei
tuoi genitori! Il dolore per la loro prematura scomparsa, l’incombenza di un
fratello minore, il timore che mali peggiori si abbattessero su di voi, la
solitudine dell’addestramento, l’inferno della Regina Nera, la morte di
Esmeralda, la caduta delle illusioni, l’uccisione del tuo maestro, il
tradimento degli ideali di amicizia e poi, anche in seguito, il tuo carattere rissoso
che ti ha portato più volte a contrastare apertamente la leadership di Pegasus.
Su tutto questo aleggia lo spirito della contesa! Il tuo animo è così incline
allo scontro da rappresentare per me il concime migliore per far prosperare il
Pomo della Discordia!”
“Taci,
maledetta! Ho abbandonato da tempo la via dell’odio!” –Incalzò Phoenix,
tentando un secondo assalto. –“Ali della
Fenice!!!” –Ma anche quella volta la bufera di fiamme ed energia cosmica
venne risucchiata all’interno della mela, per poi essere espulsa in faccia alla
Dea, sogghignante e trionfante.
“Non
hai capito, Phoenix! Non sono le azioni a definire un individuo, quelle possono
essere falsate! Ma è lo spirito, l’inquietudine esistenziale ove alberga il
germe della contesa! E tu, ragazzo mio, ne sei infetto! Ah ah ah! Prova ne è la tua incapacità a superare quest’ostacolo!
Tuo fratello, invece, avrebbe annientato il pomo d’oro in pochi secondi! Sono
fortunata che tu abbia deciso anche oggi di fargli da balia! Così potrò ucciderti
e portargli la tua testa in dono! A tale vista, alla vista degli sfregi di cui
riempirò il tuo volto, anche il suo animo quieto collasserà, lasciando emergere
una furia distruttiva e guerrafondaia che tutti gli uomini celano dentro sé! Di
quello spirito volto alla contesa io sono la madre! E tu, figlio, non puoi
opporti! Pomo della Discordia!!!”
–Avvampò la Dea, dirigendo la mela verso il cuore di Phoenix, che cercò di
tenerla indietro, di spingerla via, senza riuscire a muoverla di un millimetro.
Quasi fosse pesante come una montagna.
Il
pomo d’oro si depositò sull’armatura della Fenice, entrando al suo interno e
avvinghiandosi al cuore del ragazzo, che crollò a terra, prostrato da spasimi
indicibili. Phoenix urlò, sbraitò, tentò di strappar via quel frutto maledetto,
ma non poté far altro che osservarlo scomparire dentro di sé. Travolto da una
smania improvvisa, il Cavaliere si tolse il pettorale dell’armatura,
graffiandosi poi la pelle nel disperato tentativo di trovare una via verso il
suo cuore. E, se non avesse recuperato un’ultima stilla di consapevolezza, se
lo sarebbe davvero strappato dal petto, offrendolo a Discordia in cambio di
pace.
“Dimenati
pure quanto vuoi, Cavaliere! Il Pomo della Discordia si nutrirà del tuo
rancore, della tua natura litigiosa, consumandoti fino a ridurti a larva. E di
questa sconfitta, mio bellicoso amico, potrai incolpare solo te stesso, e il
tuo carattere!”
Phoenix
non rispose alcunché, troppo stravolto persino per parlare. Gli pareva che
artigli di fuoco gli stessero dilaniando il cuore, e che quello stesso fuoco
poi percorresse le sue vene, espandendosi ovunque dentro di sé, anche nella sua
mente. Cercò di rimanere lucido, di non cedere a fatali allarmismi, ma anche il
solo pensare lo prostrava a terra, il pensare alle parole di Eris, alla loro attendibilità.
Il
pensare ai suoi genitori.
Mamma…Papà…A
differenza di Andromeda, nato qualche anno dopo di lui, Phoenix li ricordava
ancora. Forse non il volto, opacizzato dal tempo e dal dolore, ma gli abbracci,
il calore domestico di un’esistenza ancora non sfigurata dai fumi della guerra.
Ricordava sua madre, e l’aroma di erbe in cucina, e suo padre, che doveva
essere un fumatore incallito, a ripensare all’odore di fumo che pervadeva le
stanze di casa. E poi ricordò quel giorno, quando li portarono via.
“C’è
stato un incidente.” –Qualcuno disse. E quel ricordo adesso gli mozzò il fiato,
quelle parole a cui non aveva più pensato.
Così
si era ritrovato all’orfanotrofio, a insegnare a suo fratello a guardare il cielo,
ad osservare le stelle, sperando di distrarlo, con quei piccoli gesti, dalle
bruttezze del presente. E da lì a Villa Thule e poi
alla Regina Nera il passo era stato veloce.
“Noi
siamo simili, Phoenix! Animi inquieti, divorati dal tormento e inclini al
litigio.”
Le
parole di Discordia lo fecero infuriare, persino più del ritrovarsi inerme, su
un suolo straniero, con il viso e il corpo affondati nella sabbia lunare, a
pochi passi da una lama in grado di recidere la sua vita per sempre. Lo fecero
infuriare perché erano vere, perché quella bastarda genitrice di sventure aveva
ragione. Lui era collerico, di pugno facile e incline a picchiare più che a
parlare. E ora aveva scoperto perché, che cosa lo rendeva così irascibile.
Perché
era come suo padre.
E
infatti, al pari suo, aveva causato la morte di tutte le donne che gli erano
state vicino, di tutte le donne che aveva amato o avvicinato. Esmeralda, Pandora, Ippolita.
Una
nuova fitta lo prostrò a terra, di fronte al divertito sguardo della Signora
della Contesa, che troppo adorava quei momenti, quegli attimi di vita che le
saturavano il cuore. Lei, che a differenza di Ares più dedito alla pugna, amava
passeggiare tra le vittime di una battaglia, anche dopo che gli altri Dei si
erano ritirati, sfiorando i cadaveri massacrati, riempiendo le narici del
fetore della morte. Lei, che dagli uomini era stata allietata, ma solo finché
fossero stati un diversivo, un modo per ingannare il tempo in attesa della
prossima battaglia. Lei, che dal corpo di Phoenix agonizzante, dal volto
devastato dal dolore, dovette ammettere di essere attratta, portandola a
chinarsi vicino a lui e a sfiorargli il petto, per percepirne i singulti.
“Se
tu non fossi stato così scontroso, avremmo potuto divertirci un po’, mio bel
lupo solitario! Ah ah ah!” –Sghignazzò, gettandosi
dietro la schiena i vaporosi capelli blu.
“Stai
attenta… a quello che chiedi!” –Ringhiò Phoenix,
allungando all’improvviso il braccio verso la Dea e afferrandole il collo,
torcendola fino ad allineare i loro occhi. Trasudanti di determinazione, quelli
di lui, e di sorpresa, quelli di lei. –“Ali
della Fenice!” –Sibilò, sollevando Eris con un
turbine violento di energia infuocata e osservandola compiaciuto mentre veniva
sballottata lontano, fino a schiantarsi a terra, con numerose crepe sulla Veste
Divina.
“Co… come hai fatto?! Come?!” –Strillò, risollevandosi, il
volto paonazzo per quell’oltraggio. –“Eri in mio potere! Ancora un istante e di
te niente sarebbe rimasto! Come puoi aver avuto ragione del Pomo della Discordia?”
“Sei
stata tu a darmi la chiave per la vittoria! Tu, smuovendo i miei ricordi e
riportando la figura di mio padre davanti ai miei occhi! Quel che hai detto è
verità, io sono come lui, e Andromeda è caritatevole come mia madre! Pur tuttavia… la forza di mio fratello, la bontà del suo cuore,
è stata così intensa da opporsi alla Volontà Divina di Ade. Forte di questo
esempio, e dell’amore che mi ha sempre offerto, come avrei potuto lasciarmi
sconfiggere? Come avrei potuto permettere al rancore e allo spirito di contesa
di dominare il mio cuore, toccato dalla purezza di Andromeda? Lui ha estirpato
il male dal mio animo, lui mi ha indicato il percorso ed io, in questi anni, mi
sono solo limitato a seguirlo! E questo mi ha dato pace!”
“Non… è possibile!!! Non può essere! Il tuo animo… è infetto!!!” –Gridò Eris,
ricreando la mela d’oro di fronte a sé. –“Pomo
della Discordia!!!”
Nuovamente
il frutto luminoso apparve in cielo, fluttuando fino a portarsi davanti a
Phoenix, ma questa volta, anziché opporsi, anziché infiammare il proprio cosmo
rabbioso, il ragazzo si limitò a sospirare, socchiudendo gli occhi e ricercando
quell’armonia che solo pensando al fratello poteva trovare. Quella purezza per
cui valeva la pena vivere, cacciando via ogni male, ogni desiderio di contesa.
E
la mela si fermò.
Oscillò
incerta sul petto del Cavaliere, senza trovare alcuna via, alcun accesso al suo
cuore irato. Così Phoenix la afferrò, stringendola tra le mani e stritolandola
poco dopo, di fronte agli occhi attoniti della Dea della Discordia.
“Mai
nessuno era riuscito ad aver ragione del pomo d’oro! Mai nessuno aveva
posseduto animo così puro da potersi definire al di sopra di ogni contesa!
Persino Zeus evitò la sfida, preferendo rifilare a Paride l’onere della scelta!
E tu, miserabile mortale, la cui vita è tinta dal sangue e dall’odio, mi hai
fatto un simile torto?!”
“Le
delusioni sono una brutta bestia, Eris, ma capitano a
tutti! Non prendertela a male!” –Ironizzò Phoenix, strusciandosi il naso con un
dito, prima di espandere il proprio cosmo e rivestirsi interamente
dell’Armatura Divina.
“Prenderò
la tua testa, invece, malnato!”
“Lo
ripeti da un’ora eppure la sento ancora sulle mie spalle!”
“Insolente!!!”
–Tuonò la Dea, mulinando il tridente e liberando guizzanti scariche di energia
che squarciarono il terreno, obbligando Phoenix a balzare di lato in lato per
evitarle. –“Anche senza il Pomo della Discordia, sono ancora la Madre dei Mali,
nel pieno possesso dei miei poteri! Sono una Dea, Phoenix, ricordalo!” –E lo
abbatté con una folgore energetica, che incenerì anche le lunghe code della
corazza della Fenice.
“Vi
è una sola Dea la cui autorità riconosco, e non sei tu, Eris!”
–Esclamò il Cavaliere, rialzandosi. –“Tu sei sola, come Ares, senza nessuno che
combatta per te! E non dirmi di guardare oltre, di ascoltare la marcia
indefessa del tuo esercito verso il cuore del reame, perché sai bene che quel
legame di paura che vincola i soldati al loro Dio non vale quanto il genuino
affetto che unisce noi Cavalieri ad Atena!”
“Ti
sbagli, Fenice! Non solo paura muove le gambe dei Phonoi
e delle Androctasie, non solo la volontà di rendere
una madre fiera dei propri figli, bensì la condivisione degli stessi obiettivi!
Il sentire comune, il provare la stessa sete di guerra! Non dimenticare chi
sono costoro! Figli miei, nati per partenogenesi dalla Madre della Contesa e,
come tali, semi dello stesso frutto, semi che ho coscientemente sparso per il
mondo nel corso di una cattività durata millenni! Non dimenticare, mio caro, la
prigionia cui Zeus mi confinò!”
“La
cometa Lepar…” –Mormorò Phoenix, ricordando ciò che
Avalon aveva spiegato loro nell’Occhio.
“La
culla ove la mia progenie è germinata! La culla da cui, ogni volta in cui il
suo moto la avvicinava alla Terra, ho sparso i miei semi sul pianeta! Dodici
volte, nel corso dei millenni, dodici semi per altrettante generazioni di
figli!”
“Do… dici?!” –Esclamò il Cavaliere, intuendo le potenzialità
di quel numero.
“Cifra
certo non casuale, in quanto dodici sono gli Dei dell’Olimpo. O almeno lo
erano, ai tempi in cui il mondo era giovane e Zeus mi esiliò. Nessuno di loro
mosse un dito, nessuno parlò a mia difesa, tutti troppo impauriti dalla folgore
di Zeus. Persino chi, come Era o Dioniso, a volte si era avvalso dei miei
servigi! Così nidificò in me il desiderio di vendetta, il proposito di gettare
l’Olimpo nel caos, ben più di quanto avessi fatto con la razza umana fino a
quel giorno! Per questo generai i miei figli, per questo li nutrii con il mio
cosmo, infondendo loro la stessa propensione alla contesa che scorre nel mio Ichor! Per cacciar giù gli Dei dal Monte Sacro e
sostituirli con un nuovo Dodekatheon, di cui io sarei
stata madre putativa! E sotto di me avrebbero prosperato Limos
e Lethe, Ate e Disnomia, Horkos e Algea, le Makhai, i Phonoi e le Androctasie, i Neikea, gli Pseudologi e le Amphilogie!”
“Una
bella famiglia felice…” –Ironizzò Phoenix, pur
turbato da quella rivelazione. Se oltre a Eris e ai
figli presenti sulla Luna, avessero dovuto affrontare anche il resto della
progenie della Madre dei Mali la guerra sarebbe stata ben lungi dal
concludersi. E se non sono qui… Rifletté,
ricordando una strategia bellica di Ares. Dividi e impera. Li ha lasciati sulla Terra! Giacciono nel silenzio dell’ombra,
attendendo il grido di guerra che li scuota e li guidi verso nuove mete di
conquista! Maledizione!
“Qualcosa
turba i tuoi pensieri, giovane guerriero? Quel solco sulla fronte parla più di
quanto la tua natura solitaria non riveli!” –Commentò la Dea, puntando il
tridente verso Phoenix ed espandendo il battagliero cosmo. Una scarica di
energia riempì l’aria, obbligando il Cavaliere a scattare di lato, prima che
una tempesta di fulmini si abbattesse su di lui, alternata al ridacchiare
imperterrito di Eris. –“Come vedi, mi sono allenata a
prendere il posto di Zeus! Sono persino in grado di controllare la forza del keraunos, proprio come lui, unica nel mio genere! Del
resto, dopo millenni trascorsi ad osservare in silenzio i tuoi nemici, impari a
conoscerne anche le armi, e a farle tue! E adesso che sono stata liberata,
adesso che posso finalmente esistere, sono in grado di scatenare il mio vero
potere! Muori, Phoenix! Melaskeraunos!!!”
La
danza di fulmini neri atterrò Phoenix con una velocità e un’intensità sconcertanti,
facendo comprendere al ragazzo che la Dea dalla folle risata, che ricordava
gloriarsi del suo prossimo trionfo al calar del sole, era solo un’ombra del
vero potenziale della Signora della Contesa. Libera, rinata, ringiovanita, era
davvero un’entità pericolosa, oscura come Ade, potente come Thanatos, sanguigna
come Deimos. E
forse anche di più. Discordia esprimeva davvero il potere del male.
Una
nuova scarica energetica lo raggiunse mentre, aiutandosi con le ali della
corazza, cercava di portarsi a distanza di sicurezza, schiacciandolo al suolo e
facendogli perdere l’elmo. Non fosse stato per il mithril
e per la sapienza di Efesto, persino l’armatura
rinata col sangue di Atena sarebbe andata in frantumi, dilaniata da quei
poderosi fulmini oscuri.
“Melaskeraunos!!!”
–Ripeté Discordia, trapassando il corpo del Cavaliere con una fitta pioggia di
aghi neri e gettandolo contro il muro che separava il Cerchio di Urano da
quello ormai superato di Nettuno. Una nuova raffica di folgori lo demolì,
seppellendo Phoenix sotto le macerie, di fronte al pago sguardo di Eris.
“Quale
potenza!” –Rantolò il Cavaliere, respirando a fatica sotto i detriti franati. Cercò
di radunare le forze, di riflettere sulla tattica da adottare, ben consapevole
che, di fronte ad una mente perversa come quella di Discordia, in grado di
disorientare l’avversario, poche strategie potessero funzionare. Pur tuttavia
doveva tentare. Per sé, per Pegasus, che stava affrontando Ares, per suo
fratello, appena sceso sul campo di battaglia, e persino per Atena, il cui
cosmo pareva essersi acceso all’improvviso.
Incuriosito,
e anche preoccupato, dall’intervento di Andromeda e della Dea, Phoenix fece
esplodere il proprio cosmo, distruggendo i resti del muro franato e
rialzandosi, di fronte allo sguardo attento di Discordia, che lo stava
chiaramente aspettando.
“Le
scocciature peggiori sono lunghe da eliminare!” –Commentò la Dea, con una
fragorosa risata, prima di mulinare il tridente, pronta per liberare una nuova pioggia
di fulmini. Ma Phoenix la anticipò, muovendo rapido un braccio e generando un
sottile raggio di energia che trapassò l’elmo della Veste Divina, spezzandolo
in due e lasciando colare un rivolo di sangue sul volto sbigottito di
Discordia. –“Cosa… è stato?!”
“Il
Fantasma Diabolico. Il pugno
dell’illusione della Fenice.” –Chiarì il Cavaliere, ormai completamente in
piedi. –“Come tu hai tentato di piegare il mio spirito, con le tue parole
mendaci, ugualmente proverò a fare io!”
“Ah
ah ah! Divertente, ragazzo! È una dote richiesta per divenire Cavalieri di
Atena o solo un ultimo sfizio che ti sei voluto togliere prima di lasciare
questo mondo? Quale che sia la risposta, non mi interessa! Il tempo a nostra
disposizione per questo scontro volge al termine! L’avanzata delle Makhai è
stata rallentata al Cerchio di Giove ed è d’uopo che vada a far cadere qualche
testa! Perciò, Phoenix, addio! È stato un piacere! Melaskeraunos!!!” –Avvampò la Dea, scatenando
la furia delle folgori nere, che piovvero su Phoenix da ogni direzione.
Il
ragazzo tentò di evitarle, scattando alla velocità della luce, ma venne
comunque raggiunto in più punti, l’armatura graffiata, in parte scheggiata, il
volto ustionato da quelle scariche violente. E, su tutto, il fastidio maggiore
per Phoenix fu continuare a udire la risata di Discordia, che pareva davvero
compiacersi di ogni attimo del loro duello.
D’un
tratto, però, la Dea smise di ridere, distratta da un suono improvviso che le
parve provenire dalla sua destra. Mosse lo sguardo, pur continuando a
massacrare Phoenix di fulmini neri, ma non vide alcunché, non essendo rimasto
niente nel Cerchio di Urano, soltanto l’accendersi impetuoso dei cosmi di
Pegasus e Ares nell’altra metà dell’anello. Accigliata, riportò l’attenzione su
Phoenix, salvo accorgersi che il ragazzo era protetto da uno scudo rossiccio,
che le sue scariche di energia non riuscivano a scalfire, per quanto insistesse
e aumentasse l’intensità del suo attacco.
Imbestialita,
avanzò a grandi falcate verso Phoenix, per capire da dove fosse sbucato quello
scudo, proprio mentre l’arma scompariva, rivelando quel che dietro era celato.
Il corpo del Cavaliere di Atena stava roteando su se stesso, in una sequenza
infinita di capriole, sprigionando un’energia così abbagliante da costringere
la Dea a coprirsi gli occhi con un braccio. Fu allora che Phoenix sfrecciò
verso di lei, come l’incandescente nucleo di una cometa, accompagnato da una
fitta pioggia di dardi neri che obbligò la Dea a sollevare un muro di energia
cosmica davanti a sé, ove gli strani assalti si esaurirono. Un pizzicare di
cetra la distrasse ancora, prima che alle orecchie giungesse nitida una triste
melodia, la stessa che credeva di aver sentito poc’anzi, per quanto
nessun’altro fosse attorno a loro. Riportò lo sguardo sul Cavaliere della
Fenice, accorgendosi con orrore che era scomparso e che sul suo muro difensivo
era apparsa un’enorme crepa a forma di croce ghiacciata, che si stava
espandendo al punto da invadere l’intera barriera, mandandola in frantumi.
Discordia
gridò, venendo spinta indietro, mentre di nuovo una cometa energetica e dardi corvini
piovevano su di lui, obbligandola a muovere il tridente avanti a sé, per
spezzarne l’avanzata.
Fu
allora che Phoenix si rimise in piedi, dopo essere stato trafitto dalla
devastante tempesta di fulmini neri. Era durata ben poco, per sua fortuna, ma
alcuni di essi avevano trapassato l’armatura divina raggiungendo le carni al di
sotto e causandogli pene indescrivibili. Adesso il Cavaliere osservava
Discordia di fronte a sé, priva ormai di ogni interesse per il loro scontro,
intenta a roteare l’arma in ogni direzione, pretendendo di colpire o trafiggere
invisibili avversari. Non capì cosa le fosse accaduto, cosa avesse invaso la
sua delirante mente al punto da renderla ancora più folle. A meno che…
Rifletté, consapevole che l’azione del suo colpo segreto era diversificata in
base al soggetto.
Non
ebbe il tempo di chiedersi altro che una mano si appoggiò alla sua spalla
destra, obbligandolo a voltarsi. E a fare un passo indietro, sconvolto alla
vista dell’uomo che gli si parava di fronte, un uomo che doveva essere morto.
Solo allora, udendo le lamentele di Discordia, comprese quel che la Dea stesse
osservando.
“Sono
felice di rivederti, Cavaliere di Phoenix, stavolta come alleati! Ascoltami
bene, perché abbiamo poco tempo, quello che il Fantasma Diabolico ci consentirà, ma io ti dirò come sconfiggere la
Signora della Contesa!” –Esordì così uno dei più valenti Cavalieri della
storia. Serian di Orione.
Capitolo 15 *** Capitolo tredicesimo: La guerra infuria ***
CAPITOLO
TREDICESIMO: LA GUERRA INFURIA.
Una bruma scura
sormontava il complesso templare ove Febo e Marins erano prigionieri, generando malumore e
preoccupazione nell’animo di Horus e di suo padre. Amon Ra li aveva avvisati che qualcosa di terribile e
oscuro era all’opera nel cuore del deserto del Gobi, in uno dei luoghi più
antichi del pianeta. Qualcosa di fronte al quale persino Seth e Apopi potevano essere definite pallide minacce.
"La
descrizione di deserto della morte o punto di non ritorno è calzante."
–Ironizzò Horus, osservando l’immenso territorio che
si apriva di fronte a loro.
"Sei
pronto?" –Gli chiese Osiride, fissandolo nell’unico occhio che gli
rimaneva.
Il figlio annuì,
prima di rivolgere l’ultimo sguardo al drappello di Soldati del Sole che stava
per marciare verso la rovina o la morte. Molti di loro, per certo, non
avrebbero visto il sorgere di una nuova alba, eppure nessuno aveva esitato,
nessuno aveva osato opporsi al volere di Osiride, recepito non come un ordine
ma come l’ardente desiderio di un padre di liberare colui che considerava alla
stregua di un figlio.
Il giovane falco
salutò i presenti, prima di mutare il proprio corpo e spalancare le ali dal
grigio piumaggio. Afferrò Naveed per le spalle e lo
sollevò di peso, lanciandosi nel cielo caliginoso dell’Asia Centrale.
Osiride, nel
frattempo, aveva raccolto il proprio potere attorno allo scettro, roteandolo
sopra la testa e generando cerchi di energia che calarono su tutti i guerrieri
egizi, nascondendo al qual tempo le loro fattezze. Dal momento che avevano
scelto la via dell’assalto diretto, procedere a piedi, esposti alle avvisaglie
delle vedette, sarebbe stata solo un’inutile marcia stancante. Così il Signore
di Amenti aveva optato per una strategia più rozza ma
di certo più efficace.
"Arrivare
quanto più possibile vicino alla piazzaforte nemica!" –Mormorò,
scomparendo a sua volta.
Era certo che non
sarebbero potuti entrare all’interno, a causa dell’oscura energia che permeava
quel luogo, ma quanto meno poterono coprire le miglia di distanza dal tenebroso
santuario in un lampo di luce, riapparendo proprio fuori dalle mura esterne. A
vederlo da vicino, con quei torrioni merlati e il portone su cui erano scolpite
forme demoniache, Osiride torse la bocca in un gesto di raccapriccio,
riconoscendo che più che un tempio ove venerare una qualche antica divinità era
più simile ad una fortezza da guerra. Uguale pensiero attraversò la mente dei
Soldati del Sole, che adesso, così vicini al pericolo, così esposti al gelido
soffio dell’ombra, ne percepirono tutta la potenza. Pur tuttavia sfoderarono le
spade, disponendosi attorno al Dio degli Inferi, che li incitava a non cedere
alla paura, a dominarla e a riversarla contro i nemici.
"Qualunque
cosa ci aspetti! Qualunque mostro si pari a noi di fronte, la sua sorte è già
segnata! La piuma di Maat lo ha già condannato a
precipitare in Amenti!"
Fu in quel momento
che grida raccapriccianti squarciarono l’aria, mentre il suolo veniva squassato
da scosse improvvise. Di scatto il portone del santuario nemico si spalancò e
tre orribili figure ne uscirono: alte, ben più del doppio di un normale essere
umano, il corpo slanciato e avvolto da serpi fiammeggianti, le bocche
spalancate nell’atto di cacciar versi osceni, tre donne furono su di loro,
scagliando lance di legno incendiarie e facendo guizzare fruste di fuoco.
"Per Amon, quale mostruosità!" –Commentò Osiride, mentre le
tre figure, quasi spinte dal vento, si libravano leggere in aria, pur nella
loro enormità fisica. –"Non arretrate!!! Reagite!!! Soldati del Sole,
attaccate le figlie di Apep!!!"
Le urla del Dio
riscossero i guerrieri dallo stordimento dovuto alla sorpresa, spingendoli a
correre in avanti, mentre guizzi di luce laceravano l’aria, partendo dalle lame
che impugnavano.
"Spade del
Sole!!! Irradiate e incenerite il nemico!!!"
Le tre creature
però furono svelte a evitare gli affondi, dividendosi il campo di battaglia e
piombando proprio in mezzo ai soldati, dove maggior strage potevano generare.
Guardandole meglio, i guerrieri egizi notarono che le serpi arroventate che
avvolgevano i loro corpi nascevano direttamente dal cranio, come fossero
capelli, vipere affamate che subito si avvinghiarono ai soldati, stritolandoli,
strattonandoli, mordendoli, affondando i denti nelle loro carni, senza mai
essere sazie.
"Sono delle
furie scatenate!" –Avvampò Osiride, muovendo lo scettro regale in modo da
creare una cupola di luce con cui protesse se stesso e alcuni guerrieri che gli
stavano attorno, respingendo le fiamme nemiche. Quindi, dando l’esempio, puntò
l’asta dorata emettendo un raggio di energia che raggiunse in pieno una delle
tre figure, spingendola indietro e mozzandole un braccio. Digrignando i denti,
la donna cercò di rialzarsi, affondando l’altra mano nel suolo e facendovi
fluire il suo cosmo oscuro. Immediatamente centinaia di serpi infuocate sorsero
dal terreno, intrappolando i Soldati del Sole e facendo strage dei loro corpi.
Inorridendo, Osiride notò che persino dalla spalla mozzata stavano fuoriuscendo
tali abominevoli vipere.
"Figlie di Apopi, la vostra oscurità non avrà ragione dell’Esercito
del Sole di Amon!" –Esclamò, generando un’onda
di energia con cui travolse la creatura, fino a farla schiantare contro il muro
esterno del santuario. Quando fece per voltarsi verso le altre due, si sentì
afferrare per una gamba e sbattere a terra, una frusta fiammeggiante
avviluppata attorno allo stinco, la sadica risata di una creatura intenta a
trascinare il Dio verso le sue grinfie. –"Come osi, bestia immonda?! Non hai
dunque pudicizia?" –Ringhiò Osiride, espandendo il cosmo e incenerendo la
frusta. Poi, rimessosi in piedi, si lanciò contro l’orrido mostro, lo scettro
rivolto avanti, mirando al cuore.
Rinfocolati
dall’azione del Dio, i guerrieri egizi sopravvissuti ripresero a lottare con
maggior fuga, mulinando le spade in ogni direzione e mozzando le orribili serpi
di cosmo che volevano cibarsi della loro linfa vitale. Ma proprio allora un
nuovo grido li stordì, risuonando nei loro timpani fin quasi a sfondarli. Fu un
attimo e una mandria di vacche furiose li caricò, uscendo a centinaia, forse a
migliaia dal portone aperto del tempio. Vacche nere, grigie, alcune marroni,
con lunghe corna che si allungavano a dismisura, infilzando i corpi
esterrefatti dei soldati egizi, che mai avrebbero creduto di dover affrontare
simili creature, considerando soprattutto quanto sacro fosse quell’animale
nelle terre di Amon Ra.
"Se la
compagnia delle Erinni non vi ha soddisfatto, siamo venute anche noi a darvi il
benvenuto!" –Esclamò una vacca, piantando le corna nel petto di un Soldato
del Sole, per poi sbatterlo a terra e iniziare a nutrirsene, divorando in
fretta vesti, pelle e organi vitali. –"Siamo le Empuse,
le divoratrici! E teniamo fede al nostro nome, come potete vedere! Ighighigh!"
In quel momento
Osiride si liberò della donna con cui stava lottando, piantandole lo scettro
nel ventre e poi muovendolo di lato, come fosse una spada, per squarciarle la
pelle. Pur ferita, pur imbrattata di sangue e budella, la furia della Erinni
non sembrava placarsi, addirittura cresceva, infoiata da un appetito
insaziabile. Inorridito, il Dio pensò che sarebbe giunta a cibarsi del suo
stesso corpo smembrato.
"Hai scelto
la migliore, come compagna di giochi!" –Disse allora una delle Empuse, intenta a smembrare un soldato poco distante.
–"Aletto, l’incessante. L’Erinni che non è mai stanca e non dà requie ai
suoi nemici! Buon divertimento! Ighigh!" –E rituffò la faccia nel ventre squarciato
dell’uomo.
In quel momento
Aletto si riscosse, tra grugniti bestiali, dirigendo le serpi maligne verso il
corpo del Dio, alle cui gambe si avvolsero all’istante, stritolandole, mirando
a spezzare la resistenza della Veste Divina, per raggiungere la carne al di
sotto.
"Ora
basta!!!" –Tuonò il Nume, ormai una maschera di rabbia. –"Sono
Osiride Petementes, Giudice supremo dell’Oltretomba,
membro della Grande Enneade! Non indietreggio impaurito di fronte a tali
abomini! Sappiatelo, voi tutte, streghe furiose, e
temete la mia ira!"
Per nulla
convinte, centinaia di Empuse si lanciarono verso di
lui, le fauci pronte ad azzannare, mentre sempre più in alto si snodavano le
serpi di fuoco sul suo snello corpo, fin quasi ad azzannargli la barba. Quasi.
Sibilò il Dio, bruciando il cosmo. Tutte le vipere infernali furono annientate,
disintegrate da quell’estremo bagliore che costrinse persino Aletto a
indietreggiare, coprendosi il volto con un braccio.
"Flagello
di Amenti!!!" –Recitò Osiride, alzando le
braccia in diagonale e generando una valle di puro cosmo ove le Empuse vennero risucchiate una dopo l’altra, i luridi corpi
percorsi da spasimi incontrollabili. –"Al tuo posto!" –Ringhiò
infine, dirigendo l’assalto contro la vicina Erinni, che, intuito il pericolo,
tentò di fuggire.
Fu tutto inutile,
perché il richiamo di Amenti la raggiunse,
aspirandola al suo interno, per quanto si dibattesse, afferrando i bordi del
varco energetico, nonostante l’ardore del cosmo le incenerisse le mani. Le
serpi si contorsero furiose, tuffandosi nel terreno e tentando di ancorare il
corpo del demone a quella realtà. Con fatica, utilizzando sempre nuove energie,
Osiride riuscì infine a spezzare la resistenza di quella furia, allungando i
bordi della valle di cosmo fino a mozzarle le braccia e inghiottendo poi il
corpo mutilato all’interno, potendo così richiudere il varco.
"E una!"
–Commentò, senza molta soddisfazione, considerando quante forze aveva dovuto
profondere in un’operazione che avrebbe creduto semplicissima. Ricordò le
parole del soldato egizio, che aveva immaginato l’oscuro tempio come una
creatura viva, pulsante di energia, e dovette riconoscerne la veridicità.
L’aveva percepita fin dall’inizio, quell’ansia senza nome che l’aveva invaso
mettendo piede di fronte a quel santuario, e adesso poteva esserne certo.
Quell’energia oscura, quella materia primordiale che pareva fermentare dentro
le sudice mura, si stava nutrendo del suo cosmo, e dell’essenza vitale dei suoi
soldati, per poter tornare in vita.
Rialzandosi a
fatica, si guardò attorno, per dare coraggio ai pochi Soldati del Sole rimasti
in vita, che ancora combattevano con le Empuse, e
cercare le sue prossime prede. Una delle Erinni, quella a cui aveva mozzato il
braccio, gli aveva appena rivolto una fetida fiatata incendiaria, ma della
terza aveva perso le tracce.
***
All’interno del
santuario, in una cella ampia e spoglia, alcune voci stavano parlottando tra
loro, al buio.
"Odo rumori
provenire dall’esterno!" –Disse piano un’anziana voce maschile.
"Cosa
succede? Eh, cosa succede?" –Si ringalluzzì un altro, balzando in terra e
portando un corno d’ottone all’orecchio.
"Cosa vuoi
che succeda, vecchio sordo?! Ci stanno attaccando! Non senti il furore dei
cosmi che si infiammano? Sarai pur stato giovane anche tu, Geras!
Sono rumori di guerra!"
"Guerra?!
Guerra?! Santi numi, moriremo tutti!" –Parlò allora una terza isterica
voce, pervasa da una tremenda paura, quasi disperazione. –"Oh Dei del
Cielo aiutateci!"
"Stolto!"
–Gli diede una botta in testa la prima voce. –"Siamo noi gli Dei del
Cielo!"
"Oh, è vero!
Allora confermo! Moriremo tutti!!!" –Piagnucolò il compagno.
"Devo dire
che la valutazione di Oizys è corretta! Non abbiamo
ancora recuperato le nostre forze, cosa potremmo fare contro ignoti e potenti
guerrieri? Fargli lo sgambetto col mio bastone?!" –Confermò l’uomo con il
corno all’orecchio.
"Niente!"
–Li zittì tutti una quarta voce. –"Non faremo assolutamente niente!"
I tre litiganti si
voltarono verso la direzione di provenienza della nuova voce, riconoscendone la
cadenza e soprattutto l’impersonalità, quasi fosse espressione di un distacco
dal mondo che solo una Divinità poteva possedere.
"Moros, cosa vuoi dire?"
"Ciò che ho
appena detto! Non è chiaro, forse, Momo?" –Continuò il Dio, placido nel
suo dialogare. –"Noi non faremo niente poiché non c’è niente che noi
possiamo fare! Il destino seguirà il suo corso, sempre e comunque, e non
saranno le balorde azioni di un vecchio, di un miserabile e di uno zitello inacidito cacciato dall’Olimpo per aver
ridicolizzato i suoi occupanti con sciocchi apprezzamenti a cambiarlo! Ogni
essere vivente, umano o divino, andrà verso la fine scritta per lui, per quanto
possa sforzarsi di cambiare direzione! Così ho parlato!"
"Che ha
detto? Che ha detto?!" –Intervenne allora Geras,
agitando il cornetto all’orecchio e finendo per sbattere in una colonna del
tempio, cadendo a terra.
"Moriremo
tutti!" –Ripeté Moros. E le sue parole non
suonarono come un timore o una speranza, ma solo come una semplice
constatazione.
***
Il falco d’argento
apparve nel cielo sopra il Taklamakan, nascosto tra
le nuvole di quel tardo pomeriggio. Nonostante l’imbrunire, la via era
tracciata chiaramente davanti ai suoi occhi, inoltre, quand’anche si fosse
perso, l’accendersi impetuoso del cosmo di suo padre di fronte al nero portone
lo avrebbe comunque guidato alla meta. Naveed,
stretto dai suoi artigli, scrutava tra i nembi in cerca di vedette o nemici nel
grande spiazzo aperto che si estendeva di fronte al tempio, cinto da alte mura
nere di fronte alle quali i suoi compagni stavano combattendo. Non vide
nessuno, confermando la valutazione fatta in precedenza, sebbene non potesse
essere certo che altre oscure potenze non fossero risorte durante la sua
assenza.
Horus planò nel cortile, depositando il soldato, che subito
impugnò la Spada del Sole, guardandosi attorno circospetto, pronto a liberarne
i raggi, mentre il Dio recuperava la sua forma umana, indossava la Veste Divina
e correva verso la scalinata d’ingresso a quella che sembrava la struttura
principale del tempio. Abbatté il portone con un calcio, facendo entrare, forse
per la prima volta, un filo di luce in quell’androne oscuro, permettendo a Naveed di riconoscere la sala dove aveva visto riunirsi i
loro nemici poche ore prima. Scattando avanti, il giovane condusse Horus verso un corridoio sulla sinistra, dirigendosi verso
i sotterranei, ma accorgendosi di dover cambiare strada più volte, essendo
mutato lo schema interno della costruzione.
"Avverto la
stessa sensazione di ore addietro! La rovina del tempo!" –Commentò Naveed. –"È come se tutto fosse abbozzato,
provvisorio, caduco. Tutto è rimasto sepolto sotto una polvere di eternità,
fuori dal mondo, fuori dal tempo. Come…" –Quindi
si interruppe, temendo per le sue parole.
"Come era
Karnak quando Amon Ra era prigioniero del suo
isolamento!" –Annuì Horus, che provava lo stesso
senso di decadenza. –"Ma c’è un altro potere all’opera, un’oscura forza
che pervade l’aria, saturandola e forse sostenendo questo luogo di afflizione,
per quanto non riesca a percepirne l’origine!"
Un infimo bagliore
lo distrasse, portandolo a correre verso quell’unica fonte di luce,
ritrovandosi infine in una sala buia, scoprendo che quel chiarore proveniva da
una torcia incassata nel muro sull’altro versante, a segnare quello che sembrava
l’accesso ad una scalinata, e Naveed fu certo che
conducesse ai sotterranei. Ai lati del salone però giacevano decine di bare
nere, dentro cui Horus sentì fermentare potenti e
cupe energie. Rabbrividì, esitando per un momento, ma poi ricordò le parole del
padre sull’essere fermi durante una missione e pensare prima all’obiettivo
principale, poi al resto, per non vanificare un’azione congiunta. Così riprese
a correre dentro il salone, seguito da Naveed, mentre
alcune minute figure nascoste dietro ai feretri si lasciavano prendere dal
panico e iniziarono a scappare.
"Aspettatemi!
Puff, pant!
Aspettatemi!" –Gridò un uomo, trotterellando a fatica reggendosi a un
bastone.
Naveed fu subito su di lui, trapassandogli il costato con la
Spada del Sole e liberando un getto infuocato di energia che incendiò vesti e
carni dell’anziano, che rantolò ancora per qualche passo, prima di accasciarsi
su una bara d’ebano, mentre un corno d’ottone cadeva dalle sue tasche.
Improvvisamente anche il contenuto del sarcofago iniziò a bruciare, una
sostanza vischiosa, quasi oleosa, dentro cui un corpo scheletrico stava
immerso. Grida terrificanti risuonarono nella sala, mentre un altro uomo
piagnucolava più avanti, venendo subito raggiunto da Horus,
che lo afferrò, sollevandolo di peso, chiedendogli chi fosse e dove fossero i
prigionieri.
"Lo sapevo!
Lo sapevo io! Siamo tutti condannati! Miseria, sofferenza e morte ci
aspettano!" –Ripeté angosciato, senza che il Dio egizio potesse cavargli
altro.
"Non avrete
risposte da Oizys, solo parole grame! Del resto non
si diventa Dei della Miseria e della Sventura per caso!" –Parlò allora una
voce calma, mentre un uomo calvo, assiso a gambe incrociate, appariva in aria
di fronte a Horus, fissandolo con sguardo
inespressivo.
"Chi sei
tu?" –Lo interpellò subito il figlio di Osiride, mentre Naveed prendeva posizione di fronte a lui, spada in pugno.
"Moros, il destino ineluttabile! Così mi chiamano! Non che
mi interessi, in fondo, come gli altri si rivolgono a me, un nome non cambierà
di certo il fato, ne convieni, Horus, il
lontano?"
"Come conosci
il mio nome?!"
"Io conosco
il nome di tutti gli esseri viventi, e soprattutto ne conosco la sorte! Il fato
a cui nessuno può opporsi! Neppure gli Dei!"
"Se conosci
la sorte di tutti, sai anche che potrei ucciderti adesso con le mie mani,
creatura delle tenebre!"
"Ne sono
consapevole! Come sono consapevole che potresti sterminare Oizys
e tutte le Astrazioni che riposano in queste bare d’ebano attendendo il momento
della loro rinascita! O, se lo desideri, potresti imboccare quelle scale erte,
che vedi là dietro, alle mie spalle, e scendere nei sotterranei e liberare gli
amici a te cari! Oppure potresti tornare indietro ad aiutare tuo padre, che,
permettimi di fartelo notare, è in evidente difficoltà! Infine c’è sempre
un’ultima scelta, quella che io prediligo!"
"Ossia?!"
–Domandò Horus, incuriosito da quel bizzarro
personaggio.
"Non fare
niente, proprio come me! Poiché niente comunque cambierà! Quindi a che giova
faticare tanto? Fai la tua scelta Horus, figlio di
Osiride, e pagane il fio!"
Il giovane falco
rimase assorto nei suoi pensieri per qualche secondo, prima di fare cenno a Naveed di seguirlo e correre lungo la scala di pietra fino
all’ultimo livello, da cui sentivano provenire, sia pur debole, l’impronta
cosmica di Febo e di Marins.
"Per Osiride,
quale supplizio!" –Gridò Horus, osservando con
disgusto la scena rivelatasi ai suoi occhi.
Febo e Marins erano appesi al
muro, abbandonati nudi e inermi su rozze croci di pietra, mentre i loro corpi
venivano prosciugati dell’essenza vitale da serpi di cosmo nero, di fronte
all’attento sguardo di una vecchia gobba. Ai piedi dei due Cavalieri delle
Stelle, da una bara d’ebano identica a quelle che avevano visto nella sala al
piano superiore, una figura rachitica si stava muovendo, iniziando a liberarsi
dalla sostanza vischiosa in cui il suo scheletro era immerso.
Horus comprese subito quel che stava accadendo e prese la
sua decisione, incitando Naveed ad agire. –"Artigli
del falco!!!" –Gridò, liberando il possente rapace il cui cosmo
incendiò le serpi venefiche che stavano massacrando i due compagni, spingendo
indietro la vecchia torturatrice.
Naveed, al qual tempo, si era portato ai bordi del feretro,
accendendo la Spada del Sole di un lucido fulgore e piantandola nel petto della
scheletrica figura. Subito una violenta fiamma si propagò, rischiarando la
tenebra puzzolente di quel sotterraneo e permettendo a Horus
e al suo soldato di osservare la nefandezza di quel processo di rinascita. Le
mani ossute della figura nel sarcofago, presto divorata dalle fiamme del sole
d’Egitto, si allungarono spasimando verso il giovane Dio, ma Naveed fu svelto a reciderle con un altro colpo di lama,
pregando il suo Signore di rimanere a distanza.
"Fobetore!!! Nooo!!!" –Gridò
allora la vecchia spinta a terra, rialzandosi urlando e rivelando il suo viso
butterato. –"Maledetti impiccioni! Ce l’avevo quasi fatta! Che la
maledizione di Algea, Dea della Sofferenza e del
Martirio, vi pervada!"
"Non temere,
brutta strega! Riabbraccerai presto il tuo disgustoso amico, poiché sarai la
prossima a cadere, pagando per il male che hai causato!" –Avvampò Horus, espandendo il proprio cosmo argenteo, che lo
avvolse, terrorizzando la donna dalle nauseabonde vesti, che fu costretta a
fare altrettanto.
"Timoria!!!" –Strillò, dirigendo un unico
potente raggio di energia oscura verso il Dio egizio, che non ebbe problema
alcuno a pararlo con il palmo della mano aperta, su cui fulgido risplendeva il
suo cosmo.
"Hai provato
e hai fallito! Ora non provare più! Riposa, donnaccia! Artigli del falco!!!"
–Tuonò il figlio di Osiride, mentre rapidi fendenti di energia piombavano su Algea da ogni direzione, dilaniando le sue vesti putride e
le sue carni stanche, prima di lasciarla crollare a terra, in una pozza di
sangue scuro.
Horus ne osservò la carcassa per qualche secondo, senza
soddisfazione alcuna. Un attacco di quel genere, portato da un Dio del suo
calibro, membro della Piccola Enneade, avrebbe dovuto distruggerla
completamente e non limitarsi a sbrindellare vecchi abiti e pelle marcia.
Cos’è questo peso che grava sul mio cuore, che rende pesanti i miei passi,
affatica le mie membra e diminuisce la forza dei miei assalti? Che sia l’oscuro
potere celato tra queste mura, la cui forza d’attrazione adesso percepisco più
nuda e cruda che mai? Rifletté, prima che Naveed
lo richiamasse.
"Mio Signore,
qua! Aiutatemi!" –Il soldato stava mulinando la Spada del Sole in ogni
direzione, per distruggere le serpi nere rimaste, riuscendo infine a liberare Febo e Marins da quella macabra
tortura.
Con delicatezza, Horus estrasse i chiodi che erano stati piantati nei palmi
delle loro mani e nella carne, proprio sotto le ascelle, tremando inorridito di
fronte alle chiazze nere che costellavano la loro pelle, orrende tumefazioni
frutto dell’abominio. Naveed lo aiutò a rimuovere i
corpi e a posizionarli poi a terra, lontano dal sarcofago e dal cadavere
putrescente della vecchia, per sincerarsi delle loro condizioni.
Debole, lontano,
fioco, quasi un sospiro nel vento, il cuore di Febo e
di Marins pareva battere ancora, e questo aveva una
sua logica, dovette ammettere il Dio Falco. Per quel che aveva visto, i loro
nemici avevano deciso di servirsi del cosmo dei Cavalieri delle Stelle come
nutrimento per risvegliare antichi Dei rimasti nell’ombra per millenni;
pertanto avevano bisogno di tenerli in vita, anche se incoscienti, quanto più
potessero, allungando le loro sofferenze.
"Bastardi!"
–Ringhiò Horus, prendendo un oggetto che Iside gli aveva
dato e mettendolo al collo di Febo. Naveed lo riconobbe e chinò il capo, per onorare la Dea
Madre misericordiosa. –"Il tiet li aiuterà a
riprendere le forze!"
Fu allora che la
voce ruvida di Algea li raggiunse, facendoli
trasalire, convinti che la vecchia fosse morta. –"Non sofferenza fisica ti
aspetta, giovane falco. Coughcough!
Non pena adeguata sarebbe per il tuo atto sacrilego. Ben più intenso supplizio
ti attende, per mano delle Dee della Vendetta! Così siamo pari." –Tossì la
Dea delle Sofferenze, prima di spirare.
Naveed bofonchiò qualcosa, per cacciar via la maledizione di
quella vecchia, prima di venir spinto di lato dallo smottamento del terreno.
Qualcosa di grosso, di molto grosso, stava camminando sopra di loro. Ed era
anche parecchio veloce, a giudicare dalla rapidità con cui stava discendendo i
gradini verso il sotterraneo, proiettando agghiaccianti ombre sulle mura,
rischiarate da improvvise fiamme rossastre.
Hisss!!! Sibilò
un’orrida bestia, sbucando infine nell’angusta sala e palesandosi per quel che
era. Un alto corpo di donna, di nero vestita, con lunghe serpi infuocate per
capelli e occhi iniettati di sangue. In mano reggeva una torcia, la cui fiamma
ne rendeva i lineamenti ancor più orripilanti. Naveed
fece un balzo indietro, impugnando la spada, sia pur con mano tremante, ma
tenendosi comunque sempre davanti a Febo e Marins. Horus lo affiancò
all’istante, ben sapendo chi aveva davanti, uno dei demoni antichi della
vendetta. Una delle tre Erinni.
***
Libra si fece
aiutare da Yulij del Sestante per trasportare il
corpo inerme di Tirtha alla prigione di Capo Sounion, scortati da alcuni soldati del Santuario. Per
quanto potesse sembrare una precauzione eccessiva, verso un avversario che
neppure indossava un’armatura, Dohko preferì evitare
ogni rischio, avendo visto di persona che cosa una persona dominata dall’ombra
potesse fare. Ed inoltre il fatto di aver persino respinto i poteri mentali di Virgo lo faceva temere più di ogni altra cosa, conoscendo
davvero pochi esseri umani, in tutto il mondo, che potessero permettersi un
lusso simile.
"Qualcosa vi
turba, Cavaliere di Libra?" –La voce di Yulij
del Sestante lo raggiunse, atona e metallica a causa della maschera che le
copriva il volto.
"Sono solo
dispiaciuto. Era una ragazza molto promettente." –Si limitò a commentare Dohko, continuando a marciare lungo la via che conduceva
alla scogliera. –"Proprio come te!" –Aggiunse, per sembrare meno
distante con la giovane Sacerdotessa.
Dopo la fine della
guerra contro Ares, quando Atena aveva deciso di restaurare il Grande Tempio,
ricostruendo case, alloggi e quant’altro fosse stato distrutto dai berseker, aveva chiesto ai Cavalieri d’Oro e d’Argento di
completare l’addestramento dei loro ultimi allievi, in modo da poterli
investire non appena ritenuti meritevoli.
"Ho già dato
disposizione a Castalia e Tisifone di riprendere il
programma di formazione delle giovani sacerdotesse!" –Aveva iterato Atena.
"Capisco le
vostre necessità, mia Dea!" –Aveva detto Libra, in ginocchio di fronte al
trono assieme a Mur e Ioria.
–"Mai come adesso le fila del nostro esercito sono state così ridotte.
Escludendo i Cavalieri dello Zodiaco, ormai assurti a ben superiore rango
rispetto a quello che qualsiasi classificazione possa dare loro, vi sono solo
tre Cavalieri d’Oro, due Cavalieri d’Argento e due Cavalieri di Bronzo,
Unicorno e Camaleonte. Sette su ottantotto."
"Non è
propriamente così!" –Aveva esclamato Atena, sorprendendo i tre Cavalieri
d’Oro che avevano ardito sollevare il volto e fissare la Dea dallo sguardo
sorridente.
Proprio in quel
momento, da dietro la tenda color porpora, un uomo era uscito, portando tomi
antichi con sé e inchinandosi prontamente a lato del trono, in rispettoso
silenzio. Sebbene non lo conoscessero, i Custodi Dorati riconobbero le vestigia
che aveva indosso, vestigia che da anni nessuno più aveva indossato.
"Ma quella è
la sacra armatura di…" –Aveva mormorato Ioria, prima che Atena riprendesse a parlare.
"Nicole è il
mio nuovo assistente. Come sapete era l’archivista della Biblioteca del
Santuario, una figura di fondamentale importanza per la ricerca storica e la
cura delle fonti. Per adesso il suo compito sarà puramente diplomatico. Domani
partirà per il Giappone per consegnare alcuni schizzi ad un mio fedele
collaboratore, che intende realizzare, con il mio benestare, due Armature
d’Acciaio, in sostituzione di quelle andate distrutte durante l’assalto di
Ares. Nicole ha avuto un’allieva, di nome Yulij, di
cui Tisifone si sta occupando per irrobustirne il
fisico e, a detta dell’Ofiuco, possiede talento e
capacità ricettive. Doti che, in tempi oscuri come questi, sono ben
accetti."
"Certamente,
mia Signora!" –Avevano commentato i Cavalieri d’Oro, prima di venire al
corrente di una nuova rivelazione. Qualcosa che la stessa Atena aveva ignorato
fino al giorno prima, quando Nicole l’aveva informata.
"Ve ne sono altri…" –Mormorò Libra tra sé, prima che lo scrosciare
di un’onda lo rubasse ai suoi pensieri. Erano infine arrivati a Capo Sounion, la prigione scavata ai piedi della scogliera dai
primi Grandi Sacerdoti, costretti, da fatti incresciosi, a istituire un luogo
ove recludere i traditori. Una stirpe che, ahimè, con il tempo non è affatto
scomparsa. Sospirò Libra, ripensando a Kanon, a
Gemini e alla Guerra Sacra del Diciottesimo Secolo.
"Procedete!"
–Disse infine, mentre i soldati conducevano il corpo privo di sensi di Tirtha lungo il sentiero a strapiombo sul mare,
raggiungendo infine la prigione e depositandola al suo interno. –"Non fate
avvicinare nessuno!"
"Temete per
la sua sicurezza, mio Signore?" –Domandò Yulij.
"Per la
verità, temo per la sicurezza degli altri!" –Chiarì Libra, prima di dare
alla Sacerdotessa e ai soldati le ultime istruzioni e rientrare al Grande
Tempio. C’era qualcosa di cui doveva parlare a Virgo
al più presto.
Capitolo 16 *** Capitolo quattordicesimo: Battaglia al Quinto Cerchio ***
CAPITOLO QUATTORDICESIMO: BATTAGLIA AL QUINTO CERCHIO.
“Allora,
vediamo di stare calmi, ok?!” –Ripeté Matthew per la terza volta, spinto con la
schiena contro una piramide, le braccia, alzate in chiaro segno distensivo.
–“Sono un Cavaliere di Avalon e sono qua per lottare contro i vostri nemici!”
“E
la figlia di Selene rientra in questa categoria?”
“Elanor
stava andando a combattere e io l’ho colpita per impedirglielo! Tu, che sei
fedele a sua madre, l’avresti lasciata andare?” –Quindi, vedendo che il Selenite
pareva ancora dubbioso, vuotò completamente il sacco. –“Non vedi che si è
costruita un’armatura da sola, pur di andare in guerra? Ci ha seguiti, Thot! Io
ho solo fermato i suoi propositi suicidi! Cos’avrei dovuto fare?!”
Quelle
parole colpirono il Dio, che abbassò il lungo bastone d’oro che teneva puntato
alla gola del ragazzo, permettendogli di respirare. Quindi si chinò sulla
fanciulla, ancora svenuta, e sospirò. Per quanto ben poche volte si fossero
incontrati, e a pensarci adesso, dopo secoli vissuti in quel mondo lontano da
tutto, gli sembrò davvero strano, quelle rare occasioni lo avevano rattristato,
perché mai l’aveva vista sorridere, quella ragazza dal volto bello e luminoso,
tediata sempre da un pallore che non riusciva a spiegarsi. Un pallore che, a
detta di tutti, in quel paradiso perduto, non aveva motivo di esistere. A
volte, nelle lunghe ore di studio della volta celeste, aveva chiesto alle
stelle una risposta ai suoi perché, cercandola anche nei papiri e negli scritti
che aveva portato con sé dall’Egitto. Ma non aveva saputo dare un nome a quel
male, a quella noia esistenziale che a lungo aveva divorato il cuore di Elanor.
E invece era la vita, la tua stessa
vita, a tenerti in gabbia, dolce Elanor!
Mormorò il Dio, sfiorandole il delicato viso e sistemandole i capelli, prima di
sollevarla e condurla all’interno di una delle piramidi disseminate nel Cerchio
di Giove.
Matthew
rimase per un momento in disparte, non sapendo cos’altro dire, prima che un
rumoroso vociare lo distraesse, attirando la sua attenzione e anche quella di
Thot, prontamente uscito dalla costruzione.
“Cos’è?!”
–Esclamò subito Matthew, tirando uno sguardo all’orizzonte.
“I
nemici… stanno per entrare nel Quinto Cerchio!” –Rispose il Dio con angoscia.
“Sono già qui?!” –Rifletté il ragazzo, chiedendosi cosa fosse successo nel
frattanto, cosa stessero facendo Pegasus, Phoenix, Reis e Jonathan e
soprattutto se stessero bene. Cosa quest’ultima di cui iniziava a dubitare,
considerando la rapidità con cui l’esercito di Ares aveva superato i cerchi
esterni.
Maledizione! È tutta colpa mia! Ho perso
tempo anziché essere con loro ad aiutarli! Ringhiò, sbattendo i piedi sulla sabbia. Thot notò la sua frustrazione
e lo invitò a metterla da parte, facendogli cenno di correre assieme a lui.
“Ho
letto nel tuo cuore, e c’è del giusto. Se giusto è morire in guerra. Vieni con
me, Cavaliere di Avalon, e potrai realizzare i tuoi propositi!”
Il
custode del Talismano dell’Arcobaleno acconsentì, sfrecciando nel deserto
assieme al Dio egizio, fino a portarsi di fronte al passaggio incavato nel muro
che conduceva al Cerchio di Saturno, laddove alcune figure erano appena
comparse. Cercò di contarle, ma perse il conto superata la centinaia,
richiamato anche da Thot che lo pregò di rimanere indietro, ad almeno dieci
metri di distanza. Quindi il Selenite si sedette, a gambe incrociate,
espandendo il proprio cosmo e lasciando che il disco lunare, posto al centro
del suo elmo, si illuminasse.
Stranito,
Matthew non proferì parola, per non disturbare la sua meditazione,
immaginandola un’ultima preghiera prima della battaglia, quando un sibilo
richiamò la sua attenzione. Sbattendo le palpebre più volte, e focalizzando lo
sguardo sulle alture del varco, il ragazzo rimase di sasso nel vedere che i bordi
si stavano assottigliando, sfumando leggermente. Anzi sembrano proprio sciogliersi, decomponendosi nella loro struttura
primaria. Tantissimi granelli di sabbia!
Pochi
attimi dopo, mentre il grosso dell’esercito di Ares correva all’interno del
passaggio per il Quinto Cerchio, le pareti laterali collassarono su loro
stesse, sfaldandosi in cumuli di sabbia e travolgendo l’intera armata. Ma il
potere di Thot non si limitò a disgregare le mura, bensì prese il controllo di
ogni singolo granello di rena, continuando a muoverli, a farli scorrere ad alta
velocità, generando figure animalesche le cui fauci inghiottirono i Phonoi e le
Androctasie, e poi vortici e mulinelli, che ne risucchiarono altri, riempiendo
di sabbia le loro bocche, le loro narici e i loro orecchi, fino a soffocarli.
“Che
fine terribile!” –Commentò Matthew.
“Ad
arti ben più eleganti ho dedicato la mia esistenza, Cavaliere di Avalon, come
il tuo maestro certo saprà. Alla scrittura, mia passione primaria, alla
matematica, alla geometria, alla medicina e all’astronomia. Non alla guerra, a
quella non ho mai pensato di profondervi sforzi. Pur tuttavia so difendermi, se
minacciato!”
In
quella, un urlo demoniaco squarciò il cielo lunare, mentre mucchi confusi di
rena, polvere e corpi venivano sbalzati in aria, dal centro dello spazio ove
fino a poco prima era esistito il varco, adesso un caotico ammasso di sabbia
lunare. Un secondo urlo, ancor più raccapricciante, obbligò Matthew e Thot a
tapparsi gli orecchi, mentre un’onda d’urto si abbatteva su entrambi,
scagliandoli indietro. Tanto intenso era stato quel suono che il Cavaliere di
Avalon credette di aver perso l’udito, quando, faticando a rialzarsi, barcollò
stordito, prima di riuscire a stabilizzarsi.
“Che
diavolo… succede?!”
La
risposta arrivò sotto forma di un’agile donna, dai lunghi capelli rossicci e
dalla corazza identica a quella delle Androctasie, di cui sembrava membro. Con
estrema destrezza sfrecciò tra le sabbie, sollevandole al suo passaggio, prima
di balzare su Matthew e riempirlo di pugni. Quando il ragazzo capì quel che
stava accadendo, e che se non avesse reagito a breve sarebbe morto, già la sua
nemica lo aveva ghermito per il collo e sollevato, per guardarlo in faccia
prima di strappargli il cuore dal petto.
“Ora
basta!” –Tuonò allora Thot a gran voce, mentre calava ilbastone sul braccio con cui la donna stava
stritolando Matthew, colpendola sul gomito e forzandola a lasciar cadere a
terra la sua preda.
“Osi
interrompermi?! Quale coraggio! Mai nessuno è vissuto abbastanza da potersi
vantare di aver toccato la Regina delle Makhai!” –Avvampò la guerriera dalla
chioma rossiccia, le labbra torte in una smorfia malvagia. –“Alala è il mio
nome, il grido che risuona sui campi di battaglia, incitando l’animo dei miei
soldati e creando sconforto e disperazione nei miei nemici! A te, Dio che ti
fregi dell’appellativo di sapiente, la scelta del campo!”
“Ho
già fatto quella scelta millenni addietro!” –Esclamò Thot con orgoglio. –“E non
sarà un ammasso di barbari sanguinari a farmi cambiare…”
“A-la-la!!!” –Echeggiò d’improvviso la
Makhai, spingendo indietro il corpo del Dio egizio, fino a schiantarlo contro
il muro di confine dall’altra parte del cerchio.
“Onde
soniche…” –Mormorò allora Matthew, affannando nel rimettersi in piedi.
“Molto
di più! Io sono l’essenza della guerra! Il preludio di lance! Il grido che
infoia, la voce che uccide! Persino Ares è solito invocarmi in battaglia, prima
di inebriarsi dell’attacco finale! Io sono l’estrema unzione che anticipa la
carneficina!”
“Se
sei così importante, perché sei vestita come gli altri soldati, con
quest’armatura semplice?”
“Un’armatura,
per essere efficace, deve essere resistente agli affondi nemici e deve coprire
le parti vitali. Di tutti gli orpelli e le decorazioni, di cui molti Dei van
fieri, a me poco importa, inutili fastidi in battaglia, niente di più! E poi a
me piace stare tra i soldati, camminare in mezzo a loro, anzi dietro di loro,
in modo da poterli abbracciare tutti con un unico urlo di guerra e spingerli
avanti!” –Precisò Alala, prima di ordinare a Homados, che intanto era emersa
dall’ammasso di sabbia, di radunare in fretta le truppe e marciare sul palazzo.
–“Che quegli sfaticati dei Phonoi portino le chiappe fuori all’istante! Non
siamo qua per fare le sabbiature! Se entro due minuti non sono tutti in riga,
ucciderò personalmente gli scansafatiche e i detrattori!”
“Sì,
mia Regina!” –Obbedì Homados, iniziando a correre per ricreare la formazione da
battaglia, aiutando i superstiti a rialzarsi e abbandonando feriti e caduti.
“Ordine
ci vuole in guerra! Ordine e fermezza, oltre che una grande potenza d’attacco!”
–Chiarì Alala, riportando lo sguardo su Matthew. –“E tu, ragazzino, non hai
nessuna di queste cose a quanto pare! Sei solo, debole e confuso, fatti un
favore… muori!” –E sfrecciò verso di lui per colpirlo con un pugno al cuore, ma
il Cavaliere fu lesto a balzare di lato, evitando l’affondo ed espandendo al
qual tempo il suo cosmo.
La
cintura della sua armatura, ove erano incastonate sette gemme di colori
diversi, si illuminò all’improvviso, mentre una spirale di energia variopinta
vorticò attorno a Matthew, che portò avanti il braccio destro, liberando il suo
colpo segreto.
“Arcobaleno incandescente!!! Via!!!”
L’attacco
però si spense dopo pochi istanti, travolto dall’onda d’urto generata dal grido
di Alala, che non soltanto sollevò sabbia e polvere, scavando persino solchi
nel suolo lunare, ma si abbatté su Matthew, schiantandolo a terra e facendogli
perdere l’elmo dell’armatura. Un attimo dopo Alala era su di lui, libera adesso
di tempestargli la faccia di pugni. Per primo gli spaccò il naso,
spezzandoglielo e poi facendoglielo ingoiare con un secondo pugno, che gli
portò via parte dell’arcata dentaria. Il terzo pugno lo sprofondò nel suolo,
aprendo un cratere sotto il suo corpo, macchiato da schizzi di sangue fresco.
Quindi lo sollevò per i capelli biondicci, strappandogliene parecchi, e
preparandosi, con l’altra mano a dita tese, a tagliargli la testa.
Fu
un colpo d’ali a distrarre Alala dall’ultimo atto, l’ombra di un uccello
apparsa all’improvviso. –“Conosci la leggenda dell’ibis, Regina delle Makhai? Era animale sacro
alle popolazioni egizie perché si cibava di serpenti, ma ancor più di carogne!
E guarda che carogne infami abbiamo qua davanti! Un gran condottiero intento a
massacrare un ragazzino! Atteggiamento disdicevole, non trovi?” –Esclamò Thot,
avventandosi dall’alto, le ali della corazza spalancate e avvolte in un
luccichio di sabbie dorate. Gli artigli dell’ibis le graffiarono la pelle, nei
punti non protetti dall’armatura, e fu solo con molta prontezza che Alala poté
evitare che le unghie di Thot le si piantassero in faccia, cavandole gli occhi.
Con un colpo d’anca, la donna cercò di svincolarsi
dalla presa del Dio, ma questi la tenne saldamente, fino a ruzzolare insieme
nel cratere insanguinato. Thot provò a colpirla con il bastone, ma Alala era
svelta, resistente e cocciuta, e quei fendenti menati a casaccio non la
scoraggiarono, ma la spinsero a reagire, torcendo il polso del Selenite e
facendogli perdere la presa sullo scettro, che con un calcio spinse lontano.
Quindi la donna balzò indietro, portandosi in alto e radunando le forze per un
ultimo assalto, a suo dire quello definitivo.
“A-la-la!”
–Sibilò, generando un’onda di pressione che sfrecciò verso Thot, incapace di
difendersi, ma che venne intercettata dal corpo di Matthew, balzato agilmente
di fronte al Dio per proteggerlo.
“Ragazzo!!!” –Gridò questi, osservandone il corpo
venire maciullato da un’indicibile violenza, le ossa schiantarsi, gli occhi
uscire dalle orbite, fino a ricadere inerme a terra, la sua vita aggrappata a
un ultimo filo di cosmo.
Per niente turbata, ma sempre più divertita, Alala
spalancò le labbra per un secondo attacco, quando un’agile figura saltò su di
lei, colpendola al volto con un calcio e atterrando poi dall’altra parte.
Nell’urto la Regina delle Makhai perse l’elmo, rivelando il suo volto di donna
adulta e battagliera, con i lunghi capelli rossicci che ondeggiavano alle sue
spalle, come serpenti pronti a stritolare il nemico tra le spire.
“Un nuovo arrivo? Di singolare corazza sei
equipaggiata, fanciulla!” –Ironizzò Alala, osservando la ragazza dai capelli
castani e dagli occhi verdi.
“Elanor!!!” –La riconobbe Thot, correndo verso di
lei. –“Che fai qua? È pericoloso!”
“Conosco la gravità della situazione! Perché mi
avete estromesso? E dov’è Matthew? Devo fargli un bel discorsino!” –Incalzò
subito lei, prima che il Dio la facesse voltare verso il fondo del cratere,
dove il corpo massacrato del ragazzo giaceva. –“Per tutti gli Dei! Matthew! Sta
bene? È vivo?!”
“Perché non vai a chiederglielo?” –Ironizzò Alala,
muovendo un passo nella loro direzione e iniziando a bruciare il proprio cosmo.
“Vacci tu, strega!” –Esclamò Elanor, sollevando
l’indice destro al cielo e attaccando col proprio colpo segreto. –“Croci di luna!!!” –Da quattro punti
attorno al suo corpo si irradiarono raggi di energia, moltiplicandosi in
migliaia di copie che spezzarono la concentrazione necessaria ad Alala per
liberare l’urlo furioso, obbligandola a balzare di lato in lato, evitando i
fasci energetici.
Con agilità, la donna si portò infine proprio di
fronte a Elanor, troppo vicina perché le croci potessero raggiungerla, e
sorprendentemente le carezzò il viso, ammirandone la passione guerriera.
Stordita, la ragazza fece per allontanarsi, ma Alala la tenne stretta per il
collo mentre i suoi capelli ondeggiavano sinuosi, scivolando lungo il corpo di
Elanor e intrappolandola in una solida maglia.
“Ho apprezzato il tuo tentativo, fanciulla! Inconsistente
ma passionale! E quando c’è la passione tutto il resto non conta, tutto il
resto si perde alle porte del furor bellico! Saresti una Makhai perfetta! Con
un po’ d’addestramento, s’intende!” –Sogghignò la donna. –“Che te ne pare della
mia proposta? Sempre meglio di un cappio al collo, non trovi? Oh, perdonami,
quello in fondo l’hai già!” –Rise, mentre i suoi lunghi capelli vermigli
strattonavano ogni osso del corpo di Elanor, marcandole la pelle, aprendole
ferite e ricordandole quanto fosse stata stupida e imprudente.
“Sai dove puoi ficcartela la tua proposta?!” –Trovò
la forza per mormorare, strappando una risata divertita ad Alala.
“Homados, l’hai sentita? È una di noi!” –Ghignò, per
poi mutare la sua espressione in disappunto, aumentare la presa e scuotere la
testa delusa.
Fu allora che un uccello di cosmo si abbatté sulla
sua chioma, incendiandola e liberando Elanor da quella soffocante prigionia,
proprio mentre Thot mulinava il bastone d’oro, obbligando la Dea a un balzo
indietro. Un secondo ibis energetico dipartì dal suo scettro, schiantandosi
contro il pugno teso della Makhai, che venne comunque spinta a distanza di
sicurezza, permettendo al Dio di chinarsi sulla figlia di Selene e liberarla
alla bell’e meglio da quel groviglio di capelli bruciati.
“Elanor, ascoltami bene! Ho bisogno che tu faccia esattamente quel che ti dico!
Guardami! So di non avere autorità su di te, ma è necessario che tu obbedisca!”
–Esclamò Thot, prendendo le mani della ragazza, il cui sguardo era chiaramente
sconvolto. –“Prendi il ragazzo e va’ dietro quella piramide, trova un riparo!
Niente obiezioni! Va’! Ora!”
Elanor, soffocando le lacrime, ubbidì, gettandosi
nel cratere e recuperando il corpo esanime del Cavaliere di Avalon,
caricandoselo in spalle e correndo verso la costruzione indicata da Thot, non
molto distante, di fronte all’attento sguardo di Alala, che poi lo riportò sul
Dio egizio.
“Sei generoso e vuoi morire al loro posto o
semplicemente non vuoi che assistano alla tua tragica e patetica fine? Ti
risparmio la scelta, poiché la prima opzione proprio non sussiste, in quanto,
ucciso te, ammazzerò anche loro! Ah ah ah!” –Rise Alala.
“Lo vedremo, carogna!”
“Sbagliato! Avresti dovuto dire sentiremo! È verbo
più adatto per Alala!” –Ironizzò, preparandosi infine all’assalto. Ma prima che
riuscisse a vociare il suo urlo di guerra, venne sollevata da un improvviso
turbine di sabbia, un vortice che la sradicò da terra, tempestandola di
scariche energetiche, e schiantandola molti metri addietro, proprio addosso all’armata
di Androctasie appena riformatasi, gettandola nella confusione.
Approfittando di quel momento, Thot corse verso i
due ragazzi, chinandosi su Matthew per verificare le sue condizioni, a dir poco
tragiche. Gli sfiorò il cuore, sotto il pettorale ammaccato dell’armatura, e
socchiuse gli occhi, recitando un’antica litania che Elanor non seppe
interpretare. Un cosmo caldo avvolse il corpo di Matthew, cicatrizzandone le
ferite, ripristinando i suoi organi distrutti e lenendo i suoi affanni,
risvegliandolo infine dal delirio cui era precipitato.
“Mio Signore… Thot, state bene? Mi avete donato il
vostro cosmo?!” –Esclamò il ragazzo, toccandosi il corpo, come per verificare
di avere tutte le ossa al posto giusto.
“Tu non hai avuto paura a porti a mia difesa,
giovane Cavaliere, perché dovrei temere io di donare un po’ della mia
eternità?!” –Rispose sibillino il Dio, prima di rimettersi in piedi, sia pur
visibilmente provato. –“Ora andatevene! Tornate a palazzo! Selene sarà
disperata al pensiero di averti perso, Elanor!”
“Non se ne parla!” –Si impuntò lei, e quella volta
anche Matthew le diede ragione.
“Credo che ormai sia tardi per tutto, tranne che per
una cosa! Combattere!” –E uscì da dietro la piramide assieme a Elanor e a Thot,
avanzando a passo deciso verso Alala, che nel frattempo si era rimessa in
piedi, tra insulti e anatemi, avvolta in un’aura di cosmo violaceo.
“Raccomandate l’anima ai vostri Dei! Di Avalon,
d’Egitto o di qualunque altro misero regno! Per noi Makhai sono solo province
di un ben più vasto impero!” –Sibilò, preparandosi all’ultimo assalto.
“I tuoi deliri cosmici devono essere fermati!”
–Sentenziò Matthew, espandendo il suo rinfrescato cosmo. –“Arcobaleno incandescente!!!”
“Croci di
luna!!!” –Gli fece eco Elanor, prima che la voce di Thot li sovrastasse
entrambi, mentre la maestosa sagoma di un uccello sacro a Ra sfrecciava di
fronte a loro. –“Volo dell’Ibis!”
“Grido di
guerra!!!” –Tuonò allora Alala, generando un’onda distruttiva su cui si
schiantò il triplice attacco, frenandolo e disperdendolo, sollevando sabbia e
polvere e scagliando anche parecchi Phonoi e Androctasie indietro, a gambe
all’aria, per quanto Homados stesse ordinando di allontanarsi.
La
potenza della Makhai obbligò i tre combattenti a infondere ogni stilla di energia
a quell’ultimo tentativo di resistenza, consapevoli di non avere un’altra
possibilità. Nessuno di loro l’avrebbe avuta. Ma la vitalità della Regina della
Guerra, il suo furore bellico, erano ben più grandi di quanto avessero potuto
immaginare e presto il suo grido prese il sopravvento, spingendo indietro la
massa di energia, prima lentamente poi in maniera sempre più consistente,
mentre Elanor si accasciava esausta e Matthew e Thot avvampavano nei loro cosmi
allo stremo.
“Mia
è la vittoria!” –Ringhiò Alala trionfante, rinnovando la carica distruttiva,
proprio mentre uno stridio metallico pervase l’aria. Un fischio fastidioso di
cui non seppe individuare la provenienza, finché non vide guizzanti catene
d’avorio scintillare nel cielo lunare, afferrare Thot, Matthew ed Elanor e
portarli fuori dal raggio d’azione del suo assalto. –“Chi ruba le mie prede?”
“Io!”
–Esclamò allora una giovane voce, mentre un’Armatura Divina dai colori rosa e
oro appariva sul campo di battaglia.
“Riconosco
le tue vesti, Cavaliere di Andromeda! Dovrei ucciderti subito per avermi
privato del mio trofeo, ma dato che questo prolisso scontro mi ha riservato
solo delusioni, sono certa che avrai modo di offrirmi qualcosa di meglio!
Qualcosa che gratifichi la nostra presenza qui e ora! Non credi?” –Esclamò
Alala.
“Io
sono qua per difendere questo regno, Regina delle Makhai! Non per ottenere
onore o piacere in guerra!” –Rispose pronto il ragazzo, prendendo posizione di
fronte a Thot, Matthew ed Elanor.
“Sarà
uno scontro interessante, allora! L’urlo di guerra, che infuoca l’animo di
coloro che lottano, e lo spirito di pace che li vorrebbe invece a casa a fare
la guardia alle pecore! Ah ah ah! Interessante davvero!” –Rise Alala, prima di
liberare il suo poderoso assalto. –“Grido
di guerra!!!”
L’onda
di energia sfrecciò verso Andromeda, che sollevò lesto le catene per
rallentarne l’avanzata, riuscendovi solo in parte e venendo comunque
sballottato indietro. Quando poté recuperare posizione eretta si accorse che
Alala non era più di fronte a lui ma che già era sfrecciata avanti, cambiando
completamente strategia. A nulla valsero le grida di Matthew ed Elanor, perché
Andromeda non riuscì neppure a vederlo, quel demone periglioso, balzare su di
lui e afferrargli un braccio, per poi scaraventarlo contro il muro di confine,
a parecchi metri di distanza. Ve lo fece schiantare con una forza tale da far
tremare la colossale struttura, strappando un ghigno soddisfatto alla Regina
delle Makhai, che si voltò verso Homados, berciando loro di tenersi pronti.
“Perché
perdere tempo a zigzagare tra questi cerchi di falliti, quando possiamo aprirci
la via?! Diritti verso il cuore dell’impero!” –Sibilò, radunando le forze e
preparandosi a lanciare il più potente grido di guerra mai risuonato su quel
lontano suolo.
Quasi
avesse capito cosa la Dea aveva in mente, Thot si alzò e fece per correre verso
Andromeda, per metterlo in guardia, ma l’urlo acuto di Alala lo atterrò,
obbligando Matthew ed Elanor a gettarsi a terra, tappandosi le orecchie, non
desiderando altro che sfondarsi i timpani.
“A-la-la!!!” –Vociò la Makhai suprema,
mentre un’onda di pura potenza nasceva dalle sue labbra, rimbombando
sull’intero corpo celeste e scuotendolo in profondità.
Lo
udirono tutti.
Selene
e Avalon, riuniti a palazzo, sotto la pioggia di vetri dell’Occhio andato in
frantumi.
Pegasus
e Atena, intenti a guerreggiare con Ares, e Phoenix, poco distante.
Jonathan
e Reis, che faticavano ad affrontare Proioxis, e tutti i Seleniti ancora in
attesa.
Andromeda
venne investito in pieno, proprio mentre cercava di rialzarsi dall’assalto
precedente, e schiantato di nuovo contro il muro alle sue spalle, ma stavolta
neppure questo bastò a frenare la corsa di quell’onda distruttiva, che scosse
la costruzione così violentemente da farla tremare, erodendo la sabbia lunare,
già provata dalla debolezza del Selenite custode. Pochi attimi dopo, un duplice
schianto e due faglie si aprirono ai lati del Cavaliere, mentre una nuova onda
d’urto scaraventava lo stesso e il pezzo di muro alle sue spalle proprio
all’interno del Quarto Cerchio.
“Incredibile!”
–Mormorò Matthew, di fronte a tale devastante potenza. –“Dobbiamo aiutare
Andromeda! Da solo contro Alala non potrà farcela!”
“Oh,
di lui non mi preoccuperei adesso! Al Cerchio di Marte troverà tutto l’aiuto di
cui potrebbe disporre, aiuto ben più efficace di quello che noi tre potremmo
dargli!”
“Che
vuoi dire, Thot? Prima non vi ho trovato nessuno, solo una miriade di falò
accesi, e ho pensato fosse disabitato! Chi protegge il Quarto Cerchio?”
“Un
uomo di poche parole! Sebbene uomo non sia il termine adatto! Anzi, tra tutti i
Seleniti preposti alla difesa del Reame Splendente, Sin è l’unico che possa
davvero definirsi un Dio! È l’unico a non conoscere pietà!” –Chiarì il Selenite
di Giove, prima di fare cenno a Elanor e Matthew di rialzarsi e aiutarlo a
sistemare una nuova faccenda.
***
Andromeda,
nel frattempo, stava affannando nel rimettersi in piedi, travolto dall’onda
sonica scatenata da Alala, quando si sentì afferrare per le punte dell’elmo e
tirare in piedi, per trovarsi il volto indemoniato della Regina delle Makhai di
fronte a sé, eccitata e desiderosa di uno scontro all’ultimo sangue.
“Sei
folle!” –Gridò il Cavaliere, espandendo il cosmo e liberando una scarica di
energia che scosse l’intero corpo della donna, spingendola indietro con un
gemito improvviso. –“A tal punto giunge la tua disperazione? A nient’altro
aneli se non ad un mondo di guerra?”
“Sì!”
–Rispose laconica Alala, leccandosi le labbra. –“E guerra sarà!”
“Come
desideri!” –Esclamò allora una voce maschile, che non provenne però dalla bocca
di Andromeda.
Sorpresa,
la Makhai si guardò attorno, notando l’accendersi di roghi scarlatti, vivide
fiamme che costellavano l’intero suolo del Quarto Cerchio. Un elemento, il
fuoco, in cui avrebbe dovuto trovarsi a suo agio, avendo trascorso numerose
campagne belliche tra le vampe di Ares. Ma c’era qualcosa, in quei roghi
precisi e controllati, in quei cerchi di fuoco ben delineati, che la
insospettiva, che la faceva addirittura temere. Qualcosa, si stupì anche solo a pensarlo, di sinistro.
“Se
guerra mi porti, guerra avrai! Non sia mai che Sin degli Accadi rifiuti un
combattimento!” –Rincarò la voce, anticipando l’apparizione di un ragazzo dai
capelli blu, rivestito da un’elegante cotta divina, così finemente intarsiata
come ben poche Alala ne aveva ammirate nella sua lunga carriera militare.
Anche
Andromeda lo osservò affascinato, mentre camminava in aria di fianco a lui,
notando nei suoi occhi una luce altera che in pochi guerrieri aveva rimirato. E
quei pochi, come Atlas, Alcor e Radamante, erano stati tutti avversari
terribili.
“Sin
degli Accadi? È questo il nome della mia prossima vittima?” –Rise Alala,
iniziando ad espandere il proprio cosmo.
“A
meno che non si tratti di un caso di omonimia, temo di no!” –Chiosò il Selenite
di Marte, volgendole contro il palmo della mano e scaraventando la Regina delle
Makhai contro i resti del muro franato, travolgendola con una bolla infuocata
che incendiò parte dei suoi capelli. –“Sin non è mai vittima, solo carnefice!”
In
quella, dallo squarcio aperto nella muraglia tra Quarto e Quinto cerchio decine
e decine di Phonoi e Androctasie iniziarono a riversarsi all’interno, le armi
in pugno, i cosmi sfolgoranti energia cosmica. Fin troppo ordinato era stato il
loro avanzare fino a quel momento, adesso necessitavano di sfogarsi, di lasciar
libero sfogo alla loro furia guerriera. E il Selenite di Marte sogghignò, non
aspettando altro.
“Cavaliere
di Andromeda! Penserò io a fronteggiare quest’animalesca marea di anime prave!
Sei in grado di tenere a bada i capricci di quella donna?”
Quale
che fosse la sua opinione, il seguace di Atena non poté esprimerla, obbligato a
liberare di nuovo le sue catene, dopo che Alala aveva fatto esplodere il suo
cosmo, polverizzando i detriti franati su di lei e pronta a dare nuovamente
battaglia. Stretto tra i ruggiti bestiali dei Signori della Guerra da un lato e
la feroce difesa del Selenite del fuoco, ad Andromeda sembrò davvero di
ritrovarsi in un girone infernale.
Capitolo 17 *** Capitolo quindicesimo: Terzo interludio. Mare. ***
CAPITOLO QUINDICESIMO: TERZO INTERLUDIO.
MARE.
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Ventesimo anno prima del secondo
avvento.
Pioveva,
la mattina in cui mio padre morì.
In
realtà, a pensarci bene, non ricordo affatto se piovesse o avesse piovuto la
notte prima. Di sicuro il terreno era ancora bagnato, fango fresco dove le
nostre impronte, e quelle degli animali di cui eravamo a caccia, risaltavano
nitide. È strano, perché tendiamo ad associare la pioggia o la foschia ai
giorni tristi? Sarebbe stato diverso se mio padre fosse morto in un giorno di
sole o in piena estate? Avrei provato qualcosa di diverso? Il dolore sarebbe
stato accettabile o avrebbe smesso di bruciarmi dentro, anche adesso, a
distanza di anni? E di vite.
Non
so rispondermi, non ho mai saputo farlo. Né saprei dire come andò esattamente,
ricordo solo le grida entusiaste di mio padre per aver adocchiato un alce. Lo
sparo. Un secondo sparo. E la corsa
nella boscaglia, capendo che qualcosa era andato storto. Che il cacciatore era
diventato preda.
Il
rito funebre durò molto poco, e anche quel giorno pioveva. Il clima era uno
schifo nel Vermont, non mi sorprende che mia madre lo avesse abbandonato anni
addietro, sebbene ciò avesse implicato dimenticarsi un figlio nell’altra
camera. Per fortuna c’era mia zia, lei mi sorrideva sempre, per quanto avesse
il sorriso più brutto che gli Dei avessero potuto concederle. Povera donna. In
realtà non era neanche mia zia, solo una vecchia compagna del liceo di mio
padre, che spuntava ogni anno per la Festa del Ringraziamento portando
barattoli di confettura che il suo caro amico ammucchiava in dispensa,
dicendomi di non mangiarli mai, neppure se il frigo fosse stato vuoto. Era una
solitaria, la zia Susy, una di quelle donne che quando le guardi, e cerchi di studiarne
il volto poco curato nascosto dietro fondi di bottiglia, capisci perché non
hanno mai avuto un uomo in vita loro. E quando entri in casa, faticando a
trovare la strada per il bagno tra le montagne di libri, scatole di puzzle e
cibi per gatti, capisci che non avrebbero mai saputo dove metterlo, un uomo.
Comunque
la zia Susy mi prese con sé dopo la morte di mio padre. Mi disse di sentirsi
obbligata, per l’enorme affetto che la legava all’amico, e credo che fosse
davvero sincera, una delle poche persone che possono permettersi di esserlo in
questa vita. Mi portò a New York e mi spinse a coltivare i miei sogni, le mie
passioni, quelle che lei non aveva mai avuto forza per affrontare, troppo
debole e impaurita, troppo disposta a nascondersi dietro i suoi libri per
viverla davvero.
“Tuo
padre mi disse che ti piace il baseball! New York è piena di posti dove
allenarsi! Chissà, in futuro potresti avere Yogi Berra
come allenatore!”
E
andò proprio così. La vissi alla grande, la vita nella Grande Mela. Mi allenai,
irrobustii il mio fisico, imparai a lanciare e divenni molto veloce a correre,
dote che avevo sempre coltivato, fin da bambino, quando fuggivo nei boschi
delle Green Mountains per saltare la cena.
Correre… L’ho
sempre fatto, in fondo, passando da un posto all’altro, da un’occupazione
all’altra, da una vita all’altra. Perché?
Cos’è quest’inquietudine che mi impedisce di fermarmi troppo a lungo in un
posto, di mettere radici, e mi spinge invece ad andare avanti? Senza fermarmi
mai.
***
La
partita era stata un successo. Aveva rifilato tre strikeout
in un solo inning alla squadra avversaria, di fronte a una piccola folla in
delirio e agli occhi soddisfatti della zia Susy. Gli faceva piacere che venisse
a vederlo giocare, una delle rare occasioni in cui usciva di casa, anche se Marins iniziò a pensare fosse per scambiare due chiacchiere
con il padre di un suo compagno di squadra. Un trentenne divorziato che
sembrava uscito da uno dei romanzi d’amore che la zia leggeva davanti al
caminetto.
Sorrise,
seduto sugli spalti dello SheaStadium, dopo che
ormai tutti se ne erano andati, asserendo che la zia se lo meritasse quel
momento di felicità.
E
lui? Quando avrebbe iniziato a pensare alla sua? Quando avrebbe iniziato a
godersela davvero? Pesavano ancora sul suo cuore i lutti del Vermont, o c’era
qualcos’altro a ostacolare la sua felicità? Avrebbe avuto tanti motivi per
essere sereno, per sentirsi appagato, in quella nuova vita che aveva iniziato a
New York, circondato da affetti sinceri e con una carriera sportiva alle porte.
Eppure…c’era sempre un eppure.
Non sei contento, Marins?Perché? Si
chiese, per l’ennesima volta.
“Perché
sei vuoto!” –Gli rispose una voce, rubandolo ai propri pensieri.
Il
ragazzo si voltò e incontrò lo sguardo attento di un uomo in piedi sulla
tribuna, a pochi passi da lui. Silenzioso e immobile, lo osservava da qualche
minuto, senza che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto spaventarlo, quella
strana apparizione, eppure la calma distaccata di quell’uomo pareva mitigare il
suo animo inquieto. Indossava una camicia bianca, infilata dentro un paio di
jeans, e aveva il volto in parte oscurato dalla visiera del berretto dei Mets acquistato alle bancarelle durante la partita.
“Vuoto?!”
–Balbettò, mentre l’uomo infine si mosse, camminando calmo lungo i gradini
degli spalti, le mani in tasca, la brezza della sera che gli muoveva i capelli
scuri. Infine si voltò, fissando Marins con occhi
argentei e uno sguardo indagatore, che pareva spaziare su mondi lontani, mondi
che il ragazzo non avrebbe neppure saputo immaginare.
“Proprio
così. Privo di ambizioni, di una bussola che ti indichi la rotta, di uno scopo
che ti tiri giù dal letto la mattina e giustifichi allenamenti e sacrifici. E
non parlo di un obiettivo immediato, facilmente raggiungibile, come la
conquista di una base, o di un bel voto a scuola. Mi riferisco a mete ben più
lontane nel tempo, ragioni esistenziali in grado di saziare i tuoi perché.”
“Non
è un po’ presto per decidere cosa dovrei fare da grande?!” –Ironizzò Marins, strappando una risata all’affascinante sconosciuto.
“Prima
lo ammetti e prima colmerai il vuoto, sentendoti finalmente appagato. Non
vorrai fare la fine di Tantalo?” –Quindi, vedendo che il bambino non conosceva
quel nome, gli raccontò la storia del figlio di Zeus. –“Tantalo fu un ricco re
dell’Asia Minore che aveva avuto la tracotanza di oltraggiare gli Dei, violando
le leggi della xenia, l’ospitalità sacra agli
antichi. Così dopo la morte fu sprofondato in Ade e condannato a una pena
eterna, impossibilitato a bere e a mangiare! Una pena che presto diventò un
supplizio insopportabile, essendo infatti l’uomo immerso in un lago di acque
fresche, che si ritiravano ogni volta in cui immergeva le mani per berle. Al
tempo stesso sopra di lui pendevano rami carichi di frutti splendidi e gustosi,
ma ogni volta in cui allungava le mani per nutrirsi ecco che i rami si
ritiravano, lasciandolo ad afferrare il nulla! Oh, quale ironia, Tantalo aveva
tutto così vicino, un mondo meraviglioso a portata di mano, senza mai poterlo
raggiungere! Una felicità che egli non fu mai in grado di assaporare! Dimmi, Marins, vuoi incontrare anche tu eguale destino?”
Il
bambino non rispose, fissando lo sconosciuto con uno sguardo incuriosito e
mille domande che avrebbe voluto fargli, prima tra tutte chi diavolo fosse e
come facesse a sapere tutte quelle cose su di lui. Ma non trovò di meglio che
rispondergli.
“Ho
bisogno di una corsa!”
“Una
corsa?!” –Rise l’uomo, per poi annuire. –“D’accordo facciamola!” –Gli si
avvicinò, gli mise un braccio dietro la schiena, tenendolo stretto, e poi si
lanciò dall’alto degli spalti, effettuando un’agile capriola a mezz’aria e
atterrando a pieni uniti sul campo da gioco, incurante delle grida di terrore
di Marins.
“What the hell… come cavolo hai
fatto?!”
“Puoi
farlo anche tu, se vuoi!” –Gli sorrise l’uomo, mentre le luci dello stadio si
accendevano e i due unici giocatori entravano in campo. –“Ora mostrami i tuoi
lanci migliori!” –Incalzò, prendendo alcune palle e passandole al ragazzo che,
eccitato da quell’improvvisa sfida notturna, corse a mettersi in gioco. Di
nuovo.
Si
allenarono per un paio d’ore, lanciando e correndo attorno alle basi, ma per
quanto lontano Marins si impegnasse a tirare,
quell’uomo era sempre abbastanza veloce da raggiungere i suoi lanci, e il
ragazzo credesse che non si stesse neppure sforzando.
Alla
fine, stanco per la doppia performance della serata, Marins
si buttò a sedere sulle panchine delle squadre, asciugandosi il volto sudato e
continuando a interrogarsi sul suo ospite misterioso. Per un momento lo invase
la sensazione che si trattasse di un angelo, il suo angelo custode, venuto a
portarlo in paradiso, o forse era suo padre, morto e risorto e adesso tornato
nella sua vita sotto una forma diversa. Quale che fosse la risposta, non
dovette aspettare molto per conoscerla, soltanto allungare il braccio, in
risposta alla mano offertagli dall’uomo, e stringerla nella propria. Vi fu un
lampo di luce e il William SheaStadium
scomparve. I grattacieli divennero alberi di mele dai frutti succosi, New York
un’isola perduta nelle nebbie del tempo e l’Oceano Atlantico un lago di acque
calme che lo separava dal resto del mondo.
“Benvenuto
ad Avalon, l’isola di cui sono signore!” –Gli sorrise l’uomo. –“Qua potrai dare
un senso alla tua vita, finora rimasta incompleta, continuando il viaggio fino
a trovare te stesso, il tuo vero te. Non sarai solo, ci sono due compagni che
domani ti presenterò. Vi troverete bene e sono certo che sarete un’ottima
squadra!”
Marins
non seppe cosa dire, troppo stanco e stordito dalle ultime ore. Seguì Avalon in
un breve giro dell’isola, finché l’uomo non lo accompagnò ad un giaciglio per
riposare. Prima di chiudere gli occhi sorrise, sentendosi per la prima volta
soddisfatto della sua scelta: quel giorno aveva fatto il lancio più lungo della
sua vita. E si augurò di essere in grado di afferrare la palla prima che
finisse fuori campo.
***
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Diciottesimo anno prima del secondo
avvento.
“Il
tuo addestramento è quasi completato, Marins!” –Gli
disse il suo mentore, camminando assieme a lui lungo un sentiero esterno
dell’isola, diretti verso il piccolo molo di legno. –“Hai fatto notevoli
progressi in questi ultimi due anni! Non soltanto da un punto di vista fisico,
per cui la tua preparazione era già eccellente, ma per ciò che riguarda il
controllo del cosmo, giungendo a padroneggiarlo in maniera ottimale. C’è solo
una cosa che ti manca per colmare la distanza tra te e i tuoi compagni, un
piccolo ma indispensabile passo!”
“Lo
so, mio Signore!” –Annuì il ragazzo dagli occhi azzurri, raggiungendo la
banchina assieme ad Avalon. –“Ho provato più volte a evocarlo, eppure…”
“Provare
non esiste, Marins! Sono i vestiti che si provano, i
discorsi degli oratori o gli spettacoli teatrali! Non la vita. Quella, la si
vive!”
Il
giovane fece per rispondere al suo mentore quando si accorse che le nebbie del
lago si erano animate. Sgranando gli occhi per la sorpresa, le vide
avvicinarsi, quasi fossero un’entità vivente, convergere su di lui, circondarlo,
avvolgerlo nelle loro spire, per quanto Marins si
dibattesse e invocasse aiuto. Ma attorno a lui non c’era più nessuno, solo uno
sconfinato silenzio. In quel silenzio Marins cadde,
perdendo i sensi, e poi cadde ancora, sempre di più, incapace di comprendere
cosa stesse accadendo, dove stesse andando, perché quel vento gelido gli
sbattesse in faccia, lui che il freddo l’aveva sempre detestato.
“Brrr!!!” –Bofonchiò, scuotendosi e drizzandosi
all’improvviso, cercando di capire dove si trovasse. Ma c’era poco da capire,
considerando la scarsa luminosità dell’ambiente, che pareva essere un’immensa
caverna dall’alta volta e dal suolo disseminato di rocce coperte di muschio.
Per quanto assurdo fosse, gli sembrò che piovesse, e infatti sul suo volto ruscellavano gocce d’acqua che cadevano dal soffitto. Una
pioggia leggera ma continua, di quelle che da bambino guardava dalla finestra
della casa di famiglia, nel Vermont.
“Sapevi
che tuo padre era un adoratore di riti celtici?” –Lo scosse una voce all’improvviso,
mentre Marins si guardava intorno furtivo, cercando
di vincere l’oscurità con i suoi sensi allenati. –“Aveva anche comprato per pochi dollari una
riproduzione, bruttarella in verità, dell’Asgardsreien,
il celebre dipinto del pittore norvegese Peter NicolaiArbo. Tua madre non la amò mai, intimorita da tutte
quelle figure guerresche a cavallo, e gliela fece appendere in cantina!Ritengo che siano poche le
persone che al giorno d’oggi credono ancora negli antichi riti. Si contano
sulle dita di una mano e sono quasi sempre membri di qualche gruppo classificato
spregiativamente sotto il nome di neopaganesimo.”
“Chi sei?”
“Che domande?! Io sono io! Chi altri dovrei
essere?!” –Rincalzò la voce, prima che un lampo di luce distraesse il ragazzo,
anticipando l’apparizione di un singolare personaggio. Non era molto alto, ma
aveva mossi capelli castani che scivolavano su un fisico ben curato, rivestito
da pelli di animale, forse daino, che Marins non
riuscì a individuare. Sul cranio portava una corona di foglie e in mano
stringeva un bastone nodoso, intagliato da un albero antico.
“Grandioso! Qualche ulteriore indizio?!” –Ironizzò
l’allievo di Avalon.
“Uhm, vediamo…” –L’uomo ci
pensò su, quasi divertito dall’atteggiamento del ragazzo, fino a schioccare le
dita soddisfatto. –“Dal momento che ti trovi nel mondo sotterraneo, io non
posso che esserne il guardiano, non credi?!”
“Mondo sotterraneo… non
sapevo ci fosse un regno al di sotto di Avalon?!”
“Gosh, è un modo di dire
per indicare gli Inferi! Quanto sei razionalista! Sei proprio uno yankee!”
–Sbuffò l’uomo, fingendosi offeso. –“Comunque stavamo parlando di tuo padre,
non di me, sebbene io sia certo più interessante! Eh eheh! Vedi, tu e il tuo defunto genitore, con cui ogni
tanto mi attardo a chiacchierare, abbiamo una passione in comune, a entrambi
piace andare a caccia! Entrambi siamo cultori della caccia selvaggia!”
–Sghignazzò, mentre sul suo volto si allargava un sorriso sospetto, un sorriso
che a Marins parve tinto di crudeltà. –“E sai come si
pratica la Caccia Selvaggia nel Galles? Oh, con i levrieri!”
D’un tratto il ragazzo udì il ringhiare di alcuni
cani, un ringhiare forte e prolungato, quasi fosse un richiamo. Quindi iniziò
uno scalpiccio, sempre più veloce, sempre più pressante, al punto che il suolo
iniziò a muoversi di fronte a quell’improvvisata carica proveniente
dall’oscurità. E più i cani parevano avvicinarsi più il loro ringhio si faceva
meno intenso, per confondere ulteriormente il ragazzo, che voltava lo sguardo
in ogni direzione, temendo di ritrovarseli addosso quanto prima.
“Mio caro, ti presento i miei levrieri, gli spiriti
dell’Annwn! Trattali bene, eh!” –Esclamò l’uomo, mentre quattro cani da caccia
attaccavano Marins da ogni direzione. –“CŵnAnnwn!”
Il ragazzo fu svelto ad evitare il primo assalto,
gettandosi a terra, ma dovette subito rimettersi in piedi per fronteggiare la
nuova carica di quegli animali spettrali, la bava che colava tra i denti chiari
e aguzzi. Erano grossi segugi dal pelo bianco e dagli occhi e dalle orecchie
fulve, simbolo di morte sanguigna, e oltre ad essere veloci e ben addestrati
non smettevano di ululare, quasi volessero far sapere al mondo che lui era la
sua preda.
“Sei mai stato a CadairIdris? È una montagna in Galles, fonte di molte leggende.
Ma è anche un buon terreno di caccia, i miei levrieri spesso si trastullano in
quella zona, e tutti, oh sì proprio tutti gli abitanti, sanno che udire il
latrato dei CŵnAnnwn
è segno inequivocabile di morte! È l’ultimo rintocco dell’orologio della vita
di un uomo! Quanto ancora gireranno le tue lancette, Marins,
dipende solo da te! Eh eheh!”
“Confortante!” –Mormorò il ragazzo, balzando su
alcune rocce attorno ed evitando così di essere azzannato dalle pericolose
dentature dei levrieri.
Grazie alla sua velocità e al fisico curato, il
ragazzo riuscì a non essere raggiunto, ma, ben capendo di non poter correre per
sempre, in quello spazio che ancora non aveva capito quanto ampio fosse e che
pericoli nascondesse, decise di cambiare strategia. Così sfrecciò indietro,
tuffandosi proprio in mezzo ai levrieri e colpendoli uno ad uno, con un secco
taglio di mano sulla nuca. Nessun guaito, nessuno spasimo, i cani selvaggi crollarono
al suolo uno dopo l’altro, con il collo spezzato.
“Molto…bene…” –Ghignò allora
l’uomo, avanzando verso Marins, che si mise subito in
posizione difensiva, temendo che volesse scagliarsi contro di lui, per
vendicare le sue creature. Invece questi si limitò a chinarsi sui levrieri,
carezzare il loro morbido pelo e mormorare alcune parole di commiato, mentre i
loro corpi sfumavano, divenendo spiriti e scomparendo nelle tenebre. –“Ora
saranno liberi di correre per sempre nelle sconfinate praterie dell’Annwn, il regno su cui dimoro, che sia per loro terra di
delizia e di sempiterno cibo!” –Aggiunse, rimettendosi in piedi e fissando Marins negli occhi. –“Io sono Arawn,
Sovrano degli Inferi, e apprezzo il rispetto che hai avuto per i miei cani
selvaggi! Non li hai torturati, non li hai fatti soffrire, uccidendoli con un
sol colpo preciso! Per renderti grazie, ti onorerò del mio massimo attacco,
anch’esso in grado di spegnere le speranze di vittoria di chiunque con un’unica
sola carica! Addio giovane yankee! Presto ritroverai tuo padre! Schiera furiosa!!!” –E nel dir questo, Arawn portò entrambe le braccia avanti, volgendo i palmi
aperti contro Marins, e liberando un fiume di energia
cosmica, le cui onde maestose avevano il volto di rabbiosi cani da caccia.
Il
ragazzo tentò di fuggire, ma venne raggiunto in fretta, potendo soltanto
incrociare le braccia davanti a sé, espandere il cosmo e cercare di contenere
l’impatto con quell’assalto devastante. La carica furiosa lo travolse,
strappando le sue vesti, lacerando le giovani carni e schiantandolo al suolo
molti metri addietro.
“I
testimoni della Caccia Selvaggia non possono sopravvivere, sono condannati a
sciagure e sofferenze, e a una repentina morte! Sentiti fiero di essere caduto
per mia mano!” –Concluse Arawn, senza alcun sorriso
sul volto, prima di dare le spalle al giovane e allontanarsi.
Marins
rimase a terra per un tempo indefinito, cercando di radunare le forze.
L’assalto nemico lo aveva travolto in pieno, così velocemente da non averlo
neppure visto. Era possibile? Che vi fossero esseri in grado di correre più
veloce di lui? Aveva sempre creduto di essere unico, nel suo genere, ed infatti
era persino più svelto di Reis e Jonathan. Eppure,
quei levrieri di puro cosmo non gli avevano lasciato spazio di manovra. No, non
poteva farsi battere così. In fondo, aveva solo subito uno strike, e ce ne
volevano ben tre per mandarlo fuori gioco, si disse, risollevandosi e bruciando
il proprio cosmo.
Un’armatura
dorata e azzurra apparve sopra di lui, scomponendosi in tanti pezzi e aderendo
perfettamente al suo corpo, attirando l’attenzione di Arawn,
che si voltò incuriosito, e anche eccitato all’idea di divertirsi ancora.
“Pare
che questa caccia si stia rivelando ben più fruttuosa di quanto avessi
creduto!” –Commentò, mentre Marins, avvolto in un
turbinante cosmo di colore azzurro mare radunava le energie tra le braccia
sollevate sopra la testa.
“Maremoto dei mari azzurri!!!” –Gridò,
liberando un poderoso gorgo di energia acquatica, che sfrecciò verso Arawn, trapassandolo e schiantandosi contro il muro alle
sue spalle, inondando poi la caverna. –“Che cosa?! Dov’è andato?!” –Si agitò
subito Marins, guardandosi attorno. Se la vista non
lo ingannava, il suo nemico si era teletrasportato altrove.
Si
girò di scatto, pugni tesi, convinto che volesse prenderlo di sorpresa, ma Arawn non era neppure dietro di lui. Eppure lo sentiva, sì,
lo percepiva nell’aria di quella caverna, carica dei lamenti delle prede dei
levrieri, satura dell’odore del pelo spettrale di quelle creature mai stanche.
“Dove
sei, Arawn?! Dove ti nascondi? Cacciatore pauroso
sei, ordunque!”
“Tuttut! Non pauroso, ma
attento!” –Rispose il Dio, esplodendo in un’acuta risata che risuonò per
l’intero antro, disorientando Marins, che ancora non
aveva individuato l’avversario.
Fu
solo quando sentì il suolo muoversi, il manto muschioso
di rocce e terra sollevarsi e avvoltolarsi attorno ai suoi arti inferiori che
capì. Arawn era Annwn, e
poteva formarlo a suo piacimento. Enormi levrieri di puro cosmo sorsero dal
terreno, avventandosi su Marins da ogni direzione,
limitandone gli spostamenti, spezzando la magia che le sue gambe compivano
correndo.
“Sei
un disonesto!” –Lo aggredì il ragazzo, espandendo il cosmo e cercando di tenere
lontane quelle creature affamate. Ricordò gli insegnamenti di Avalon e lasciò
che le forze radunate scorressero in lui, traboccando come un fiume in piena.
Il maroso di energia acquatica esplose repentino, fluendo a guisa di vortice
attorno a sé e spazzando via i levrieri di cosmo, inglobandoli e annientandoli
in poderosi schizzi d’acqua.
Quando
il ragazzo fu finalmente libero, crollò sulle ginocchia ansimando, stanco per
aver consumato molte energie. Per quanto lo scontro non fosse in corso da molto
tempo, sembrava che in quella caverna le forze lo abbandonassero più in fretta.
O forse è quel che si prova durante il
primo vero scontro? Si disse, chiedendosi se anche per i suoi compagni era
stato così. Reis aveva risvegliato il cosmo quando
era ancora un’infante, sottoposta a una pressante violenza che aveva scatenato
in lei la forza dell’istinto di sopravvivenza. Jonathan aveva dovuto aspettare
i dieci anni e assistere al massacro del Tempio di Inti
e alla morte di sua madre per liberare l’arcano potere celato dentro sé. E lui?
Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?
Suo
padre era morto da un paio d’anni, sua madre un ricordo sbiadito nelle angustie
del tempo. Yogi Berra e i suoi trascorsi nel baseball
erano reminescenze di una vita lontana. Che cosa gli restava adesso? Cosa
voleva essere, in fondo?
Concedendosi
un sorriso, gli vennero in mente le parole che Avalon gli aveva rivolto la
prima sera in cui si erano incontrati, la storia che gli aveva narrato riguardo
a Tantalo. Solo allora la capì.
Tantalo sono io. Affermò, rimettendosi in piedi, avvolto nel suo cosmo
azzurrino. C’è tutto un mondo là fuori,
un mondo di felicità, che non sono mai stato in grado di vedere, tutto preso
dal dover sempre correre altrove. Per mio padre, per mia zia, per Avalon. Oggi
corro per me!
Un
calcio in faccia lo spinse indietro, scaraventandolo a terra a pochi metri di
distanza, rubandolo ai suoi pensieri e ricordandogli che avrebbe ancora dovuto
superare l’ultimo ostacolo, che infine si era palesato. Arawn,
il Signore degli Inferi, sorrideva divertito, sormontato da un’aura violacea
che presto assunse le forme di una battuta di caccia.
“L’ultimo
atto, Cavaliere dei Mari! Sarai degno o meno dell’armatura che indossi?
Cacciare o essere cacciati, questo è il segreto della sopravvivenza!” –Parlò il
Dio, prima di portare le braccia avanti e liberare il colpo segreto. –“Schiera furiosa!”
“Maremoto dei mari azzurri!!!” –Gridò Marins di rimando, lasciando che i due attacchi si
scontrassero, generando un’enorme bolla di energia, al cui contatto i levrieri ringhianti
e le limpide acque venivano disintegrati. E più forza entrambi profondevano al
loro assalto, più lo stesso veniva distrutto, smembrato da forza eguale ma
contraria, arrivando ad una sensazione di stallo. Che solo uno dei due avrebbe
potuto alterare.
L’uomo
o il Dio.
“Non… ci sto… a morire da solo in
questo lugubre inferno… Ho ancora tante mete da
raggiungere! Tante palle da lanciare nello stadio della vita!!!” –Avvampò Marins, bruciando il cosmo come mai fatto prima, sorretto
da una determinazione guerriera che non poteva essere altro che fame di futuro.
Fu
allora che lo sentì, quel formicolio improvviso che gli diede calore e aumentò
le sue forze, mentre una lunga asta dorata, con tre punte sulla cima, apparve
di fronte a sé, entrando subito in contatto con la sua impronta cosmica, quasi
fosse la stessa.
“Eccolo…” –Mormorò, con sguardo trasognato. –“Il
Talismano!!!” –E lo afferrò, liberandone tutto il suo potere. –“Tridente dei Mari Azzurri!!!” –Tuonò,
mentre folgori celesti crepitavano ovunque attorno a sé, distruggendo la bolla
di energia e tutti i levrieri furiosi di Arawn.
Persino
il Signore di Annwn impallidì di fronte a quell’arma
di cui aveva sentito parlare nelle antiche leggende del popolo celtico. L’arma
che il Dio Nettuno aveva preso a modello come simbolo. Il tridente in grado di
separare gli oceani.
Una
scarica di energia lo raggiunse ad una coscia, spingendolo indietro e
bruciandogli la pelle. Una seconda esplose tra i suoi piedi, scaraventandolo
contro il muro retrostante, che subito venne bombardato da una raffica di
folgori azzurre.
“Ok,
ok, hai vinto!” –Si affrettò a chiarire l’uomo spaventato, invocando
l’intervento del Signore dell’Isola Sacra. –“E non chiedermi mai più un
favore!” –Bofonchiò. –“Sono stufo di tutti questi ragazzini complessati!”
Non
ottenne risposta, anche se credette di aver udito una
leggera risata, per quanto sapesse che Avalon non era solito perdersi in
frivolezze. Un attimo dopo Marins scomparve, l’intero
Annwn scomparve, portando il ragazzo a chiedersi se
fosse stata un’illusione o se qualcosa di reale ci fosse stato davvero. Scosse
la testa, non avendo in fondo importanza. Quel che contava era aver imboccato
il bivio giusto, ed era certo che persino il suo allenatore sarebbe stato concorde.
Il
paesaggio mutò di nuovo e Marins riconobbe la tozza
sagoma del campanile sul Tor proiettare la propria
ombra su di lui, in quella pallida mattina di giugno. Avalon lo stava
aspettando, silenzioso e con lo sguardo attento, come era sua abitudine.
“Stanco
di correre?” –Gli disse, strappando un sorriso al ragazzo.
“Affatto.”
“Era
quello che volevo sentirti dire.” –Commentò Avalon soddisfatto, prima di
mettere una mano sulla spalla del Cavaliere dei Mari Azzurri e discendere il Tor, diretti verso casa.
Capitolo 18 *** Capitolo sedicesimo: Il falco all'attacco ***
CAPITOLO SEDICESIMO: IL FALCO ALL’ATTACCO.
“Posso
portarvi altro, Cavaliere di Virgo?” –Domandò
l’archivista, dopo aver depositato alcuni tomi su un tavolo della Biblioteca del
Santuario.
“Va
bene così, Nicole! Se mi servirà aiuto, ti chiamerò!” –Si limitò a rispondere
il Custode della Sesta Casa, ringraziandolo per avergli mostrato i libri che
stava cercando. Quindi, vedendo che l’uomo non accennava ad allontanarsi,
sollevò la testa e gli chiese se ci fossero problemi.
“Mi
chiedevo soltanto a cosa fosse dovuto il vostro interesse per quel periodo
storico. Gli Anni Bui non sono molto ricercati dagli studiosi, che preferiscono
concentrarsi su periodi di maggior gloria di Atene, come gli anni
dell’edificazione del Grande Tempio e delle Dodici Case!”
“Ritengo
che la storia offra sempre qualcosa da insegnare, qualcosa di utile a coloro
che dopo di noi verranno, anche nei momenti in cui l’umanità e gli Dei hanno
rivelato i loro lati peggiori. Come potremmo in fondo apprezzare la luce, se
non conoscessimo gli orrori dell’ombra?” –Rispose pacato il Cavaliere di Virgo, mentre l’archivista annuiva soddisfatto,
inchinandosi e tornando poi al suo lavoro di catalogazione.
Impiccione! Sibilò, dopo che si fu allontanato, iniziando a
sfogliare gli antichi volumi. L’idea gli era venuta per caso, dopo aver
appurato che tra le memorie del Primo Saggio non vi fosse niente di valido, al
riguardo. Del resto non avrebbe avuto motivo di approfondire, non essendo stata
una battaglia che vide il coinvolgimento di Avalon o di altri regni divini ad
eccezione di quelli greci. Ma di certo
negli Annali del Santuario il luogo della sua caduta deve essere certamente
indicato!
Il
volto del Cavaliere d’Oro si torse in un perfido sorriso al pensiero di quel
che avrebbe potuto ottenere, se fosse riuscito a risvegliarlo, o quanto meno a
individuarlo. Un braccio armato contro
Atene!In fondo, non solamente Tifone
e i Giganti hanno marciato contro il Grande Tempio, anche altre colossali
creature hanno ben ragione di essere in collera con gli Olimpi per le condanne
che loro inflissero. E poiché non hanno preso parte alla recente Titanomachia,
debbo arguire che ancora riposino nel limbo, attendendo la chiamata di un sogno
di conquista. Io darò loro quel sogno, rendendolo afferrabile come le redini di
una giumenta. E loro lo cavalcheranno, aprendo la strada alla distruzione dei
regni di Grecia! Doveva soltanto trovare il luogo in cui furono sconfitti,
il luogo in cui Zeus spalancò l’abisso di Tartaro, confinandoceli uno ad uno.
La
risposta gliela mostrò l’ultimo tomo, sulla cui costola esterna una sbiadita
scritta in caratteri greci indicava l’argomento di narrazione.
Ατλας
Scritta
dall’unico Cavaliere d’Oro sopravvissuto al cruento conflitto, la cronaca era
corredata da una cartina illustrante il tentativo di fuga dell’ultimo dei
quattro fratelli. Anche se disegnata a mano, con qualche imprecisione frutto
del periodo storico in cui fu redatta, Virgo
riconobbe distintamente i confini settentrionali del continente africano, le
propaggini dell’arcobaleno ove era celata la sua pentola d’oro.
***
La
Erinni attaccò subito, mulinando una frusta fiammeggiante.
D’istinto,
Horus si portò di fronte a Naveed, per proteggere il
suo sottoposto e i Cavalieri delle Stelle, che ancora giacevano incoscienti sul
pavimento del sotterraneo. Sollevò il braccio destro e lasciò che la verga vi
si annodasse, ustionando la corazza ma non raggiungendo la pelle al di sotto. Prima
che il Dio potesse liberarsene, la creatura gli scagliò contro la torcia che
reggeva in mano, obbligandolo a balzare in alto e a spalancare le ali,
librandosi a mezz’aria, mentre l’asta si conficcava per terra.
Deciso
a passare al contrattacco, Horus continuò a volare, trascinando la Erinni con
sé, in modo da obbligarla a lasciare la presa della frusta. Lo spazio angusto
limitava i loro movimenti e il calore che le fiamme della creatura stavano
generando lo rendevano posto quanto mai inadatto per un lungo scontro, per cui
il Dio tentò di chiuderlo in fretta. Senza però riuscirvi.
Restò
sorpreso quando vide che anche la Erinni poteva volare, grazie a tenebrose ali
d’uccello, o di qualche demoniaca creatura che non conosceva, che spuntavano
dalla sua schiena, e presto se la ritrovò addosso, con tutte le serpi, l’alito
fetido e la brama di sangue.
“Artigli del falco!!!” –Gridò il figlio
di Osiride, liberando fendenti di energia con cui mozzò le vipere che si
protendevano verso di lui, trinciando anche la frusta e permettendosi maggiore
libertà d’azione. Ma la donna mostruosa non ne fu affatto turbata, limitandosi
a ricrearla e a lanciarla verso di lui, una serpentiforme vampa di fuoco che
pareva inseguire Horus ad ogni movimento.
“Attento,
mio Signore!” –Lo avvertì Naveed, rimasto indietro,
in piedi di fronte a Febo e Marins,
con la spada impugnata a due mani, terrorizzato da quell’arpia. Se ne avesse
avuto l’occasione, sarebbe fuggito al piano di sopra, portando almeno uno dei
feriti con sé, ma la scalinata era proprio alle spalle della Erinni che, sia Naveed che Horus l’avevano notato, cercava sempre di non
allontanarsene troppo.
Un
guizzante colpo di frusta afferrò il Dio per un calcagno, dando alla bestia la
possibilità di sbatterlo a terra, fargli perdere l’elmo della corazza e poi
piombare su di lui.
“Stammi
lontana!” –Avvampò Horus, volgendole contro il palmo della mano, da cui lampi
di energia saettarono, aprendosi a ventaglio di fronte a sé e tenendo indietro
le serpi infuocate. Pur tuttavia, per quanto fosse finora riuscito a non farsi
mordere o ferire, il Dio percepì il peso di quello scontro, quanto in fretta le
sue energie stessero scemando, risucchiate, quasi prosciugate dall’aria fetida
di quel santuario. Persino volare l’aveva stancato e presto non avrebbe più
potuto permetterselo. Strinse i denti, abbandonandosi a un paio di improperi,
cercando un modo per salvare Febo.
Febo… Mormorò
infine, capendo che causa e risultato di quella missione potevano combaciare. E
sfrecciò verso di lui, subito seguito dalla Erinni, le cui serpi si snodarono
bramose nella sua direzione.
“Naveed! Colpiscila!!! Ora!!!” –Gridò Horus, mentre il
soldato puntava la Spada del Sole liberando un raggio di energia ardente che
annientò una vipera, obbligando l’animalesca donna a frenare la sua avanzata.
“Anche
io posso farti male, eh?” –Commentò il guerriero, con una punta d’orgoglio per
la buona mira avuta. E rinnovò l’assalto, liberando nuovi fasci di energia,
forzando così la Erinni sulla difensiva.
“Bravo
Naveed, tienila impegnata! Dammi…
un minuto!” –Esclamò Horus, chino adesso su Febo. Gli
sollevò la testa, schiaffeggiandolo un paio di volte nel tentativo di
svegliarlo, quindi afferrò il tiet, stringendolo tra
le mani e concentrando il cosmo, per attivarlo. –“Iside, madre mia, l’amuleto
di cui mi faceste dono, affinché mi donasse protezione e luce, in questo mondo
come nel prossimo, possa essere per Febo un faro
nell’oscurità, un’ancora di salvezza prima che l’oscurità della morte lo
possieda! Vi supplico, aiutatelo, sciogliete il nodo della vita e permettetegli
di tornare a camminare!”
“Mio
Signoooreee!!!” –Urlò allora Naveed,
interrompendo la meditazione del Dio, che si voltò di scatto, vedendo la verga
fiammeggiante strappar via la spada dalle mani dell’uomo e gettarla nelle
tenebre del sotterraneo, prima di tornare indietro e puntare alla sua testa.
“A
terra!!!” –Horus gettò a terra il soldato, balzando su di lui, proprio mentre
la frusta passava mulinando nell’aria sopra di loro, quindi lo spinse via,
rinnovandogli l’invito a portar fuori i due Cavalieri delle Stelle non appena
ne avesse avuto l’occasione. –“Io ti darò quella possibilità! Dovessi morire
nel farlo, ma te la darò! Febo, fratello mio,
torneremo a Karnak!”
***
Non
solamente Iside udì l’invocazione di Horus. Anche suo padre, all’esterno del
santuario, macchiato di sangue e budella, ne percepì la passione, la
sensibilità, l’accorato sfogo, e decise di fare il possibile per non vanificare
i suoi sforzi.
“Flagello di Amenti!!!”
–Tuonò, aprendo un nuovo squarcio dimensionale dentro il quale risucchiò una
ventina di Empuse, incurante dei loro lamenti
disperati, poca cosa in fondo rispetto a tutto il dolore che avevano provocato.
Ma
poca cosa fu anche l’effetto di quel colpo, la cui minore intensità fu percepita
dalle divoratrici rimaste, che videro con estremo piacere il Dio barcollare
stanco, fino a doversi appoggiare al bastone per non cadere a terra. Osiride
digrignò i denti con rabbia, pur di non doverlo ammettere, ma quel continuo guerreggiare
lo stava prosciugando di ogni energia. Facendosi forza, si risollevò, proprio
mentre una carica di vacche furiose sopraggiungeva a gran velocità, i corni
lucenti rivolti verso il suo cuore.
“Correte
ad abbracciare la morte?!” –Esclamò il nume, puntando lo scettro dorato avanti
a sé che irradiò migliaia di fasci di energia, falciando quella ferina
cavalcata.
Non
s’avvide però Osiride di una ristretta mandria di Empuse
che aggirò il grosso delle vacche, portandosi lesta alle sue spalle. Lo
travolsero in una decina, fiatando fiamme di cosmo dalle fauci, e sbattendolo a
terra, facendogli perdere la presa sul bastone d’oro e ustionando l’elegante
Veste Divina con il loro alito incendiario. Un’ultima violenta esplosione
cosmica permise al Signore di Amenti di liberarsi anche
di quella carica, privandosi però della quasi totalità della sua forza.
Respirando
a fatica, il volto pallido e scavato dalla stanchezza, Osiride si appoggiò su
un ginocchio per tirarsi su, e proprio in quel momento le lunghe corna oscure
di un paio di Empuse lo trafissero alle cosce,
strappandogli un grido di dolore.
“Cibooo!!!” –Ghignò una vacca, già pregustando il delizioso
manicaretto che un corpo di stirpe divina rappresentava per il suo vorace
palato.
“Ci… cibo?!” –Mormorò il Dio, stordito e sopraffatto da
mille pensieri. –“Non ho permesso ad Apep di nutrirsi
del mio corpo, dovrei permetterlo a voi, immonde sanguisughe?!” –Avvampò,
bruciando quel che rimaneva del suo cosmo.
Con
rabbia, si strappò il flagello e il pastorale incrociati sul pettorale,
piantando poi il doppio scettro nelle fauci aperte dell’Empusa,
dilaniandola dall’interno. Quindi, usandolo come un coltello, le squarciò la
gola, staccandole la testa. Ebbro di sangue e furia, sradicò il cranio della
vacca sgozzata, strappando via il corno dalla sua gamba ferita, e lo mulinò,
piantandolo nel tozzo corpo della seconda bestia, affondando le aguzze corna in
profondità, scannandole le budella. Estrasse poi il corno dalla seconda gamba e
lo sollevò in aria, in gesto di trionfo, gridando a squarciagola.
“Chi
altro vuole sfidare Osiride? Chi ancora vuole sfidare la morte?”
Nessuno
rispose, perché non vi era più nessuno in vita per parlare.
I
soldati che lo avevano accompagnato erano tutti morti e i loro cadaveri
marcivano tra le vacche trucidate, decorando col rosso del sangue e con l’oro e
il verde delle loro vesti la brulla spianata di terra di fronte al santuario
oscuro. Prima ancora del ritorno dei suoi occupanti, il tempio aveva già
ospitato un rito di sacrificio in loro onore.
“Non
siete caduti invano!” –Vociò Osiride, spaziando con lo sguardo tra i corpi dei
caduti. –“Il vostro coraggio sarà ricordato, la vostra condotta di vita eletta
a modello esemplare e i vostri nomi saranno enumerati nel Libro dei Morti,
sotto la voce audacia! Testimonianza di rettitudine sarete per coloro che
verranno!”
Fu
allora che, tra i cadaveri squartati delle Empuse,
notò delle fiammelle accendersi, guizzare in aria e rivolgergli velenose fauci
affamate. Un’apertura alare anticipò il sollevarsi dell’animalesco corpo della
terza Erinni, quella a cui il Dio aveva mozzato il braccio e che adesso
impugnava una frusta fiammeggiante, pretendendo vendetta.
“E
sia allora! Che questa sia davvero per me la terra del non ritorno!” –Esclamò
Osiride, impugnando lo scettro regale, mentre la creatura, dall’alto, piombava
su di lui, incurante degli strali energetici che il Dio gli stava dirigendo
contro.
La
Erinni lo schiacciò al suolo, lasciando che le serpi infuocate gli bloccassero
braccia e gambe, stritolandole e incendiandole con vampe infernali,
insinuandosi tra le crepe dell’armatura e affondando i velenosi denti nelle
carni, per nutrirsi del divino sangue d’Egitto. Agonizzando, Osiride riuscì a
sollevare il bastone, torcendolo di fronte a sé per tenere a bada il volto
orribile della rivale, quel nido di serpi che non poté non ricordargli Seth, e
l’inganno di cui era rimasto vittima millenni addietro.
Quale
ironia, ripensare a quel tempo, quando aveva creduto a suo fratello,
l’ingannatore, lasciandosi rinchiudere in quella bara e affogare. Una bara! Una sepoltura che adesso, in
così lontana terra straniera, non avrebbe avuto. Sbuffò, o forse sentì il fiato
venefico della Erinni sul collo, il sibilare di centinaia di vipere di fuoco
assetate come non mai.
Pensare
a Seth però gli fece venire in mente anche qualcos’altro. Non solo il
tradimento del fratello, il dolore e la morte. Ma anche l’impegno che coloro
che lo amavano profusero nella sua ricerca. Iside, che lo riportò in vita e che
poi cercò i pezzi del suo corpo, e Horus, che quando fu grande abbastanza non
esitò ad affrontarlo in battaglia, in quel durissimo scontro di cosmi in cui
perse un occhio. E lo fecero per lui. Per
amor mio!
“Horus!”
–Mormorò Osiride, infiammando al ricordo del sacrificio del figlio. –“Rinunciò
a un occhio pur di tenere alto il mio nome! Che padre sarei, che Dio sarei, se
non fossi pronto a fare altrettanto?!” –Ruggì, bruciando tutto il proprio
cosmo, tutta la sua lunga vita e incenerendo le serpi avvinghiate al suo corpo.
–“Vuoi i miei occhi, lurida bestia? Orbene te li darò!” –E si portò una mano al
volto, strappandosi un bulbo oculare, mentre con l’altra mano afferrava la
Erinni per il collo, incurante delle vampe di calore che trasudavano dal suo
corpo. Le spalancò la bocca a forza, ficcandole in gola l’occhio, per poi
ritirare la mano e osservarla gustare smaniosa la sua preda.
Ma
pochi attimi dopo la donna cacciò un grido terribile, in preda a convulsioni violente,
sentendo un fuoco immenso dilaniarla dall’interno. Tentò di volar via, ma
Osiride la afferrò per le ali, sbattendola a terra, il cosmo ormai acceso alla
massima intensità.
“Non
avere fretta! Il castigo divino oggi ha raggiunto tutti noi!” –Le disse, prima
di lasciarsi esplodere.
***
“Febooo!!!”
Il
grido lancinante di Horus raggiunse un qualche angolo della sua mente turbata,
venendo captato dai ricettori del suo subconscio. Il battito del suo cuore
aumentò leggermente, pur rimanendo molto debole, al di sotto della soglia
necessaria alla sopravvivenza. Eppure Febo era vivo,
doveva esserci ancora qualcosa di sé, qualcosa rimasto puro e immacolato
dall’abominio cui assieme a Marins era stato fatto
oggetto.
Guaì,
così piano che neppure lui stesso avrebbe potuto udirsi, al solo ricordare le
torture subite, il dolore che Algea aveva inflitto loro.
Non solo fisicamente, bensì interiormente. La Dea delle Sofferenze aveva
prosciugato il loro cosmo, risucchiando la linfa vitale che del cosmo era ricettacolo
primario. E con esso se ne erano andati i ricordi, i momenti belli, gli
affetti, le carezze degli amici e le vittorie sofferte contro i nemici. Una
parte di sé era fluita via, distillata e svenduta come vino a un suk.
E
cosa gli era rimasto adesso? La forza?
Ben poca se non riusciva neppure a piegare le dita. L’esperienza? Misera, avendo affrontato un numero esiguo di
avversari, per quanto neppure riuscisse a ricordarli. La volontà?Umpf, era la prima cosa che Algea aveva sottratto loro, asservendoli all’oscuro volere
di quel tempio.
Il tempio… Mormorò, strizzando le palpebre, mentre fitte di
dolore gli pervadevano il corpo, ferendolo come lame di pugnale. Solo pensarlo,
solo immaginarlo era fonte di sofferenza. E quello che era accaduto là dentro, ciò
che avevano trovato, si era rivelato peggio di quel che Avalon avrebbe potuto
illustrare loro. Là dentro, ove avevano combattuto fino allo stremo, prima di
essere divorati dall’ombra, dimorava il male allo stato più puro. Un essere
senza corpo, un manto di puro cosmo contro cui nessun’arma avrebbe potuto avere
effetto.
Una omega immensa.
“Aaahhh!!!” –Se avesse avuto la voce, avrebbe urlato. Se
avesse avuto la vista, avrebbe pianto. Se avesse posseduto il tatto, avrebbe
allungato le mani per riuscire anche solo a toccarlo. L’infinita vanità del
tutto.
Così
era caduto, e Marins era crollato al suo fianco.
Persi
i Talismani, distrutte le armature, privati persino della coscienza, cosa
restava loro? Soltanto languire in un nulla senza fine, aspettando l’avvento
del re dal tremendo potere.
“Il
re…” –Ansimò Febo,
febbricitante, il volto madido di sudore. Chi era il re? C’era stato un re
nella sua vita, una figura così importante, così maestosa, da servire e
onorare, da venerare con rispetto, nutrendosi dei suoi principi, della sua
grazia, della sua luce?
“Luce…” –Mormorò, prima di perdere di nuovo i sensi.
“Febo!!!” –Lo chiamò allora una voce di donna. Una voce che
non aveva mai udito in vita sua. Ma che poteva appartenere soltanto a lei.
“Ma… madre?!”
“Febo, svegliati!” –Ripeté la donna, parlando con voce
vellutata, soffice come un abbraccio. Come l’abbraccio che non aveva mai potuto
dare al figlio.
“Madre,
dove sei?!” –Balbettò Febo, agitandosi nell’oscurità.
“Sono
qui! Segui la mia luce! Segui la luce del sole, fonte di vita!”
Il
ragazzo chiuse gli occhi, osservando un riverbero di speranza baluginare
lontano. Vi si diresse, nudo e scalzo, mentre il ciuffo di luce aumentava di
intensità, fino a entrarvi dentro e a passarvi attraverso. Si ritrovò così a
Delfi, la splendida e operosa città del Parnaso ove Apollo aveva fatto
innalzare il suo santuario e ove l’oracolo parlava in suo nome.
Era
una calda giornata primaverile e il sole faceva risplendere le colonne di marmo
del tempio del Nume, fuori dal quale una gran folla era riunita per rendergli
omaggio e invocare la sua benevolenza. Febo passeggiò
nel pronao, senza che nessuno gli rivolgesse parola, senza che nessuno lo
vedesse, entrando infine nella cella principale del santuario, dove sua madre
lo aspettava.
“Sei
bellissimo!” –Gli andò incontro la donna, sollevando le lunghe vesti di seta.
“Mi… sei mancata!” –Trovò la forza per dirle Febo, mentre la madre lo abbracciava, carezzandogli i
capelli biondi. –“Iside mi ha cresciuto, non mi ha fatto mancare niente,
neppure l’amore. Eppure… il tuo ricordo non mi ha mai
lasciato. A volte mi sento in colpa per la tua sorte, Apollo non ti avrebbe
punito se io non fossi nato.”
“Non
pensarlo mai! La mia sorte io sola l’ho scelta, concedendomi al Dio che mi
aveva abbagliato! E mai, neppure per un momento, ho rimpianto quel giorno,
perché da quell’unione sei nato tu, figlio del Sole! Un ponte tra culture
diverse, simbolo di un’alleanza che mai come in questo momento è necessaria!
Ora va’, figlio mio, combatti la tua guerra, io veglierò su di te! Ben poco
posso fare! Solo donarti una stilla di vita, che possa essere per te
sufficiente per ricordare chi sei e quanto vali davvero!” –E lo baciò in
fronte, trasferendogli ogni goccia della sua energia.
“Madre?!”
–Esclamò Febo, mentre l’immagine iniziava a tremolare
e la donna pareva scomparire, inghiottita dal tempio, da Delfi, dalla Terra
tutta. –“Madre?!” –Ripeté, tirandosi su di scatto, in un lago di sudore, e
accorgendosi di essere in una cella oscura, disteso su un gelido pavimento.
Accanto a lui, nudo e pallido, Marins giaceva inerte,
mentre poco lontano, sull’altro lato di quello stanzone, due figure
combattevano una danza animalesca. Febo ne percepì il
cosmo e riconobbe in Horus il guerriero dall’armatura danneggiata che quelle
infami serpi di fuoco stavano stritolando. Si portò le mani al collo, sfiorando
il tiet e capì che molti amici avevano contribuito a
farlo tornare. Sorrise, piangendo al tempo stesso, prima di sfilarsi l’amuleto
e metterlo al collo di Marins, schiaffeggiando
l’amico per aiutarlo a riprendere i sensi. Quindi, vedendo che il compagno non
reagiva, gli mise le mani sul petto, iniziando a bruciare il proprio cosmo.
Dapprima
fu una fiammella di luce, così fatua che neppure Horus e la Erinni se ne
accorsero, poi crebbe di intensità, alimentata dall’amore di coloro che
credevano in lui. Hannah, sua madre, che lo aveva
dato alla luce. Amon Ra, suo padre, che lo aveva
accolto nella sua dimora pur tra mille pregiudizi. Iside e Osiride, per cui era
sempre stato un figlio, un membro della famiglia reale. Horus, che aveva
rischiato la vita per liberarlo da quella prigionia di tenebra. E Marins, il suo migliore amico, al cui fianco altre
battaglie avrebbe combattuto.
“Risvegliati,
Cavaliere dei Mari! Un’ultima guerra ci attende!” –Mormorò, mentre il suo cosmo
cresceva e diventava un sole infuocato che rischiarò l’intero sotterraneo,
insinuandosi tra le pietre della struttura e infiammandola in profondità.
“Fe…Febo!!!” –Rantolò Horus,
spossato da quel logorante scontro.
“Sono
qui!!!” –Rispose fiero il Cavaliere delle Stelle, mentre la sua armatura
appariva di fronte a sé, rivestendolo dopo pochi istanti. In quella anche Marins riaprì gli occhi, mentre il cosmo dell’amico lo
aiutava a recuperare i ricordi perduti e le forze. –“Dammi un minuto!” –Gli
disse, alzandosi in piedi e muovendo un passo avanti, gettando la sua sfida
alla Erinni, che subito la colse, scaraventando il corpo stanco di Horus a
terra e schizzando verso di lui, ad ali spiegate. –“In questa terra di luce non
c’è posto per creature oscure come te! La monderò, con la mia Bomba del Sole!!!” –Gridò, liberando
una sfera di energia ardente, simile ad un piccolo astro, che sfrecciò verso la
Erinni, investendola in pieno ed esplodendo in un tripudio di fiamme dorate.
Le
serpi, la frusta, le ali della bestia infame vennero incenerite, tra gli
spasimi atroci dell’ultima castigatrice. Spasimi che presto cessarono, quando
una lama infuocata le mozzò la testa, facendola rotolare al suolo prima di
disgregarsi in putrida cenere.
“Naveed!!!” –Esclamò Horus, riconoscendo il soldato che, pur
pesto e logoro, era ancora vivo.
“Horus,
fratello mio!” –Corse allora Febo ad aiutarlo,
sollevandolo e ringraziandolo per aver così tanto rischiato in nome suo.
Il
Dio Falco lo abbracciò, felice di vederlo sveglio e vivo, mentre anche Marins si rimetteva in piedi, rivestito dalla sua armatura
dei Mari Azzurri. I quattro compagni sfrecciarono allora al piano di sopra,
passando di nuovo dalla stanza dove Horus aveva conversato con Moros, poche ore prima, e trovandolo ancora lì, sospeso in
aria a meditare, completamente disinteressato alla loro presenza.
Che
agissero, che corressero, che si agitassero oltre ogni dire, al Dio del Destino
tutto ciò non interessava, perché l’ora ultima di tutte le cose sarebbe giunta.
Per sé come per loro.
Nel
cortile Horus recuperò la sua forma di falco, pur se con fatica, ma capì subito
di non poter trasportare tutti e tre i compagni fino in Egitto. Naveed si affacciò allora dal portone principale, per
controllare cosa ne era stato dei suoi compagni, e crollò in lacrime di fronte
alla carneficina che insozzava il deserto del Taklamakan.
Anche Horus si fermò per un momento sulle mura esterne ad osservare il campo di
battaglia, riconoscendo il corpo di suo padre tra i cadaveri di cui le Empuse ancora in vita stavano cibandosi. Avrebbe voluto
scendere e ucciderle tutte, prendere il suo corpo e portarlo a Karnak per la
sepoltura, ma comprese l’urgenza di andarsene quanto prima, prima che qualche
nuovo oscuro potere venisse scatenato. Così fece montare Naveed
sulla sua schiena, afferrando Febo e Marins con gli artigli, e volò via, restando basso a pochi
metri dal suolo, impossibilitato a fare di più.
Fu
in quel momento di scoramento che una voce lo raggiunse, una voce che tutti e
quattro ben conoscevano, e che spinse Naveed a
chinare il capo di riflesso. Quel cosmo che li avvolse, caldo e confortevole, e
dentro il quale i loro corpi svanirono poco dopo, apparteneva al Dio supremo di
tutto l’Egitto. Il possente Amon Ra.
“Da
quanti secoli combattiamo, Ares?” –La voce calma ma decisa di Atena sorprese il
Dio della Guerra, tanta era la determinazione che traspariva dal portamento
sicuro della figlia di Zeus, appena comparsa nel Cerchio di Urano per
proteggere Pegasus. –“Da quando, secoli addietro, sconfitto in guerra assieme
alle tue armate di berseker, cercasti rifugio nelle
profondità di Ade, spingendo il Signore dell’Oltretomba contro di me! Vigliacco
fosti, incapace di vincermi da solo, e vigliacco sei rimasto!”
“Vigliacco?!
È ironico che sia tu a definirmi tale, tu che da millenni armi eserciti di
giovani, rubando loro i sogni e il futuro, per mandarli a morire in guerra,
anziché combattere personalmente! Io almeno sono sempre in prima linea, laddove
la vampa imperversa e scorre il sangue!” –Berciò Ares, la mano stretta alla
lancia infuocata e desiderosa di penetrare le nivee carni della fanciulla dai
capelli viola che aveva osato uscire allo scoperto, forse per la prima volta dai
tempi del mito.
“Di
errori ne ho fatti molti, e forse avrei dovuto essere più forte, più concreta
anziché dispensare soltanto amore e perdono!” –Si rattristò per un momento
Atena e il ghigno sul volto di Ares si allargò, certo di aver colpito nel
segno. –“Ma errore più grande sarebbe stato permettere a te, o a Ade o a Crono
o a qualunque altra crudele Divinità, di soggiogare gli uomini, privandoli del
libero arbitrio e confinandoli nell’odio e nelle tenebre. No, Atena ha dedicato
la vita a proteggere gli uomini, anche quando hanno sbagliato e sprecato tempo
e risorse a farsi la guerra tra di loro, perché ho sempre confidato che la loro
grandezza stesse nella possibilità di rinascere!”
“Facoltà
che a te, presto, sarà tolta.” –Sentenziò Ares, sibillino, iniziando a mulinare
la lancia sopra la testa, mentre attorno a loro sorgevano vampe di fuoco, e
obbligando Atena a sollevare l’Egida. –“Preparati a raggiungere…
il resto della famiglia!”
La
Dea avrebbe voluto chiedergli altro, indagare sui dubbi che Avalon le aveva
palesato ore prima, ma la rabbia di Ares la investì all’istante, sotto forma di
strali infuocati che cozzarono uno dopo l’altro sul robusto scudo dorato.
“Ti
ripari dietro quel clipeo di ferraglia come per secoli ti sei fatta scudo di
ragazzi nel fiore degli anni, strappandoli alle loro madri, esiliandoli dalla
loro felicità terrena e sprofondandoli nei brulli campi di un anonimo
sepolcreto, ove nessuna gloria li ha attesi, nessun canto eroico. Solo una
triste e smussata lapide che l’edera col tempo ha sommerso!” –Ringhiò il Dio,
la cui lama tempestava la superficie dell’Egida, forzando Atena alla difensiva.
“I
Cavalieri non combattono per gloria o per onori, Ares, ma tu certo non puoi
capire i valori che ne muovono i passi, valori che sempre hanno riempito i loro
cuori.”
“È
questo che dicevi alle madri, quando riportavi loro i figli morti? Ē tān
ē epitās?!
Con lo scudo o sullo scudo? È con questa
menzogna che convincevi te stessa, bugiarda d’una sorella bastarda, quando i
rapsodi e gli aedi cantavano le gesta di Atena la terribile Sovrana?! Atena la
sterminatrice di fanciulli? Atena, la regina delle anime perse? Quanti threnoi hai
ispirato? Di quanti lamenti funebri ti sei resa responsabile?!”
Atena
inghiottì a fatica, sentendosi improvvisamente debole. Consapevole della nuda e
crudele verità. Del resto, quel che Ares le stava rinfacciando era solo una
parte dell’ambascia che l’aveva invasa negli ultimi tempi, da quando aveva
iniziato a ricordare, da quando era riuscita a enumerare tutti coloro che in
suo nome erano morti. Pur tuttavia, assieme a quel dolore, era emersa anche
un’altra consapevolezza, che il tocco di Avalon aveva acuito, permettendole di
accettarla.
La
necessità di combattere. E di non arrendersi mai. Indipendentemente dal costo.
I
suoi Cavalieri lo avevano pagato in termini di vite, di sacrifici, di futuri
negati; lei lo aveva pagato saturando il suo cuore del ricordo di loro, di
tutte le loro esistenze rubate. Ma mai,
neppure una volta, sprecate.
“Mai!!!”
–Avvampò Atena, sollevando lo Scettro di Nike e intercettando con esso la lama
del Dio, in uno sfrigolare di metalli e cosmi divini. –“Mai, Ares!!!”
Il
bastone di Thule e la Dòruàimatos si incontrarono più volte, con forza crescente, con
Ares che mirava al collo della Dea e quest’ultima che tentava di strappargli
via l’asta. Poco avvezza allo scontro fisico, fu però Atena ad essere disarmata
per prima, con un affondo secco del Nume che le portò via Nike e graffiò il
bracciale della Veste Divina.
“Sei
mia!” –Sibilò Ares, caricando la lancia di tutto il suo cosmo infuocato.
Atena
fece appena in tempo a rifugiarsi all’ombra dell’Egida, accusando il violento
impatto, che addirittura sentì la punta della lama premere sul suo braccio
sinistro, tanto intensa era l’azione offensiva del cosmo di Ares. Cercò di
liberarsi, ma il Dio la teneva stretta, determinato a causarle quanto più
dolore potesse. Divertito, Ares poggiò un piede sull’Egida, estraendo la lancia
e al tempo stesso spingendo la fanciulla indietro, osservandola capitombolare
di schiena, alla sua completa mercé.
“La
fine del viaggio, Atena! Porta i miei saluti alla madre dei miei figli! In
fondo, anch’ella ha avuto una sua utilità!” –Ghignò il Nume, sollevando la
Lancia di Sangue e godendosi quel momento a lungo atteso. Un attimo dopo calò
l’arma sulla Dea, pur senza raggiungerla mai.
Pegasus,
percepito il pericolo, si era sollevato di peso, posizionandosi tra la lancia e
Atena appena in tempo per essere trafitto sul fianco destro. Senza dire una
parola, troppo debole persino per aprir bocca, il Cavaliere resse lo sguardo
del Dio, sorpreso e infastidito, prima di investirlo con una mitragliata di
pugni di luce e spingerlo indietro. Solo allora, mentre Atena affannava nel
rimettersi in piedi, singhiozzando per l’atroce spettacolo, Pegasus sentì il
dolore della lancia rimasta conficcata nel suo fianco, il sangue che colava
imbrattando la celeste armatura, il veleno che gli rendeva difficile respirare.
Se resisteva ancora, se ancora non si era abbandonato al silenzio, fine ultima
dei suoi tormenti, era per difendere lei.
Come
un automa, il Cavaliere afferrò l’asta sporgente, sollevando poi il braccio
destro a dita tese, caricandolo del suo cosmo e calandolo infine sull’arma. Ma
ammutolì nel vederla ancora intatta.
“Ahrahr! Non avrai pensato di
spezzarla così facilmente? È un’arma divina che ti ha infettato, non un manufatto
terreno! E tu, penoso innamorato suicida, non hai mezzi per tagliarla! Non
possiedi mica Excalibur!” –Sghignazzò Ares, espandendo il proprio cosmo e
richiamando a sé la Lancia di Sangue, che schizzò bruscamente via dal corpo del
Cavaliere, strappandogli un gemito di dolore al punto da piegarlo sulle
ginocchia.
“Pegasus!!!”
–Esclamò Atena, in pena, avvicinandosi al giovane che tossiva e perdeva sangue,
sfiorandogli il mento con le dita. –“Perché?!” –Aggiunse, prima che la voce
violenta del loro nemico li richiamasse entrambi.
“Fermi
così, non muovetevi! Abbracciate la fine insieme! Ira di Ares!!!” –Tuonò, scatenando la devastante tempesta di vampe
infuocate.
“Egida,
difendimi!!!” –Reagì Atena, posizionando lo scudo di fronte a sé e a Pegasus,
sforzandosi di tenerlo vicino, affinché non venisse travolto. Ma tale posticcia
difesa fu sbaragliata dall’assalto del Dio, che osservò compiaciuto la Dea e il
suo Primo Cavaliere venire sballottati in aria, sferzati da vampe roventi, per
poi schiantarsi al suolo, uno accanto all’altro. Proprio come le tombe che li
avrebbero accolti.
L’urlo
disperato di Discordia raggiunse Ares in quel momento, portandolo a muovere lo
sguardo verso l’altra parte del Cerchio di Urano, laddove la Signora della
Contesa stava affrontando Phoenix. Quale
vergogna! Commentò il Nume, scuotendo la testa con disappunto, percependo
l’indebolirsi del suo cosmo divino. Non
aver ancora ucciso neppure un nemico! Mi auguro che la tua stirpe stia facendo
lavoro migliore!
Distratto da quel pensiero, Ares non si accorse che
Atena aveva allungato la mano verso il suo Cavaliere, disteso sul suolo lunare
accanto a lei, così vicino da poterne udire il rantolo soffocato con cui
tentava di respirare.
“Perché?!” –Ripeté, sospirando.
“Lotterò sempre per te!” –Rispose una voce, parlando
direttamente al suo cosmo. –“L’ho sempre fatto, dai tempi delle Dodici Case!
Sei la mia forza, la mia speranza! Sei il mio amore! Non posso vivere senza di
te!”
“Pegasus…” –Mormorò Atena,
non sapendo come rispondergli, perché in fondo c’erano troppe cose da dire.
Troppe cose da dirgli.
“Non ce n’è bisogno. Lo so!” –Si limitò a commentare
il ragazzo, consapevole del ruolo della Dea, del suo essere faro solitario per
tutti coloro che lottano per amore di giustizia. Del suo essere Atena Parthenos. –“Ma sappilo anche tu, prima che io muoia. Ti
amo Isabel, se può un uomo amare davvero una Dea. Ti amo, e solo per te tenterò
ancora!” –Aggiunse, bruciando il cosmo, ogni stilla di energia, espandendolo
fino all’estremo angolo dell’universo, sorretto da quel sentimento che non
voleva più negare. –“Cassios diede la vita per colei
che amava, anche se questo avrebbe comportato far vivere il suo nemico. Chi
sono io per non fare altrettanto? Quale uomo potrebbe non essere ugualmente
coraggioso?! Aaahhh, brucia cosmo delle tredici
stelle!!! Brucia, fiamma di Pegasus!!!”
Ares grugnì stupefatto di fronte a
quell’impressionante cascata di luce che da Pegasus pareva riversarsi
sull’intero satellite, raggiungendo i suoi compagni e i Cavalieri di Avalon e
dando loro speranza. Irritato, afferrò la Dòruàimatos, ma prima ancora di riuscire a
muoverla dovette fronteggiare la carica del destriero celeste, piombato ad ali
spiegate contro di lui.
“Tu sia dannato, Pegasus!!! Stai morendo! Perché non
lo accetti?!”
“Forse sarà così, Dio della Guerra, ma tu non vivrai
abbastanza per vedermi spirare!” –Esclamò il Cavaliere, portando avanti il
pugno lucente e schiantandolo sul palmo della mano sinistra di Ares, che venne
spinto indietro per l’impatto.
“Alla Dòruàimatos non puoi opporti!” –Sibilò quest’ultimo,
preparandosi ad affondarla ancora. –“E stavolta berrà dal tuo cuore!”
“No!” –Gridò Pegasus, il cui cosmo riluceva al
parossismo, avvolgendolo in una spirale di luce che si perdeva nella volta
stellata. E in quella stessa spirale lampeggiò un cristallo di ghiaccio, fino a
scivolare di fronte al volto del ragazzo, assumendo le forme di un manufatto
divino che ben conosceva.
“Che… cosa?!” –Ringhiò
Ares, alla vista della fredda lama azzurra.
“Grazie, Odino!” –Commentò il ragazzo, allungando la
mano per afferrare la spada Balmung e nutrirsi della
sua energia, il tepore del sole di Asgard che mondò il suo corpo dal turpe
veleno. –“Gli Dei del Valhalla sono con me!”
In quello stesso momento, al Sesto Cerchio, Mani
trovò la forza di sorridere, di fronte allo sguardo sbigottito del suo
avversario. E incitò Pegasus a vendicare anche gli Asi.
“Quest’oggi pagherai per i tuoi crimini! Balmung ti giudicherà!” –Esclamò il Cavaliere di Atena,
calando la lama e incocciandola con la Dòruàimatos.
Ares cercò comunque di infilzare l’avversario, ma
grazie alla spada di Odino Pegasus poté deviarla ogni volta in cui la lancia
puntava minacciosa su di lui, fino a spingere indietro il Nume con un fendente
energetico, che gli scheggiò un coprispalla.
Imbestialito, Ares si lanciò in una carica frontale contro il Cavaliere, che
riuscì ad evitarla balzando in alto, aiutato dalle ali dell’armatura, fino a
portarsi proprio sopra di lui, quando questi si voltava per contrattaccare.
“Odinooo!!! Il tuo cosmo è
in me!” –Gridò Pegasus, calando Balmung e spezzando
la lunga asta sanguinaria. E la mano che la reggeva.
“Aaargh!!! Maledetto
ragazzino!!!” –Avvampò il Nume della Guerra, tenendosi il moncherino
sanguinante, roso dal dolore e dall’umiliazione subita. Mai nessuno, in
millenni di storia e di battaglie, aveva osato tanto, e pareva che Pegasus
fosse completamente incurante del fatto di aver ferito un Dio.
Come può
mostrare tanta sfrontatezza? Un Cavaliere dovrebbe provare rispetto o timore
della collera divina, eppure egli è già oltre. Che abbia acquisito la
consapevolezza di essere diventato mio pari? Si chiese il figlio di Zeus, riconoscendo
l’aura che circondava il ragazzo, lo stadio ultimo della conoscenza. Il quid
rivelatore del Nono Senso.
“No! No! No!!!” –Ringhiò, imbestialito da tale
possibilità, scatenando un caotico ammasso di vampe di energia che Pegasus parò
torcendo Balmung di fronte a sé. –“Puoi avere tutti
gli aiuti che vuoi, tutti gli Dei del mondo dalla tua parte, ma il tuo cuore
sarà mio! Lo strapperò e finirà ad ornare la mia collezione!!!”
“Parli troppo.” –Commentò Pegasus, sollevando poi la
spada al cielo, in un fluido gesto che gli venne naturale, per quanto lo avesse
visto eseguire una volta sola. –“Tempesta
di spade!!!” –Allo stesso modo le parole gli uscirono di bocca e una
miriade di lame di energia piovve dal cielo, tartassando il corpo di Ares, che
tutto si aspettava fuorché un attacco del genere.
Il colpo segreto di Odino.
“Che diavoleria è mai questa?!” –Trasalì, sollevando
un vortice di fuoco con cui disperse buona parte delle spade. Ma non poté
impedire alle altre di raggiungerlo, trafiggerlo, distruggere la sua Veste
Divina e far ruscellare infine il sangue. –“Il mio…ichor!!!” –Tuonò il Nume, alla vista della sua corazza
imbrattata. Spostò lo sguardo sulla lancia spezzata, il braccio mozzato e
adesso la suprema armatura in frantumi. –“Che cosa mi resta di un sogno di
dominio durato millenni?!” –Mormorò per un istante, invaso da una goccia di sconforto,
l’unica mai piovuta su quel deserto di orgoglio e superbia. Quindi vide Pegasus
barcollare, ormai allo stremo, e crollare sulle ginocchia, mentre Balmung cadeva accanto a lui. E capì, cosa solo gli
rimaneva. –“La vendetta!!!”
A denti stretti, invocò il potere del suo padrone,
l’oscura essenza cui aveva giurato fedeltà dopo che questi lo aveva
risvegliato, in una grotta in Asia, liberandolo dalla prigione di tenebra cui
il cono d’ombra lo aveva confinato, su volontà della creatura che si faceva passare
per suo figlio.
Com’era stato ingenuo, a credere di poter sedere
sull’olimpico trono. A pensare che la Grande Guerra potesse concludersi con la
sua vittoria. Anche se non lo avessero sconfitto, e Tifone avesse incenerito il
Monte Sacro, alla fin fine sarebbero stati soltanto pedine, manovrati nello
stesso subdolo modo in cui lui aveva usato i suoi figli, i suoi guerrieri e
ogni singolo essere vivente che poteva essergli utile.
Atena parve percepire il suo smarrimento,
osservandolo mentre si rimetteva in piedi. –“Che cosa ti è successo? Dove sei
rimasto nascosto per tutti questi mesi?”
“Ero intento a prepararmi.”
“A cosa? A quest’invasione senza motivo? Non credevo
ti interessasse regnare su un reame sconosciuto ai più, senza sudditi, senza
ricchezze, senza poter ostentare il tuo trionfo!”
“Non è per questo che sono qua, Atena. E lo sai
bene. O forse ancora no. Forse, il gran burattinaio che tesse i destini del
mondo non ti ha ancora reso partecipe di quel che sta accadendo, e ciò mi fa
infine sorridere. Ahrahrahr! Anzi no, mi fa proprio godere! Sapere che esiste
qualcosa che non conosci, e che ti ucciderà! Ahrahrahr!” –Sghignazzò il Nume,
prima di concentrare tutto quel che restava del suo cosmo infuocato in un unico
assalto finale. –“Ira di Ares!!!”
Atena sollevò prontamente l’Egida, caricandolo del
suo cosmo divino, e lasciò che la tempesta di fiamme scivolasse sulla sua
superficie, disperdendosi ai lati, consapevole comunque di non poter resistere
a lungo. Così cercò di muovere lo Scettro di Nike, per puntarlo contro Ares,
per quanto il turbinare continuo di vampe da guerra ne rendesse precaria la
stabilità.
Fu in quel momento che Pegasus si rialzò, mettendo
una mano su quella con cui Atena reggeva il bastone della vittoria,
stringendogliela e trasmettendole parte del suo cosmo. La Dea fece altrettanto,
lasciando che la sua energia fluisse in Pegasus, mescolandosi,
attorcigliandosi, fondendosi assieme in un’unica potenza. Una fiamma devastante
che diressero contro Ares.
“Per l’amore e la giustizia sulla Terra!!! Rifulgi,
Nike!!!” –Gridò Atena, puntando lo scettro contro il cuore del Nume, che lo
guardò terrorizzato, comprendendo quel che sarebbe successo. –“Cometa di Pegasus!!!” –Aggiunse il
ragazzo, liberando il proprio colpo lucente, con cui avvolse il bastone,
scagliandolo avanti ad una velocità pazzesca fino a sfondare la cassa toracica
di Ares e spuntare dalla sua schiena.
“Come Ade, così tu.” –Mormorò Atena, fissando
l’antico rivale negli occhi e percependone l’infinita assurda paura di morire.
Che cosa lo spaventasse così tanto, la Dea non lo comprese, non avendo mai Ares
avuto timore di alcunché, né essendo la prima volta in cui cadeva in battaglia.
Anzi, avendo sempre usato il suo corpo mitologico, l’unico degno, a detta sua,
di ospitarne la divina essenza, era già stato abituato a rimanere nel limbo per
qualche secolo, fintantoché la sua coscienza non fosse stata in grado di
riformarsi. E allora che cosa rendeva diversa questa sconfitta dalle altre che
l’avevano preceduta? Che cosa generava in lui così sconfinato terrore?
Ma forse…, intuì la Dea, proprio mentre il corpo del Nume si sgretolava di fronte
ai suoi occhi, rivelandosi per quel che era realmente. Un cadavere vecchio di
migliaia di anni, che solo la divina volontà di Ares aveva mantenuto giovane e
vigoroso e che adesso tornava cenere, come se la coscienza ultima del Dio fosse
stata annullata.
Al tempo stesso, anche i cosmi di Chandra, Tsukuyomi e Tecciztecatl
svanirono, dissolvendosi in polvere di stelle, liberi finalmente dalla crudele
prigionia.
Un gemito sommesso la spinse a interrompere le sue
riflessioni e a chinarsi su Pegasus, crollato in ginocchio per l’eccessivo
sforzo. Nonostante la luce del Sole di Asgard avesse incenerito il curaro nel
suo sangue, le ferite riportate lo avevano stancato e stava per perdere i
sensi, non fosse stato per il tocco della mano di Atena che gli sfiorò il viso,
spostandogli i capelli dagli occhi e forzandolo a guardarla. Bella, come le era
sempre apparsa. Donna, come l’aveva sempre considerata. Dea, come infine era
diventata.
“Grazie!” –Sorrise la fanciulla, infondendogli il
tepore del suo cosmo ristoratore. –“Anche stavolta mi hai salvato! Cosa sarei
senza di te?”
“Saresti Atena, Dea della Guerra giusta! Io… sono solo un uomo!” –Tolse lo sguardo, Pegasus,
perdendolo nella volta stellata.
“Forse. O forse sarei incompleta…debole… e infelice.” –Si limitò a rispondergli Atena,
mettendogli le braccia attorno al collo, pur con le corazze che rendevano goffo
quell’abbraccio.
“Come ti dissi l’altra notte, quando tornammo da
Asgard, non permetterò mai che ti accada niente di male. Finché avrò vita, io
combatterò per te.” –Le disse Pegasus, stringendola a sé e carezzandole i
capelli, inebriandosi del suo aroma.
Atena avrebbe voluto rispondere qualcosa, magari
condividere con lui i ricordi di cui era tornata in possesso, e soprattutto i
motivi per cui li aveva messi da parte, in un cassetto della memoria che non
credeva avrebbe aperto mai più. Ma sentì Pegasus irrigidirsi, percependone il
disagio. Spostando lo sguardo, vide che il ragazzo fissava avanti a sé,
apparentemente nel vuoto spazio lunare, poi, guardando meglio, con gli occhi
del cuore, capì.
In piedi, a pochi passi da loro, rivestito dalla
bronzea corazza che il Cavaliere aveva indossato ai tempi della Guerra
Galattica, c’era un giovane di vent’anni, dal volto sbarazzino, che Pegasus non
poteva fare a meno di trovare familiare. E le parole di Isabel gli tolsero ogni
dubbio.
“Quell’uomo è stato il primo Cavaliere a vestire la
tua armatura! Egli è Bellerofonte di Pegasus! La tua
forza, e la tua maledizione!”
***
“Mi manca tantissimo!” –Esclamò Flare,
gettandosi tra le braccia di Cristal. Adesso che la
cerimonia era finita, che i fedeli si erano ritirati per pregare o per tornare
alle loro mansioni, poteva togliersi il velo di ufficialità, la maschera di
forza che aveva dovuto indossare per sopportare il peso di una corona che non
avrebbe voluto ricevere. Non così presto.
“Lo so.” –Commentò Cristal,
carezzandole i capelli. –“Manca a tutti noi. Ma sei stata bravissima, hai
parlato con il cuore, mostrando di condividere lo stesso destino di sofferenza
del popolo, e questo ti avvicina a coloro che sei chiamata a governare. Hai
parlato come avrebbe fatto Ilda e questo è il modo migliore per onorarla!”
Flare annuì, baciando il ragazzo
e lasciandosi cullare da quell’abbraccio confortante. Seppur in pubblico doveva
mostrare fermezza, per mantenere l’ordine e evitare il caos, era pur sempre una
donna, e come tale bisognosa dell’amore di un uomo che adesso era tutto quel
che poteva definire famiglia. Incupendosi per un istante, si chiese se anche
quel sogno non sarebbe svanito, intimorita all’idea che il ragazzo potesse
essere coinvolto in una nuova missione. Ma poi scosse la testa, ritenendo che a
breve non sarebbe accaduto. Del resto Loki e Surtr erano scomparsi, chi altri avrebbe dovuto minacciare
la pace di Midgard?
Intuendo i suoi pensieri, Cristal
la prese per mano, conducendola fuori dalle sue stanze, dove troppo a lungo
aveva indugiato nei giorni successivi alla scomparsa della sorella. Per
piangerla, per ricordarla o anche solo per prepararsi al suo nuovo ruolo. E
grazie a Cristal, grazie al suo affetto, aveva saputo
superare quel lutto, interiorizzandolo e trasformandolo in una spinta per
andare avanti.
“Guarda la tua terra, Regina di Asgard! Osservane il
bagliore sotto i raggi di questo timido sole! L’inverno è arrivato ma la
roccaforte degli uomini ancora resiste! Né il mare né la fiamma di Surtr le hanno arrecato danno!” –Disse il Cavaliere,
fermandosi con Flare in cima alle mura esterne della
fortezza, su un camminamento di ronda, in modo da poter abbracciare con lo
sguardo l’intera vallata aprirsi di fronte a loro, dall’agglomerato di case dai
tetti coperti di neve alle foreste lontane.
Flare sorrise, poggiando la testa
sul petto del ragazzo ed inspirando a fondo quella nuova aria, che sapeva di
futuro. Un futuro che avrebbe voluto vivere con lui. Esitò per un momento, non
sapendo come affrontare il discorso, non sapendo neppure se Cristal
avesse pensato almeno una volta alla possibilità di stabilizzarsi, di mettere
radici in un posto che potesse chiamare casa. Che potessero entrambi definire
tale.
Esitò, e perse l’occasione di chiederglielo, venendo
entrambi distratti da un riflesso lontano, poco sotto l’orizzonte, che attirò
la loro attenzione.
“Che strano!” –Mormorò Cristal. –“C’è qualcosa nell’aria… qualcosa che riflette la luce. Un velo di rugiada
leggera? Non lo avrei mai notato se non avessi guardato dall’alto in quella
precisa direzione.”
“I tuoi sensi sono ben affilati, Cavaliere del
Cigno, se riesci a percepire quel che i miei poteri all’occhio umano han
celato! Non me ne meraviglio, del resto, travalicando i tuoi stessi limiti, hai
rimesso in discussione ciò che è umano da ciò che è divino!” –Esclamò allora
una terza voce, interrompendo il momento privato della coppia e costringendoli
a voltarsi verso le scale del camminamento, dove un uomo, avvolto in un
mantello di pelliccia, stava salendo a parlare con loro.
“Principe Alexer!” –Lo riconobbe Cristal,
prima ancora di vederne il volto, nascosto nel cappuccio del mantello,
chiedendogli il motivo di tanta segretezza. –“Mi ero stupito infatti di non
vedervi alla cerimonia!”
“Non me la sarei persa per niente al mondo!” –Commentò
l’uomo dagli occhi di ghiaccio. –“Ma ho preferito rimanere defilato, in mezzo
alla folla, per osservare senza essere visto. In fondo, questo non è il mio
regno, sono solo un fedele giunto a rendere omaggio alla nuova Celebrante di
Odino, il cui regno inizia sotto una configurazione astrale portatrice di non
buoni auspici!”
“Cosa intendete dire, Principe? Ragnarökè terminato! Surtr non può più mietere vittime e Loki
e i Sigtívarsono stati sconfitti!”
“Mia dolce Flare, dovreste
ben sapere che i pericoli del mondo sono infiniti e che è dovere di una regina
occuparsi della sicurezza del regno.” –Esclamò Alexer, prima di indicare la
vallata sotto di loro. –“Il velo che vedete è lo stesso che calai giorni
addietro per difendere Midgard dai Giganti di Fuoco,
e che ho mantenuto in forma più lieve per impedire, a chi ne fosse al di fuori,
di percepire cosa stesse accadendo all’interno. Nascondere la ricostruzione
della cittadella, l’installarsi di una nuova regina, il celere riorganizzarsi
delle difese, questo era il mio intento e credo di esservi riuscito. Ho portato
con me dalla Valle di Cristallo un cospicuo gruppo di fabbri, manovali,
genieri, per metterli a vostra disposizione nei lavori di restauro della
fortezza, per forgiare nuove armi e corazze e fortificare le vecchie torri di
guardia!”
“A sentir voi, sembra che Asgard debba prepararsi ad un assedio!” –Considerò Flare, inorridendo al sol pensiero.
“Se così vi piace immaginarlo, a me sta bene, purché agiate, come vostra
sorella avrebbe fatto. Destini ben più grandi delle nostre vite possono
dipendere dalla solidità di queste mura!”
“Che cosa succede Alexer? Temi l’avvento di un nuovo nemico?” –Intervenne
allora Cristal, strappando un sorriso colpevole al
Principe.
“Purtroppo per noi, il nemico è già arrivato e non è
neppure tanto inatteso! Ma andiamo con ordine.. il velo che ho creato… che vi ha nascosto agli occhi del mondo… ha anche nascosto il mondo ai vostri occhi.
Perdonatemi per questo inganno ma era necessario. Flare
doveva crescere, superare il trauma e fortificarsi, e per farlo doveva averti
al suo fianco, Cristal. Solo così sarebbe riuscita a
non abbandonarsi alle lacrime e ai rimpianti. Adesso più che mai è necessario
che i regni divini siano solidi e legati da rapporti di amicizia e aiuto reciproco.
In fondo, come tutti gli Dei non sono altro che un unico Dio, anche gli uomini
appartengono tutti allo stesso popolo ed è tempo che combattano uniti! Sì!”
–Aggiunse infine, trapassando il Cavaliere del Cigno con i suoi occhi di
ghiaccio. –“Un’alleanza di tutti i regni divini è necessaria per affrontare e
vincere la grande ombra!”
Capitolo 20 *** Capitolo diciottesimo: La colonia nascosta ***
CAPITOLO DICIOTTESIMO: LA COLONIA NASCOSTA.
Sul
plateau tibetano l’aria era buona. Respirandola, Mur
sorrise, riconoscendo tracce di casa.
Spaziò
con lo sguardo tra le eminenti cime innevate, dalla catena himalaiana, che si
estendeva alla sua destra, spostandosi verso occidente, fino alle vette del Karakoram e dell’Hindu Kush.
Quelle terre antiche, che così pochi uomini avevano violato, erano il luogo in
cui la sua storia era iniziata, la culla ove era cresciuto, ricevendo i primi
insegnamenti, prima di trasferirsi ad Atene e divenire allievo di Shin. Ma il Cavaliere di Ariete non aveva mai dimenticato
le proprie origini, rendendo onore al suo popolo con la sua sapienza, la sua
arte e la sua capacità di mantenere segreti. Capacità in cui, doveva ammetterlo,
si era rivelato particolarmente adatto.
Sospirò,
inebriandosi a pieni polmoni di quell’aroma di eternità, prima di rimettersi in
marcia. Era stato facile arrivare dalla Grecia in Asia Centrale, grazie ai suoi
poteri di teletrasporto, ma l’ultimo pezzo di strada aveva deciso di
percorrerlo a piedi. Una scelta dettata da un’esigenza interiore, dalla ricerca
di una pace che solo sul tetto del mondo poteva trovare. Una calma che nelle
ultime notti aveva perduto, da quando visioni angosciose avevano iniziato a
turbare i suoi sogni, visioni di guerra, schiavitù e morte. Visioni di volti
confusi, ove solo quello di sua madre appariva nitido davanti ai suoi occhi,
nitido come il sangue che le colava dal mento. Un mulinar di lame e niente più,
solo la consapevolezza della sua tragica fine.
Scosse
la testa per allontanare quei nefasti pensieri e aumentò l’andatura, giungendo
alla meta del suo viaggio. Magnifico e temibile, di fronte a sé si apriva il
massiccio del Dhaulagiri, le cui dieci cime, sempre
coperte di neve, superavano i settemila metri di altezza, facendo meritare al
complesso montuoso il nome sanscrito di Montagna Bianca.
Quella
era la sua destinazione, il luogo in cui dimoravano gli ultimi discendenti di Mu.
A
passo svelto, raggiunse l’ingresso al valico che conduceva alla terra di pace
ove millenni addietro si rifugiarono i pochi che riuscirono a scampare
all’inabissamento dell’isola antica. Ancora una volta Mur
si sorprese della genialità della sua stirpe, in grado di proteggere la colonia
con la sola forza della mente. Trattenendo un sorriso, il Cavaliere di Ariete
sfiorò l’innevata parete rocciosa che si apriva alla sua destra, accorgendosi
di non riuscire ad afferrare alcunché. Per quanto agitasse la mano, quel bianco
suolo risultava intangibile e distante, quasi non fosse mai sufficientemente
vicino. Un trucco mentale generato dai difensori di quell’ermo santuario.
Un
attimo dopo fu oltre. All’interno del regno, nel cuore della montagna che lo
ospitava e proteggeva.
“Non
un passo di più o non ti garantisco la vita!” –Esclamò una voce maschile,
fermando l’avanzata del Cavaliere d’Oro, che volse lo sguardo verso i rilievi
attorno al sentiero, da cui la voce era giunta. –“Identificati!” –Aggiunse un
secondo uomo.
Mur
sorrise, socchiudendo gli occhi e lasciando che fossero i sensi a fargli
strada, quegli stessi affilati sensi che gli permisero di individuare un
gruppetto di figure sulla cima dei rilievi, i corpi avvolti da una bruma
biancastra che li rendeva invisibili ad occhio umano. Trucchi mentali con cui
potevano controllare senza essere visti.
“Non
dovete temere, popolo di Mu, poiché io sono uno di
voi! Il mio nome è Mur, allievo di Shin e Cavaliere d’Oro di Ariete!” –Annunciò il difensore
del Primo Tempio di Atene, sollevando le mani e lasciando che il proprio cosmo
fluisse attorno a sé, fino a lambire i rifugi delle guardie e andare oltre.
“Grande
Mur! Siete tornato?! Che bello rivedervi!”
–Esclamarono i difensori dell’ultima colonia, uscendo dai loro nascondigli e
palesandosi di fronte agli occhi dell’uomo. Alcuni erano volti noti, che Mur aveva conosciuto le poche volte in cui si era recato in
visita a sua madre, negli anni di esilio dal Grande Tempio, altri erano giovani
dallo sguardo fresco, di certo novizi nello studio dei poteri mentali.
Eppure…
rifletté, dubbioso, realizzando di non averne percepito la presenza fin quando
non l’avevano chiamato. Se fossero stati nemici…
Non
ebbe il tempo di chiedersi altro che i custodi della colonia di Mu gli fecero cenno di seguirlo verso il cuore della
montagna, ove dimorava il resto della popolazione, in caverne naturali adattate
al punto da divenire funzionali abitazioni. Un luogo sicuro in cui la più
antica civiltà terrestre aveva continuato a respirare.
Sebbene
non fosse la prima volta che percorreva i dedali che portavano alla culla della
propria cultura, Mur non riuscì a non trattenere il
respiro, ammirando la vitalità che pulsava sotto strati di roccia e ghiaccio
eterno. Cucine, biblioteche, alloggi, orti e frutteti, persino un giardino ove
crescevano erbe divenute rare nel mondo esterno. E, su tutte, un alitare
continuo di aria buona, corroborante per lo spirito, diffusa fino in profondità
dai labirintici corridoi che perforavano l’interno del Dhaulagiri.
“Mur!!!” –Lo chiamò infine una voce femminile,
costringendolo a spostare lo sguardo verso una delicata figura, in vesti
violacee, che, appena uscita da una caverna, aveva iniziato a corrergli
incontro.
“Madre!!!”
–Esclamò il giovane, lasciandosi abbracciare. –“Come state? State bene?”
La
donna annuì più volte, baciandolo in fronte, senza riuscire a trattenere le
lacrime per la gioia di rivederlo. Quindi gli fece cenno di entrare nella
propria abitazione, ove avrebbero potuto parlare in privato.
“Come
vi sentite, madre? Sono stato molto in pena per voi! È accaduto qualcosa?”
–Incalzò il Cavaliere, di fronte allo sguardo attento della donna.
“Sto
bene, Mur, davvero. Sei gentile a preoccuparti, ma mi
sento bene! Perché?”
“Io… ho percepito dei segnali. Visioni terribili che mi
hanno riempito la mente ogni volta in cui tentavo di riposarmi. Visioni che ho
interpretato come un presagio. Per questo sono giunto fin qua, per sincerarmi
sulle vostre condizioni!”
“Per
quanto sia lieta di rivederti, figlio mio, temo di non essere io a necessitare
di cure. Che succede, Mur? Cosa angoscia la tua
mente, inquinando persino il tuo cosmo? L’ho percepita subito, non appena hai
varcato la Bocca della Montagna, un’evidente sfumatura di ambascia che mai ha
macchiato il tuo cosmo placido.”
“Io… non lo so…madre… Credevo davvero che foste in pericolo!!!” –Il
Cavaliere scosse la testa, cercando di far luce in quei nebulosi pensieri. Quel
che aveva intuito, entrando nella colonia nascosta, era dunque vero. I suoi
sensi erano ottenebrati, al punto da generare errate percezioni. Un difetto di
valutazione che un uomo come lui, dalle elevati facoltà mentali, non poteva
permettersi e che poteva essere stato causato solo da una forza ancora più
potente. E oscura. Una forza che
doveva essersi insinuata nella sua mente, facendo leva su inconsce paure
represse.
Ma quando? E come?!
Non
seppe rispondersi, così riportò lo sguardo sulla madre, che lo fissava
impaurita ma anche con un sorriso sincero.
“Al
di là di tutto, sono contenta di rivederti!” –Gli disse, sfiorandogli il viso
con una mano. –“Ho seguito le tue gesta da lontano, ascoltando lo stormire del
vento, e ho penato e sofferto ogni volta in cui ho sentito il tuo cosmo
giungere al parossismo. Il tuo, e anche quello del piccolo Kiki.”
“Mi
ha detto che sei giunta in suo aiuto alle Andamane.”
“Gli
ho solo ricordato quanto sia bello vivere. È troppo giovane per averlo già
dimenticato. A volte vorrei che Shin non ti avesse
mai scelto, che tu fossi rimasto qua, celato ai mali del mondo, anziché andare
ad Atene, e che Kiki non fosse mai nato, così non
avrebbe provato tutta quella devozione verso l’eroico fratello che condurrà
entrambi al martirio.”
“Se
morire è il tributo da versare per difendere la Terra, sono ben lieto di
pagarlo!”
“Io
no. Ma so di non poterlo impedire.” –Sospirò la madre, prima di aggiungere,
sorniona. –“La tua venuta non è comunque vana. Sei arrivato in tempo per dirgli
addio!”
“Co… come?! Sta… così male?”
La
donna annuì, accennando un sorriso sentito, prima di invitare il figlio a
fargli visita, onorandolo dell’ultimo saluto. Mur
rimase a ponderare per qualche istante, prima di alzarsi e uscire
dall’abitazione, incamminandosi a passo deciso verso la dimora del padre di
tutto il suo popolo, il più longevo abitante di Mu
che sia mai sopravvissuto.
Lo
trovò dove l’aveva lasciato anni addietro, disteso sul letto della sua caverna,
quella più in alto di tutte, dalla cui sommità il vecchio poteva ammirare il
suo regno, la sua colonia, quel che restava di una vita di reliquie e ricordi.
Lo ritrovò così e per un momento sembrò a Mur che il
tempo non fosse passato.
“Padre…”
“Ora
posso morire!” –Commentò l’anziano uomo, senza accennare a sollevarsi. Teneva
gli occhi chiusi, muovendo a malapena le labbra, ma fu in grado di sfiorare la
mano di Mur mentre questi si avvicinava al suo
giaciglio. –“La tua presenza qui, quest’oggi, è il dono migliore che potessi
ricevere, l’obolo che mi traghetterà sereno verso un’altra vita. Ascolta,
figlio di Mu. Ascolta, discendente di Antalya.”
“Sono
qui, nobile Rasha!” –Si inginocchiò il Cavaliere di
Ariete, senza lasciare la mano dell’uomo, percependo il fluire del suo cosmo
ancestrale solleticargli la pelle.
“Avrei
parlato con tua madre, le avrei detto di tramandare a te, o a tuo fratello, la
sapienza del nostro popolo, memorie di un tempo che non devono andare perdute. Coughcough!” –La voce di Rasha era distante e interrotta da continui colpi di tosse,
che rendevano difficile decifrarne correttamente le parole, ma Mur fece il possibile per tranquillizzarlo. –“Ho vissuto
più a lungo di quanto un uomo normale abbia mai avuto diritto, ben cinque
secoli ho visto scorrere. Sembrano tempi lontani, ricordi dei giorni in cui,
come te, ho vestito l’Armatura dell’Ariete d’Oro. Il montone dalle corna
lucenti, possente e fiero nello sbarrare il passo agli avversari.”
“Siete
stato Cavaliere di Atena? Non lo sapevo!”
“La
Dea deve sapere, Mur…Caughcaugh! Quando mettemmo al suo servizio la nostra
abilità, le nostre capacità di lavorare i metalli e generare corazze per i suoi
Cavalieri, facemmo quel che Antalya avrebbe voluto.
Iniziammo a combattere una guerra contro l’oscurità, la stessa a cui lei era
sopravvissuta, unica donna di sette compagni. Lei fu la capostipite del nostro
popolo, lei ideò il metodo di creazione delle armature, combinando gli elementi
della natura. Metodo che tu hai imparato e cercato di trasmettere a tuo
fratello. Lascia che ti dica un’ultima cosa, lascia che completi il tuo… addestramento!”
In
quel momento una violenta esplosione scosse il complesso del Dhaulagiri, smuovendo mucchi di neve e schiantando rocce e
ghiaccio che nessun piede umano aveva mai calpestato. Mur
lasciò cadere la mano dell’anziano Rasha, interrompendo lo scambio di
informazioni mentali, correndo fuori dall’ingresso e guardando in basso, in
direzione della Bocca della Montagna. Seppur distante decine di metri, fu in
grado di vedere una voluta di fumo sollevarsi dall’entrata, e in quello stesso
fumo poco dopo apparve un gruppo di sconosciuti in armatura. Quanti non seppe
dirlo, ma sufficienti per far fuori in un breve istante la guarnigione
difensiva, livellando i rilievi che lambivano il sentiero e spianando la via
verso il cuore della montagna.
“Chi
sono questi invasori?” –Mormorò il Cavaliere di Ariete, mentre infine tutto gli
appariva chiaro nella mente. Le visioni, l’angoscia, il desiderio di rivedere
sua madre. Tutto faceva parte di un piano montato ad arte per spingerlo a
tornare a casa, mostrando così a ignoti nemici l’ubicazione di un luogo noto
solo a chi vi dimorava. Quello che non riusciva a capire era perché. –“Cosa
vogliono? Non ci sono ricchezze qua!”
Si
voltò, per chiedere a Rasha ulteriori informazioni, e
notò il braccio penzolare stanco fuori dal giaciglio, gli occhi chiusi e le
labbra rimaste aperte, a metà di una parola che così tanto aveva spaventato Mur.
“Spero
tu sia in pace!” –Sospirò il custode della Prima Casa di Atene, prima di
coprire il corpo con un lenzuolo e poi scattare fuori.
Per
quel che ne sapeva, la colonia non aveva guerrieri. Nessuno, dei discendenti di
Mu, aveva mai dimostrato inclinazione per la
battaglia, preferendo dedicare le loro vite e le loro energie allo studio. Solo
i più giovani, per costituzione i più adatti, padroneggiavano i rudimenti della
scherma e del combattimento con la spada, pur con la consapevolezza di non
doverli mai mettere in pratica.
Fino ad ora. Si disse, sfrecciando lungo i sentieri tortuosi
della Montagna Bianca diretto verso l’ingresso.
“Mur! Mur!!!” –Lo chiamò sua
madre, intenta a parlare con altri abitanti della colonia fuori dalla sua
abitazione. –“Che succede? A chi appartengono questi cosmi ostili? Spiriti
bellicosi intrisi di fiamme e odio. Mai ho percepito una così intensa sete di
guerra!”
“Non
lo so, madre, ma lo appurerò presto! Adesso ascoltatemi, ve ne prego! Radunate
il popolo e portatelo al sicuro, nelle caverne più interne, sigillando
l’ingresso con i vostri poteri! Di certo conoscerete un rito adeguato! Gli psicocineti più esperti invece con me, possono essere utili
per rallentare il nemico!”
“Li
radunerò!” –Disse prontamente un uomo, allontanandosi di qualche passo e
sfiorando la propria testa con le dita, in modo da inviare un messaggio ai
compagni.
“Fa’attenzione!
Ti supplico!” –Esclamò la donna, afferrando Mur per
un braccio, prima che si allontanasse. –“Non ho mai sopportato l’idea che tu
combattessi, l’idea di non poterti dire addio, caduto in campi di battaglia
lontani! Ma pensare che tu possa morire qui, a casa nostra, mi strazia il
cuore, Mur!”
“Non
accadrà! Abbi fede!” –Le disse, sfrecciando verso la Bocca della Montagna, dove
la giovane guarnigione di discendenti di Mu aveva
tentato di opporre una breve resistenza, venendo spazzata via in fretta.
“Ahrahr! Freschino
qua dentro!” –Commentò una ruvida voce maschile. –“Sarà il caso di accendere un
bel fuoco per riscaldare l’ambiente! Che ne pensi, Lethe?”
L’esile
figura al suo fianco non disse alcunché, limitandosi a spostare lo spento
sguardo dall’ingresso verso le cavità della montagna, dando ordine ai soldati
che erano con loro di penetrare all’interno.
“Conoscete
gli ordini.” –Chiarì, schiva. –“Eseguiteli!”
Un
centinaio di guerrieri, rivestiti di corazze dalle forme aguzze, dotate di
spuntoni sulle spalle e sui gomiti, passò oltre, incamminandosi lungo il
sentiero percorso da Mur neppure due ore addietro.
Non riuscirono a compiere che pochi passi che dovettero fermarsi, schiantandosi
uno contro l’altro, bloccati da una barriera invisibile che sbarrava loro il
passo.
“Che
diavoleria è mai questa?” –Esclamò allora l’uomo alto e robusto che guidava la
spedizione. Facendosi largo tra i soldati, agitando furioso una mannaia, si
avvicinò al punto oltre il quale il battaglione non poteva andare oltre,
scoprendo, toccandolo, l’esistenza di un velo così sottile da risultare
impercettibile ad occhio nudo. Un muro, un po’ ondulato, su cui timidamente si
infrangevano i raggi di sole che giungevano dall’esterno. Non fosse stato per
quel debole chiarire neppure lui lo avrebbe notato.
“È
il Muro di Cristallo!” –Esclamò allora la calma voce di Mur,
parlando sopra il confuso mormorio dei presenti. –“Limite ultimo della vostra
incresciosa avanzata!” –Quindi, senz’altro aggiungere, la barriera esplose in
un riverbero di luce, scagliando indietro l’uomo con la mannaia e una decina di
soldati troppo vicini ad essa.
“Grrr!!! Trucchetti da
prestigiatore!” –Ringhiò il guerriero, rimettendosi subito in piedi. –“Fatti
vedere, Ariete d’Oro! So che ci sei tu dietro questa trappola!”
“Mi
conosci? Dovrei sentirmi onorato, sebbene tenda ad essere più infastidito dalla
vostra intrusione, o incursione, che dir si voglia, in questo luogo di pace!”
–Continuò Mur, parlando da dietro il muro, senza che
le sue forme fossero rivelate. –“Io invece non ti conosco, ma ardo dal
desiderio di udire i vostri nomi! Soddisfami, ti prego!”
“Umpf, fai poco l’arrogante in mia presenza! È a un Dio che
ti rivolgi! Horkos, figlio di Discordia, Dio punitore
di tutti coloro che violano un giuramento!”
“E
dalla stessa madre siamo state concepite noi, le Amphilogie!
Divinità della Disputa e del Contenzioso!” –Parlarono allora i guerrieri che
accompagnavano Horkos, guerrieri che, Mur non lo aveva fino ad allora notato, erano tutte donne,
sebbene presentassero un fisico scolpito, quasi muscoloso, e un corto taglio di
capelli da farle apparire come uomini.
“Horkos? Amphilogie? Cosa sta
succedendo?!” –Si chiese il Cavaliere di Ariete, senza avere tempo per
riflettere ulteriormente, dovendo fronteggiare la rinnovata carica del figlio
di Discordia, che si lanciò contro la barriera da lui eretta, tempestandola di
colpi con la propria mannaia.
“Cadi!!!”
–Ringhiò Horkos, caricando l’arma del suo cosmo
divino.
Preparandosi
alla collisione, Mur espanse il proprio cosmo,
concentrandolo sul quadrante del Muro di Cristallo ove era certo che il nemico
avrebbe colpito. E quando la mannaia calò, liberando l’energia accumulata, al
Cavaliere di Ariete sembrò che gli avesse squartato il cuore, tanto violento fu
l’urto, al punto da spingerlo indietro, a gambe all’aria, per quanto anche Horkos venisse scaraventato molti metri distante.
“Bella
sfida!” –Esclamò divertito il figlio di Eris,
pulendosi un labbro sanguinante con il dorso della mano e rimettendosi in
piedi. Ma la donna dalla corporatura minuta che lo accompagnava, rimasta
silente per tutto quel tempo, gli passò accanto, senza permettersi di andare
oltre. Fissò la barriera eretta da Mur, che ancora
resisteva, prima di chiudere gli occhi e mandarla in frantumi, come fosse
fragile vetro.
“In…credibile…” –Mormorò il
Cavaliere di Ariete, riconoscendo, nel cosmo emanato dalla donna, una palese
sfumatura divina.
“Non
abbiamo tempo per giocare, Horkos! Non vorrai
generare disappunto in coloro che ci hanno affidato questa missione?”
“Pfui!” –Il figlio di Eris sputò
in terra, grugnendo parole incomprensibili, prima di berciare ordini alle Amphilogie, che subito riformarono le fila, ricominciando
ad avanzare lungo il sentiero. E quando Mur,
rimessosi in piedi, fece avvampare il proprio cosmo, deciso a fermarli, Horkos sfrecciò avanti, il braccio destro avvolto in un’incandescente
energia violacea.
“Sturmjan!!!”
–Tuonò il Dio, investendo il Cavaliere con una pioggia di pericolosi affondi
che parevano cadere su di lui da ogni direzione. Rapidi, precisi e decisamente
violenti, gli impedirono di sollevare qualsiasi difesa, mozzando persino i
movimenti delle braccia. Un ultimo, più poderoso, si schiantò sull’elmo della
corazza d’oro, distruggendone il cimiero, prima di spaccarlo in due e prostrare
a terra il suo possessore.
A
tal vista, le Amphilogie aumentarono l’andatura,
passando ai lati di Mur e proseguendo verso il cuore
della colonia a ritmo serrato. Il Cavaliere di Ariete affannò nel rimettersi in
piedi, tastandosi la fronte sanguinolenta e ringraziando la maestria dei suoi
antenati, che gli aveva permesso di forgiare corazze così resistenti. Si voltò,
deciso a fermarne l’avanzata, ma venne afferrato per un braccio da Horkos, che glielo torse forzandolo a guardarlo in faccia.
Solo
allora, osservandolo per la prima volta con attenzione, Mur
vide quanto fosse brutto il figlio di Discordia. Nonostante il fisico robusto e
le braccia forti, il volto era una maschera di terrore, butterato e marcato da
così tante cicatrici che ad un solo sguardo era impossibile contarle tutte. Un
occhio, poi, sembrava fuori posto, posizionato più in basso rispetto all’altro,
contribuendo a dare al Dio un’esteriorità rozza e acerba, ben diversa
dall’aggraziata madre che l’aveva generato. I capelli grigi, folti e vispi,
sembravano alberi isteriliti da una fiamma di morte che il Signore dei giuramenti
mancati covava nell’animo.
“Ammiri
il mio splendore, Cavaliere di Ariete? Ahrahr!” –Rise sguaiato il figlio di Eris.
–“Preoccupati del tuo! Rimarrà ben poco del tuo candido volto quando avrò
finito con te! Ahrahr!”
“Al
tuo posto, bestia!
Dei ben più potenti ho affrontato! E neppure con l’aiuto di cento braccia mi
hanno piegato!” –Avvampò Mur, espandendo il cosmo e cercando di spingere indietro il
nemico con i suoi poteri mentali, ma non ottenendo altro che un’ulteriore
beffarda risata.
“Forse
ti è sfuggito. Ma sono un Dio!” –E, nel dire ciò, gli piegò il braccio
all’indietro, inebriandosi del suono acuto delle ossa che andavano in frantumi.
–“I tuoi poteri telecinetici mi fanno il solletico!”
“Non…sottovalutarmi…” –Trovò la
forza per mormorare Mur, prima di radunare tutte le
energie e generare una devastante onda di energia con cui travolse Horkos, scaraventandolo indietro, fin sulla soglia della
Bocca della Montagna. Quindi, stanco e ferito, crollò sulle ginocchia,
annaspando per quell’improvviso sforzo. Fu solo il vociare delle Amphilogie che gli impedì di lasciarsi andare, il timore
dei danni che potevano infliggere alla colonia e ai suoi abitanti. –“Madre… vi salverò…”
Un
leggero frusciare di vesti attirò la sua attenzione, portandolo a voltarsi
verso la donna dai lunghi capelli indaco che si era appena avvicinata a lui, la
stessa che aveva neutralizzato il suo potere. Per quanto non indossasse corazza
alcuna, Mur fu certo che in battaglia non ne avrebbe
avuto bisogno, percependo in lei una fervente energia cosmica.
“Chi
sei?!” –Mormorò, non ottenendo risposta. Solo un impercettibile movimento di
dita, con cui la donna sollevò il Cavaliere da terra, schiantandolo contro un
versante interno della montagna, sprofondandolo nelle rocce che da culla erano
infine divenute bara. –“Psyche…kinesis…
così poderosa non l’ho mai provata… Mi devasta le ossa…” –Fece per rimettersi in piedi, salvo accorgersi che
la donna silenziosa era già di fronte a lui, il palmo della mano pronto a
sfiorargli la corazza d’oro, un’ondata di vibrazioni che la sua sola vicinanza
generava nel corpo di Mur, che ormai non rispondeva
più al suo controllo. Persino la sacra armatura di Ariete, sottoposta a così
intensa pressione, cigolava lamentosamente, quasi fosse sul punto di
schiantarsi da un momento all’altro.
“Fermati!!!
Lui è il mio avversario!!!” –Urlò allora Horkos,
interrompendo il massacro e permettendo a Mur di
rifiatare. –“Lo hai forse dimenticato?” –Ironizzò il Dio, passando accanto alla
donna e rivolgendole uno sguardo sprezzante. –“Io ho il comando
dell’operazione, sorella!”
“Con
il tuo permesso allora, seguirò le Amphilogie, per
assicurarmi che tutto proceda come pianificato!” –Gli rispose senza battere
ciglio, prima di dargli le spalle e incamminarsi verso le profondità di Dhaulagiri.
“Una
volta ottenuto quel che ci serve, mettete il villaggio a ferro e fuoco! Noi non
facciamo prigionieri, ricordalo, Lethe! Ahrahr!” –Sghignazzò il
corpulento guerriero, prima di riportare lo sguardo sul devastato corpo di Mur, che ancora non riusciva a rimettersi in piedi. –“Serve
una mano?” –Lo schernì, afferrandolo per il braccio dolorante e tirandolo su,
incurante dell’urlo di dolore del Cavaliere. –“O forse, una gamba?” –Aggiunse,
sollevando il corpo del giovane, roteandolo in aria e infine schiantandolo a
terra, divertito. –“Dato che questo arto non ti serve più, tanto vale
tagliarlo, non credi?”
Così
dicendo, sfoderò la mannaia che portava affissa alla cinta, caricandola del suo
cosmo violaceo, prima di calarla su Mur, che fu
svelto a rotolare di lato, evitandone la lama. Horkos
però mosse in fretta il braccio, per inseguire la sua preda, che, troppo debole
per rotolare ancora, non poté far altro che frenarne la discesa con la
psicocinesi, bloccando arma e arto a mezz’aria, con un notevole sforzo mentale.
Quindi, bruciando al massimo il proprio cosmo, generò una sfera di luce nel
palmo della mano destra, scagliandola poi contro il figlio di Eris e travolgendolo.
L’attacco
improvvisato non fu affatto risolutivo, limitandosi a spingere il Dio indietro
di qualche metro, ustionando e scheggiando la sua spigolosa armatura.
“Ma
niente più!” –Sogghignò Horkos, osservando invece il
Cavaliere di Ariete, con un ginocchio a terra, ansimare a fatica. Quando fece
per alzare la mannaia, si accorse però di non riuscire a roteare il braccio,
anzi di non poter muovere neppure le gambe; persino ruotare la testa gli
risultò difficile. –“Ancora psicocinesi?!” –Ringhiò, salvo poi accorgersi di
sottili filamenti di cosmo che, dal suo massiccio corpo, si dipanavano attorno
a sé, creando una tela così fitta e vasta da riempire l’intero passaggio verso
le profondità della caverna. –“Un nuovo trucco?!”
“Ragnatela di cristallo!” –Commentò Mur, rimettendosi infine in piedi.
“E
hai la presunzione di volermi bloccare a lungo?” –Ghignò Horkos,
espandendo il proprio cosmo, che infiammò l’aria attorno, incendiando e
schiantando numerosi filamenti di energia. –“Misera motivazione che non ti
aiuterà a vincere la battaglia!”
“Non
a lungo. Ma quanto basta.” –Mormorò il Cavaliere di Atena, che già aveva
sollevato un braccio al cielo, evocando la tecnica insegnatagli da Shin. –“Per il Sacro
Ariete!!! Rivoluzione stellare!!!”
La
devastante pioggia di stelle cadde sul figlio di Eris,
crepando in parte la sua corazza e strappandogli grida di rabbia e sorpresa,
prima che la sua furia esplodesse, sradicando in un sol colpo l’indebolita
ragnatela di cosmo e sollevando l’arma mortifera.
“Sturmjan!!!”
–Tuonò, rispondendo a ogni stella cadente con vigorosi affondi energetici, il
cui numero crebbe in maniera esponenziale, sovrastando in poco tempo l’assalto
di Mur e costringendolo alla difensiva. –“Sei mio!!!”
–Ringhiò soddisfatto, mentre il mulinare frenetico della sua lama squassava il
suolo attorno al Cavaliere di Ariete, graffiando la sua corazza, trinciando i
suoi capelli e spingendolo indietro. –“Quanto, ancora?!”
Horkos
torse le labbra in un ghigno appagato, ritenendo che il giovane fosse finito in
trappola. Del resto alle sue spalle si ergeva il fianco della montagna, il
sentiero era ostacolato dal Dio stesso e alla sua destra si apriva un
pericoloso baratro da cui spiravano violente correnti ascensionali.
“Che
la morte ti colga, Cavaliere di Atena!” –Affermò il figlio di Discordia,
portando avanti la mannaia avvolta nel suo cosmo, diretta al collo di Mur.
Fu
allora che il suolo tremò, mentre colonne di cosmo dal colore verde acqua
sorgevano dal precipizio, catturando l’attenzione dei contendenti. Colonne che,
guardandole meglio, Horkos riconobbe essere dei lucenti
dragoni di energia.
“Che
trucco è mai questo?!” –Ringhiò, mentre centinaia di quelle figure luminose,
ascese al cielo, si riunivano in un’unica mastodontica sagoma, le cui fauci
energetiche si fiondarono verso Horkos all’istante.
“Che
le zanne dei Draghi di Cina mondino quest’immacolata terra!” –Risuonò allora
una voce, mentre il devastante assalto travolgeva il figlio di Eris, schiantandolo a terra molti metri addietro, con
l’arma in frantumi e la corazza grondante sangue in più punti.
Quando
Horkos si rialzò, notò un giovane dai corti capelli
neri avanzare a passo deciso di fronte a lui. Un giovane rivestito da una
raffinata corazza eburnea, dai riflessi verdastri, raffigurante un drago. Non
ebbe bisogno di chiedergli alcunché poiché ben sapeva chi fosse quel ragazzo.
Capitolo 21 *** Capitolo diciannovesimo: Tumulti del cuore. ***
CAPITOLO DICIANNOVESIMO: TUMULTI DEL CUORE.
Dopo
che Alala aveva distrutto il muro tra Quinto e Quarto cerchio, i Phonoi e le Androctasie erano
stati pervasi da un animalesco furor bellico, che li aveva spinti ad
abbandonare le compatte formazioni in cui avevano marciato fino a quel momento
e a correre verso il varco, armi in mano, tra grida e versi osceni, esaltati e
forse convinti di una prossima vittoria. Matthew ed Elanor, inzaccherati di
sangue, sudore e sabbia, si erano appena rimessi in piedi, cercando di valutare
la situazione, se correre in aiuto di Andromeda o se invece raggiungere gli
altri Cavalieri di Avalon e Atena ai cerchi esterni, quando Thot
li aveva invitati a rimanere lucidi, e a fare ciò che andava fatto.
“Sfoltire
questa marea di carogne! Non vi sembra un’ottima idea?!” –Aveva aggiunto,
spalancando le ali della corazza e balzando in volo, prima di piombare sui Phonoi e travolgerli con il suo cosmo dorato.
Matthew
ed Elanor avevano fatto altrettanto, così da venti minuti lottavano nella
mischia confusa creatasi nel cuore del Quinto Cerchio, cercando di colpire
quanti più nemici potessero. Si erano disposti uno accanto all’altro,
distanziati a sufficienza in modo da non ostacolarsi a vicenda, una catena che
i Signori della Guerra avrebbero dovuto spezzare se avessero voluto proseguire
per l’anello di Marte e ricongiungersi con gli altri soldati. Non che ai Phonoi dispiacesse quello scontro, mai stanchi di mulinare
asce, scuri e mannaie, vere o di puro cosmo.
“Dietro
di te!” –Gridò Matthew, indicando ad Elanor un gruppetto di figli di Eris che, staccatosi dal resto della massa, stava cercando
di superare la ragazza sulla destra.
“Li
ho visti!” –Le rispose al volo la nuova compagna, balzando agilmente indietro,
schivando una lancia, che si piantò in mezzo alle sue gambe, e usandola poi
come trampolino per saltare ancora più in alto e liberare i suoi raggi di
energia.
Matthew
perse qualche secondo ad ammirare le sue curve snelle e perfette, fin quando il
grido di un Phonoi non lo distrasse, facendolo
chinare giusto in tempo per evitare che la sua testa fosse mozzata. Un pugno al
ventre fece accasciare il suo nemico e un calcio lo scaraventò addosso ai
sopraggiunti compagni, mentre la cintura dell’armatura di Matthew si illuminava
ed egli dirigeva un variopinto arco di luce contro i nemici.
“Così
non funziona! Stiamo perdendo troppo tempo, siamo stanchi e non abbiamo
attacchi ad ampio raggio!” –Borbottò, mentre Elanor, recuperata una picca da un
defunto avversario, la roteava per frenare un affondo nemico e poi piantarla in
un pettorale già danneggiato.
“Cosa
proponi?” –Gli domandò allora.
“Tenetevi
pronti!” –Intervenne Thot, che con un vortice di
sabbia aveva appena sgominato una decina di Phonoi.
Quindi espanse il proprio cosmo, sollevando un dito al cielo e scagliando un
raggio di luce verso stelle lontane, di fronte agli occhi sgranati di Matthew
ed Elanor. –“Dono del cielo!!!”
–Tuonò il Dio, mentre una fitta pioggia di strali dorati iniziava a cadere
sulle teste dei nemici, moltiplicandosi in una raggiera che presto assunse una
forma a tutti nota.
“Sono… piramidi di cosmo…”
–Mormorò il Cavaliere dell’Arcobaleno, mentre centinaia di massicce costruzioni
apparivano sopra le teste dei Phonoi, obbligandoli a
gettar via le armi e a sollevare le braccia per afferrarle e non esserne
schiacciati. Qualcuno tentò di fuggire, di evitare l’onere della prova, ma
venne pestato a terra da una nuova piramide comparsa sopra di lui, e mentre i Phonoi faticavano a sorreggere le costruzioni, tentando invano
di scagliarle di lato, ecco che di nuove ne comparivano, un secondo livello che
andava a poggiare sulle prime evocate, aumentando il peso cui gli indesiderati
Atlanti erano costretti.
“Ora!!!”
–Tuonò il Nume, mentre Matthew e Elanor iniziavano a sfrecciare attorno al
mucchio di nemici, liberando i loro colpi segreti. Le Croci di Luna e l’Arcobaleno
incandescente falciarono la vita di numerosi Phonoi,
incapaci in quel momento di difendersi, e i fortunati che furono feriti solo di
striscio persero comunque l’equilibrio o si indebolirono, finendo schiacciati
dalle piramidi. Un terzo livello di costruzioni, ulteriormente innalzato da Thot, mise fine per sempre alla loro esistenza, concludendo
la faticosa battaglia.
“Bene!”
–Commentò il Cavaliere di Avalon, gettandosi a sedere sul suolo lunare, stanco
per il procrastinarsi di quella lotta. Anche Elanor era esausta, per quanto
avesse dato prova di notevole resistenza, non avendo mai combattuto fino ad
allora.
Se la cava persino meglio di me. Sorrise Matthew, fissandola. Forse troppo a lungo, a
giudicare dallo sguardo scocciato che la ragazza le rivolse mentre gli
camminava davanti, per andare a parlare con Thot.
Matthew se ne accorse e chinò il capo, arrossendo imbarazzato.
“Mani
è in pericolo! E il cosmo di Shen Gado è scomparso!
Qualsiasi cosa sia accaduta al Cerchio di Saturno, hanno bisogno di aiuto!”
–Parlò il Custode dell’anello di Giove.
“Vengo
con te!” –Esclamò subito Elanor, ma Thot la pregò di
restare con Matthew e riposarsi. –“Non chiedere troppo a te stessa!” –Ma le
raccomandazioni paterne del Dio furono disturbate da un frusciare improvviso,
che anticipò l’arrivo di una decina di lame rotanti, ultimi residui di asce
spezzate nella battaglia. –“Attenta!” –Gridò Thot,
spingendo la primogenita di Selene a terra e venendo
colpito ad una spalla. Una seconda ascia gli schiantò il bastone d’oro, mentre
una terza lo raggiunse sull’avambraccio destro, scheggiando la già provata
corazza divina. Le altre vennero annientate dall’esplosione del suo cosmo, che
sollevò una nube di polvere lunare, in mezzo alla quale una ridanciana figura
femminile apparve poco dopo.
Matthew
la riconobbe subito. Era la donna cui Alala berciava i suoi ordini, una delle
comandanti dell’esercito dei Signori della Guerra. Non ne ricordava il nome, ma
di certo era una Makhai.
“Homados!”
–Esclamò la giovane alta e snella, carezzandosi i capelli viola. –“Spirito del
tumulto e del rumore in battaglia!”
“Ancora
qua? Credevo avessi seguito tua sorella al Cerchio di Marte!” –Incalzò Thot, tenendosi il braccio ferito e fermando con il cosmo
l’emorragia di sangue.
“Punto
primo: lei non è mia sorella. Alala è… una parente
acquisita, se così possiamo definirla. Le mie sorelle sono Kydoimos,
Palioxis e Proioxis. Anche
se forse dovrei dire erano, quantomeno per due di loro! Umpf,
stupide e deboli, farsi sconfiggere da esseri umani equivale a stuprare il
proprio status divino!”
“Bastarda,
non provi amore neppure per le tue sorelle morte?!” –Ringhiò Matthew, rimessosi
in piedi, subito affiancato da Elanor.
“Quale
amore puoi dare a un cane che si morde la coda da solo?” –Rise la donna, prima
di chiarire il secondo punto. –“E… no. Ho preferito
aspettare la conclusione del vostro scontro, osservarvi di nascosto, vedere i
vostri colpi segreti, il modo in cui combattete, per carpire le vostre
debolezze! Adesso che mi è chiaro che neppure in tre potete sfiorare la lontana
possibilità di vincermi, vi affronterò!”
“Codarda!!!”
“Astuta,
direi! Ah ah ah!” –Sghignazzò Homados, espandendo il
proprio cosmo. Thot fece altrettanto e Matthew ed
Elanor lo videro assumere la stessa posa di poc’anzi, quando aveva evocato le
piramidi di cosmo.
“Dono del cielo!” –Esclamò infatti il
Dio a gran voce, mentre un’enorme Mer egizia appariva
sopra la Makhai, ancora più grande e poderosa di quelle che avevano seppellito
i Phonoi.
Ma
la figlia di Eris non ne fu per niente sconvolta,
anzi non alzò neppure lo sguardo, limitandosi a sorridere con perfidia e a
pronunciare parole che i ragazzi non riuscirono a comprendere. D’improvviso,
tutt’intorno a Homados, sorsero alte mura di cosmo violetto, su quattro lati, e
sulla sommità di quel cubo una nuova identica costruzione, seppure più piccola,
che andò a incastrarsi tra quella che circondava la Dea e la piramide che stava
precipitando su di lei.
“Migdalbavel!”
–Esclamò Homados, mentre dal quadrilatero di energia che la attorniava schizzò
fuori un nuovo cubo, sfrecciando verso Thot e
investendolo in pieno, scaraventandolo molti metri addietro, con l’armatura
danneggiata e lo scettro ormai distrutto.
“Migdal… cosa?!” –Balbettò Matthew, che non aveva capito
niente.
“La
Torre di Babele! È ebraico!” –Mormorò Elanor al suo fianco, mentre la
costruzione di cosmo violaceo cresceva ancora di un piano, distruggendo la
piramide di Thot e ergendosi fiera di fronte a loro,
quasi volesse sfidare il cielo.
“Conoscete
la leggenda dell’antica costruzione di Babele, non è vero, ragazzini inesperti?
Rappresenta la suprema arroganza della razza umana, così infima e lurida, che
pretese, accostando un po’ di mattoni e bitume, di arrivare al cielo, di
elevarsi fino a raggiungere Dio! Umpf, quale
arroganza!” –Esclamò fiera Homados. –“Il cielo punì gli uomini, disperdendoli,
e allo stesso modo io punirò voi, che di tale specie siete misera rappresentanza!
Addio! Migdalbavel!!!”
Un
enorme cubo di energia saettò verso il Cavaliere delle Stelle, che niente poté
fare se non afferrare Elanor e offrire la schiena al poderoso assalto, in modo
da proteggerla. Strinse i denti, preparandosi all’impatto, che fu ben più
doloroso di quanto credesse, scaraventando entrambi molti metri addietro, in un
groviglio di corpi feriti, schegge d’armatura e polvere.
“Molto
bene! Pare che qua non ci sia altro da fare!” –Commentò la Makhai, scuotendosi
le mani dalla sabbia e osservando compiaciuta lo sfacelo del Quinto Cerchio.
Quello che un tempo era stato un deserto di sabbia, costellato da attente
ricostruzioni delle antiche Mer egizie, era adesso un
campo di battaglia ove acre imperava l’odore del sangue. Homados sogghignò,
inspirandolo a pieni polmoni, nutrendosi di quell’aroma così inebriante, così
fortificante, così suo! Quindi si incamminò in mezzo ai cadaveri dei Phonoi, senza degnarli di uno sguardo, diretta verso il
varco che conduceva all’infuocato Cerchio di Marte, ove il cosmo di Alala stava
esplodendo di continuo. Qualunque cosa stesse accadendo, la Regina delle Makhai
sembrava aver incontrato impreviste difficoltà contro quel bizzarro Cavaliere
dai capelli rosa. Che sia stata
stritolata dai suoi catenacci? Si chiese, fermandosi e soppesando la
situazione.
Palioxis
e Proioxis erano già morte, Kydoimos
stava ancora combattendo ma anche il suo cosmo baluginava fioco. Restava solo
Alala dei cinque gloriosi Spiriti della Battaglia! Perché avrebbe dovuto
soccorrerla? Che se la sbrigasse da sola quella bastarda! Oltretutto non era
neppure sua sorella, era la figlia di Polemos, antico
demone della battaglia che da sempre mirava a prendere il posto di Ares come
Signore Supremo delle Armate della Guerra. E di certo, se quell’eventualità
fosse occorsa, Polemos avrebbe sostituito le Makhai
con altri guerrieri a lui fedeli. Quindi perché rischiare? Perché immischiarsi
in una battaglia già in corso? No, non era affatto nel suo stile. Lei non era
come Kydoimos, che doveva sempre rispondere alle
provocazioni, o come Proioxis, che a uno scontro
diretto non poteva dire di no. Lei lasciava correre, limitandosi ad osservare e
a intervenire solo quando i giochi erano iniziati, e la sorte stesse volgendo a
suo favore.
Così
prese la sua decisione e iniziò a correre in un’altra direzione, lungo l’antica
Via Maestra, certa che, se il Custode del Cerchio di Marte era impegnato ad
affrontare le Androctasie e i Phonoi
che avevano varcato il buco aperto da Alala, nessuno avrebbe presieduto il vero
passaggio. E lei avrebbe avuto via libera fino al Cerchio della Terra. Il terzo anello. Solo tre e sarebbe
giunta a palazzo, forse sarebbe stata l’unica ad arrivarci. E a quel punto, con
Alala e le sue sorelle morte, avrebbe ucciso quella patetica Divinità lunare
greca e il suo efebico sposo e sarebbe divenuta la nuova Regina delle Makhai, e
perché no, Signora della Guerra e Supremo Comandante. Avrebbe anche sposato
quel fanatico di Polemos pur di arrivare in maniera
facile a quella posizione! Scoppiò a ridere, nel silenzio di quello strano
mondo lunare, continuando a correre verso il varco per il Cerchio di Marte.
***
Matthew
giaceva ferito tra le sabbie, con un taglio aperto sulle sopracciglia che gli
imbrattava l’occhio destro, appannandogli la vista. L’udito credeva di averlo
perso un paio di volte nell’affrontare quelle infoiate delle Makhai. Tante
quante era stato travolto, atterrato, sballottato in aria e per terra dagli
assalti di nemici che non era forte abbastanza da affrontare. Persino i Phonoi, quelle macchine prive di coscienza, sembravano
disporre di una preparazione bellica superiore alla sua. Forse, si disse,
Avalon aveva sbagliato ad affidargli quella missione. Sarebbe dovuto rimanere
sull’isola, a prendersi cura del vecchio dalla barba bianca, e lasciare il
posto ad Ascanio, che di certo avrebbe onorato il
titolo in maniera molto più degna di lui.
Più
forte, più fiero, più distaccato, il Comandante Ascanio
avrebbe asfaltato ognuna di quelle streghe, anziché farsi sbattere a terra come
un cencio, farsi salvare da un Dio vestito da un uccello estinto e da una
ragazzina in preda a adolescenziali turbe suicide. Come prima missione è stata un successo! Ironizzò, cercando di
tossire, la bocca impastata da grumi di sabbia e sangue.
“Ogni
cosa ha un principio!” –Esclamò allora una voce, risuonando direttamente nella
mente del ragazzo. –“Non esisterebbero i mari se non vi fossero i fiumi che
danno loro acqua, e cosa ne sarebbe dei fiumi se non avessero sorgenti che li
generassero? Anche una montagna senza la terra che la compone sarebbe poca
cosa, forse niente. E che dire dell’uomo, se non avesse un cuore, come potrebbe
alzarsi e combattere? Come potrebbe bruciare il proprio cosmo, così
ardentemente, se non sapesse perché e per cosa sta combattendo?”
“Ma…maestro…” –Rantolò Matthew.
–“Mi…dispiace… vi ho
deluso.”
“E
perché mai? Per aver preso qualche cazzotto e danneggiato una corazza che può
essere riparata?”
“Per
aver fallito.”
A
quelle parole, Avalon non rispose. Così Matthew continuò a parlare al suo
cosmo. –“Volevo… proteggere Elanor, volevo che la sua
vita non fosse rovinata dal sapore del sangue, dal sudore della battaglia e dal
dolore della perdita, come lo è stata la mia, e quella di molti altri Cavalieri
o aspiranti tali. Volevo difendere la sua purezza, sperando che potesse
rimanere fuori da tutto questo, salvarle la vita, come non fui in grado di fare
con Miha! Sono stato sciocco e debole…”
“Eppure
è per questo che sei voluto diventare un Cavaliere! Per questo ha risvegliato
il Talismano che custodivi nel cuore, per impedire che altri soffrissero quanto
tu hai sofferto, per evitare che perdessero qualcuno che amavano! Non è così,
Matthew? E allora, se è così, alzati e lotta, e dimostralo! Non a me, che già
lo so, ma a te stesso! Dimostra di essere in grado di proteggere davvero
qualcuno!”
“È… tardi ormai.”
“Non
è mai troppo tardi per lottare!” –Chiosò Avalon, donando una stilla di cosmo al
giovane Cavaliere, che iniziò a muovere le dita anchilosate, a strizzare gli
occhi e a tentare di sollevarsi a fatica.
“Ormai… Homados sarà già al cerchio di Marte…”
“Di
questo posso occuparmi io, con l’aiuto di un tuo vicino amico!” –Sorrise il
Signore dell’Isola Sacra, prima di scomparire. Quando Matthew si rimise in
piedi, vide Thot, già rialzatosi, che lo fissava con
sguardo severo. Quindi il Nume tirò un’occhiata in lontananza, lungo l’anello
da lui difeso, per poi riportarlo su di lui e allungare una mano per aiutarlo a
alzarsi.
***
Homados
correva da quasi dieci minuti lungo l’anello di Giove, avanzando tra la sabbia
e le piramidi. E nient’altro. Un vero e proprio deserto trasferito sul
satellite terrestre. Mugugnando per la noia, la Makhai non perdeva di vista
l’alto muro di sabbia lunare alla sua sinistra, per individuare il passaggio
per il Cerchio di Marte. Sapeva bene quanto potessero essere celati, quei
varchi, mimetizzati nel paesaggio al punto da sembrare fenditure naturali, per
questo prestava molto attenzione. Ma dopo altri dieci minuti le sembrò
piuttosto strano non averlo ancora trovato. Per la velocità sostenuta, era di
certo già arrivata dall’altra parte del regno, ed infatti percepiva i cosmi di
Alala e Kydoimos molto distanti. Stranita, rallentò
l’andatura, certa che il passaggio sarebbe comparso entro breve. Tutta intenta
ad osservare il muro di confine non si accorse di un avallamento del terreno e
ci ruzzolò dentro, rotolando tra improperi e maledizioni. Subito si scosse,
balzando fuori dall’imprevisto cratere, salvo accorgersi di essere sporca di
sangue. Non suo.
Stupefatta,
sollevò lo sguardo e vide gruppi di uomini, rivestiti da corazze scarlatte,
giacere scompostamente a terra. Una carneficina che ben conosceva, avendovi
preso parte poco prima.
“Non… è possibile!” –Si disse, riconoscendo, poco oltre, i
corpi inermi di Thot, Matthew e della ragazza. –“Sono
tornata al punto di partenza! È assurdo!”
Quasi
non riusciva a crederlo, ma aveva compiuto un intero giro dell’anello senza
trovare il passaggio. Eppure ho prestato
attenzione! Non può essere così piccolo da non essere notato a occhio nudo!
Ringhiò, riprendendo a correre, stavolta più vicina alla parete di sabbia
lunare e ripercorrendo il cerchio di Giove una seconda volta, per poi
ritrovarsi nel luogo dove aveva affrontato il Selenite e i suoi compagni.
“Incredibile!!!”
–Sbuffò, adirata, fermandosi un attimo per riflettere. E accorgendosi che il
varco aperto da Alala con il suo grido di guerra era sparito. –“Il muro… è intonso! Come se niente l’abbia sfiorato! Assurdo! Eppure… percepisco il suo cosmo accendersi nel Quarto
Cerchio!!! E io non posso raggiungerla!!! Maledizione! Che inganno è mai
questo?” –Ringhiò, iniziando a prendere a pugni la massiccia muraglia, sfogando
quella frustrazione improvvisa. Poi si calmò, imponendosi di rimanere lucida e
iniziando a camminare, prima a passo lento, poi sempre più veloce, continuando
a cercare quel passaggio nascosto.
Ad
un certo punto dovette fermarsi bruscamente, poiché tre piramidi le sbarravano
la strada. Una cintura che prima non poteva esserci. E dietro quelle tre,
Homados ne vide altre, intrecciate in modo da coprirle ogni possibilità di
dirigersi in quella direzione. Sconvolta, si voltò indietro e vide che anche su
quel lato erano sorte d’improvviso delle rozze costruzioni di pietra, e altre
ne stavano sorgendo, davanti a lei, dietro di lei, riducendo sempre di più lo
spazio a sua disposizione.
“Questi
trucchi, con il mio genio, non funzionano!!!” –Urlò, infastidita oltre ogni
dire –“Migdalbavel!” –E
ricreò la Torre di Babele attorno a sé, scagliando blocchi di energia cosmica
contro le piramidi attorno, distruggendole una ad una, per quanto di nuove
continuassero a spuntare dal terreno. L’ultima deflagrazione di energia fu così
potente da annientare tutte le costruzioni attorno, e persino un pezzo del muro
che separava il Quinto Cerchio dal Sesto. Ma del varco per l’anello di Marte
ancora nessuna traccia.
“Gran
genio, in verità! Ha avuto bisogno di quasi tre giri per subodorare la
trappola!” –Rise improvvisamente una gioviale voce maschile, attirando l’attenzione
della Makhai, che sgranò gli occhi nel ritrovarsi tre figure di fronte, tre
figure che, a suo credere, dovevano essere morte.
“Voi?!
Ma come avete fatto?!”
“I
vantaggi di avere Avalon come maestro!” –Ironizzò Matthew, al centro della
linea di sbarramento, costituita anche da Thot, alla
sua sinistra, e da Elanor, a destra.
“Dunque
è stata tutta un’illusione! Un trucco mentale di quel pusillanime burattinaio!
Credevo di correre invece sono rimasta sempre nello stesso punto!”
“Tutt’altro!
Hai corso davvero attorno al reame, ma non hai mai trovato l’uscita dall’anello
di Giove né mai la troverai!” –Commentò Thot,
avanzando di un passo, avvolto nel suo cosmo dorato, che infine calò
d’intensità, mentre alcune forme del paesaggio iniziavano a mutare. Tutte le
piramidi del Quinto Cerchio scomparvero e anche il suo suolo si fece brullo e
arido, come i satelliti lo mostravano alla Terra. –“Non serve più che finga di
essere in Egitto!”
“Thot?!” –Mormorarono Elanor e Matthew, mentre il Dio si
voltava a fissarli con gli occhi lucidi.
“In
fondo è sempre stata solo una grande finzione…
pensare di vivere in sempiterna pace…” –Aggiunse,
accennando un sorriso, prima di riportare lo sguardo sulla Makhai. –“Hai perso,
spirito della battaglia! Puoi fare tutto il rumore che vuoi, tutto il frastuono
che la tua collerica voce potrà produrre, ma mai, e ti ripeto mai, varcherai la
soglia che conduce al Cerchio di Marte! Essa è celata dal mio cosmo divino, che
ha smosso le sabbie lunari nascondendola a te e a coloro che dopo di te
dovessero venire!”
“Pfui! Abbatterò questi mucchietti di sabbia con la mia
Torre di Babele! Non sei Dio sapiente a sufficienza per prevederlo?”
“Non
ti sarà facile!” –Sibilò il Nume, espandendo al massimo il proprio cosmo. No, ripeté tra sé, mentre la maestosa
sagoma di un ibis ad ali spiegate compariva alle sue spalle, rilucendo contro
il cielo stellato, tra poco non ti sarà
affatto facile!
“Thot!!!” –Gridarono Matthew ed Elanor, che avevano compreso
quel che il Selenite voleva fare.
“Fatti
avanti, strega! Thot non ti teme! Questo sarà
l’ultimo volo dell’ibis sacro!” –Declamò a gran voce, il cosmo ardente tutto
attorno al suo corpo. –“Sommo Ra, in vostro nome combatto!!! Volo dell’Ibis!!!” –E sfrecciò verso
Homados, le ali spumeggianti di energia cosmica, avvolto in un turbinio di
sabbia che si abbatté sulla Makhai, disturbandone la visuale e impedendole di
difendersi completamente.
Il
contraccolpo scagliò Matthew ed Elanor indietro, sollevando nuvole di polvere.
Quando queste si diradarono, i ragazzi poterono vedere Homados camminare a
fatica, le braccia chiuse e appoggiate sul ventre ferito, sul volto
un’espressione terribile, di dolore e al tempo stesso rabbia. Ai suoi piedi,
immobile e spento, il corpo di Thot, la testa piegata
in una posa innaturale, l’armatura in buona parte distrutta. Che fosse morto lo
avevano già capito dall’esplosione del suo cosmo, fuso ormai adesso con le
sabbie lunari.
“Bas… tardo!!!” –Ringhiò la Makhai, calando il tacco sul
cranio del Dio e sprofondandolo con un sol colpo nel terreno. A tal vista,
Matthew ed Elanor si scambiarono un’occhiata veloce, annuendo entrambi, prima
di lanciarsi avanti.
Era
giunto il loro momento di combattere!
***
Una
folata di vento le solleticò il viso, strappandole un brivido di freddo e
scuotendola dal sonno. Stordita, si girò confusamente su un lato, accorgendosi
di essere su una branda, piuttosto vecchia e usurata a giudicare dalla durezza
e dalle molle che tendevano ad emergere. Strizzando gli occhi, mise a fuoco
l’immagine della stanza in cui si trovava, spartana e piena di spifferi, ma
certamente diversa dall’idea di inferno che si era fatta, e capì di non essere
morta.
Una
brocca d’acqua su un cassettone vicino al letto, due fette di pane abbandonate
e vestiti puliti piegati su una sedia di legno. Doveva trovarsi nella camera di
un’antica magione, forse un castello, a giudicare dal pavimento e dalle mura di
pietra e dall’assenza di qualsiasi tocco di modernità. Le ampie finestre
arcuate garantivano la luminosità e il ricambio dell’aria e poco distante, a
giudicare dal sordo scrosciare, pareva scorrere un fiume. O comunque un corso d’acqua. Si disse Tisifone,
sollevando la schiena dalla branda e cercando di capire dove si trovasse.
E
soprattutto perché.
L’ultimo
ricordo che aveva, l’ultimo che era riuscita a recuperare dagli abissi
annacquati della sua memoria, era la vista di una nave che affondava, distrutta
da una violenta esplosione cosmica. E poi c’erano quelle strane guerriere dalle
lunghe gambe, e Cliff che sparava a una di loro, il
sangue, il comandante massacrato e un manufatto di cui aveva sentito soltanto
parlare. Perché? Non poté evitare di
chiedersi.
“Ti
sei svegliata, finalmente!” –Esclamò una voce femminile, interrompendo i suoi
pensieri. –“Credevo avessi intenzione di dormire altri due giorni!”
Di
scatto si voltò verso la porta, tirando su la coperta per coprire il suo seno,
sorpresa e imbarazzata. Probabilmente più sorpresa, che imbarazzata.
In
fondo la donna che aveva appena parlato, e che era appena entrata nella stanza
con una scodella ripiena di un liquido fumante, doveva averla vista nuda molte
volte, vent’anni addietro, quando aiutava la madre a lavare la sorella minore.
“Eppure,
da piccola, eri quella che più faceva disperare nostra madre, non volendo mai
dormire!” –Continuò, poggiando la ciotola sul mobile accanto al letto e andando
poi a sedersi sulla sedia di legno. –“Sei sempre stata inquieta, non è vero, Tisifone?”
“Ma
tu… Morgana?!” –Scosse la testa la sorella, faticando
a associare quel nome alla donna seduta di fronte a lei. Non soltanto perché
erano passati quindici anni dal loro ultimo incontro, ma specialmente perché
credeva fosse morta.
Capitolo 22 *** Capitolo ventesimo: Quarto interludio. Sole. ***
CAPITOLO VENTESIMO: QUARTO INTERLUDIO.
SOLE.
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Tempo: ignoto. Mondo Antico.
“Ne
siete davvero sicuro, padre?”
La
delicata voce di Febo raggiunse il possente Dio
mentre apriva i portoni del suo privato santuario, costringendolo a fermarsi.
Il ragazzo non aggiunse altro e per qualche minuto restarono entrambi in
silenzio, finché, con un sospiro, Amon Ra non si
voltò, fissando il ragazzo al centro della sala ipostila. Dallo sguardo fiero e
dal nobile portamento, quel giovane dai capelli biondi era suo figlio, anche se
a volte faceva fatica ad accettarlo. Perché pensarlo come tale, come risultato
di una sua scelta, lo rendeva colpevole, riaprendo ferite che non si erano mai
rimarginate. Ferite che, a distanza di anni, bruciavano ancora nell’animo del
Dio.
“Conosci
i motivi che mi hanno portato a questa scelta! Sofferta, di certo, ma maturata
nel corso di anni che hanno visto appassire questa bella Terra e inaridire
l’appassionata devozione degli uomini verso gli Dei.” –Rispose il Signore di
Karnak.
“La
fedeltà del popolo può essere ottenuta di nuovo, padre! Se deste loro un segno,
se ricordaste agli uomini quanto avete fatto per loro…”
“Non
cambierebbe niente!” –Esclamò serio Amon. –“Ci hanno
tradito, abbandonato, dimenticato! Molti seguono persino culti oscuri, nascosti
tra le ombre di antiche piramidi dentro cui l’Occhio di Ra non può penetrare!”
“Dove
non vuole entrare!” –Precisò Febo. –“Quando ero un
bambino, e Iside mi cullava raccontandomi la storia della sua famiglia e
dell’Enneade, più volte amava rimarcare che non esistesse niente a questo mondo
che Ra non potesse vedere, niente che potesse essere celato al Pastore
dell’Universo! Questo perché non esiste luogo sulla Terra ove i raggi del sole
non possono giungere, non può esistere nube, nebbia o tenebra che non possano
trafiggere e vincere!”
“Un
tempo, forse. Adesso è tutto cambiato…” –Sospirò il
Dio.
“No,
voi siete cambiato, padre! Voi avete smesso di credere! Negli uomini, negli
altri Dei vostri fratelli e compagni, e anche in voi stesso, nelle vostre
capacità! Come potete essere il sole che illumina il mondo se non riuscite a
dare luce neppure al vostro stesso tempio? Guardate questo salone immenso, che
anni addietro ospitava ricevimenti e giochi! Adesso sprofonda nella polvere
dell’oblio, celato da infissi che nessuno apre più! Uscite fuori, con me!
Torniamo a correre nel deserto, a respirare l’aria del mondo, visitando gli
antichi templi e le Mer erette in vostro onore!”
“Tu
non capisci!” –Commentò Amon Ra, scuotendo la testa.
–“Tu non sai!”
“Invece
sì. Iside me ne ha parlato, e comprendo di essere parte in causa nella vostra
sofferta decisione! Voi state rinunciando a vivere per colpa mia!”
“Questo
non devi dirlo!” –Tuonò il Dio, avvampando nel suo cosmo e scagliando il
ragazzo indietro, fino a schiantarlo contro una colonna del salone. –“E Iside
doveva stare zitta! Farti da nutrice doveva, non da confidente!”
“E
lo ha fatto! Come tu mi hai fatto da padre, sebbene…”
“Non
lo volessi?! È questo che pensi, Febo? Che io ti
accusi per la mia caduta, che ti incolpi per la decadenza di Karnak e la
derisione di cui sono stato fatto oggetto? Se lo credi, sei libero di
andartene! Esci dal Viale delle Sfingi e non tornare più!”
“Non
è quello che voglio!”
“E
allora cosa vuoi, Febo? Perché non mi lasci andare?!”
–Gridò il Dio.
“Voglio
la verità! Cos’è accaduto… quella notte?!”
***
L’attacco
di energia infuocata investì in pieno l’enorme sfinge, distruggendo la sua
faccia e facendo piovere frammenti di pietra sui soldati sotto di essa,
obbligandoli a correre in ogni direzione per non essere travolti.
“Riformate
le linee! Non arretrate! Per il Sole e per Karnak!!!” –Gridò una voce,
incitando i compagni a rimanere uniti, per fronteggiare l’aggressione. Era
notte fonda e non fosse stato per il cielo terso, su cui lampeggiava il disco
lunare, non li avrebbero neanche sentiti arrivare, tanto silenziosi e veloci
erano discesi su di loro.
Arrivarono
dall’alto, su un carro trainato da cavalli bianchi, i cui zoccoli fendevano
l’aria, camminando su un sentiero del cielo, un sentiero che dal Monte Elicona aveva raggiunto in fretta l’Egitto.
“Fuoco della corona!!!” –Tuonò un
guerriero avvolto in un cosmo amaranto, prima di dirigere una violenta bomba di
energia incandescente contro il gruppo di Soldati del Sole disposti in prima
linea, a chiudere l’accesso al Viale delle Sfingi che conduceva al Tempio di
Karnak.
“Artiglio luminoso!!!” –Gli fece eco un
secondo combattente, dilaniando con fauci di fuoco i pochi sventurati che erano
riusciti a resistere al primo assalto. Quindi, osservando compiaciuti la
carneficina generata, entrambi i guerrieri si misero di lato, lasciando che un
uomo alto e snello, dai capelli azzurri, passasse tra loro, incamminandosi a
passo deciso lungo il viale.
Un’ulteriore
pattuglia di soldati si fece loro incontro, le vesti verdi e oro che brillavano
al riflesso delle loro spade, rivestite da una vivida fiamma. –“Fermi dove
siete!!! Non un passo di più nel Santuario del Dio del Sole o ne assaggerete
l’ira!!!”
“Ah!
Quale eresia! Minacciare me, Febo Apollo, facendosi
vanto di un ruolo che mi appartiene?!” –Avvampò l’uomo alto e snello, sgranando
gli occhi, prima di sollevare la mano destra e liberare un’onda di energia che
travolse tutti i difensori del tempio.
“Mio
Signore! Attento!” –Gridò allora uno dei suoi seguaci, mentre un’ombra veloce
guizzava su di loro, rimbalzando tra le tenebre fino a piombare sul Dio a gamba
tesa.
“Adesso
non esagerare!” –Esclamò un’acuta voce di donna. –“Se anche tu sei una Divinità,
dovresti sapere che non è educazione violare un sacro suolo di culto,
soprattutto se quel luogo è la culla del più grande potere sulla Terra! La
culla dove nasce il sole d’Egitto!”
“Umpf! Ardita e temeraria, donna!” –Commentò Febo Apollo, evitando l’affondo nemico semplicemente
spostandosi di lato. Fece per sollevare il braccio destro ma già la figura
femminile si era mossa, espandendo il proprio cosmo e generando una collisione
tra energie che spinse entrambi indietro di qualche passo. –“Ma te lo concedo
in virtù del tuo rango divino!”
“Mi
hai riconosciuto, dunque?! Sono sorpresa!” –Ironizzò lei, effettuando un agile
salto e una piroetta con cui atterrò a qualche metro di distanza.
“Bastet, la Dea gatta! È mia abitudine documentarmi sui
nemici!”
“È
ironico che sia tu a definirmi tale, Febo Apollo! Tu
che hai invaso il sacro suolo d’Egitto con i tuoi sgherri, recando danno e
offesa al Signore del Sole!”
“Bada
a come parli, donna! Noi siamo i Cavalieri della Corona, i sacri guerrieri
fedeli ad Apollo, l’unico e vero Dio del Sole!” –Tuonò allora un uomo della
scorta, facendosi avanti nel suo cosmo amaranto. –“Io sono Atlas,
della Carena! E se non vuoi che il tuo grazioso corpo si ritrovi ad ardere su
una pira funeraria ti consiglio di obbedire al mio Signore e dargli ciò per cui
siamo venuti!”
“Una
bella lezione di umiltà inizierò a darla a te, Atlas
della Carena!” –Rispose allora la Dea gatta, scattando avanti velocemente e
generando un reticolato di energia con il veloce movimento delle dita. La
gabbia energetica si chiuse sul Cavaliere della Corona, stridendo su una
barriera fiammeggiante che aveva prontamente eretto a sua difesa, ma un
rinnovato assalto della Dea la mandò in frantumi, permettendo agli artigli
della gatta d’Egitto di affondare nel ventre del guerriero di Apollo. –“La tua
nave è giunta all’ultimo porto.” –Sibilò, trapassandogli lo stomaco con
l’intero braccio e lasciandolo poi a terra sanguinante.
“Ora
basta!!!” –Tuonò Febo Apollo, sollevando Bastet con una presa psicocinetica
e scaraventandola indietro, fino a schiantarla contro la facciata del tempio di
Karnak.
“Dovremmo
essere noi a dirlo!!!” –Esclamarono allora cinque voci all’unisono, mentre
nuove figure scattavano sugli aggressori, provenendo da ogni direzione. Cinque
attacchi che obbligarono il Dio del Sole e i suoi accoliti a rifugiarsi dietro
una barriera che Apollo sollevò, una cupola di energia simile alla corona
solare, su cui gli assalti si schiantarono, sebbene il più potente, quello
proveniente dall’alto, la mandò poi in frantumi. –“Se guerra portate, guerra
riceverete!” –Chiosò un uomo, atterrando di fronte agli invasori, mentre le ali
della sua corazza grigia si ripiegavano lungo la schiena. –“Parola di Horus e
dei suoi figli!” –Aggiunse, venendo attorniato da quattro guerrieri in
armatura.
“Ciò
che vorrei ricevere, Dio Falco, è quel che mi spetta di diritto! Quel che mi è
stato rubato, circuito, portato via! E, per tale offesa, sono disposto a
scatenare ogni guerra che quest’arida terra sarà in grado di sopportare, finché
giustizia non sarà fatta e la mia sete di vendetta saziata!!!” –Tuonò Febo Apollo, espandendo il proprio cosmo, così vasto e
potente che spaventò i quattro che accompagnavano Horus.
“Cosa
ti è stato portato via?”
“L’Oracolo!!!”
–Sibilò il Dio, prima di scatenare una tempesta di energia ardente, che investì
il giovane Falco e i suoi figli, gettandoli a terra molti metri addietro. –“La
mia celebrante, la donna che più di ogni altra mi dava forza con la sua fede,
con la sua poesia! La mia decima musa! La musa della devozione e dell’amore
incondizionato!”
“Lo
sono ancora!” –Parlò infine una debole voce di donna, obbligando il Dio greco e
i suoi seguaci a sollevare lo sguardo verso l’ingresso del complesso templare,
dove un’esile figura era appena apparsa. –“Sono ancora fedele a voi, mio
Signore, mio luminoso Signore del Sole!”
“Hannah…” –Mormorò Febo Apollo,
osservando la Sacerdotessa di Delfi camminare a fatica, tenendosi una mano
sulla pancia, rigonfia e ormai prossima al parto. –“Da quel che vedo… non è così!” –Commentò schivo, spostando lo sguardo.
“Mio
Signore, voi mi uccidete…io…
non lo merito…”
“No?!”
–Avvampò il Dio, il volto arrossato dalla collera.
“No!!!”
–Rispose una terza voce, risuonando nella notte d’Egitto e ridestando tutti i
presenti. Bastet, Horus e i suoi figli si rimisero
prontamente in piedi, avvolti da una luce calda e armoniosa che proveniva dal
cuore del regno, l’unico vero sole a cui amassero ristorarsi.
“Finalmente
ti mostri, ladro di Oracoli!” –Sibilò Febo Apollo, mentre
un’alta figura, rivestita da una luminosa Veste Divina si affacciava sul
portone di Karnak, impugnando un lungo scettro con il manico piegato. –“Amon Ra, usurpatore di un titolo che con questo atto hai
oscurato!”
“Quale
atto, Apollo? Amare? Non è a questo che servono gli Dei? A insegnare agli
uomini ad amare, con la loro benevolenza?!” –Rispose pacato ma fermo il Dio
egizio.
“Non
osare insegnarmi! Non tu, che hai violato il mio santuario, impossessandoti del
mio bene più prezioso, senza rispetto alcuno per la mia persona!”
“Vedo… che in realtà è una persona che merita davvero poco rispetto…” –Mormorò Amon Ra,
suscitando la collera del figlio di Zeus, che aprì il palmo della mano
sollevando un’onda di energia che fagocitò in fretta l’intero viale, distruggendo
sfingi e monumenti sacri, fino ad abbattersi sul complesso templare, in una
nube di polvere e sabbia.
Quando
l’ammasso fumoso si diradò, e i Cavalieri della Corona già marciavano avanti,
convinti di dare il colpo di grazia ai nemici malridotti, dovettero frenare i
loro passi, accorgendosi non soltanto che Karnak era ancora in piedi, ma anche
che i suoi occupanti non avevano riportato danno alcuno. Riparati da un velo
luminoso che Amon aveva prontamente eretto a difesa
della sua dimora, Bastet, Horus e i suoi figli, si
ergevano a protezione del loro Dio e della Sacerdotessa di Apollo, stretta al
corpo dell’uomo di cui perdutamente si era innamorata, dell’uomo che le aveva
dato calore.
“Puoi
riprovare.” –Commentò Amon Ra, espandendo il proprio
cosmo e concentrandolo sul djam, prima di scagliare
un violento raggio di energia contro il carro del sole, distruggendolo. –“Ma
dubito che il risultato sarebbe differente!”
“Questo
non appaga la mia ira, né rende grazie all’affronto che ho subito! Ma se non posso
piegarti con la forza, maledetto Dio egizio, io ti vincerò con la pazienza!”
–Sibilò Febo Apollo, recuperando un tono di voce
calmo e distaccato. –“La mia maledizione cade su di voi, che vi porti
sofferenza e solitudine! Proverai, Amon Ra, cosa
significa rimanere soli e perdere coloro che amiamo! Sentirai, sulla tua stessa
pelle, il peso di una vita eterna, silenziosa condanna per i tuoi peccati! Così
ho parlato e queste sabbie mi siano testimoni!” –Non aggiunse altro, il furente
Dio greco, prima di dare le spalle a Karnak e ai suoi abitanti. Fece qualche
passo, seguito dai Cavalieri della Corona ancora vivi, e poi sparì, in un lampo
di luce, tornando sul Monte Elicona, a trastullarsi
con la cetra e le Muse.
Amon Ra
rimase per qualche istante a fissare il vuoto, il devastato paesaggio ove un
carro e tanti uomini ardevano in un rogo notturno, prima che uno strillo di Hannah lo riportasse in sé. –“Il bambino…
amore mio…lui… sta per nascere…” –Gli disse, mentre il Dio ordinava a Bastet di chiamare Iside e le sue ancelle, per assisterla
durante il parto.
Fu
un’operazione veloce, ma non fu affatto indolore. Le urla, gli strepiti, i
vagiti di dolore di Hannah, Amon
non li avrebbe dimenticati mai, anche perché furono le ultime parole che di lei
udì. Straziata dal parto, distrutta da una maledizione a cui non aveva forze
per opporsi, la donna si spense dopo aver visto suo figlio per la prima e unica
volta, dopo che Iside glielo mostrò, strappandole un sorriso e una sola parola.
“Febo.”
E
poi morì.
La
rabbia di Amon esplose quella notte, e a niente
valsero i tentativi di Iside, Horus e degli altri Dei a lui vicini di offrirgli
conforto. Quel che il Signore del Sole realmente voleva lo aveva perso, e con Hannah aveva perso anche la sua determinazione, la sua fede
nel futuro e la sua autorevolezza. Offeso dal villipendio
e deciso a farla pagare ad Apollo, il Dio diede ordine a Bastet
e a Sekhmet di radunare l’esercito l’indomani, per manciare sulla Grecia, ma ricevette in risposta sguardi
assenti e sfuggenti.
La
voce di quel che era accaduto si era sparsa in fretta e molti ritenevano che la
strage notturna fosse stata responsabilità di Amon, e
che per un bambino bastardo nato da madre greca non valesse la pena rischiare
un conflitto con Apollo e l’Olimpo che l’avrebbe protetto. Lo pensarono in
molti, e altrettanti lasciarono Karnak poco dopo, dirigendosi a Tebe o a Dendera, e quelli che rimasero non mostrarono più la stessa
devozione al Dio avuta prima. Persino la Leonessa d’Egitto quietò il suo
ruggito, pur senza mai schierarsi apertamente contro Amon.
Persino Osiride rimase silenzioso in Amenti,
rifuggendo la chiamata alle armi e venendo presto raggiunto dai figli di Horus,
che alla guerra non erano proprio avvezzi.
Soltanto
Iside rimase a Karnak, insistendo con Ra affinché tenesse il bambino, che era
pur sempre suo figlio, nonché tutto quel che gli rimaneva della donna amata.
“Dal
suo ricordo traine forza!” –Gli disse, mettendoglielo in braccio quel giorno,
quel delicato infante dagli occhi verdi. Amon Ra annuì,
ma non fu mai in grado di tenere fede al patto con se stesso, e anziché forza
ne trasse solo rimpianti.
***
“È
stata colpa mia…” –Mormorò Febo,
dopo che il padre ebbe raccontato l’intera storia della sua nascita.
“Non
pensarlo mai! Sei la cosa più bella di cui abbia goduto in questi anni, dopo la
morte di tua madre! L’unico affetto in grado di mantenermi vivo, quando tutto
il resto diveniva cenere! Se c’è qualcuno da biasimare, quello sono io.”
“E… non posso continuare ad esserlo?”
Amon Ra
non rispose, dando le spalle a Febo, a Karnak e a
tutta la sua vita. Spinse il portone ed entrò nel santuario, sigillando
l’intero complesso fuori dal tempo. Senza
più guerre né affanni, ricordi o speranze. Senza più prima né dopo, passato o
futuro. Karnak vivrà in un eterno presente, senza principio e senza fine. Un
eterno ora. E sarebbero passati secoli prima che le sue porte fossero di
nuovo aperte.
***
Estratto dalle Cronache di Avalon
Tempo: secondo avvento.
Come
gli fossero tornati in mente, quei ricordi lontani, neppure lui seppe
spiegarselo. Poté solo sorridere, riflettendo su come era cambiato. Lui, e
anche il mondo di cui tanto aveva avuto paura, da cui lontano aveva cercato di
tenere Febo, per impedire che avesse a soffrire dei
suoi mali come era accaduto a lui.
Meditava
su questo, Amon Ra, seduto sul trono nel suo
santuario privato, lo stesso da cui si era infine rialzato quindici anni
addietro, dopo avervi trascorso secoli, la coscienza chiusa in uno stato
embrionale, eternamente in riposo. Da allora, dal giorno in cui il sole era
tornato a sorgere su Karnak, il Dio aveva riacquistato il suo antico splendore,
accrescendo non solo il suo potere ma anche recuperando sapienze perdute,
spolverandole dalla sabbia dell’oblio. Ed in quel processo di svecchiamento non
era stato solo, bensì aiutato da numerosi amici, sia residenti all’interno di
Karnak, che non.
“Febo e Marins sono stati salvati!
Adesso riposano nelle stanze di Iside, sottoposti a cure continue. Non essere
in ansia, la sapienza della Madre lenirà i loro affanni!”
“Mai
mi permetterei di dubitare delle conoscenze della Dea della Maternità e della
Fertilità! Non potrei immaginare i Cavalieri delle Stelle in mani migliori,
Signore del Sole, e ti sono grato!” –Esclamò allora l’altra voce, risuonando
direttamente nella mente del Sommo. –“Ti ringrazio, Amon
Ra, per aver messo i tuoi servitori a mia disposizione, impiegandoli in una
perigliosa missione dai così alti costi! Con la guerra sulla Luna in corso e il
risveglio degli Antichi in vari luoghi del mondo, eri l’unico, purtroppo, a
poter intervenire in tempi celeri!”
“Apprezzo
i tuoi ringraziamenti, Signore dell’Isola Sacra, ma non è per questo che mi
risvegliasti, quindici anni addietro? Per tramite del tuo allievo, Micene di Sagitter?” –Ironizzò il Dio. –“Per avermi al tuo fianco
nell’ultima guerra?!”
“Il
lungo letargo non ha intorpidito la tua mente, Signore del Sole. Acuta e
brillante come l’astro che rappresenti.” –Commentò compiaciuto Avalon. –“Di
certo il tuo potere era necessario, per garantire l’equilibrio del mondo.
Inoltre la tua presenza mi rasserena, mi dà forza, anche in questi giorni bui!
E credo che in fondo pure tu volessi dare a tuo figlio un ultimo saluto prima dell’avvento
dell’ombra!”
Amon Ra sorrise alla veridicità
delle parole dell’alleato, prima di alzarsi dal trono e uscire dal suo
santuario privato, salvo poi fermarsi dopo qualche passo, tra le colonne
dell’immenso salone. Incerto. –“C’è un’altra cosa…”
“Che cosa turba il tuo cuore, facendoti tentennare
dal parlarmene? Sii sincero con me, non vi è niente che tu debba temere di
rivelarmi!”
“Quel che Horus e Febo
hanno visto nel deserto del Gobi, i sotterranei di quel luogo mortifero…”
“Il Santuario delle Origini, issato sul campo della
prima battaglia contro l’ombra!” –Annuì il Signore dell’Isola Sacra, percependo
i brividi del cosmo di Amon. –“Quel che tuo figlio ha
veduto è solo una parte di ciò che cela! Un frammento dell’oscurità che sta per
riversarsi su tutti noi! Mi auguro che le mura di Karnak siano solide e pronte
all’urto, perché la tempesta è prossima! Già le prime piogge d’ombra hanno
iniziato a cadere!”
“Così ci siamo. L’alba dell’ultima guerra è sorta!”
–Concluse Amon Ra, impugnando saldamente il djam, simbolo del suo potere regale, e congedando l’amico.
“Arrivederci, Pastore dell’Universo! Ci incontreremo
di nuovo dove tutto ebbe inizio, e dove tutto avrà fine!” –Il cosmo di Avalon
scomparve, rapido com’era giunto, lasciando il Dio del Sole ai suoi pensieri.
Non era per sé che temeva, avendo vissuto una vita immensamente lunga, e a
tratti anche noiosa, ma per coloro che amava, coloro che aveva nascosto al
mondo per così tanto tempo da impedir loro di vivere appieno. Per garantire un
futuro al suo regno, che nelle nebbie del tempo aveva poltrito a causa sua,
avrebbe dovuto combattere.
“E lo farò!” –Esclamò a gran voce, avvampando nel
suo cosmo dorato.
Tutti, a Karnak, udirono il suo richiamo, tutti
sentirono l’occhio di Ra su di sé, e si inchinarono, ovunque fossero, pronti ad
obbedire alle richieste del Sommo. Ma fu solo una donna dai capelli neri ad
essere raggiunta dal suo volere, un’agile figura che si stava allenando nel
cortile del tempio, al riparo da sguardi indiscreti.
“Cosa comandi, mio Signore?” –Esordì, entrando dopo
pochi minuti nella Grande Sala Ipostila e inginocchiandosi di fronte a Ra.
“Avvisa Sekhmet di tenersi
pronti!”
“La Dea Leonessa aspetta soltanto i vostri ordini!”
“E i figli di Horus? Sono in posizione?” –Incalzò,
non avendo percepito traccia dei loro cosmi nel luogo che erano preposti a
difendere.
“Credo che, dopo quanto accaduto al Sommo Osiride,
si siano recati al Tempio di Horus a rendere omaggio al loro padre. Ma tutte le
difese sono già state allertate!”
“Mi occuperò io del Falco. Sono certo che capirà. È
un guerriero, non un ragazzino! È tempo che tutti ricordino chi siamo, gli Dei
d’Egitto, Signori del Deserto, e non lasceremo estendere ad alcuna Divinità
oscura la sua ala nera su di noi!”
***
“Padre…” –Mormorò Febo, percependo
l’infiammarsi del cosmo di Amon Ra.
Riposava
su un morbido giaciglio nelle stanze di Iside, Signora della Maternità, che
aveva scelto di prendersi personalmente cura di lui, anziché affidarlo ai
sacerdoti e ai loro ut.
Era ancora convalescente, ma la febbre era passata e il suo carnato aveva ripreso
un po’ di colore, cacciando via quel biancore che così tanto aveva spaventato
la Dea Madre quando lo aveva rivisto.
“Non
ti agitare!” –Gli disse, rinfrescandogli la fronte e il viso con un panno
fresco imbevuto di un unguento vegetale che favoriva la respirazione.
Febo
trovò sollievo nelle sue cure, in quei piccoli gesti d’affetto che Iside non
gli aveva mai fatto mancare, prendendosi cura di lui come sua madre avrebbe
fatto. Mettendo da parte il dolore, le afferrò una mano con la propria, fissandola
negli occhi stanchi e invocando il suo perdono. –“Mi dispiace.”
La
Dea accennò un sorriso, capendo, prima di carezzare la mano del giovane e
dargli un bacio sulla fronte. Non disse altro, alzandosi e incamminandosi verso
l’uscita, seguita dall’attento sguardo di Febo. Solo
allora il ragazzo notò Marins appoggiato al muro
accanto all’ingresso.
“Ehi!
Come stai?”
“Ho
vissuto momenti migliori!” –Ironizzò il compagno, che, come Febo,
indossava una lunga veste bianca, semplice e traspirante. –“La protesi mi sta
dando fastidio, una sensazione di prurito che gli oli di Iside non hanno ancora
eliminato! Credo si tratti della sindrome dell’arto fantasma, ci cui mi aveva
parlato Avalon tempo fa. Comunque sto bene, il cosmo di tuo padre mi ha
ristorato in fretta!”
“Mio
padre… spero di vederlo presto. Ho così tante cose da
dirgli, da chiedergli…”
“Beh,
non dovrai aspettare molto, allora!” –Commentò il ragazzo, voltandosi verso
l’ingresso, dove l’alta sagoma di Ra era appena apparsa, con un sorriso sul
volto.
“Padre!!!”
–Esclamò Febo, affannando nel mettersi in piedi. Ma
il Dio lo pregò di rimanere composto, per non affaticarsi. –“Padre, vi sono
nuovamente debitore! È già la seconda volta che accorrete in nostro aiuto!”
“Non
è forse questo compito di un genitore?! Anche se per molto tempo ho dimenticato
cosa volesse dire avere un figlio, sto cercando di rimediare. E non solo perché
sei speciale, perché sei un Cavaliere delle Stelle, ma perché sei il figlio che
così tanto avevo voluto, il figlio che credevo di aver perduto.” –Commentò il
Sommo Ra, abbracciando Febo, per poi alzarsi e
camminare attorno al letto. –“Adesso riposa. Quando ti sarai ristabilito, parleremo… del resto.”
“Padre,
vi prego! Non andate via! Non posso aspettare!” –Lo fermò Febo,
e anche Marins si avvicinò, per udire meglio. –“La
morte di Osiride pesa sul mio cuore… Perché ha
attaccato il Santuario delle Origini così frontalmente? Non ha pensato ai
rischi che avrebbe corso? Creature troppo oscure sta partorendo quel tempio,
bestialità che vanno al di là di ogni forma di immaginazione, e ogni ora che
passa, forse anche ogni minuto, nuovi orrori vanno a sommarsi a quelli già
esistenti!”
“Osiride
sapeva perfettamente quello che stava facendo, Febo!
Per quanto indicata come incursione, sia lui che Horus erano ben consapevoli
che in realtà sarebbe stato uno scontro frontale. Non avrebbe potuto essere
altrimenti, con le terribili Divinità poste a guardia di quel luogo. Ma era
l’unico modo per permettervi di uscire vivi da lì, l’unico modo per liberare il
sole prigioniero!”
“Lui… lo ha fatto per noi…”
–Mormorò allora Marins, chinando lo sguardo.
“Precisamente!”
–Annuì Amon Ra, dando un buffetto al figlio su una
guancia e uno all’americano sul naso e allontanandosi.
Sulla
porta incrociò il Dio Falco, venuto a sincerarsi delle condizioni dell’uomo che
considerava un fratello, dell’uomo per cui suo padre aveva scelto di morire.
“Horus!!!”
–Esclamò Febo, scendendo dal letto e mettendosi in
piedi. –“Io… non so cosa dire, come ringraziarti… quello che tu e tuo padre avete fatto per noi
è stato…”
“Un
suicidio.” –Commentò atono il figlio di Osiride, attirando lo sguardo di Febo. –“Mio padre aveva un debito nei tuoi confronti, da
quando scendesti in Amenti per salvarci dalla
prigionia di Anhar e Apopi!
Se lo portava dietro da quindici anni, nel tentativo di riuscire un giorno a
pagarlo. Adesso lo ha fatto, adesso è in pace!”
“Vorrei
che lo fossimo anche noi!” –Sospirò il Cavaliere del Sole, strappando un
sorriso al fratello adottivo.
“Lo
vorrei anch’io.” –Esclamò, prima di andarsene. –“E lo saremo, Febo. Torneremo ad esserlo, presto. Hai la mia parola. Ho
solo bisogno… di un po’ di tempo.”
Rimasti
soli Febo e Marins
sospirarono sconsolati, convinti di un’unica verità. Una sola certezza.
Rimettersi in forma quanto prima per tornare sul campo di battaglia.
Era
tempo che il cerchio si chiudesse e che i Sette combattessero tutti assieme.
Yulij
fissava il mare. Ammirata, osservava le onde nascere e poi disfarsi, a volte
nel breve arco di un istante, schiantandosi sugli scogli e sollevando spruzzi
d’acqua che disturbavano i soldati di guardia alla prigione di Capo Sounion. Si chiese come stesse la ragazza incarcerata, come
avesse potuto commettere atti così terribili da meritare una sorte simile. A
vederla adesso, magra, con il volto pallido e dal colorito terreo, l’avrebbe
creduta una viandante, forse figlia di una famiglia povera, una condizione ben
diversa dalla sua.
Sospirò,
spostandosi i lunghi capelli grigi dietro la schiena, e ricordando quanto
avesse dovuto pregare i suoi genitori affinché le permettessero di allenarsi
per diventare un Cavaliere, quanto non capissero l’importanza della sua fede in
Atena. Del resto come avrebbero potuto? Non erano guerrieri, né mai lo erano
stati, bensì ricchi mercanti, che commerciavano da secoli in tutto il
Mediterraneo, e avrebbero voluto che la figlia seguisse la strada tracciata
dagli avi, divenendo contabile e poi amministratrice dell’azienda di famiglia.
C’erano stati litigi, urla furiose, a volte anche uno schiaffo aveva ricevuto
da suo padre. E poi c’era stato il terremoto.
E
nessuno aveva più urlato.
“Cosa
succede qua?” –Una voce maschile distrasse Yulij dai
suoi pensieri, facendola voltare in tempo per ammirare il fisico statuario di
Ioria del Leone avvicinarsi.
Bello,
come gli era sempre apparso, il Custode del Quinto Tempio esprimeva al meglio
gli ideali di virilità che avrebbe voluto ritrovare in un uomo, per questo fu
contenta di indossare la maschera in quel momento, così Ioria non avrebbe
potuto vederla arrossire imbarazzata da frivoli pensieri.
“Cavaliere
di Leo!” –Si inchinò prontamente, raccontando quel che era accaduto e la
decisione di Libra di tenere la ragazza in prigione. –“Credevo foste in
missione! Io… vi avevo visto lasciare le Dodici Case
qualche ora addietro!”
“In
effetti sarei dovuto partire!” –Ammise Ioria. –“Pur tuttavia ho deciso di
trattenermi, per capire cosa fare, e per farlo a volte ricorro all’aiuto di un
amico. Con lui che mi ascolta è più facile prendere decisioni!”
“Capisco!”
–Commentò la ragazza, di certo desiderosa di sapere altro ma senza voler
apparire come una ficcanaso. A guardarlo da vicino, Ioria era ancora più bello,
rendendo degnamente onore all’età che aveva. Capiva adesso perché la
Sacerdotessa dell’Aquila fosse spesso turbata in sua presenza, per quanto
amasse apparire fredda e distante. Non che avesse mai avuto modo di parlarle,
al riguardo, erano solo sciocchi pettegolezzi che circolavano nel campo di
addestramento femminile.
“Ero
da mio fratello!” –Confessò il Cavaliere di Leo, più parlando con se stesso che
con la ragazza.
“Da
vostro…?! Ma come, io credevo che la tomba…?!”
“Micene
non ha mai avuto una vera sepoltura nel Grande Tempio, per vicende complesse
che non ho voglia di ripercorrere. Nonostante ciò, anni addietro un amico
dispose un’urna in sua memoria su una collina qua vicino, dove lui e Micene, e
poi anch’io quando crebbi, erano soliti allenarsi. Un memoriale cui recarsi di
tanto in tanto e rendere omaggio ai ricordi, quelli più belli, spaziando con lo
sguardo sull’intero Santuario.”
Yuliji
non disse niente, limitandosi a chinare il capo e a darsi della stupida per
essersi fatta travolgere da pensieri infantili. Capiva il Cavaliere di Leo,
avendo anch’ella avuto bisogno, nel corso degli anni, e anche in tempi recenti,
di confrontarsi con persone del suo passato che ormai non erano più con lei. Ma
per farlo lei aveva scelto un altro metodo. Si affidava alle stelle.
“Posso
vederla?”
“Uh?!
Beh, il Cavaliere di Libra ha dato ordine di non far avvicinare nessuno, ma
credo che voi non abbiate modo di essere ferito da quella donna…”
Ioria
non aggiunse altro, incamminandosi lungo il sentiero fino alla base della
scogliera e congedando i soldati di guardia. Ricordava molto bene Tirtha e Pavit, i discepoli di Virgo, e la loro tragica esperienza sull’Isola delle Ombre.
Pur con tutta l’oscurità che li aveva assaliti, pur con tutto il male che aveva
maciullato il loro cuore, alla fine erano riusciti a ritrovarsi e a rimanere
uniti. Sorrise, paragonando il loro legame a quello che lo univa a Micene.
Anche loro non si erano forse persi per poi ritrovarsi?
“Tirtha…” –Avvicinandosi alle sbarre, Ioria scrutò nella
cella, non vedendo niente, solo il mare avanzare e ritirarsi di continuo. Si
avvicinò ancora, spostando lo sguardo dietro agli scogli, verso il fondo della
cavità, dove il sole a fatica arrivava, e allora li notò. Due occhi neri,
persino più scuri dell’oscurità stessa.
In
un attimo Tirtha balzò avanti, fiondandosi contro le
sbarre e allungando lunghi artigli di tenebra. Ioria fece appena in tempo a
fare un salto indietro, evitando che l’affondo gli strappasse un occhio oltre
ad un ciuffo di capelli.
“Per
Atena! Come sei ridotta?” –Mormorò esterrefatto, riconoscendo che le sue
condizioni erano addirittura peggiori di quelle in cui l’aveva vista
sull’isola, prima che Pavit la salvasse. –“Consunta
dall’ombra, della Pellegrina resta mero scheletro ormai!”
Che
l’avessero raggiunta o meno, quelle parole la fecero imbestialire ancora di
più, mentre muoveva tra le sbarre le braccia artigliate. Se fosse più magra, riuscirebbe persino a sgusciarci attraverso!
Notò Ioria, chiedendosi che cosa avesse potuto generare una simile
trasformazione. Ricordava l’affetto che legava i discepoli di Virgo, questi due in particolare, gli ultimi superstiti di
dieci credenti indiani, e non riteneva possibile che un’oscurità potesse essere
così forte da distruggerlo.
Eppure… Si
disse, strusciandosi il mento pensieroso. Già
un’altra volta, ad un amico accadde di affrontarne un altro. E ricordò
quando, anni addietro, Galarian lo attaccò alla
Quinta Casa, posseduto da un gelido cosmo di ebano che aveva preso il controllo
della sua coscienza.
Arkhein.
Che sia accaduta la stessa cosa a Tirtha? Rifletté
il Leone, realizzando che, in tal caso, vi era un solo modo per scoprirlo e per
liberarla da quella prigionia. Estirpare
l’ombra dal suo cosmo! E poiché l’ombra è materia composta da atomi, sarà il
mio pugno, muovendosi a una velocità maggiore a quella della luce, ad
annientarla! Come salvai Galan quel giorno,
ugualmente salverò te, Tirtha!
“Ardi,
cosmo del Leone!!!” –Ruggì Ioria, concentrando la propria energia sul pugno
destro. –“Per il Sacro Leo!!!” –La
tempesta di fulmini si abbatté su Tirtha, con una
precisione estrema, avendo cura di colpire solo dove l’ombra era palesemente
allo scoperto: sulle mani, negli occhi, persino la bocca sembrava vomitare
oscurità. E da quei varchi, il fulmine lucente si insinuò nel corpo della
ragazza, scuotendola, stramazzandola, fino a farla accasciare esausta sugli
scogli.
“Cavaliere
di Leo!!! Cosa succede?!” –Esclamò Yulij, arrivando
di corsa con i soldati, che avevano percepito l’avvampare del cosmo d’oro.
Ioria
spiegò in breve quanto accaduto, sperando che il fulmine avesse fatto breccia
nel suo animo, costringendo Tirtha a risvegliare la
sua volontà. Adesso, che viva o muoia,
tutto è in lei.
***
“Mo… Morgana?! Ma com’è possibile?!” –Spalancò gli occhi la
Sacerdotessa dell’Ofiuco, alla vista della sorella
che credeva scomparsa.
“Non
fare quella faccia! Sono una combattente come te! Non una debole! Ho perso una
battaglia, ma non la vita! Il bel giovane che venne a recuperare l’elmo del
Sagittario di nient’altro si curò, se non di quell’oggetto! Pensò che fossi
morta, dopo il suo ultimo attacco, e per un po’ lo credetti
anch’io…” –Esclamò la donna dai lunghi capelli blu
notte, con un pizzico di tristezza. Quindi si alzò, avvicinando la ciotola
fumante al volto di Tisifone e pregandola di
nutrirsi, finché la zuppa fosse stata calda. –“Hai rischiato l’ipotermia,
sorella! Ho persino pensato che non ce l’avresti fatta, ma poi mi sono detta:
no, Tisifone è una guerriera! Saprà lottare fino in
fondo! Ero certa che ti saresti ripresa!” –Aggiunse, per poi allontanarsi.
“Morgana,
aspetta! Non andartene! Dobbiamo parlare! Io… devo
sapere!” –La richiamò la sorella, facendola voltare prima che uscisse dalla
stanza.
“Parleremo!
Non avere timore! Non appena ti sarai ristabilita! Mangia qualcosa, poi indossa
questi abiti che ti ho messo da parte, sono della mia taglia, dovrebbero
calzarti! Ti aspetto nel salone, quando sarai in grado di camminare da sola!” –E
se andò, lasciando la Sacerdotessa insoddisfatta.
Mille
pensieri ronzavano nella sua mente, relativi alla sorte di sua sorella e anche
alla propria. Se ben ricordava, il castello di Morgana si trovava nei Caraibi… come aveva fatto a giungere fin là, dal Mar
Celtico? Scosse la testa, ancora intontita, prima di assaporare lentamente la
zuppa di verdure, un boccone per volta, facendo fatica persino a ingoiare.
Ripensò a quel che la sorella le aveva appena detto e annuì, dandole ragione.
Era una combattente, proprio così, e Morgana lo sapeva, perché era come lei.
Per questo l’aveva lasciata sola, anziché scortarla come un’invalida fino al
salone, perché doveva essere in grado di camminare sulle proprie gambe. Solo
così avrebbe potuto essere pronta.
Per
la vita e per la guerra.
***
Il
salone del castello di Morgana era molto spoglio, con un minimo arredamento
finalizzato alla praticità: una lunga tavola per desinare e un caminetto
nell’angolo interno, la cui canna fumaria, passando al centro della costruzione,
permetteva di scaldare anche le stanze adiacenti e superiori. Proprio vicino al
focolare acceso sedeva la donna in attesa, su una poltrona di pelle che aveva
conosciuto tempi migliori, fissando i legni ardere e schioccare.
“Sei
diventata come lei!” –Commentò una voce femminile, attirando l’attenzione di
Morgana, che si voltò verso l’ingresso, dove Tisifone
era appena comparsa, rivestita degli abiti che le aveva prestato.
Camminava
a passo deciso, ma c’era qualcosa nel suo incedere che rivelava la degenza non
ancora terminata. Morgana le fece cenno di sedersi sul canapè di fronte a lei,
dove una coperta la aspettava. Nonostante fossero vicini all’Equatore,
l’inverno del mondo aveva raggiunto anche loro e il castello non era mai stato
un luogo simbolo di tepore.
“Come
nostra madre, intendo.” –Aggiunse, mettendosi a sedere e studiando la reazione
della sorella. –“Ben pochi ricordi ho di lei, morta quando ero bambina, ma in
quei pochi la rammento vicina al fuoco, intenta a cucinare o a rattoppare i
nostri abiti e quelli di nostro padre, che consumava lavorando nelle cave di
rena rossa.”
Morgana
assentì, senza dire altro. Non c’era bisogno, in fondo, di aggiungere alcunché.
Sapevano entrambe cos’era accaduto in seguito, dopo che l’uomo che le aveva
generate era rimasto invalido in un incidente in miniera. Era ricaduto su di
lei, la figlia maggiore, l’onere di sfamare la famiglia e aveva scelto la sua
strada. Accattona, ladra, un giorno corsara, era divenuta quello che era senza
rimpianti.
“Non
avrei mai creduto di rivederti! Non in questa vita, almeno!”
“Neanch’io lo avrei creduto! Ed in effetti è stata una
casualità, un gioco del destino, a farci incontrare di nuovo!” –Commentò la
donna dai capelli blu, raccontando come l’aveva trovata. –“Mi trovavo in Nord
Europa, sulla via del ritorno dopo aver concluso certi affari che non mi perito
di raccontarti, quando percepii un debole cosmo conosciuto. Fu una sensazione
strana, all’inizio, perché non riuscivo a capire cosa fosse questo fuoco che un
tempo mi aveva scaldato il cuore. Poi compresi, eri tu che stavi morendo!
Giungemmo in tempo per recuperarti dal mare. Come una naufraga moribonda, ti
eri afferrata a un pezzo di legno e non volevi mollarlo più, il tuo scoglio
salvatore. Quando ti issammo a bordo eri fredda come la morte, vicina
all’ipotermia, di sicuro. Non fu facile scaldarti, ma il cosmo serve anche a
questo, no? A irrobustire una persona!” –Sospirò infine, alzandosi e poggiando
una mano sulla spalla della sorella. –“Sono lieta che tu ti sia salvata!
Sentiti libera di rimanere finché non avrai recuperato le forze, fin quando non
sarai in grado di andartene da sola. Ho una barca soltanto, e mi serve, per cui
dovrai trovare un modo, ma sono certa che l’inventiva non ti manca, sorella!”
Tisifone
scosse la testa, sentendola parlare in quel modo. Così lontano e diverso dal
tono affettuoso con cui le si rivolgeva quando era bambina. Fece per replicare,
ma si trattenne, vedendo un riflesso di luce scintillare sul volto della donna,
prima che questa lo spazzasse via, pulendosi la guancia e cancellando
quell’unica lacrima.
“Avete
bisogno di me, mia signora?” –Esclamò allora una ruvida voce maschile,
anticipando l’entrata nel salone di un giovane dai capelli neri. Alto e ben
piazzato, indossava un’aderente armatura bianca e nera, con guizzanti pinne
posizionate ai lati delle braccia e delle gambe. Non portava elmo, permettendo
a Tisifone di riconoscerlo.
Lo
aveva visto una volta sola, anche se all’epoca era solo un adolescente, quando
il precedente Gran Sacerdote lo aveva bandito, assieme ai suoi compagni,
condannando i loro gesti di pirateria.
“Non
al momento, Delfino, ma apprezzo la tua premura! Rimani a disposizione,
comunque, qualora mia sorella richieda assistenza!” –Non disse altro e se andò,
lasciando Tisifone nel salone assieme al nuovo
arrivato.
“Anche
tu ti sei salvato, dunque?”
“Dalla
carica di Pegasus e dei suoi compari?! Più per indolenza che per merito!” –Rise
Delfino. –“Caddi da una rupe e mi troncai un braccio e una gamba. Un vero
Cavaliere non si sarebbe comunque arreso, si sarebbe arrampicato lo stesso, a
mani nude, incurante del dolore e della fatica. Ma probabilmente quel titolo
non mi è mai appartenuto. Strisciai fino ad una caletta, aspettando che la
notte passasse, che qualcuno dei miei compagni, forse la mia regina, venisse a
salvarmi. Tentai persino di usare il cosmo per curare la ferita, ma non
avendolo mai destinato ad un simile uso fallii. L’alba mi sorprese a invocare
la morte, tremante di freddo e paura per il destino di solitudine che mi
attendeva. E fu allora che lo sentii… un cosmo caldo
come mai l’avevo percepito prima. Mi invase, fuoriuscendo dal mio cuore e
donando affanno al mio corpo spezzato, permettendomi di tornare a camminare.
Uscii allora dal mio rifugio, inerpicandomi fino al castello, dove trovai
Morgana ferita, ma ancora viva. Anch’ella, mi confidò, era stata lambita da
quell’improvvisa energia. Chiunque fosse stato a salvarci la vita, ci aveva
scaldato il cuore, così ci sforzammo nel migliorare la nostra esistenza, abbandonando
la pirateria e dedicandoci ad una vita semplice, come pescatori, su
quest’isola. Fummo raggiunti in seguito da altri Cavalieri disonorati, reietti
come noi che non avevano mai avuto la determinazione di lottare per Atena fino
in fondo. E li accettammo, permettendo alla nostra colonia di prosperare.”
“Per
quale motivo non siete tornati ad Atene? Saprete di certo che Arles è caduto e da un anno e mezzo la vera Atena impera
sul Grande Tempio!”
“Per
fare cosa? Implorare il perdono divino? Ah ah ah!
Sarebbe troppo umiliante, oltre che inutile! Atena non potrebbe mai graziarci!
Faremo privata ammenda per le nostre colpe. Un po’ lo stiamo già facendo, nel
nostro piccolo. Non so cosa vi abbia raccontato, ma la verità è che eravamo
andati in Scandinavia per portare aiuto alle popolazioni in difficoltà, alle
navi che non riuscivano a rientrare in porto. A vostra sorella non piace
parlare di sé, di questa nuova versione nata dopo la sconfitta per mano di
Pegasus. Non so perché, probabilmente teme di non sentirsi degna della vostra
fiducia. Timore che non ha motivo di esistere, dato che Morgana vi ha salvato,
donandovi tutto il suo cosmo! Non siete stata l’unica, Tisifone,
a giacere incosciente per un paio di giorni, al confine tra vita e morte.”
–Chiarì Delfino, mentre gli occhi del Cavaliere d’Argento si riempivano di
commozione, confermando un sospetto preesistente.
Un
guizzo veloce attirò la sua attenzione, permettendole di vedere Morgana
scagliarsi con forza contro l’uomo, fino a sbatterlo al muro, per poi
schiaffeggiarlo furiosa.
“Devo
tagliarti la lingua, Delfino? Non credo che ti serva, in fondo, per nuotare!”
“Per… donatemi, mia regina! Stavo soltanto ragguagliando
vostra sorella sul nostro nuovo stile di vita!” –Si limitò a scusarsi il
Cavaliere, mentre Tisifone si alzava, ordinando loro
di smetterla.
“Siete
Cavalieri di Atena anche voi! Che lo vogliate o meno! Non potete averlo
dimenticato! Anzi, in fondo al cuore sono certo che lo sappiate! E il fatto che
le armature non vi abbiano ancora abbandonato lo testimonia!”
“Sciocchezze!
Mica sono esseri senzienti, le corazze!” –Bofonchiò Morgana, lasciando comunque
Delfino libero dalla sua stretta.
“Ti
sbagli! Un’armatura sente colui che la indossa, aiutandolo e donandogli energia
quando la sua causa è nobile e valida, oppure abbandonandolo quando questi
sceglie la via dell’ombra, come accadde al bieco Cancer!
Inoltre… non sono soltanto le armature a riporre
fiducia in voi… anche la Dea!”
“Che… stai dicendo?!”
“Quello
che sai, da mesi ormai! È stata Atena a salvarvi la vita, perdonando i vostri
peccati e accettandovi tra le fila dei suoi combattenti! Come fece con Gemini e
con Kanon lo scorso anno! E, nel piccolo anche con
me, rea di non averla riconosciuta a suo tempo, e di aver persino levato la mano
su di lei!”
“È
assurdo! Non ci credo! Non ha senso!!! Per quale motivo Atena dovrebbe averci
perdonato? Noi che abbiamo infangato il suo buon nome con turpi azioni?!”
“Per
darvi una seconda possibilità! Questo è quello che fa la Dea, con tutti noi! Ci
permette di ricominciare! Atena crede nella grandezza del genere umano,
malgrado tutto!”
Per
qualche minuto nessuno parlò, riflettendo tutti sulle parole di Tisifone. Difficili
da accettare, ma forse in linea con il pensiero della Dea. Se così fosse… Se Atena ci avesse davvero perdonato…
Mormorò Morgana, chiudendo il pugno, inebriandosi di quell’illusione. Ma poi
scosse la testa, considerandola per ciò che era, e nulla più.
Rumore
di passi improvvisi risuonò nel castello, anticipando l’entrata nel salone di
un ragazzo dai folti capelli rosa. Indossava un’armatura rossa, con delle
catene attorcigliate attorno ai bracciali, ed aveva il volto trafelato e lo
sguardo scioccato.
“Morgana!
Perdonate l’intrusione! Ma un branco di cormorani è appena arrivato dalle
Canarie, portando notizie incredibili!!!”
“Sta’
calmo, Reda! Cos’è accaduto? Quali notizie portano i
nostri amici uccelli?”
“Qualcosa
è comparso al largo delle coste africane… qualcosa
che non dovrebbe esistere… Un’isola…
enorme!”
***
Quando
Tirtha aprì gli occhi, notò le onde ritirarsi dal
pavimento di scogli. Aveva le vesti bagnate e sentiva freddo, eppure qualcuno
le aveva messo una coperta addosso, sistemandogliela alla meno peggio per
ripararla dalla brezza della sera. Si voltò a fatica, lamentando dolore alla
schiena e soprattutto alla testa, e vide le sbarre di fronte a lei. Stordita,
non capendo dove si trovasse, le afferrò e fece leva per tirarsi su, ma, ancora
troppo debole, fallì e cadde avanti, sbattendo la testa contro una sbarra.
“Stai
attenta! Ti sei appena ripresa!” –Commentò una voce maschile, attirando la sua
attenzione.
Tirtha si
voltò e notò un trentenne dai capelli castani e dagli occhi verdi fissarlo con
sguardo apprensivo, affiancato da una figura con una maschera eburnea sul volto.
“Sta
bene? È in sé?” –Domandò quest’ultima, permettendo a Tirtha
di capire che si trattava di una donna.
“Credo
di sì!” –Annuì Ioria, che aveva percepito la scomparsa del cosmo d’ombra dal
corpo del discepolo di Virgo. –“Tirtha,
ti ricordi di me? Sono Ioria del Leone, Cavaliere d’Oro di Atena! Sei nella
prigione di Capo Sounion, per la tua sicurezza! Ma,
se mi aiuti a capire, potrai uscire molto presto!” –Aggiunse, ricapitolando
alla ragazza tutto quello che era accaduto, focalizzandosi soprattutto sulla
sua possessione da parte dell’ombra. –“Ricordi cosa è accaduto?”
“Io… non ricordo… mi duole la testa…” –Mormorò, tenendosi il cranio con entrambe le mani.
Ioria
annuì, prima che Yulij gli passasse una ciotola con
alcune fette di pane con olio spalmato sopra e una fiaschetta con dell’acqua.
–“Tieni. Mangia qualcosa, non so da quanto tempo non ti nutri…
di vero cibo, quanto meno!”
La
Pellegrina accettò con timore quel gesto, divorando in fretta il pane e
prosciugando la borraccia, cercando al tempo stesso di riordinare i caotici
pensieri che le riempivano la testa, portandola ad un passo dall’esplosione.
“Ricordo… l’ombra… L’ho sentita in
me, una strana inquietudine, qualche giorno fa, mentre osservavo le stelle da
una torre di Angkor. Era come… un seme, che velenoso
cresceva dentro me. Straziata, ho valutato anche di gettarmi di sotto e
affogare nei fossati del tempio, per non fare del male a nessuno!”
“Lieto
che tu non l’abbia fatto!” –Le sorrise Ioria.
“Avrei
dovuto! Avrei dovuto, invece!!!” –Singhiozzò lei, coprendosi il volto con le
mani. Quelle stesse mani con cui riteneva di aver ucciso Pavit.
“Cos’altro
ricordi? Dopo aver lasciato Angkor immagino tu sia venuta ad Atene.”
“Sì!
Atene! Io… sono andata dal mio maestro, perché sapevo
che mi avrebbe aiutato, che mi avrebbe donato la pace…però…Aaargh!!!” –Gridò,
strappandosi i capelli, in preda a un’isteria improvvisa che spaventò anche Yulij, per quanto Ioria le dicesse di rimanere calma e
concentrata. –“Il sangue, le grida, gli artigli di tenebra, il cuore di Pavit…io… l’ho stretto in mano… io sono un mostro!!! Devi uccidermi!!! Voi dovete
uccidermi!!!” –Strillò disperata, afferrando le sbarre e incastrandovi la testa
in mezzo, con le lacrime che le rigavano il volto.
“La
luce del mio fulmine ha incenerito l’ombra annidata nel tuo cuore. Ma tu e tu
soltanto puoi fronteggiare i ricordi!” –Le parlò Ioria, espandendo il proprio
cosmo e avvolgendola, per donarle momentaneo tepore. –“So bene quanto possano
fare male, quanto il passato a volte possa uccidere più del presente! Ma solo
tu puoi donare pace a te stessa, accettando quanto è accaduto!”
Tirtha
non disse niente, limitandosi a scivolare lungo le sbarre, rannicchiandosi
sotto la coperta, tremando di freddo e paura, non desiderando ricordare più.
–“Non voglio più vedere!!!” –Commentò, agitando la mano davanti al viso. –“Non
voglio più vederlo… morire!!!” –Aggiunse, esausta. E
a Ioria e a Yulij sembrò che avesse perso i sensi.
Si
guardarono sospirando, prima di voltarsi e incamminarsi verso il Grande Tempio,
convinti che non vi fosse altro da fare per il momento, quando uno strillo
improvviso li richiamò.
“L’ho
visto!!! Io l’ho visto morire!!! Pavit!!! Lui è caduto… davanti a me!!!”
“Co… come?!” –Rifletté Ioria, spingendo la ragazza a un ultimo
sforzo, a ricordare ora. E intuendo al tempo stesso quello che stava cercando
di dire.
“Lui
mi ha detto di ucciderlo!!! Lui mi ha ordinato di farlo!!! Ma io non l’ho
fatto!!! Non potevo! Io… lo amavo…”
–Singhiozzò Tirtha, mentre Ioria si chinava su di
lei, di modo che soltanto lui potesse udire le sue parole. Le afferrò la fronte
con la mano, donandole ancora un po’ di calore e aiutandola a vincere
quell’ulteriore resistenza con cui qualcuno aveva manovrato la sua mente.
“Cos’è
accaduto alla Sesta Casa, Tirtha? Chi ha ucciso Pavit?”
“Lui!
è stato lui!” –Sibilò la ragazza,
gli occhi iniettati di sangue. –“Il Cavaliere di Virgo!!!”
Capitolo 24 *** Capitolo ventiduesimo: L'urlo di guerra ***
CAPITOLO VENTIDUESIMO: L’URLO DI GUERRA.
“A-la-la!!!”
Il
grido smanioso della Regina delle Makhai rimbombò per l’intero Cerchio di
Marte, scuotendolo in profondità e infoiando l’animo delle Androctasie
e dei Phonoi che avevano seguito la figlia di Polemos oltre il muro da lei abbattuto. Di fronte a tale
devastazione, a tale sovvertimento dell’ordine che strideva con la ben
assettata marcia cui finora erano stati costretti, la progenie di Eris esplose in urla concitate, dirigendo continui e
pressanti attacchi contro il Custode del Quarto Cerchio. Il cerchio del Pianeta
Rosso.
Rosso come il sangue e come il fuoco. Rifletté Andromeda, guardandosi attorno e
riconoscendo che erano appunto questi gli unici elementi che risaltavano in
quella caotica massa di combattenti. Il sangue divino della discendenza di
Discordia, che ruscellava sul brullo suolo lunare, e
i roghi che divampavano ovunque, accendendosi ogni qual volta un nemico veniva
sconfitto. Chiaro e tangibile segno di vittoria che il Selenite di Marte voleva
mostrare a chiunque tentasse di superarlo.
“Sin…” –Mormorò il Cavaliere, osservandone l’elegante sagoma
dai capelli blu camminare a mezz’aria su un oceano di fiamme che senza sosta
aizzava contro gli avversari.
“Se
così tanto ti affascina il fuoco, ti ci rosolerò ben bene, mio delizioso
agnellino! Dopo averti dilaniato le membra con le mie urla e scuoiato con i
miei unghioni!” –Affermò Alala, piombando su di lui e muovendo le braccia ad
altissima velocità, obbligando il ragazzo a balzare indietro. Senza dargli
neppure il tempo di sollevare le catene difensive, la Regina delle Makhai
rinnovò il suo assalto, scaricando pericolosi fendenti energetici che
stridevano sulla lucente corazza di Andromeda, tra scintille e gemiti di
fatica.
“Ora
basta!!!” –Strillò il Cavaliere, liberando la guizzante arma che si moltiplicò
in numerose copie, puntando su Alala da molte direzioni. –“Onde del Tuono! Colpite!”
Le
catene mirarono leste al cuore della Signora della Guerra, che saltava di lato
in lato per evitarne le temibili punte, senza esserne troppo impensierita. Tra
un balzo e l’altro, trovò comunque il tempo di farsi una risata, sadica e
sanguigna, con quel tono di voce pungente da cui Andromeda era stato fin
dall’inizio infastidito. Quasi ne percepisse il disagio, Alala spiccò un salto,
anticipando l’affondo della catena d’attacco e usandola poi come leva per
balzare ancora più in alto, portandosi proprio sopra il Cavaliere di Atena,
avvolta in una nube di cosmo.
“Resta
là, in basso, e odi l’acuto imperiale che nessuna difesa può contrastare! Cadi,
Andromeda, sotto le note del Grido di
Guerra!!!”
L’attacco
sonico travolse le catene del ragazzo, sparigliandole e rendendole inutili,
mentre l’intero suo corpo veniva schiacciato a terra, sprofondando in una conca
di sabbia, sottoposto a un’indicibile pressione che sembrò togliergli il fiato.
“Ouff!” –Mormorò il Cavaliere, respirando a fatica, mentre
l’assalto scemava di intensità e Alala atterrava poco distante da lui, sul
bordo del cratere ove aveva schiantato il suo avversario. Andromeda si sollevò
di scatto, disponendo le catene in modalità difensiva, immaginando che la
seguace di Ares fosse in procinto di scattare su di lui per dargli il colpo di
grazia, invece, stupendosene, la trovò intenta a fissarlo. Con quello sguardo
maligno che aveva visto volgere anche a Thot e agli
altri al Quinto Cerchio, condito adesso da una stilla di curiosità.
“Sei
una delusione anche tu!” –Commentò Alala, soffiando indietro un ciuffo dei suoi
lunghi capelli rossicci che il sudore le aveva incollato alla fronte. –“Dopo il
patetico Dio che si vantava di proteggere il Cerchio di Giove e i due
adolescenti in pubertà improvvisatisi guerrieri, speravo di trovare ben più
ragguardevole avversario in te, il Cavaliere di Andromeda, membro della
gloriosa squadra che ha sconfitto Nettuno, Ade, Crono e messo in difficoltà
persino Sua Tronfiezza Ares! E invece mi ritrovo l’ennesimo ragazzino indeciso
che non sa combattere! Umpf, invidio i Phonoi che almeno, da quel che vedo, hanno incontrato un
vero guerriero!”
“Non
sono più un ragazzino e l’indecisione l’ho messa da parte tempo addietro,
Regina delle Makhai, quando ho compreso che i miei dubbi non avrebbero giovato
alla causa per cui combatto!”
“E
sarebbe?”
“Garantire
amore e giustizia sulla Terra, concretizzando gli ideali di cui Atena è
portatrice!”
“Ah ah ah! Sciocchezze di proporzioni cosmiche! Te l’ho detto, non sai
combattere! Torna a casa, gentil donzella! Non puoi essere un guerriero se la
guerra non ti piace e vi prendi parte solo perché devi! Guarda me, ammira la
mia potenza, piegati di fronte alla devastazione che solo il suono della mia
voce genera in coloro che ardiscono sfidarmi! Guardami, e poi muori,
Cavaliere!!! Grido di Guerra!!!”
–Avvampò Alala, mentre violente onde soniche sfrecciavano verso Andromeda,
sollevando sabbia e pezzi interi di suolo lunare, obbligando il paladino di
Atena a coprirsi gli occhi con una mano, mentre già con l’altra aveva scatenato
la catena difensiva.
Il
turbinare dell’arma lo protesse dall’assalto, ma non poté impedirgli di essere
spinto indietro, tanto violento e furibondo era l’urlo di Alala. Tanto sentito! Rifletté Andromeda,
intuendo che fosse quello il segreto della sua forza. La Regina delle Makhai,
come tutte le sue sottoposte, nella guerra ci credeva davvero! Non in quella
battaglia particolare, che forse non era neppure la più esaltante che avessero
combattuto dal Mondo Antico ad oggi, ma nel cozzare esaltato di cosmi e vite.
La guerra era tutto ciò che perseguivano, con la stessa motivazione con cui i
Cavalieri dello Zodiaco lottavano per la pace e la speranza di un futuro
sereno. Come poteva, quindi, lui che aveva sempre dovuto combattere, più che
voluto, opporsi a così tanto fervore bellico? A così tanto piacere distruttivo?
La
risposta gli venne spontanea, senza bisogno di riflettere troppo. Sospirando,
mosse il braccio e scatenò le Onde del
Tuono, obbligando Alala a balzare indietro, vicino al varco nel muro
crollato che conduceva ai cerchi successivi, dove i suoi amici stavano lottando.
Gli bastò pensare a loro, a suo fratello, agli insegnamenti del suo maestro e
alle esperienze passate, e tutto il resto nacque da sé.
“Non
posso! Ma devo!” –Ammise, espandendo il cosmo. –“E forse, in fondo, lo voglio!
Sì, se davvero la guerra è l’unico modo per rispondere alla guerra! Se davvero
è l’unico modo per proteggere i deboli e gli innocenti!”
L’esplosione
del cosmo di Andromeda rischiarò il Cerchio di Marte, facendo ruzzolare Alala
di qualche metro a terra, ma questa subito si riscosse, scattando avanti,
proprio mentre il Cavaliere le dirigeva contro migliaia di strali avvolti in
scariche energetiche. Non vista, però, un’ultima catena si insinuava silente
nel terreno accanto ad Andromeda, scavando un solitario percorso verso
l’avversario.
“Mi
fa il solletico la tua arma!!!” –Ringhiò Alala, sferzando l’aria con i suoi
unghioni energetici e tenendo lontane le molteplici punte perigliose. Tutta
presa a contrastare l’assalto frontale, non s’avvide la Regina d’un guizzo di
luce che scaturì dal suolo sotto i suoi piedi, una catena che vorticò rapida
attorno al suo corpo, avvolgendola in una stretta spirale. –“Che… cosa?!”
“Non
il più ciarliero è il guerriero vincitore!” –Commentò Andromeda, strattonando
l’arma e sbattendo Alala a terra.
Sputando
sabbia e sangue dal labbro inferiore, la Dea faticò nel rimettersi in piedi,
fulminando il Cavaliere con uno sguardo furibondo, salvo poi esplodere in una
verace sghignazzata. –“Mal ti giudicavo, a quanto pare! Mi hai sorpreso, te ne
do atto! Mai nessuno era riuscito a fermarmi, sia pur con un trucchetto truffaldino! E ora vuoi sbrigarti a tagliarmi la
testa o pensi di aspettare che l’esplosione del mio cosmo disintegri questo tuo
catenaccio per cani rabbiosi?!”
“Taci,
serpe maligna devota alla guerra!” –Esclamò Andromeda, mentre folgoranti lampi
di energia pervadevano la catena, diffondendosi poi lungo tutto il corpo della
figlia di Polemos e strappandole un silenzioso vagito
di dolore.
“Ah
ah ah! Queste patetiche espressioni di quella che tu definisci violenza, e che
per me nient’altro è se non un vacuo pizzicore, non fanno altro che eccitarmi!
Sì, mi stimolano… a gridare!!! A-la-la!!!” –Tuonò, liberando un suono così acuto e frastornante
che il Cavaliere dovette portarsi le mani alle orecchie, disturbato e ferito.
La
Dea approfittò di quel momento per corrergli addosso e spingerlo a terra con
una violenta spallata, che gli fece persino perdere l’elmo dell’armatura, prima
di iniziare a tempestarlo di calci, per quanto limitati potessero essere i
movimenti delle sue gambe, ancora strette nella catena.
“Una
furia… che non può essere placata…
ciò è evidente… Una sete inestinguibile di guerra…” –Mormorò il discepolo di Albione, recuperando la
presa sulla sua arma e liberando una poderosa scarica di energia rosata, ben
più intensa delle precedenti, che percorse Alala da capo a piedi, incendiandole
persino ciuffi di capelli. Ma neppure quella volta la suprema Makhai gemette,
eccitata a dismisura dallo scontro in atto. Fece per dischiudere le labbra e
travolgere Andromeda con una nuova onda sonica, quando un corpo balzò
all’improvviso sulla sua schiena, gettandola a terra e tappandole la bocca con
una mano intrisa di rovente energia. –“Ma tu…?”
“Affrettati,
Cavaliere di Atena! Ogni secondo che passi a trattenere la tua forza, a
interrogarti sui perché e i per come che determinano le guerre nel mondo, è
un’occasione che offri al nemico per riportare vittoria su di te! Vittoria che,
per quel che mi è dato vedere, non è poi così distante!”
“Sin…” –Commentò Andromeda, distogliendo lo sguardo da
quello gelido del Selenite di Marte.
“Potrei
ucciderla adesso, riempiendole le viscere di fiamme e osservarla compiaciuto
mentre arde dall’interno!” –Disse quest’ultimo, mentre il palmo della sua mano
si illuminava di una luce rossastra, che dovette ferire Alala, che iniziò a
dimenarsi sotto di lui, gli occhi per la prima volta saturi di lacrime di
terrore. –“Non sarebbe una morte immediata, richiederebbe qualche secondo,
forse un minuto intero, ma sarebbe divertente! E appagante!” –Aggiunse, quasi
con un sussurro.
“Ti
prego, non farlo!” –Lo chiamò Andromeda, senza che questi riducesse l’intensità
della propria fiamma, limitandosi a chiedergli una spiegazione.
“Perché
non vuoi che uccida questo nemico, che così tanta devastazione e morte ha
causato al Reame della Luna Splendente? Perché Andromeda non sei uomo
abbastanza per vincere le tue remore? Cosa dovrebbe accadere affinché tu ti
svegli? Che ti portino la testa di tuo fratello?!”
Il
Cavaliere di Atena non rispose alcunché, inghiottendo a fatica, mentre Sin
balzava indietro, liberando infine Alala dal suo peso e permettendole di
tornare a respirare. Osservandola meglio, mentre affannava nel rimettersi in
piedi, Andromeda notò che aveva le labbra e parte del viso ustionato.
“Spero
per te che quel momento non arrivi, Cavaliere di Atena!” –Chiosò Sin, prima di
riportare lo sguardo sul mucchio di Phonoi e Androctasie ancora vivi, prigionieri di una gabbia di fuoco
che il Selenite aveva evocato pochi attimi prima di intervenire nello scontro
di Andromeda. –“Ma se dovesse accadere, tu solo ne saresti responsabile!”
“Io… so che devo ucciderla, perché non accetterà mai una
sconfitta! Solo non voglio che sia una tortura, bensì un estremo atto
necessario!”
“Questa
si chiama pietà! Ed è ciò che distingue le Divinità dagli esseri umani! Noi non
proviamo emozioni, poiché provandole saremmo al pari degli umani! E io non
voglio esserlo! No, io sono un Dio e come tale sono superiore! Ma tu e i tuoi
compagni, che avete risvegliato il Nono Senso, siete degli umani ascesi al
cielo degli Dei! Adesso dovete scegliere ciò che volete essere, non potete
rimanere in mezzo a due mondi! Poiché presto entrambi collasseranno e voi
dovrete sapere dove e per chi combattere!” –Affermò deciso il Custode del
Cerchio di Marte, prima di allontarsi e tornare a
fronteggiare i suoi avversari.
“Fa
anche il sapiente, quel bel combattente! Mi dispiacerà quasi cavargli gli
occhi!” –Ringhiò Alala, ormai rimessasi in piedi. –“Quando avrò finito con te!”
“Tu
non farai più male a nessun…” –Esclamò Andromeda,
prima di vacillare all’improvviso, forzandosi a poggiare un ginocchio al suolo
per non crollare e avendo cura di stringere ancora la catena tra le mani, per
non lasciare la Makhai libera di agire.
“Oh,
ti fa male la testa, bel bambino?” –Ridacchiò quest’ultima, in maniera
sguaiata. –“Lascia che la mamma ti dia un bacino!” –Aggiunse, alzando il tono
della voce, sì da prostrare di nuovo Andromeda a terra. –“Nausea, vertigine ed
emicrania sono i sintomi immediati di chi è a lungo esposto ai suoni da me
generati! Cos’è? Credevi di esserne immune? O credevi che soltanto nelle grida
infoianti fosse il mio potere? Se così pensavi, allora eri in errore,
Cavaliere! Errore che adesso pagherai con la vita!”
Il
paladino di Atena scosse la testa, per cacciar via quei suoni malefici, ma non
riuscì a togliersi la voce di Alala dalla mente. La sentiva rimbombare dentro
di sé, saturando ogni organo interno, stordendolo e indebolendo i suoi
riflessi. Riuscì comunque a percepire l’avanzata della Makhai, prima ancora che
quest’ultima muovesse un piede, fermandola di scatto, muovendo la catena a
guisa di tagliola e sbattendola di nuovo a terra. Fu un riflesso condizionato,
si chiese, o forse in quel momento di pericolo aveva fatto buon uso del dono di
Biliku, come Arvedui gli
aveva insegnato?
Non
seppe rispondersi che già Alala era di nuovo in piedi, il cosmo che ardeva
incandescente, la bocca spalancata in un grido di sfida. Andromeda percepì la
forte tensione che correva lungo la catena di difesa e temette quasi di vederla
andare in frantumi di fronte ai suoi occhi. Così, nonostante lo stordimento dei
sensi, mosse svelto anche l’altra catena, avvinghiandola attorno alla Makhai in
modo da fermarla dentro una gabbia trapezoidale, bloccando definitivamente ogni
suo movimento.
“Astuto!”
–Commentò la Dea, concedendosi però un sogghigno perverso. –“Ma a meno che tu
non mi tappi la bocca con un bacio, a ben poco servirà! A-la-la!!!”
Il
grido di guerra distrusse i timpani di Andromeda, prostrandolo a terra, mentre
il cosmo dell’oscura Regina permeava l’aria, obbligando le catene ad uno sforzo
immane per non essere sradicate dal suolo e disintegrate.
Male…dizione… E’ come contro Mime e
Syria! Non c’è modo di fermare questi suoni demoniaci! Capitolò il Cavaliere, tenendosi la testa con ambo
le mani, quasi sul punto di impazzire.
“E
invece c’è! Basta semplicemente che tu non ascolti!” –Parlò allora Sin,
intento, a una ventina di metri di distanza, a fronteggiare l’ultimo assalto
dei Phonoi.
“Co… cosa?! Non è possibile! Le onde sonore possono arrivare
dappertutto!”
“Idiozie!
Puoi farlo, Andromeda! Anzi devi farlo se vuoi vincere! Io lo faccio! Sempre!”
“Come?!”
“Concentrati!
Focalizza il tuo cosmo sull’obiettivo ultimo della battaglia ed escludi tutto
il resto! Rifiuta tutto il resto! Solo allora smetterai di udire la voce del
tuo nemico, le sue provocazioni, lo scherno! Sorretto dall’unica fede in cui
merita credere, lascia che il tuo cosmo arda fiammeggiante, espressione della
fiducia in te stesso e nella tua vittoria! È questo che io, Sin, faccio sempre!
Vinco!!!” –E nel dire ciò, il Selenite di Marte volse il palmo della mano
destra contro i Phonoi, generando una devastante
esplosione di magma ardente che ne annientò una decina, scagliando le loro
membra incendiate contro i compagni titubanti.
“Incredibile!”
–Balbettò Andromeda, percependo nel Custode del Cerchio di Marte una vigorosa
energia, che in ben poche Divinità aveva riscontrato. –“Se sei così forte
perché non sei intervenuto in aiuto degli altri Seleniti? Ne avrebbero avuto
bisogno!”
“Aiutarli? E perché mai avrei
dovuto? Un guerriero che non è in grado di combattere da solo, per difendere la
propria terra, non è degno di dirsi tale e merita di essere sconfitto. Con i
vinti, Sin degli Accadi non ha niente a che spartire! Perciò, se non vuoi
essere considerato tale, sbrigati a terminare il tuo avversario, prima che
sfoderi qualche nuovo trucco con cui piegarti!” –Affermò serio, prima di
interrompere la comunicazione telepatica con il Cavaliere e lasciare che un
muro di vivide fiamme sorgesse tra loro, a rimarcare i propri campi di
battaglia.
Approfittando di quel momento, Alala aveva radunato
le forze, decisa a liberarsi da quella prigionia metallica. Per quanto il fuoco
di Sin le avesse ustionato la bocca, incenerendole persino un pezzo di lingua,
e il solo parlare le generasse spasimi mai provati fino a quel giorno, non
aveva intenzione di farsi vincere in quel modo. Non da quell’efebico ragazzino
in armatura rosa che non amava combattere. No, se fosse caduta, se un giorno le
sue spoglie avessero dovuto tornare a calcare la desolazione del Tartaro,
sarebbe dovuta morire in una battaglia all’ultimo sangue contro un vero
guerriero, magari il giovane dai capelli blu che così tanto la disprezzava.
“Questo scontro termina adesso, Andromeda! Di ben
altra compagnia ho bisogno per trovare appagamento!!! A-la-la!!!” –Gridò la figlia di Polemos,
scatenando un’onda di energia sonica che smosse il terreno di fronte a sé,
facendo oscillare persino le catene che la tenevano prigioniera, prima di
dirigersi su Andromeda.
Ma, con sommo stupore, la Dea dovette osservare il
disperdersi del proprio assalto, che per la prima volta non aveva raggiunto il
bersaglio, rallentato, vinto e infine disperso da una nebbia rosacea che il
Cavaliere di Atena aveva sollevato di fronte a sé. Un bizzarro muro di energia
che aveva neutralizzato le onde soniche.
“Cosa diavolo è quella nebbia?!”
“Energia allo stato puro, Alala! Il mio potere
segreto!” –Commentò Andromeda, in piedi di fronte a lei, gli occhi socchiusi,
il respiro calmo, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Una posizione
necessaria per liberare la mente e raccogliere tutte le proprie energie,
imbrigliandole in un utilizzo diverso dal solito devastante attacco.
“Corrente
della Nebulosa!” –Mormorò infine, aprendo gli occhi e permettendo ad Alala
di vedere più chiaramente un vorticare di evanescente energia rosa attorno al
corpo del ragazzo, una cortina protettiva che andava facendosi sempre più
spessa. –“Sin ha ragione! Non devo permettere alle mie emozioni di
intralciarmi! Questo non significa che sono disposto a diventare una bestia da
guerra come te, ma conservando lucidità e occhio clinico ho capito che la
capacità dei tuoi assalti di andare a segno è dovuta in parte allo stordimento
che la tua voce genera negli avversari! Se fossi riuscito a escluderla, ho
pensato, avrei avuto un attimo di tempo in più per fermare l’avanzata dell’onda
energetica che accompagna sempre le tue strida!”
“Piuttosto interessante…
Pur tuttavia come pensi di vincermi, restando celato dietro la tua foschia
rosata? Ah ah ah! Ti risparmio la fatica di
pensarci!” –E, nel dire ciò, Alala espanse al massimo il proprio cosmo,
sradicando le catene di Andromeda dal suolo lunare, pervadendole con una
devastante energia che le scheggiò in più punti, schiantando alcuni anelli e
portandola ad un passo dalla liberazione.
“Come poc’anzi ti ho detto, questa era solo la
corrente della mia nebulosa! La fase iniziale! Ora conoscerai l’impeto della
tempesta, impeto che neppure il tuo Grido di Guerra può eguagliare!!!” –Esclamò
fiero il Cavaliere, portando avanti il braccio destro e scatenando il suo
massimo colpo segreto. –“Nebulosa di Andromedaaa!!!”
In quell’esatto istante il ragazzo tolse forza alle
catene, permettendo ad Alala di liberarsi, giusto in tempo per essere investita
in pieno dalla bufera energetica che la scaraventò in alto, sballottandola più
volte, spaccandone l’armatura, fino a schiantarla infine a terra, in un cratere
profondo il doppio rispetto a quello che aveva ospitato Andromeda poco prima.
Ansimando per lo sforzo, ma finalmente libero da
quel fastidioso eco nelle orecchie, il Cavaliere crollò sulle ginocchia,
respirando a fatica e chiedendosi, come ogni volta in cui aveva ucciso
qualcuno, se quella fosse davvero stata l’unica via. O se non avesse potuto
esserci un sentiero che non era stato in grado di battere. Se lo era sempre
domandato, anche contro i nemici più crudeli e sanguinari, persino contro Phobos e Fenrir, convinto, in
fondo al suo buon cuore, che tutti alla fin fine fossero vittime, che tutti
fossero schiavi della guerra, un’entità crudele a sé stante che giocava con le
vite di uomini e Dei piegandoli al suo volere.
Avrebbe voluto chiedere a Sin cosa ne pensasse,
sebbene già ne intuisse la risposta, quando il sollevarsi di un turbine di
sabbia attirò la sua attenzione. Al centro del cratere scavato poc’anzi Alala
si era rimessa in piedi, i lunghi capelli rossicci sospinti dal vento, simili a
serpenti di fuoco le cui fauci nient’altro desideravano se non affondare nel
delicato corpo del Cavaliere di Atena.
“I miei complimenti! Pare che tu abbia tirato fuori
la tua virilità, infine!” –Commentò la Dea, uscendo dal buco nel suolo,
l’armatura danneggiata e sporca di grumi di sabbia e ichor
che mai aveva ruscellato fuori da quel muliebre
corpo. –“Il Nono Senso… lo padroneggi ormai! E questo
ci rende quasi pari!”
“Alala…” –Mormorò
Andromeda, tradendo un’espressione incredula e sgomenta, che la Regina delle
Makhai non vide o non volle vedere, troppo presa a radunare il suo possente
cosmo divino.
“Hai scelto di attaccarmi usando il tuo colpo
migliore, non ti meravigliare se altrettanto farò io, adesso!” –Spiegò,
sollevando le braccia in chiara posa offensiva. –“Non lo usavo da tempo,
dall’era delle prime guerre tra Dei, successive all’evirazione di Urano!
Sentiti degno di questo privilegio, Cavaliere, sentiti degno di essere definito
un avversario, per me!” –Sogghignò Alala, prima di generare una sfera di
energia tra le mani, una sfera che andò ingigantendosi sempre più, fino ad
avvolgere l’intero corpo della Regina. –“Addio Andromeda! Che la mia voce ti
accompagni lungo i gradini che conducono agli inferi! Arringa finale!!!”
Quasi intuendo quel che sarebbe accaduto, il
Cavaliere dello Zodiaco balzò indietro, quel tanto che gli consentì di evitare
di essere disintegrato dalla poderosa massa di energia che sfrecciò verso di
lui, fagocitando in fretta il terreno tra i due contendenti. Andromeda mosse
d’istinto le catene, per rallentarne la corsa, ma nessuna configurazione si
rivelò efficace, venendo distrutte una dopo l’altra; tentò allora di sollevare
il muro difensivo che aveva sperimentato poco prima, ma l’enorme velocità
dell’attacco gli impedì di portare a compimento il suo proposito, venendo
investito dalla marea energetica e spinto indietro. Di quanto non seppe
dirselo, sentì solo il corpo schiantarsi contro una dura superficie e la
corazza divina creparsi in più punti, sempre sperando che non fossero invece le
sue ossa ad aver ceduto. Quindi precipitò a terra, schiantandosi malamente con
la faccia nella sabbia lunare. Per qualche istante non fece niente, non avendo
la forza di muovere neppure un dito, convinto che l’Arringa finale gli avesse triturato ogni singolo osso del corpo.
Poi, piano piano, iniziò a sentire il sangue
continuare a fluire dentro di sé, le braccia e le gambe che rispondevano ai
suoi stimoli, e riuscì allora a farsi forza per rimettersi in piedi.
“Posso aiutarti?!” –Ghignò allora una voce all’improvviso,
mentre fredde mani lo afferravano per il collo, tirandolo su di colpo e
costringendolo a fissare l’indemoniato sguardo di Alala, ritta di fronte a sé.
–“Non disturbarti a rispondere, da un cenno del capo capirò se sono gradita o
meno!” –Sibilò, mentre unghioni di energia nascevano dalle sue dita trafiggendo
Andromeda al collo e inzuppandosi di fresco sangue.
“Aaargh!!!” –Annaspò il
ragazzo, muovendo di scatto il braccio destro, attorno al quale già rilucevano
folgori energetiche, per spingere Alala indietro. Ma la Dea, aspettandosi una
mossa simile, lo colpì con un calcio, per poi ribaltare l’intero corpo di
Andromeda e sbatterlo a terra, sotto di lui, il collo ancora trafitto da
artigli oscuri. Non del tutto paga, la Regina delle Makhai calò il tacco sul
pettorale dell’Armatura Divina, più e più volte, sprofondando il ragazzo
qualche metro dentro al suolo, liberandolo infine dai sanguinari unghioni e
osservandolo affogare in una pozza di sangue.
“Come, scusa? Hai detto qualcosa?!” –Ironizzò,
abbandonandosi ad una chiassosa sghignazzata e generando al tempo stesso nuove
e fastidiose onde di energia sonica con cui dilaniò ulteriormente il corpo e la
mente del Cavaliere. –“Ah ah ah! Quale sorpresa questo scontro! E io che temevo
si rivelasse una perdita di tempo!”
Andromeda non disse niente, troppo debole per
muovere le labbra. Poté solo sfiorare la catena che ancora stringeva in mano e
darle il suo ultimo ordine.
“A-la-la!!!
A-la-la!!! A-la-la!!!” –Intonò la Regina delle Makhai, scatenando la furia devastante
del suo potere e sprofondando sempre più il ragazzo nel suolo lunare, tra
schizzi di sangue e frammenti di corazza crepata. –“Arringa fin…”
D’un tratto però il vociare sguaiato si interruppe,
mentre con un sibilo impercettibile due lucenti serpenti metallici sgusciarono
fuori dalla sabbia, ognuno da un lato della Dea. Obbedendo alle direttive del
padrone, le catene di Andromeda si arrotolarono attorno al collo di Alala,
puntando poi una nella direzione opposta all’altra. Si tesero per un momento,
percorse da una violenta scarica di energia, strappando un grido di sorpresa
alla figlia di Polemos, e poi le mozzarono la testa,
insudiciandosi del suo divino sangue.
Privo di vita, il corpo della Signora della Guerra
si accasciò sul bordo del cratere, precipitando all’interno poco dopo e finendo
proprio sopra l’indebolito Cavaliere di Atena, il cui volto stanco e ferito era
adesso bagnato dalle lacrime del suo ultimo gesto. L’ultimo di una mai
conclusasi serie di omicidi.
Pur tuttavia… si disse, fissando il
cranio della Makhai rimasto sull’orlo della conca, a guardarlo di sbieco, con
quello sguardo torvo che persino adesso pareva millantare. Non mi hai lasciato scelta. Nessuno me l’ha mai lasciata! Aggiunse,
non per giustificarsi, o per trovare consolazione ai suoi peccati, ma perché
davvero sapeva che era così. Poco prima di perdere i sensi, vide un’agile ombra
balzare all’interno della buca, sollevarlo e poi portarlo fuori. Non riuscì a
guardarlo in faccia, notò soltanto dei ciuffi di capelli blu stagliarsi contro
il cielo scuro e per un attimo credette che Phoenix
fosse giunto a salvarlo, come in passato.
“Ci sei riuscito, infine!” –Esclamò l’atona voce
maschile del Selenite. –“Sapevo che avresti fatto quel che andava fatto, per
garantire la vittoria tua e di coloro che come te combattono per un ideale!
Pensala come vuoi, ma sei un guerriero come me, sebbene più reticente! Riposa
adesso, nessuno disturberà il tuo sonno, Cavaliere di Andromeda!”
“I… che è…?!” –Balbettò il ragazzo, ma Sin gli premette un dito sul
collo, mozzandogli il fiato. D’istinto, un cosmo caldo lo penetrò, passando
dentro le ferite aperte che ancora grondavano sangue, cicatrizzandole poco dopo
e permettendo ad Andromeda di regolarizzare il proprio respiro.
“Se
la tua domanda era chiedermi cosa ne fosse stato degli incauti guerrieri che
hanno osato violare il Cerchio di Marte, la risposta è una soltanto! E non
poteva essere diversa! Sono morti, arsi dalle fiamme di Sin degli Accadi, il
Selenite che non conosce dubbi o pietà! Sarai tu un giorno in grado di fare
altrettanto?”
Capitolo 25 *** Capitolo ventitreesimo: Tra luce e ombra ***
CAPITOLO VENTITREESIMO: TRA LUCE E OMBRA.
“Gradisci
un’altra tazza?” –Chiese il Cavaliere d’Oro, con voce melliflua, indicando la
teiera ancora bollente al non troppo inatteso ospite.
“Sto
bene così.” –Rispose Dohko, che aveva appena terminato l’infuso di erbe
preparato da Virgo. Un’antica ricetta indiana, a sentir quest’ultimo, utile per
rilassare i muscoli e ripristinare l’equilibrio psicofisico dell’uomo.
“Un
vero peccato. Credevo che un uomo come te, dedito alla vita contemplativa,
avrebbe apprezzato una sana tisana ayurvedica! Non sono diffuse in Cina?!”
–Commentò il Custode della Porta Eterna, terminando di sorseggiare la propria.
Erano
seduti ad un tavolino dai gambi bassi, in una piccola sala della Sesta Casa,
intima e adatta alla conversazione che avevano iniziato da poco, da quando il
Cavaliere di Virgo, rientrando dalla Biblioteca del Grande Tempio, aveva
trovato il parigrado ad attenderlo, bisognoso di esprimergli i propri timori
sulla guerra in corso.
“Non
ho notizie da Atena da quando sono partiti. Cosa starà accadendo sulla Luna?” –Chiese
il Maestro di Sirio, che più volte aveva sforzato il cosmo nel tentativo di
raggiungere la Dea e i Cavalieri dello Zodiaco, senza riuscirvi. –“Quel che
accade nel Reame Splendente risulta celato ai miei poteri!”
“Per
questo sei venuto alla Sesta Casa, per chiedermi di mettermi in contatto con
Atena?”
“Per
questo motivo, sì. E anche per un altro.” –Aggiunse Libra, con tono esitante.
“Un
altro?” –Si rabbuiò Virgo, senza darlo a vedere.
“Sono
preoccupato per te. Temo che il tuo animo possa uscire scosso dagli eventi
degli ultimi giorni. La ricomparsa di Ana, il cui ricordo è stato sfruttato per
spezzare il tuo spirito, l’apparizione di un’ombra improvvisa qua nel cuore del
Santuario e infine questa penosa giornata segnata dalla morte di un tuo
discepolo, per mano dell’ultima ancora viva. Ricordo ancora il giorno in cui
Sirio e Demetrios si scontrarono ai Cinque Picchi! Due dei miei allievi più
cari forzati a un combattimento necessario alla maturazione di entrambi, ma
tremendamente doloroso. Quanto piansi quel giorno! Solo in un’altra occasione
versai così tante lacrime! Perciò capisco il tuo turbamento; chiunque, nella
stessa situazione, sarebbe già crollato!”
“Ti
ringrazio per la tua stima, Maestro di Cina. E per la tua premura. Ti confermi
un amico sincero, oltre che un valido combattente.”
“E
con gli amici sai bene che puoi parlare. Anche se le confidenze più si addicono
ai salotti delle dame o ai banchetti olimpici, prima di essere Cavalieri siamo
pur sempre esseri umani!”
“È
vero. Lo siamo!” –Sospirò Virgo. –“Che strano non ricordarlo mai!”
Per
qualche momento nessuno dei due parlò, lasciando che un velo di silenzio
calasse tra loro, riflettendo ognuno sulle parole dell’altro. Poi il Custode
della Sesta Casa si alzò, accendendo alcune candele e bastoncini di quello che
a Libra sembrò incenso, che presto inondò la stanza con il suo odore pungente,
facendo arrossare gli occhi del Cavaliere di Cina.
“Temo
di non poterti essere d’aiuto, Dohko. Neppure i miei poteri possono superare la
barriera che Selene ha eretto a difesa del suo regno, scudi difensivi pari a
quelli che celano il Santuario di Atena e l’Olimpo. E quanto al resto… cosa mai
potrei dirti in aggiunta a quello che già sai? Soffro. Terribilmente soffro. Il
destino di Tirtha mi pesa sul collo come una spada di Damocle, combattuto tra
il volerla salvare e il dovere, che mi impone di punirla per ciò che ha fatto!
Punirla con la pena capitale!”
“Eppure…
è andata davvero così?!”
“Come?!”
“È
solo un pensiero fugace, non prenderlo per verità di fede. Eppure… ore
addietro, quando la rabbia di Tirtha è esplosa contro Pavit, per un momento,
per un solo fugace momento, mi è parso di percepire due cosmi di tenebra,
proprio qua, alla Sesta Casa!”
“Alla
Sesta Casa?!” –Virgo trattenne una risata, senza mascherare lo sbigottimento.
–“Mio buon amico, se qualcun altro avesse varcato i confini della magione che
presiedo non credi me ne sarei accorto? O temi forse che i miei occhi, sia pur
chiusi, non vedano più bene come un tempo?”
“Non
era quello che intendevo, perdonami se ti ho mortificato! Ma l’ansia del
presente obnubila i miei pensieri!” –Si affrettò subito a scusarsi Dohko,
alzandosi in piedi e muovendosi verso di lui, salvo poi barcollare e cadere di
lato, stordito da una foschia imprevista attorno alla sua mente.
“Non
mi hai mortificato, affatto. Hai soltanto detto quello che pensi. Permettimi di
ricambiare la confidenza!” –Commentò allora Virgo, mentre il compagno faticava
nel risollevarsi, senza capire perché si sentisse così debole e fiacco. –“In
verità sei andato molto vicino al cuore della questione, pur senza comprenderla
a pieno. Lascia allora che ti illumini!” –Aggiunse, sfiorando il mento di Dohko
e sollevandoglielo poi con forza, in modo da obbligarlo a guardarlo in faccia.
–“Io sono l’ombra!”
“Co…
cosa?!” –Balbettò il parigrado, non comprendendo le sue parole.
Fu
in quel momento che Virgo aprì gli occhi, rivelando scarlatte pupille intrise
di tenebra, mentre un’immensa e sanguinaria aura da battaglia investiva il
Cavaliere di Libra, sollevandolo da terra e scaraventandolo indietro, contro un
muro interno del Palazzo della Vergine. Stordito, ricadde su un fianco,
l’armatura che cozzava contro il marmo del pavimento. Tentò di rimettersi in
piedi ma gli parve di scivolare, di non essere in grado di fare leva sulle
gambe e alzarsi, mentre l’immagine sfuocata del Custode della Porta Eterna si
avvicinava, avvolta in tetre demoniache fiamme.
“Sforzati
pure quanto vuoi, ma ormai sei una marionetta nelle mie mani! L’infuso che hai
bevuto era saturo di aconito, in quantità così massiccia da uccidere un uomo in
pochi minuti! Purtroppo nel tuo caso c’è un fastidioso ma. Sei
un Cavaliere, temprato al dolore e alla resistenza, e i pochi minuti potrebbero
diventare lunghi, una vera agonia che terminerebbe con la tua disperata
richiesta di ucciderti! Considerati fortunato, perché hai un buon amico come
me, che ti risparmierà questo calvario. Uccidendoti subito!” –Spiegò l’uomo dai
capelli biondi, mostrandogli un fusto di pianta erbacea dai petali di un acceso
color violetto, sventolandola sotto il suo naso, di modo che potesse respirarne
il velenoso effluvio.
“Akoniton,
nata dalla bava di Cerbero dopo che Eracle l’ebbe domato! Una saliva altamente
tossica da generare, fecondando il terreno, una pianta così letale! Nota fin
dal Mondo Antico, è stata chiamata in molti nomi, arsenico vegetale,
strozzalupo, Elmo di Giove. Io la chiamo… erba fiamma!” –E gliela strusciò sul
volto, gustandosi le pustole che apparivano ovunque la poggiasse, il fuoco che
incendiava la pelle e faceva strillare il Cavaliere di Libra. –“Un amico ne
aveva allestito una piantagione sull’Isola della Regina Nera e dato che a lui
non serve più ho pensato di appropriarmene!” –Sogghignò, chinandosi sul Cavaliere e avvolgendolo in un rogo di vampe
mortifere, che superarono ogni sua difesa, raggiungendo la carne sotto
l’armatura.
Dohko
gridò, il corpo trafitto da aghi di fiamma, il respiro che si faceva sempre più
affannoso. Tentò di allungare una mano verso l’antico compagno, di articolare
parole, per chiedergli perché lo stesse torturando, perché avesse tradito
Atena, ma gli uscirono solo suoni confusi, che strapparono una risata al
Cavaliere di Virgo.
“Conosci
l’ayurveda, Dohko? È un sistema di medicina tradizionale indiana, che utilizza
metodi naturali per prevenire malattie e curare la salute dell’uomo, al fine di
allungargli la vita. Trovo sia un’affascinante quanto ingegnosa fonte di
sapere, cui spesse volte mi sono abbeverato. E, credimi quando te lo dico, ma
io sono in giro da molto tempo!” –Parlò, con voce calma e divertita.
“Secondo
l’ayurveda esistono tre energie vitali, chiamate Dosha, che pervadono il nostro
corpo, la cui salute dipende dall’equilibrio raggiunto da queste sfere. Basta
una carenza in una delle tre per indebolire l’intero organismo. La prima
energia è nota come Vata ed è il principio di movimento, legata a tutto ciò che
nel corpo umano si muove.” –Disse il Custode della Sesta Casa, sfiorando con il
fiore gli arti di Libra e strappandogli, ad ogni lieve tocco, grida e spasmi
violenti. –“L’apparato respiratorio…” –Proseguì, mentre Dohko parve
boccheggiare, incapace di inspirare aria dal naso, tingendosi presto di un
pallore mortale. –“Il sistema nervoso…” –Aggiunse, giocherellando con il suo
orecchio e riempiendoglielo di aconito, al punto da bruciarglielo e liquefarlo,
proprio mentre i nervi facciali del Cavaliere si ispessivano, divenendo
mostruosamente violacei, quasi fossero sul punto di esplodere. –“E il sistema
di circolazione sanguigna!” –Concluse, alzandosi in piedi e osservando la pelle
dell’uomo gonfiarsi, come se qualcosa al suo interno premesse per uscire,
causandogli dolori lancinanti e spingendolo a rigettare più volte.
“La
seconda energia invece è chiamata Pitta ed è il Dosha della trasformazione.”
–Riprese a parlare Virgo, mentre Dohko, trascinandosi nel suo stesso vomito,
tentava di implorarlo a smettere, senza riuscire neppure a parlare. –“Per
trasformazione si intende sia la digestione fisica di un alimento, che quella mentale,
l’elaborazione delle emozioni. Tu, per esempio, cosa provi, al momento?”
“V…
Virgo!!!” –Rantolò il Custode della Settima Casa. –“Ferma… ti…”
“Virgo
non è uno stato d’animo, Cavaliere! Soltanto il ricettacolo di questa mia nuova
esistenza! Ah ah ah!” –Sghignazzò il feroce guerriero, prima di illustrare il
terzo Dosha. –“Kapha, l’energia della coesione, proprio dei liquidi corporei.
Lubrifica e mantiene il corpo solido e uniforme. Ma cosa accadrebbe se il Kapha
fosse spezzato? Anche il corpo umano lo sarebbe? Scopriamolo!!!” –Esclamò
esaltato, afferrando il parigrado per il collo e sollevandolo fino a sbatterlo
contro il muro, avvolto in un turbinio di fiamme oscure. –“Fammi vedere… se non
ricordo male, hai delle mani molto curate, non è vero?” –Sibilò, torcendogli il
braccio destro e rivelando le falangi mozzate. Tre, come le dita che gli aveva
reciso con un sol colpo di spada infuocata durante lo scontro ai Templi
dell’Ira.
“T…
tu?!” –Lo riconobbe infine Dohko, gli occhi stracolmi di orrore.
“Sorpresa!”
–Ridacchiò il crudele carnefice, chiudendogli il pugno a forza e spaccandogli
anche le altre dita, maciullandole fino a farne poltiglia nella sua mano,
godendo delle grida, degli strepiti, dell’avvampare vano del fievole cosmo del
moribondo avversario. Gli piegò il braccio dietro la schiena e poi glielo
schiantò, inebriandosi del rumore secco delle ossa rotte, del disgregarsi di
corazze per troppo tempo ritenute indistruttibili. –“Ma niente nella vita lo è
mai! Persino il muro più robusto può crollare! Persino il monte più alto può
essere livellato dall’alito fetido di un gigante! Tutto, in fondo, ha una
fine!” –Concluse, avvolgendo il Cavaliere in un globo di vampe nere e
schiantandolo contro il muro interno, sfondandolo e osservando la carcassa dorata
ruzzolare verso il centro del palazzo, poco distante da dove Pavit era morto.
–“E questa è la tua! I piatti della Bilancia sbattono per suonare l’ultimo
requiem dell’antico guerriero!”
Dohko,
dopo aver compreso la vera identità del suo torturatore, tentò di reagire, di
sollevarsi usando il gomito ancora funzionante, ma venne schiacciato a terra
dalla mole del nemico, che era appena balzato su di lui, sprofondandolo nel
pavimento con un deciso colpo di tacco.
“Aaah!
Oggi è un giorno meraviglioso per morire, non credi, Libra? Non essere avido,
in fondo hai vissuto per più di due secoli e mezzo! Di tempo per farti un giro
sul pianeta ne hai avuto! Ah ah ah! Ringraziami, presto ritroverai Shin, il tuo
vecchio amico, e anche il di lui discepolo! Non credo manchi molto alla sua
morte!”
“Mu…
Mur?! Che vuoi dire? Cosa… hai fatto?!”
“Io?!
Assolutamente niente. Potrei mai?!” –Sghignazzò l’uomo, espandendo il cosmo
scarlatto, avvolgendolo sul palmo della mano destra. Una ad una chiuse le dita,
partendo dal pollice, con una calma pericolosa, accompagnando ogni singolo
movimento con una nuova violenta vampa di fuoco che piegò Dohko a terra.
–“Prima la Vergine d’Oro, quindi i suoi discepoli. Adesso tu e poi Mur. Rimane
solo Ioria, il mignolino birichino. Spezzato lui, sarà la fine dell’alta
casta!”
“Io…
non te lo permetterò!!!” –Ringhiò il Cavaliere di Libra, inorridendo a tale
infausta prospettiva, che avrebbe compromesso l’andamento della guerra in
corso. Si rialzò con tutte le forze che ancora gli restavano, ardendo nel suo
cosmo verde smeraldo. –“Non infangherai il nome dei Cavalieri d’Oro,
farabutto!”
“Temo
sia un po’ tardi per questo campanilismo di facciata! La bava di Cerbero non
lascia scampo!” –Sogghignò l’oscuro rivale, avvolto da un rogo di vampe infernali.
–“Avresti dovuto pensarci prima di farti ingannare!”
“Zitto,
bestia! Muori e chiedi perdono a Virgo per aver disonorato questo tempio! Colpo dei Cento Draghi!!!” –Gridò
Libra, portando, con gran fatica, entrambe le braccia avanti e liberando i
maestosi animali di Cina.
“Patetico!”
–Commentò l’uomo dalla fattezze del Cavaliere della Vergine, volgendogli contro
un palmo della mano e lasciando che l’improvvisato attacco vi si schiantasse,
esaurendosi poco dopo, incendiato, quasi annientato, dalle fiamme mortifere che
lo rivestivano. Le stesse fiamme che prostrarono Dohko in ginocchio,
carbonizzando le sue ultime speranze. –“Sei sempre stato una spina nel fianco,
fin da quando eri una prugna viola, e il ringiovanimento non t’ha giovato! È un
vero piacere occuparmi personalmente di te! Non ci sono Sirio e Cristal
quest’oggi, per tentare l’Urlo di Atena insieme, nevvero? Non ci sono Ermes e
Artemide ad unire il loro cosmo al tuo, sorretti dalla stessa giusta causa!
Nessuna scappatoia, solo morte!”
“Sirio
e Cristal fermeranno i tuoi propositi di dominio, Flegias!!!” –Gridò infine il
Cavaliere d’Oro, fissandolo con disprezzo e disgusto. –“Non sarai mai re di
niente! Non impererai mai su…”
“La
tua voce mi ha stufato!” –Sibilò il Rosso Fuoco, infilando una mano nella bocca
di Dohko e stipandogli ben bene il fiore d’aconito in gola, tra gli spasimi e i
mugugni del Cavaliere, che sentì le viscere andare a fuoco. Quindi gli afferrò
la lingua, strappandogliela con violenza e osservandola poi con perverso gusto,
indeciso se tenerla o meno come souvenir della battaglia. –“Aconitum napellum incendĕ!” –Invocò, e dalla gola di Libra sortirono fiamme
ruggenti, che devastarono il suo corpo internamente. Drogato, pestato, arso
vivo, il Cavaliere d’Oro non resistette più, crollando sul marmo avvelenato e
dirigendo a Sirio il suo ultimo pensiero.
“Così
passo l’immortale Maestro di Cina! Onore e gloria a lui, e tutti quei discorsi
che si dedicano al morto! Tieniteli pure, io mi tengo la vittoria!” –Sogghignò
Flegias.
Adesso
ne era rimasto soltanto uno.
***
Phoenix
fu stupito nel vedere Serian di Orione di fronte a sé, il leggendario guerriero
dal fiero sguardo con cui si era scontrato un anno addietro, in un turbinoso
duello fisico e ideologico. Inizialmente pensò quasi che Discordia lo avesse
risvegliato dal sonno eterno per averlo al suo fianco nella conquista della
Luna, ma poi, osservando meglio, notò l’aura evanescente, i contorni sfumati,
prossimi a dissolversi, e capì che stava dialogando con uno spirito.
“Cavaliere
di Phoenix! Finalmente ci rivediamo e noto con piacere che la tua fiamma ancora
non è stata spenta, che le ali dell’uccello infuocato ancora ti sostengono nel
tuo volo verso la vittoria! Di ciò mi rallegro!” –Parlò l’antico Cavaliere di
Atena, prima di spostare lo sguardo verso la Dea cui era stato unito da un
legame a doppio filo. Amore e odio, riconoscenza e disperazione. –“Abbiamo poco
tempo, solo quello con cui le illusioni generate dal tuo colpo segreto
tratterranno la sua furia! Perché è questo che Eris vede, o meglio, crede di
vedere: i Cavalieri Ombra miei compagni che, per punirla di averli condannati
ad un secondo inferno, dirigono su di lei la loro vendetta! Ascoltami, è
necessario che tu vinca la Signora della Contesa, e puoi farlo, usando le sue
stesse armi!”
“Che…
cosa intendi, Cavaliere di Orione?!”
“Eris
o Discordia come ama farsi chiamare non è immune dallo spirito di contesa che
lei stessa ha liberato nel corso di millenni! Per quanto ami gloriarsi dei suoi
distruttivi risultati, del caos scatenato ovunque ella passeggi, il suo cuore è
in tumulto perenne, il suo animo è a pezzi, e su questo devi far leva per
sconfiggerla! È una Dea che non ha mai saputo essere donna, che non ha mai
saputo amare, a differenza di Era o Afrodite, e che al tempo stesso non ha mai
ricevuto affetto. Nessuno l’ha mai venerata, i popoli l’hanno sempre rifuggita,
spesso maledetta per l’odio che istigava in loro! Persino il sanguigno Ares ha
avuto ben più seguaci di lei! Motivo questo che l’ha resa invidiosa degli
Olimpi, della loro beatitudine e dell’amore che riuscivano a ricevere dagli
uomini, soprattutto Atena, la Vergine guerriera. Discordia me lo disse, lo
scorso anno, ammettendo di aver risvegliato noi Cavalieri di Atena solo ed
esclusivamente per fare un torto a lei, per farla soffrire, certa che avrebbe
penato nel vedere suoi seguaci lottare davanti ai suoi occhi inermi. E noi
abbiamo contribuito a farle del male… alla Dea che avevamo giurato di
difendere!” –Sospirò Serian, di fronte allo sguardo attento di Phoenix.
“Sbagliai,
quel giorno, ad accettare la sua offerta per una nuova vita! Come sbagliai ad
unirmi a lei, credendo che quella notte di passione potesse sublimare la
solitudine di un’esistenza vissuta senza amore e intrisa solo di guerre e
morte! Fu la paura dell’oblio dell’oltretomba, il timore di essere dimenticato,
a spingermi a quel gesto di cui adesso mi vergogno! E lo capii troppo tardi,
folgorato dalla lucentezza del cosmo di Pegasus, che mi ricordò quello dei miei
compagni, dei Cavalieri che ti hanno preceduto, di tutti i combattenti che
hanno lottato per Atena e per i suoi ideali fin da quando il mondo è stato
creato! Rialzati, Phoenix! Afferra la mano del passato, la forza silente degli
eroi che dal cielo stellato ti osservano, Cavaliere della Speranza, e lotta!
Lotta ancora!” –Affermò l’antico avversario, allungando un braccio verso il
Cavaliere della Fenice, che lo afferrò con decisione, gli occhi bagnati di
lacrime, prima di sollevarsi, avvolto nel suo cosmo amaranto.
“Serian,
io… ti ringrazio! No, non ti dirò altro, saranno i miei gesti a parlare!”
–Scosse la testa Phoenix, mentre l’aura luminosa del Cavaliere di Orione si
faceva sempre più evanescente, fino a dissolversi del tutto. –“Addio, altro me
stesso!” –E chiuse il pugno, lasciando che una spirale di fuoco turbinasse
attorno al suo braccio. –“Discordiaaa!!!” –Gridò, attirando di nuovo
l’attenzione della Dea, sul cui volto comparve un’improvvisa espressione
smarrita. Non aggiunse altro e scattò avanti, mentre tutto attorno a sé si
aprivano ali scarlatte. –“Che la fiamma di Bennu sia con me!!! Ali della Fenice!!!”
Un
turbine di energia infuocata travolse la Signora della Contesa, sradicandola da
terra e scaraventandola in alto, ustionandole la Veste Divina e distruggendo
persino il tridente che stringeva in mano, fino a farla ruzzolare a terra, la
vaporosa chioma scompigliata e macchiata di sangue.
“Vile,
pagherai questo affronto!!!” –Ringhiò la Dea, rialzandosi prontamente, salvo
accorgersi che Phoenix era già di fronte a lei, il pugno pronto a colpire. Non
riuscì a scansarsi del tutto, solo quel tanto che le permise di essere sfiorata
dalla ruvida mano del ragazzo, che si fermò davanti alla sua fronte,
generandole un lieve pizzicore.
Discordia
sogghignò, avvampando nel suo cosmo divino e spingendo il Cavaliere indietro
con un’onda di energia che Phoenix neppure contrastò, aspettandosela,
lasciandosi invece trascinare, allontanandosi così da lei.
“Ben
fatto, ragazzo! Non vi è vergogna nella resa di fronte a un nemico
incommensurabilmente superiore a te! L’aver trattenuto il pugno ti consentirà
una morte rapida, anziché una drammatica agonia! Morte che avverrà sotto la
nera pioggia di strali che già ti hanno piegato! Melas…”
D’un
tratto la Dea gridò disperata, portandosi le mani alla testa, inarcando il
busto in malo modo, trafitta da una scossa di dolore che le invase il corpo
intero, espandendosi come una folgore dal sistema nervoso. Urlò più volte,
strappandosi i capelli, gli occhi iniettati di sangue per quell’improvvisa
scarica di sofferenza.
Quando
riuscì a recuperare il controllo di sé, normalizzando l’affannato respiro, vide
Phoenix, con un sorriso pago sul volto, sfrecciare verso di lei, avvolto nel
suo fiammeggiante cosmo amaranto. E comprese che era stato quel bastardo di un
orfanello a generare in lei così tanta pena. Quel bastardo di un Cavaliere devoto
alla Vergine Dea che lei tanto detestava, e che Discordia parve notare alle
spalle di Phoenix, sorreggerlo e vegliare su di lui in battaglia.
“Atenaaa!!!
Ancora ti fai beffe di me?! Tu e la tua stirpe siate dannati!!!” –Ringhiò la
Signora della Contesa, espandendo il cosmo e frenando l’avanzata della fenice
di fuoco. –“Avete avuto tutto! Era il potere e il trono olimpico, Afrodite
l’amore e la bellezza, tu la sapienza in guerra e il rispetto dei tuoi
guerrieri! A me non avete lasciato niente! Niente, solo il disprezzo delle
genti per la verità che la mia presenza faceva emergere, i primordiali istinti
bellici celati nell’animo di ognuno e che il vostro moralismo reprimeva
soltanto! Mi avete tolto ogni possibilità di trionfo, confinandomi nella
miseria! Ti odio, vi odio!!!” –Avvampò la Dea, mentre una tempesta di folgori
nere stramazzava Phoenix al suolo, scheggiando in più punti la sua corazza.
“Ci…
ci siamo! Ci siamo quasi… il suo sistema nervoso sta per crollare… Se riuscissi
a raggiungerla un’altra volta… un’ultima volta…”–Rantolò, affannando nel rimettersi in piedi
e accorgendosi che la maligna Divinità stava lanciandosi verso di lui, il volto
distorto da un folle piacere o da un disperato dolore taciuto per secoli. Quali
che fossero le ragioni della sua isteria, Phoenix non rimase ad aspettarla,
balzando indietro con un’agile capriola e atterrando su una sola mano, che
piegò, sfruttandola per darsi una spinta verso l’alto, sostenuto dalle ali
della corazza. –“A te, Discordia! Il colpo che stravolge la mente! Fantasma diabolico!!!”
Anziché
fuggire, la Dea aprì le braccia, ridendo follemente, andando incontro al suo
nemico, mentre un terzo sottile foro si apriva al centro della sua fronte,
facendo scivolare qualche goccia di Ichor sul viso stravolto dalle emozioni.
Emozioni che, quell’ultimo colpo, incrementarono ulteriormente, scavando nel
passato di Eris con precisione clinica, ben sapendo adesso cosa cercare. Le sue
origini, l’origine di quell’odio che aveva sempre mostrato verso gli Dei suoi
pari e gli esseri umani, un odio che nascondeva soltanto un infinito rammarico.
“Ti
vedo, Atena!!!” –Ringhiò, volgendo lo sguardo verso Phoenix, che strabuzzò gli
occhi confuso. –“Oh sì, ti vedo che ammiri candida l’operato dei guerrieri, i
tuoi boia, senza mai sporcarti le mani! Oh, certo, sei l’ipocrita per
eccellenza, mascheri dietro parole di pace le guerre e i sacrifici che hai
imposto all’umanità! Tu, ancor più di me, dovresti essere definita Madre del
Dolore! Tu sei la vera Signora dei Mali! E allora, poiché così è, ti faccio un
dono! Accettalo, ne sei degna ben più di me! Eccolo!” –Aggiunse, lasciando che
il suo cosmo divino generasse un pomo dorato, porgendolo avanti a sé, sul palmo
della mano destra.
Phoenix
capì che Serian aveva detto il vero e che il Fantasma Diabolico aveva spezzato il bellicoso, ma ancora
razionale, spirito della Dea nemica, lasciando che tutto l’odio covato si
riversasse fuori. Osservandola adesso, pareva una delle Erinni, gli occhi
iniettati di sangue, lo sguardo pazzo e al tempo stesso gioioso, una tempesta
di fulmini neri che danzavano attorno a lei. Ma in fondo a tutto, un baluginio
lontano e mai ammesso, il Cavaliere parve vedere un’accorata richiesta, forse
una speranza. Lo vide nel braccio teso che Discordia stava offrendo ad Atena,
come se l’antica rivale fosse di fronte a lei, e lo vide in quel dono, in quel
frutto della contesa, che di Eris era l’essenza.
“Prendilo,
Atena!” –Ripeté, quasi implorando la Dea. Al chè Phoenix annuì.
Eris
sorrise, un atto per la prima volta sincero, e lasciò che la mela d’oro
fluttuasse di fronte a sé, per poi liberare una violenta scarica di energia che
afferrò la Dea stessa, strattonandola avanti, fino a che il pomo non gli si
attaccò al petto, sprofondando nel suo cuore.
Discordia
urlò, sbraitò istericamente, tentando invano di afferrare l’intangibile frutto,
non ottenendo altro risultato se non strapparsi le vesti, graffiarsi la pelle,
affondando gli artigli tra sangue e viscere umane. Il suo strillare scagliò
persino Phoenix indietro, obbligandolo a sollevare un braccio per pararsi il
volto dalla scoordinata pioggia di fulmini neri che stava bersagliando il
Cerchio di Urano. Ma questa andò lentamente scemando, mentre Eris si accasciava
esausta a terra, il corpo straziato da artigliate violente che si era
autoinflitta. Del pomo d’oro non vi erano tracce, e Phoenix sapeva che non era
mai esistito, se non nella mente di Discordia.
Con
un balzo fu su di lei, mentre l’esausta Dea sollevava lo sguardo vitreo, senza
che fosse chiaro chi o cosa stesse davvero guardando. Il Cavaliere della Fenice
infiammò al massimo il proprio cosmo, concentrandolo attorno al pugno e
muovendolo verso il petto dell’avversaria, che proprio in quel momento proruppe
in un’ultima isterica risata, gli occhi arrossati ormai colmi di lacrime.
“Che
in un’altra vita tu possa trovare serenità!” –Mormorò il giovane, affondando il
pugno di fuoco nel corpo di Eris, che incendiò all’istante, sotto le note di
una selvaggia ilarità. Quindi le strappò il cuore, osservandolo ardere nel suo
pugno e consumarsi poco dopo, senza provare il benché minimo rimpianto.
“Molti
nemici ho affrontato e persino contro quelli più ostili non ho provato piacere
nell’ucciderli, poiché sapevo, dai loro racconti, dalle confessioni che il Fantasma Diabolico era riuscito a
tirare fuori dai loro cuori martoriati, che in fondo non erano malvagi. Non
nell’accezione che la semantica vorrebbe dargli. Virgo, Gemini, Alcor, Kanon,
Ippolita erano solo infelici. Persino Hrymr, e il suo desiderio di vendetta,
dovuto alla barbara fine della sua stirpe, ero riuscito a capirlo. Ma tu, come
Deimos prima di te, non meriti alcuna pietà né comprensione! In te non c’è
niente di buono, poiché soltanto tu hai scelto chi essere! La Dea dell’Odio! E
come tale sarai ricordata! Addio, Signora della Contesa!” –Esclamò, mentre il
fuoco della fenice divorava quel lembo del Cerchio di Urano ove si era
consumato lo scontro.
Quindi,
dando le spalle al declinante rogo divino, Phoenix cercò i cosmi dei suoi
compagni. Li aveva sentiti accendersi durante la battaglia, anche quello di
Andromeda, che invece avrebbe dovuto rimanere al sicuro a palazzo, e si chiese
se le truppe di Ares non avessero già superato i nove cerchi. Concentrando i
sensi, invece capì che il fratello era ben più vicino e che forse c’era ancora
speranza di vittoria. Conscio che Pegasus avrebbe capito, il ragazzo cercò la
via verso i cerchi interni, mentre la lancia di Nike si apriva infine strada
nel petto di Ares.
Capitolo 26 *** Capitolo ventiquattresimo: Per il mio futuro! ***
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO: PER IL MIO FUTURO!
Il
drago di luce si abbatté su Horkos con gran foga, scaraventandolo contro una
parete del massiccio montuoso, permettendo al Cavaliere di Ariete di rifiatare
e di sorridere al suo inaspettato salvatore.
“Grande
Mur, state bene?” –Esclamò Sirio, avvicinandosi e aiutandolo ad alzarsi.
“Adesso
sì, grazie!” –Disse l’uomo, prima di raccontare quanto accaduto, rimarcando
come non avesse idea di chi fossero quei guerrieri, chi li avesse inviati e
soprattutto perché. –“Ciò che so, e che per adesso mi basta, è che minacciano
la sopravvivenza dell’ultima colonia di Mu, della mia gente! E devo fermarli!
Mia è la responsabilità di averli condotti qui, un’ingenuità che non avrei
commesso se fossi stato lucido!”
“Vi
aiuterò, Grande Mur, abbiate fiducia in me!”
“Lo
so, Sirio! Lo so!” –Sorrise per la prima volta il Cavaliere di Ariete, ponendo
una mano sulla spalla del ragazzo, prima di voltare lo sguardo verso l’ingresso
nella montagna, laddove Horkos si era appena rimesso in piedi.
“Un
drago e un caprone! Due teste da mozzare, due trofei da esporre nella mia sala
privata!” –Ghignò, iniziando ad espandere il proprio cosmo.
“Come
osi?!” –Avvampò subito Sirio, facendosi avanti, ma il Cavaliere d’Oro lo
afferrò per un braccio, muovendo la testa in cenno di diniego. –“Ma… Grande
Mur, lasciatemi combattere al vostro fianco!”
“Sarebbe
un onore, Sirio! Ma non adesso! No, ora ho bisogno che tu mi faccia un favore!
Salva la mia gente, te ne prego, proteggili dalla furia delle Amphilogie! Se la
loro potenza è pari a quella del fratello, potresti aver bisogno di tutte le
tue forze per superare tale impresa!” –Gli disse, fissandolo con occhi lucidi.
Una richiesta accorata a cui Sirio non seppe dire di no. Annuì, ricambiando il
sorriso del guerriero, prima di voltarsi verso Horkos e corrergli incontro,
avvolto nel suo cosmo color verde acqua.
“Ti
stai gettando allo sbaraglio!” –Commentò quest’ultimo, scattando avanti a sua
volta. –“Stur…”
“Errore!!!”
–Gridò Sirio, balzando improvvisamente in alto e sollevando il braccio destro,
prima di calarlo di scatto, generando un fendente di energia cosmica.
Horkos
tentò di evitarlo, ma i poteri psicocinetici di Mur lo inchiodarono sul posto.
Gli bastò un attimo per liberarsene, ma in quell’attimo Excalibur si abbatté
sul suo braccio, scheggiando la Veste Divina e raggiungendo le carni al di
sotto. Ringhiando, il figlio di Discordia si voltò verso l’ingresso della
montagna, proprio mentre Sirio lo inforcava di corsa, sostenuto dalle ali della
sua corazza, ma non poté seguirlo poiché già il cosmo del Cavaliere d’Oro
rifulgeva splendente di fronte a sé.
“Per il Sacro Ariete!!! Rivoluzione stellare!!!” –Esclamò Mur,
mentre migliaia di stelle cadenti tempestavano il tozzo corpo del figlio di
Eris.
“Fino
alla fine, eh, Cavaliere?!” –Ghignò Horkos, espandendo il cosmo oscuro e
scatenando una deflagrazione energetica che squassò il fianco della montagna,
distruggendo il sentiero di accesso alla colonia, sommergendo i due contendenti
sotto una coltre di neve, roccia e ghiaccio eterno.
***
L’esplosione
fece sobbalzare Sirio, che correva trafelato lungo la tortuosa mulattiera nelle
profondità del Dhaulagiri. E lo fece fermare per pochi secondi, giusto il tempo
di ricordarsi che Mur era un potente Cavaliere d’Oro, degno di stima e di lode,
e che doveva aver fiducia in lui, ricambiando quel sentimento che lo aveva
portato ad aiutarlo più volte, fin dai tempi del loro primo incontro nello
Jamir.
“Se
la caverà!” –Si disse il ragazzo, riportando lo sguardo avanti e riprendendo a
correre. Di preciso, neppure lui sapeva bene verso cosa, ma Mur aveva parlato
di una colonia e ritenne che quella fosse l’isola felice dove i discendenti di
una delle prime civiltà terrestri ripararono dopo l’affondamento della loro terra
natia. Un luogo pregno di storia e cultura che ignoti nemici stavano
minacciando.
“Horkos…
Figlio di Discordia…” –Rifletté, ricordando gli scontri con i Cavalieri Ombra
risvegliati da quella cupa Divinità. –“Che la sua stirpe voglia vendetta? Cos’altro
potrebbero cercare in questo luogo di cui nessuno, finora, aveva notizia?!”
Tutto
preso da intricati pensieri, quasi non s’avvide della figura che apparve dietro
una curva, proprio al centro del sentiero. Esile, non molto alta, una donna dai
lunghi capelli scuri procedeva con cautela, guardandosi attorno smarrita e
tenendosi una mano sul fianco destro, il volto contratto dagli spasimi. Gli ci
volle qualche secondo, a Sirio, per riconoscerla, il tempo di cui la sua mente
abbisognò per realizzare che la donna ferita che le si era appena parata di
fronte era colei che tanto aveva cara.
“Fiore
di Luna?!” –Esclamò, fermandosi a pochi passi di distanza e guardandola con
occhi sgranati, mentre un rivolo di sudore gli colava lungo la schiena. –“Cosa…
fai?”
“Sirio?!
Oh Sirio, ti ho trovato!!!” –Parlò la fanciulla, avanzando verso di lui e
allungando una mano, la stessa che aveva tenuto fino ad allora premuta sulla
ferita al fianco destro. Una mano da cui grondavano gocce vermiglie.
“Fiore
di Luna, ma che ci fai qua? No… no, non è possibile!!! Non puoi essere lei!”
–Scosse la testa il combattente di Atena, alla ricerca di una spiegazione
razionale.
Fu
allora che la ragazza inciampò, cadendo di fronte a lui, con un gemito che fece
trasalire il Cavaliere, la mente confusa e preda di ansie e dubbi. Non poteva
essere la donna che amava, di questo Sirio era certo. Fiore di Luna era ancora
ai Cinque Picchi, dove quella mattina l’aveva lasciata, distesa nel loro
giaciglio, ancora intenta a sognare il loro futuro assieme. Il futuro di cui a
lungo, in quei giorni di quiete, avevano discusso, giungendo a una sola
conclusione.
“Aiutami,
Sirio!!!” –La voce della fanciulla lo strappò ai suoi pensieri, quella voce
così identica a quella di colei che per anni lo aveva sostenuto e consolato,
durante l’addestramento e in seguito, quando le guerre del mondo da bambini li
avevano fatti diventare adulti. –“Mi fa male…” –Aggiunse, sollevando le vesti
color porpora e rivelando una ferita causata da un taglio di lama, da cui sangue
sgorgava copioso.
“Cos’è
successo? Perché sei qui?”
“Non
è ovvio?!” –Mormorò lei, chinando il capo con imbarazzo, quasi temesse la sua
reazione. –“Ti ho seguito, Sirio. Non potevo restare ancora a casa, da sola, a
languire giorno dopo giorno, aspettando tue notizie, il tuo ritorno o che
Pegasus ti riportasse in un feretro. Quante volte mi hai abbandonato? Non le
conto più ormai… Si perdono insieme alle lacrime versate nelle mie notti
solinghe. E stamani ho pensato che avrei potuto cambiare il fato, iniziando un
nuovo cammino insieme… come i tuoi amici!”
“Co…
come?! Che c’entrano gli altri?!”
“Non
combatte forse Pegasus da sempre assieme a Lady Isabel? Con lei e per lei. E
Andromeda e Nemes? Sono entrambi guerrieri. E Flare non ha mai avuto timore di
scendere in battaglia, temprata a sopportare ben più del freddo di Asgard, per
Cristal! Solo per amore suo. Perché io non posso fare altrettanto?!”
“Tu
non sei una guerriera, Fiore di Luna. Sei una ragazza... anzi, sei… io non so
cosa sei, non so nemmeno come tu possa essere qui… se davvero… sei tu.”
–Mormorò il Cavaliere, agitandosi e torturandosi per il tempo che stava
perdendo.
“Ma
che stai dicendo, Sirio? Chi mai dovrei essere?!”
“Non
lo so! Un inganno forse. Non capisco… Già una volta fui sorpreso da una
combattente che si finse la donna che amo, e non posso, non voglio, permettermi
di…” –Ma la sua frase fu interrotta da una parola, una sola parola che la
fanciulla ferita pronunciò. –“Co… come?! Cosa hai detto?!”
“Ryuho!”
–Ripeté Fiore di Luna, singhiozzando. Quindi, prendendosi la testa tra le mani,
chinò il capo, quasi prostrandosi a terra tra le lacrime.
Sirio
rimase paralizzato di fronte a quella scena, con quell’unica parola che ancora
gli rimbombava nella mente. Quella parola eletta a simbolo del loro amore che
solamente la vera Fiore di Luna, e nessun sosia avversario, poteva conoscere.
Scusandosi
per aver dubitato di lei, il ragazzo si abbassò sulla fanciulla, pregandola di
non piangere più e di mostrargli la ferita, di modo che potesse curarla alla
bell’e meglio, in attesa che Mur, o uno della sua stirpe, avesse modo di
occuparsene.
“Oh
Sirio, sono così felice di essere con te!” –Disse lei, ansimando. –“Scusami se
ti ho seguito, non volevo essere un peso… volevo soltanto stare con te…”
“Lo
voglio anch’io, Fiore di Luna! Lo voglio anch’io!” –Commentò placido il
Cavaliere del Dragone, carezzando i morbidi capelli della ragazza, mentre i
loro occhi si incontravano, trasmettendosi tutto il loro amore. Un attimo dopo
le labbra di lei si posarono su quelle del compagno, bagnandole con le lacrime
scivolate sul suo volto. Un bacio che sembrò fermare il tempo attorno,
attutendo i rumori e lasciando che tutto sfocasse, che tutto precipitasse
nell’oblio.
Non
appena Fiore di Luna allontanò le labbra, Sirio crollò a terra senza neppure un
gemito, gli occhi vitrei, la bocca ancora fresca del sapore di lei.
“Mai
fidarsi di una donna!” –Commentò la fanciulla, tirandosi indietro i lunghi
steli corvini, prima che le sue forme mutassero, rivelando quelle della figlia
di Discordia.
Era
un trucco vecchio come il mondo, rifletté Lethe, ma ogni volta c’era sempre
qualcuno che ci cascava. Del resto nient’altro
un uomo desidera se non trovare appagamento ai propri desideri, ai propri
ideali, ai propri progetti. Una
conferma di vita in mezzo al caos imperante nel mondo! E lei, Dea della
Dimenticanza, quei sogni li faceva propri, mostrandoli come prospettive di
futuro recente, prima di strapparli dalla memoria dei nemici, assieme al
ricordo di ciò che tali speranze aveva generato.
***
Dopo
la scomparsa di Loki e Surtr, Sirio era rientrato ad Atene assieme ai Cavalieri
dello Zodiaco suoi compagni, trattenendosi solo una notte, per riposarsi e
curare le proprie ferite, sospinto dal desiderio di tornare ai Cinque Picchi e
abbracciare Fiore di Luna. Ormai lo aveva capito, e vedere Cristal consolare
Flare per la perdita della sorella non aveva fatto altro che confermare i suoi
sentimenti. Per quanto ardesse nel suo cuore un anelito di libertà, che lo
avrebbe spinto sempre e comunque a lottare per gli uomini, uguale calore aveva
iniziato ad emanare una fiamma nata col tempo passato assieme. La fiamma più
potente dell’universo.
“Ti
amo!” –L’aveva svegliata così quel mattino, con un bacio, strappandole un grido
di felicità per quell’improvvisa ma gradita sorpresa. –“Voglio stare con te!
Per sempre!” –E aveva desiderato che tale auspicio divenisse presto certezza.
Lo
pensava davvero, e anche Fiore di Luna vi credeva. Del resto lo aveva sempre
aspettato, ogni volta in cui era partito per affrontare una nuova minaccia. Ma
la più grande, il timore di una sempiterna solitudine, l’aveva sopportata lei
stessa, da sola, trovando nella speranza di un futuro insieme la forza per
superarla. Quando, dove e come erano soltanto domande che si perdevano nelle
acque della Cascata del Drago, quel che contava, quel che davvero valeva, era
la certezza di quella verità, che la coppia suggellò una notte, scambiandosi
promessa d’amore eterno e unendosi sotto il cielo di Cina. Lo stesso cielo che,
da bambini, avevano ammirato insieme, in cerca di una stella cadente che
potesse indicare loro il cammino.
“Non
sarò un Cavaliere per sempre!” –Le aveva detto Sirio. –“Un giorno le tenebre
verranno spazzate via, da un così luminoso vento di giustizia che darà nuova
linfa alla Terra intera, nuova fede agli uomini. Un vento di futuri non troppo
distanti, che si offrono al palmo della nostra mano. Io combatto per questo,
Fiore di Luna! Non soltanto per te, per Atena o per i miei compagni, ma per
garantire a tutti noi una vita felice, paghi nelle nostre ambizioni. E
finalmente sereni!”
“Lo
saremo mai, Sirio?!” –Aveva sospirato la fanciulla, stretta al compagno, che
non aveva saputo offrirle risposte migliori di un abbraccio e di un bacio sul
ventre, che a lungo aveva carezzato quella notte, sepolcro ove giaceva la loro
promessa di fede.
E
quel giorno, quando il Cavaliere aveva percepito cosmi inquieti saturare
l’aria, ed esplodere minacciosi in vari luoghi della Terra, alcuni anche vicino
ai Cinque Picchi, aveva rimarcato l’importanza di quel giuramento. –“Tornerò!”
–Aveva affermato, indossando l’Armatura Divina, di fronte agli occhi inquieti
di Fiore di Luna. –“Lo farò per noi, e per il figlio che porti in grembo!”
“Come
lo chiameremo, Sirio?!”
“Ryuho!”
–Aveva risposto lui, sorridendo. –“Picco del Drago! A ricordare il luogo in cui
è nato il nostro amore e nella speranza che un giorno egli possa ergersi al di
sopra delle tenebre del mondo, rischiarandole con la purezza del proprio
cuore!”
Quello
era il bagaglio emotivo che Sirio portava nel cuore quando aveva raggiunto Mur
tra le montagne, la leva indistruttibile su cui avrebbe fatto pressione per
rimettersi in piedi ogni volta in cui un nemico o il fato avverso lo avrebbero
piegato. Per quello, per il suo futuro, avrebbe lottato ancora.
Eppure…
“Do…
dove sono?!” –Mormorò il ragazzo, la cui mente stava scivolando nell’oblio,
sommersa dalle acque della dimenticanza in cui Lethe l’aveva immersa.
Di
quei ricordi, di quel bacio, delle notti trascorse insieme pareva non essere
rimasto niente. Solo fatue reminescenze, che veli di nebbia stavano
allontanando sempre più da lui, strati di incertezza ove persino i nemici
affrontati, e gli amici al cui fianco aveva lottato, divennero figure
evanescenti. Cancer, Capricorn, Luxor, Orion, Crisaore, Ade, Ares, Flegias e
molti altri svanirono, tra macchie di sangue e morte.
Chi era il guerriero dalla corazza rossa
che si faceva vanto di avere uno scudo come il mio? E quei demoni di nero
vestiti che affrontai in gruppo di fronte a un’enorme muraglia? Che muro era?
Ed era davvero un muro, o forse era un palazzo?
Domande
e dubbi subissavano la sua mente, rincorrendosi e mutando ogni volta in cui i
ricordi sfumavano, divenendo sempre più sottili, al punto che a molti avversari
non riuscì a a dare un nome. Alla fine, di tutti quegli scontri e di quei
guerrieri, Sirio perse anche il ricordo di averli combattuti, chiedendosi se
non fossero stati piuttosto dei surrogati di realtà, mondi fantastici in cui la
mente aveva trovato rifugio.
Niente è reale. Si disse, vittima di un incantesimo cui non poteva
opporsi. E un’aggraziata voce di donna rincarò la dose, incitandolo a lasciarsi
andare, a lasciarsi cullare dalla serenità, da quella pace dell’animo che aveva
diritto di provare.
“Dimentica!”
–Mormorò Lethe, carezzando il volto di Sirio e manovrando le sue capacità
percettive. –“Sei giovane, sei bello. Hai diritto alla felicità, non credi,
figlio mio? Allattato da una madre che sa cosa è meglio per la propria progenie
e non da una Dea che solo di sangue e guerra ha intriso la vostra adolescenza,
impedendovi di viverla a pieno! Adesso potrai ricominciare, adesso potrai
essere davvero felice! Guarda!” –E mosse ulteriormente i suoi ricordi.
Era
il primo giorno di scuola, al liceo classico della sua città. Sirio adorava
leggere, navigare lungo le pagine dei libri della biblioteca di famiglia, ove
trascorreva ore, anche da solo, a nutrirsi di un’antica sapienza. E quando suo
nonno veniva a fargli visita, tornando da uno dei tanti scavi che conduceva in
Medio Oriente, il ragazzo sedeva sul divano assieme a lui, per ascoltare i
resoconti delle sue avventure, affascinato da un mondo preistorico che un
giorno avrebbe scoperto. Così aveva deciso di coltivare i suoi interessi
umanistici, sperando di diventare un archeologo o un professore universitario e
aiutare a diffondere la cultura.
“Ehi
Sirio, ci vediamo stasera alla festa! Non mancherai vero?!” –Gli disse un
ragazzo dai mossi capelli castani, passandogli accanto nei corridoi della
scuola. –“Ho sentito che ci saranno tutte le ragazze della seconda, soprattutto
quella cinesina che ti piace tanto!” –E corse via, assieme a un amico dai
capelli biondi, lasciando Sirio ad osservarli pensieroso.
Non
ricordava i loro nomi, né come si fossero conosciuti, forse erano nella stessa
classe, ma sentiva di voler loro bene, sentiva che i loro destini erano
connessi. E quando rientrò a casa, dopo le lezioni, e chiese ai genitori il
permesso di uscire la sera, questi furono ben lieti di concederglielo, ritenendo
che alla sua età avesse pieno diritto di svagarsi con gli amici.
“Te
lo meriti, figlio mio!” –Gli disse sua madre, baciandolo e avvolgendolo in un
tepore che solo la sicurezza di una famiglia poteva infondergli.
E
Sirio era felice, non aveva motivo di non esserlo. I suoi risultati scolastici
erano eccellenti, i suoi genitori erano fieri di lui, gli amici lo adoravano,
potendo sempre contare sul suo aiuto. E adesso aveva persino iniziato a
frequentare la ragazza dagli occhi a mandorla che da anni lo faceva impazzire. Come potrebbe la vita essere migliore di
così? Si chiese, tornando a casa in bicicletta.
Fu
allora che una scossa violenta fece tremare il manto stradale, e forse l’intera
città, abbattendo palazzi e aprendo voragini in cui edifici e uomini
rovinarono. Crepacci da cui sorsero improvvise colonne di luce verdastra, che
si innalzarono verso il cielo. Colonne che, Sirio strabuzzò gli occhi stranito,
somigliavano a dragoni di luce. Durò un attimo e nulla più, il tempo con cui il
paesaggio cambiò di nuovo e Sirio si ritrovò a casa, con la madre che lo
aspettava sulla soglia, per abbracciarlo.
“Hai
sentito il terremoto, mamma?” –Domandò, affannato e confuso.
“Quale
terremoto, Sirio? Non è successo niente!” –Gli sorrise, prendendogli lo zaino e
incitandolo a correre in cucina, dove una tavola imbandita lo aspettava. –“Non
è successo niente, pensa solo a mangiare!” –Ripeté, cullandolo, come ogni
giorno.
E
forse, in fondo, era davvero così. Aveva sognato, distratto da un riverbero di
luce che aveva scambiato per un dragone, ed era caduto dalla bicicletta. E
presto anche il ricordo di quel sogno scomparve, travolto da un presente così
festoso e intenso in cui Sirio venne risucchiato. Gli studi, gli amici, le ore
in biblioteca con il nonno, le serate a passeggio sul molo con la sua ragazza.
E sua madre che ogni giorno, regolarmente, lo attendeva sulla soglia,
prendendosi cura di lui e indicandogli il sentiero. Così sempre, e sempre così.
Un’eterna felicità.
Eppure…
Una
leggera contrazione del volto del ragazzo infastidì Lethe, che ancora non era
riuscita a distruggere del tutto la sua coscienza. Cos’era stato quel ricordo?
Quel frammento che aveva rischiato di destabilizzare la struttura della sua
opera, quella vita perfetta in cui la mente del ragazzo si era persa? Quel ricordo… sta tornando!!!
Come
un flash improvviso, le acque del mare si sollevarono di fronte agli occhi
straniati di Sirio e della sua ragazza, che amavano trascorrere le serate a
passeggiare sul molo, fantasticando su terre lontane ove un giorno avrebbero
veleggiato assieme. Il giovane mosse un passo indietro, mentre onde immense
sfrecciavano verso di lui, abbattendosi sul pontile, sulle navi ormeggiate,
sulla spiaggia e la sua città, celandola per un momento al suo sguardo e permettendogli
di vedere all’interno. Tra l’acqua e la schiuma torbida dei suoi ricordi, vide
un uomo rivestito da una corazza d’oro lucente fronteggiarne un altro, su cui
aleggiava una tenebra infuocata. Volti che non conosceva, che non ricordava, ma
che sembravano chiamarlo.
“Sirio…”
–Mormorò la figura dalla corazza d’oro, il cui volto sanguinante pareva
guardare proprio verso di lui. Allungò una mano, priva di alcune dita,
nonostante Sirio tentasse di allontanarsi, e lo raggiunse, sfiorandogli la
fronte e bagnandola. Non con sangue, come il ragazzo aveva temuto, ma con
acqua. Fresca e lucida come rugiada. –“L’acqua della cascata dei Cinque
Picchi!” –Aggiunse l’uomo, prima di scomparire, travolto dal turbinare furioso
delle onde marine.
Quando
tutto si placò, e la baia riprese il suo consueto aspetto, Sirio si voltò verso
la ragazza dagli occhi a mandorla, trovandola ancora al suo fianco, sorridente
e pronta a passare un’altra notte assieme, come se nulla fosse accaduto.
Del resto, si disse il ragazzo, toccandosi il viso e lasciando
che le gocce d’acqua ruscellassero sulla sua mano, cos’è accaduto davvero?
“Niente.”
–Gli parve di udire la voce di sua madre che lo rassicurava. –“Andiamo Sirio!
Portami a ballare!” –Lo incitò la ragazza, mentre anche altri amici li
raggiungevano. –“Coraggio, Sirio, la festa ci aspetta!”
“Sirio!
Sirio! Sirio!” –Tante voci lo chiamavano, inebriandolo e rendendolo felice. Ma
così facendo, cantilenando di continuo nella sua mente, gli impedivano di
vedere davvero ciò che giaceva all’ombra della sua vita. Un’altra esistenza.
“Non
andare, Sirio!” –Lo chiamò sua madre, la voce incrinata per la prima volta dal
timore. –“Non percorrere quella strada, ti porterà solo dolore! Vieni a casa,
invece, vieni da noi!”
“Mamma,
io…” –Indugiò il ragazzo per qualche istante, mentre le gocce d’acqua nella sua
mano rilucevano vivide, sollevandosi nell’aria di fronte a lui ed esplodendo in
lampi di luce verdognoli. E in quei flash, in quei frammenti di visione, Sirio
vide ciò da cui stava fuggendo, ciò da cui sua madre, gli amici e l’amore lo
avevano allontanato. Il suo vero io.
“Dragoneee!!!”
–Gridò una voce all’improvviso, squarciando l’oscurità di quel futuro incerto
in cui era precipitato. E portando il ragazzo a riaprire gli occhi.
China
su di lui, intenta a massaggiargli la cute, c’era una donna dal volto emaciato,
che mai aveva visto fino ad allora. Una donna che di certo non era sua madre,
di cui non ricordava più il volto, né colei che lo attendeva ai Cinque Picchi.
“Chi
sei?” –Domandò infine, mentre l’esile donna si alzava, allontanandosi
scocciata.
“Sei
uno sciocco! Ti ho offerto la possibilità di una vita diversa, migliore da
quest’esistenza di affanni e morte, e tu l’hai rifiutata! Perché non hai
accettato di perderti lentamente nell’oblio? Perché hai gettato via la
tranquillità di una vita in cui chiunque, al tuo posto, sarebbe stato ben lieto
di vivere, con coloro che ama, senza doversi preoccupare più di niente? Io… non
lo capisco…”
Sirio
si rimise in piedi, scuotendo la testa frastornato, ma libero infine di tutte
quelle visioni che lo avevano disorientato.
“Avevo
rimosso i tuoi ricordi di guerra, generando un mondo di pace perpetua dove
saresti potuto vivere per sempre! Mai nessuno ha rifiutato un così dolce dono
di Lethe, Dea della Dimenticanza!”
“Lethe?!
Sei dunque sorella e compagna del Dio che il Cavaliere d’Ariete sta
fronteggiando? Il Dio che ha guidato una spedizione mortale in questa colonia?”
“Così
pare. Sebbene Horkos ed io abbiamo modi diversi di approcciarsi agli altri. Io
aborro lo scontro violento, il fluire abbondante del sangue! Avendo percepito
la bontà del tuo cuore, avevo deciso di farti dono di una fine placida, consona
al tuo spirito! Un infinito naufragare in un mondo perfetto! Ma rifiutando il
mio presente mi hai offeso, e ora vedrai il mio lato terribile!” –Affermò la
Dea, espandendo per la prima volta il cosmo e obbligando Sirio a fare
altrettanto.
“Ti
ringrazio per l’offerta, Divina Lethe, ma io stesso ho scelto questa vita, ogni
giorno, vivendola per ciò che ritengo sacro, pur doloroso che possa essere! E
non la cambierei mai! Sono un Cavaliere di Atena e per questo combatto!”
“Per
questo morrai, stupido idealista!” –Parlò la figlia di Eris con voce stridula,
prima di sollevare un braccio al cielo e generare un’immensa sfera di energia
azzurra e verde, simile ad un vorticare di acque perigliose. –“La dimenticanza
che ti aspetta adesso è ben diversa da quella in cui ti avevo poc’anzi cullato,
questa è fredda e immediata come la morte! Addio Dragone, perditi! Fiume dell’oblio!!!”
“Non
sperare che io mi arrenda!” –Rispose il Cavaliere a gran voce, portando
entrambe le braccia avanti e liberando il proprio cosmo scintillante. –“Colpo dei Cento Draghi!!!”
I
due poteri si scontrarono uno contro l’altro, crepitando folgori di energia e
rimanendo in equilibrio per lunghi istanti, obbligando entrambi i combattenti a
profondervi sempre più energia.
“Puoi
contrastarmi ma non vincermi, Sirio! Io sono una Divinità!” –Esclamò la donna,
aumentando l’intensità dell’assalto e travolgendo il paladino di Atena, fino a
schiantarlo contro il versante interno della montagna.
Quando
Sirio ricadde a terra, ormai privo dell’elmo scheggiato dell’armatura, Lethe
era già su di lui, fluttuando veloce nell’aria, come fosse un’evanescenza. Ma
la morsa che gli stringeva il collo, obbligandolo a guardarla negli occhi, era
reale, e funesta.
“Sei
stolto! Quale ideale può valere così tanto da rinunciare alla vita di propria
sponte? Gli onori della guerra, la soddisfazione di aver abbattuto il proprio
nemico?”
“Un…
figlio…” –Mormorò Sirio, fissando la Dea nelle bianche orbite e notandovi un
guizzo sorpreso. Approfittando di quella distrazione, il Cavaliere la colpì con
un calcio improvviso, liberandosi dalla sua presa e spingendola indietro,
avvampando nel proprio cosmo. –“Un figlio che solo colei che amo mi potrà dare!
E non sarà un’illusione, no! Sarà reale, come l’amore che provo per lei, come
il futuro agognato assieme! E né tu, né alcuna Divinità potrà mai farmi
cambiare idea!!!” –Gridò, mentre dragoni di luce vorticavano attorno a sé,
avvolgendosi alle sue braccia e generando una poderosa massa di energia. –“Per
vincerti, per vincere una Divinità, dovrò spingermi più in là di quanto abbia
mai fatto finora! Perdonatemi, Vecchio Maestro, se violerò di nuovo i vostri
insegnamenti! Ma non posso fallire, non adesso che ho trovato la mia strada!!!”
“Impressionante!”
–Commentò la figlia di Discordia, prima di evocare di nuovo il torrente della
dimenticanza, aprire le dighe e scatenarne la furia.
“Pienezza del dragone, nei limiti di
Atena!!!” –Rispose Sirio, generando una straordinaria massa di energia che
cozzò contro il Fiume dell’Oblio,
frenandone l’avanzata. –“Iaaah!!!”
“La
tua è follia!!!” –Gridò Lethe, il tono di voce preoccupato dagli esiti
imprevedibili di una battaglia che sperava di evitare.
“Amare
è anche essere folli.” –Chiarì Dragone, cercando di rimanere calmo e
concentrato, per quanto l’aver liberato un simile ammasso di energia lo
sfiancasse ogni attimo sempre di più. Non solo per il continuo infondergli di
ogni stilla vitale, ma anche per il disperato tentativo di controllarlo, di
impedire che esplodesse, come Libra aveva sempre ritenuto, e che quindi
annientasse in un sol colpo l’intera catena del Dhaulagiri.
All’improvviso
un’enorme sfera di energia piovve su Lethe, schiantandola a terra ed
uccidendola, rilasciando tutto il cosmo accumulato in una poderosa
deflagrazione che scagliò Sirio indietro di parecchi metri, danneggiando in più
punti l’Armatura Divina e ustionandogli la pelle. Abbagliato da tale imprevisto
lucore, il Cavaliere faticò a rialzarsi, sbattendo le palpebre più volte,
ferito dal fastidioso riverbero e dall’ultima immagine che aveva della Dea
nemica. Un urlo disperato prorotto dal suo corpo sventrato, pallido cadavere
che giaceva adesso stramazzato al suolo, tra il pulviscolo e i detriti.
“Che…
è successo?!” –Mormorò, mentre i suoi occhi spaziavano nel polverone sollevato,
individuando una figura alta e snella avanzare a passo deciso. –“Chi sei?! Perché
l’hai uccisa?!”
“Dovresti
ringraziarmi, piuttosto, non interrogarmi! Ti ho risparmiato una fine lenta e
lacrimosa! Detestabile per un guerriero, non trovi, Sirio Dragone? Tu che
rappresenti una delle sacre bestie di Cina, aspiri a ben più gloriosa morte,
immagino. Morte che io, Polemos, posso darti!” –Esclamò l’uomo, rivelandosi
infine al Cavaliere di Atena.
Capitolo 27 *** Capitolo venticinquesimo: Quinto interludio. Arcobaleno. ***
CAPITOLO VENTICINQUESIMO: QUINTO INTERLUDIO.
ARCOBALENO.
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Sedici anni prima del secondo avvento.
C’era
guerra quel giorno ad Atene.
Le
Panatenee erano state interrotte da un attacco improvviso, condotto da
guerrieri dalle armature egizie. La folla si era dispersa, urlando e gemendo,
invocando la protezione della Dea Guerriera su tutti loro. Qualcuno era stato
ascoltato, altri erano caduti implorando pietà. Pochi infine avevano
combattuto.
Matthew
li aveva visti cadere, molti compagni di addestramento, ragazzi come lui che
non avevano ancora raggiunto i dieci anni. Li aveva visti morire davanti ai
suoi occhi, trafitti da spade in grado di scagliare raggi di energia, divorati
dagli artigli di una donna dalla corazza a forma di Sfinge, prima che iniziasse
la riscossa dei difensori del Santuario di Atena. Aveva visto il fumo levarsi
da più parti quel giorno, i cosmi dei Cavalieri d’Argento accendersi e
rischiarare il cielo, mentre i Custodi Dorati tentavano di impedire l’avanzata
nemica attraverso le Dodici Case, per proteggere l’Oracolo della Dea. Aveva
sentito questo e molto altro, nascosto nelle cavità sotto le gradinate
dell’arena, in un luogo scoperto per caso assieme ad alcuni amici anni
addietro, mentre cercavano un nascondiglio per evitare l’addestramento. Adesso
di quegli amici non era rimasto niente, uccisi da quella guerra improvvisa per
cui non erano preparati. Neanche lui lo era, del resto il suo maestro lo diceva
sempre, criticando la mancanza di concentrazione e l’indolenza che gli
impedivano di progredire, nonostante ne avesse le capacità.
Avrebbe
voluto averne, quel giorno, di capacità, così forse avrebbe smesso di udire le
grida del popolo impaurito, delle donne che supplicavano pietà, dei giovani che
morivano sotto edifici in fiamme. Mai avrebbe pensato che il Grande Tempio potesse
essere invaso, mai avrebbe pensato che l’Oracolo non avesse potuto prevederlo.
Già, il Sacerdote. Forse era troppo vecchio per decifrare i segni
portati dal vento. Forse era troppo sordo per ascoltare la Dea. Presto avrebbe
abdicato, lo dicevano in molti al mercato. E in molti indicavano nel suo
mentore un possibile successore.
Il
suo maestro. L’uomo che aveva tentato di sollevarlo dalla polvere di quotidiana
tristezza e farne un Cavaliere. O
quantomeno un apprendista. A volte non si sentiva degno neppure di quel
misero titolo. Non si sentiva degno di niente, in realtà, solo di starsene
nascosto mentre il resto del mondo crollava attorno a lui.
Rimase
nel suo nascondiglio per ore, fin quasi al tramonto, e vi sarebbe rimasto
ancora non fosse stato per un richiamo improvviso, una voce che aveva iniziato
a risuonargli nella mente. Un unico suono che sembrava invocare il suo aiuto.
Si
riscosse, alzandosi e guardandosi intorno, finché non percepì da dove
provenisse quel silenzioso richiamo che nessun’altro poteva udire. Dal luogo
più protetto del Grande Tempio, dove certo non sarebbe potuto arrivare tramite
il percorso ufficiale. Non solo perché la scalinata delle Dodici Case era
macchiata dal sangue di una guerra in corso, ma perché difficilmente i
Cavalieri d’Oro avrebbero consentito a uno sconosciuto di raggiungere la Sala
del Grande Sacerdote in quel preciso momento.
Così
Matthew dovette arrangiarsi.
Il
suo maestro, una volta, lo aveva portato ad allenarsi nelle valli rocciose alle
spalle della Collina della Divinità e da là sotto aveva ammirato il retro della
Statua di Atena baciata dal sole, l’enorme scultura eretta sulla terrazza della
Tredicesima Casa. Proprio dove Matthew voleva arrivare, e proprio dove arrivò,
dopo ore di dura e massacrante scalata. A mani nude, cadendo e ferendosi più
volte, si inerpicò lungo la parete di roccia, aprendosi una personale strada
verso la residenza dell’Oracolo, con cui sentiva il bisogno di parlare, per
confidargli i suoi sentori, i turbamenti del suo animo. Turbamenti che
riguardavano il suo maestro. Il valoroso Cavaliere di Gemini.
Anche
se non gli aveva detto alcunché, Matthew aveva notato che l’uomo era cambiato
negli ultimi giorni, da quando aveva ricevuto quella visita inaspettata, che a tutti
aveva tenuto nascosta. Persino al prode Cavaliere di Sagitter, con cui molto
era in amicizia. Matthew li aveva scoperti per caso, mentre rientrava da un
giorno di allenamenti, e li aveva seguiti, osservandoli parlare nel tramonto di
Atene, litigare e infine picchiarsi. Aveva trattenuto il fiato, scoprendo che
l’altro uomo con cui il maestro si incontrava di nascosto era suo fratello, e
che adesso era stato imprigionato a Capo Sounion per aver cospirato contro la
Dea. Matthew c’era persino stato, alla prigione del mare, che molti ritenevano
in disuso da tempo, e l’aveva visto, il fratello del Cavaliere di Gemini, origine
dei turbamenti del suo maestro.
Di
questo avrebbe voluto parlare al Sacerdote, quando fosse giunto alla
Tredicesima Casa. Ma non vi trovò nessuno, solo una scia di sangue che
macchiava il marmo di fronte alla Statua di Atena. Ancora abbastanza fresco.
Spaventato,
Matthew si nascose tra i tendaggi del tempio, cercando di capire cosa stesse
accadendo, dove fosse il Sacerdote e perché quel richiamo fosse giunto proprio
da lì. Rimase nascosto per ore, finché non calò la notte e un rumore improvviso
lo distrasse. Un uomo era apparso sulla terrazza della Tredicesima Casa, un
uomo che pareva mescolarsi alle tenebre stesse. In silenzio si tolse l’armatura
d’oro, pulendola dal sangue, e si immerse nella vasca nella Sala della
Purificazione, lasciando alle fresche acque di Grecia il compito di lavar via i
suoi peccati.
Con
orrore, Matthew riconobbe il corpo del suo maestro, i lunghi capelli, un tempo
azzurri, tinti di un grigio che andava facendosi sempre più scuro, e un giorno
sarebbe divenuto nero. Deglutendo a fatica, il ragazzo comprese che dell’uomo
dal cuore nobile che lo aveva addestrato non era rimasto niente, vinto da
tenebre così profonde che neppure la luce del sole avrebbe potuto rischiarare. Avrebbe
voluto parlarne con qualcuno, ma in fondo lui non era nessuno e nessuno lo
avrebbe ascoltato. L’Oracolo era morto, i Cavalieri d’Oro lo avrebbero deriso,
forse solo Micene lo avrebbe capito, ma il Sagittario era lontano, a combattere
in Egitto, ed egli era rimasto solo.
Rientrò
ai suoi alloggi, trovandoli devastati, come buona parte degli edifici dei
soldati, la mensa e anche l’infermeria. Per quella notte dovette accontentarsi
di dormire all’aria aperta, sotto una coperta che una vecchia gli donò, ma non
vide stelle nel cielo lontano. Solo un’ombra immensa ricoprire tutta la sua
vita.
Giorni
dopo lo raggiunse la notizia del tradimento di Micene, e del suo tentativo di
assassinare l’infante Atena. Tutti al Santuario ne furono sconvolti ma solo lui
capì che la lunga mano di Gemini aveva mietuto un’altra vittima e che l’ombra
ormai dimorava ad Atene. Per tal motivo, quella notte prese la decisione di
andarsene, con i suoi pochi averi e un fagotto di stracci, imbarcandosi su una
nave in partenza per l’Africa. Di mozzi, in fondo, i mercantili avevano sempre
bisogno.
Rimase
in mare per dieci anni, guadagnandosi da vivere come poté, girando attorno
all’Africa e a volte spingendosi fino in Australia, rendendosi conto che c’era
tutto un mondo fuori da Atene, un mondo che, continuando a restare al Grande
Tempio, non avrebbe mai potuto conoscere. A volte pensava ai suoi compagni
d’addestramento, alla battaglia di quel giorno d’estate, alla sorte del suo
maestro, ma poi finiva per scuotere la testa, convinto che fossero eventi
troppo grandi per lui, al di là della sua portata.
Tornò
ad Atene a vent’anni compiuti, sistemandosi nel villaggio di Rodorio assieme ad
alcuni marinai stanchi di vivere in mare. Per un po’ camparono lavorando come
pescatori o scaricatori di porto, ma poi molti si stufarono di stare a terra e,
spinti dal richiamo del mare, tornarono a cercare lavoro sulle navi in
partenza. Ma non Matthew, che anche di quella vita vagabonda si era stufato.
Fu
proprio al porto, mentre scaricava casse, che la vide per la prima volta.
Sembrava
fuori luogo, quella delicata figura dai morbidi capelli rossicci, intenta a
guardarsi attorno con fervido interesse, come se rare volte avesse visto delle
navi. Indossava una maschera che le copriva il volto, ma Matthew capì comunque
che lo stava fissando, così le sorrise, accennando un saluto e costringendola a
voltarsi dall’altra parte, imbarazzata.
“Ci
servono due casse di olive e anche del vino! Rosso per l’esattezza! In gran
quantità!” –Esclamò la voce squillante di una donna dai capelli verdi, che
stava concordando con il capitano della nave una consegna da effettuare
nell’entroterra. E Matthew non ebbe difficoltà a capire dove esattamente.
Quella
donna era una Sacerdotessa Guerriera e la ragazza che la accompagnava una sua
apprendista. Intuizioni che, scoprì in seguito dalle parole della stessa esile
fanciulla, si rivelarono fondate.
“Sei
stato gentile a caricare tutte le casse sul carro!” –Gli disse. –“Avrei potuto
occuparmene io, ma grazie lo stesso!”
“Dovere
di cavaliere!” –Ironizzò il ragazzo, asciugandosi il sudore dal volto con la
maglietta, senza perdersi lo sguardo vagamente interessato ai suoi addominali che
l’apprendista sacerdotessa tentò di dissimulare.
Proprio
in quel momento una bambina dai vispi occhi verdi gli passò vicino,
stringendosi alla lunga veste di un vecchio che camminava a fatica,
appoggiandosi a un bastone.
“Com’è
bella Atene, nonnino! Mi ci porti ancora?” –Esclamò la piccola, raggiante.
“Certo,
piccola Elena! Ci torneremo presto! Ma ora dobbiamo tornare sulla nostra isola,
con tutti i rifornimenti!” –Le sorrise, prima di inciampare e cadere a terra.
Matthew
corse subito ad aiutarlo, guidandolo alla propria barca e premurandosi che non
fosse ferito. L’anziano lo ringraziò più volte, rivolgendogli parole
benaugurali, prima di congedarlo con un sorriso stanco. Solo allora, tornando
al molo, il giovane notò che l’apprendista sacerdotessa era scomparsa.
La
rivide un anno dopo, nella stessa stagione, scoprendo che si chiamava Miha.
Venne da sola, quella volta, essendo la sua maestra impegnata in una missione
per conto del Sacerdote, e si permise di trattenersi un po’ di più, a parlare
con quel ragazzo dai capelli biondi per cui aveva un’inspiegabile simpatia. Matthew
le confessò che un tempo anch’egli aveva provato a divenire un Cavaliere.
“Sei un apprendista?!” –Mormorò a bassa voce, prima di dire al ragazzo di fare
silenzio. –“Non sono informazioni che dovresti dare agli sconosciuti! Non sai
che vige la legge marziale al Grande Tempio? Arles non ammette disertori!”
“Arles…”
–Ripeté cupo Matthew, abbandonandosi a un sospiro. Ringraziò Miha per il
consiglio e le rinnovò l’invito a tornare per un’ulteriore scorta. –“Magari in
tempi migliori, tempi in cui un ragazzo e una ragazza possano parlare senza
paura di essere uccisi per tradimento, defezione o altri assurdi pretesti!”
“Il
rispetto dell’autorità costituita non è il tuo forte!” –Ironizzò Miha.
“Non
quando non la riconosco!” –Si limitò a commentare Matthew prima di salutare la
ragazza.
Tempi
migliori arrivarono dopo pochi mesi, quando il giovane seppe che l’usurpatore
era stato sconfitto e Atena, la vera Atena, esiliata anni addietro dal suo
stesso Santuario, era tornata per riportare la pace.
“Arles
è morto?!” –Rifletté quel giorno, quando tutti a Rodorio festeggiarono la fine
della tirannia, preparandosi per partecipare alla grande adunata che la Dea
avrebbe tenuto nell’arena del Grande Tempio.
Matthew
non vi prese parte, incamminandosi da solo in un’area isolata e ben poco
frequentata. Il cimitero ove riposavano i guerrieri che avevano combattuto per
la giustizia e la libertà della Terra e che, dopo la prematura morte, non
avevano ottenuto altro che una lapide malconcia in un campo d’erba brulla. Il
ragazzo vagò tra le tombe per una buona mezz’ora, passando tra nomi che non aveva
mai sentito, Ludwig,
Serge, Gilles, Helga, Algerion, Edomon, Adamant, Tancredi, Tristano, Iulia,
Ian, Serian, Lesia, Relta, Izo, Kaiser, Eurialo, Niso, Noesis, fino a giungere
a tombe più recenti. Asterione, Betelgeuse, Cancer, Capricorn, Acquarius. E Gemini.
Di fronte alla tomba del suo maestro si inginocchiò.
E pianse. Finalmente pianse.
“Perdonatemi! Sono stato indolente! Avrei potuto
combattere e salvarvi, avrei dovuto farlo! Ma temevo che avrei fallito!”
–Mormorò, sfiorando la fredda lapide di marmo. –“Spero che adesso abbiate
potuto finalmente trovare pace!”
Quando rientrò a Rodorio, trovò Miha ad attenderlo.
Sapeva cosa gli avrebbe detto, quanto avrebbe insistito affinché tornasse al
Grande Tempio e riprendesse il suo addestramento. Quello, a sentir lei, era il
suo destino, il suo futuro.
“Non
rinunciare alla tua missione! Fallo anche per onorare l’uomo in cui credevi un
tempo!”
Matthew
annuì, abbracciando la ragazza e rientrando infine ad Atene, pronto per far
parte del nuovo corso che la storia avrebbe preso adesso che la Dea era
ricomparsa. Per quanto rasserenato dalla sua presenza, e dalla sua guida, il
ragazzo sapeva, al pari di tutti i fedeli di Atena Polias, che la sua presenza
significava una cosa soltanto.
L’oscurità
era forte adesso, e una nuova guerra sarebbe presto scoppiata.
***
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Un mese prima del secondo avvento.
Avalon
osservava Matthew praticare un esercizio mentale con una mela, un esercizio
molto semplice, in verità, che la maggior parte dei novizi imparava dopo pochi
mesi di addestramento, e che consisteva nel far rotolare una mela sul loro
corpo, dalla testa ai piedi, muovendola con la sola forza della mente.
Rudimenti di telecinesi di cui anche un bambino disponeva.
Eppure
per Matthew era impegnativo. E aveva già schiacciato due mele, sbattendole a
terra per la frustrazione.
“La
pazienza non rientra tra le sue virtù!” –Commentò un’anziana voce, affiancando
il Signore dell’Isola Sacra sulla cima dell’alto colle.
“È
un modo edulcorato per dire che non imparerà mai?” –Ironizzò Avalon, senza
staccare gli occhi dal ragazzo che, molti metri più in basso, sedeva nel meleto
provando ormai da ore senza riuscire.
“Tu
perché vuoi che impari?”
“Per
completarsi!” –Rispose Avalon. –“L’ombra si allunga su tutti noi, ogni giorno
un po’ di più, e quando il varco si aprirà Matthew dovrà essere pronto! Tutti
noi dovremo esserlo; non potremo funzionare al meglio se alcuni muscoli non
saranno sufficientemente sviluppati! Un uomo non può camminare a lungo se ha
un’unghia incarnita!”
“Credi
che il ragazzo lo sia? Reis e gli altri sono molto più avanti di lui!”
“Matthew
non è inferiore a nessuno, non in termini di addestramento! Sebbene discontinua
e frammentaria, ha goduto di una preparazione che ha coperto ogni sfera del
sapere di un uomo! Da Gemini ha appreso i fondamenti del cosmo e le tecniche
base di uno scontro fisico, dalla vita in mare ha imparato a sopravvivere e il
sudore del duro lavoro, dalle persone che ha incontrato ha conosciuto l’amore e
il rispetto. Qui, ad Avalon, ha perfezionato tutto questo, canalizzando le sue
energie per uno scopo superiore!”
“Che
cosa gli manca, allora?!”
“La
volontà di liberarsi dei fantasmi del passato!” –Commentò Avalon, fissando
l’Antico negli occhi e ricevendo un cenno d’assenso con il capo.
“Vuoi
ripetere il tuo vecchio trucco? Non ti stanchi mai di interpretarlo?”
“Per
la verità, pensavo a qualcosa di diverso stavolta. A qualcuno di diverso, forse
l’unica persona che possa dare a Matthew la giusta spinta, chiudendo così un
percorso iniziato quasi vent’anni fa!”
***
Fu
Avalon ad accompagnarlo sulla cima del Tor, percorrendo assieme il Sentiero del
Pellegrino, che si snodava lento attorno alla collina per sette cerchi. Reis e
Jonathan gli avevano detto che era un rito di iniziazione, e anche Marins,
prima di partire per l’Asia con Febo, lo aveva pregato di stare tranquillo,
conservando la mente lucida che un Cavaliere delle Stelle avrebbe sempre dovuto
avere.
E
forse era per quello che Matthew non si sentiva ancora parte del gruppo.
Per
quanto lo avessero accolto con calore, con il trasporto riservato a un
familiare ritrovato dopo molto tempo, e si fossero anche offerti di allenarsi
assieme, l’ultimo allievo di Avalon non aveva ancora rotto quel velo di
ghiaccio che lo separava dagli altri Cavalieri delle Stelle. Perché si sentiva
diverso, e forse non all’altezza.
Giunti
sulla cima del Tor, il Signore dell’Isola Sacra aprì il portone del campanile,
ultimo resto di costruzioni religiose che si erano succedute, al pari dei culti
praticati, nel corso dei secoli. Un gargoyle sembrò fissarlo incuriosito e
Matthew ricambiò lo sguardo, chiedendosi, non per la prima volta, cosa ci
facesse lì, con un piede sulla soglia dell’Altro Mondo, e perché il destino
avesse scelto proprio lui, in cuor suo immeritevole di così tante attenzioni.
“Il
destino non esiste.” –Gli ricordò Avalon, richiudendo il portone alle sue
spalle e lasciando il ragazzo da solo. Nell’ombra. Del presente e di tutta la
sua vita. –“Sono solo le nostre azioni a determinare chi siamo. E tu, per il
tuo buon cuore, sei stato scelto per indossare la Cintura dell’Arcobaleno, i
cui colori tingeranno il mondo dei sentimenti che celi nell’animo. Questo era
il proposito di Vasteras, e sono certo che sia anche il tuo.”
“I
miei propositi?!” –Rifletté Matthew, rimasto da solo.
“Sì,
per quanto strano possa apparire, anche un rinunciatario come te ha dei
progetti, delle ambizioni!” –Esclamò allora una voce, proveniente dalle tenebre
attorno. –“Che poi tu non sia uomo abbastanza per lottare per essi è un altro
discorso!”
“Ma…
questa voce?!” –Mormorò il ragazzo, mentre una sagoma di luce prendeva forma
davanti a lui. Un uomo dal volto maturo, segnato dal tempo e dal fato, con
lunghi capelli grigi che ricadevano sull’armatura dorata che indossava.
–“Maestro, siete voi?! Il Cavaliere di Gemini?!”
“Questo
il ruolo che ebbi in una parte della mia vita!” –Chiosò il suo interlocutore.
–“Parte che terminò quando venni sopraffatto dalla Pietra Nera, abbandonando
questa corazza e indossando altri paramenti! Ma che te ne parlo a fare? Tu
c’eri, tu sai quel che accadde! Osservasti impaurito, riparato dietro le tende
della tua vita, il consumarsi dell’ombra nel mio animo, senza fare niente, come
tuo solito. Senza intervenire. Mi lasciasti cadere, senza neppure allungare una
mano!”
“Maestro
io… avrei voluto salvarvi, avrei voluto fare qualcosa… ma cosa? Cosa avrei
potuto fare di fronte a così tanta malvagità, io che ero solo un ragazzo?!”
“E
cos’eravamo io e Micene quando scegliemmo? Non eravamo forse ragazzi quando
andammo in Egitto per combattere l’ombra? E cos’era Pegasus, quando accettò di recarsi
in Grecia, a subire massacranti allenamenti, lontano da sua sorella, pur di
rivederla un giorno? E cos’era Phoenix quando scelse l’inferno della Regina
Nera, sacrificandosi al posto del fratello? Non c’è bisogno di essere adulti, o
Cavalieri, per essere eroi! Basta solo volerlo!”
“Io…
perdonatemi…” –Abbassò lo sguardo Matthew, per nascondere le lacrime.
“No!”
–Rispose secco il Cavaliere di Gemini, colpendolo in pieno volto con un pugno e
sbattendolo a terra. Solo allora, rimettendosi in piedi, con la guancia rossa e
dolorante, Matthew notò dove si trovavano, nell’arena del Grande Tempio, in uno
dei tanti tramonti in cui erano soliti allenarsi. Lui indossava le vesti dei
giorni dell’addestramento, misere protezioni rispetto alla fulgida corazza
ottenuta in seguito, corazza che adesso giaceva in cima ad una colonna, al
centro dell’arena, ripiegata sotto forma di cintura. –“Se la vuoi, se vuoi
riprenderla, dovrai superarmi! Alzati, indolente, e completa almeno un percorso
della tua vita!”
“Affrontare
voi, maestro?!” –Balbettò per un attimo il ragazzo, non comprendendo come tutto
quello fosse possibile. Se anche era un sogno, se anche era un’illusione, era
così reale, così vivida, davanti ai suoi occhi e nel suo cuore. Come i pugni di
cui Gemini lo riempì negli istanti successivi, come i lividi che gli apparvero
sul viso, sul petto, sulle braccia. Come le ossa che gli cedettero, venendo
schiacciato a terra da un ultimo violento affondo, sprofondando tra la polvere della
sua esistenza.
“Non
avrei potuto sperare in una vittoria più facile! Cosa può attendere del resto
chi guerreggia contro un pupazzo? Perché tale devi considerarti, un fantoccio
in balia del vento, la cui vita è sempre stata decisa dalle scelte degli altri,
scelte a cui hai risposto in un unico modo. Fuggendo, cambiando strada,
rinunciando. Ma adesso sei all’ultima curva, Matthew. O reagisci e mi
sconfiggi, oppure morirai qua, senza armatura, senza amici e senza onore. È
questo che vuoi?!”
Il
ragazzo non rispose, schiacciato sotto il tacco della corazza di Gemini,
ingoiando polvere e rimpianti. Qualunque cosa avesse detto non avrebbe cambiato
la realtà dei fatti, ben riassunta dalle parole del suo maestro. Era vero, era
sempre stato un rinunciatario, che aveva preferito le scorciatoie al vero e
proprio scontro. Eppure… non voleva essere ricordato così. Adesso che aveva
conosciuto la luce del mondo, che aveva scoperto la sua missione, non avrebbe
avuto più scuse a giustificare la sua inazione.
“Io…
combatto!!!” –Avvampò, rimettendosi in piedi e spingendo via il piede del
Cavaliere d’Oro, obbligandolo a balzare indietro, proprio mentre Matthew
espandeva il proprio cosmo, che vorticò attorno a lui come un arcobaleno
lucente. –“Combatto per voi, maestro mio! Per tenere alto il vostro buon nome,
che non deve essere legato agli infami gesti che avete compiuto nei tredici
anni in cui siete stato vittima dell’ombra!” –E portò avanti il pugno destro,
generando un’onda di energia che sfrecciò verso Gemini, che la parò volgendogli
contro il palmo della mano, ma venendo comunque spinto indietro.
“Combatto
per tutti gli apprendisti, gli adolescenti, i semplici servitori della Dea che
trovarono la morte durante il vostro regno, durante l’attacco dei berseker o
sull’Isola delle Ombre! Morirono perché erano deboli, e forse se fossi stato
più forte, se fossi stato un vero Cavaliere conscio del suo ruolo, li avrei
salvati! Almeno uno lo avrei potuto salvare!” –E scagliò un secondo pugno
lucente, che forzò Gemini a portare avanti anche l’altra mano per difendersi
dall’onda d’urto, sempre più consistente.
“Infine
combatto per me! Non per Avalon, ma per me stesso, che ho finalmente compreso
quale ruolo voglio avere! Non più di pedina, ma di alfiere! Io… vi darò quel
che avrei dovuto donarvi a suo tempo! La dimostrazione di aver appreso i vostri
insegnamenti!!! Io, maestro, farò esplodere le stelle per voi!!!” –Aggiunse,
rifulgendo in un cosmo dagli intensi colori, prima di sollevare il braccio al
cielo e generare una devastante esplosione di energia.
Gemini,
dall’altro lato, rispose con eguale determinazione e i due assalti collisero,
schiantando ogni cosa raggiunta dal loro raggio d’azione. Terriccio, colonne,
gli spalti dell’arena, tutto fu inghiottito dalla poderosa deflagrazione, e per
un momento anche Matthew pensò di venir annientato a sua volta. Ma, sollevando
lo sguardo e puntandolo su quello del suo maestro, quel momento durò solo un
attimo, ricordando le sue stesse parole di poco prima. I motivi che lo
spingevano a lottare, il desiderio di completarsi infine. Ed allora il suo
cosmo esplose, allungandosi verso Gemini come un ponte di luce.
“Arcobaleno incandescente!!!” –Gridò,
mentre il suo corpo veniva rivestito dalla corazza del Cavaliere dell’Iride e e
le sette pietre si illuminavano una ad una. –“Sono questi i colori con cui
tingerò il mondo! Rosso, come l’amore di cui ogni essere vivente aspira!
Arancione, come l’onore e lo spirito di generosità che dovrà sorreggere i
nostri passi! Giallo, come la lucentezza di un futuro sotto il sole! Verde,
espressione delle forze della natura, e di una giovinezza che tramite questa
potremo sempre coltivare! Blu, come gli sconfinati orizzonti del cielo, simbolo
di sogno e di un’infinita aspirazione! Indaco, colore acceso, in grado di
vincere la tristezza di un mondo spento, e infine viola, ricordo e capriccio
della mia infanzia. Era il colore dell’abito con cui vestirono mia madre il
giorno del funerale. Combatto anche per questo, per un mondo dove genitori e
figli possano vivere insieme, abbracciandosi l’un l’altro!”
“Bra…
bravo…” –Mormorò Gemini, prima che l’onda di luce lo travolgesse, trapassando
le sue difese e prostrandolo a terra, il torace in fiamme e quel che restava
della sua corazza chiazzata di sangue. –“Hai completato il tuo addestramento,
regalandomi quel che più di ogni altra cosa volevo per te! Uno scontro in grado
di tirar fuori tutto il tuo potenziale!”
“Ma…
maestro…” –Matthew corse verso di lui, afferrandolo in tempo prima che
crollasse esanime al suolo. –“L’ho capito, adesso. Quel richiamo che sentii
quel giorno, ad Atene, era il vostro cosmo che chiedeva aiuto! Era l’ultimo
barlume della vostra coscienza che si aggrappava alla speranza che un allievo
indolente potesse salvarvi! Perdonatemi, ho fallito, se avessi agito… molte
cose sarebbero andate diversamente!”
“Hai
fatto quello che era in tuo potere, Matthew. Non avresti potuto opporti all’ombra
racchiusa nella Pietra Nera. Persino Atena ha faticato a risvegliare il mio
vero io! Smettila di fartene una colpa e impara a perdonare te stesso! E poi,
se potrai, un giorno perdona… anche me…” –Ansimò il Cavaliere d’Oro, gli occhi
che faticavano a rimanere aperti, le immagini che iniziavano ad apparire
sfuocate. Tutto sembrò scomparire, l’arena, il Grande Tempio, persino Atene,
scivolare in una profonda oscurità, ma Matthew non si arrischiò a lasciare la
mano del suo mentore, che trovò la forza per sorridergli un’ultima volta. –“Sei
un vero combattente per la giustizia, l’allievo che ho sempre desiderato! A
qualunque Divinità tu sia devoto, non smettere mai di credere! Nel futuro, nel
tuo futuro! Quello che tu, con i tuoi gesti e il tuo cammino, da solo determinerai!”
–Non disse altro e spirò, dissolvendosi in polvere di stelle tra le sue mani.
Matthew rimase in ginocchio, singhiozzando per
qualche minuto, finché non sentì una leggera brezza smuovergli i capelli. Solo
allora si voltò, trovando Avalon di fronte a sé, sulla cima del Tor ormai
immersa nella notte di Britannia.
“Voi?!” –Balbettò stanco, credendo di aver vissuto
un’immensa illusione.
“Io mi limito a creare l’ambientazione, Matthew, ma
i sentimenti, e quel che muove l’animo di chi la popola, sei tu ad averli messi
in campo! E ad essere riuscito ad andare oltre, a chiudere per la prima volta
un percorso della tua vita!”
Capitolo 28 *** Capitolo ventiseiesimo: Il volo dell'ippogrifo ***
CAPITOLO VENTISEIESIMO: IL VOLO DELL’IPPOGRIFO.
Non
le ci volle molto, a Kydoimos, per disarmare Mani. Del
resto, nonostante i suoi natali regali, era un Dio ben poco atto a combattere;
anzi, come la Makhai presto notò, a parte il portamento fiero, pareva più un
genitore impensierito per la sorte dei propri cari che non una Divinità
battagliera.
Dopo
pochi minuti dall’inizio dello scontro, il bastone del Selenite di Saturno era
già nelle sue mani e se ne era appena servita per crepargli l’elmo sul lato
destro, stordendolo ed esponendolo al successivo attacco. Una sana sventagliata
di pugni.
Era
così che Kydoimos amava combattere, con tutta se
stessa, con tutto il suo corpo, che doveva essere, ed in effetti era, un’arma
da battaglia. Veloce, scattante, pungente, mai stanco. Questo era il ritmo del
cuore di una Makhai, che aumentava durante ogni battaglia, giungendo al nirvana
quando incontrava un valido avversario in grado di tenerle testa, in grado di
ballare con lei la danza del caos.
E non è questo il caso! Commentò delusa, schiantando Mani contro il muro di
confine con un calcio secco, per poi scagliargli contro il suo stesso bastone,
piantandoglielo in mezzo alle gambe.
“Padre!!!”
–Gridò allora Hjúki, correndo verso di lui, mentre Bil rimaneva alle sue spalle, tenendo d’occhio
l’avversario.
Come se due bambini possano essere un
problema! Sbuffò Kydoimos,
osservando con maliziosa simpatia l’amorevolezza che riversavano verso
l’impotente genitore. Simpatia o invidia?
Si chiese per un momento, ammirando quel sincero spirito di fratellanza, così
lontano dal legame che univa le Makhai. Scosse la testa, ricordando a se stessa
di non essere mai stata invidiosa di niente, e scattò avanti.
Bil tentò
di frenarne l'avanzata, usando il cosmo per generare colonne d'acqua che si
abbatterono scrosciando su di lei, investendola da ogni direzione, senza
impensierirla affatto. Anzi, riuscirono persino a strapparle un sogghigno
compiaciuto.
“Una
bella rinfrescata era proprio quello che ci voleva! Grazie, bambino!” –Esclamò,
balzando su di lui e afferrandolo poi per i ricciuti capelli dorati, incurante
dei suoi tentativi di liberarsi. –“O forse sono io ad essere particolarmente
focosa?! Ah ah ah!”
A
quella vista Hjúki si allarmò, gridando alla
pericolosa guerriera di liberare suo fratello.
“Come
desideri. Ma attento a quel che desideri, potrebbe realizzarsi!” –Ridacchiò la
Makhai, scagliando Bil addosso all'altro fanciullo,
osservandoli ruzzolare a poca distanza dal padre dai sensi intontiti. Non senza
una certa ironia, osservò che l'avevano tenuta impegnata per ben più lunghi minuti
rispetto ai due uomini dotati di armatura, di cui lestamente si era sbarazzata.
Sospirando sconsolata per la ridicola fragilità di quel mondo privo di
difensori, mosse un piede per passare oltre, quando venne afferrata per il
calcagno da un'esile mano, il cui tocco non avrebbe neppure percepito se non
fosse stato accompagnato da un gemito. O, come parve al suo animo, da una
supplica.
“Una
richiesta di morte, mi pare di udire! Perché così va considerato questo
ridicolo tentativo!” –Ironizzò, osservando Bil che, a
fatica, si era trascinato fin ai suoi piedi, e il fratello, poco distante, che
aveva recuperato il bastone di Mani, puntandolo nella sua direzione. –“Ah ah
ah! Siete i migliori difensori che questo regno abbia mai avuto! Lo sapete
vero? Peccato, tra dieci anni forse avreste potuto salvarlo! Che questa
consapevolezza sia l'obolo che vi accompagnerà all'Inferno! Addio, ragazzini,
ho giocato fin troppo con voi!” –Esclamò, avvampando nel proprio cosmo e
scagliando entrambi indietro, le vesti incendiate da un'improvvisa fiamma
venefica.
“Nooo!!!” –Gridò allora un uomo, prima di investire Kydoimos con un'onda di gelida energia, cogliendo la Makhai
di sorpresa, non aspettandosi che fosse ancora in grado di combattere.
“Hai
ritrovato le forze all'improvviso? O è stato il timore per la sorte di quei due
marmocchi a farti svegliare dal torpore della tua inutile esistenza?!” –Ringhiò
la donna dai biondi capelli, rialzandosi di scatto e fissando Mani con sguardo
tagliente.
“È
stata la loro fede a farmi alzare! La passione autentica che hanno infuso ai
loro gesti, l'altruismo e l'amore con cui si sono eretti a protezione del
padre... che tanto amore invece non merita!” –Rispose il Selenite,
abbandonandosi a un sospiro.
“Di
questo puoi essere certo! Meriti solo di morire, qui e ora!” –Chiarì la Makhai,
lanciandosi avanti con il pugno carico di energia.
Rivelando
una certa agilità, Mani scartò di lato, evitando l'affondo e muovendo svelto il
bastone intagliato, mirando al basso ventre della nemica, ma il colpo, portato
con poca forza, servì solo a spingere Kydoimos
all'indietro. Imbestialita, la Makhai della confusione portò di nuovo il pugno
avanti, avvolto in folgori di energia, ma il Selenite lo fermò roteando l'asta
di fronte a sé.
“Non
di legno comune è fatto il bastone di Mani! Estratto dall'Albero dell'Universo,
così mi disse Odino quando me ne fece dono! In esso c'è tutta la sapienza e la
capacità di resistere alle intemperie del mondo che sempre hanno caratterizzato
Yggdrasill, il perno della nostra civiltà!”
“Fino
a quando non è caduto!” –Lo derise Kydoimos, tentando
un nuovo assalto diretto e venendo respinta indietro dalla veloce rotazione del
legno.
“Questo
lo rende ancora più importante! Non è più solo un dono del grande Frassino,
adesso è tutto ciò che di quell'albero mitico rimane! Posso solo essere onorato
di impugnarlo in quest'ultima guerra!”
“Te
lo pianterò nel cuore e poi darò fuoco alla tua carcassa! E a quella dei
mocciosi che ti seguono, Dio di Asgard!” –Avvampò la Makhai, spostando lo
sguardo sui corpi svenuti di Bil e Hjúki.
“Bastarda!!!
Non oserai!!!” –Tuonò Mani, come se alzare la voce fosse un deterrente alla
follia guerriera di Kydoimos, la quale era già
schizzata verso i bambini, pronta per sfondare loro i crani. Gridando per il
terrore, e per la rabbia, il Custode del Cerchio di Saturno piantò il bastone
nel suolo, infondendovi tutto il suo cosmo, tutta la vita che poteva lasciar
fluire pensando al futuro che stava per essere negato ai suoi figli. –“Sorgi, Axis Mundi!!!”
E
allora dal terreno sotto i piedi della Makhai spuntarono decine e decine di
rami, che subito si innalzarono al cielo, in una selva continua che le rese
impossibile avanzare ancora. I lunghi fusti nodosi si avvinghiarono al suo
corpo, stritolandolo, premendo con forza sulla Veste Divina che poche volte in
battaglia era stata incrinata. Kydoimos tentò di
reagire, di sgusciare via da quella bizzarra prigionia, ma dovette ammettere
che la forza dei rami del Frassino Cosmico era terribile, parevano vigorosi
come le braccia degli Jotnar.
Ma
anche quest'alberello farà la fine del suo predecessore! La fiamma degli Spiriti
della Battaglia non può essere spenta! Di certo non con trucchetti
da giocoliere di corte! Avvampò la
Dea, espandendo il proprio cosmo e incenerendo i fusti nodosi che la
avvinghiavano, mantenendo gli altri a distanza con l'energia ardente emanata
dal suo corpo.
“Ci
hai provato, Mani! Almeno questo lo scriveremo sulla tua lapide! Ora raggiungi Shen Gado e fatevi compagnia, dannati per l'eternità!” –Esclamò
fiera, mentre una violacea evanescenza le avvolgeva la mano, affusolandosi tra
le sue dita, prima di scattare verso il basso, incitata dalla stessa Kydoimos. –“Shamara!!!”
“Scansatiii!!!” –Gridò allora una voce maschile, mentre
un'agile figura si lanciava su Mani, pur non riuscendo a portarlo completamente
fuori dal raggio d'azione di quella fatua evanescenza.
“Shen... Gado...” –Mormorò il Selenite di Saturno,
intontito, mentre gli spiriti maligni si attorcigliavano attorno al suo corpo,
cercando una via per entrare. Il valoroso Comandante di Selene
tentò di cacciarli via, ma non riusciva neppure a raggiungerli, tanto
intangibili e distanti apparivano al tatto. Poté solo dire a Mani come
vincerli, superando le proprie paure.
Quasi
avesse compreso, e forse con la consapevolezza di non riuscire, il Custode del
Sesto Cerchio lanciò un'ultima occhiata ai suoi figli, che giacevano svenuti a
pochi passi dal varco che non era stato forte abbastanza da difendere, e poi di
nuovo a Shen Gado, che annuì mestamente, prima che
Mani chiudesse gli occhi, sopraffatto dagli spiriti evocati da Kydoimos, ormai entrati dentro di lui.
“Sono
sorpresa del tuo risveglio, ippogrifo!” –Esclamò allora la donna, che nel
frattempo aveva distrutto quel che restava del novello frassino generato dal
Selenite. –“Mai nessuno prima d'ora era riuscito a vincere gli spiriti maligni
che le tribù native dell'Amazzonia chiamano Shamara!
Ho soggiornato presso di loro per un po' di tempo, poiché non molto lontano é
avvenuta la mia rinascita, ed ho visto uomini condannare altri uomini a così
intense sofferenze da far storcere la bocca persino a me e alle mie sorelle!
Eppure tu, impassibile, ancora ti ergi a me di fronte, ancora ti affanni e alla
morte resisti. Com'è possibile? Sinceramente, rispondimi!”
“A
dispetto del nome e delle forme raccapriccianti, il tuo colpo segreto è misera
cosa.Un trucchetto
con cui fai emergere le paure insite in ogni individuo, facendole divenire
realtà. Per cui, chi vi crede si ritrova a vivere un eterno presente dominato
da tali paure e dal suo fallimento, una prospettiva che la mente umana ben poco
potrebbe tollerare, spingendo verso il suicidio! Pur tuttavia non mi conosci,
Dea della Confusione, o avresti saputo fin dall'inizio che non così avresti
potuto vincermi! Perché l'intrepido ippogrifo non conosce paura, mentre tu,
donna guerriera, adesso dovrai temermi!” –Esclamò fiero, espandendo il proprio
cosmo color indaco.
“Incredibile!!!
Un uomo che non conosce paure! Uhm, adesso che lo percepisco, trovo nel tuo
cosmo divine sfumature! Forse l'eredità di chi ti ha generato ti permette di
esercitare un così preciso distacco!” –Rifletté Kydoimos,
mentre Shen Gado balzava in alto, lanciandosi su di
lei con il tacco teso, roteando su se stesso in uno scintillio di viola e
avorio.
“Non
soltanto, Dea miserabile che con turpi inganni vinci i nemici! Ma se il tuo
colpo tira fuori le paure umane, su me non può funzionare perché io non ho
visione di alcun futuro che mi terrorizzi, in quanto tutto quel che potevo paventare,
tutto ciò che avrebbe potuto darmi dolore, si è già realizzato! Adesso non mi
resta altro che vivere o morire, ma quella scelta già l’ho fatta e non ho
intenzione di tornare sui miei passi! Cadi, misera strega, sotto il Galoppo dell'Ippogrifo!” –L'assalto
spinse Kydoimos indietro, mentre Shen
Gado, dopo aver distrutto il suolo di fronte a lei, muoveva lesto la gamba
destra, scatenando una raffica di calci diretti al volto della donna.
“Mi
piaci!” –Sogghignò quest'ultima, con maliziosa perfidia, prima di afferrare
l'arto sporgente del Comandante dei Seleniti e tirarlo a sé, bloccando i suoi
affondi e al tempo stesso sbilanciandolo. Per evitare di cadere, Shen Gado dovette appoggiare una mano a terra e Kydoimos approfittò di quel momento per colpirlo al volto
con una ginocchiata. Intrappolato nella morsa della Makhai, il guerriero
dovette incassare il colpo alla mandibola, prima che un successivo calcio lo
scaraventasse indietro.
“Come
sei freddo! Un eroe tuo pari dovrebbe essere ben più caloroso e passionale, non
trovi?” –Sghignazzò la donna, umettandosi le labbra con la lingua, prima di
scattare avanti, avvolta in vampe di fuoco violacee.
“No!”
–Si limitò a rispondere l'Ippogrifo, sollevando la gamba destra di colpo e
muovendola a spazzare, fermando e colpendo Kydoimos
sul basso ventre, con un colpo così duro e preciso che le mozzò il fiato per
una manciata di secondi, dando il tempo a Shen Gado
di balzare in alto, spalancando le ali dell'armatura, e piombare poi su di lei
a tacco teso. –“Galoppo...”
“Sei
ripetitivo!” –Sentenziò la Makhai, alzando un braccio e afferrando il piede
corazzato dell'uomo con una mano, bloccandone ogni movimento.
“Credi?!”
–Ironizzò allora lui, roteando all'improvviso su stesso, coadiuvato dalle
flessuose ali della corazza, e torcendo al qual tempo la mano della donna,
prima di colpirla in pieno volto con un calcio violento, schiantandola molti
metri addietro.
“Bas... tardo!!! Mi hai fatto abbassare la guardia con una
concatenazione di assalti similari!” –Ringhiò Kydoimos,
rimettendosi in piedi, l'elmo ormai distrutto, i biondi capelli intrisi del suo
sangue divino che, da una ferita alla tempia, le imbrattava gli occhi, colando
fin lungo il collo. Sfiorandosi la pelle con un dito, intingendolo nel proprio Ichor, la Makhai tornò a sorridere, in quel modo perfido e
un po' pazzo che le era proprio. –“Vorresti leccarlo? Sì, lo credo bene, e di
certo non ti limiteresti a questo. Tutta la tua furia guerriera non può
mascherare il desiderio che ti invade in mia presenza, Ippogrifo! Del resto sei
una bestia, e come tale hai i tuoi bisogni! Perciò lascia che ti invadano tali
turpi pensieri e sfogali con me. Su di me!”
Shen Gado
non rispose alcunché, mantenendo la posizione faticosamente guadagnata di
fronte al varco verso il Cerchio di Giove, proteggendo al tempo stesso Mani e i
suoi discendenti. Ma Kydoimos, anziché offendersi,
vide in quel mutismo scocciato un'ulteriore sfida, rincarando la dose.
“Fai
il duro e puro? Interessante! Ti piegherò con ancora maggior soddisfazione! E
lo farò con un bacio! Ah ah ah!”
“Smettila
di dire idiozie e combatti, donna!” –Esclamò allora Shen
Gado, espandendo il proprio cosmo, mentre la figlia di Eris
faceva altrettanto.
“Non
dico idiozie, ma verità! E adesso lo vedrai! O forse dovrei dire, lo sentirai,
il tocco delle mie labbra! Le labbra dell'oscurità!” –Rise Kydoimos,
portandosi una mano sotto il mento e muovendo le labbra nell'atto di lanciare
un bacio. –“Kissof
the Darkness!!!”
L'assalto
prese Shen Gado alla sprovvista, non aspettandosi avesse
un aspetto così inconsueto. Lui, per lungo tempo avvezzo a fronteggiare mostri,
giganti e predoni, e poi, dopo il trasferimento sulla Luna, disabituato a
combattere, non aveva mai affrontato una donna dalle movenze così letali come Kydoimos. O così
subdole, rifletté, mentre il tenebroso bacio di energia lo investiva in
pieno, scagliandolo contro il muro di confine, incrinandogli persino qualche
ala.
“Beh,
che ne pensi? Ti ha lasciato senza fiato, vero? Lo so, me lo hanno detto in
molti! Ah ah ah!” –Sghignazzò selvaggia la Makhai,
incamminandosi a passo fermo verso di lui, decisa a finirlo. Shen Gado fu svelto a rialzarsi, ma non abbastanza per
impedirle di afferrarlo per la gola, sbatterlo al muro e costringerlo a
guardarla in faccia. –“È tutto il tempo che mi osservi, Ippogrifo! Eppure io
non ho ancora visto il tuo volto... è così orribile che lo celi alle donne che
invece vorrebbero coprirti di baci? Ah ah ah! Lascia
che io veda, e giudichi!” –Aggiunse, muovendo l'altra mano in modo da sfilargli
l'elmo.
“No!!!”
–Avvampò allora il Comandante dei Seleniti, lasciando esplodere il proprio
cosmo. Una detonazione così intensa e fulminea che Kydoimos
ne fu sopraffatta e sbalzata molti metri addietro, ruzzolando sul suolo lunare
con l'armatura distrutta. Ma neppure Shen Gado ne
uscì indenne, venendo schiacciato ulteriormente contro il muro, con numerose
crepe sulla corazza divina.
“Sei
un folle disperato!!! Tu, non io, hai la mente ottenebrata dalla pazzia, se a
così tanto sei disposto solo per coprire il tuo volto!!!” –Gridò la figlia di
Discordia, rimettendosi in piedi a fatica. –“Tanta devozione non deve andare
sprecata! Tutt'altro! Ti onorerò della parola fine, Ippogrifo, così una volta
morto non dovrai più preoccuparti che una donna ti veda in volto!!! Addio, uomo
fantoccio! Kissof
the Darkness!!!”
Il
potente bacio di energia oscura sfrecciò verso Shen
Gado, saturando lo spazio tra loro in un attimo e sollevando polvere e
frammenti di suolo, obbligando persino la stessa Kydoimos
a coprirsi il volto con una mano. Sogghignò, quando udì l'impatto, un rumore
persino più secco e preciso del precedente. Uno schianto contro un muro.
Ma
la Makhai rimase stupita quando vide che non era stato il guerriero a cozzare
contro la muraglia di confine, bensì il suo assalto ad essere dissolto da
un'ingegnosa trovata. Usando le ali flessibili della corazza, Shen Gado le aveva chiuse di fronte al suo corpo,
proteggendosi alla meglio dall'onda devastatrice, sia pur a costo di
danneggiarle.
“Mie
adorate ali, che tante volte mi avete salvato in battaglia, renderò onore al
vostro sacrificio! Che non si dica che l'ippogrifo, pur senza ali, non possa
più volare!!!” –Esclamò fiero il Comandante, bruciando al massimo il proprio
cosmo e preparandosi a scagliare il suo attacco più potente. –“Dominionof light!!!” –Gridò, sollevando un braccio al
cielo, mentre da ogni direzione, tutt'attorno a Kydoimos,
spuntavano strali di luce, che piovvero su di lei a un ritmo incessante.
“Male...
dizione!!!” –Ghignò la donna, espandendo il cosmo tenebroso e cercando di
contrastare quella martoriante pioggia di luce, una pioggia che pareva cadere
dalle stelle del cosmo tanto fitta e persistente era. Iniziò a correre, per
evitare di essere trafitta, ma i raggi lucenti sembravano spostarsi con lei,
trovandola ovunque tentasse di andare, causandole frustrazione e irritazione.
Quindi, osservando la postura sicura ed eretta di Shen
Gado, torse le labbra in un ghigno malvagio, comprendendo infine. Caricò il
pugno destro di energia oscura e lo piantò nel terreno sotto di sé, sollevando
un turbine di polvere e suolo lunare, così vasto e fitto da nasconderla per
qualche istante agli occhi dell'Ippogrifo. Quando questi la avvistò di nuovo,
la Makhai era già troppo vicina perché il suo assalto potesse colpirla senza ferire
anch'egli al qual tempo. –“Ora ti darò quel bacio che così tanto hai fuggito! Il bacio dell’oscurità!!!” –Disse con
voce suadente, scatenando il suo assalto da distanza ravvicinata e travolgendo
il valoroso comandante, con un boato che fu udito sull'intero suolo lunare,
quasi come la donna avesse voluto dire alle sorelle di esserci ancora, di
essere lei la vittoriosa.
“E
ora...” –Aggiunse, avvicinandosi al corpo ferito dell'Ippogrifo. –“Vediamo
questo volto misterioso...” –E si chinò su di lui, per togliergli l'elmo
danneggiato, da cui riusciva a intravedere un viso maschile, con una palese
cicatrice su una guancia.
“Non
toccarlo!” –Tuonò allora una giovane e fresca voce, anticipando lo scintillio
di uno strale luminoso che si conficcò nel terreno tra lei e Shen Gado. Uno strale che, stupendo la stessa Makhai, aveva
la forma di una lunga asta dorata dalla cima ornata da un fiore sbocciato. –“Scettro
d'Oro!!!” –Esclamò la stessa voce, mentre Kydoimos
era costretta a balzare via di scatto, per non essere investita da una sfilza
di raggi di luce.
“Se
vuoi giocare, gioca con noi, non con i feriti! Vigliacca!” –Intervenne allora
una voce femminile, mentre un’agile figura, armata con una lama di luce,
piombava sulla Makhai, costringendola ad un serrato corpo a corpo, in cui
stavolta lei era la preda. Lei era la vittima costretta ad arretrare, a
spostarsi di continuo, per non essere trafitta da una spada di pura energia.
“Visto
che me lo hai chiesto, mi tratterrò a giocare ancora, ragazzina!” –Rispose
impavida, fermandosi infine e concentrando il cosmo attorno alle sue labbra, di
fronte agli occhi straniti dell'avversaria.
“Sca... ppate!!!” –Vociò allora Shen Gado, affannando nel rimettersi in piedi, proprio
mentre il Bacio dell'Oscurità investiva in pieno i suoi soccorritori.
“Giornata
proficua, quest'oggi!” –Commentò la Makhai, avvicinandosi ai corpi distesi a
terra dei due ragazzi appena intervenuti. Quindi, notandone le corazze e i
volti, fece una smorfia, riconoscendone i nemici di cui Proioxis
avrebbe dovuto sbarazzarsi.
“Se
pensi alla tua amata sorella, sta’ tranquilla. Tra poco la raggiungerai, nel
terribile inferno che aspetta voi cagne immonde!” –Esclamò uno di loro,
rialzandosi ansimando, il bel volto segnato da ferite ancora aperte. –“I
Cavalieri delle Stelle non lasciano alcun lavoro incompiuto! Io sono Jonathan e
lei è Reis, e come abbiamo vinto Proioxis
ugualmente vinceremo te!”
“Dovrei
esserne impressionata? O forse afflitta da qualche tremendo dolore che dovrebbe
spingermi a un'istantanea vendetta per amore della sorella perduta? Ah ah ah! Solo dispiacere provo, e pena per quella stupida, che
non è stata in grado di vincere due ragazzini come voi! Poco importa, vi
aggiungerò alla lista dei caduti in questo cerchio! State pronti, bambini, la
mamma è decisa a punirvi! Ah ah ah! Kissof the Darkness!!!”
Il
violento assalto energetico sfrecciò verso i Cavalieri delle Stelle, che furono
lesti a tirare su le proprie difese. La Barriera
Astrale e la Cascata di Luce
impedirono loro di essere feriti, ma non riuscirono a frenarne del tutto la
carica, violenta e frastornante, proprio come l'Avanzata Impetuosa che avevano fronteggiato in precedenza.
“Dev'essere un topos ricorrente di queste Makhai!” –Ironizzò
Jonathan, sforzandosi nel mantenere solida la propria barriera. –“Se un giorno
mai conoscerò il loro creatore, avrei due paroline da dirgli!”
“Parla
meno e agisci di più!” –Sibilò Reis, mentre tutto
attorno alle sue braccia scivolava un fiume di polvere di stelle. –“Vortice scintillante di luce!!!” –Gridò,
liberando il suo colpo segreto, che inglobò parte dell'assalto di Kydoimos, disperdendolo in varie direzioni, permettendo
anche a Jonathan di rifiatare e di liberare una moltitudine di comete
energetiche, che sfrecciarono verso la Makhai alla velocità della luce.
“Uah ah ah! Questo è vero godimento!!!” –Strepitò
quest'ultima, intensificando il proprio attacco e generando così una violenta
esplosione che scagliò tutti i contendenti indietro di decine di metri, aprendo
persino degli squarci sul suolo e nel muro di confine.
“Ma
questa non c'è del tutto con la testa!” –Commentò Jonathan, il primo a
rimettersi in piedi, aiutandosi con lo Scettro d’Oro. –“Possibile che dobbiamo
sempre affrontare avversari con un simile livello di pazzia?!”
“Mettila
in questo modo... Il fatto che continuiamo ad affrontarli vuol dire che ogni
volta ne usciamo vincitori!” –Lo confortò Reis,
rialzatasi a sua volta, prima di voltarsi verso il varco per il Cerchio di
Giove, su cui l'ardimentosa sagoma della Makhai della Confusione si stagliava
ancora. Ferita, sanguinante, con la corazza danneggiata in più punti e la pelle
che si intravedeva al di sotto, cerea com'era stata quella di Proioxis, ma ancora decisa a dare loro battaglia.
Jonathan
non poteva fare a meno di notare l'ironia della loro posizione. Era Kydoimos adesso a proteggere il varco, era lei che si
ergeva a pochi passi dal tunnel, lei che però a quel passaggio pareva non
pensare più, determinata, ostinata, di certo infatuata dal desiderio di lotta.
Era quello, solo quello, in fondo, che la Makhai voleva.
“Sull'impavido
capitano la mia tecnica non ha avuto effetto, ma il Selenite di Saturno è stato
malamente piegato! Chissà cosa avranno in serbo, per voi, gli spiriti maligni
che rispondono al nome di Shamara?!” –Sussurrò,
strappando un gemito di infastidita sorpresa al Custode dello Scettro d'Oro,
che fece cenno a Reis di tenersi pronta.
Jonathan
conosceva bene le leggende che circolavano riguardo alle tribù amazzoniche che
a simili riti erano devote, riti in grado di distruggere la mente di un uomo. E
per quanto l'addestramento cui ad Avalon erano stati sottoposti avesse
sgombrato i loro animi dal buio e dalla paura, non voleva certo provarne
eventuali effetti. Così mosse il braccio con grazia e velocità, dirigendo un
preciso raggio di energia contro il polso di Kydoimos,
schiantandone la corazza e facendo imbestialire la Makhai, che si lanciò verso
di loro proprio mentre i due Cavalieri facevano altrettanto.
“Un
colpo che distrugge le menti? Interessante! Se possibile, vorrei dire la mia al
riguardo!” –Esclamò allora una nuova voce maschile, mentre una fiammeggiante
figura piombava tra i combattenti, spalancando ali così lucenti e maestose da
frenare la corsa di Reis e Jonathan. –“Assaggia,
perversa Makhai, il colpo che piega ogni spirito, persino il più crudele!
Assaggia il pugno dell'illusione della fenice!!!”
Un
sottile raggio di energia raggiunse Kydoimos in piena
fronte, fermando la sua corsa e spingendola persino indietro tanto fulmineo e
intenso era stato l'affondo. Poi, quando si riebbe, comprese che non era
successo niente, che il suo corpo era ancora lì, pronto per combattere ancora,
persino con quel nuovo nemico.
“Phoenix!!!”
–Esclamarono Reis e Jonathan, felici di rivedere il
Cavaliere dello Zodiaco, il cui volto stanco e ferito non tradiva però alcuna
volontà di riposo, non finché l'ultimo pericolo non fosse stato debellato. Aveva
percepito poc’anzi il cosmo di Andromeda elevarsi fino al parossismo e poi
placarsi, come se l'oceano fosse stato svuotato di colpo, ed era più che mai
deciso ad andare a investigare.
“Anche
noi abbiamo avvertito l'accendersi impetuoso del cosmo di tuo fratello, e il
suo svanire poco dopo. Così come ancora percepiamo il dilaniante tormento cui
il Cavaliere dell'Arcobaleno nostro compagno è sottoposto. Chiunque sia il
nemico che ha incontrato, non sta affatto avendo la meglio!” –Spiegò Reis, prima che l'isterica voce di Kydoimos
li richiamasse.
“Oh,
tutta questa preoccupazione per i vostri congiunti vi fa onore! Ma rende vana
la mia tecnica! Non va bene, proprio no! Un gesto scortese che la mamma dovrà
punire seduta stante! Con un bel bacio di tenebra...”
“Sta'
attento, Phoenix! Sembrerebbe qualcosa di piacevole, ma è un'esplosione
devastante!” –Esclamò Jonathan, sollevando all'istante le proprie scintillanti
difese.
“L'unico
bacio che riceverai quest'oggi sarà quello della morte!” –Parlò allora una voce
che i tre compagni avevano udito in una sola occasione, ore addietro, quando
avevano per la prima volta varcato il cerchio da lui presieduto.
“Mani!!!”
–Lo riconobbero Reis e Jonathan, osservando il malconcio
Selenite rimettersi in piedi a fatica, il volto tumefatto e bagnato da sudore
freddo.
“Quale
sorpresa! Dunque gli spiriti maligni hanno fallito anche con te, Dio di Asgard?
O vuoi forse vantarti dell'epiteto di ultimo Ase
ancora vivo? Per poco ancora, s'intende!” –Sghignazzò Kydoimos,
voltandosi verso di lui.
“Non
in cerca di titoli o gloria sono, Makhai della Confusione, ma di perdono. E lo
chiedo ai miei figli, che non sono stato in grado di difendere, e al valoroso
Ippogrifo che per salvarmi ha rischiato la vita, così come hanno fatto i
Cavalieri di Atena e di Avalon qui presenti!”
“Nobile
Mani... noi...” –Ma Jonathan non poté aggiungere altro, che già il Selenite
aveva ripreso a parlare, indicando il varco alle sue spalle.
“Andate!
I vostri compagni hanno bisogno di aiuto e non possiamo sprecare tempo ad
affrontare in cinque un solo avversario!”
“Dimentichi
chi è l'avversario!” –Precisò la Makhai, avvampando nel suo cosmo violaceo. –“Qualcuno
che adora gli scontri di gruppo, la ridda violenta e caotica delle battaglie di
massa! Fatevi avanti anche tutti assieme!”
“Tutt'altro!
Non potrò mai dimenticarti, Kydoimos, né potrò
dimenticare le tragiche visioni con cui i tuoi demoni mi hanno riempito la
mente, mostrandomi più e più volte la morte dei miei figli! Puoi essere certa
che quelle immagini non le scorderò mai! Ma proprio tali orripilanti
prospettive mi hanno spinto a scuotermi dal torpore e a reagire, a considerarli
non più come un peso che limiti in battaglia, ma come la ragione stessa della
battaglia! Il voler garantire loro un futuro!!! Per questo Mani combatte! Forse
morirò quest'oggi, raggiungendo gli Asi e i Vani
nell'oblio che tutti attende dopo la caduta del Frassino Cosmico, ma se la mia
fine permetterà a Bil e aHjúki di salvarsi,
allora ben venga!” –Affermò fiero. –“Ben venga!”
“E
allora eccomi! Ah ah ah! Kissof the Darkness!!!” –Ghignò
isterica Kydoimos, lanciandosi contro di lui nel suo
cosmo oscuro.
“Ultimo inverno!” –Tuonò il Selenite asgardiano, liberando una furibonda tempesta di ghiaccio,
così gelido e pungente da frenare la corsa della Makhai, congelandone i piedi e
parte delle gambe in un'indistinta massa azzurrognola.
“Co...
cosa?! Che tecnica è mai questa?!” –Latrò imbufalita, tentando di muovere gli
arti. –“Dimentichi che noi Makhai siamo le compagne di Ares e Discordia dai
tempi del mito? Che in noi arde l'impetuosa e implacabile fiamma della guerra?
L'unica in grado di scaldare qualsiasi mondo!!!” –E nel dir questo fece
esplodere il proprio cosmo rovente, che iniziò a liquefare il ghiaccio che la
imprigionava.
“È
tua, Shen Gado!” –Disse allora Mani, scansandosi di
lato e rivelando infine l'eroico comandante già pronto per l'ultimo scontro.
Con un balzo, l'Ippogrifo fu nello spazio sopra Kydoimos,
piombando poi su di lei a tacco teso, moltiplicando la propria immagine in
infinite copie che colpirono, calciarono, affondarono dentro il corpo della
donna senza darle tregua.
“Galoppo
dell'Ippogrifooo!!!” –Tuonò, distruggendone le vesti divine, riducendole a
sanguinolenta poltiglia. Ma quando fece per ritirarsi, Shen
Gado si sentì afferrare per un tallone, dall'avida presa di Kydoimos
che ancora aveva forza per sbatterlo a terra e stringergli poi le dita attorno
al collo.
“Non
ti ho ancora visto in volto...” –Sibilò, soffocando il Comandante dei Seleniti,
che si agitò per liberarsi.
“Né
mai lo vedrai, strega!” –Intervenne allora Mani, balzando su di lei, con il
bastone donatogli da Odino saldamente nelle sue mani.
Kydoimos
tossì, sputando sangue e allentando in tal modo la presa su Shen
Gado, che fu lesto a liberarsi e a balzare indietro con un'agile piroetta,
lasciando la donna ad osservare la sua triste sorte. L'asta ricavata da Yggdrasill, la pianta che tanto aveva schernito, le aveva
penetrato il cuore, sbucando dall'altra parte del corpo, mentre tutto attorno
il cosmo di Mani brillava cristallino.
Comprendendo
quel che sarebbe accaduto, la Makhai della Confusione gioì, ridendo a più non
posso, al punto da riempirsi gli occhi di lacrime.
“Che
fine meravigliosa! Oh sì, una fine magnifica la mia!!! Morte, mio capitano,
leviamo l’ancora! è l’ora!” –Declamò,
mentre decine e decine di rami e fronde sorgevano dal bastone, dilaniandola
dall'interno e distruggendo quel che restava del suo corpo
Capitolo 29 *** Capitolo ventisettesimo: Il continente perduto ***
CAPITOLO VENTISETTESIMO: IL CONTINENTE PERDUTO.
Se
la Fondazione avesse piazzato delle boe rivelatrici nel Golfo di Biscaglia,
come aveva fatto nel Mar Celtico, in quel momento i contatori sarebbero
impazziti, e Rigel e gli altri studiosi avrebbero avuto di che discutere per
scoprirne il motivo. Di tutti gli scienziati del mondo, forse solo quelli della
Fondazione Thule avrebbero potuto capire; del resto loro sapevano. Di Lady
Isabel, di Atena, dei Cavalieri. Dell’esistenza di un mondo parallelo di Dei e
di eroi che viveva a fianco dell’umanità sebbene questa non se ne fosse mai
resa conto.
Ma
presto avrebbero dovuto ricredersi.
Presto,
molto presto, i satelliti avrebbero mostrato quell’enorme zolla di terra appena
sollevatasi al largo delle coste del Marocco. Una gleba che nel Mondo Antico
aveva ospitato una delle più progredite civiltà umane.
Devo sbrigarmi! Mormorò Nettuno, chinato, con un ginocchio sul suolo,
proprio di fronte al tempio in cui aveva riposato per secoli. Regolarizzando il
respiro, affannato per lo sforzo, il Nume si rialzò, girando lo sguardo attorno
a sé, per ammirare una nuova volta l’isola su cui aveva imperato millenni
addietro, l’isola che, nel periodo di suo massimo splendore, aveva ospitato
astronomi e aedi, scultori e maestri di danza. L’isola ove era nata la prima
grande civiltà marittima e la più antica schiera di guerrieri divini.
Atlantis. Aggiunse, spaziando su tutto quel che restava di
quel regno arcaico. Templi caduti in rovina, che gocciolavano silenti sotto il
sole d’autunno, strade e palazzi ormai irriconoscibili, costruzioni invase da
una selvaggia flora marina e da qualche animale che non era riuscito a fuggire
in tempo. A parte ciò, nessun’altro essere vivente turbava la quiete del
continente perduto. O almeno questo era quel che Nettuno riteneva.
“Siete
tornato a casa, mio Signore!” –Esclamò una decisa voce di donna, rubando il Dio
ai suoi pensieri.
Prima
ancora di voltarsi, il fratello di Zeus Olimpo sorrise, ben sapendo chi avrebbe
trovato di fronte a sé. La donna che già una volta gli aveva salvato la vita,
mettendo a repentaglio la propria.
“Quante
volte ancora vuoi morire per me, dolce Titis?” –Commentò, fissando la snella
silhouette dell’ultimo Cavaliere Sirena.
“Ogni
volta in cui ce ne sarà bisogno!” –Si limitò a rispondere la fedelissima, chinandosi
di fronte al Nume. Aveva l’armatura leggermente danneggiata per gli scontri con
Ascanio, Phantom e il guardiano del tempio sommerso, ma nei suoi occhi brillava
la stessa luce di decisione che aveva sempre palesato, sin da quando, anni
addietro, aveva aiutato Julian a prendere coscienza con il Dio sopito in lui.
“Sei
stata al mio fianco in molte occasioni, Titis! Quando mi risvegliai nel corpo
del giovane Kevines e riunii i Sette Generali e i Guerrieri di Scaglie, e
quando fui davvero sul punto di credere nella vittoria contro Atena. E infine
quando dovetti assistere al crollo del mare azzurro, e alla fine dei miei sogni
di dominio. È giusto, in fondo, che tu sia qui anche adesso, alle soglie
dell’ultima guerra.”
“Mio
Imperatore… quali sono i vostri piani? È dunque vero quel che il Divino Ermes
mi accennò giorni addietro? Avete stretto alleanza con il Signore del Fulmine?”
Nettuno
non rispose, fissando Titis per qualche secondo con imperturbabili occhi blu,
prima di spostarli alle sue spalle, verso le costruzioni lontane, e
incamminarsi in quella direzione, facendo cenno al Cavaliere Sirena di
seguirlo.
“Sono
qua per un motivo ben preciso! Verificare l’integrità delle riserve di
oricalco, di cui mio fratello vuole servirsi per generare nuove corazze! È
strano, non trovi? Di tutti gli Dei coinvolti in lotta adesso, sono l’unico a
non avere un esercito, ma anche l’unico da cui potrebbero dipendere le sorti
della stessa, disponendo della più grande riserva del materiale principale di
cui le corazze di qualsiasi guerriero divino sono composte! Mi verrebbe da ridere,
se fossi un folle Dio gaudente come era Dioniso! Ma sono Nettuno, o Poseidone
come mi chiamavano i greci, quando invocavano la mia benedizione prima di ogni
lungo viaggio per mare, quando chiedevano clemenza alle acque, per garantire
una navigazione serena! Sono Nettuno sì, e sono uno stolto!”
“Co…
come, mio Signore?!” –Balbettò Titis, fermandosi all’improvviso. Ma il Nume
neppure se ne accorse, avanzando ancora di qualche passo fino a portarsi al
centro esatto dell’isola, laddove un tempo confluivano le quattro strade
principali che conducevano ai porti di Atlantide.
“Eppure
Elmas me lo disse! Elmas lo aveva predetto… quel che sarebbe successo… scatenando
quella guerra. Del resto, a cos’altro mai potrebbe portare un conflitto armato
se non alla fame, alla miseria, alla distruzione e alla fine di tutto?”
“A
sentirti parlare adesso non sembrerebbe proprio di udire il possente Nettuno
Ennosigaeum, colui che si faceva borioso vanto del titolo di Imperatore dei
Mari! Colui che per brama di possesso s’arrischiò a muover guerra ad Atena,
scatenando la prima Guerra Sacra e decretando la fine del suo stesso regno!”
–Parlò una voce all’improvviso, facendo avvampare il Nume.
“Chi
osa?!” –Esclamò, scandagliando con il cosmo ogni angolo dell’isola, mentre
Titis si guardava attorno sospettosa, pronta a schierarsi a difesa del suo Dio.
“Ah
ah ah! Oso ben altro, se è per questo! Del resto, è ben noto che quel titolo
non ti spetti, quell’onorificenza di cui mai sei stato degno! A differenza di
chi, invece, negli oceani a lungo ha dimorato, traendone forza e fiducia! Senza
tradirla mai!”
“Rivelati!!!”
–Sibilò sdegnato Nettuno, mentre nella sua mano compariva il tridente di
scaglie d’oro. Lo roteò per un istante sopra la testa, in uno sfarfallio di
luci, prima di puntarlo verso i resti di un’antica costruzione, liberando un
raggio di energia e distruggendo gli stessi ruderi.
“Vedo
che non tutta l’eredità del tuo consigliere è andata perduta! Qualcosa di lui
almeno hai salvato, se non i suoi insegnamenti, né la sua vita!” –Precisò
pungente la voce sconosciuta, che adesso a Nettuno e a Titis parve più vicina,
permettendo a entrambi di distinguerne le sfumature. Era la voce di un uomo
adulto, dalla tonalità profonda come il mare. –“Ben misero ricordo rispetto al
valore di quell’uomo che hai condannato a morte! Uno dei tanti che da te hanno
avuto il benservito!” –E, dopo quest’ultima frase, un lampo di energia bluastra
esplose a pochi passi di distanza dal fratello di Zeus, accecandolo per un istante,
per poi rivelargli la sagoma di colui che l’aveva fino ad allora provocato.
Un
uomo corpulento, rivestito da un’armatura di chiara fattura divina, sebbene
molto più complessa e arzigogolata rispetto alle vesti degli Olimpi. Sullo
schienale erano affisse delle ali, ma Titis, osservandole meglio, notò che non
erano propriamente ali, non quelle di un uccello quantomeno. Somigliavano più a
delle enormi pinne, tipiche di qualche animale sottomarino. Sulla testa
indossava un elmo a forma di corona, fissato sotto il mento da un nastro
metallico che si intravedeva a malapena sotto quella moltitudine di capelli blu
che gli ricadevano ribelli su ogni lato del cranio, senza che questi si curasse
troppo di esserne infastidito. In mano infine reggeva un’asta, all’apparenza
anonima e priva di segni di riconoscimento, non fosse stato per l’impugnatura a
forma di conchiglia intagliata.
Fu
quel particolare, molto più dell’aspetto trasandato, a far sobbalzare Nettuno,
che infine comprese chi aveva di fronte. E, nel capirlo, tremò.
“Non…
è possibile! Non puoi essere tu!!! Non puoi essere vivo!!!” –Rantolò il Nume,
cercando comunque di mantenere un certo contegno e un tono di voce fermo,
sebbene fosse assodato che il suo avversario avesse notato il suo smarrimento.
Ed avversario è il termine adatto per
indicarlo. Si disse, ricordando le
antiche contese per il dominio dei mari, meno conosciute di quelle per la
terraferma ma ugualmente sofferte.
La guerra dei tre re. Così la chiamarono un tempo, quando il mondo era
giovane e gli Dei delle prime generazioni cosmiche non avevano ancora smesso di
respirare.
E adesso uno dei tre è qui di fronte a
me! Vivo e vegeto! Realizzò, prima di
sbuffare scocciato per quell’intrusione e muovere un passo avanti, ponendosi al
qual tempo di fronte a Titis, che di certo non aveva compreso il pericolo che
correva.
“Sono
sorpreso di vederti, Forco!” –Esclamò infine, strappando un ghigno perfido al
nuovo arrivato.
“Ne
sono sicuro! Da quanto non ci vediamo, Nettuno? Ho perso il corso dei secoli, o
forse dovrei dire dei millenni? Non che abbia importanza, in fondo anche tu hai
ben poco vissuto! Ben poco hai sfruttato l’enorme tesoro di cui sei rimasto
troppo a lungo unico ozioso guardiano!”
“Che
vuoi dire? Di cosa stai parlando?”
“Del
mare, di cos’altro? Quale altro tesoro dovremmo aver caro noi che dalle acque
traiamo forza e vigore, essendone i protettori ma anche le manifestazioni più
pure? So che non comprendi i miei sentimenti, Nettuno, non li hai mai compresi,
per questo non sei degno del titolo di cui ti sei arrogato! Imperatore dei
Mari!!! Puah! Un lurido reuccio di un regno melmoso che le flatulenze di cinque
ragazzini hanno abbattuto!!! E osi ancora definirti un Dio? Tu che per primo
hai tradito gli ideali di grandezza e maestosità di cui i mari sono
portatori?!”
“Come
osi parlarmi in questo modo, Dio dimenticato?!”
“Dimenticato?!
Forse è così. Immagino che gli uomini abbiano fatto presto a rimpiazzarmi con
qualche nuova idolatria, del resto io, a differenza tua, non ho mai avuto
interesse nell’ingraziarmeli! Non ho mai cercato la loro approvazione! Ciò che
interessava a me, e agli altri Dei primordiali, era il mantenimento
dell’integrità dell’enorme mondo sottomarino ove le nostre esistenze erano
immerse, quel mondo di cui ben poco te n’è calato, vedendovi solo un terreno di
conquista e di lotta!”
“Non
è vero! Io amavo la mia terra, la mia magnifica Atlantide! E amavo il mio
popolo, che a lungo vi ha dimorato, prosperando in ricchezza e felicità! Non
solo i Generali, i miei guerrieri, ma anche la gente comune, i mercanti, i
pescatori…”
“Sciocchezze!!!
Vedi? Continui a non capire! C’è un abisso tra di noi, che neppure tutti gli
oceani del pianeta potrebbero colmare! Tu parli di terra, di ricchezza, di
genti umane… io parlo del mare, della vita che risplende sul fondale silente,
dell’energia che fluisce in eterne correnti! Ponto e Oceano, come me, lo
avevano compreso, che nel mare vi è un potenziale infinito, e a lungo abbiam
lottato per la supremazia, per dirimere chi fosse degno di sedere sul trono
degli oceani! Uno dopo l’altro, però, cademmo nell’oblio: il primo, sconfitto,
come Gea e Urano, dalla Megas Drepanon del giovane Crono, e il secondo, ucciso
poi da Zeus, al termine della Titanomachia, come ringraziamento personale per
non aver preso parte alla guerra. E non dirmi che non perorasti tale richiesta?
È in fondo quel che faceste all’epoca, no? Spartirvi il mondo noto! A te gli
oceani, a Zeus i cieli, al tenebroso Ade l’Oltretomba. Ma a nessuno di voi,
Deucci della terza generazione, è mai importato dei regni che vi siete
assegnati! Nessuno di voi ne ha mai percepito le primordiali energie che vi
risiedevano! Solo di farvi la guerra vi è importato! Ma adesso le cose
cambieranno, e cambieranno proprio qua, ad Atlantide, simbolo della tua immensa
e immonda follia, Nettuno! Trema, Dio che mai sei stato degno di essere tale,
perché tra poco perderai tutto!”
“Le
tue parole sono oscure, Forco, e intrise di follia!” –Tuonò il Nume Olimpico,
impugnando saldamente il tridente.
“Le
renderò più chiare, se lo desideri! Gli Dei antichi stanno tornando, e il fatto
che io sia qua ne è una dimostrazione! Non ne sei convinto? Lascia allora che
te ne dia prova! Lascia che ti dia un assaggio del potere di Forco, Signore e
Padrone degli Oceani!” –E, nel dir questo, rivelò per la prima volta il proprio
cosmo, vasto e possente, simile a mareggiata che tutto travolge. –“Kata Thalassa!!!”
Una
poderosa ondata sorse dal suolo stesso, distruggendolo e scaraventando in alto
Nettuno e il Cavaliere Sirena, che il Dio fu svelto a riparare con il proprio
corpo, permettendole di sopravvivere a quell’incredibile pressione. Persino
lui, se fosse stato un uomo comune, sarebbe morto, il corpo tranciato da
quell’onda titanica. Si schiantarono molti metri addietro, contro le mura di un
antico tempio, sprofondando tra le rovine e l’erba marina, di fronte allo
sguardo soddisfatto dell’ancestrale Divinità.
“Co…
come hai fatto?!” –Rantolò Nettuno, rimettendosi prontamente in piedi. –“Un
potere simile… degno di un Dio del tuo livello, sicuramente… Ma come hai potuto
recuperarlo? E come sei riuscito a tenerlo nascosto agli occhi di Zeus? Non
riesco a credere che mio fratello non fosse a conoscenza della tua rinascita!”
“Ooh,
il grande Zeus Tonante a ben altre faccende ha dedicato gli ultimi decenni
della sua lunga e inutile esistenza! Tu non l’hai visto, nei suoi momenti
migliori, ma la sua massima fatica consisteva nel sollevare il bicchiere di
ambrosia che il prode Ganimede o qualche driade dal corposo seno gli aveva
appena riempito! Un novello Dioniso, così avrebbero potuto definirlo!”
“Pur
tuttavia avrebbe dovuto percepire il sollevarsi di una simile maestosa energia,
così sconfinata e così… profonda!”
“Questo
è infatti il mio cosmo, il cosmo di Forco, primordiale dominatore dei Mari,
nato da Gea e Ponto! Io sono la Prima Onda, Nettuno! Io sono l’antico che
avanza, e tu, che ti sei dimostrato indegno, non potrai sconfiggermi, da solo!”
“Il
mio Signore non è solo!” –Esclamò allora l’acuta voce di Titis, affiancando
prontamente il Dio, avvolta nel suo iridescente cosmo, e strappando una franca
risata a Forco.
“Ti
fai difendere dalle donne, Nettuno? Non sei in grado di brandire da solo il tuo
tridente?! Ah ah ah! Ma non temere, ardimentosa donzella, ho anch’io qualcuno
da farti affrontare!” –E, nel dir questo, il Dio antico battè le mani, mentre
da dietro un muro poco distante usciva l’alta sagoma di un guerriero dai
capelli arancioni.
Sulle
prime Nettuno non lo riconobbe, ma poi ne osservò la danneggiata corazza
azzurrognola, e il simbolo che l’aveva ispirata, il possente vortice che
terrorizzava i naviganti nei mari del nord, e comprese, fulminandolo con uno
sguardo terribile.
“Tu!!!
Traditore!!!” –Ringhiò, puntandogli contro il tridente e liberando una
guizzante scarica di energia, che il guerriero riuscì a malapena ad evitare,
scansandosi con agilità, nonostante la sua stazza robusta. –“Come osi
presentarti al mio cospetto? Hai una bella faccia tosta a camminare sull’isola che hai lasciato
sprofondare!”
“Se
vi è un colpevole da incriminare per la vostra disfatta, quello siete voi, Re
Nettuno! Elmas ve lo disse, di non attaccare Atena, di non portare in guerra il
vostro popolo! Ma voi, accecato dalla brama di potere, dal desiderio di
possedere l’Attica, le muoveste guerra, esponendo tutti noi alla sua rivalsa!
Ricordate le frasi del vostro consigliere? “Lasciate che le acque riposino nei
mari, non sulla Terra!” Questo amava ripetere alle vostre orecchie sorde!”
“Sordo
e anche cieco son stato, se non son stato in grado di capire il tuo tradimento!
Tu informasti la figlia di Zeus dei miei piani, donandole la chiave per vincere
i miei Generali! Tu le rivelasti il segreto delle armature, favorendo
l’alleanza tra Atena e gli alchimisti di Mu!”
“Non
prendertela con lui! Già all’epoca eseguiva i miei ordini!” –Intervenne allora
Forco, godendosi il volto arrossato dalla rabbia dell’antico rivale. –“Come
adesso, anche allora attendevo nell’ombra, sperando in una tua distruzione! E
quale modo migliore per ottenerla se non lasciare che altri fossero a
occuparsene?”
“Maledetto!
Entrambi siete dei maledetti!” –Ringhiò Nettuno, di fronte alle risate
soddisfatte di Forco e Cariddi. Li aveva odiati a lungo, soprattutto il
secondo, uno dei più promettenti tra i giovani generali di cui all’epoca si era
circondato. Aveva persino pensato di affidargli il comando dell’esercito, il
posto che in seguito fu di Dragone del Mare, ma scoperto il tradimento lo
scomunicò, rifiutando di usarne il simbolo tra le corazze di scaglie e
scegliendo quella di Scilla, al posto di Cariddi.
“La
verità, Nettuno, è che io ho sempre saputo da che parte stare!” –Chiarì quest’ultimo.
–“Dalla parte del più forte, com’è ovvio. Certo non dalla parte di un Dio della
terza generazione cosmica, così infingardo e pauroso da non arrischiarsi mai ad usare il suo vero
corpo in battaglia, dovendo ricorrere ogni volta a un simulacro terrestre.
Quale stima dovrei avere di un così miserabile Signore del Mare? Imperatore
delle Pozzanghere, questo dovrebbe essere il tuo titolo! Ah ah ah!”
Irato,
Nettuno scatenò una violenta scarica di energia, ma questa non raggiunse
Cariddi, riparato dietro un muro di energia azzurra, una barriera d’acqua che
Forco aveva sollevato attorno a loro.
“Trattieni
la tua ira, Nettuno! Avrai presto occasione di combattere, sebbene non sarà
scontro a te favorevole!” –Precisò l’antico Dio, con voce vellutata. –“Pur
tuttavia, per rispetto al tuo rango e al tuo ruolo di Signore dei Mari, ti
faccio una proposta! Ti offro la possibilità di aver salva la vita e quella
della damigella che ti fa da scorta! Unisciti a me!”
“Co…
cosa?!” –Balbettò il fratello di Zeus, e persino Cariddi sollevò un
sopracciglio, stupito da quella richiesta.
“Le
potenze del mare dovrebbero stare tutte assieme! Non ha senso farci la guerra
tra di noi, l’ho imparato in secoli di conflitti con mio padre e Oceano, Titano
delle Correnti! A che giova sprecare così le nostre forze? Dovremmo unirle
sotto un’unica bandiera, sotto l’effigie del trono del mare! Questo,
quantomeno, è ciò che sto facendo io, radunando tutti i guerrieri e le Divinità
degli oceani. Di tutti gli oceani. In fondo, come tutti gli Dei non sono che un
solo Dio, ugualmente i mari di tutta la Terra non sono che un unico mare.
Panthalassa. Un termine caduto in disuso, ma che presto tornerà attuale.”
“Cosa
vuoi dire, Forco? Cosa stai per fare?!” –Esclamò Nettuno, e Titis al suo fianco
rabbrividì, temendo una nuova inondazione del pianeta.
“Prepararmi
al domani. Quando questa guerra sarà finita, la Terra sarà ridotta ad un cumulo
di macerie; ville, palazzi e alte costruzioni saranno spianate e stessa sorte subiranno
i colli e le montagne, anche le più eminenti. I campi saranno resi sterili e i
pochi uomini superstiti si massacreranno tra loro per un po’ di cibo. Solo nel
mare ci sarà la vita, quella vita maltrattata da troppo tempo. Quella vita che
io farò pagare, a peso d’oro, a chi la vorrà! Per questo mi sto armando,
Nettuno! Allora, dimmi, da che parte preferisci stare? Tra coloro che moriranno
o tra i pochi eletti che sopravvivranno?”
“La
tua offerta è allettante, Forco, e poggia su ben logiche basi. Io stesso,
neppure due anni addietro, tentai di ricoprire la Terra sotto profondi strati
di acque, per punire il degrado e la depravazione del genere umano!”
“L’unico
momento di te che molto ammirai!” –Ironizzò l’ancestrale Divinità.
“Ma
i tempi sono cambiati, io sono cambiato! L’hai detto tu stesso, l’ultima guerra
è arrivata e ognuno deve scegliere dove stare! Mio fratello Zeus ha avuto
fiducia in me, mi ha risvegliato e mi ha donato il suo Ichor, per riaccendere
l’assopita fiamma della vita. Non lo tradirò, violando i sacri vincoli di
famiglia! No, io Nettuno combatterò per mantenere l’equilibrio sulla Terra!”
–Esclamò fiero l’Olimpico Dio, avvampando nel proprio cosmo cristallino, di
fronte agli occhi pieni di ammirazione di Titis, che quelle parole avrebbe
voluto udire.
“Dunque
hai scelto! Morte!” –Commentò Forco, puntando il bastone avanti e abbattendo
Nettuno con una scarica di potenza. –“E morte sia!”
“Mio
Signore!!!” –Gridò prontamente Titis, correndo in suo aiuto, ma venendo
atterrata all’istante da Cariddi, balzato su di lei con un veloce calcio
rotante.
“Occupati
della sirena! La voglio fuori da quest’isola in pochi minuti! Ma prima…”
–Aggiunse, osservando perfido Nettuno che si rialzava. –“Divertiti con lei!
Voglio che l’usurpatore veda la sorte in cui incorrono coloro che a lui sono
fedeli! Come Elmas, così Titis! Voglio che assista impotente anche alla sua
morte!”
“Sei
un bastardo!!!” –Urlò il fratello di Zeus, scattando verso Forco, che fece
altrettanto, mulinando la lunga asta argentea.
“E
tu sei stato deposto, fittizio sovrano di un regno che non esiste più!”
–Commentò quest’ultimo, fermando l’avanzata di Nettuno e spingendolo indietro
con una scarica energetica, prima di conficcare il bastone nel suolo,
imprimendovi tutto il suo cosmo. –“Questo è il potere degli Dei ancestrali,
l’essenza del cosmo che ricevetti in eredità da mio padre! La Eskatos
Dunamis!!!” –Avvampò Forco, mentre enormi crepe iniziarono ad aprirsi lungo
l’intera zolla di terra che un tempo era stata Atlantide. –“Mira, oh
usurpatore, la fine di un sogno in cui troppo a lungo ti sei cullato! Il
continente perduto scomparirà di nuovo! E tu non potrai fare niente per
impedirlo!”
Flare
teneva Cristal per mano, stringendosi a lui per avere conforto. Sedeva sul
trono che era stato di sua sorella fino a pochi giorni prima, vicino al grande
braciere che Enji continuamente si premurava di mantenere in vita. Un tempo,
forse quando era bambina, gli aveva sentito dire che la fiamma di quel braciere
doveva essere sempre tenuta accesa, perché, qualora si fosse spenta, Asgard
sarebbe caduta. E Flare di Polaris temeva che ciò sarebbe accaduto durante il
suo, non desiderato, regno.
Percependone
la tensione, Cristal le si avvicinò, sfiorandole la guancia con una mano e
sorridendole, prima di voltarsi di nuovo verso l’uomo che, in rispettoso
silenzio, attendeva al centro del Salone del Fuoco.
“Vi
sono ruoli che a volte siamo chiamati a vestire, per quanto ben defilati
preferiremmo invece rimanere” – Commentò il Principe Alexer, splendido come
sempre nella sua corazza azzurra, dai riflessi di acquamarina. –“Anch’io, come
voi, Celebrante di Odino, aborro la guerra, preferirei trascorrere le giornate
sull’ampio verone del mio castello, ad osservare il sole sorgere e calare sulla
Valle di Cristallo, e i mille giochi di luce da ciò generati. Pur tuttavia, se
lo facessi, dovrei accettare anche la non remota ipotesi che quello potrebbe
essere l’ultimo giorno in cui rimirerei la mia adorata valle. Che forse domani
potrei non vederla più. E quel pensiero è sufficiente a spingermi a non
rimanere inerte, ad agire!”
“Mio
fratello parla proprio bene! Ha preso da me, questo è certo!” –Esclamò allora
una quarta voce, sorprendendo i presenti, anticipando il palesarsi di un cosmo
fiammeggiante.
Le
lingue di fuoco del braciere presero a danzare, turbinando in un mulinello
scarlatto che avvolse l’intero salone, prima di concentrarsi attorno ad una
sagoma apparsa in mezzo ad esse. Alla vista di un’armatura sconosciuta, e di
una così poderosa esplosione di energia, Cristal si mise prontamente di fronte
a Flare, gettando via il mantello di pelliccia e rivelando la sua Armatura
Divina.
“Non
temere, Cigno! La fiamma di Andrei non ti arrecherà dolore!” –Spiegò Alexer,
mentre il compagno usciva dal vortice di fuoco, disperdendolo con un leggero
cenno della mano e permettendo infine al Cavaliere di Atena di osservarlo
meglio.
Alto
e robusto, con il volto fiero e battagliero, un filo di barba incolta e lo
sguardo determinato di chi mai si guarda indietro, il nuovo arrivato indossava
una corazza della stessa fattura di quella del Principe Alexer, dalle forme
aerodinamiche e dagli sgargianti colori rossastri. Pareva, a vederla, che fosse
composta da fiamme vive, tanto i riflessi potevano muoversi a seconda del
variare del punto di osservazione.
“Lode
a te, Celebrante di Odino! Il mio nome è Andrei, Signore del Fuoco, e sebbene
non ci fossimo mai incontrati finora, conosco bene il tuo cuore, così come le
gesta impavide dell’eroe che ti affianca!” –Esclamò l’uomo, inginocchiandosi e
portandosi una mano sul cuore. –“Perdonate quest’intrusione ma, avendo sentito
che mio fratello non era al castello, ho pensato fosse il luogo più opportuno
dove cercarlo!”
“Tuo
fratello?!” –Balbettò Cristal, che, per quanto rilassatosi, era rimasto
sbalordito dall’apprendere che, oltre ad Alexer, vi era un altro cosmo così
potente, sfolgorante come quello di un Dio.
Un cosmo così simile a quello di Avalon. Rifletté, ricordando l’apparizione del Signore
dell’Isola Sacra nell’ultima battaglia contro Flegias.
“In
un certo senso...” –Si limitò a sorridere Alexer, poggiando una mano sulla
spalla di Andrei. –“In fondo lo scopo per cui siamo nati è lo stesso.” –Ma poi,
osservandolo meglio, notò un taglio sulla guancia destra e qualche scheggiatura
sulla sua perfetta corazza, e il suo sorriso scomparve.
“Incidenti
di percorso.” –Parlò allora Andrei, anticipando la domanda del Principe. –“A te
la diplomazia, a me la guerra. Non è così che funziona?”
“Cos’è
successo, Andrei?”
“Ho
deciso di anticipare i tempi. In questi anni in cui hai osservato beato la tua
bella valle e Avalon si è nascosto nelle nebbie, io ho girato il mondo,
strisciando in silenzio lungo le ley lines.”
“Le
linee di energia che percorrono la Terra?!” –Esclamò Alexer, ricevendo un cenno
d’assenso da parte del Signore del Fuoco.
“Ero
sicuro che, se fossero rinati, sarebbero apparsi in un punto percorso da
correnti di energia naturale, in modo da sfruttarle per recuperare in fretta le
forze. Così è stato, infatti. Sono riuscito a far fuori una ventina di loro, in
questi giorni. Limos, meglio noto come Fame, e altri figli di Discordia, i
Neikea, gli spiriti della lite e del bisticcio, e gli Pseudologoi, Divinità delle bugie.
Sono gli unici che sono riuscito a trovare. Per fortuna, attaccandoli subito,
quando erano in forma embrionale, ho potuto distruggerli prima che disponessero
di tutto il loro pieno potere e che potessero correre aiuto dei loro numerosi
fratelli.”
“Ottimo, Andrei. Davvero ottimo! Strategia e potenza
d’attacco non ti sono mai mancati.” –Annuì Alexer, prima di voltarsi infine
verso Cristal, che fissava entrambi con sguardo attonito, non avendo capito
alcunché della loro conversazione.
“Ti spiegherò a breve, e tu dovrai riferirlo ad
Atena. Il frutto è maturo, Cristal, e presto cadrà dall’albero del tempo.
L’ultima guerra si avvicina, anzi, possiamo dire che con l’attacco alla luna
sia ufficialmente iniziata.”
“Quale guerra?” –Chiese il Cavaliere del Cigno.
“Quella per il futuro del pianeta e di tutti i suoi
abitanti. Vivere o morire. E forse la seconda opzione non è poi così lontana
dal vero.”
“Che mi dici del tuo giro attorno al mondo? Di
sottili arti diplomatiche sei ancora maestro?” –Incalzò Andrei.
“Ovviamente. In guerra si va preparati. E con tutti
i rinforzi possibili.” –Commentò il Principe Alexer, spiegando di aver armato
tutti i suoi guerrieri nella Valle di Cristallo e di aver invitato gli altri
regni divini a fare altrettanto. –“Da Themiskyra sono sceso in India, nella
valle del Gange, e poi in Oceania, incontrando ovunque opinione favorevole al
nostro progetto di unificazione militare. Del resto la minaccia che siamo
chiamati a fronteggiare è, a dir poco, globale.”
“Anche i guerrieri inca faranno la loro parte. Di
questo puoi star sicuro!” –Disse fiero Andrei, mettendosi una mano sul cuore.
–“Il culto di Inti è ancora radicato e nessuno ha dimenticato… quel che accadde
vent’anni fa.”
“In questo caso, credo sia opportuno smetterla di
nascondersi e aprirsi al mondo, seppur così diverso da quello in cui a lungo
abbiamo vissuto!” –Esclamò allora una morbida voce maschile, mentre tre figure,
avvolte dalla luce, entravano nel Salone del Fuoco, camminando a passo lento
verso il trono.
Cristal, che nella vera Asgard, aveva trascorso un
po’ di tempo, imparando a conoscerne gli abitanti, rimase stupito nel
ritrovarseli di fronte, avendo dato per scontato che fossero caduti durante il Ragnarök.
“Mio Signore!” –Flare subito si affaccendò per
mettersi in ginocchio e rendere omaggio al nuovo arrivato.
“Lasciate stare, Regina di Midgard. Non è tempo di
inchini e abbracci. E tu, giovane Cigno, non essere adirato con la tua amata,
le ho chiesto io di mantenere il segreto sulla nostra presenza qua. Lo
smottamento spaziotemporale ci ha stordito, più di quanto avessimo creduto, e
volevamo essere al sicuro per riprendere le nostre forze.” –Parlò il Dio di
Asgard.
“L’ospitalità del Recinto di Mezzo è davvero
squisita!” –Commentò una donna dal viso magro, a fianco dell’Ase.
“Se questa guerra che incombe è davvero l’ultima,
allora credo che varrà la pena combatterla insieme. Per rendere onore a coloro
che non ci sono più. Coloro che ci sono stati portati via. Qualunque alleanza
stiate tentando di mettere insieme, sappiate che anche Asgard si unirà a voi!”
–Disse allora Vidharr, l’Ase Silente.
Capitolo 30 *** Capitolo ventottesimo: Fuori dalla gabbia ***
CAPITOLO VENTOTTESIMO: FUORI DALLA GABBIA.
Matthew
ed Elanor erano più che mai decisi a vendicare Thot, uccidere Homados e
impedire a chiunque di superare il varco tra Quinto e Quarto Cerchio. Adesso
che la crepa aperta da Alala era stata richiusa, soltanto loro due erano a
conoscenza della reale ubicazione del passaggio che, prima di morire, il
Selenite di Giove aveva celato. E, piuttosto che rivelarlo a quella furia,
sarebbero morti con quel segreto.
“Falce di luna calante!!!” –Gridò la
ragazza, sollevando un braccio al cielo e poi abbassandolo di scatto, in modo
da generare un fendente energetico che trivellò il suolo, sfrecciando ad alta
velocità verso Homados, obbligando la Makhai a balzare di lato per non essere
investita.
“Bel
colpo!” –Le fece eco il suo biondo compagno, saltando in alto e piombando poi
sulla Dea a gamba tesa, avvolto nel suo cosmo multicolore.
Homados
fu svelta ad evitare anche quell’affondo, dovendo ammettere a se stessa che
quelli che credeva ragazzini agonizzanti sembravano aver recuperato le forze, o
quantomeno aver infine trovato una ragione per combattere. O per morire. Si disse, concedendosi un sorriso nefasto. Poco importa, questione di minuti! Alle
altre, in fondo, è andata peggio! Ah ah ah!
Matthew,
che aveva capito che la Makhai doveva essere continuamente messa sotto
pressione, in modo da impedirle di ricreare la Torre di Babele, contro cui non
avevano difese, aveva espanso il suo cosmo al massimo, aprendo le braccia di
lato ed evocando una tecnica appresa sull’Isola Sacra.
“Moltiplicazione.” –Mormorò, mentre
dalla sua immagine ne nascevano altre due, e dalle stesse altre due, fino ad
avere sette copie del Cavaliere di Avalon, tutte attorno ad Homados. Sette
vertici di una stella dai colori dell’arcobaleno, ciascuno brillante nel proprio
cosmo.
“Interessante!”
–Commentò Elanor, osservando i cloni di Matthew radunare le energie e attaccare
la Makhai congiuntamente, da ogni direzione, scagliando assalti di potenza e
precisione.
“Così!
Forza! Insieme!” –Vociarono i sette uomini, balzando su Homados, uno dietro
l’altro, uno dopo l’altro, a volte anche insieme, in un turbinio di colori che
contribuì a disorientare non poco la guerriera.
“Ora
basta!!!” –Tuonò infuriata, evitando alcuni assalti, ma venendo però raggiunta
da altre sfere energetiche, che le graffiarono la Veste Divina. Inoltre, notò,
tutte le copie parevano aver chiaro dove colpire. Nel basso ventre, dove Thot
l’aveva ferita prima di morire, aprendo uno squarcio che anche un apprendista
Cavaliere avrebbe saputo raggiungere.
Morire qui? Morire ora? Mai! Ringhiò, certa di essere ad un passo dalla vittoria.
I cosmi di Kydoimos e di Alala erano scomparsi, cancellati dal suolo lunare e
confinati a chissà quale oscuro Tartaro potesse attenderle, adesso che lui era
tornato. Questo significava che era l’ultima Makhai rimasta, l’ultima Signora
della Guerra, e non soltanto doveva combattere per sé, ma anche per quella
scomoda eredità che le fallite delle sue sorelle le avevano lasciato. Che non si dica che le Makhai non urlano
più!!!
“Migdal…”
“Eh
no, carina!” –Intervenne allora Elanor, sfrecciando avanti e scagliando quattro
raggi di energia, mirando alla testa, ai piedi e alle mani di Homados,
obbligata a spalancare le braccia contro la sua volontà, come fosse stata crocifissa.
“Sei
ridicola! Pensi di causarmi dolore con queste lievi stimmate? O di tenermi
bloccata per sempre?!” –Avvampò Homados, nel suo cosmo violetto, iniziando a
recuperare padronanza di un braccio. Poi di un altro.
“Non
per sempre. Per quanto basta a Matt!” –Le rispose la ragazza a tono, balzando
indietro, mentre tutte le copie del Cavaliere di Avalon scattavano sulla Makhai,
scagliando, da sette lati diversi, veloci e precise sfere di energia.
L’assalto
congiunto, condotto alla velocità della luce, travolse Homados, nonostante i
suoi furibondi tentativi di difendersi e coprire la parte esposta del suo
corpo. Un paio di sfere, Matthew ne fu certo, la raggiunsero proprio
all’addome, facendola infuriare e digrignare i denti, sputando bavosa rabbia e
parole infamanti. Concentrato il cosmo sul pugno, lo piantò nel suolo,
generando un’esplosione proprio sotto i piedi di Elanor e scagliandola in aria,
tra spruzzi di sabbia lunare e schegge della sua ormai quasi del tutto
distrutta corazza.
Fu
Matthew ad afferrarla al volo, mentre tutte le altre sei copie convergevano su
di lui, sovrapponendosi all’originale e scomparendo. E fu sempre il ragazzo a
generare un arcobaleno lucente sotto di lui, con cui rimanere sollevato in aria,
quasi fosse un tappeto volante.
“Dovrò
chiamarti Alì Babà!” –Sorrise Elanor, stretta tra le braccia del ragazzo, salvo
poi ricordarsi, dopo quel delicato momento tra loro, di essere in piena guerra.
“Avalon
si arrabbierà come una furia per questo… gioco infantile! Anzi, come una Makhai!!!”
–Ironizzò Matthew, prima di depositare Elanor sull’arcobaleno di luce e
dirigersi verso Homados. –“Ma sarò contento anche di prendermi quella lavata di
capo, perché vorrà dire che ce la saremo cavata!”
“Ce
la caveremo!” –Lo rincuorò lei, stringendogli la mano.
“Siete
finiti!!!” –Gridò allora Homados, espandendo al massimo il proprio cosmo
violetto e dirigendo strali lucenti contro di loro, che tentarono di evitarli,
zigzagando sull’arcobaleno in discesa libera, per poi contrastarli con i loro
colpi segreti.
“Arcobaleno incandescente!!! Falce di luna calante!!!” –Tuonarono i
ragazzi, mentre due piani di energia, uno orizzontale, l’altro verticale,
confluivano sulla Makhai, costretta a far esplodere tutto il proprio cosmo.
“Migdal bavel!!!”
L’esplosione
fu assordante e scaraventò Matthew ed Elanor in alto, lacerando le loro carni, per
quanto il primo cercasse di proteggere la compagna facendole scudo con il
corpo. Quando ricaddero a terra, si accorsero di non essere sul suolo lunare ma
su una superficie fatua e a tratti arroventata. Guardandosi intorno,
inorriditi, capirono di essere stati rinchiusi in uno dei cubi che costituivano
il basamento della Torre di Babele. Un gigantesco esaedro di energia cosmica,
dentro il quale erano costretti a rotolare, cadere e rialzarsi continuamente,
per poi ruzzolare di nuovo al suolo, mentre Homados, divertita, muoveva le
dita, quasi stesse solleticando le corde di un’arpa.
“I
bambini sono stati cattivi e la mamma li ha puniti! Anzi, la matrigna cattiva! Ambientatevi,
mettetevi a vostro agio, non siate timidi! Quanto vi rimarrete dipende solo da
voi, ma ben pochi sopravvivono alla cacofonia della Torre di Babele! Ah ah ah!”
Matthew
ed Elanor, oltre che storditi dal rotolare continuo del cubo, erano piegati dal
risuonare di migliaia di voci, diverse, dissonanti, deleterie per il loro
udito, che parlavano tutte assieme all’interno di quella prigione. Voci di
donne, di uomini e bambini, che gridavano, piangevano, maledivano gli Dei per
averli abbandonati e i Cavalieri per non averli aiutati, e la pioggia per non
aver irrorato i campi, e il sole per averli condannati a una siccità eterna, e
altri mille anatemi e giudizi e lamenti. Voci continue, che non smettevano mai,
che li seguivano ovunque muovessero un passo, per quanto nel cubo fossero
presenti solo loro due. Di alcune, non riuscirono a comprendere neppure le
parole, pronunciate in qualche antica lingua sconosciuta. Di altre, invece, poterono
riconoscere persino chi e quando le aveva dette loro. Erano le voci delle loro
anime, che mettevano in risalto tutte le contraddizioni insite dentro di loro,
i tumulti del cuore che avevano mosso i loro incauti passi in quella guerra che
non erano stati degni abbastanza di combattere. In quella guerra in cui non
avrebbero dovuto neppure ardire di prendere parte.
Matthew
era solo un apprendista. Un eterno
apprendista, rincarò una voce. Uno di quegli studenti che continuano a
ripetere all’infinito la stessa prova, senza mai superarla. Indolente, stanco,
e anche vigliacco, aveva lasciato che il suo maestro fosse divorato dall’ombra
senza neppure provare ad aiutarlo, senza neppure provare a salvarlo. E, colpa
ben più grande, aveva lasciato che il Grande Tempio fosse da tale oscuro
maestro dominato per tredici anni, che divenisse luogo di barbarie e pena
capitale, ricettacolo di una volontà assassina che da Atene voleva mondare la
Terra.
E
anche dopo aver risvegliato il Talismano da lui custodito, forse per un caso
fortuito, ben poca strada aveva fatto, riuscendo solo a evocare un arcobaleno
di cosmo con cui divertirsi a fare la giostra, un comportamento ben poco
consono per un Cavaliere del suo livello. Cosa ne penserebbero Febo e Marins,
imprigionati, seviziati e torturati a morte nei tenebrosi androni ove giacevano
rinchiusi dei suoi infantili divertimenti? E Jonathan e Reis, della cui
impronta cosmica aveva perso traccia da un paio d’ore, forse feriti, spossati o
addirittura caduti in una battaglia che lui aveva rifiutato, preferendo
rimanere indietro, in dolce compagnia? Eppure
ricordi, Matthew, quel che accadde all’ultima donna che amasti… la donna che,
come Elanor, non fosti in grado di salvare!
Miha… Mormorò il ragazzo, riconoscendo la sua voce tra le tante che
rimbombavano nella sua mente. Un suono limpido, ben più degli altri, che gli
ricordava di essere una delusione.
Un fallimento totale.
Elanor,
dal canto suo, non stava affatto meglio. Annaspava, piegata a terra, la testa
stretta tra le braccia, quasi tapparsi gli orecchi potesse impedire al suo
cuore di udire ancora, di piangere ancora. E invece falliva, come Matthew, e
veniva posta a processo. Da sua madre, che la malediva per averla trascurata,
per non essere rimasta con lei, in quell’ora oscura, a farsi forza insieme,
anziché lasciarla a disperarsi da sola. Dalle sue sorelle, che si chiedevano
perché le avesse abbandonate. Da se stessa, che si chiedeva cosa ci facesse lì,
a combattere con un’armatura di latta, dove avesse davvero creduto di andare, a
morire in una guerra in cui persino gli Dei perivano.
Gli Dei, Elanor. Da quando ti reputi
loro superiore?
Le
ritornò in mente, o forse fu una voce a sbatterglielo in faccia, quel che aveva
detto a Matt qualche ora prima, quando l’aveva sorpresa ad inseguirli.
“Non
prendermi per una sprovveduta! Sono pur sempre la figlia di una Divinità!”
E
che figlia! Neanche un colpo aveva messo a segno! Forse sarebbe andata meglio
se avesse continuato ad allenarsi con i bersagli di legno che Shen Gado a volte
le creava per farle passare il tempo. Almeno quelli a volte li abbatteva. Non
tutti.
“Che…
cosa mi dicesti?”
Quella
voce la raggiunse inaspettata, scavandosi un solco in mezzo a quella Babele di
suoni dissonanti. Quella voce così fresca, sia pur sofferente, e piena
d’affetto.
“Matt?!”
–Lo riconobbe la ragazza, sforzandosi ad alzare la testa e a cercare il suo
sguardo.
“Cosa
mi dicesti, quando ci incontrammo? Cosa volevi davvero?”
Matthew
era a pochi passi da lei, crollato sulle ginocchia, il volto marcato dalle vene
che stavano per scoppiargli. Ma trovò comunque la forza di allungare un braccio
nella sua direzione.
Elanor
cercò di fare altrettanto, all’inizio senza riuscirci, incapace di togliere una
mano dall’orecchio, per non morire sommersa da quel frastuono maledetto. Poi,
vedendo che il ragazzo non accennava a ritirare la sua, pur condannandosi a
morire così, si fece forza e allungò il braccio quanto più poté, fino a permettere
alle loro dita di trovarsi, e di intrecciarsi.
“Lottare.
Vivere e morire per qualcosa. Non conservarmi in eterno sotto un guscio di
vetro!”
Quelle
parole le aveva dette col cuore, credendoci davvero, anche se forse non ancora
pienamente consapevole di quel che significavano, di quanto realmente
valessero, nonostante Matt avesse cercato di farglielo capire, di farla
desistere. Per salvarla, da se stessa prima che dalla guerra.
“Non…
avevo capito perché tu volessi combattere! Cosa può spingere la figlia di una
Divinità a rinunciare alla propria condizione di immortalità, che qualunque
uomo sarebbe disposto ad uccidere pur di avere, e a scendere a sporcarsi in una
guerra che altri avrebbero potuto combattere? Avresti potuto rimanere
nell’Occhio, aspettare che la fiumana passasse. I Cavalieri di Atena e di
Avalon, i tuoi Seleniti, i tuoi stessi genitori se necessario, avrebbero
respinto la bellicosa ondata o avrebbero trovato un modo per metterti in salvo,
lontano da qui. Lontano dalla morte. Perché, Elanor, hai deciso di non voler
sopravvivere?”
“Perché
ero in gabbia.” –Rispose la ragazza, il volto rigato dalle lacrime. –“E non mi
sentivo completa.”
Il
cubo roteò di nuovo, facendo ruzzolare Matthew ed Elanor, sbattendoli uno
sull’altra, finalmente vicini, mentre tutto attorno imperavano migliaia e
migliaia di voci, decise a piegarli alla forza dei loro tumulti, dei loro
errori, dei loro fallimenti. Ma per quanto aumentassero, in numero e in
intensità, il Cavaliere delle Stelle e la sua improvvisata compagna sembravano
aver trovato un modo per escluderle tutte dalla loro mente, ascoltando solo la
voce del cuore.
“Ho
passato un’esistenza intera in gabbia e ti assicuro che per una Divinità
un’esistenza è un periodo di tempo piuttosto lungo! Mia madre, regina della
quiete domestica, mi ha dato tutto, ha donato a me e alle mie sorelle un mondo
intero in cui poter vivere in pace, in serenità, senza farci mancare niente, in
cibi, vestiti, salute, alcun oggetto materiale di cui potessimo necessitare. Ma
tutte quelle attenzioni, quel continuo e disperato attaccamento a una vita
facile, avevano un prezzo e io l’ho pagato, non le mie sorelle, che a una
banale e patetica esistenza han presto fatto l’abitudine, chinando il capo alla
noia che ha seppellito lesta le loro personalità. Non mia madre, che
nient’altro voleva se non l’amore eterno di Endimione, che ha avuto. Ma io! Un
uccello in una gabbia d’oro, così mi sento da anni, desiderosa di aprire le ali
e volare via, senza poterlo fare. Bisognosa di vedere il mondo, conoscerne i
turbamenti, comprenderne gli umori delle genti. E invece, limitata proprio da
coloro che amo, soffocata nel mio poter essere me stessa!”
“Pur
tuttavia…” –Disse allora Matt, avvicinando il viso a quello della ragazza,
perdendosi in quegli occhi verdi smeraldo. –“La tua scelta di combattere, di
scendere in guerra… non è stata dettata soltanto da questo. Non stai lottando
solo per te stessa, o per dimostrare a tua madre di essere in grado di farlo!
No, tu stai lottando per difendere la tua terra, la tua casa, la tua famiglia!
Lo sento, dentro te, il cuore che combatte per amore è il cuore più puro!”
Elanor
accennò un sorriso, tra le lacrime, dando infine ragione al giovane Cavaliere.
Per quanto sua madre le avesse tarpato le ali, impedendo alla sua personalità
di crescere, affermarsi e distaccarsi da lei, non le aveva mai fatto mancare
amore. E adesso avrebbe dovuto dimostrarsi degna di quella fiducia. Adesso
avrebbe combattuto anche per lei.
“Madre!!!
Guardami!!! Guarda tua figlia, Elanor, della Luna Splendente!!!” –Gridò, e la
sua voce cristallina sovrastò tutte le altre, respingendole indietro,
confinandole ad un silenzio improvviso. Persino Homados, fuori dal cubo, rimase
ad osservare, non capendo quel che stesse accadendo al suo interno, i cui
confini evanescenti impedivano di vedere con chiarezza.
“Brucia,
mio cosmo!!! Ardi per difendere coloro che amo!!!” –Avvampò Elanor, mentre un
vortice di luce rosa la avvolgeva, sostenendola mentre si rimetteva in piedi.
Matthew,
al suo fianco, fece altrettanto, espandendo il suo cosmo dalle iridescenti
sfumature e lasciando che le sette gemme della sua cintura rilucessero come mai
prima di allora, pregne di una passione che aveva infine trovato ragione
d’essere.
L’esplosione
dei loro cosmi annientò la Torre di Babele, scaraventando Homados indietro di
parecchi metri, obbligandola a coprirsi gli occhi per non restare accecata da
tale improvviso lucore. Quando riuscì a vedere di nuovo, rimase sorpresa alla
vista di uno strano oggetto improvvisamente apparso nel cielo di fronte ad
Elanor. Un oggetto che sembrava uno scudo celtico.
Matthew
lo guardò affascinato, sorridendo al biancore di quel materiale, finemente
lavorato, e si accorse che era identico a quello che rivestiva il suo corpo, e
quello di Reis, Jonathan e gli altri Cavalieri delle Stelle.
“Perciò
questo è…” –Comprese infine, mentre Elanor sfiorava il manufatto luminoso,
stabilendovi una profonda connessione cosmica. –“L’ultimo talismano!!!”
Improvvisamente
lo scudo si disfece in una ventina di pezzi che andarono a ricoprire il corpo
della ragazza, interamente, ristorando le sue energie e dandole una degna
armatura. Affissa al bracciale sinistro c’era una croce, di chiara provenienza
celtica, composta da un cerchio vuoto sovrapposto ad una croce greca, in modo
che il fulcro del primo corrispondesse al punto di intersezione dei raggi della
seconda.
“Bastardi! Non vi permetterò di usarlo!!!” –Ringhiò
Homados, sfrecciando verso di loro, ma venendo subito fronteggiata da Matthew,
che liberò il potere del proprio Arcobaleno
Incandescente, costringendo la Makhai indietro.
“Elanor!!! Con me!!!” –La incitò allora il ragazzo,
espandendo il proprio cosmo, e gridando insieme a lei. –“Talismani!!!”
E
luce fu.
***
Nel
percepire la vibrazione provocata dallo Scudo di Luna, Avalon, che osservava
gli eventi dall’alto dell’Occhio, sorrise compiaciuto. –“L’ora è giunta.
L’ultimo talismano è infine stato risvegliato. I Sette saranno presto riuniti!
L’energia degli antichi fluisce in loro per mezzo dei talismani, la percepisco,
così intensa, un flusso di memoria storica dagli albori del tempo e di profonda
saggezza.”
Selene,
avvicinatasi all’uomo, si abbandonò a un sospiro affranto, prima di chiedere
cosa sarebbe accaduto adesso. –“Che ne sarà di Elanor? Che ne sarà di mia
figlia?!”
“La
attende lo stesso destino di Jonathan e degli altri! Onorare i Talismani che li
hanno scelti, dopo millenni di attesa. Sopportarne il peso o esserne
sopraffatti! E non ho motivo di credere che non riescano in tale impresa, tantomeno
tua figlia!”
“Per
questo sei venuto, vero? Non per portarmi aiuto? Non per difendere questo regno
di cui poco ti cale, ma per prenderti l’ultimo talismano?”
“Una cosa non esclude altra!”
–Precisò Avalon, con voce flemmatica. –“Se la Terra cadesse nell’ombra e il
sole e le stelle si spegnessero, pensi che la luna potrebbe splendere ancora?”
Selene non rispose, il cuore straziato da tormenti
che ormai non riusciva a controllare, la sua natura divina sopraffatta da
un’angoscia di caducità umana. Pur tuttavia trovò la forza per recuperare
compostezza, sollevare il mento e annuire timida, ben conscia che il Signore
dell’Isola Sacra avesse ragione.
“Una
domanda ancora. Perché hai portato i Cavalieri di Atena? Temevi di non essere
in grado di sbaragliare Ares e i suoi accoliti?”
A
quelle parole, Avalon rise, come Selene non lo aveva mai sentito fare prima di
allora, per poi voltarsi di lei e fissarla con magnetici occhi argentei.
“Non
esiste entità su questo suolo lunare che possa arrecare danno alla mia persona,
né ad alcuno dei Quattro! Ma era necessario che Pegasus fosse qua, per prendere
coscienza del Nono Senso e elevarsi al rango divino, lo stesso rango che Atena
ha finalmente ritrovato, dopo che le memorie delle sue vite passati, delle sue
incarnazioni, sono confluite di nuovo nella sua mente. Adesso sono pronti!
Siamo pronti!”
“Per…
cosa?” –Quasi ebbe paura a chiedere la Dea della Luna.
“Per
l’ultima guerra. Una volta che i talismani saranno riuniti, la Coppa di Luce
tornerà a splendere ed essa sarà l’arma definitiva per porre per sempre fine
alla minaccia…” –Ma il Signore dell’Isola Sacra dovette interrompersi,
distratti entrambi dal rumore di passi sul pavimento dell’Occhio, passi
corazzati di un uomo che aveva deciso di prendere in mano il suo destino.
“Endimione!!!”
–Esclamò Selene, portandosi una mano alla bocca, sorpresa dal vedere l’amato
ricoperto da una cotta di battaglia, l’elmo sottobraccio e una spada al fianco.
“Non
la indossavo da tempo. Da quando ero Re dell’Elide, nel Mondo Antico, ben prima
di ricevere in dono da Zeus la giovinezza eterna, ma noto che ancora ben mi
calza.” –Commentò l’uomo, fermandosi di fronte a Selene e ad Avalon.
“Perché
ti sei vestito così? Dove vuoi andare?!” –Affannò subito la Dea, gettandosi tra
le sue braccia.
“A fare quello che devo! Combattere per difendere la nostra terra, il nostro
regno, la nostra famiglia.”.” –Si limitò a rispondere il suo sposo, fermandole
le mani con le proprie e costringendola a guardarlo in faccia, pur tra le
lacrime che le rigavano il volto. –“Ares e Discordia sono caduti, è vero, ma
ancora si combatte nei Cerchi di Marte e Giove!”
“Mi
ritiro!” –Si inchinò educatamente Avalon, facendo cenno di andarsene, per
lasciarli da soli.
“Non
puoi farlo! Se ti accadesse qualcosa… ne morirei…” –Singhiozzò Selene, cui
Endimione carezzò i capelli e asciugò le lacrime.
“Non
posso lasciare la difesa del reame a nostra figlia, una ragazza che sta
scoprendo adesso i suoi poteri, e ai Cavalieri di Atena, nobili e generosi di
certo, ma estranei! Che uomo sarei? Che re sarei? Indegno dell’immortalità e
impaurito di perderla!”
“Non
solo l’eternità ti sarebbe negata, mio sposo, ma il nostro amore. Vuoi davvero
morire?”
“Non qui e non ora. Ma un giorno accadrà. E
pure tu scomparirai e del nostro amore non resterà niente. Ma che importa se
potremo dire di averlo intensamente vissuto?!” –Chiarì lui, sollevandole il
viso e baciandola sulle labbra. Quindi si mosse per andarsene, ma non riuscì a
fare più di cinque passi che cadde a terra, privo di sensi, con lo sguardo
placido di un uomo dormiente.
“Non
potevo lasciarlo morire!” –Confessò Selene, incrociando lo sguardo severo di
Avalon, a pochi passi da lei, che aveva ben capito cos’era accaduto.
“Comprendo la tua sofferenza, Dea della Luna, pur tuttavia
è un’eventualità a cui devi prepararti. A cui tutti noi dobbiamo prepararci!”
–Spiegò, mentre anche Asterios lo raggiungeva, rivestito finalmente della sua
lucente armatura.
***
L’attacco
congiunto scaraventò Homados indietro di molti metri, con gravi crepe aperte
sull’armatura e chiazze di sangue che costellavano il suolo attorno a lei, a
ricordarle in ogni momento che non era poi così superiore alle sorelle. Anzi,
le sembrò persino di udire il ghigno di Kydoimos, non lo era mai stata.
“Zitta!!!
E zitti anche voi, vi farò tacere per l’eternità!” –Sbraitò collerica,
bruciando il proprio cosmo.
Matthew
ed Elanor fecero altrettanto, inebriandosi dell’ancestrale e puro potere
racchiuso nei Talismani. Anche Reis e Jonathan ne avevano percepito il
risveglio e stavano correndo verso di loro, attratti da tale poderosa forza
d’attrazione e al tempo stesso anche curiosi di vedere l’ultimo Talismano, su
cui Avalon aveva mantenuto riserbo assoluto. Sebbene fossero entrambi certi che
quantomeno Ascanio ne fosse stato messo a conoscenza.
“Cintura dell’arcobaleno!!!” –Avvampò
Matthew, liberando sette potenti raggi di energia, che sfrecciarono verso
Homados, presto uniti ad un’onda di luce che Elanor generò semplicemente
spostando il braccio ove riluceva il manufatto da lei custodito. –“Scudo di luna!!!”
Il
doppio assalto si scontrò con la Torre di Babele che la Makhai aveva appena innalzato,
impedendole di morire sul colpo, ma la pressione generata dai Talismani e da
quei cosmi ardenti portati adesso al parossismo la spinsero indietro, mentre
l’intera struttura che la proteggeva iniziò a scricchiolare. Falle si aprirono,
alcune pareti andarono in frantumi, mentre i colorati raggi di energia nemica
la raggiungevano, trafiggendole gli arti, il ventre, persino il volto.
“Aaargh!!!”
–Gridò l’ultima Makhai, mentre la Torre di Babele esplodeva e lei veniva
travolta in pieno dalla marea lucente e scagliata in alto, schiantandosi poi al
suolo priva di vita. Se avesse avuto le forze per girare la testa, anche solo di
pochi centimetri, avrebbe visto il varco per il Cerchio di Marte apparire
proprio davanti a lei, a pochi passi dalla posizione che per buona parte dello
scontro aveva tenuto.
“La
nostra luce ci ha permesso di vincerla!” –Commentò Matthew. –“La luce della
nostra passione, quella che spiega perché combattiamo. E per chi.”
Elanor
annuì, sorridendo al ragazzo, quindi si sporse per baciarlo su una guancia,
ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per lei quel giorno. Ossia
proteggerla, in tutti i modi e in ogni occasione. E non lo avrebbe dimenticato.
In
quel momento arrivarono Reis e Jonathan, spada e scettro in mano, osservando
felici ma interessati l’ultimo Cavaliere delle Stelle. Elanor, della Luna
Splendente.
Ioria
correva lungo la Via Maestra del Grande Tempio, che dal Cancello Principale
raggiungeva le Dodici Case, inseguendo un dubbio che l’aveva invaso. Aveva
lasciato Yulij a prendersi cura di Tirtha, dando ordine che la ragazza fosse
sfamata e curata, ma senza mai perderla d’occhio, convinto della sua innocenza.
O quanto meno della sua non volontarietà nei fatti.
Aveva
già visto quello sguardo indemoniato, un cuore posseduto dall’oscurità che
veniva forzato a compiere azioni che la mente non avrebbe mai accettato. E
aveva già provato anche quel sentimento di disperazione susseguente al
risveglio, al recuperare coscienza di sé. Lo aveva sperimentato sulla pelle,
neppure due anni addietro, quando Arles aveva preso controllo della sua mente,
trasformandolo in una macchina per uccidere Pegasus o chiunque avesse varcato
la soglia dei leoni. E il ricordo di cosa aveva fatto, del sangue di cui si era
imbrattato le mani, lo perseguitava ancora.
Per
questo temeva, anzi inorridiva, al pensiero che la storia potesse ripetersi. Se un Demone dell’Oscurità si è annidato nel
cuore di Virgo, mio è il compito di liberarlo, mio l’onere di ridargli la luce!
Come già aveva fatto con Galan e con Tirtha. Eppure, il pensiero che
potesse esistere qualcuno in grado di prendere il controllo della mente del
Custode della Porta Eterna lo faceva rabbrividire. Sarebbe come divenire un Dio!
Un
battito d’ali lo distrasse proprio mentre metteva piede sulla scalinata delle
Dodici Case, facendolo voltare verso lo spiazzo roccioso dove Lady Isabel aveva
languito per dodici ore trafitta dalla freccia di Betelgeuse. Un battito d’ali
che accompagnò il planare di una figura ammantata di luce che Ioria aveva già
incontrato, proprio in quello stesso Grande Tempio, pochi mesi addietro.
“Cavaliere di Leo! I miei omaggi!” –Esclamò Euro, Vento dell’Est, splendido
nella sua celeste Veste Divina.
“Li
ricambio, nobile figlio di Eos!” –Rispose subito Ioria, accennando un inchino,
salvo accorgersi dei due corpi che il Dio teneva sotto ciascun braccio. Con
delicatezza, l’ultimo dei Quattro Venti li depositò a terra, liberandoli dai
mantelli in cui li aveva avvolti, per tenerli caldi durante la rapida
trasvolata, rivelando ben noti volti.
“Castalia!!!
Phantom!!! Cos’è accaduto? Dei dell’Olimpo, chi li ha ridotti in questo stato?”
–Incalzò il Cavaliere d’Oro, osservando le corazze danneggiate, i tagli e le
ferite sui loro corpi. E il volto di Castalia, privo dell’ormai distrutta
maschera.
“Io…
Ioria…” –Balbettò il Luogotenente dell’Olimpo, faticando persino nel girarsi su
un fianco. –“Devi… sapere…”
Euro
lo pregò di non affaticarsi e rimanere disteso, mentre raccontava al Cavaliere
d’Oro quanto accaduto sull’isola francese, così come Phantom gli aveva
spiegato, notando lo sguardo attento di Ioria corrugarsi in una maschera di
preoccupazione.
“Cariddi?!
Un altro nemico?! Ma che diavolo succede quest’oggi?! Una nuova guerra?!”
“La
sua forza bruta era devastante! A malapena sono riuscito a impedire che ci
uccidesse tutti!” –Rantolò il Cavaliere Celeste, riuscendo infine a mettersi
seduto.
“Che
ne è di Asher e del Professore? Sono salvi?”
“Malconci
ma vivi. Euro ha curato le ferite dell’Unicorno che ha preferito rimanere
sull’Ile de Ouessant con Rigel, aspettando il rientro della nave scandaglio,
incapace di arrendersi, incapace solo di abbandonare il pensiero della ricerca!
Quel ragazzo non teme niente, né la malattia né la morte. Che la veda come una
liberazione?” –Aggiunse, con un sospiro, prima che un gemito di Castalia
attirasse l’attenzione di tutti.
“Ha
bisogno di cure immediate! Credo che, oltre alle ferite esteriori, abbia
lesioni interne!” –Spiegò il Luogotenente dell’Olimpo, rivolgendosi a Ioria,
che annuì, prima di percepire, al pari dei compagni, una violenta esplosione
cosmica deturpare l’armonia della Collina della Divinità. Un’esplosione che,
Ioria non aveva dubbi, proveniva dal cuore delle Dodici Case, dal Sesto Tempio
della Vergine. –“Che sta succedendo? A chi appartiene questo cosmo oscuro?!”
“Non
c’è tempo per le spiegazioni! Devo andare!” –Incalzò Ioria, prima di chiedere a
Euro di assistere la Sacerdotessa dell’Aquila ancora per un po’, fino al suo
ritorno.
Il
Vento dell’Est assentì, osservando con preoccupazione il Cavaliere di Leo
scattare lungo la scalinata di marmo, con la stessa eroica determinazione che
aveva sempre ammirato in Pegasus e nei loro antesignani, gloriosi eroi del
Mondo Antico al cui fianco aveva combattuto. Il Luogotenente rimase qualche
secondo a soppesare la situazione, prima che lo sguardo di Euro gli togliesse
ogni dubbio.
“Fa’
attenzione! Sei ancora molto debole!” –Gli disse, ponendogli una mano su una
spalla.
Phantom
annuì, prima di correre dietro al Cavaliere di Leo.
***
“Virgo
avrebbe ucciso Pavit?!” –Esclamò il Luogotenente dell’Olimpo, sfrecciando assieme
a Ioria lungo la scalinata del Grande Tempio. –“Non è possibile! Le sue lunghe
meditazioni lo hanno reso il Cavaliere più vicino agli Dei! Come puoi credere
che sia stato posseduto? Tirtha deve essere sconvolta! Deve esserci un’altra
spiegazione!”
“Vorrei
non crederlo, infatti.” –Si limitò a commentare il custode del Quinto Tempio,
superando la magione da lui presieduta e continuando a correre verso la casa
successiva, dove avrebbero avuto tutte le risposte. –“Ma senti anche tu questo
cosmo che invoca disperatamente aiuto! È Libra! E sta combattendo alla Sesta
Casa!”
“Ma
contro chi?!” –Rifletté Phantom, non riconoscendo, nel cosmo di tenebra che lo
sovrastava, l’impronta del Cavaliere di Virgo.
Una
deflagrazione violenta fece sussultare entrambi, spingendoli ad aumentare
l’andatura e a raggiungere con un balzo il piazzale di fronte al Sesto Tempio.
Dall’interno, inequivocabili, provenivano rumori di lotta. Senz’altro
attendere, Ioria e Phantom si lanciarono nel corridoio principale, giungendo in
fretta al centro della casa, dove il Cavaliere d’Oro della Vergine li stava
aspettando.
“Benvenuti!”
–Sogghignò, avendo percepito le loro energie avvicinarsi e ben sapendo di non
poter far altro che accoglierli, senza nascondersi più. –“Oltre al Leone anche l’Eridano
Celeste! Che simpatica rimpatriata! Manca solo l’Aquila a completare il vostro
triangolo!”
“Virgo!!!
Che stai dicendo? Torna in te, amico mio, te ne prego!” –Esclamò Ioria,
muovendo un passo avanti. –“L’ombra ti possiede, ma tu puoi cacciarla! Hai la
forza e la sapienza per riuscire nell’impresa in cui io fallii!”
“In
molte cose hai fallito, Cavaliere di Leo! Non vorrai perdere tempo ad
enumerarle tutte? Se non ricordo male, Lothar del Sudario di Cristo dipinse un
quadro particolarmente efficace delle tue molteplici mancanze! Ahr ahr ahr!”
–Sghignazzò il custode del Sesto Tempio. –“Un quadro… a tinte fosche!”
–Aggiunse, liberando un turbine di fiamme oscure che avvolse il Leone d’Oro,
scaraventandolo contro il colonnato e abbattendolo in parte.
“Ioria!!!”
–Gridò Phantom, indeciso sul da farsi.
“Non
temere, ardito Luogotenente! Gli farai presto compagnia!” –Sibilò il suo
interlocutore, piegando a terra il Cavaliere Celeste con la forza del pensiero,
mentre un rogo di tetre vampe nasceva attorno a lui, intrappolandolo. –“Prima
di dirci addio, consentimi di farti un regalo! Ti sarà utile per scendere con
maggior foga i gradini del Tartaro, spinto dal desiderio di riabbracciare i
tuoi congiunti! Ahr ahr!” –E gli afferrò il cranio, stringendogli la fronte in
un’algida presa e vomitandogli nella mente una caterva di immagini.
Rapide,
come lame di luce, si susseguirono davanti ai suoi occhi, senza che Phantom
potesse fermarle o metterle in ordine. Riuscì solo a discernere un luogo che
ben conosceva, il simbolo dei suoi affetti più cari. La casa che suo padre
aveva edificato con duro lavoro, per accogliere e coccolare la moglie incinta.
Una casa adesso sporca di sangue.
“Nooo!!!”
–Gridò il Luogotenente olimpico, portandosi le mani alla testa, sul punto di
esplodere da un momento all’altro, tanto violento e repentino era stato quel
rigurgito di dolorose immagini.
“E
invece sì!” –Sibilò il Cavaliere di Virgo, sollevando l’avversario con un
turbine di fiamme roventi e scaraventandolo via, proprio addosso a Ioria che si
stava rimettendo in piedi, togliendosi i detriti e i calcinacci di dosso.
–“Restate a terra, strisciate, luridi vermi! Leccate il fango da questa corazza
di latta dorata e forse vi risparmierò!”
“Sei…
fuori di testa…” –Mormorò il Cavaliere di Leo, aiutando Phantom a rialzarsi.
“Mai
stato più lucido, in verità! Lo stesso non posso dire del tuo compagno, il
vecchietto dalla carnagione viola ringiovanito solo per morire ventenne!”
“Il…
Dohko?! Dov’è Libra?”
“Proprio
qua! Non l’hai visto?” –Sogghignò perfido il padrone della Sesta Casa,
accendendo il trono usato come braciere e rivelando il corpo massacrato del
Cavaliere d’Oro, colà disteso, la corazza affumicata e distrutta in più punti,
il sangue che colava fuori dalla bocca spalancata, scivolando fino a terra. Di
fronte agli occhi sgomenti di Ioria e Phantom, l’uomo che chiamavano Virgo
intinse un dito nella gola del Custode della Settima Casa, bagnandolo di linfa
vitale, e lo assaporò, saziandosene avidamente. –“Corroborante! Merita allora
nutrirsi di sangue d’oro!” –Ironizzò, prima di sollevare un oceano di vampe
cremisi.
“Per
Atena, quale orrore!!! Tu… non puoi essere Virgo… non hai niente della sua
purezza! Sei un mostro!!!”
“Ed
infatti non è Virgo il mio nome scarlatto!” –Sghignazzò, mentre le fiamme che
lo attorniavano si allungavano, rivelando le sue vere fattezze. –“Sono un
vecchio amico! Desideroso di una rimpatriata! Ahr ahr ahr!”
“Che…
cosa?! Non può essere! Flegias?!” –Esclamarono sbigottiti Phantom e Ioria. –“Ma
tu sei morto… ucciso dai Cavalieri dello Zodiaco sull’Isola delle Ombre!”
“Potrei
mai essere ferito da quei dilettanti? Il mio corpo è stato distrutto ma lo
spirito primordiale che mi sorregge a correnti ben più impetuose può resistere!
Io sono la quercia delle tenebre, l’Yggdrasill che sorregge l’impero
dell’ombra! E voi, ai miei occhi, siete solo parassiti, e come tali vi
estirperò!”
“Farneticanti
ciance!!! Per il Sacro Leo!!!”
–Tuonò allora Ioria, scattando avanti e generando un reticolato di energia che
presto si chiuse su Flegias, il quale, nient’affatto impressionato, si limitò a
far esplodere il suo cosmo.
“Kaan!!!” –Gridò, mentre le vampe che lo
attorniavano si chiudevano a cerchio su di lui, in modo da formare una cupola
difensiva su cui i raggi di luce si schiantarono, estinguendosi uno dopo
l’altro, per quanto Ioria potesse reiterare l’assalto.
“Non
è possibile! Quella tecnica… è di Virgo!!!” –Esclamò sbalordito il custode del
Quinto Tempio, prima che Flegias muovesse un braccio, smuovendo l’intero
apparato difensivo e tramutandolo in una bomba di fuoco oscuro, che investì
Ioria, schiantandolo molti metri addietro.
“Perspicace
il ragazzo! Non si direbbe!” –Ironizzò il Rosso Fuoco, prima di portare lo
sguardo su Phantom, che nel frattempo aveva espanso il proprio cosmo celeste.
–“Tu invece non mi piaci!” –Aggiunse, mentre il Luogotenente Olimpico liberava
il Gorgo dell’Eridano, che sfrecciò
verso Flegias alla velocità della luce.
Annoiato,
il Maestro di Ombre si spostò di lato, lasciando che la sfera di energia
acquatica gli passasse di fianco, smuovendogli semplicemente il lungo crine
biondo, prima di avventarsi su Phantom e tempestarlo di pugni. Uno dopo
l’altro, in una così intensa sequenza da impedirgli qualsiasi reazione. Con
l’ultimo pugno lo schiantò contro il massiccio portone che si ergeva sul
versante interno della casa, macchiando di sangue le rifiniture d’oro del fiore
intarsiato.
“Non
mi sei mai piaciuto, Luogotenente! Anche quando ero un tuo diretto superiore!
Mentre tutti si affannavano a compiacermi, e a obbedire prodighi alle direttive
del Consigliere di Zeus, tu dovevi sempre puntualizzare, testardo come un
Cavaliere di Atena! Avrebbero dovuto darti una delle ottantotto armature,
anziché forgiarne una solo per te!” –Commentò Flegias, torreggiando sul ragazzo
e fissandolo con astio, prima di raccogliere la saliva in bocca e poi
sputargliela in testa. –“Ma tutta la simpatia che Zeus ha avuto per te non
basterà comunque a salvarti!” –Ringhiò, calando il braccio su di lui, ma
venendo infine distratto da un grido improvviso.
Ioria
si era rimesso in piedi e si stava lanciando contro di lui con il pugno destro
carico di energia cosmica. –“Lascialo stare, infingardo traditore!”
“E
perché mai?!” –Ghignò Flegias, afferrando Phantom per un braccio e tirandolo su
di peso, in modo da metterlo sulla traiettoria dell’attacco di Ioria, che lo
raggiunse alla schiena, distruggendo la corazza già danneggiata e facendo
sputare sangue al Cavaliere Celeste. –“Scudi umani, una tecnica di guerra
antica quanto efficace!” –Rise con perfidia, osservando il volto traumatizzato
di Ioria e, prima che quest’ultimo potesse abbozzare una qualche strategia di
difesa, afferrandogli il collo con la mano destra ancora libera e sbattendolo
contro Phantom. –“Cenci da scuotere, ecco cosa siete per me! Sono la lavandaia
di sangue che strizzerà i vostri corpi prosciugandoli fino all’ultima goccia!”
–Gridò, mentre sinuose vampe oscure si avvinghiavano addosso ai due Cavalieri,
strappando loro urla di sofferenza.
Ioria
cercò di reagire, anche per il compagno gravemente ferito. Afferrò il braccio
di Flegias con una mano, liberando intense scariche folgoranti, non ottenendo
altro effetto che strappargli un sorriso divertito.
“Tifavo
per te, in verità!” –Commentò, stordendo il Leone, che non capì cosa volesse
dire. –“Con la Sacerdotessa dell’Aquila, intendo! Avresti aggiunto un po’ di
fuoco alla sua patetica esistenza! Invece l’hai lasciata a questo fallito che
non si regge in piedi! Come farà a soddisfarla, proprio non lo so!”
“Bastardo,
non osare permetterti in questo modo…” –Ringhiò Ioria, ma Flegias aumentò la
presa, piantando le unghie nel collo del Cavaliere.
“Altrimenti?!”
–Tuonò, prima di scaraventare entrambi contro il muro dall’altra parte della
stanza, facendolo crollare su di loro. –“Te l’ho detto, Ioria, mi sei
simpatico! Ma questo tuo atteggiamento non aiuta! Tutt’altro! Ora, per come la
vedo io, hai due scelte, e ti assicuro che sono molte più di quante Libra, o il
qui presente Phantom, ne abbiano avute! La prima è morire: chiara, semplice,
inequivocabile, e sai bene che accadrà se insisti a guardarmi torvo, del resto
non hai mezzi per ferirmi. La seconda, che personalmente trovo ben più
interessante, è unirti a me. In fondo, a suo tempo, ti schierasti dalla parte
giusta, perché non ripeterti? Ah, se è un Demone dell’Oscurità che stai
cercando, te lo darò! Del resto chi meglio di me, che l’ho ideata, padroneggia
quella tecnica?!”
“Sei…
folle, Flegias!!!” –Avvampò Ioria, rialzandosi ed espandendo il proprio cosmo,
mentre i detriti crollati su di loro andavano in frantumi al solo contatto. –“I
tuoi deliri di onnipotenza, la tua mente malata, ti hanno fatto perdere di
vista la realtà! E nella realtà tu sei il nemico e io colui che ti vincerà!”
“Illusione
che presto cadrà!” –Strinse i denti il Maestro di Ombre, lasciando turbinare le
vampe di fuoco, proprio mentre Ioria, radunate le forze, portava entrambi i
pugni avanti, liberando due massicce sfere di energia dorata.
“Double bolt!!!”
L’attacco
si abbatté alle spalle di Flegias, che fu nuovamente lesto a schivarlo,
squassando il portone e aprendo infine la via verso il Giardino dei Salici
Gemelli. Ma Ioria, che tale eventualità aveva previsto, si era già buttato in
terra, sfiorando il suolo e infondendovi il suo cosmo sfolgorante.
“Assaggia
le zanne del Leone, figlio di Ares!” –Esclamò, mentre migliaia di folgori
lucenti saettavano fuori dal pavimento sotto i piedi di Flegias,
intrappolandolo in una gabbia di energia.
“Divertente!
Mi fa il solletico!” –Rise questi, prima di radunare il cosmo tra le mani e
rilasciarlo sotto forma di un ventaglio di energia infuocata che spazzò via i
fulmini. –“Ooohm!!!” –Mormorò,
allietato da quello scontro.
“È
tutto tuo, Phantom!” –Disse allora Ioria, rotolando di lato e attirando le
vampe su di sé, proprio mentre il Luogotenente dell’Olimpo, che nel frattempo
si era rialzato alle spalle dell’amico, liberava il poderoso gorgo di cui era
padrone.
La
sfera di energia acquatica sfrecciò verso Flegias, che inarcò un sopracciglio,
colto per la prima volta di sorpresa. Ma ebbe comunque il tempo di voltarsi in
trasversale, osservare il Gorgo
dell’Eridano passargli accanto e afferrarlo poi con il palmo della mano,
avvolgendolo in oscure vampe di fuoco e rimandarlo indietro.
Phantom
si lanciò di lato, per evitare di essere investito in pieno, ma la
deflagrazione della sfera, a contatto con il muro retrostante, lo raggiunse
comunque, spingendolo avanti, proprio ai piedi del Maestro di Ombre. Di nuovo
quest’ultimo sollevò il braccio per colpirlo ma all’ultimo istante lo volse
verso destra, proprio dove Ioria era appena apparso con il pugno sfrigolante
energia cosmica. Deridendo la prevedibilità del Cavaliere, lo abbatté con una
vampa di fiamme nere, schiacciandolo a terra, accanto al compagno sconfitto. Quindi,
come un cacciatore di ritorno da una proficua giornata, li afferrò entrambi per
un calcagno, trascinandoli fuori, nell’immenso giardino che sorgeva incavato su
un fianco della Collina della Divinità.
Le
Sacerdotesse del Santuario, e le loro apprendiste, molto si erano adoprate,
dopo la fine della Grande Guerra, per riportare quel parco all’antico
splendore, occupandosi di seminare il terreno e curare la crescita dell’erba e
dei fiori. Il risultato, sia pur non paragonabile alla versione precedente,
aveva comunque soddisfatto sia Atena che il Custode del Sesto Tempio, che
spesso vi sedeva per meditare. Quest’oggi la sua oscura versione vi si sarebbe
adagiata per ammirare il concretizzarsi del suo progetto di dominio. Là, tra i
Salici Gemelli, avrebbe atteso l’avvento della grande ombra. E la fine del
mondo.
Con
un solo movimento del braccio, Flegias liberò una tempesta di fiamme che
incenerì parte del giardino, lasciando solo un terreno brullo e sterile.
Terreno ove Ioria e Phantom sarebbero stati sepolti, chiarì, sghignazzando.
“Ci
seppellirò la tua testa invece, figlio di Ares!!!” –Ringhiò Ioria, rimettendosi
in piedi e bruciando ancora una volta il proprio cosmo.
“Dubito
che riuscirai a farlo, Cavaliere! Dal momento che non ho più una testa! A meno
che tu non voglia seppellirci questa… la testa del tuo amico Virgo!”
A
quelle parole Ioria fermò il pugno, già carico di rovente energia, invaso da un
pensiero che fino a quel momento, travolto dalla furia degli eventi, non aveva
considerato. Virgo! Che ne sarà di lui?
Se anche colpissimo Flegias, chi feriremmo realmente?
Non
seppe rispondersi e il Rosso Fuoco approfittò di quel momento per investirlo
con una tempesta di energia incandescente, schiantandolo a terra molti metri
addietro. E anche quando si rialzò, stringendo i denti per il dolore, continuò
ad essere travolto dal dubbio. Phantom parve comprendere l’esitazione del
compagno, non sapendo neppure lui come liberare Virgo da quella possessione
che, era chiaro, andava ben al di là di un semplice controllo mentale. No, Virgo non esiste più! La sua coscienza è
stata annientata e Flegias vive nel suo corpo! Concluse il Luogotenente
dell’Olimpo, giungendo ad una sola conclusione. Si voltò verso Ioria e vide che
il ragazzo, con gli occhi lucidi, aveva compreso.
Sollevando
lo sguardo, oltre Flegias e le sue vampe infernali, il Leone vide i Salici
Gemelli ergersi in lontananza, impassibili e imperterriti ai destini del mondo.
Avevano resistito agli Urli di Atena, alla Grande Guerra e all’avvento dell’inverno
e Ioria si disse certo che sarebbero rimasti in vita fino alla fine del tempo.
Sotto quegli alberi Virgo scelse di
morire, per mandare un messaggio ad Atena e continuare la sua lotta. Noi faremo
altrettanto, rendendo onore al suo ricordo e tenendo alto il suo nome. Nessun
sacrificio sarà stato vano! Avvampò
Ioria, mostrando il pugno chiuso, attorno al quale scintillavano folgori
dorate.
Phantom,
accanto a lui, si preparò per l’ultimo assalto, consapevole di non avere altre
forze residue. –“Sia quel che sia, sono contento di morire con te, amico mio!”
Ioria
annuì, prima di sfrecciare avanti, avvolto da sfolgoranti fulmini d’oro. –“Per il Sacro Leo!!! In nome di
Virgo!!!”
“Padre!
Madre! Sorella! Presto saremo di nuovo insieme! Per adesso, vi vendicherò! Gorgo dell’Eridano!!!” –Gli fece eco il
compagno, fondendo il proprio assalto con quello del Leone.
“Avete
avuto la vostra possibilità di scegliere! Lo avete fatto! Perciò non adiratevi
se altrettanto farò anch’io!!! Apocalisse…
divina!!!” –Tuonò il Maestro di Ombre, sollevando il braccio destro e
scatenando la più devastante tempesta di energia che avesse mai solcato quel
suolo.
I
raggi di luce di Ioria si estinsero, il globo di energia acquatica venne
dilaniato e smembrato, i due Cavalieri furono sollevati da terra e avvolti in
spire di fuoco oscuro, che distrusse le loro corazze, ustionò le carni, strappò
via pezzi di pelle dai loro corpi, facendoli infine ricadere a terra in una
pozza di sangue, mentre tutti i loro sogni e le loro speranze crollavano
assieme a loro.
E
tutto fu silenzio.
Per
qualche minuto Flegias rimase ad osservare i corpi massacrati dei valorosi
combattenti per la giustizia, inebriandosi dell’odore del loro sangue. Poi si
ricordò di Dohko, il cui cadavere ancora ardeva nel braciere nella Sesta Casa,
e si incamminò verso l’interno, per recuperarlo e gettarlo sopra gli altri due,
per poi dare fuoco all’intera catasta.
Aveva
mentito, si disse con un ghigno perfido. Non li avrebbe sotterrati. Del resto, perché perdere tempo a scavare?
Meglio bruciare, meglio che l’odore della loro sconfitta si diffonda per tutto
il Grande Tempio e raggiunga quei pochi spauriti soldati che ancora claudicano
per difenderlo. Ahr ahr ahr!
“Fe…
fermati!!!” –Lo chiamò una voce all’improvviso, facendolo voltare di scatto
verso il giardino e strappare un verso di sorpresa.
Ioria
era ancora vivo, per quanto visibilmente allo stremo. Era appoggiato su un
ginocchio, sanguinante da ogni ferita aperta sul suo corpo, soprattutto al
collo, alla tempia destra e a un occhio, e respirava a fatica. Il braccio
destro era allungato avanti a sé, sorretto dal sinistro che gli impediva di
afflosciarsi, mentre quel che restava del suo cosmo si espandeva attorno a sé,
sempre di più, fino a generare una galassia di stelle che sovrastò il Giardino
dei Salici Gemelli.
“Ancora
non ti arrendi? Sei proprio come Pegasus!” –Commentò il Rosso Fuoco,
recuperando la sua baldanza guerriera. –“Ma non puoi fare più niente ormai!
Rinuncia Ioria, rinuncia o ti massacrerò con queste mie mani! Senza cosmo,
senza tecniche segrete, solo con queste dita ti stuprerò la faccia, rendendola
irriconoscibile persino alla tua bella aquilotta!”
“Taci,
spergiuro!!! Photon Invoke!!!”
–Gridò il Cavaliere di Leo.
“Cosmos Open!” –Ripeté divertito il Rosso
Fuoco, facendo trasalire l’avversario.
“Co…
come conosci la mia sequenza d’assalto?! L’hai visto solo una volta, a
esplosione già scatenata!”
“Hai
ragione. Vagamente lo rammento. Ma Virgo, invece, lo conosce bene! E sa anche
come neutralizzarlo!” –Ridacchiò, concentrando il cosmo tra le mani e liberando
un ventaglio di energia infuocata, che si diresse, come un maroso di fuoco
nero, contro Ioria.
“Con…
tinua!!!” –Esclamò Phantom, balzando davanti all’amico e venendo investito in
pieno dall’assalto nemico.
“Nikolaos!!!”
–Gridò Ioria, raggiunto dagli schizzi di sangue del Luogotenente, che crollò
accanto a lui. E la sua tragica fine gli tolse ogni dubbio. –“Photon Drive!!!”
La
pioggia di stelle cadde su Flegias, o almeno così parve al Cavaliere d’Oro,
salvo poi accorgersi di non riuscire più a muovere neppure un muscolo. Persino
parlare gli risultava impossibile, l’immagine del nemico davanti a lui si fece
sfuocata e i suoni lontani. Fu soltanto usando il cosmo che capì che il Maestro
di Ombre stava sogghignando soddisfatto.
“Interessante
tecnica questo Sacro Virgo! Blocca attacco e difesa nello stesso momento! E
mentre eri intento a preparare quel colpo troppo lento ne ho approfittato per
toglierti i cinque sensi! Adesso dimmi, Cavaliere di Leo, ancora convinto nei
tuoi propositi? Ahr ahr ahr! La sorte che hai scelto è, sì, ben nota, ma non
per questo meno terribile!” –Esclamò fiero il Flagello di Uomini e Dei. –“Non
affannarti ad urlare, tanto nessuno potrà udirti! Mur è in Asia, e a quest’ora
sarà già morto! Atena e Avalon sulla luna, Libra è caduto! Nessuno più resta a
difendere il Grande Tempio! Morto tu, la gloriosa casta dei Cavalieri d’Oro
scomparirà! Mi sento fiero di questo risultato! Ah già, dimenticavo che non
puoi parlare, sarei stato curioso di sapere quale santo protettore avresti
invocato! Quale che sia, è un lamento destinato a perdersi nel vento, poiché
nessuno verrà in tuo aiuto! Sei solo!”
“Ci
sono io!!!” –Parlò allora una voce fiera, risuonando contemporaneamente nella
mente di tutti e tre i combattenti, mentre due draghi di energia, uno bianco e
uno rosso, incendiavano il Giardino dei Salici Gemelli, abbattendosi infine su
Flegias.
Rialzandosi,
stordito e sorpreso, il Rosso Fuoco parve incupirsi per un momento, portando la
mano destra sul cuore, come se temesse di aver perso qualcosa. Come se quei
draghi si fossero cibati del mantello di oscurità che lo vestiva.
Sollevò
lo sguardo irato, trovandosi di fronte il guerriero che aveva osato ferirlo.
Anche Ioria e Phantom, sia pur deboli, guardarono il nuovo arrivato, non
riuscendo inizialmente a riconoscerlo. Alto e robusto, le gambe ben piazzate al
suolo, indossava un’armatura che nessuno di loro aveva mai visto, una corazza
dall’aspetto simile a quelle indossate da Jonathan e dai Cavalieri delle
Stelle.
“Pen…
dragon…” –Mormorò il Luogotenente, riconoscendo infine il cosmo del loro
salvatore. E sorrise, prima di accasciarsi esanime.
“Riposa,
Phantom! Mi occuperò io del Flagello di Uomini e Dei! Ho molti motivi per cui
combattere, molte persone da vendicare, altre a cui rendere onore!” –Spiegò il
guerriero, togliendosi l’elmo dell’armatura e rivelando il suo volto maschile,
su cui brillavano due occhi neri. –“Non abbiamo mai avuto il piacere di
affrontarci in uno scontro diretto, sebbene i nostri cammini si siano
incrociati sull’Isola delle Ombre! All’epoca, però, vestivo un’armatura
diversa, quella dei Cavalieri Celesti, i cui panni ho smesso accettando
ufficialmente il mio ruolo!
Sono
Ascanio Pendragon, Cavaliere della Natura, Comandante dei Cavalieri delle
Stelle e custode dei misteri di Avalon! E sono qui per prendere la tua vita,
Anhar!”
La
catena montuosa del Pindo era un’area aspra e solitaria, ben lontana dagli
agglomerati urbani ove gli uomini preferivano risiedere. Un’area adatta alle
passeggiate che la Dea ogni tanto decideva di concedersi, sebbene non amasse
particolarmente il corpo celeste di cui il suo regno era satellite. Né i relativi
abitanti.
Li
osservava spesso, gli uomini, spaziando dall’Occhio fino ai verdi campi del
pianeta vicino, tentando di capire cosa li spingesse a vivere quelle misere,
futili e caduche esistenze, cosa desse loro un motivo per alzarsi dal letto
ogni mattina e affannarsi in un vano e claudicante agire. In fondo, alla fine,
sarebbero tutti stati sconfitti. Dalla morte, dalle malattie, dall’odio per i
loro simili, dal trascorrere del tempo. Fattori questi che aveva rimosso dalla
propria vita quando aveva fondato il reame della Luna Splendente, il suo regno
beato, bandendo de facto simili prospettive che invece parevano affliggere
persino gli Dei rimasti sulla Terra.
Selene
sospirò, allontanando lo sguardo dal Monte Olimpo, che si ergeva impavido alla
sua destra, la cima avvolta da nebbia così fitta che neppure lei poteva
sondarla. Il lieve tocco della mano dell’amato la riscosse, spingendola a
sorridere e a lasciare indietro tutti quei pensieri che la invadevano ogni
volta in cui abbandonava la sicurezza del reame e scendeva sulla Terra.
“Ci
siamo quasi!” –Le sussurrò Endimione, proseguendo a passo calmo lungo il
sentiero che si snodava tortuoso tra le montagne del Pindo, diretto verso la
cima della vetta più alta.
Smolikas.
Il monte sacro ad Apollo.
Uno
dei pochi luoghi del pianeta che Selene considerava degno di attenzione e di
rispetto, un sito di culto dedicato al Dio greco del Sole, l’astro
complementare della Luna. Proprio il Nume in persona le aveva raccontato,
durante una delle sue ultime visite all’ermo santuario, che in tempi antichi un
osservatorio era stato edificato sulla sommità di Smolikas, da cui uomini saggi
studiavano il moto delle stelle. Una storia che le aveva strappato un sorriso,
ricordandole l’innato spirito di Icaro che pareva albergare dentro ogni uomo, e
che forse era proprio ciò che li distingueva.
Il
loro desiderio continuo di andare oltre, nonostante la limitatezza della loro
stessa esistenza.
Perché sognare di essere un’aquila se
non possiedono le ali per poter volare? Si
chiedeva spesso Selene. Perché bramare il
cielo se non sono in grado neppure di camminare sulla terra senza inciampare?
A
quelle domande ebbe risposta quel giorno.
“Eccoci!”
–Commentò infine Endimione, fermando la strana carovana di famiglia.
Erano
giunti ai margini di uno spazio scavato nella roccia, a pochi passi dalla cima
di Smolikas, ove i resti di un antico santuario, nato sulle rovine del
precedente osservatorio, ancora resistevano imperterriti al trascorrere del
tempo, delle mode e dei culti religiosi. Molte delle figlie di Selene
superarono la coppia, avvicinandosi incuriosite o estasiate a quel luogo antico
di cui la madre aveva spesso parlato loro. Soltanto una non si mosse, rimanendo
al suo posto, all’ingresso di quel recesso sacro che non le suscitava emozione
alcuna.
Sono solo pietre. Mormorò Elanor, scalciando tra la polvere. Pietre antiche, colonne mozzate, i resti
di qualche capitello di foggia corinzia. E cos’altro? Perché venire fin quassù,
sfidando i pericoli delle alture del Pindo, per rendere omaggio a un Dio? Non
avrebbero potuto costruire un tempio in pianura o in un luogo ben più
accessibile, come fecero a Delfi? E per cosa poi? Per venerare un Dio che non
si è neppure premunito di preservarlo dalla rovina del tempo?
“Il
tuo ostruzionismo è fuori luogo!” –Osservò allora la madre, avvicinandosi.
Aveva
lasciato Endimione e le figlie ad osservare i resti del santuario, lasciando
che fosse il marito ad illustrare loro l’originaria architettura, ben sapendo
quanto sarebbero state interessate a vicende che, per tutte loro, appartenevano
alla storia antica. Ma era stata certa fin dall’inizio di quel viaggio che la
primogenita non l’avrebbe apprezzato, quantomeno non ne avrebbe compreso il
senso.
“Vuoi
offendermi, Elanor?”
“Nient’affatto, madre! Perdonatemi se vi ho dato quest’impressione!”
“L’impressione
che mi dai è di una seccatura perenne! Sei sempre scocciata! Cos’è che ti
opprime a tal punto da non permetterti mai di sorridere alla vita? Forse la
compagnia delle tue sorelle, della tua famiglia che ti ama, non ti aggrada?”
“Io…
non…” –La ragazza esitò per un momento, scostandosi un ciuffo di capelli
castani dietro l’orecchio, ben attenta a non incrociare mai lo sguardo della
madre, sguardo che, sapeva, avrebbe potuto leggerle nell’animo. E non voleva
affatto che sapesse quel che le turbinava dentro, un desiderio che non avrebbe
mai capito. –“Non apprezzo i luoghi angusti, incassati tra le montagne!”
“Se
è solo questo che ti infastidisce, non temere. Ci rimetteremo presto in
cammino, lasciami solo il tempo di rendere omaggio al Dio del Sole!” –E si
diresse verso il santuario, per raggiungere Endimione e le figlie, quando il
suolo tremò all’improvviso.
Volgendo
lo sguardo lesto verso la cima di Smolikas, Selene notò una virulenta frana di
massi abbattersi sulle rovine del tempio, seppellendolo assieme alla sua
famiglia.
“Nooo!!!”
–Gridò, la voce rotta da una disperazione fulminea. Ma non ebbe modo di fare
altro che venne afferrata da una mano robusta, che si chiuse attorno al suo
gracile corpo, sollevandola da terra e sbattendola poi con forza contro il
fianco di una montagna.
Solo
allora, sprofondata tra la pietra e il terriccio, poté infine osservare il suo
assalitore. O, meglio, il gruppo di
assalitori.
Erano
una decina di uomini giganteschi, così alti e massicci da sembrare montagne
viventi, rivestiti da rozze cozze protettive irte di spuntoni affilati. I volti
ruvidi e sanguigni erano coperti di cicatrici, segno evidente del loro spirito
bellicista e degli scontri da cui mai si erano tirati indietro.
“Cos’abbiamo
qua? Una damigella indifesa?! Ahr ahr ahr!” –Ringhiò il colosso che stringeva
Selene tra le dita, avvicinandosi fin a fiatarle in faccia il suo fetido alito.
“E
che damigella! Guarda là che vestiti pregiati! Mica come i luridi fazzoletti
con cui ti pulisci il naso, Berto!”
“In
effetti, non mi dispiacerebbe strusciare il mio grosso naso rigonfio su quella
bella seta! Magari dopo colerò gocce dal profumo di rosa! Igh igh!” –Rise
sguaiatamente il compagno, aumentando la stretta sul corpo di Selene e
mozzandole il fiato. –“Ma prima dobbiamo liberarlo da quel che c’è dentro! Non
che ci voglia molto, vista la corporatura!”
“Ehi
voi! Lasciate stare mia madre!” –Esclamò allora un’acuta voce femminile, mentre
il gruppetto di uomini si voltava verso il sentiero tra i monti, giusto in
tempo per vedere un’agile ombra spiccare un balzo e colpire a piedi uniti la
faccia di uno di loro, spingendolo indietro. L’impatto non fu sufficiente per
farlo cadere ma gli spaccò il naso, imbrattandogli la faccia di sangue e
facendolo imbestialire.
“Razza
di moscerino impertinente! Lascia che ti metta le mani addosso!” –Si dimenò il
corpulento guerriero, facendosi strada tra i compagni, che intanto agitavano le
mani in ogni direzione per afferrare l’esile ma veloce figura che saettava tra
loro.
“Tu
provaci!” –Ringhiò Elanor, fermandosi infine, al limitare dello spiazzo e
sollevando le braccia in posizione difensiva.
“Ahr
ahr! Ma guardatela! È una ragazzina!” –Sghignazzarono i giganti. –“Ed è persino
troppo piccola per divertircisi!”
“Oh
beh, un modo per usarla lo troviamo di certo!” –Aggiunse uno di loro,
avviandosi verso di lei, presto seguito da quello che Elanor aveva ferito sul
naso. –“Lasciala a me, Baffo, la voglio stritolare e inzuppare nello stufato di
stasera!” –E gli si avventò contro, agitando le lunghe braccia corazzate per
afferrarla. Ma Elanor fu più svelta, saltando sul braccio dell’aggressore e
usandolo per darsi la spinta per balzare ancora più in alto, mirando all’occhio
sinistro, sorpreso e indifeso, con il pugnale che stringeva in mano.
L’urlo
furioso del gigante fu accompagnato da un battere e percuotere continuo dei
piedi sul suolo, che fece tremare l’intero complesso montuoso, generando frane
e smottamenti, mentre il colosso tentava di tamponare la ferita sanguinante con
la propria mano, gridando parole oscene. Elanor, nel frattempo, aveva schivato
altri due guerrieri, ferendoli alle dita con la sua lama, prima però di essere
colpita bruscamente dal calcio di un terzo gigante, che l’aveva fatta ruzzolare
per diversi metri.
“Il
gioco è finito, bambina! Di Bronto sei ora la bambolina!” –La avvisò questi,
strattonandola per un braccio e sollevandola di peso, nonostante le sue
effimere proteste. Ebbe cura di mostrarne il corpo alla madre, senza perdersi
l’espressione sgomenta, prima di sbatterlo a terra un paio di volte,
percuotendolo come un cencio. Quando fece per calare il piedone su di lei, per
schiacciare definitivamente quell’effimera minaccia, sentì qualcosa pungergli
la pianta del piede, strappandogli un gemito di sorpresa e fastidio. –“Ahia!
Quest’insetto mi ha punto!”
“Ahr
ahr! Ma guardatela, stringe ancora un pugnale in mano! Bronto è stato ferito da
un’ape! Ahr ahr!!!” –Risero gli altri giganti, osservando la ragazza, sfinita e
stremata, ancora con in grado di sollevare un braccio per reggere una lama.
Fu
allora che esplose il cosmo di Selene, generando un bagliore abbacinante che
mai aveva violato le vallate interne del Pindo, neppure nei giorni del massimo
splendore del culto di Apollo. Berto e i due giganti che lo affiancavano
vennero annientati da tale improvvisa detonazione, dilaniandosi in urla di
tormento, mentre il resto del gruppo fu scaraventato contro i fianchi dei monti
attorno e qualcuno ruzzolò persino di sotto dai precipizi aguzzi.
Per
quanto da tempo avesse abbandonato ogni velleità bellica, divenendo una Dea
dedita agli affetti del proprio focolare domestico, la vista della figlia
maltrattata e violentata aveva risvegliato in Selene la sopita fiamma del
cosmo. Ma la repentina esplosione l’aveva anche fiaccata, prostrandola a terra,
ansimante e ferita, incapace persino di trascinarsi fino al corpo della
primogenita per verificarne le condizioni.
“Ela…
nor…” –Mormorò la Dea, allungando una mano nella sua direzione.
“Ma…
dre…” –Trovò la forza per risponderle la ragazza, rotolando a fatica su un
fianco, quel tanto che le bastò per incrociarne lo sguardo addolorato. Uno
sguardo che fino a pochi minuti prima aveva tentato di evitare e di cui adesso
invece aveva disperato bisogno. –“Perdonatemi…”
“Maledette
donnacce!!!” –Ringhiò allora una voce, mentre passi pesanti si avvicinavano
loro da direzioni diverse, anticipando l’arrivo di una cinquina di giganti
sopravvissuti, sia pur malconci. –“Avremmo dovuto farle fuori subito, anziché
giocarci! Che ci serva da lezione! Nostra madre ce l’ha insegnato, no? Ad aver
paura della luce! Repentina, può accecarti in qualsiasi momento; per questo è
meglio l’ombra, perché culla e non brucia mai! No…” –Ripetè Bronto, fissando la
Dea dall’alto con l’unico occhio buono rimastogli. –“L’ombra non brucia!
L’ombra è una sempiterna pace!” –Gridò, sollevando il rozzo piede e calandolo
infine sul corpo indifeso di Selene.
Un
lampo di luce violetta lo distrasse all'improvviso, facendogli mancare il
bersaglio, proprio mentre la stessa luce, dalle sembianze simili a quelle di un
uccello dalle ali spalancate, svolazzava nell’aria di fronte agli attoniti
giganti, planando su Selene e poi su Elanor, e portandole via.
“Eh?!”
–Bofonchiarono i colossali predoni, mentre l’intensità del bagliore diminuiva
rivelando colui che dietro tale lucore s’era celato. Un uomo dai capelli
rossicci rivestito da una coprente armatura dai colori indaco e avorio, sul cui
schienale erano affisse due ampie ali piumate.
“Ma
è soltanto un uomo!”
“Ha
la corazza! Quindi è un Cavaliere!” –Aggiunse Bronto, prima che Baffo
scoppiasse a ridere. –“Allora dovremmo esserlo anche noi!”
“No!”
–Parlò allora il nuovo arrivato, con voce calma e fredda. –“Voi siete soltanto
feccia!” –E sollevò un braccio al cielo, rivelando per la prima volta il suo
cosmo. –“Cadete, sotto le mie lame di luce! Dominion of light!!!”
Migliaia
di fendenti di energia piovvero sui malcapitati guerrieri, senza che questi
riuscissero a comprenderne la provenienza. Li travolsero da ogni direzione,
scheggiando le loro corazze e sventrando i loro corpi, in uno schizzar continuo
di sangue e membra umane. Alcuni colossi abbozzarono una qualche forma di
resistenza, sollevando le braccia sopra la testa, per ripararsi da quel
mitragliare continuo, e caricando lo sconosciuto, nel tentativo di schiacciarlo
con la loro mole. Ma, correndo alla cieca, non poterono vedere che il
misterioso cavaliere già aveva cambiato posizione, scavalcandoli con un sol
battito d’ali e portandosi dietro di loro. Una sventagliata di lame di luce li
raggiunse alla schiena, dilaniando le carni e ponendo fine alla loro avanzata.
“Bastardooo!!!
Nessuno si prende gioco di noi!” –Gridò allora un gigante, spaccando il suolo
sotto di sé con un deciso colpo di mano e facendo poi leva per sollevare un
immenso lastrone di roccia, su cui il salvatore di Selene era in piedi.
Fu
svelto, quest’ultimo, a balzare via, ma dovette coprirsi il volto con ambo le
braccia per parare il violento affondo di un altro colosso, piombato su di lui
con il pugno teso, venendo spinto indietro di molti metri. Ne approfittò Baffo
per scagliargli contro l’intero lembo di terra e roccia che aveva sradicato, seppellendocelo
poco dopo tra le sghignazzate soddisfatte dei due giganteschi guerrieri
rimasti.
“Lo
maciullo!” –Ringhiò, spiccando un salto e atterrando a piedi uniti sul mucchio
di pietra e terriccio e iniziando a calpestarlo con foga crescente. –“Igh igh!
Spezzatino di impiccione, stasera! Ma’ sarà contenta!”
“Fallo
ben triturato! Sai che non mi piace quando mi resta roba tra i denti!” –Lo
istigò l’altro, prima di incamminarsi verso il limitare dello spiazzo, dove
Selene ed Elanor ancora giacevano prive di sensi. Dovette fermarsi di colpo
quando un’improvvisa luce sorse alle sue spalle, accompagnando e sovrastando
l’ultimo urlo del gigante suo compagno e fratello, devastato dall’onda di
energia. –“Che… cosa? Che cos’è quello?!” –Ringhiò l’ultimo colosso rimasto,
osservando una bestia di luce, dalle strane forme, solcare il cielo e dirigersi
poi in picchiata verso di lui.
La
parte anteriore pareva quella di un’aquila, con il prominente becco rivolto
verso di lui e gli artigli pronti ad affondargli nel cuore, ma il resto del
corpo era decisamente troppo grosso. E
quelle zampe posteriori??? Si chiese il gigante, non riuscendo a metter in
piedi nessun’altra strategia che non fosse mettersi a correre, abbandonando
tutto il resto, prede comprese.
L’animale
di energia lo raggiunse poco dopo, trapassandolo all’altezza del ventre e
gettandolo a terra in una pozza di sangue. Continuò il suo volo ancora un po’,
giusto per sincerarsi che non vi fossero ulteriori predoni in agguato, e poi
atterrò accanto ai corpi feriti delle due donne, una delle quali pareva essersi
ripresa dallo stordimento.
“È
incredibile… Sto sognando, non è così? Sei… un ippogrifo!” –Mormorò Elanor,
faticando nel rimettersi in piedi.
“Questo
è il mio simbolo!” –Si limitò a commentare il giovane dai capelli vermigli,
aiutandola a rialzarsi. –“Siete state fortunate che mi trovassi nei dintorni o
avreste fatto una brutta fine! I Giganti di Ebdera fanno davvero quel che
promettono! Se vi hanno detto che vi avrebbero mangiato, state pur certe che questa
sera avrebbero banchettato con i vostri corpi!”
“Ma
è disgustoso!!!” –Esclamò Elanor, tirando un’occhiata veloce verso i cadaveri
dei giganteschi guerrieri. –“Che razza di uomini sono?!”
“Non
sono uomini infatti. Non più. Hanno abiurato alla loro natura umana quando
hanno abbandonato la precedente vita, entrando nella confraternita! È una
strana fratellanza, quella dei Giganti di Ebdera, celata nelle montagne della
Morea! Qualcuno sostiene che siano discendenti dei primi giganti, figli
bastardi che qualche Titano seminò per la Grecia all’epoca dell’ultima grande
guerra. In verità sono solo briganti che seminano il terrore nelle montagne del
Peloponneso o nelle piane dell’Attica, raccogliendo altra feccia umana loro
pari. Predoni, pirati, Cavalieri rinnegati, Cavalieri mai investiti di tale
titolo. Per denaro o altre ricchezze farebbero qualsiasi cosa! Mi sorprende, e
mi preoccupa, che siano giunti così a nord nelle loro scorribande! Ed erano
addestrati e ben corazzati! Tutto ciò è sospetto, dovrò proporre al Sommo di
estirpare una volta per tutte questa minaccia! Voglia il cielo che non siano
riusciti a mettere le loro mani sudice su di voi!”
“Il
cielo o chi da esso discende per combattere!” –Annuì la primogenita di Selene,
prima di chinarsi sulla madre e risvegliarla, raccontandole l’accaduto.
Il
loro salvatore, intanto, si era diretto verso i resti del santuario di Apollo,
iniziando a spostare i massi franati e liberando infine una via verso il
recesso profondo, spinto da Elanor, che gli aveva spiegato che le sue sorelle
erano rimaste là sotto. Voci di donna giunsero ai suoi orecchi poco dopo, voci
concitate, affannose, ma adesso voci colme di gioia. Con un ultimo sforzo, il
cavaliere dell’ippogrifo aprì infine un passaggio verso una cavità sotterranea,
probabilmente una cella dell’antico complesso templare, dove Endimione e le
ragazze si erano rifugiati in fretta, non appena la pioggia di massi era
iniziata. Spaventate, con le vesti lacere e numerose ferite e contusioni a
deturpare i loro corpi perfetti, erano comunque ancora vive e grate all’uomo
che le aveva salvate. Uomo di cui, come Selene ed Elanor ebbero a notare poco
dopo, ancora non conoscevano il nome.
“Sono
Shen Gado dell’Ippogrifo! Cavaliere Celeste al servizio del Sommo Zeus!” –Si
presentò, inchinandosi con deferenza.
***
La
Sala del Trono era piuttosto affollata quella sera, obbligando Ebe e Ganimede a
un continuo affaccendarsi, per fare in modo che tutti i presenti avessero di
che ristorarsi. Nonostante l’antica rivalità che aveva marcato il loro
rapporto, in quell’occasione i due coppieri olimpici dovettero collaborare per
assicurare a Zeus i migliori servigi. Non che Ganimede già non vi provvedesse, ma
da tempo la reggia non accoglieva così numerosi ospiti.
Cinquanta
fanciulle e una coppia sui generis. Una Dea e un uomo mortale, che ne era
divenuto il fedele compagno. Un uomo che, al pari dello stesso Ganimede, aveva
beneficiato di un dono divino, permettendogli di elevarsi al di sopra delle
altre genti.
L’eterna
giovinezza.
Il
coppiere sorrise, riempiendo di ambrosia la coppa di Endimione e allontanandosi
poco dopo in silenzio, mentre il Cavaliere Celeste del segno dell’ippogrifo
terminava di esporre il resoconto dell’accaduto al Signore del Fulmine.
“È
stata l’esplosione repentina del cosmo della Dea della Luna a indicarmi con
chiarezza ove si trovassero! Così sono potuto intervenire prontamente, per
sbaragliare quel che restava dell’oscura fratellanza!”
“Fratellanza
di cui temo, ahimè, sentiremo ancora parlare!” –Commentò la cristallina voce di
Ermes, in piedi a pochi passi da Shen Gado, alla base della scalinata che
conduceva alla sala del trono.
“Già
già! Ma tutto è bene quel che finisce bene, non è così?!” –Esclamò allora Zeus,
seduto in maniera scomposta sullo scranno regale. E fece cenno a una ninfa di
portargli ancora una coppa d’ambrosia, approfittandone per studiare con
attenzione il suo delicato corpo quando questa si avvicinò.
“Non
sottovaluterei il problema, mio Signore! Potrei guidare un’offensiva contro di
loro! I Giganti di Ebdera sono…” –Ma la voce del Sommo sovrastò quella di Shen
Gado, ancora in ginocchio, con lo sguardo rivolto al pavimento.
“Un
cumulo di avanzi del Tartaro! Bestioni deformi e stupidi la cui intelligenza è
inversamente proporzionale alla loro stazza! Se Selene non si fosse fatta
cogliere di sorpresa, non avrebbe avuto problemi a sgominarli con un cenno
della mano! E ora basta parlare di rozze violenze! È un giorno di festa questo!
Pensiamo a festeggiare!” –Affermò il Signore dell’Olimpo, mettendosi in piedi e
sollevando il calice, incitando tutti i presenti a fare altrettanto.
Era,
seduta al suo fianco, si alzò a sua volta, obbligando anche le altre Divinità e
i Cavalieri Celesti presenti nell’ampio salone ad alzare le loro coppe dorate,
in un tintinnio che suonò come musica superba alle orecchie del padrone di
casa.
“All’audace
Shen Gado, che mise in fuga i giganti! E alla divina Selene, che dopo tanti
anni passati a spiarci di nascosto dall’altra faccia della luna, ha pensato
bene di passare a farci un saluto! E io le dico: salute!”
“Salute!”
–Ripeterono in coro i presenti, più o meno convinti.
“Per
la verità, sono passata per un altro motivo, Divino Zeus!” –Intervenne allora
la Regina della Luna, lasciando la panca ove era assisa, accanto a Endimione, e
incamminandosi verso il centro della stanza, raggiungendo Shen Gado. –“Ho una
richiesta da farti, una richiesta che spero accetterai!”
“Parla
pure, Dea della Luna! A meno che tu non voglia chiedermi la mia riserva di
ambrosia, e ti assicuro che è di un’ottima annata, Dioniso lo può confermare…”
–E a quelle parole un Dio dalla faccia rubiconda, seduto alle spalle di Ermes,
annuì ridendo, il liquido violaceo che gli ruscellò fuori dalla coppa fin
troppo colma. –“Non ho motivo di rifiutarti alcunché!”
“Ne
sono lieta, mio Signore, perché intendo chiederti il tuo Cavaliere Celeste! Il
valoroso Shen Gado dell’Ippogrifo!”
A
quelle parole il cicaleccio nella sala si zittì, mentre decine e decine di
teste si voltarono prima verso Selene poi verso Zeus, chiedendosi se la donna
stesse scherzando o quanto il Nume avrebbe impiegato a folgorarla per una
simile pretesa.
“Che
impertinenza!” –Commentò Dioniso, sottolineando la sua opinione con un sonoro
rutto.
La
Dea della Luna non si fece intimorire, inginocchiandosi di fronte alla
scalinata e spiegando le ragioni della propria richiesta.
“Questo
viaggio è stato utile! Per quanto io non ami la Terra, né i suoi abitanti, e
abbia deciso a suo tempo di fuggirla, è ugualmente vero che il mio reame beato non
dispone di guerrieri, soltanto di pacifiche Divinità in cerca di un mondo
migliore. La presenza di un Cavaliere così audace e competente, capace di
difendere la mia famiglia da eventuali minacce, mi rassicurerebbe!”
“Che
minacce mai potrebbero giungere in quelle desolate lande?!” –Ridacchiò
qualcuno, forse il Dio del Vino.
“Le
tue ragioni sono fondate, Divina Selene, per questo ti concedo di servirti di
Shen Gado, sempre che sia ciò che egli desidera! No, non ringraziarmi, ben
misero dono ti ho fatto in fondo! Sono certo che si stuferà presto di quei
paesaggi solitari! Per adesso, brindiamo… all’Ippogrifo… sulla Luna!”
“Sulla
Luna!!!” –Esclamarono tante voci in coro.
Sì. Mormorò Selene, afferrando la mano dell’amato e fissandolo negli
occhi. Sulla Luna! Finalmente
sarebbero tornati a casa.
***
“Perché
me?!”
La
domanda non giunse inattesa. Del resto, Elanor era certa che il Cavaliere fosse
abbastanza intelligente da aver capito.
“Vostra
madre avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa in dono e Zeus avrebbe
acconsentito. Quindi… perché chiedere un Cavaliere Celeste?”
“Non
un, ma il.” –Sorrise Elanor, prima di annuire. –“È stata una mia idea, lo
ammetto! Ti ho visto combattere quest’oggi, ho visto la determinazione nei tuoi
occhi, la stessa che anch’io un giorno riverserò in battaglia! Ti chiedo
soltanto di prepararmi!”
“Alla
guerra?! Una principessa che vuole sporcarsi le mani?!”
“Non
sono una principessa!” –Avvampò la primogenita di Selene, trattenendosi dalla
voglia di schiaffeggiarlo. –“Da oggi sono la tua apprendista!”
“Segreta
apprendista!” –Puntualizzò questi, accennando un sorriso. –“Se non volete che
la Dea della Luna addobbi casa con un ippogrifo imbalsamato!”
***
Danes
era stato sconfitto. Danes aveva perso.
Era
la prima volta che tornava a casa senza preda, la preda volta in cui, accecato
dalla facile vittoria, si era lasciato travolgere da un’entità dotata di cosmo.
Eppure sua madre, la madre di tutti i giganti, aveva sempre detto loro di non
temere il cosmo, poiché erano in grado di vincere chiunque grazie alla loro
devastante forza bruta.
Che
avesse torto?
No! La madre non può avere torto! Si disse il gigantesco guerriero. Lei ci ha nutrito finora, lei ci ha reso
forti. Lei ci ha allattato nell’oscurità. Lei, la donna che avevano chiamato
Ebdera, sebbene nessuno sapesse chi fosse realmente.
L’avevano
trovata in una caverna, nel cuore della Morea, ove i giganteschi predoni erano
soliti fare razzie, e ne erano rimasti affascinati. Il suo aspetto, all’epoca,
era ben diverso da quello attuale e inizialmente non avevano neppure compreso
che cosa fosse quel bozzolo di energia oscura. E sarebbero tutti morti prima di
saperlo, prima di conoscere la verità su di lei.
Capitolo 33 *** Capitolo trentunesimo: La furia del mare ***
CAPITOLO TRENTUNESIMO: LA FURIA DEL MARE.
Vista
da lontano faceva un certo effetto.
Un’enorme
zolla di terra, disseminata di rovine di antichi edifici ricoperti da alghe e
flora marina, che ancora grondavano l’acqua in cui erano stati immersi per
secoli. Dalla catastrofica fine che aveva segnato il destino di tutti i suoi
abitanti. E, sopra di essa, lampeggiavano colorate folgori lucenti, bagliori
così intensi e improvvisi che solo lo scontro tra diverse energie cosmiche
poteva generare.
Questo
Tisifone lo sapeva bene, anche se non riusciva a capire a chi appartenessero
quei cosmi potenti, di sicuro non a Pegasus e ai Cavalieri dello Zodiaco. Non
riusciva neppure a distinguere quanti fossero, ma almeno uno pareva esserle
familiare.
Dopo
le notizie riferite da un branco di cormorani, Morgana aveva dato immediato
ordine di andare nel Golfo di Biscaglia a verificare, così aveva trascinato la
sorella, Delfino e gli altri Cavalieri reietti a bordo di uno dei tanti mezzi
che avevano sequestrato nel corso degli anni dediti alla pirateria, un Bell
X-22, ed erano partiti alla volta dell’Africa, ognuno con diversi pensieri in
testa. Uno su tanti albergava nell’animo di Tisifone, oltre all’essere in apprensione
per Pegasus, Atena e desiderosa di sapere cosa stesse accadendo. Quanto poteva
fidarsi della sorella?
“Da
dove diavolo è comparsa quell’isola enorme?” –Esclamò uno degli abitanti del
velivolo, un ragazzetto dai buffi capelli azzurri che era stato compagno di
Andromeda durante gli anni di addestramento.
“Non
è segnata su alcuna carta!” –Confermò il compagno dai capelli rosa. –“E queste
energie che si scontrano… sono immense!!! Mai percepito una simile potenza!”
“Questo
perché non hai mai fronteggiato un Dio!” –Intervenne allora Tisifone, ponendo
fine alla breve conversazione.
“Hai
idea di cosa possa essere?” –La chiamò allora la sorella, facendole cenno di
venire in cabina di pilotaggio, dove lei e Delfino stavano discutendo la
possibile strategia da tenere.
“Considerata
l’ubicazione, la struttura e questo incendio di cosmi… non può trattarsi che di
Atlantide, il continente perduto ove imperava Nettuno! Quando e come sia
riemersa dagli abissi non so dirtelo! Ma è mio dovere indagare! Potrebbe costituire
un pericolo per Atena e per i Cavalieri! Puoi farmi arrivare fin là?”
Morgana
annuì, indicando a Delfino uno spazio dove atterrare, una piccola baia sul
versante settentrionale dell’isola, alla giusta distanza dagli scontri in atto.
Nessuno pareva essersi accorto di loro e Tisifone ne approfittò per condurre il
gruppetto di Cavalieri dimenticati verso il cuore di Atlantide, avendo cura di
scegliere un percorso sicuro, passando dietro muri di edifici distrutti e
tenendosi sempre chinati, per non essere individuati da eventuali sentinelle. A
fatica, cercò di controllare il battito del cuore, sopraffatto da troppe
emozioni negli ultimi giorni: lo scontro a fuoco sulla Nike, l’ipotermia, il
ritrovare la sorella creduta morta e ora… il camminare malferma su un’isola
leggendaria, un’isola che chissà quali livelli di conoscenza e civiltà doveva
aver raggiunto. Affascinata, la Sacerdotessa Guerriero si fermò per guardarsi
un attimo intorno, pur senza dimenticare l’obiettivo della loro incursione, e
solo allora captò i frammenti di una conversazione in corso alle sue spalle. A
quanto pare non era l’unica a nutrire interesse verso i segreti di Atlantide,
sebbene il campo di studio di Morgana e dei suoi fosse ben più… materialistico.
“Pensa
a quanti tesori sono nascosti qua sotto? Celati in cripte che nessuna mano
umana ha forzato da secoli? Diventeremmo ricchi, ragazzi, se ne trovassimo
anche una minima parte!” –Commentò uno dei vecchi compagni d’addestramento di
Andromeda, e anche l’altro annuì. –“Saremmo ripagati di tutte le nostre
fatiche!”
Quali fatiche? Si chiese Tisifone, scuotendo la testa e sospirando
di fronte al crudo infantilismo di certi Cavalieri che probabilmente non
avrebbero mai dovuto essere investiti. Cercando di non pensarci, proseguì, scivolando
silenziosamente tra le rocce ricoperte di alghe, terreno in cui Morgana e
Delfino parevano muoversi con eleganza, fino a portarsi in cima ad un
terrapieno da cui poteva ammirare quel che stava accadendo in quella che un
tempo era stata la piazza principale dell’isola.
Un
uomo dal fisico massiccio, rivestito da un’elegante armatura azzurra, sia pur danneggiata
in più punti, aveva appena scaraventato a terra un’esile figura, schiacciandola
con il piede in una pozzanghera nutrita dal suo stesso sangue. Tisifone non
riuscì a vederla in volto, ma la corazza rossiccia e i lunghi capelli biondi le
fecero tornare alla memoria il loro breve scontro.
Titis della Sirena! E contro chi sta
combattendo? Inoltre… chi sono quelle due figure sullo sfondo, la cui potenza è
superiore persino a quella di Atena? Uno dei due… la sua impronta cosmica mi è
familiare… sebbene la ricordassi differente.
Non
ebbe il tempo di riflettere ulteriormente, distratta dal rinnovarsi dello
scontro tra il Cavaliere Sirena e il suo oppositore, il cui cosmo aveva appena
generato un gorgo di energia in cui Titis stava per essere risucchiata, per
quanta forza profondesse nel tentativo di resistere. A quel punto prese la sua
decisione.
“Dove
stai andando?” –Bisbigliò Morgana, osservando allarmata la sorella lasciare la
posizione riparata e correre verso la battaglia, correre ben più velocemente di
quanto le sue condizioni fisiche le potessero consentire. Il cosmo… rifletté la piratessa, il cosmo di un vero combattente di Atena permette miracoli. Dovrei
saperlo, in fondo.
Con
un balzo, Tisifone piombò su Titis, afferrandola poco prima che venisse
risucchiata dal mulinello di energia, che passò oltre, schiantandosi contro un
mucchio di vecchi edifici, riducendoli in polvere.
“Eh…
cosa?! Ma tu sei Tisifone del Serpentario?!” –Balbettò il Cavaliere Sirena,
mentre l’imprevista salvatrice si rimetteva in piedi. –“Che ci fai ad
Atlantide?”
“Dunque
è così, il continente perduto è riemerso dagli abissi! Perché? E chi è costui
che ti sta massacrando?”
“Socievole
come sempre…” –Commentò Titis, faticando nel rialzarsi, la mano premuta su un
fianco da cui sangue sgorgava copioso.
“Mi
trovavo nei paraggi e ho percepito violente energie cosmiche innalzarsi dal
mare, decidendo così di investigare, temendo un pericolo per Atena e l’umanità!
Puoi rispondermi o vuoi continuare ad essere scontrosa?”
“Umpf…
Dici bene, l’umanità rischia ben più di quanto abbia avuto a temere quando
Nettuno decise di far piovere per quaranta giorni!” –Confessò infine la donna,
indicando i duellanti a decine di metri di distanza. –“La Divinità che sta
fronteggiando il mio signore è Forco, antico padrone degli oceani! Nato da Gea
e Ponto, contese per secoli il dominio sui mari al padre e ad Oceano, prima di
essere annientato da un attacco congiunto di Nettuno e Zeus, al termine della
vittoriosa Titanomachia che segnò il trionfo della generazione olimpica sugli
Dei precedenti! Adesso è tornato, e come avrai argutamente intuito, i suoi
propositi non sono cambiati! Vuole sedere sul trono del mare, lui e lui
soltanto, ma per farlo dovrà abbattere Nettuno!”
“Dunque
l’altro uomo… con la barba… è Nettuno? È quello il vero aspetto del Signore dei
Mari? Sembra uscito da un dipinto mitologico!”
“Se
avete terminato di fare salotto, belle signore, possiamo riprendere a lottare…”
–Le interruppe allora la rude voce maschile del guerriero dall’armatura
azzurrognola.
“Ah,
e lui è Cariddi, il galoppino di Forco! Era uno dei primi sette Generali degli
Abissi ma tradì il mio Signore passando ad Atena notizie utili per invadere
Atlantide e sconfiggere il nostro esercito, su suggerimento di Forco
ovviamente.”
“Cariddi…
il vortice che tutto risucchia…” –Mormorò Tisifone, assimilando in fretta le
nuove informazioni.
“In
carne e muscoli! Fa sempre piacere incontrare qualcuno che mi conosce! Le
Sacerdotesse di Grecia si confermano ben informate, allora!” –Ridacchiò l’uomo,
strusciandosi il naso con un dito.
“Che
vuoi dire?! Altre ne hai incontrate, prima di me?”
“Una
soltanto. In Bretagna. E non ha fatto una bella fine!” –Ironizzò, suscitando un
subitaneo moto di collera da parte di Tisifone, che scattò subito verso di lui.
“Bastardo!!!
Era Castalia, vero? Cosa le hai fatto?!”
“Ah
ah ah! Sei divertente, ragazza!” –Esclamò Cariddi, muovendosi di lato ed
evitando l’affondo del Cavaliere d’Argento, afferrandole il braccio teso con
un’algida presa e colpendola poi allo sterno con un pugno deciso, che la fece
accasciare proprio su di lui. –“E hai un buon odore! Non come la graziosa sirenetta
che puzza di pesce!” –Aggiunse, carezzandole i folti capelli verdognoli e inspirandone
il sapore.
“Che…
stai…?!” –Ma non poté aggiungere altro che venne spinta indietro da un potente
calcio dell’uomo, che la scaraventò addosso a Titis, facendole ruzzolare per
molti metri sul selciato acquitrinoso.
“Mi
piace sentire l’odore delle mie vittime!” –Rise il fedelissimo di Forco, prima
di aggiungere, con un sorriso sghembo. –“Ah, e per la cronaca, la tua amica è
morta!”
“Io…”
–Tisifone ruggì furiosa, avvampando nel proprio cosmo mentre si rimetteva in
piedi, ma prima che potesse scattare di nuovo verso di lui Titis la strattonò
per un braccio.
“Cosa
credi di fare? Lui è il mio avversario! Nemico di Nettuno e di coloro che
caddero ad Atlantide per colpa sua! Tu sei di troppo qui, vattene!”
“Non
starai dicendo sul serio?”
Uno
sguardo tagliente del Cavaliere Sirena le tolse ogni dubbio, proprio mentre
Cariddi portava il braccio avanti, scagliando un devastante pugno di energia
che spaccò in due il suolo tra di loro, obbligando entrambe le donne a balzare
indietro, ognuna in direzione opposta all’altra.
“Che
triangolo esaltante! Da chi posso cominciare? Dall’attraente sirenetta dal
biondo crine o dalla focosa Sacerdotessa di Atena, che in giochi ben più
passionali potrebbe coinvolgermi?” –Ironizzò il guerriero, scattando in mezzo a
loro alla velocità della luce, avvolto in un turbinar di energia cosmica.
–“Uhm, perché non divertirsi con entrambe contemporaneamente?!” –Aggiunse,
sollevando le braccia e generando due vigorosi mulinelli che travolsero
Tisifone e Titis, scagliandole in aria per parecchi metri prima di schiantarle
a terra, ferite e sanguinanti.
“Ugh…
Che forza devastante… Se mi avesse investito in pieno… sarei morta.” –Rifletté
la tenace Sacerdotessa Guerriero, affannando nel tentativo di rialzarsi ma
avendo difficoltà persino a muovere un muscolo.
“Sei…
una sciocca!” –La raggiunse la voce di Titis. Lieve e lontana, quasi provenisse
da un altro universo, sebbene la donna giacesse a solo pochi passi da lei.
–“Perché restare? Te l’ho detto… Va’ via! Non siamo amici, non hai motivo di
lottare con me.”
“Non
lo faccio per simpatia personale, ma per ripagare un debito che Atena ha con il
tuo Dio! Non ho dimenticato l’aiuto prestato da Nettuno ai Cavalieri dello
Zodiaco durante la Guerra Sacra, quando inviò le armature d’oro nell’Elisio, e
sono certa che Pegasus al posto mio farebbe lo stesso!” –Commentò Tisifone, con
voce aspra ma decisa. Già, Pegasus…
Chissà dove sei? In quale mondo divino stai combattendo, bruciando e bruciando
ancora la tua luce, fino ad estinguerti in un intenso bagliore per l’umanità?
Pensare
a lui, all’impegno che aveva sempre profuso nella lotta, anche ogni volta in
cui la battaglia pareva persa a priori, le diede la forza di reagire. Le fece
chiudere il pugno, radunare le energie e rimettersi in piedi.
***
“Ma
che sta facendo?!” –Sibilò uno dei seguaci di Morgana. –“Vuole combattere
ancora?”
“È
una stupida, non ha visto che non ha speranze? A che giova morire su
quest’isola? E per cosa poi? Per aiutare un’antica nemica? Tua sorella ha
qualche problema mentale, Morgana!” –Completò l’altro, prima che un gesto di
Delfino li zittisse entrambi.
Dalla
loro posizione riparata, i quattro Cavalieri reietti stavano seguendo lo
scontro in atto, ancora incerti sul da farsi. Sebbene qualcuno di loro avesse
le idee più chiare riguardo a come approfittare di quella situazione,
depredando le ricchezze dell’isola dimenticata. Ma Morgana non ne era convinta,
non più ormai. Da quando aveva visto la sorella scattare verso morte sicura, un
dubbio la tormentava.
Perché? Perché rischiare la vita in una
guerra che non ti appartiene? Lascia che Forco e Nettuno si uccidano tra di
loro e che la Sirena li segua nel loro destino di morte! Quella donna, in
fondo, non è stata tua avversaria mesi addietro? Non ha aiutato il suo Signore
a sterminare l’umanità, accecata dal suo integralistico messaggio di
epurazione? È normale per te considerare amici quelli che un tempo sono stati
tuoi nemici?
Quasi
avesse udito i suoi pensieri, Tisifone replicò. O forse fu soltanto il vento a
parlare alla sua coscienza, ma Morgana lo sentì comunque, quel pensiero di
verità.
“Risponditi
da sola.”
***
Il
nuovo attacco di Cariddi scaraventò le due donne contro i ruderi di un
edificio, nonostante la pallida difesa abbozzata dal Cavaliere Sirena che aveva
eretto una barriera di coralli.
“Umpf!
Ridicola tecnica per mortificare un uomo!” –Commentò sprezzante il guerriero
dei mari, camminandovi sopra e schiacciando i colorati coralli più e più volte
fino a ridurli in poltiglia. –“Tale sarà la vostra fine! Risucchiati nel più
potente gorgo che abbia mai terrorizzato i naviganti!” –Esclamò, espandendo il
cosmo e generando, sopra di sé, un oscuro vortice di energia dalla poderosa
forza d’attrazione. –“Ne avete certamente sentito parlare, sebbene le migliori
informazioni potrebbero pervenire da chi è disceso nel suo abisso, senza mai
tornare a rivedere il sole! È il possente maelstrom che imperversa nei mari del
Nord… e che adesso vi accoglierà!”
“Maledizione!”
–Ringhiò Tisifone, toccandosi una costola che doveva essersi incrinata. –“Se
almeno avessi l’armatura… la mia armatura…” –E bruciò il cosmo così
intensamente, da stupire persino Titis di quanto intensa e genuina fosse la sua
fiamma. Una fiamma che poco dopo venne rivestita da una corazza che, sia pur
danneggiata, contribuì a ridarle energia, lenendo in parte le sue ferite.
–“L’armatura del Serpentario! Temevo di averla perduta… con l’attacco alla
Nike!!!”
“A
ben poco ti servirà, donna, quell’effimera protezione contro la furia del
mare!!! Mira la possanza del gorgo oceanico!!! Impallidisci di fronte al Moskstraumen!!!”
–Gridò Cariddi, liberando il devastante maelstrom, che iniziò a tirare a sé
tutto quel che entrava nel suo ampio raggio d’azione.
Fu allora, mentre Tisifone
stava per venire risucchiata dal vortice, che Titis balzò su di lei,
sbattendola a terra, e venendo attratta al posto suo. –“Grazie, ma no grazie!
Non potrei accettare che un amico si sacrifichi per me, figuriamoci un nemico!”
“Nooo!!!” –Strillò la
Sacerdotessa, agitando le mani nel vano tentativo di raggiungerla e, nel farlo,
strusciando un oggetto che aveva dimenticato. Una preziosa risorsa che Kiki
aveva aggiunto alla sua corazza la prima volta in cui l’aveva riparata, dopo l’assalto
di Sterope del Fulmine al Grande Tempio. Eoni
fa. Commentò, srotolando la frusta e attorcigliandola poi ad un polso di
Titis, poco prima che la donna venisse risucchiata dal temibile gorgo.
–“Resistiii!!!”
“Non ce la puoi fare,
Tisifone!!! Vattene!!!” –Si agitò quest’ultima, la cui parte inferiore del
corpo stava ormai scomparendo nel maelstrom. –“Smettila di fare la stupida!!!
Non sei un eroe!!!”
“Non
ho mai voluto esserlo…” –Commentò la Sacerdotessa Guerriero, rivelando uno
sguardo colmo di lacrime. –“Eppure siamo simili…”
“Co…
cosa?!” –La frase colse Titis alla sprovvista, facendole dimenticare per un
momento di essere sul punto di morire dilaniata dal più possente vortice marino
della storia della navigazione. Fu un attimo, ma la fece sorridere, prima che
la forza d’attrazione del Moskstraumen le frantumasse i gambali della corazza,
strappandole un grido sofferente.
“Intona
pure il tuo canto funebre, sirenetta! Per te questa è la fine!!!” –Declamò
Cariddi, prima che un suono metallico attirasse la sua attenzione. Fu un sibilo
nel vento, appena percettibile di fronte al frastuono generato dall’azione del
maelstrom, ma lo percepì giusto in tempo per evitare la punta affilata di una
catena che mirava al suo volto. –“Che… cos’è?!” –Esclamò sorpreso, distraendosi
per un istante.
“Le
catene che terranno a bada la tua furia guerriera!” –Gli rispose un’acuta voce
di ragazzo, prima che due figure, avvolte nei loro cosmi blu e rosa,
comparissero ai suoi lati, liberando guizzanti catene di bronzo, che si attorcigliarono
attorno al suo braccio teso verso il cielo. –“Non soltanto la pregiata corazza
di Andromeda era celata sull’omonima isola!”
“Chi
siete, sbarbatelli?!” –Tuonò Cariddi, proprio mentre un calcio rotante lo
colpiva alla schiena, sbilanciandolo di qualche passo, e una scarica elettrica
si insinuava tra le crepe della corazza, punzecchiandogli il corpo massiccio e
strappandogli un gemito di fastidio.
“Siamo
Cavalieri di Atena!!!” –Risposero i quattro in coro. –“Anche se troppo a lungo
lo avevamo scordato! Ma qualcuno ci ha ricordato, con i suoi gesti
appassionati, per cosa valesse davvero la pena vivere! Non per gloria o
ricchezze ma per sentirci degni di noi stessi!”
“Mor…
gana…” –Mormorò Tisifone, osservando la sorella intervenuta in loro aiuto e
approfittando di quel momento, in cui l’intensità del Moskstraumen pareva
essersi ridotta, per tirare Titis fuori dal vortice.
“Io sono Reda di Bootes!”
–Esclamò il ragazzo dai capelli rosa, subito imitato dal compagno. –“Salzius,
di Cassiopea! Cavalieri di Bronzo dell’isola di Andromeda, discepoli del grande
Albione di Cefeo!!”
“Della costellazione del
Delfino io sono Cavaliere!” –Intervenne allora un uomo rivestito da un’armatura
nera e bianca, prima che l’unica donna dei quattro si presentasse. –“Morgana! E
sono la sorella dell’impavida donna che risponde al nome di una delle Erinni!
Ci sarà un motivo per questo, non hai notato il suo carattere, particolarmente
furioso?”
“Quel che ho notato è che
siete quattro falliti, agnelli sacrificali che offrirò in dono al mio signore
Forco per concimare col sangue dei nemici il nuovo impero del mare!” –Rise
Cariddi, che, superata la sorpresa iniziale, aveva percepito il basso livello
di cosmo dei nuovi arrivati, ritenendo che ben pochi danni avrebbe ricevuto da
loro.
“Taci e combatti!”
–Esclamò Reda con baldanza, stringendo la presa della sua catena e piegando il
polso dell’avversario, che si limitò a sorridere.
“Come desideri!”
L’impeto
del maelstrom esplose all’improvviso, espandendosi in ogni direzione, verso
tutti i combattenti che lo accerchiavano e che vanamente cercavano di
resistergli. Le catene di Reda e Salzius andarono in frantumi all’istante e
anche la frusta di Tisifone le venne strappata dalle mani, polverizzandosi nel
gorgo poco dopo.
“È…
incredibile… Per quanti mari abbiamo solcato, mai ho incontrato un simile
leggendario potere! C’è tutta la rabbia del mito racchiusa in questo
vortice!!!” –Mormorò Morgana, affannando per non essere aspirata al suo
interno.
“Dobbiamo
distrarlo! Fargli perdere la concentrazione sul suo colpo segreto!” –Propose
Tisifone, che aveva notato come, durante il breve assalto dei compagni,
l’intensità del Moskstraumen fosse scemata.
“Ci penso io!!!” –Esclamò allora Delfino, spiccando
un agile balzo e iniziando a roteare su se stesso, puntando alla schiena di
Cariddi con il tacco teso.
“A fare cosa, di grazia?!” –Rise quest’ultimo,
muovendo il braccio mancino e afferrando l’uomo senza neppure voltarsi per
guardarlo in faccia. Ne udì soltanto i lamenti mentre lo sbatteva a terra con
violenza, sprofondandolo nel suolo, riducendo in frammenti la corazza e il
corpo che era preposta a proteggere.
“Delfino!!!” –Gridarono Reda e Salzius, correndo in
aiuto del giovane, ma finendo per entrare nel raggio d’azione del vortice, che
li attirò a sé, per quanto si dimenassero e tentassero di afferrare un
qualsiasi appiglio nel terreno.
“Dobbiamo tentare adesso! Non avremo una seconda
occasione! Nessuno di noi l’avrà!!!” –Disse allora Morgana alla sorella, che
prontamente annuì. E anche Titis si unì loro.
“Tenterò di immobilizzarlo con i miei coralli! Ora… Sottile trama corallina!!!” –Esclamò
quest’ultima, ricoprendo il lastricato di Atlantide di fiori animali, fino ad
inglobare i piedi e le gambe di Cariddi in quell’indistinta massa colorata.
“Mi fai il solletico, niente più!” –La derise
questi, mentre la forza d’attrazione del vortice sradicava quel fatuo strato di
coralli.
“Tra poco non riderai più!!! Cobra incantatore!!!” –Gridò Morgana, scatenando su di lui
centinaia di guizzanti saette di energia, subito seguita dalla sorella, avendo
cura di mirare alle crepe nella corazza, per raggiungerne la carne al di sotto.
–“Può anche essere il guerriero più forte del mondo, ma la postura di chiunque
collasserebbe pizzicato da una scarica a così alto voltaggio!!!”
“Io non sono chiunque!” –Ghignò il generale
traditore, trattenendo una smorfia di dolore. –“Io sono Cariddi l’irrequieto! Terzo
dei Forcidi! Il generatore di vortici così minacciosi che persino Ulisse ebbe
di me timore! E voi, donne, siete ben lontane dal valore dell’eroe di Itaca!”
–Ribadì, sollevando anche il secondo braccio e travolgendo tutti coloro che lo
attorniavano con un potente gorgo di energia.
Durò un attimo, il tempo che ci volle a distruggere
le loro corazze, frantumare qualche ossa e rigettarli poi a terra tutti quanti,
a costellare così il pavimento di quell’antica piazza dove Nettuno era solito
passeggiare, tra la folla e i banchi dei suoi fedeli. Ma se un tempo il Nume vi
riceveva lodi e ringraziamenti, per aver garantito il bel tempo, navigazione
serena e pescati fruttuosi, adesso ne ebbe solo dolore. Per sé e per coloro che
inaspettatamente combattevano contro i suoi nemici.
“Per.. ché?” –Mormorò Titis, immersa in una pozza di
sangue, attirando l’attenzione di Tisifone, schiantatasi poco distante.
–“Perché hai detto che siamo simili?”
“Tu perché sei tornata a vestire l’armatura? Eri una
sirena adesso, non è così? Lo eri davvero! Ti vidi, quel giorno, portare in
salvo Julian e poi struggerti nel salutarlo, faticando ad abbandonare
l’abbraccio di quel mortale. Perché tornare a combattere adesso che potevi
essere finalmente libera?”
“Libera?! A volte mi chiedo se lo sono mai stata.”
–Sospirò la giovane, raccontando la sua storia. –“Discendo da una famiglia di
metamorfi, il cui potere si tramanda di generazione in generazione, fin dalla
prima donna di cui Nettuno si innamorò, mutandola in sirena, in modo da
permetterle di vivere sia sulla terraferma, con i suoi familiari, che negli
oceani, alla sua corte. Con lui.”
Trattenendo il dolore per le ossa maciullate,
Tisifone si voltò, osservando l’antica rivale negli occhi e riconoscendo quello
sguardo. Quello di una donna innamorata a
cui il fato ha negato la possibilità di avere l’uomo che ama!
“Lo amavi… Julian, intendo.”
Titis non rispose, lo fecero solo le sue lacrime,
scivolandole dagli occhi e mescolandosi al sangue che colava dalla ferite sul
bel volto deturpato.
“Me ne vergogno tanto… Amavo l’essenza del Dio, lo
spirito primordiale del Signore dei Mari, e al contempo ero attratta dal corpo
di Julian. Un dualismo di sentimenti che forse riflette la mia duplice natura,
umana e animale. Ma che importa? Adesso ho perso entrambi, perché Nettuno è un
vero Dio e Julian, privo della sua coscienza, neanche si ricorderà di me!”
“È una sensazione che ho provato anch’io. Amare
senza essere amati e osservare l’altro convolare verso la propria felicità. Un
motivo più che valido per fare follie!” –Confessò il Cavaliere d’Argento. –“Pur
tuttavia, la morte in battaglia, che ora vedi come una liberazione, non ti
porterà pace… No! Ti impedirà di rischiare tutta te stessa e di scoprire se non
poteva davvero esserci speranza!”
“Ti… sifone…” –Mormorò Titis, prima che un secco
colpo di tacco sul ventre la sprofondasse ancora più al suolo, facendole
vomitare sangue e altri liquidi interni.
“Ancora a far salotto, voi due?!” –Ironizzò Cariddi,
ergendosi minaccioso sui due corpi inermi. –“Pettegole come tutte le donne!
Dovrò farvi passare la voglia di aprir bocca, se non per supplicare la pietà
del nuovo Imperatore dei Mari!” –E, nel dir questo, affondò di nuovo nel petto
della sirenetta, strappandole un atroce grido di dolore.
“Bastardooo!!!” –Ringhiò Tisifone, faticando nel
rimettersi in piedi. Ma prima ancora che riuscisse a sollevare un braccio per
scagliare il proprio colpo segreto, vide con la coda dell’occhio un’agile
figura balzare sulla schiena di Cariddi e affondargli le unghie nel collo.
–“Sorella!!!” –Esclamò, riconoscendola, proprio mentre il guerriero la
afferrava per un braccio, torcendolo e prostrandola a terra.
“Fastidiosa puntura di insetto! E come tale da
schiacciare!” –Commentò, colpendola con un pugno allo stomaco, distruggendo
l’armatura e piantandolo dentro di lei, fino a sentire il sangue bagnargli le
dita.
“Morganaaa!!!” –Gridò il Cavaliere del Serpentario,
rialzandosi di colpo, mentre la sorella si accasciava sulbraccio di Cariddi, gocciolando sangue.
“Se tanto la desideri, prenditela!” –Le rispose
questi, spingendogliela contro in modo brusco, mentre Tisifone correva ad
afferrarla prima che cadesse a terra. –“È tempo di finirla! Il mio signore sta
per uccidere Nettuno e io voglio essere presente a quel glorioso momento!
Perciò, addio ragazzi, è stato un piacere! Per me lo è stato senz’altro!”
–Chiarì, sollevando un braccio ed evocando il poderoso maelstrom.
“Anche per noi!!!” –Urlarono allora Reda e Salzius,
lanciandosi su di lui e afferrandogli le braccia, in modo da impedirgli di
usarle, proprio mentre Delfino, concentrato tutto il suo cosmo, balzava in
alto, piombando sul nemico con un calcio volante.
“Vortice del
delfino!!!” –Gridò, riuscendo a colpirlo alla nuca e facendogli perdere
l’elmo già danneggiato, rivelando una folta capigliatura arancione.
“Tsè! E hai il coraggio di chiamarlo vortice?!”
–Ironizzò Cariddi, bruciando il proprio cosmo che avvampò attorno a sé,
strappando strilli di dolore agli allievi di Albione, che pure resistevano,
aggrappati ai suoi arti e decisi a non mollarli. –“Vi mostrerò adesso cos’è un
vero vortice!!!” –Tuonò, alzando le
braccia e scaraventando i due ragazzi in alto, risucchiati dal gorgo di
energia, prima di voltarsi verso le donne, vacillando allora per la prima
volta. –“Uh?!” –Mormorò, mentre la vista si faceva confusa e le immagini meno
nitide.
Delfino approfittò di quel
momento per afferrarlo alle spalle, chiudendogli le braccia in una solida
presa, il cosmo portato al parossismo.
“Non riuscirò a
trattenerlo a lungo!!!”
“Errore! Tu non riuscirai
proprio a trattenermi!!!” –Esclamò furioso Cariddi, mentre il maelstrom, sopra
di loro, continuava a muggire famelico, aumentando persino d’intensità al
comando mentale del suo creatore.
“Sottile trama
corallina!!!” –Parlò allora Titis, trascinatasi in silenzio fino ai piedi
del guerriero, afferrandogli una gamba e iniziando a rivestirla con i suoi
fiori animali. –“Cobra incantatore!!!” –Urlarono Tisifone e Morgana,
scaricando su di lui centinaia, forse migliaia, di folgori energetiche, che si
fecero largo tra le crepe della sua corazza, allargandole fino a far schizzare fuori
il sangue.
“Moskstraumen!!!” –Gridò il servitore di
Forco, espandendo al massimo il proprio cosmo, mentre il maelstrom si chiudeva
su tutti loro, dilaniando pavimento, corazze e ossa umane. Delfino fu il primo
ad essere risucchiato al suo interno e, conscio del suo destino, tirò un ultimo
sguardo a Morgana, la sua regina, sorridendole. Poi fece quel che un uomo in
punto di morte può fare per dare una possibilità a coloro che ama. Lasciò
esplodere tutto il suo cosmo, generando una detonazione che squassò il vortice
dall’interno, scaraventando tutti a terra, tra grida e caos.
Quando la polvere dell’esplosione scemò di
intensità, Cariddi era il solo che ancora si reggesse in piedi. Tisifone lo
osservò dal basso, scansando con gentilezza il corpo di Morgana che le si era
parato davanti, per ripararla dall’esplosione, e notò che neppure lui era
uscito indenne dall’ultimo dono di Delfino. L’armatura gravemente danneggiata,
l’azzurro dell’oricalco tinto adesso del sangue che colava dalle ferite aperte,
lo sguardo languido, a tratti confuso, di certo sofferente.
“Una… variante…” –Balbettò allora una flebile voce,
costringendo Tisifone a chinarsi sulla sorella e a chiederle di ripetere. –“Ho
aggiunto una variante al nostro colpo segreto… Curaro. Un veleno celato nelle
mie unghie. Non sono mai stata forte, mai ho avuto la costanza di allenarmi a
fondo, come te, ma ho sempre preferito… le scappatoie…” –Mormorò,
accasciandosi.
E anche Cariddi fece lo stesso, crollando sulle
ginocchia, portandosi una mano allo stomaco scosso da profondi conati.
Rigurgitò più volte, urlando e muggendo, battendo i pugni sul suolo e
distruggendo l’area attorno a sé, ma alla fine capì. Che neppure lui aveva
vinto.
Tisifone gli si avvicinò, trascinando le gambe che
non sentiva più, e fissò i suoi occhi azzurri adesso iniettati di sangue. Anche
in silenzio, gli sembrò di udirne la supplica.
Capitolo 34 *** Capitolo trentaduesimo: Il figlio del drago ***
CAPITOLO TRENTADUESIMO: IL FIGLIO DEL DRAGO.
Ioria
e Nikolaos osservarono stupiti il guerriero giunto in loro soccorso e, finché
non si tolse l’elmo, rivelando il volto virile e gli occhi neri, non lo
riconobbero. L’armatura che indossava era infatti ben diversa da quella dei difensori
dell’Olimpo, più simile, come fattura, alle corazze di Jonathan e degli altri
Cavalieri delle Stelle. Elegante, coprente, leggera al tatto, era decorata da
due teste di drago stilizzate, usate come protezioni per le spalle, una dalle
sfumature rossastre, l’altra dalle tinte bianche. Colori sacri agli antichi
culti cui era devoto.
“A…
Ascanio…” –Mormorò l’Eridano Celeste, concedendosi un sorriso speranzoso.
“È
Ascanio Pendragon il nome mio, Cavaliere della Natura, di cui vesto infine la
corazza, e Comandante dei Cavalieri delle Stelle! Il ruolo in cui mi avete
conosciuto, amici e nemici, non più mi appartiene! Smessi i panni del Cavaliere
Celeste, quando l’ultimo membro della Legione Nascosta, Gwynn del Biancospino, morì
per mano del Licantropo, rappresento adesso il Signore dell’Isola Sacra, ai cui
misteri sono stato iniziato! In nome suo combatto, per riscattare un antico
tradimento, che tu, miserabile Anhar, hai compiuto!” –Declamò fiero l’uomo dai
capelli neri, puntando il dito contro il Rosso Fuoco. –“Preparati a sorte
terribile! Il ruggito dei draghi dell’antica Albion ti travolgerà di nuovo!”
“Non
credere troppo nella buona sorte, scagnozzo di Avalon! Mi hai atterrato
sfruttando la mia distrazione, condizione che non si ripresenterà!” –Esclamò
Flegias, mentre attorno a sé sorgevano oscure vampe infuocate, che subito diresse
contro il Cavaliere delle Stelle.
“È
con questo fuoco che hai segnato il tuo cammino, Anhar? È questo il marchio
dell’infamia con cui hai reciso ogni legame con l’Isola Sacra?” –Chiese
Ascanio, espandendo il proprio cosmo, fresco e potente, carico di una vitalità
che né Ioria né Phantom avevano mai percepito in lui, quasi fosse rinato in una
seconda vita.
“Questo
è il fuoco purificatore con cui incendierò il mondo, l’ecpirosi che incenerirà
Avalon e tutti i suoi abitanti!” –Ringhiò il Maestro di Ombre, chiudendo il
pugno della mano destra e lasciando che, allo stesso modo, le tetre vampe cingessero
d’assedio il corpo del Cavaliere della Natura. –“Questa è la vampa oscura della
conflagrazione universale, l’incendio della fine del mondo!!!”
“Un’eresia.
Il sogno di una notte d’inverno destinato a sciogliersi ai primi raggi di
sole!” –Sentenziò quest’ultimo, lasciando esplodere il proprio cosmo e
annientando le fiamme che lo attorniavano. Quindi, muovendo il braccio destro
avanti, generò uno scintillante dragone di energia, dalle scaglie rosse e le
fauci aperte, che azzerò in un lampo la distanza che lo separava da Flegias,
abbattendosi su di lui. –“Che le zanne del Drago di Sangue ti conducano alla
morte, traditore dei misteri! Come gli instancabili Cŵn Annwn di Arawn, la
sacra bestia di Britannia ti caccerà fintantoché non ti avrà smembrato!”
“Non se io la uccido prima!” –Ghignò Flegias, le cui
vampe si chiusero a cupola attorno a lui, difendendolo dal devastante attacco,
che smosse il terreno tutto attorno, sollevando zolle di fiori e polvere. –“Con
le fiamma di Garuda!!! Kaan!!!”
“Continua a usare i poteri di Virgo! Ma perché?”
–Intervenne Ioria, notando che il Maestro di Ombre aveva iniziato a radunare la
propria energia tra le mani, pronto per rilasciarla all’improvviso.
–“Allontanati Ascanio o l’abbraccio dell’Oriente ti travolgerà!!!”
Il
Comandante dei Cavalieri delle Stelle fu svelto a balzare all’indietro, proprio
mentre Flegias liberava un ventaglio di energia infuocata che disperse il Drago
Rosso, concedendosi un sorriso compiaciuto.
“Le
tue speranze in una vittoria rapida si assottigliano, figlio dell’Isola Sacra!”
“Ad
Avalon ho appreso ad essere paziente!” –Si limitò a commentare Ascanio,
evitando i tranelli del nemico, specialmente quelli verbali. –“E a volte una
lenta vittoria è molto più gratificante, non trovi, Anhar? Non è forse questo
che insegui da secoli, ormai?”
“Perché
lo hai chiamato Anhar?!” –Si intromise allora Ioria, aiutando al qual tempo
Phantom a rialzarsi. –“Non è Flegias il suo nome?!”
“In
verità l’ombra ha molti nomi, tante quante sono le facce della verità! Pur
tuttavia, egli rimane sempre figlio dell’unico Dio da cui tutti gli Dei sono
discesi.” –Chiosò Ascanio, sibillino, osservando l’accigliarsi del volto del
Cavaliere di Virgo. –“Anhar era un membro della gilda dell’equilibrio guidata
da Avalon, un membro che abbandonò la retta via, infettato e corroso da
un’ombra primordiale! Flegias temo sia stata solo una delle tante identità cui
è passato attraverso, per convincere se stesso di essere qualcuno. Per dare uno
scopo ad una vita che a nient’altro è stata votata se non al perseguimento del
caos!”
“Tanta
filosofia e così poca azione!” –Ringhiò il Maestro di Ombre. –“Sono stufo!!!”
–Aggiunse, sollevando il braccio destro e scatenando una furiosa tempesta di vampe
infuocate. –“Apocalisse Divi…” –Ma
prima che riuscisse a completare l’invocazione, Ascanio era già scattato
avanti, il pugno destro rigurgitante energia cosmica.
Come
un drago di luce, il Cavaliere della Natura sfidò le demoniache fiamme oscure,
portandosi a ridosso del nemico e colpendolo sul petto con un pugno secco, che
lo spinse indietro, mozzandogli il respiro e interrompendo il suo assalto. Per
l’impatto, Flegias scavò due solchi nel terreno con i piedi, gli stessi solchi
dove ricadde sulle ginocchia poco dopo, sputando sangue e bile dalla rabbia.
“Bastardo!!!
Quando avrò raso al suolo quella nefasta isola nebbiosa, la concimerò con le
tue budella!” –S’infiammò, rialzandosi e accorgendosi che Ascanio era già
pronto in posizione offensiva, le braccia portate avanti a sé, la maestosa
sagoma di un drago dalle scaglie marmoree che lo attorniava.
“Attacco del Drago bianco!” –Tuonò,
liberandone l’impeto e osservandolo saettare verso Flegias, che non riuscì a
ricreare in tempo il Kaan, limitandosi a portare avanti il braccio destro,
palmo aperto all’infuori, con cui tentò di frenarne l’avanzata.
Fu
allora che Ioria intervenne, piantando il pugno nel suolo e scaricandovi
guizzanti folgori dorate, che subito sorsero attorno a Flegias, fulminandolo e
strappandogli un grido furioso, mentre anche Phantom evocava robusti filamenti
dal terreno, avvinghiandoli attorno al corpo del Maestro di Ombre, per
bloccargli i movimenti.
“Misero
tentativo, miserrimo risultato. E miserabili combattenti!!!” –Ringhiò questi,
lasciando avvampare il proprio cosmo oscuro e riducendo in cenere le liane
dell’Eridano e le zanne del Leone.
“Parli
di te stesso?” –Lo sorprese però Ascanio, sfrecciato di fronte a lui a velocità
incredibile, poggiando la mano sul pettorale della corazza della Vergine e scatenando
la forza devastante del Drago dalle squame bianche.
“Aaargh!!!”
–Flegias venne scagliato in aria, tra i frammenti insanguinati dell’armatura
d’oro, fino a schiantarsi a terra, proprio in mezzo ai salici gemelli.
“Bel
colpo!” –Commentò Phantom, crollando ansimante sulle ginocchia.
Ascanio
non rispose, limitandosi ad osservare il loro nemico che si rialzava, sputando
e maledicendoli in tutte le lingue che conoscesse, prima di guardarsi attorno e
realizzare dove fosse stato scagliato.
“Se
davvero credi che tra questi alberi giaccia la mia tomba, sei un illuso,
Comandante! Li sradicherò e te li pianterò nel cuore!!!” –Latrò, furibondo.
“Abbiamo
un problema!” –Parlò infine il Cavaliere della Natura, a bassa voce, per non
farsi udire dall’indemoniato avversario. Ioria e Phantom lo osservarono subito
con interesse, prima che questi cominciasse a spiegare. –“Attaccandolo in
questo modo, se pure riuscissimo a ferirlo, danneggeremmo solo Virgo! Credevo
che il Drago Bianco fosse sufficiente per estirpare l’anima di Flegias dal
corpo del Cavaliere della Vergine, non che vi fosse così profondamente
radicata!”
“Che
intendi dire?”
“I
draghi al mio comando riprendono il dualismo della tradizione celtica tra il
rosso e bianco, colori concorrenti e complementari! Il rosso, colore del
sangue, è il drago della morte, l’attacco poderoso che sfonda ogni difesa e
lascia i nemici esanimi al suolo. Il bianco, come il latte di una madre o il
seme dell’uomo, è colore della vita, il suo potere è più spirituale, in grado
di smuovere i sentimenti nel profondo dell’animo umano. Ma temo che dello
spirito di Virgo non sia rimasto alcunché!” –Sospirò Ascanio. –“Ben due volte
l’ho colpito con l’Attacco del Drago Bianco e ancora Flegias sghignazza
follemente, imperando su un corpo che non è il suo! No, amici miei, questa non
è una semplice possessione, come accadde a te, Ioria, per mano di Arles! Questo
è un vero e proprio caso di annullamento della coscienza di un uomo, sostituita
per intero dallo spirito di un altro! Un potere così oscuro che solamente gli
Dei possono manovrare! E neppure tutti!”
“Non
possiamo fare niente? Neppure tu, Ascanio, non potresti provare a risvegliare la
coscienza del Custode della Sesta Casa con il tuo potere? Sfruttare la
metempsicosi per entrare dentro di lui?!”
“No,
Nikolaos, non posso e non voglio farlo! Perché, se anche riuscissi
nell’impresa, la psiche di Virgo ne risulterebbe sconvolta! Il suo corpo non
potrebbe sopportare di essere conteso da ben tre anime al suo interno! Nessun
mortale sopravvivrebbe!”
“Dunque…
non vi è niente che possiamo fare? Solo continuare a colpirlo, ferendo il corpo
di Virgo e condannandolo noi stessi a morte?” –Mormorò Ioria, demoralizzato. Ma
la conversazione tra i tre fu interrotta da una pioggia di vampe di fuoco che
Flegias aveva diretto su di loro, osservando compiaciuto i loro tentennanti
tentativi di proteggersi, per quanto niente potesse offrire loro riparo sicuro
dalla sua violenza sanguigna.
“Cadete,
vermi! Rantolate al suolo, contorcetevi e smaniate! Vi guarderò soffrire, i
corpi divorati dalle fiamme nere, prima di schiacciarvi e mettere fine alle
vostre sofferenze che giungono come gradita musica ai miei timpani! Ah ah ah!”
–Esclamò delirante il Maestro di Ombre.
Ioria
afferrò Phantom, ruzzolando assieme sul terreno squassato per sfuggire alle
violente vampe di fuoco che parevano saturare il cielo, ma non poterono
evitarle a lungo, venendo risucchiati in un turbine di energia ardente che li
scaraventò contro le mura esterne della Sesta Casa, intrisi di ferite e crepe
sulle corazze.
Ascanio
invece rimase nel giardino, le gambe piantate nel terreno, espandendo il cosmo
fino a generare due dragoni, uno bianco e l’altro rosso, che si avvolsero a
spirale attorno a lui, proteggendolo dalla furia della pioggia di fuoco e
facendo inalberare Flegias.
“Tu
sia dannato, figlio dell’isola sacra!!!” –Avvampò, scattando avanti, mentre
sfere di energia infuocata apparivano sulle sue mani, venendo da lui
prontamente dirette verso il Cavaliere della Natura. Una dopo l’altra, Flegias
le scagliò contro la barriera di cosmo che attorniava Ascanio, su cui
rimbombarono, esplodendo, pur senza creparla. –“Aaargh!!!” –Strillò infine il
Rosso Fuoco, piantando un pugno nel terreno e infondendovi l’incandescente
energia delle sue vampe oscure che schizzarono fuori proprio sotto i piedi di
Ascanio, disperdendo i draghi di energia e scaraventandolo in alto.
Di
fronte a quella scena, Flegias sogghignò pago, torcendo le labbra in un sorriso
di sfida. –“Vengo a prenderti!” –Sibilò, pronto per balzare in alto e inseguire
l’ambita preda.
“Non
ti disturbare!” –Parlò Ascanio, direttamente al suo cosmo. –“Sarò io… a venire
da te!!!” –Aggiunse, mentre le vampe di fuoco si richiudevano su di lui,
iniziando infine a turbinare attorno al suo corpo, senza raggiungerlo mai. Con
un’esplosione accecante, il Comandante dei Cavalieri delle Stelle liberò la
propria energia interiore, sommandola a quella che lo circondava e dirigendo l’intero
ammasso contro Flegias, sotto forma di due enormi dragoni dalle fauci aperte.
–“Double Dragon Attack!!!”
“Non
mi avrai!!! Apocalisse divina!!!”
–Tuonò il Maestro di Ombre, scatenando la devastante tempesta di vampe oscure e
osservandola, sconvolto, venire trapassata dalla furia dei draghi di Albion,
che si abbatterono su di lui, scaraventandolo indietro, con nuove crepe aperte
sull’armatura d’oro e una fitta imprevista al cuore. Quella stessa fitta che
l’aveva aggredito all’inizio dello scontro, quando Ascanio lo aveva atterrato
per la prima volta.
“Per
quanto il Drago Bianco non possa liberare completamente Virgo dalla tua
opprimente coscienza, posso logorarla poco a poco, strappandotene un po’ ogni
volta! Proprio come ho fatto finora!” –Commentò il Cavaliere di Avalon,
atterrando a piedi uniti e osservando il disprezzo sul volto del Flagello di
Uomini e Dei, che affannava nel rialzarsi.
“Un’impresa
piuttosto ardua e lunga!” –Ghignò questi. –“Hai tutto questo tempo?”
“Per
la verità, no!” –Esclamò deciso Ascanio, espandendo il proprio cosmo, forzando
il nemico ad un impulsivo passo indietro. Anche Ioria e Phantom, sorreggendosi
a vicenda, si erano intanto avvicinati, incuriositi dalla nuova mossa del
Comandante. –“Vi è un solo modo per salvare Virgo ed eliminare una volta per
tutte la Terra dalla tua fastidiosa presenza! Un rito che prevede una nascita e
una morte, per bilanciare l’equilibrio cosmico! La rinascita di Virgo e la tua
scomparsa!”
“Sei
un buffone! Tu non…” –Gridò Flegias, scattando avanti, ma venendo spinto
indietro dall’esplosione del cosmo di Ascanio, puro e lucente come un sole
sorgente. Cosmo che, tutti osservarono, pareva essere concentrato attorno alla
testa.
Anzi no. Per la verità attorno all’elmo! Notò Ioria, mentre il copricapo della corazza si
sollevava dal cranio, levitando in aria e dilatando la propria forma. D’un
tratto roteò su se stesso, capovolgendosi e fermandosi proprio nello spazio tra
Ascanio e Flegias, che subito lo riconobbe, avendolo visto nei ricordi
dell’Antico.
“Ma
questo è…”
“Il
manufatto da me custodito! Il più potente dei Sette!” –Spiegò calmo Ascanio,
mentre Ioria e Phantom lo osservavano affascinati. –“E se lo riconosci, allora
saprai anche cosa è in grado di fare!”
Il
cosmo presente nel talismano esplose all’improvviso, rigurgitando fuori un
fiume di energia, come se qualcosa all’interno bollisse sotto una fiamma
elevata, rivelando nitide le sue forme finali. Quelle di una grossa pentola.
“Il
calderone dei misteri!!! Il talismano celato ad Avalon, che mai avevo usato
finora, perché mai nessun nemico mi aveva spinto così lontano da doverlo
usare!”
“Un
calderone… Meraviglioso!” –Commentò Phantom, invaso da un’improvvisa
tranquillità. –“È un potentissimo simbolo di potere nella tradizione celtica!
La storia ci ha regalato il ricordo di molti celebri pentoloni in grado di dare
vita, morte o sostentamento! Il calderone di Dagda, per esempio, il Dio buono
dei celti, era celebre per non svuotarsi mai, fonte inesauribile di nutrimento
per tutti coloro che avevano fame! Quello di Bran, invece, si diceva avesse il
potere di riportare in vita i morti! Altri potevano invece donare saggezza!”
“Dici
il vero, Nikolaos. Il potere del calderone è immenso, rappresenta il grembo
della Grande Dea Madre, espressione della sua forza trasfigurante! Forza di cui
tu, Flagello di Uomini e Dei, adesso avrai un assaggio!” –Esclamò Ascanio,
mentre Flegias veniva trascinato verso il pentolone da un’immensa forza
invisibile.
“Cosa
ne sai tu della Dea Madre? Che ne sapete voi degli Dei Antichi?!” –Ringhiò,
agitandosi con foga ma senza riuscire a vincere la forza d’attrazione che lo
sollevò da terra, fino a inzupparlo dentro l’energia cosmica che ribolliva nel
manufatto. –“Io solo sono l’araldo dell’ombra! Io solo ne conosco i segreti!!!”
“Tu,
tra poco, più non sarai!” –Sentenziò il Comandante dei Cavalieri delle Stelle, ampliando
al massimo il proprio cosmo, che venne rigurgitato dal Calderone dei Misteri
dentro cui il corpo posseduto da Flegias ardeva, si dimenava, si contorceva, invaso
da una sensazione di pace, di serenità, di luce che così tanto strideva con la
sua reale natura. –“Che il Calderone dei Misteri compia la sua opera! Che la liberazione
del Cavaliere di Virgo dall’ombra trovi infine attuazione!”
Un’ultima
scossa fece sussultare il corpo del Custode della Sesta Casa, prima che questi
si accasciasse contro il bordo esterno del pentolone, mentre un’aura nera, su
cui lampeggiavano due occhi rossastri, fuoriusciva dal suo corpo, rimanendo
sospesa in aria, sopra la lucente energia in fermento.
“Virgo!!!”
–Gridò Ioria, avvicinandosi al talismano, per poi voltarsi verso Ascanio e
aspettare un cenno di conferma.
“Portalo
via! Il suo corpo ormai è stato purificato, la sua anima è libera infine! Ma
che lui viva o muoia, dipende solo dalle sue forze!” –Precisò il Comandante,
mentre Ioria trascinava il parigrado fuori dal gorgogliante magma energetico.
“Lo
aiuterò io! Gli darò il mio cosmo! Virgo è forte, si sveglierà!” –Ansimò il
Leone, fermandosi vicino ad Ascanio, che aveva ancora gli occhi puntati
sull’evanescenza oscura che aveva estirpato dal corpo del Cavaliere d’Oro.
“Ho
ancora una cosa di cui occuparmi! Dopo potrò gioire!” –Commentò, mentre il suo
cosmo spumeggiava furioso all’interno del pentolone. –“Hai dimenticato le mie
parole, Flegias? Una vita per una vita. L’equilibrio del mondo deve essere
garantito! Come il calderone puà dare vita, ugualmente può dare morte! E morte
è ciò che meriti di ricevere! Troppe le tue colpe per enumerarle tutte
quest’oggi! Mi limiterò a farti scontare gli oltraggi che hai recato ai miei
maestri! Dohko di Libra, il Primo Saggio e Avalon, la loro vendetta è la mia!” –E,
nel dir questo, risucchiò la fiammeggiante anima oscura di Flegias all’interno
del pentolone, per quanto questa guizzasse vampe nere nel tentativo di
liberarsi. –“Ardi! Ardi e consumati, come troppi uomini e Dei hai consumato
inseguendo i tuoi progetti imperiali!”
“Non..
puoi farlo! Non puoi uccidermi!!!” –Gridò la sua voce stridula, in quel
ribollir di cosmo lucente. –“Non devi farlo! Avalon non lo vorrebbe! Lui… si
arrabbierebbe molto con te!”
“Che
sciocchezze vai dicendo?!” –Rise Ascanio, continuando a concentrare la propria
energia in quell’operazione tanto attesa. –“Un ultimo bluff prima della fine?!”
“Pensa
Ascanio! Pensa! Come posso essere qui, quest’oggi, nonostante il tuo maestro mi
abbia spazzato via, giorni addietro, sulla cima dell’isola?! Tu credi che io mi
sia salvato per fortuna, per miracolo o per intercessione divina dalla Nebulosa
delle Stelle? Ti sbagli, è stato Avalon stesso a salvarmi!” –Sibilò Flegias,
profondendo le ultime forze che gli rimanevano in quell’accorata orazione.
–“Egli ha lasciato che un pulviscolo di me, un misero frammento di ombra,
vagasse per il cielo! E lì, nel vuoto cosmico, il mio Signore mi ha trovato,
dandomi una seconda opportunità, sfruttando il corpo di Virgo da lui appena
fagocitato!”
“Idiozie
di proporzioni inaudite! Avalon per ben due volte ha tentato di eliminarti!”
“Appunto!
Due volte, Ascanio! Due volte ci ha provato ed entrambe ha fallito! Lo reputi
possibile? Reputi davvero possibile che il tuo maestro, il maestro di voi
Cavalieri delle Stelle, così forte e potente, non fosse in grado di estirpare
per sempre la minaccia da me rappresentata?! Mi ha lasciato vivere volutamente,
per lo stesso motivo per cui ha aspettato secoli prima di darmi la caccia!
Perché gli servo! Servo, come lui e i suoi tirapiedi, al mantenimento
dell’equilibrio! Luce e ombra, senza che nessuna possa sopraffare l’altra!”
“Tu
menti!!!” –Avvampò il glorioso Comandante. –“Vuoi ingannarmi come fuorviasti
Zeus, Crono e molti altri prima di loro! Ma io ti conosco, so di cosa sei
capace, serpe oscura!!!”
“E
conosci anche il tuo maestro?” –Sussurrò Flegias, prima di venire completamente
risucchiato dall’energia fermentante nel talismano.
Ascanio
non seppe rispondersi, invaso per la prima volta da un’esitazione che non
avrebbe mai voluto provare. Non durò che un attimo quella sensazione sfuggente,
quell’oscuro timore che le parole del Flagello di Uomini e Dei fossero vere,
prima che la fiera coscienza del seguace di Avalon riemergesse, fugando ogni
esitazione e completando l’assorbimento di Flegias all’interno del Calderone
dei Misteri.
“Così
tutto finisce!”
Improvvisamente
un fascio di energia nera fendette il cielo, schiantandosi proprio sul
talismano e scaraventando Ascanio indietro. La tetra evanescenza, che un tempo
era stato Anhar, venne assorbita dall’ancor più fitta oscurità, diluendosi in
quel fiume di tenebra che poco dopo scomparve, ritornando nell’universo da cui
era giunto.
“No!!!”
–Gridò il Comandante, battendo un pugno sul terreno e osservando il calderone
rovesciato, ormai vuoto.
“Se
ne è andato…” –Commentò allora una voce calma, una voce che né Ascanio né i
suoi compagni da tempo udivano.
“Se
ne è andato!” –Ripeté Virgo, disteso tra le braccia di Ioria, gli occhi azzurri
che fissavano il cielo.
“Sì,
amico mio. Se ne è andato!” –Annuì il Cavaliere di Leo, felice che il parigrado
fosse di nuovo libero. –“Ma non troppo presto!” –Aggiunse tra sé, ricordando i
cadaveri di Pavit e di Libra.
***
Castalia
giaceva incosciente su un letto dell’infermeria, dove Euro, Vento dell’Est,
l’aveva portata poc’anzi. L’armatura distrutta, il corpo pieno di ferite, molte
delle quali non visibili ad occhio nudo, conseguenza delle percosse subite da
Cariddi. Il figlio di Eos aveva sospirato, prima di bucarsi un’unghia con uno
spillo e lasciar cadere il suo sangue sul corpo della Sacerdotessa Guerriero.
Poche
gocce furono sufficienti per far rifiorire la vita in lei, riparando le ossa
spezzate e richiudendo le ferite superficiali. Del resto, sorrise Euro, carezzandole i capelli rossicci, il cosmo fluisce nel sangue ed è questo
che rende l’Ichor così prezioso!
Non
ci sarebbe voluto molto tempo, al Cavaliere d’Argento, per tornare operativo,
sebbene Euro percepisse una chiara agitazione nel suo animo. Turbamenti che
forse non dipendevano dalla batosta presa in Francia. Le strinse ancora una
volta la mano, per donarle un’ultima stilla di energia, prima di andarsene e
lasciarla riposare. Aveva sentito il richiamo di Zeus e doveva rientrare sull’Olimpo
al più presto, per quanto, con il cuore, avrebbe voluto essere alla Sesta Casa
a lottare contro l’ombra.
Castalia
rimase così da sola, la fronte ancora calda da una febbre improvvisa che
l’aveva aggredita poco prima, quando, nel suo stato di incoscienza, era stata
raggiunta dalla voce di un amico che non udiva da tempo.
“Svegliati,
Sacerdotessa dell’Aquila! Svegliati e ascoltami! Abbiamo poco tempo!”
“Ma
tu… sei Morfeo?!” –Mormorò Castalia, riconoscendo il Dio che, mesi addietro,
aveva cercato di aiutare lei e il Luogotenente dell’Olimpo.
“Vorrei
poter dire in persona, ma temo che presto della mia persona, anima compresa,
rimarrà ben poco!” –Sospirò il Signore dei Sogni.
“Cosa
significa? Cosa sta succedendo Morfeo? Dove sei?”
“L’ora
è giunta, Sacerdotessa dell’Aquila! L’ora dell’ultima battaglia! L’ho attesa,
languendo in questo limbo infinito per tutti questi mesi, credendo che, qualora
il varco fosse stato aperto anche noi saremmo potuti tornare in libertà!
Tornare a combattere per tutto ciò che riteniamo santo! E invece no! L’apertura
del passaggio ha decretato la nostra fine! Già Estia e Dioniso sono stati
fagocitati, per permettere all’ombra di recuperare energia! Presto toccherà a
me, a Ebe e ad Artemide! Nessuno di noi tornerà più sull’Olimpo! Nessuno
rimirerà più lo splendore di un mondo che abbiamo imparato ad amare troppo
tardi!”
“Morfeo…
le tue parole sono oscure… quale varco? Chi vi sta uccidendo?!”
“Saprai
tutto molto presto, Sacerdotessa dell’Aquila, ma non è per questo che sono qua!
Bensì per consegnarti un messaggio! Poche parole, solo quelle che ho potuto
percepire, del resto ormai non sono più in grado di entrare nei sogni degli
uomini, soltanto nei tuoi, l’ultima porta rimasta aperta a Morfeo! L’ultima ad
aver creduto in me!”
“Quale
messaggio?!” –Rantolò Castalia.
“Salvami!”
–Esclamò il Dio, ripetendo quella stessa parola che dominava i sogni di una
mente ferita, che a nient’altro riusciva a pensare se non a lei.
Il
Cavaliere d’Argento subito si agitò, credendo che Ioria o Nikolaos fossero in fin
di vita, ma Morfeo le tolse ogni dubbio, richiamando alla sua memoria il terzo
uomo della sua vita. Un uomo da cui era stata separata tempo addietro, non per
sua scelta, ma per scelta di colui che adesso invocava il suo perdono.
“Addio,
Sacerdotessa dell’Aquila! Possano le tue ali portarti sempre più in alto, per
volare oltre le nuvole!” –Scomparve così, il Dio dei Sogni, uscendo per sempre
dai suoi pensieri.
Castalia
sussultò, sollevandosi di scatto dalla branda, con il respiro affannato e il
volto fradicio di sudore. Allungò una mano verso la brocca d’acqua, che qualche
inserviente aveva lasciato sul cantonale accanto al letto, e lo notò, rabbrividendo.
“Non…
è possibile…”
Era
certo di averlo perduto nelle battaglie combattute sull’Olimpo, quando più
volte era stata sul punto di morire. Aveva pianto, quando aveva realizzato di
non averlo più, l’unico ricordo che ancora la legava a lui. E invece adesso era
lì, l’ultimo dono che Morfeo aveva voluto fargli, usando tutto quel che restava
del suo cosmo, fino all’ultima stilla. Un ciondolo di cui esistevano solo due
copie al mondo, fabbricate dai suoi genitori. Uno lo aveva lei, l’altro suo
fratello.
Capitolo 35 *** Capitolo trentatreesimo: Un uomo d'azione. ***
CAPITOLO TRENTATREESIMO: UN UOMO D'AZIONE.
Sirio
si trovò di fronte un uomo dai lunghi capelli rosa, che ricadevano sullo
schienale di un’elegante armatura da battaglia, ornata da un pregiato mantello
di seta. Studiandola meglio, il Cavaliere notò quanto fosse ricca di fregi e
intarsi, splendente come gli era apparsa la corazza del Drago la prima volta in
cui l’aveva indossata.
“Si
può dire che per me sia altrettanto! Del resto ogni volta in cui scendo in
battaglia è come fosse la prima volta! Fresco di forze, potente, con l’armatura
tirata a lucido, rappresento una giovinezza guerriera che nessun’altra Divinità
può sfoderare, e la rapidità con cui ho tolto di mezzo quella feccia di Lethe lo dimostra! Io sono Polemos!
Io sono la guerra, e come tale non ho età. Io semplicemente esisto, compagno
fedele di ogni epoca dell'uomo, amante silenzioso mai pago e mai domo ma sempre
pronto a soddisfare l’istinto più bieco!” –Parlò costui, con tono raffinato e
superbo.
“Polemos? Non ho mai sentito parlare di te! Sei un compagno
di Lethe? O un suo rivale?! Parla! Hai qualcosa a che
fare con quest’attacco alla colonia…?” –Ma Sirio non
riuscì a terminare la frase, venendo atterrato di colpo da un calcio poderoso,
sferratogli da una figura piombata su di lui.
“Bada
a come parli, moccioso!” –Ringhiò un ragazzo dai capelli biondi, il corpo
rivestito da una squamata corazza dorata e marrone. Osservandola di sfuggita,
Sirio notò l’originale coprispalla, a forma di testa
di capra, con aguzze corna sporgenti, l’elmo simile al muso di una fiera maestosa
e una lunga coda serpentiforme –“Ti fai
maleducato vanto di non conoscerlo, ma presto sarà il supremo Comandante delle
Armate delle Tenebre e allora non solo lo conoscerai, ma rabbrividirai nell’udirne
il nome! Egli è Lord Polemos, mio mentore e futuro
governatore del pianeta in nome di…”
“Basta
così, Chimera! Apprezzo il buon uso della dialettica che fai, ma ti rammento
che non è per disquisire con il Dragone che fin qua siamo giunti!” –Intervenne
allora il Signore della Guerra, cui il giovane biondino prestò subito ascolto,
inchinandosi e invocando il suo perdono. –“Va’a prendere ciò per cui siamo
venuti! Diamo un senso a questa missione e poi rientriamo! Voglio esserci
quando lei tornerà!”
“Sì,
Lord Comandante! Eseguo!” –Annuì, scattando verso le profondità della colonia.
“A… Aspetta!!!” –Annaspò Sirio, ancora disteso a terra,
afferrandogli un piede e frenandone la corsa. –“Chi sei?”
“Non
mi riconosci?! L’armatura che indosso non rende giusto tributo alla bestia
dalle triplici fattezze?! Io sono il leone, la capra e il serpente! Io sono Chimaira!”
“Chi…mera…” –Mormorò Sirio,
ricordando antichi insegnamenti del Vecchio Maestro che riguardavano tale
mostro. –“Non sapevo vi fosse un guerriero con questo simbolo…
A quale armata appartieni?” –Aggiunse, rimettendosi infine in piedi.
“A
nessuna! Io servo solo il mio maestro!” –Sibilò questi, fissandolo con occhi di
brace, mentre la guizzante coda della sua armatura si attorcigliava attorno ad
un calcagno del Cavaliere di Atena, strattonandolo bruscamente e sbattendolo
poi a terra. Una volta, due volte, tre volte. Una triplice ferita, come era nel
suo stile, prima di gettarlo contro la parete rocciosa e osservarla,
compiaciuto, mentre franava su di lui.
“Ti
sei divertito abbastanza, ma non è lui l’oggetto della tua vendetta!”
–Intervenne allora Polemos, cui Chimera rispose con
un cenno d’assenso, prima di sfrecciar via, proprio mentre il cosmo del drago
ruggiva, disintegrando sassi e rocce e liberando Sirio.
“Dov’è
andato quell’impudente?”
“Lascialo
perdere! Non che Chimera rifiuterebbe uno scontro con te, non è uomo da tirarsi
indietro quando si tratta di combattere! Ma immagino preferisca conservare le
forze per affrontare il discendente di colui che domò la triplice bestia millenni
addietro, l’amico cui sei così tanto devoto, Sirio Dragone!”
“Come
mi conosci? E cosa vuoi?!”
“Conosco
tutti voi, Cavalieri dello Zodiaco, perché vi ho studiato, osservandovi
ammirato e imparando molte cose, sulla vostra personalità, sui vostri poteri,
sulle vostre debolezze! Del resto, conoscere il nemico è fondamentale in una guerra,
ne convieni? Ah ah ah!” –Rise l’ambizioso comandante,
prima di atterrare Sirio con una sfera di energia, che il ragazzo non vide
neppure come e quando era stata generata. –“In quanto a ciò che voglio, lo
scoprirai presto. Se sarai ancora vivo quando Chimera tornerà, ipotesi che
dipende solo ed esclusivamente da te!”
“Che
vuoi dire?!”
“Ciò
che ho appena detto! Siediti, se vuoi, e aspetta con me che tutto sia finito.
Non ci vorrà molto, te lo assicuro, Chimera è solito andare per le spicce, e se
non interferirai potrai tornare dalla tua amata Fiore di Luna ai Cinque Picchi!
Hai la mia parola d’onore!”
“Fiore
di… Maledetto, cosa sai su di lei? Se le hai fatto
qualcosa, non ti perdonerò!” –Avvampò Sirio, lanciandosi avanti, avvolto nella
sua luminescente aura cosmica. Ma per quanto veloci fossero i suoi affondi, Polemos riusciva sempre ad evitarli, riusciva sempre a
muoversi ad una velocità più alta, scansandosi, allontanandosi, girando intorno
al ragazzo, senza mai smettere di sogghignare.
“Cosa
avrei dovuto farle? È una ragazza, non un guerriero, e sono questi ultimi i
miei avversari! Te l’ho detto, so tutto su di voi, perciò te lo ripeto. Siediti
e aspetta!”
A
quelle parole Sirio rimase di sasso, continuando a fissare Polemos
per qualche interminabile secondo, finché, appurato che il Dio non avesse
intenzioni offensive, non rilassò i muscoli irrigiditi, abbassando infine le
braccia, strappando un cenno d’approvazione al suo misterioso interlocutore.
“Molto
bene, vedo che hai capito! La perspicacia non ti fa difetto!”
In
tutta risposta Sirio sfrecciò avanti, rapido come una cometa, riuscendo anche a
muovere il braccio e chiudere le dita a pugno, mirando al cuore dell’avversario.
“Ah!
Errore!” –Sibilò questi, scuotendo la testa con grave disappunto e muovendo il
braccio destro ad ancor più elevata velocità. –“Non presti ascolto alle mie
parole! Oltre che cieco, le battaglie ti hanno reso pure sordo?” –Ironizzò il
Dio, mentre il pugno di Sirio si schiantava sul palmo della sua mano, avvolto
in un’accesa luce color amaranto. –“Eppure ero stato chiaro, non vuoi forse
ritornare dalla donna che ami?!”
“Certo
che lo desidero, più di ogni altra cosa!”
“Non
sembrerebbe.” –Commentò Polemos, chiudendo le dita
sul pugno del Cavaliere e lasciando esplodere una violenta scarica di energia,
che scaraventò Sirio indietro, di nuovo contro una parete di roccia. Di nuovo
schiantandosi dentro la parete stessa.
Quando
riuscì a rimettersi in piedi, il ragazzo notò con orrore che il guanto
protettivo della corazza del Drago era andato in frantumi, disintegrato da
un’energia rovente che gli aveva ustionato persino le dita.
“Se
avessi voluto mozzarti la mano avrei potuto farlo.” –Chiarì Polemos.
–“Anzi potrei farlo! Posso farlo in qualsiasi momento, così come posso
abbatterti, vincerti, schiantarti a terra fino a triturare ogni singola ossa
del tuo corpo di Cavaliere, se è questo che desideri! Perché mi sembra proprio
che tu stia anelando lo scontro!”
“Non
l’ho mai voluto!!! Ma tu e i tuoi scagnozzi avete attaccato quest’oasi di pace
ed è mio dovere difenderla, in nome di un amico cui sono fedele!”
“Oh
già, il Grande Mur dell’Ariete! Era suo il cosmo che
si è spento mezz’ora fa?” –Ridacchiò il Dio, suscitando la collera di Sirio,
che espanse il cosmo, preparandosi per scagliare il proprio colpo segreto. Ma
quando fece per muovere il braccio destro si accorse che Polemos
era già di fronte a lui, il dito indice a sfiorargli il pettorale dell’Armatura
Divina proprio all’altezza del cuore. Laddove era celato l’artiglio del drago.
“Io
non lo farei!” –Sussurrò, mentre una minacciosa aura amaranto andava sempre più
espandendosi dal polpastrello del dito, surriscaldando la corazza e generando
in Sirio subitaneo terrore.
Paralizzato
da quella repentina presa di posizione, il Cavaliere esitò per un momento,
dando modo a Polemos di travolgerlo da vicino con una
violenta esplosione energetica che, quella volta, non lo scagliò contro la
montagna, ma lo inchiodò sul posto, esponendolo in prima linea all’onda d’urto
nemica. Travolto da indescrivibile potenza, Sirio gridò, le braccia spalancate
e inermi, i lunghi capelli neri che svolazzavano randagi all’indietro,
incendiandosi in più punti, l’Armatura Divina che ardeva, scricchiolava,
fremeva e infine si ricopriva di crepe. Urlò con tutto il fiato che ebbe in
gola, sentendo il corpo schiacciarsi, sottoposto a sfibrante pressione, finché
il Dio non ridusse l’intensità del proprio assalto, lasciando che il ragazzo si
accasciasse a terra, crollando esausto sulle ginocchia.
Solo
allora gli sfiorò il mento con un dito, lo stesso che aveva usato per
prostrarlo, pizzicandogli la pelle con lo stesso calore.
“È
bastato un dito per sfatare tante leggende! Come eroe leggendario non vali poi
molto!” –Sussurrò, premendo sulla bazza del ragazzo e forzandolo a guardarlo in
faccia. –“Pensa cosa potrei fare adesso!”
“Che… cosa vuoi?!” –Rantolò Sirio, incapace di reagire.
“Niente.”
–Commentò sibillino Polemos, lasciando la presa e
allontanandosi di qualche passo, dando le spalle allo stupefatto e stranito
Cavaliere di Atena. –“Dovresti averlo capito ormai! Io non amo perdere tempo! Le
distrazioni, le inutili divagazioni, i giochi e gli intrighi li lascio ai
burocrati, ai giullari, ai leccapiedi di corte, preferendo andare subito al
cuore di un problema! Per questo sono intervenuto, quando ho capito che Lethe e Horkos non sarebbero
stati in grado di portare a termine la missione! Come sono solito affermare, se
vuoi che una cosa sia fatta bene devi farla tu stesso, non affidarla ad altri,
tanto più a scadenti galoppini figli di una di nuovo defunta Divinità!”
“Perché
attaccare la colonia di Mu? Cosa vi ha fatto questo
popolo pacifico?!”
“Punto
primo: questo non è un popolo pacifico. Nessun popolo lo è. Forse non sai che
sono stati proprio questi muriani, o come si
chiamano, a creare le corazze che indossate, permettendo ad Atena di combattere
tutte le Guerre Sacre e a così tanti giovani di morire inseguendo fatui sogni
di pace. Punto secondo: non è niente di personale, ma stiamo solo cercando
informazioni utili. Non appena Chimera le avrà trovate, ce ne andremo!”
“E io dovrei rimanere ad aspettare? Restare a guardarvi distruggere, uccidere,
inquinare questa colonia perduta?!” –Avvampò Sirio, rimettendosi a fatica in
piedi.
“La
risposta corretta dovrebbe essere un sì, ragazzo. Dovresti aver capito che non
puoi fermarmi!”
“E
tu dovresti sapere che la boria in battaglia non aiuta! Molti nemici ci hanno
sottovalutato ma siamo sempre riusciti a far cambiare loro idea!”
“Sì,
sì, lo so! Tutti a credervi Cavalieri di Bronzo e invece avete fatto carriera
in fretta, superando i beneamati Cavalieri d’Oro e scardinando una
tripartizione gerarchica vecchia di millenni! Storia ben nota, ormai! Come ti
ho detto, vi ho osservato! Ma tu, invece, non sai niente di me, altrimenti non
tenteresti neppure di attaccarmi perché sapresti che nessuna tecnica è efficace
contro Polemos!”
“Anche
Orion diceva parole simili, eppure lo abbiamo
sconfitto!” –Tuonò Sirio, espandendo il proprio cosmo color verde acqua.
“Orion non era la personificazione della guerra!” –Si limitò
a rispondere il Dio, mentre il Cavaliere scattava avanti, liberando il Colpo segreto del Drago Nascente. –“E
tu non lo sei della scaltrezza!” –Ironizzò, mentre l’assalto luminoso gli
sfrecciava accanto, sollevandogli il mantello e poi perdendosi nel cielo
lontano.
“Co… come ha fatto? L’ha evitato semplicemente spostandosi?
Eppure era un colpo alla velocità della luce!” –Mormorò l’allievo di Libra.
“Colpo
che, come ti ho detto, già conoscevo! E ora, a meno che tu non voglia tirar
fuori il tuo vetusto repertorio di tecniche, comprendente Excalibur, Drago
Volante, Cento Draghi e quel colpo suicida detto Pienezza del Dragone, ti
consiglio di rinunciare. Ne dimentico qualcuno? Ah sì, il Fuoco del Dragone,
che non può certo dirsi una tecnica da battaglia e le Acque della Cascata, che
potrebbero allarmare un apprendista ma certo non il demone della guerra!”
“Conoscere
le mie tecniche non significa essere in grado di evitarle! Soprattutto se sono
doni divini in grado di scindere le stelle!” –Replicò Sirio, sollevando il
braccio al cielo e scagliando un rapido e preciso fendente di energia verso
l’avversario, che di nuovo lo schivò spostandosi a destra.
Irritato,
il Cavaliere di Atena ripeté l’assalto, muovendo l’arto in direzioni diverse in
modo da generare decine e decine di piani energetici, che Polemos
seppe scansare uno dopo l’altro, fintantoché ne ebbe voglia. Poi, stanco per
quel gioco infantile, mosse a sua volta il braccio destro, fermando l’ultimo
attacco con un equivalente fendente di energia.
“Co… cosa? Come puoi contrastare Excalibur?!”
“Non
è che una lama di puro cosmo, in fondo! Possono averla anche forgiata i druidi più
sapienti ma non è la lama ad essere protagonista di leggende, quanto chi la
impugna!” –Precisò il Dio, spingendolo indietro e aprendogli un taglio sulla
corazza al centro dell’avambraccio. –“Ci sono molte spade famose che spesso
associamo a eroi storici o mitologici, ma credimi, nessun’arma è in grado di
impensierirmi, poiché già tutte le ho provate! Tutte le ho smussate! Le vuoi
conoscere? Eccole! Nell’ordine, Durlindana, Caladbolg,
ClaíomhSolais!”
–Esclamò, sollevando un braccio al cielo mentre migliaia di strali lucenti
piovevano su Sirio, mitragliandolo sulla schiena, sull’elmo e sul petto. –“Ne
dimentico qualcuna? Ah sì, Fragarach! Gramr (del tuo amico Orion)! Tizona!!! Come ti ho detto, sono solo spade! Ma tagliano!
Oh, se tagliano!” –Ironizzò, le labbra torte in un sorriso furbetto.
“Come
puoi controllarle tutte?!” –Sgranò gli occhi Sirio, agitando lo scudo nel
disperato tentativo di difendersi.
“Perché
tutte mi appartengono! Siano spade, lance o dardi, siano tecniche fisiche o
spirituali, io tutte le conosco, le so vedere, capire, contrastare! E, se voglio,
anche replicare! Perciò rinuncia, Dragone! Non hai speranza alcuna contro di
me! Nessuno di voi Cavalieri dello Zodiaco l’avrebbe!” –Chiosò il Nume,
muovendo il bracciodi lato e scagliando un ultimo poderoso
fendente che si abbatté sulla spalla di Sirio, frantumandone la protezione e
piegandolo a terra.
È…incredibile… Quest’uomo è fortissimo! Anzi no, non è un uomo… Non c’è niente di umano in lui, nel suo muoversi, nel
suo guerreggiare! Egli è un Dio a tutti gli effetti! Come Nettuno, Ade e Ares,
e forse persino più di loro! Rifletté
Sirio, piegato sulle ginocchia, la mano destra poggiata sulla spalla
sanguinante, nel tentativo di fermare l’emorragia. Èstato così difficile aver
ragione di quegli antichi demoni! Persino in cinque abbiamo faticato! Come
posso affrontarne uno da solo? Pegasus, amici, vorrei che fossimo insieme!
“Come
puoi farlo?! Elevandoti al suo stesso livello e divenendo un Dio a tua volta,
ragazzo mio!” –Parlò allora una voce direttamente al cuore del Cavaliere.
“Questo
cosmo… Maestro!!! Dove siete?”
“Lontano,
Sirio, lontano dalle fresche acque che per due secoli mi hanno dato conforto e
sicurezza! E temo che non ci vedremo più!”
“Maestro
che cosa è successo? Perché questo tono funebre?!”
“Sirio,
ascoltami bene! Polemos è avversario insidioso,
grazie al suo rango divino e alla sua completa conoscenza di ogni arte o
tecnica bellica, per questo l’unico modo per affrontarlo è superarlo in
potenza! Il Nono Senso, ragazzo, già alberga dentro di te, lo hai sfiorato più
volte durante le battaglie precedenti! Devi solo riuscire a controllarlo, a
dominare l’esplosione energetica dentro di te senza lasciarti sopraffare!
Innalzati, Drago d’Oriente, e illumina il mondo con lo splendore delle tue
scaglie di giada!” –Mormorò Dohko, la cui voce andava
facendosi sempre più fievole.
“Maestro,
non lasciatemi! C’è ancora così tanto che desidero sapere, tanto che desidero
apprendere!!!”
“Ti
ho insegnato tutto quel che sapevo, Sirio, e sei diventato il Cavaliere che io
non sono mai stato ma che ho sempre sognato di addestrare! Sei stato l’allievo
migliore che abbia mai avuto ed è stato un onore essere il tuo maestro! Addio,
amico mio, io ti sosterrò da lontano, sempre al tuo fianco nella lotta contro
l’oscurità!” –Concluse Libra, prima che il suo cosmo svanisse, dissolvendosi in
un mare di ricordi.
“Ma…estro…” –Pianse Sirio,
conscio di quel che era accaduto. –“Dohko…”
Al
pensiero di lui, della sua tragica fine, il Cavaliere strinse i pugni, chiudendoli
entrambi, anche quello ferito dal calore cosmico di Polemos,
percependo per la prima volta una nuova fiamma baluginare dentro sé. Una fiamma
amica, che aveva vegliato su di lui per tanti anni, osservandolo divenire
Cavaliere e uomo.
“Brucia
il tuo cosmo, Sirio! Risveglia il Nono Senso e controllalo! Raggiungi quel
livello, il livello degli Dei, e domina l’esplosione energetica dentro di te!
Atena non se ne avrà a male. Non stavolta!”
Ricordò
le ultime parole di Libra, e adesso le comprese. Adesso che sentiva fluire
dentro sé l’ultima stilla di cosmo del Cavaliere d’Oro, assieme alla sua
saggezza, alla sua pazienza e alla sua mai venuta meno fiducia nel domani.
“Per
voi maestro! Per voi tenterò ancora!!!” –Esclamò il ragazzo, rialzandosi,
avvolto in una luminescente aura di color verde acqua.
“Quale
energia!” –Commentò allora il Demone della Guerra, esaminando interessato il
mutamento in atto nel suo cosmo, un espandersi vasto e vigoroso, fino ai limiti
estremi dell’universo. –“E forse oltre!” –Aggiunse, comprendendo quel che il
Cavaliere stava per fare.
“Polemos!!!” –Lo chiamò Sirio, mentre una colonna di energia
cosmica sorgeva attorno a lui, inglobandolo poco dopo. –“Hai detto che conosci
ogni tecnica e colpo segreto! Ti do atto di questa verità! Ma tu dovrai darmi
atto che conoscere non significa riuscire ad evitarla! Non quando il Drago ruggisce
in un boato di stelle!!! Atena, perdonami se puoi, ma devo farlo!!! Pienezza del Dragone!!!” –Gridò il
ragazzo, dirigendo un impetuoso torrente di energia allo stato puro contro
l’avversario, che lo osservò ammirato e persino un po’ stupito.
“Meraviglioso…” –Giudicò Polemos,
plaudendo il modo in cui il Cavaliere di Atena era riuscito a controllare un
potenziale energetico così distruttivo e instabile come il suo massimo colpo
segreto. Un risultato frutto di anni di addestramento e migliorie che lo aveva
portato, al pari dei suoi amici, a controllare l’ultimo stadio della
conoscenza. –“La capacità di trascendere l’umano e divenire un Dio.” –Annuì il
Demone della Guerra, espandendo il proprio cosmo, il più vasto che Sirio avesse
mai percepito, persino superiore a quello delle massime Divinità che aveva
incontrato. Ma anziché usarlo per contrastare l’assalto nemico, non ottenendo
altro risultato che generare una devastante esplosione che avrebbe annientato
non solo loro due ma l’intera catena montuosa che li attorniava, Polemos sfruttò la EskatosDunamis per creare un corridoio di energia, all’interno del
quale la Pienezza del Dragone confluì, quasi scivolò, venendo presto
indirizzata verso un nuovo obiettivo.
“Ma
cosa…?!” –Mormorò Sirio, osservando il fiume
energetico verde e amaranto incurvarsi lentamente, fino a virare verso il
fianco della montagna. Troppo tardi comprese quel che Polemos
aveva in mente, quando già la massa di energia esplose, riducendo in frantumi
l’intero rilievo.
Una
pioggia di rocce, sassi, neve e ghiaccio si abbatté su Sirio, con un impeto e
una rapidità immani da non permettergli di allontanarsi, indebolito e fiaccato
dallo scontro e dall’enorme concentrazione necessaria a stabilizzare il proprio
colpo massimo. Ebbe solo il tempo di voltarsi verso Polemos
e osservarlo annuire compiaciuto, mentre quel che restava di Dhaulagiri franava su di lui, seppellendolo.
“Onore
a te, Cavaliere del Dragone! Ti sei dimostrato degno di rappresentare una delle
sacre bestie dell’Oriente! Saggezza e forza non ti mancano, né la capacità di
utilizzare entrambe con equilibrio!” –Commentò il Dio ancestrale, voltandogli
le spalle, attirato dall’avvicinarsi frenetico di passi svelti. –“Ma non sempre
la moderazione è la via per la vittoria. A volte lo è per l’estinzione.”
“Mio
Signore!!!” –La voce schietta di Chimera lo raggiunse in quel momento, mentre
il giovane guerriero sbucava fuori dall’altro versante della distrutta
montagna, portando un grosso fagotto con sé. –“Abbiamo ciò per cui siamo
venuti!”
Polemos
non ebbe bisogno di ulteriori informazioni, sorridendo compiaciuto prima di
allontanarsi e dare un ultimo ordine al suo servitore.
“Molto bene! Distruggi il resto! In guerra non
esistono testimoni!”
Chimera annuì con una morbosa luce di soddisfazione
negli occhi. Si voltò verso il sentiero che conduceva alle profonde caverne
dove tuttora i combattimenti erano in atto e sogghignò. Le Amphilogie
non erano riuscite a prendere possesso dell’intera colonia, a causa di
un’imprevista ondata di orgoglio che aveva invaso i discendenti di Mu, spingendoli a lottare fino alla fine per difendere la
loro terra. Ma a Chimera non importava, né delle prime né dei secondi, poiché
quel che a loro serviva già lo stringeva sotto braccio, nonostante i gemiti
doloranti della donna.
Bruciò il proprio cosmo, prima di balzare in alto,
piegando le gambe in modo da avvicinare le ginocchia al petto, e poi puntò verso
il suolo, affondandovi dentro con forza dirompente, imprimendovi l’ardente
fiamma del suo cosmo.
“Zoccolo
della capra infernale, scatena la tua temibile collera!!!”
Un attimo dopo il suolo tremò, espandendosi a
raggiera tutto attorno alla Montagna Bianca e per molti chilometri attorno.
Quel che la Pienezza del Dragone non aveva abbattuto, crollò adesso, sospinto
da una furia assassina che fece strage di ogni difesa. Uomini, donne, bambini,
combattenti di ambo le fazioni, tutti vennero sommersi dal roboante inferno che
piovve su di loro, di fronte al divertito sguardo di Chimera, fiero e solerte
nell’eseguire gli ordini del Lord Comandante.
Sì, adesso poteva definirlo tale. Dopo il successo
della loro missione, dopo il recupero della chiave per distruggere i Cavalieri di
Atena, dell’Olimpo e di chiunque avesse avuto abbastanza fegato, o follia, da
osare sfidarli. E lei ne sarebbe stata soddisfatta.
Oh sì! Mormorò il guerriero, mettendosi
in spalla il fagotto e seguendo il Demone della Guerra verso la loro dimora. Lei sarebbe proprio stata fiera di loro!
***
Per
un tempo che non seppe definire credette di essere
morto.
Non
sentiva più niente, né riusciva a percepire alcunché, al di là della tenebra infinita
in cui era immerso. Poi, lentamente, iniziò a muovere le dita, faticando nel
piegarle ma capendo di essere vivo, e che i ruvidi granuli che gli raschiavano
la pelle erano terriccio. Allora ricordò il combattimento, l’esplosione dei
loro cosmi e il crollo della montagna.
La colonia di Mu... Mormorò Sirio, temendo il peggio per il popolo
nascosto che, di certo, aveva conosciuto il suo stesso destino. O forse peggio, si disse, ringraziando
la protezione dell’Armatura Divina che, sia pur deteriorata, gli aveva permesso
di non morire. Devo… uscire da qui sotto…
verificare se ci sono superstiti, feriti, aiutarli…
Rifletté, iniziando a bruciare il proprio cosmo, sebbene il solo tentare gli
strappasse dolori atroci, ai muscoli, alle ossa, nonché violente fitte alla
testa.
Il
suo corpo era al limite, e forse lo aveva persino già superato. Riuscire a
controllare l’intensa fiamma della Pienezza del Dragone, dominare quel potere considerato
prerogativa degli Dei lo aveva sfinito e, se non fosse stato per il tepore del
cosmo di Libra, che gli aveva donato le ultime energie, ne sarebbe stato
sopraffatto.
D’un
tratto gli sembrò che il peso dei massi franati sulla sua schiena diminuisse. O forse sono io che a poco a poco sto
morendo? Rantolò Sirio, faticando a respirare in quell’oscura e desolata
prigionia sommersa. Poi la sensazione si fece più evidente, la zavorra che lo
schiacciava a terra parve davvero farsi più leggera e, d’un tratto, vide
persino un raggio di luce. Debole e lontano, ma preciso e pungente.
Pochi
attimi più tardi lo raggiunse una voce amica, una voce che temeva di non poter
udire di nuovo. Una voce che lo incitava a rialzarsi, finalmente libero.
“Sirio!!!
Stai bene? Ti ho trovato per miracolo… il tuo cosmo è
al lumicino, appena percettibile…” –Esclamò il Grande
Mur, aiutandolo a uscire dai detriti della valanga.
“Mur… sto bene, e tu? Credevo di averti perduto!” –Rispose
Sirio, notando preoccupato l’aspetto malmesso del Custode della Prima Casa.
Ferito, con la corazza scheggiata in più punti e grumi di sangue che la ricoprivano,
aveva persino tagli aperti sul volto e ciuffi sparsi dei suoi lunghi capelli
viola gli erano stati strappati via. –“E la tua gente? Che ne è della colonia
perduta?!”
A
quelle parole il Cavaliere di Ariete non rispose, assumendo un’espressione
greve, carica di colpa per il proprio fallimento. Strinse i pugni, dando le
spalle a Sirio e incamminandosi in silenzio laddove un tempo esisteva il
sentiero che conduceva al cuore della Montagna Bianca. Adesso non c’era più
niente, solo un nuovo rozzo rilievo formato dal terreno crollato e ammucchiatosi
caoticamente, sommergendo tutto quel che Dhaulagiri
celava. Antichi segreti andati per sempre perduti.
“Mi…dispiace… Avrei voluto fare
di più, aiutarti…”
“Non
dolertene, Cavaliere! Hai dato il massimo, come sempre, affrontando un
avversario insidioso che neppure la forza di dodici Cavalieri d’Oro avrebbe
potuto contrastare! Ti ringrazio, amico mio!” –Si sforzò di sorridere Mur, la voce per la prima volta incrinata da un così acuto
dolore da rendere difficile persino parlare. –“Mia è stata la colpa! Io li ho
condotti qua, vittima di un incantesimo che non sono stato in grado di
percepire, di un’ombra che mi ha obnubilato la mente, spingendomi a vedere solo
i miei timori, senza accorgermi del resto del mondo! Avrei dovuto saperlo, ma
per una volta l’ho rimosso, i doveri di un Cavaliere, il suo sacro compito,
esulano da faccende personali!”
“Salvare
gli altri è il dovere di un Cavaliere! E sono sicuro che Atena capirebbe,
persino approverebbe, lo spirito che ti ha guidato fin qua!” –Cercò di
consolarlo Sirio, senza riuscirvi troppo.
Fu
allora che uno scricchiolio sommesso li raggiunse, spingendoli a voltarsi verso
il caotico ammasso di rocce, terriccio e grumi di neve, osservandolo muoversi
ancora, scivolare verso il basso, rotolare via, mentre qualcosa di
indefinitamente grosso, persino di enorme, sorgeva dal cumulo di macerie.
“Ma… cosa?!” –Borbottò Sirio, sollevando le braccia in
posizione difensiva, temendo un qualche nuovo trucco di Polemos
e Chimera.
“Non
è possibile!!!” –Esclamò allora Mur, con un guizzo di
sorpresa e felicità nel tono. –“Gli abitanti di Mu…”
–Osservò, indicando il campo difensivo che adesso baluginava di fronte a loro,
un muro quasi trasparente dietro il quale un centinaio di sagome umane, ferite
e malconce, sorridevano loro di rimando.
I
due Cavalieri di Atena corsero loro incontro, mentre questi si accasciavano,
sudando e tremando per l’enorme sforzo sostenuto. Il primo tentativo di coordinare
i loro poteri mentali per proteggere le loro famiglie, e il futuro della
colonia, dalla furia involontaria della Montagna Bianca.
“Mu…Mur…” –Rantolò un giovane,
che l’Ariete riconobbe come il nipote di Rasha. –“Abbiamo… cercato di fare il possibile…
Non siamo guerrieri, molti di noi non ce l’hanno fatta. Lo sforzo mentale li ha
sopraffatti!”
Il
Custode del Primo Tempio annuì, osservando i volti stanchi dei sopravvissuti,
leggendo nei loro occhi la stanchezza per la prova sostenuta, la tristezza per
la perdita degli amici e dei propri congiunti, e anche l’incertezza sul loro
futuro, sul destino di quell’antica comunità adesso spazzata via. Prima che Mur potesse confortarli, il nipote di Rasha
gli afferrò una mano, costringendolo a guardarlo negli occhi.
“Mi…dispiace… L’hanno presa!”
–Poi svenne.
Solo
allora, passando in rassegna coloro che erano riusciti a salvarsi, il Cavaliere
di Ariete notò che sua madre non era tra loro.
Ripensò
alle parole di Rasha, a quel che aveva tentato di
dirgli, al segreto ultimo sulla forgiatura delle armature, e infine capì qual
era stato lo scopo di quell’assalto. E le parole di Sirio poco dopo
confermarono i suoi dubbi.
“Dobbiamo
rientrare ad Atene!” –Convennero allora i due Cavalieri. –“Atena deve essere
informata all’istante!”
Capitolo 36 *** Capitolo trentaquattresimo: Cala la notte. ***
CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO: CALA LA NOTTE.
Pegasus
non capiva.
Le
parole di Isabel erano enigmatiche. In quale modo, quel ragazzino dai tratti
così simili ai suoi, che da alcuni giorni gli appariva in visione, poteva
essere il primo Cavaliere di Pegasus? Il primo che aveva vestito la storica corazza
della costellazione dalle tredici stelle. E poi, se davvero lo era, perché
aveva iniziato a tormentarlo con quelle apparizioni improvvise?
Le
risposte fu difficile averle, perché Isabel pareva reticente a parlare di
quella storia. A parlare di sé. E
Pegasus capì che non si riferiva alla donna in cui si era reincarnata anni
addietro, bensì alla vera sé. Alla Dea.
“Quello
che sto per dirti potrebbe cambiare tutto. Tra noi intendo, Pegasus. Sei
davvero sicuro di volerlo udire?”
“Certo
che voglio sapere! E lascia che sia io a giudicare!” –Le rispose il ragazzo,
osservando quanta compostezza conservasse ancora il delicato viso della Dea che
amava. Anche dopo lo scontro con Ares, la stanchezza e le ferite. Non soltanto
quelle fisiche.
“È
una complessa storia che risale al Mondo Antico, tempi forse più miti ma non
per questo più felici. Anche all'epoca, d'altronde, uomini e Dei combattevano.
Tra di loro e contro di loro. E io avevo appena sconfitto Nettuno nella prima
Guerra Sacra, quella che si concluse con l'inabissamento di Atlantide.”
“Quando
vennero create le armature... dei Cavalieri di Atena...” –Mormorò Pegasus,
ricevendo un cenno d'assenso con il capo.
“Precisamente!
Un gesto resosi necessario dalle capacità offensive dei Generali degli Abissi
che, se non li avessimo fermati, avrebbero invaso l'Attica, annettendola al
Regno dei Mari. Pare bizzarro pensarlo, ma a quel tempo Nettuno sognava di
possedere la Terra, e non di affogarla in un nuovo diluvio universale!” –Sospirò
la Dea, prima di riprendere. –“Tra i tanti Cavalieri vi era un giovane di nome Bellerofonte, resosi grande in tutta la penisola greca per
le sue mirabili imprese, in particolare l'uccisione della terribile Chimera, un
mostro di origini divine che imperversava nell'odierna Turchia. Fu il primo a
vestire la corazza di Pegasus, ma fu anche colui che la ispirò, colui che mi influenzò
nella scelta del simbolo. Il bianco cavallo alato in grado di non arrendersi
mai, in grado di spingersi sempre più in alto con il solo sbattere delle sue ali,
con le sue sole forze. Uno spirito libero, un uomo faberfortunaesuae
che ha lasciato alla corazza, e a coloro che l'hanno indossata in seguito, una
parte di sé.”
“Una
parte... in me?!” –Sgranò gli occhi Pegasus, guardandosi attorno, a cercar
tracce di quel Cavaliere. Ma non vide nessuno, soltanto la desolazione del
Settimo Cerchio dove gli ultimi roghi di Ares stavano ormai estinguendosi.
“Proprio
così. E non mi sto riferendo soltanto al carattere, alla determinazione che ti
contraddistingue, ma a qualcosa di più intimo. Qualcosa di più personale.” –Arrossì
Atena, distogliendo per la prima volta lo sguardo. –“Bellerofonte,
proprio come te, amava la sua Dea!”
“Io...
Isabel...” –Pegasus fece per avvicinarsi ma Atena lo fermò, sollevando una mano
e pregandolo di farle terminare quella scomoda confessione.
“Lo
avevo dimenticato, persino rimosso dalla mia coscienza divina, forse perché per
molto tempo mi sono vergognata dei miei pensieri, dei pensieri di una Divinità destinata
ad essere vergine, per non concedersi a nessun uomo, in modo da poter essere la
Dea di tutti i Cavalieri, nessuno escluso. Una madre quasi, di certo non una
ragazzina innamorata. L'amore l'ho lasciato ad altri; ad Afrodite, che
nonostante l'affetto di Efesto riuscì comunque ad
unirsi ad Ares, per generare i figli che poi l'han massacrata. Ad Era, che in
silenzio ha sofferto per secoli di fronte alle scappatelle del suo fratello e
sposo. Ad Eos e a Selene, che in un uomo mortale
hanno trovato la felicità, l'altra parte della mela, in grado di completare la
loro esistenza. A volte le ho invidiate, è sciocco, lo so, la mia vita non è
certo in virtù di un appagamento carnale o sentimentale, bensì destinata a
qualcosa di molto più elevato. La salvezza del genere umano. Eppure, a volte, di
fronte all'altrui felicità, ho avuto modo di chiedermi... se anch'io... in
un'altra vita... non avessi potuto essere diversa.”
“E
in quell'altra vita... eri sola?”
“No,
Pegasus. Ero con l'unico uomo per cui il mio cuore abbia mai battuto, l'unico
per cui abbia provato emozioni, che non siano il rispetto e l'autorità
impostami dal mio rango.” –Confessò infine Atena, concedendosi un sorriso
genuino. –“In quella vita Pegasus ero con te! Tu sei Bellerofonte,
l'eroe che uccise la Chimera cavalcando il destriero alato! Lui rivive in te,
come in tutti i Cavalieri di Pegasus che ti hanno preceduto! Lo avevo
dimenticato e solo il tocco di Avalon me lo ha fatto tornare in mente,
riportando in vita sepolte emozioni. Non so di cosa si tratti, Pegasus, di
quale maleficio, ma entrambi ne siamo coinvolti.”
“Non
definirlo in questo modo, Isabel. La nostra unione non è una maledizione,
soltanto amore.” –La rassicurò Pegasus, afferrandole una mano. –“Perché di
questo si tratta, non è vero? Amasti Bellerofonte ai
tempi del mito, nello stesso modo in cui lui amò te.”
Atena
annuì, inghiottendo quell'amaro boccone di realtà che non avrebbe mai creduto
di dover assaporare nuovamente. Non dopo tutto quel tempo, non dopo secoli di
silenzio, secoli passati a chiedersi se non avrebbe potuto fare qualcosa per
salvarlo. Da se stesso e dal loro amore.
“Bellerofonte comprese i miei tormenti, il dissidio che mi
lacerava l'anima, combattuta tra ciò che dovevo fare, in quanto Dea Vergine,
Dea della Guerra, Dea della Giustizia e degli Uomini tutti, e ciò che in fondo
al cuore avrei voluto. Comprese e se ne andò, condannandosi a una vita di
privazioni, vittima di una maledizione che aveva il nome di amore, la stessa
che grava adesso su di te, Pegasus! E anche questo dolore, come altri che ti ho
inflitto, è a causa mia!”
“Stai
scherzando, vero?” –Le disse prontamente il Cavaliere dello Zodiaco. –“Se
davvero in un tempo lontano siamo stati amanti, come può un sentimento simile,
così forte da trascendere persino il tempo e scivolare fino a noi, agli albori
di un nuovo millennio, essere una maledizione? È un'opportunità, Isabel. La
nostra opportunità.”
“Io...
non sono più Isabel, Pegasus!” –Cercò di divincolarsi la figlia di Zeus, ma il ragazzo
la tenne stretta per il braccio, tirandola a sé. Faccia contro faccia.
“Lo
so. Sei la Dea. La mia Dea.” –E la baciò.
***
L'ondata
scatenata da Avatea allagò l'intero Cerchio di Marte,
suscitando un lieve disappunto nel suo custode, percepibile solo dal corrugarsi
della sua fronte.
“Mi
dispiace invadere il tuo terreno di caccia, Sin, ma si è rivelato un gesto
necessario per mondare il reame beato da coloro che hanno tentato di
invaderlo.” –Commentò placida l’anziana protettrice del Terzo Cerchio.
“Lo
capisco.” –Si limitò a risponderle Sin, osservando dall'alto del muro di
confine la fiumana d'acqua sommergere i corpi carbonizzati dei Phonoi e delle Androctasie che
avevano avuto l'ardire di affrontarlo. Poco distante anche il cadavere di
Alala, in fondo a un avvallamento nel terreno, venne inghiottito dalle acque,
che di certo trovarono facile strada verso il Cerchio di Giove, defluendovi
poco dopo.
A
un cenno della Divinità oceanica, le limpide correnti si ritrassero, riportando
alla luce i domini di Sin degli Accadi, privi adesso di qualsiasi cadavere, risucchiato
nella profonda serenità degli abissi su cui Avatea
imperava.
“Lo
apprezzo.” –Esclamò il Selenite di Marte, strappando un sorrisetto alla
parigrado, prima di muoversi per scendere dal muro.
La
guerra era finita, ed era stata un'esperienza meno traumatica di quanto Selene avesse creduto all'inizio. Di nove Seleniti, solo
quattro erano morti, e sull'ulteriore longevità di tre di essi nessuno avrebbe
scommesso. Di Thot invece a Sin dispiaceva. Per
quanto fosse più uno studioso che un guerriero, aveva notevole discernimento ed
era stato in grado di organizzare al meglio la difesa del suo cerchio,
sacrificandosi per la causa. Doti che il Selenite di Marte ben apprezzava in un
combattente.
I
cerchi esterni erano stati distrutti e le mura che li delimitavano avrebbero
dovuto essere ricostruite, un compito di cui Selene
avrebbe potuto occuparsi tranquillamente in un momento di riposo. Né l'Occhio
né il Palazzo Reale erano stati raggiunti, per cui la Dea della Luna poteva
dirsi soddisfatta. Sebbene, e questo a Sin era chiaro più che a qualunque altro
superstite, quest'ottimo risultato era stato raggiunto solo ed esclusivamente
grazie all'intervento dei Cavalieri di Atena e di Avalon.
Loro,
in prima persona, si erano sporcati le mani, feriti e macchiati di sangue, per
affrontare Ares ed Eris, Alala e le altre Makhai. Se
non fosse stato per il loro aiuto, Sin avrebbe dovuto fronteggiarli al Cerchio
di Marte e non si sentì affatto certo che sarebbe riuscito a tenerli tutti a
bada. Sospirando scocciato per quell'ipotetica ammissione di debolezza, volse
lo sguardo in direzione della grande cupola di vetro che si stagliava al centro
del regno, sicuro che Selene fosse ancora laggiù, a
piangere tra le braccia dell'amato, come se fiumi di lacrime fossero in grado di
arrestare la furia degli invasori. Almeno
la fiumana di Avatea ben più devastanti effetti
possiede! Ironizzò, augurandosi che da quell'esperienza la Dea della Luna
potesse trarre utili insegnamenti in quanto a strategie difensive. Nessun regno è un'isola! Commentò il
focoso Selenite, prima che una voce nota lo chiamasse.
“Sin!!!”
Era
Andromeda, che lo raggiunse correndo assieme ad un altro Cavaliere di Atena, i
cui capelli blu lo identificarono come l'immortale Fenice. Un personaggio al
cui fianco Sin avrebbe volentieri combattuto e, perché no, gli avrebbe persino
concesso l'onore di sfidarlo, per vedere quale fiamma avrebbe potuto ardere in
più sempiterno rogo.
“Sono
lieto di rivedervi sani e salvi, Cavalieri di Atena! E vi ringrazio per aver
lottato con noi, e per noi, quest'oggi!”
“Grazie
a te di avermi aiutato quand'ero in difficoltà!”
“Fai
tesoro di ogni insegnamento, Andromeda, anche di quelli più noiosi da udire.
Del resto un uomo si rivela grande proprio nel fare le cose che odia di più,
non trovi?!”
Andromeda
annuì, mentre il fratello gli metteva una mano nei capelli, arruffandoglieli,
come usava fare fin da quando erano bambini, strappandogli ogni volta un gemito
di protesta e una risata.
“Dov'é
Pegasus? E Atena? Stanno bene, fratello?”
“Non
ho dubbi al riguardo!” –Commentò Phoenix, prima di proporre ad Andromeda di
accompagnarlo ai cerchi di Giove e Saturno, dove si trovavano i Cavalieri delle
Stelle e gli ultimi difensori della Luna. Ma prima che potessero muoversi un
urlo li distrasse, portandoli a voltarsi verso la cima del muro che separava il
Cerchio di Marte da quello della Terra.
“Avatea!!!” –Esclamò Sin, osservando l'anziana donna
crollare giù.
Senza
pensarci due volte, il Selenite di Fuoco sfrecciò verso di lei, afferrandola
appena in tempo prima che si schiantasse al suolo e muovendo la bocca per
chiederle cosa fosse accaduto. È vecchia,
d'accordo, ma la sua forza non è mai venuta meno. Possibile che generare
quell'ondata purificatrice l'abbia fiaccata a tal punto da non reggersi
neppure...? Ma non riuscì a formulare alcuna domanda che anch’egli dovette
accasciarsi a terra, di fronte agli sguardi attoniti di Phoenix e Andromeda,
che fecero per soccorrerlo salvo accorgersi di provare anche loro quel che
sentivano i Seleniti.
Un'enorme,
terribile oscurità gravava all'improvviso sui loro cuori, così profonda, così
nera, come mai l'avevano percepita. Una tenebra in grado di spegnere ogni forma
di luce. La sentirono tutti, sull'intero territorio lunare, accasciandosi uno
dopo l'altro, tra grida di terrore e smorfie di rabbia per quel silenzioso
attacco.
Nell'Occhio
le figlie di Selene strillarono all'impazzata,
correndo di stanza in stanza, quasi potessero in quel modo fuggirne, fino a
crollare esauste sui pavimenti di marmo bianco. La Dea della Luna trasalì,
gettandosi sul corpo svenuto dell'amato Endimione,
offrendosi come scudo a un suo eventuale carnefice.
“Che
succede? Che succede ancora?!” –Schiamazzò, inascoltata.
Avalon
guardò Asterios negli occhi, ed entrambi capirono,
rabbrividendo all'istante.
“Non
è possibile!!!” –Gridò il Principino della Luna, sollevando lo sguardo verso il
cielo, e notando soltanto adesso che non vi erano più stelle.
“Lei è qui!” –Commentò Avalon.
“L'origine
di tutti i mali. La madre della tenebra più nera, da lei stessa procreata!
Colei che stavamo aspettando!”
“Dunque ci siamo! La sua discesa in campo segna
l’ultima tappa del nostro cammino! È tempo che i Quattro si riuniscano!”
–Chiarì il Signore dell’Isola Sacra.
In
quel momento l'Occhio andò in frantumi e mentre una pioggia di vetri cadeva su
di loro, Avalon vide enormi serpi d'oscurità violare quel recinto che finora
aveva resistito. Non seppe definirle diversamente, non avendo forma precisa, essendo
solo sagome di tenebra, come quelle che Flegias aveva
evocato mesi addietro sull'isola del Mediterraneo, ma in forma molto più vasta
e temibile. E soprattutto molto più oscura.
“Stella di Avalon!!!” –Tuonò,
sollevando un braccio al cielo e aprendo il palmo, laddove un astro di luce
scintillò fulgido, frenando per un istante l'avanzata di quella marea d'ombra.
Asterios
afferrò Selene e Endimione,
portandoli ai piedi del Signore dell'Isola Sacra, lui ancora addormentato, lei
troppo sconvolta per fare alcunché. Quindi si alzò, affiancando il compagno, ed
espandendo il proprio cosmo color verde acqua.
Una
seconda stella comparve sul suo palmo aperto, combattendo assieme all'altra
contro quell'improvvisa discesa delle tenebre. Non sapevano dove guardare, non
sapevano cosa guardare, non essendovi alcun corpo nemico, solo un'unica immensa
presenza capace di invadere ogni spazio, arrivando persino ai recessi del
cuore.
Con
una sonora sghignazzata, che martellò le loro menti spossate, la marea d'ombra
si ritirò, abbandonando l'Occhio distrutto e muovendosi a spirale lungo l'intero
regno, avvolgendolo nella sua tetra morsa.
I
primi a cadere furono i Custodi dei Cerchi Interni, sopraffatti da
quell'imponente oscurità, simile adesso a immense ali in grado di abbracciare
tutta la Luna.
“Guarda
là, fratello! Cos'è?” –Esclamò Andromeda, mentre deformi sagome nere piombavano
su di loro, per spegnerne la luce.
“Non
lo so, ma non mi piace! Ardi fuoco della Fenice!!!” –Ringhiò il Cavaliere,
subito imitato dal fratello e persino da Sin, che, ai suoi piedi, teneva una
mano sul petto di Avatea, per controllarne il respiro,
e aveva appena sollevato l'altra, lasciando avvampare la sua fiamma fatale.
“Dobbiamo...
resistere!!!” –Mormorò il Selenite di Marte, portando il cosmo al culmine.
“È
come se... queste tenebre... volessero succhiarci la luce, la nostra luce!!!
Vogliono fagocitare la nostra energia!!!” –Gridò Andromeda.
“Non
cedere, fratello!!!” –Lo incitò Phoenix, per quanto anch'egli si sentisse
svuotare.
Uguale
sentimento provavano i Cavalieri delle Stelle, riunitisi tra loro al Cerchio di
Giove dopo la rivelazione di Elanor come settimo membro del loro gruppo. E
proprio la ragazza, che avrebbe voluto onorare Thot
per averla salvata, fu la prima ad accasciarsi, travolta da quell'improvvisa
oscurità.
“Cosa...
cos'è?!” –Chiese allora Matthew, mettendosi una mano sul cuore, percependo
qualcosa che gli veniva strappato via.
“Che
sia dunque...?!” –Mormorò Jonathan, fendendo la volta celeste con il suo
sguardo acuto e inorridendo nel vedere che non vi erano più stelle ad
osservarli, solo un'unica oscura cappa nera.
“Il
nemico che Avalon attende da anni... è qua!!!” –Aggiunse Reis,
bruciando il cosmo all'istante, mentre cupe ali di tenebra si chiudevano su di
loro.
“Talismaniii!!!” –Gridarono in coro i quattro Cavalieri,
generando una cupola difensiva di oro lucente su cui le oscure ali scivolarono,
toccandola, palpandola, assaporandone la luminosità e sogghignando, provocando
al qual tempo, ad ogni tocco, uno spasimo nell'animo dei Cavalieri delle
Stelle.
Anche
Mani, i suoi figli e il valoroso Shen Gado vennero
raggiunti da quell'oscurità agghiacciante, senza riuscire a sfuggirle, neppure
nel varco tra i cerchi in cui avevano tentato di ripararsi. Vennero afferrati,
stritolati, strapazzati come cenci e infine rilasciati a terra, vuoti ormai di
ogni energia.
Per
ultima, infine, la notte scese su Pegasus e Atena, che avevano percepito, al
pari dei compagni, il manifestarsi repentino di quel manto di tenebra, una
coltre che pareva isolarli dall'universo, esponendoli alla mercé di quel nuovo
misterioso nemico.
“Che
sia...?” –Rifletté la Dea della Guerra, ripensando all'ultima conversazione con
Ares. Aveva detto poco, lo scontroso Nume, ma Atena aveva compreso che stesse
agendo per conto di qualcun'altro, qualcuno che lo aveva salvato mesi addietro,
tenendolo nell'ombra e nutrendolo con la stessa. Qualcuno di cui lo stesso Ares
aveva soggezione.
“Attenta!!!”
–La scosse Pegasus, buttandosi su di lei e ruzzolando insieme a terra, mentre
un paio di enormi artigli di tenebra piombavano su di loro. –“Che nuova
diavoleria è mai questa?!” –Avvampò il ragazzo, rimettendosi in piedi,
splendente nel suo cosmo azzurro.
Tirò
uno sguardo verso l'alto e vide che gli artigli altro non erano che la parte
inferiore di un uccello immenso, un uccello composto da pura tenebra, i cui
occhi, sebbene Pegasus non potesse distinguerli, tanto scura era la tinta che
lo rivestiva, erano puntati su di lui. Se li sentiva addosso, come pugnali di
ghiaccio sul cuore, e si disse certo che, qualunque cosa avesse detto o fatto,
quelle lame sarebbero affondate.
Di
fronte a tale profonda oscurità, per la prima volta Pegasus pensò che sarebbe
morto.
“Non...
cedere!!!” –Esclamò allora Atena, affiancandolo all'improvviso, l'Egida rivolta
verso l'esterno, lo scudo scintillante su cui l'ondata di tenebra si abbatté di
colpo, spingendoli entrambi indietro, pur fermi nella loro postura. –“Nike,
rifulgi!!!” –Aggiunse la Dea, portando avanti lo Scettro di Vittoria, avvolto
nel suo caldo e lucente cosmo.
Fu
un raggio di sole in un cielo di tenebra, che si perse dopo pochi istanti,
inglobato da quell'entità suprema che li stava attorniando.
“In
morti bizzarre sono incorso più volte! Sbranato vivo dal Mastino degli Inferi,
soffocato dalle ragnatele di uno Spectre, ma che sia
un pipistrello di tenebra a vincermi... questo no, non lo accettooo!!!”
–Esclamò fiero il Cavaliere dello Zodiaco, bruciando al massimo il proprio
cosmo. Lo scintillio delle sue stelle frenò per un momento l'avanzata
dell'oscurità, che venne crivellata poco dopo da una moltitudine di pugni di
luce. –“Fulmine di Pegasus!!! Iaiii!!!”
“Coraggioso
e valente. Me ne compiaccio!” –Parlò allora una voce di donna all'improvviso,
una voce che Pegasus non seppe dire da dove provenisse, sentendola direttamente
nella mente.
Anche
Atena dovette udirla, voltandosi verso il Cavaliere, prima di venire
sballottata e schiacciata a terra dal rinfocolarsi repentino della marea
d'ombra.
“Chi
sei?” –Ringhiò Pegasus, adesso più arrabbiato che impaurito, dirigendo i suoi
pugniattorno a sé, nell'oscurità in cui
ormai erano immersi. Persino vedere Isabel era difficile, nonostante giacesse
ai suoi piedi, solo il cozzare delle loro armature gli rivelava la sua
posizione, questo e lo sfavillare dello Scettro di Nike, Dea che sempre aveva
dato loro la vittoria. –“Non abbandonarci proprio adesso, amica mia!”
Un
attimo dopo le tenebre si ritrassero, recuperando la forma che avevano avuto in
precedenza, quella di un oscuro e gigantesco uccello che sbatteva le sue spaventose
ali nell'aere attorno. Ali così enormi da avvolgere
l'intero satellite in un solo tenebroso abbraccio.
“Pegasuuusss!!!”
La
voce calda di Andromeda lo distrasse in quel momento, portandolo a voltarsi
verso l'ingresso al Settimo Cerchio, da cui il ragazzo era appena comparso,
seguito da Phoenix, Reis e Jonathan, ritrovatisi dopo
che i due fratelli avevano deciso di correre attraverso i Nove Cerchi in aiuto
dell'amico. Elanor aveva invece preferito tornare a palazzo, per sincerarsi
delle condizioni di sua madre, e Reis aveva chiesto a
Matt di andare con lei. Per farle da scorta, ufficialmente, ma anche per
toglierlo da quella battaglia campale.
“Sapete
cos'è quella strana creatura?!” –Domandò Pegasus ai Cavalieri delle Stelle, che
non seppero sul momento come e cosa rispondere. Per quanto conoscessero la
verità.
Fu
una ben nota voce a togliere entrambi dall'imbarazzo, risuonando sulla piana
del Cerchio di Urano con la pacatezza che la contraddistingueva.
“Il
suo nome è Nyx, Pegasus, ed è uno dei più antichi
demoni oscuri che siamo chiamati ad affrontare!”
I
cinque Cavalieri e Atena si voltarono verso la cima del muro che separava il
Sesto e il Settimo Cerchio e là trovarono Avalon, splendido, rivestito da
un'aura di vivida luce adamantina, così intensa che dovettero distogliere per
un momento lo sguardo, abituatosi all'oscura caligine in cui erano immersi.
“Potente
Divinità primordiale, nata sotto forma di uccello nero, Nyx
è la madre di molte creature diaboliche che avete affrontato o che presto sarete
costretti a fronteggiare! Ella è la Prima Dea, il cui grembo ha partorito le
tenebre che hanno avvolto la Terra, coprendo a volte (ahimè, troppe volte) la
luce dall'animo degli uomini! Ella è la Notte!”
A
quelle parole l'uccello di oscurità sogghignò, prima di spalancare le ali e
planare su di loro.
***
In
quello stesso momento, sul Monte Olimpo, le porte della Sala del Trono si
aprirono all'improvviso. Zeus, che stava conversando con Era, Euro, Ermes e
Demetra, si sollevò di scatto dal trono, imprecando contro le tre esili figure
che avevano osato disturbare quel concilio ristretto. Ma dovette trattenersi
dal redarguirle ulteriormente quando vide le loro condizioni.
Tutti
le videro, e inorridirono.
Egle, Aretusa ed Esperia, le Ninfe del Tramonto, note agli uomini
anche con il nome di Esperidi, arrivarono correndo, inciampando l'una
sull'altra, gridando e piangendo, vittime di una sofferenza mai provata prima.
“È
tornata!!! Lei è tornata!!!” –Singhiozzarono in coro.
“Chi?
Cos'è accaduto? State tranquille!” –Cercò di calmarle Ermes, avviandosi
incontro a loro.
“Nostra
madre!!!”
“Vos...” –Il Dio dei Mercanti rimase di sasso a quella
rivelazione, al pari di Euro e Era, voltandosi verso l'alto trono dove il volto
di Zeus rimaneva imperscrutabile.
“La
sua oscurità... la sentiamo...” –Aggiunsero le tre esili fanciulle, i volti un
tempo delicati e sereni adesso deturpati dal terrore, scavati da rughe di
oscurità così profonde da lasciar intravedere le ossa al di sotto. –“Lei... ci
sta... Noi ci stiamo spegnendo...” –Mormorarono, accasciandosi una sull'altra,
di fronte agli occhi frastornati e inorriditi delle Divinità olimpiche, che le
videro contrarsi, farsi via via più piccole,
raggomitolandosi come feti dalla pelle nera, sempre più scura, fino ad ardere
in una repentina fiamma tenebrosa, che divorò quel che restava di loro,
lasciando soltanto delle ceneri oscure.
“Quale
orrore!!!” –Esclamò Era, affondando la testa nel petto del marito, che però, al
suo fianco, fremeva per la collera.
“Quale
affronto!!! Nyx!!!” –Tuonò Zeus, espandendo il
proprio cosmo e sollevando una mano al cielo, attorno alla quale scintillanti
fulmini celesti presero a guizzare. Un attimo dopo una poderosa scarica di
energia trapassò il soffitto della reggia divina, dirigendosi nelle vastità
siderali.
“La
Notte... la primordiale divinità da cui nacquero le Astrazioni... è dunque
rediviva!” –Mormorò sconcertato il figlio di Eos, prima di essere affiancato da
Ermes, che gli poggiò bonariamente una mano sulla spalla.
“Così
pare, giovane Euro! E, per certo che sia, ha già preso il suo primo tributo! Le
sue figlie! A rimarcare, qualora qualcuno avesse dubbi, che non avrà pietà di
nessuno!”
È questa la prima immagine che ebbi dell’isola. Una coltre
di nebbia che sembrava non avere fine, un cielo che pareva estendersi ovunque,
al punto da entrarmi nell’anima. Eppure, per quanto poco potessi vedere, per quanto
molto dovessi affidarmi ai sensi, per percepire le presenze che mi
attorniavano, non mi sentii affatto a disagio. Tutt’altro. Mi invase una
sensazione familiare, che in questi quindici anni non mi ha mai lasciato. La
sensazione di esservi già stato prima di allora, in un passato lontano e
indefinito. In una di quelle che il mio Maestro e il Primo Saggio di cui è
stato discepolo avrebbero definito le mie vite precedenti.
Sorrido, e carezzo la croce celtica che porto al
collo. L’unico oggetto che mi porto appresso da sempre. Placida reliquia della
mia infanzia.
In uno sfuocato ricordo d’autunno, rivedo mio padre
farmene dono. Ma non riesco a focalizzarmi su di lui, non riesco a vedere i
tratti del suo volto, né quello di mia madre e mio fratello. Sono sagome,
niente di più. Sbiaditi ricordi di una vita che non ho mai vissuto. O forse di
una delle tante cui sono passato attraverso.
Avevo sei anni, così mi pare di ricordare, quando
sentii parlare per la prima volta di Cavalieri e Divinità. Affascinato, come
tutti i bambini a cui si raccontano favole e leggende, fantasticavo sulle
imprese mitiche che uomini simili avevano affrontato. Immaginavo Eracle, con la
possente clava, lottare a mani nude contro il Leone di Nemea e l’Idra di Lerna.
E Dioniso, ebbro di orgia e follia, sollazzarsi con le driadi nei meandri del
suo vigneto. E Giasone, veleggiare verso la Colchide alla ricerca del Vello
dell’Ariete d’Oro. E Zeus il Sommo, l’apoteosi.
Non ricordo neppure come, ma un giorno presi la
decisione di trasformare questi sogni in realtà. Di cacciar via i fantasmi
della mia infanzia per rincorrere la verità che vi si celava dietro. Così
lasciai la natia Australia, nascondendomi in un cargo diretto in Indocina.
Avevo sentito parlare di monaci che vivevano in eremi nascosti, nelle grandi
catene dell’Himalaya e del Karakoram, e di asceti che praticavano forme di
meditazione in grado di accrescere il loro potere interiore. Ma in realtà non
avevo la minima idea di dove sarei andato. Né di cosa stessi cercando. La sola cosa
che sapevo, e che era importante, era che dovevo andare. Me lo sentivo
nell’animo.
Che fosse il richiamo di un antenato che confidava
in me per restaurare i gloriosi fasti di un’obliata dinastia, o il volere di un
Dio di cui ancora non ero a conoscenza, o l’infantile capriccio di un bambino
di nove anni, era comunque ciò che accadde. E che mi allontanò dalla mia
famiglia.
Non rividi più nessuno di loro. Né mio padre,
marinaio su uno dei tanti pescherecci che battevano l’Oceano Pacifico, morto in
mare durante una tempesta. Né mia madre, il cui cuore, già straziato dalla
perdita dei figli, non resse a così tanto dolore. Né mio fratello, che, venni a
sapere in seguito, si era diretto in Grecia per diventare Cavaliere di Atena. O
forse per ritrovare il fratello da cui il destino l’aveva separato.
Il destino o semplicemente la volontà di un uomo che
ha deciso di sfidarlo?
Dopo tanti anni, lo ammetto, non sono ancora
riuscito a trovare la differenza.
Un tempo, nella prima fase della mia vita, quei due
anni trascorsi in Cina, ad allenarmi di fronte all’attento sguardo di un
vecchio dalla pelle viola e dal volto coperto da un cappello di paglia, avrei
negato l’esistenza del fato. Ma crescendo, e venendo iniziato ai misteri
dell’Isola Sacra, ho imparato cose ritenute in precedenza irraggiungibili, e
sondato universi con la sola forza della mente, comprendendo infine che niente
avviene per caso. Che tutto fa parte di un piano superiore, di un destino
universale che unisce gli uomini e tutti gli esseri viventi, consapevoli o meno
di vivere in un eterno presente. Un eterno ora.
Chi ne sia il tessitore soltanto gli Dei possono
saperlo. E so per certo che persino molti di loro preferirebbero non esserne a
conoscenza.
Rimasi in Cina per due anni, nella pagoda dell’uomo
che mi salvò da morte certa, mentre giacevo, stanco, affamato e fradicio, nelle
torbide acque di uno stagno, ai margini di una foresta di bambù. Avevo
camminato per giorni, nelle terre interne dell’Asia, inseguendo la chimerica
scia di un mistero che ero solo all’inizio dall’apprendere.
Mi avevano detto che millenni addietro, in una valle
nascosta, una cometa a forma di drago si era schiantata sulla Terra, scavando
il terreno fino a generare cinque aspri picchi. Dal sottosuolo smosso, torrenti
d’acqua avevano iniziato a sgorgare creando fiumi e cascate, dai colori così
vividi e luminosi che a molti parve che la cometa vivesse ancora. E che quelle
fossero le sue lacrime. Le lacrime del drago.
Arrancai per giorni, forse per settimane,
rubacchiando nei campi e nelle risaie per sopravvivere, finché non crollai. E i
miei sogni crollarono accanto a me. Mi risvegliai in un letto di paglia,
stordito e affamato, mentre i miei occhi stanchi mettevano a fuoco l’immagine
di un giovane, di dieci anni o poco più, dal volto bianco, che mi sorrideva
porgendomi una tazza fumante, piena di una corroborante zuppa.
“Tebaldo!” –Lo chiamò un’anziana voce, pregna di
saggezza e forza. –“Come sta il nostro ospite quest’oggi?! Oh, si è svegliato,
che fortuna!”
Era basso come un nano, e vecchio e rugoso come una
quercia centenaria, ma i suoi occhi trasudavano epicità e memoria. Erano gli
occhi di un uomo che aveva visto vari inverni corrergli di fronte, affannando
disperatamente per afferrarli, senza però raggiungerli, costretto a rimanere
inerte e a lasciarli passare. In attesa dell’ultimo.
“Do… dove sono?!” –Balbettai, cercando di
sollevarmi. E subito il giovane chiamato Tebaldo si affrettò ad aiutarmi,
essendo ancora debole per stare in piedi da solo.
“Ai Cinque Picchi!” –Commentò l’anziano, spostando
lo sguardo verso la finestra, da cui filtrava copiosa l’abbacinante luce del
sole di Cina. –“Non era qua che volevi arrivare?!” –Aggiunse, sornione, prima
di uscire dalla pagoda.
A passi lenti, lo seguii oltre la soglia, accecato
dal bagliore del panorama di luce che si apriva di fronte a me. E fu allora che
la vidi, la Cascata del Drago.
Imponente e maestosa, scorreva alla mia destra,
precipitando dall’alto di un picco di qualche centinaio di metri e spruzzando
il viso e il cappello di paglia dell’anziano dalla pelle viola seduto in
posizione meditava di fronte ad essa. C’era qualcosa, nella sua postura, nella
pacata immobilità che lo contraddistingueva, che mi fece sospettare che non
fosse un gesto inusuale. Ma il segno del lento trascorrere del suo tempo. E le
parole di Tebaldo, poco dopo, confermarono le mie intuizioni.
“È il guardiano di quest’oasi di pace! Il Maestro
dei Cinque Picchi, o semplicemente Vecchio Maestro! È così che lo chiamano i
suoi allievi!”
“Non ha un nome?!”
“Se anche lo ha avuto, io non lo conosco! Né credo
lui stesso lo ricordi…” –Mi sorrise Tebaldo, ponendomi un braccio sulle spalle,
con una gentilezza onesta che, negli anni seguenti, non mancò mai di
dimostrarmi, abbracciandomi e ridendo con me, come fossi un fratello. Suo
fratello.
Ancora adesso, dopo quasi quindici anni, rimpiango
di non aver mai potuto ringraziarlo, per l’affetto con cui mi ha riempito il
cuore. Ancora adesso rimpiango di non avergli potuto dire addio.
Né a lui, né a Dohko.
Ma se quel giorno, sotto il sole di Grecia, non
avessi accettato l’offerta del solerte Ermes, non sarei giunto dove sono
adesso. Non sarei stato iniziato ai misteri. E la mia vita non sarebbe
cambiata. Sarei rimasto là, a masticare le foglie di un destino amaro, che
nient’altro mi avrebbe riservato se non la stessa morte anonima, sotto cumuli
di macerie insanguinate, cui Tebaldo era incorso senza che io avessi potuto
aiutarlo. Né modificare il fato per lui.
Crescendo, sono diventato forte e maturo. E ho capito
che in questo mondo in continua mutazione non esiste niente che duri davvero
per sempre. Che ciò che vediamo oggi nient’altro è che la polvere di domani.
Quella stessa che darà luce ad una nuova vita, in un circolo di morte e
rinascita. In un perpetuo ciclo di trasformazione che mai avrà fine.
Fu il mio mentore a parlarmene, la prima volta,
sulla cima dell’Isola Sacra.
Sedevamo sull’erba, cullati dal vento, in mezzo alle
alte pietre grezze che ornano la superficie di Avalon. Pare che furono issate
dai primi druidi, millenni or sono, quando si rifugiarono sull’isola, facendone
il loro paradiso, la loro casa, il luogo da cui sarebbe partita la lunga marcia
verso l’ultima guerra. E ogni pietra è stata poi cosparsa delle ceneri di tutti
i saggi che si sono succeduti, donando loro quel potere e quella conoscenza che
avevano raggiunto in vita. Che fosse possibile o meno, Avalon ci credeva, e ci
crede tutt’ora quando vi si reca a passeggiare nelle sue notti di meditazione,
per chiedere consiglio agli antichi.
E anch’io, quel giorno, percepii qualcosa. Forse fu
lo stormire del vento tra le rocce, ma credetti davvero di sentire delle voci
che mi chiamavano. Voci nient’affatto estranee ma che sentivo parte di me, del
mio essere. Voci che si compenetravano alle altre, divenendo un unico canto. Le
memorie perdute della terra.
“Ascanus...” –Mormorò qualcuno nella mia mente,
chiamandomi con la versione latina del mio nome.
Muovendo lo sguardo tra i megaliti e le nebbie, mi
parve di scorgere una figura fumosa che avanzava verso di me, una sagoma
incorporea su cui brillavano occhi pieni di vita, occhi che stridevano con
l’evanescenza del suo corpo. Occhi in cui fui in grado di specchiarmi,
ritrovando me stesso.
“Chi sei?” –Trovai la forza per balbettare,
strappando un sorriso al Signore dell’Isola Sacra e alla figura fatua di fronte
a me.
“Sono tuo padre!” –Si limitò a rispondere
quest’ultima. E capì che non intendeva il mio padre biologico, il cui corpo era
stato smarrito e dilaniato dalle correnti del Pacifico. Ma il mio vero padre,
l’antenato da cui presi l’epiteto che iniziai ad usare in battaglia.
Pendragon. Testa
di drago.
Avalon mi prese la mano, aiutandomi a mantenere la
concentrazione, aiutandomi a penetrare a fondo quel mistero che così tanto mi
riguardava. E mi spiegò, con voce ferma, che l’uomo entrato nella storia e nel
mito come Arthur Pendragon era stato un condottiero leggendario, dotato di
poteri cosmici, come i Cavalieri di Atena e di Zeus, ma su cui gravava un peso
troppo grande da sopportare. I destini di un mondo, l’antica Albion, ormai
prossimo a scomparire.
“Arthur ebbe un figlio da sua sorella, una
Sacerdotessa della Dea Madre, e anch’egli, prima di morire a Mount Badon
assieme al padre, ebbe il tempo di generare un erede con una Sacerdotessa di
Avalon, un erede che fu tenuto nascosto. I sassoni ormai avevano invaso la
Britannia e il nome Pendragon aveva portato con sé troppi cadaveri. Così la sua
identità fu celata, ma gli fu permesso di avere una vita felice, di amare e di
morire infine, continuando la dinastia del più grande re di Albion. Una linea
che ha attraversato il tempo e lo spazio, giungendo fino a te, l’ultimo di una
stirpe di eroi. Ricordo ancora quel che facemmo iscrivere sulla tomba di Arthur:
Hic iacet Arthurus, rex quondam, rexque
futurus, e
quel che dissi quel giorno al mio maestro: Arthur non è morto. Egli vivrà.
E quel momento è adesso!”
Le parole di Avalon mi colpirono, ma ancor più lo
fece l’ultimo gesto di mio padre, che, avvicinatosi a me, mi porse le mani,
permettendomi di vedere i dragoni tatuati sulle sue braccia. Uno bianco e uno
rosso, intrecciati assieme, simboli di un’antica tradizione di Britannia. La
vita e la morte. Incantato dalla visione, allungai un braccio per stringere
quello di Arthur, per sentirlo lì, vivo di fronte a me, ma afferrai soltanto
nebbia.
La figura si dissolse, scivolando nell’aria in
comete di foschia, affusolandosi attorno al mio corpo e poi penetrando in me.
Da allora, ogni volta in battaglia mi sento come se fossimo in due a
combattere, io e mio padre, e tutta la nostra storia. Da allora, sulle mie
braccia campeggiano le sagome di un drago bianco e di un drago rosso, a
ricordarmi il mistero vissuto quel giorno e il giuramento prestato. Un
giuramento silenzioso, fatto di gesti e di assensi.
Quando mi alzai, mi parve per la prima volta di
vedere il sole risplendere sulla cima dell’isola sacra, testimone silente di
quella promessa.
Avalon
si avvicinò al pozzo sacro, riscaldato dall’ultimo raggio di sole, e vi immerse
la mano, facendovi fluire il proprio cosmo. Immenso e intenso. Quando risollevò
il braccio mi accorsi che reggeva qualcosa, ma non capii cosa fosse finché non
me lo mise davanti. Sembrava una pentola, ma non serviva affatto per cucinare,
bensì per combattere.
“Il
più potente dei Talismani al più potente dei Cavalieri delle Stelle, colui che
comprende i turbamenti del mondo e vive in comunione con la natura!” –Parlò il
Signore dell’Isola Sacra, l’uomo che, in quegli anni vissuti a Glastonbury come
Cavaliere Celeste, non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso, ritenendomi
destinato a qualcosa di più che non condurre una legione dimenticata verso la
fine.
Socchiusi
le labbra, per esprimergli la mia gratitudine, ma non riuscii a proferir
parola, potei soltanto espandere il mio cosmo, stabilendo un contatto diretto
con il manufatto che ero chiamato a difendere, il Talismano che mi aveva scelto
come suo protettore, permettendomi di accedere ai misteri.
“Dei
sette Talismani forgiati un tempo per combattere l’ultima ombra, questo è l’unico
rimasto celato all’interno di Avalon, di modo che il suo custode potesse
proteggerlo. Dovrai fare molta pratica per raggiungere il livello di cosmo
sufficiente a padroneggiarlo al meglio, perché, e di questo devi essere
consapevole, chi beve dal calice dei misteri può assaporare l’inebriante sapore
della vita o il tetro precipitare verso la morte, foss’anche il suo possessore.
Un dualismo che i saggi conoscevano bene ed è stato alla base di tutte le
tradizioni celtiche.”
“Sono
pronto alla prova!” –Mi limitai a rispondere.
Ed
era vero.
In
fondo, mi dissi, per quel motivo avevo a lungo vagato, per trovare uno scopo
ultimo all’esistenza. Non una guerra da vincere o una corona da indossare, non
uno scrigno di gioielli o il sogno di una notte d’amore. Soltanto risposte, che
solo vivendo i misteri di Avalon avrei potuto avere.
Il
Signore dell’Isola Sacra sorrise, ponendomi una mano su una spalla e
congedandomi poco dopo. Gli allenamenti sarebbero iniziati a breve e Gwynn e
gli altri Cavalieri Celesti mi aspettavano per la nostra quotidiana corsa lungo
i pendii terrazzati del Tor. Lasciai Avalon sulla sommità dell’isola e scivolai
tra gli alberi di mele sospinto dal vento. Il vento del mio destino. Quello
stesso che da anni mi sorregge e mi impedisce di cedere a qualunque sconforto,
e che mi ricorda continuamente chi sono.
Sono stato molte cose in vita. Aspirante Cavaliere
di Atena, allievo del Maestro dei Cinque Picchi, discepolo di Avalon e iniziato
ai misteri dell’Isola Sacra, Comandante della Legione Nascosta dei Cavalieri
Celesti di Glastonbury, favorito di Zeus, Comandante dei Cavalieri delle Stelle
e custode del settimo Talismano. Ma niente mi ha riempito il cuore quanto
adempiere con dedizione alla vocazione per cui ero stato chiamato, rivivendo,
dentro di me, le gesta dei miei avi, coloro che unificarono e diedero speranza
ad Albion.
Io sono Ascanio Testa di Drago, ultimo discendente
di Arthur e della gloriosa stirpe che rese grande e unita la Britannia. Io sono
Ascanio Pendragon, il figlio del drago.
***
L’ombra non ha volto. L’ombra non ha
tempo. L’ombra semplicemente è.
Pretendere di darle un nome, un volto,
un corpo, pretendere di vederla, di toccarla, anche solo di capirla
richiederebbe avvicinarsi ad essa. Ma, nel farlo, chiunque ne sarebbe sopraffatto,
chiunque verrebbe risucchiato al suo interno. Perché è questo che fanno le
ombre, strisciano silenti dove il sole non giunge, attendono pazienti il calar
della notte, il tingersi istantaneo di un nero profondo, un nero dove
finalmente possono esistere. Emergere. Essere.
Perché le ombre sono, anche se la luce
non sa. O non vede. O non vuole vedere.
E quella consapevolezza col tempo prende
forma, diventa coscienza di sé, dà vita alla frustrazione, genera l’odio,
insegue la rivalsa, ambisce al dominio. Mira ad avere un mondo per sé.
Non più un mondo temporaneo, non più
fresco riposo notturno dalla luce del giorno. Ma un mondo dove essere per
sempre. Regina, e non più serva; creatrice, e non più creata; amata, e non più
odiata.
Perché anche le ombre amano. E amano
altre ombre, con cui daranno vita a nuove tenebre, favorendo la riproduzione
della stessa.
C’è sempre, in fondo, un guscio vuoto da
colmare di tenebra, un giorno da mutare in notte. Un tempo di cui decretare la
fine.
Ed è questo che l’ombra fa. Scandisce la
fine del tempo. Di tutti i tempi, o di uno soltanto. Perché l’ombra vive in un
eterno presente, un qui e ora, senza passato o futuro. L’ombra semplicemente è.
Il
Comandante Ascanio ripiegò la pergamena, avendo cura di non spiegazzarla,
spense la candela e diede l’ultimo saluto al giaciglio ove aveva dormito per
anni, in una delle tante capanne che costellavano il versante centrale
dell’Isola Sacra.
Prima
di andarsene, prima di partire per Atene, Avalon gli aveva dato qualcosa da leggere,
scritti cui si era abbandonato nelle lunghe notti solinghe trascorse a guardare
le stelle sulla cima dell’alto colle. In attesa.
Li
aveva lasciati a lui, convinto che nessuno meglio del Cavaliere della Natura,
colui che con essa vive in comunione e che della vita percepisce i turbamenti,
li avrebbe compresi. Oltre che per un secondo motivo, personale e utilitaristico.
Ascanio
era il suo erede, l’erede di antiche tradizioni che risalivano ai tempi di suo
padre. Era colui che avrebbe traghettato l’Isola Sacra verso il meraviglioso
mondo nuovo che sarebbe nato dalle rovine dell’ultima guerra. Certo, c’era pur
sempre il rovescio della medaglia, l’ansia terribile che lo invadeva ogni volta
in cui pensava alla Coppa di Luce, l’incertezza di un momento atteso per
millenni, un momento che avrebbe potuto cambiare tutto. Era pronto? I Sette
erano pronti?
Lo
avrebbe presto scoperto, e con loro il resto dell’umanità.
***
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Tempo presente.
Il
rito funebre per Osiride si svolse in forma strettamente privata, in un salone
interno del tempio di Karnak che Amon Ra aveva allestito per l’occasione. Erano
presenti, oltre al Dio del Sole, la sposa e il figlio del Dominatore di Amenti,
e i figli di Horus. E anche Febo e Marins.
“Mi
dispiace molto. So che per te era come un padre!” –Disse il Cavaliere dei Mari
Azzurri all’amico, al termine della cerimonia.
Febo
annuì, gli occhi lucidi per l’emozione, dirigendosi assieme a Marins verso la
Sala Ipostila, dove Amon Ra li aveva convocati.
“È
stata colpa mia!” –Mormorò, fermandosi all’improvviso e stringendo i pugni.
–“Osiride è morto per salvarmi, per dare a Horus un’opportunità!”
“Per
salvarci!” –Precisò Marins. –“Non dimenticare che non eri da solo in quel
tempio! Non eri da solo quando l’ombra ci ha vinto! Né lo sei adesso!” –Gli
sorrise, prima di fargli cenno di proseguire.
Il
Dio del Sole li aspettava al centro dell’enorme salone, invitandoli a camminare
con lui attraverso l’ampio colonnato, nel silenzio rotto solo dai loro passi.
Febo
passeggiava a fianco di Amon Ra, e Marins li seguiva di qualche metro,
ritenendo opportuno lasciare loro il giusto spazio. Si era già sentito di
troppo durante il rito funebre e, adesso che le sue condizioni erano
migliorate, sperava di poter lasciare Karnak quanto prima, bisognoso di
respirare aria fresca. Non sapeva cosa il Pastore dell’Universo volesse
discutere con loro ma, dal volto teso e dal prolungato silenzio, doveva essere
qualcosa che gli stava particolarmente a cuore, e che al tempo stesso lo
incupiva.
Con
suo grande stupore, fu a lui che Amon Ra si rivolse per primo.
“Come
sta la tua mano, giovane Cavaliere? Febo mi ha detto che ti ha dato qualche
dolore, di recente!”
“Niente
che un po’ di tempo non possa migliorare, mio Signore! Un formicolio che a
volte si fa sentire e che forse vuole spingermi a tornare presto in battaglia!”
“Tempo?!
Vorrei davvero che ne avessimo! A volte sembra che persino quello di cui noi
Dei disponiamo sia insufficiente!” –Sospirò Amon Ra, continuando a camminare,
le mani dietro la schiena, la fronte corrugata in un’espressione pensierosa.
–“Temo che le tue necessità troveranno presto soddisfazione e forse allora
rimpiangerai le calme aule di Karnak, dove il massimo del pericolo era
rischiare di ingrassare a causa del troppo riposo e delle abbondanti portate!”
“Mio
Signore, non intendevo mancarvi di rispetto… Quello che volevo dire…”
“Lo
so bene, giovane yankee! Non preoccuparti, non mi hai offeso! Anzi, sono lieto
di averti come ospite, lieto che tu sia amico di mio figlio! Proprio per questo
temo per te, come per lui! Soprattutto adesso che i Sette sono stati rivelati!”
–Confessò, fermandosi e voltandosi infine verso i ragazzi, che spalancarono gli
occhi stupefatti.
“Co…
come?! Il settimo Cavaliere delle Stelle è stato dunque trovato?!” –Esclamò
Marins, cercando una qualche conferma o smentita nell’amico.
“Padre…
voi, cosa sapete?!” –Intervenne questi, prima che Amon Ra, non senza un ultimo
sospiro, schioccasse infine le dita.
“Il
rito con cui confinai Karnak fuori dal tempo è ancora attivo, figlio mio.
Niente può turbarne la serenità se non sono io a volerlo. Niente può varcarne i
confini, neppure il sentore di un amico in pericolo o di una guerra lontana.
Pur tuttavia, per voi, calerò il velo che la isola dal mondo, permettendovi di
percepire… quel che è accaduto, sta accadendo e presto accadrà!”
Fu
come se un fiume li travolgesse all’improvviso, sbattendo loro in faccia
frammenti di una realtà da cui troppo a lungo si erano estraniati. Feriti,
debilitati, privati dell’ultima stilla di energia, i due Cavalieri delle Stelle
erano rimasti fuori dagli eventi in corso, eventi che l’Occhio di Ra aveva
monitorato, concordando poi con Avalon la strategia da seguire. L’unica
possibile.
Unirsi o morire.
“Jonathan
e Reis sulla Luna? Il risveglio dell’ultimo talismano?! E… il Comandante
Ascanio che fronteggia l’ombra?! Incredibile, le cose sono precipitate in
nostra assenza! E abbiamo dormito a malapena un giorno!” –Esclamò Marins.
“Dunque
il viaggio è giunto a conclusione! Avalon ha trovato i Talismani dei Sette
Saggi! Dobbiamo riunirci adesso, e farlo quanto prima! In questi modo potremo
mettere fine alla guerra… alla guerra tra la luce e l’ombra che va avanti da
millenni!” –Intervenne Febo, con accalorata passione, ma ricevendo un cenno di
diniego col capo da parte del padre.
“Non
è così semplice, figlio mio! Devono sussistere determinate condizioni affinché
ciò sia possibile!”
“Ma
il vaso….”
“La
Coppa di Luce può essere evocata una volta sola! Perciò Avalon dovrà essere ben
attento e scegliere il momento esatto in cui colpire! Il momento esatto in cui
la vostra esistenza avrà infine un senso…”
“Non
siate triste per noi, padre!” –Gli sorrise Febo, afferrandogli una mano. –“A
lungo ci siamo preparati per questo momento! Non falliremo!”
“Non
temo per il vostro fallimento, ma per la vostra riuscita!” –Ironizzò il Dio,
dando le spalle a entrambi e incamminandosi solo lungo la navata centrale del
salone.
Ricordava
ancora la conversazione avuta con il Signore dell’Isola Sacra riguardo ai
Talismani. Che cosa fosse la Coppa di Luce neppure a lui era stato detto, ma
conosceva abbastanza Avalon da sapere che non era solito mostrare le sue carte
se non a gioco iniziato. Per cui, sebbene incuriosito, il Dio del Sole aveva
rispettato il silenzio dell’alleato, ponendogli però una sola domanda, su colui
che così tanto amava, e pregandolo di essere sincero nel rispondergli.
“Cosa
ne sarà di Febo?”
Avalon
lo aveva guardato con i suoi occhi argentei, e per la prima volta Amon li aveva
visti tingersi di una tristezza infinita. Poi gli aveva sorriso, afferrando il
Pastore dell’Universo per le mani e rinnovandogli l’invito ad essere forte.
Anche loro, alla fine di tutto, si sarebbero rivisti.
“E
pluribus unum.” –Aveva mormorato, prima di svanire.
Capitolo 38 *** Capitolo trentaseiesimo: Lotta per il trono. ***
CAPITOLO TRENTASEIESIMO: LOTTA PER IL TRONO.
La
devastante onda che lo schiantò contro la parete esterna di un edificio fece
capire a Nettuno che Forco era davvero intenzionato a dirimere una volta per
tutta un’antica questione. Chi fosse degno di sedere sul Trono del Mare e
definirsi Imperatore degli Oceani e di tutti coloro che vi dimoravano. Ma gli
fece capire anche qualcos’altro, ben più preoccupante della semplice
ostentazione di un titolo onorifico, qualifica che, se non accompagnata da un
significativo potere concreto, non aveva alcun valore. Gli fece intendere che
Forco quel potere lo aveva, ne disponeva realmente, e la pressione cosmica con cui
lo stava schiacciando a terra lo dimostrava.
“Come…
è possibile?!” –Rantolò Nettuno, muovendo a malapena la testa e tentando di
rimettersi in piedi. –“Hai recuperato tutto il tuo magnifico potere! Come hai
fatto? E perché Zeus né nessun’altra attenta Divinità ha notato
quest’improvvisa manifestazione di energia?”
“Già
te l’ho spiegato, ma forse hai dell’acqua negli orecchi!” –Ridacchiò Forco,
fissando il Nume Olimpico dall’alto, tronfio di quella posizione raggiunta.
–“La mia rinascita non è stata istantanea, bensì graduale! Dopo la sconfitta
che tu e Zeus mi imprimeste nel Mondo Antico, confinaste il mio spirito in una
conchiglia di madreperla, che affidaste agli oceani, sperando che si perdesse
nel perenne vagare lungo le correnti del pianeta, magari terminando la sua
esistenza in una solitaria baia sperduta chissà dove. Caso volle che, secoli e
secoli dopo, tali correnti mi abbiano trascinato lungo le coste dell’Africa
Orientale, passando di mano in mano, tra tribù impaurite e vessate, mercenari
avidi di potere e archeologi incuriositi da simile ritrovamento, finché non
arrivai, o dovrei dire ritornai, nelle mani di mio padre!”
“Tuo…
vuoi dire Ponto?! Fu lui a risvegliarti?!”
“Dieci
anni fa, all’incirca… Mentre pianificava il ritorno di Gea sulla Terra, decise
di abbandonare vetusti contrasti personali e riportarmi in vita, convinto che
le Divinità ancestrali dovessero tutte stare dalla stessa parte. Io accettai,
ma lo lasciai fare, riposandomi beato in oscuri e silenti abissi, che mi
cullarono e nutrirono, aspettando con calma il giorno in cui sarei riemerso al
pieno delle mie forze. Ho accresciuto la mia Dunamis con calma, come una
pozzanghera aumenta di estensione al centellinare lento ma costante di una
goccia d’acqua, mentre gli Dei nascevano e morivano, e con loro tutti gli
imperi che avrebbero voluto restaurare. Ponto, Crono, i Titani, Zeus, di nuovo
Crono, Ares. C’è voluto molto tempo ma sono potuto rinascere senza che nessuno
mi notasse, neppure l’occhio attento di colui che tutto vede dall’Alto Colle!
Del resto nessuno presta mai attenzione a quel che succede nei mari, un
disinteresse che in questo caso ha giocato a mio esclusivo vantaggio! Mio e
della mia stirpe che tu hai rifiutato!”
“Vergognati!!!
Hai usato persino tuo padre, che aveva avuto fiducia in te, abbandonandolo nel
momento del bisogno! Non provi rimorso alcuno?”
“Affatto!
Sono sopravvissuto, a differenza sua e di altre Divinità obliate, e adesso
porterò a compimento il suo proposito, riunendo tutti i più forti guerrieri dei
mari, i cui spiriti ho risvegliato, sotto un’unica bandiera! E tu, Nettuno,
sarai il primo tra i giovani Dei a cadere! Il primo a conoscere il vero potere
della Panthalassa!”
“Questo
è ancora tutto da accertare!” –Sibilò il Nume Olimpico, espandendo il proprio
cosmo cristallino e spingendo Forco indietro, prima di rialzarsi, tridente in
pugno, mirando al suo rivale. Ma questi non si lasciò prendere alla sprovvista,
torcendo il bastone regale su cui attirò le guizzanti folgori liberate da
Nettuno, parandole e neutralizzandole una ad una, per poi piantarlo nel terreno
e imprimervi tutta l’energia accumulata. –“Aaahhh!!!” –Gridò il fratello di
Zeus, il corpo percorso da così violente fitte da prostrarlo di nuovo a terra,
in ginocchio, alla mercé nemica.
“Sei
debole, Nettuno! Debole e insicuro! Li ho notati, fin da subito, i tuoi
innaturali gesti! Non controlli a pieno il tuo corpo! Vuoi per non averlo
utilizzato da secoli, vuoi per la tua sempiterna paura di ferirlo… e di
morire!”
“È…
vero!” –Rantolò il Dio, sollevando lo sguardo verso Forco, che invece nel suo
corpo mitologico sembrava davvero a pieno agio. –“Troppo a lungo ho beneficiato
di un simulacro atto a ospitare la mia Divina Volontà… troppo a lungo ho
riposato in chiare, fresche e dolci acque, timoroso… della fine!”
“E la fine è arrivata, che tu lo voglia o meno!” –Incalzò l’ancestrale
Divinità, calando il bastone dall’alto, mirando al collo dell’avversario.
“Non
lo voglio!” –Si riprese questi di scatto, scansando appena il cranio e
afferrando l’asta con la mano destra, incurante delle scariche energetiche che
continuava ad emanare. –“Sebbene fossi al corrente che questo momento sarebbe
giunto!”
“Co…
come?! Tu sai?!”
Nettuno
annuì, gli occhi irrorati di lacrime al ricordo di beati giorni persi nella memoria
del tempo, una memoria che persino un Dio faticava a mantenere vivida. Non
aggiunse altro e sollevò il braccio, bruciando il cosmo e scagliando un
attonito Forco qualche metro indietro, obbligandolo ad una non troppo agile
piroetta necessaria per atterrare a piedi uniti.
“Elmas
me lo disse!”
“Elmas
che tu condannasti a morte!!!” –Ringhiò Forco, a cui Cariddi aveva riferito
l’intera vicenda, quando avevano brindato alla disfatta dell’impero di Nettuno.
“Era
un uomo buono e giusto, che spesse volte mi aveva ben consigliato. Un saggio,
come lo fu Vasteras per Zeus, che predisse la nostra rovina, la rovina della
nostra generazione. Giovane, irruenta, sconsiderata, tutta dedita ad avere
tutto e subito e a non saperlo conservare. Così mi apostrofò, quando Atlantide
si inabissò ed egli, ferito a morte, scomparve tra i flutti. E aveva ragione,
tutti i cicli cosmici sono destinati a terminare!” –Sospirò il Nume,
rimettendosi in piedi. –“Mi aveva detto di non marciare su Atene, mi aveva
suggerito di godermi lo splendore della mia civiltà, l’amore della mia gente,
di non lasciare che la brama di possesso mi possedesse. Ma io non lo ascoltai e
attaccai Atena, che si difese e riversò sulla mia isola la sua vendetta! I
Cavalieri d’Oro annientarono i Generali degli Abissi, grazie a nuove armature
che gli alchimisti di Mu avevano forgiato per loro, superando la maestria dei
miei fabbri! Bellerofonte di Pegasus guidò le legioni di Atena fino alla Sala
del Trono e persino la Dea della Guerra scese in campo, irata perché avevo
osato mettere a repentaglio la vita dei suoi giovani! Lo scontro che ne seguì
causò l’affondamento dell’isola, la morte di Elmas e la mia fuga… Sconfitto,
disperato e solo, mi nascosi nel mio tempio privato, condannandomi ad un eterno
silenzio…”
“Ed
iniziando, da allora, ad utilizzare il corpo del primogenito dei Kevines ogni
volta in cui volevi tornare a vedere il mondo, troppo impaurito per farlo con
il proprio!” –Chiosò Forco, con voce sprezzante.
“Gli
feci un onore! Arel Kevines fu il primo Dragone del Mare, il Comandante del mio
Esercito, e si batté fino all’ultimo contro gli invasori ateniesi! Ogni volta
in cui chiudo gli occhi mi sembra ancora di vederlo, agile e possente,
combattere al porto di Atlantide mentre l’isola si inabissava, fino all’ultima
stilla di energia!”
“Ah
ah ah! Proprio un grande onore gli hai tributato, infettando la sua stirpe e
condannandola ad essere il simulacro di un Dio codardo e fallimentare, che ha
tradito se stesso, il suo popolo e il suo regno! Bah, è tempo di rimettere
ordine nel mondo, lasciando che paghi chi tanti debiti ha accumulato, e nessuno
deve al mare più di quel che gli devi tu!” –Esclamò l’ancestrale Divinità,
espandendo il proprio cosmo, che lo sormontò come un cavallone gigantesco,
pronto ad abbattersi su indifese rive.
“Se
pensi di impressionarmi, Forco, non ci stai riuscendo!” –Commentò Nettuno,
avvolto nella sua aura tersa. –“Sono un Dio come te e anch’io… so attaccare!!! Assaggia
il Tridente del Re Pescatore!!!” –Esclamò, puntando l’arma avanti e
liberando una devastante scarica di energia azzurra. Ma Forco, che si aspettava
un attacco diretto di quel tipo, aveva già mosso le sue correnti d’acqua,
attorniandosi di un muro protettivo, compatto ma al tempo stesso trasparente,
da cui poté ammirare il volto del rivale tingersi di un’espressione stupita e
infastidita.
“Tutto
qua? Dal possente Nettuno Ennosigaeum, colui che generava terremoti soltanto
battendo il piede al suolo, mi aspettavo molto di più! Ma perché mi stupisco?
Sei vecchio, stanco e solo, tu stesso l’hai ammesso! E ai deboli non può essere
consentito di sedere sul Trono del Mare! No, l’alto scranno oceanico mi
appartiene!!! Kata Thalassa!!!” –Tuonò Forco, scatenando la furia
devastatrice dei cavalloni di energia acquatica, che si abbatterono sul Nume
Olimpico da ogni direzione, schiacciandolo, pressandolo e poi sollevandolo e
travolgendolo di nuovo, fino a schiantarlo contro le mura esterne di un’enorme
costruzione all’apparenza meglio conservata rispetto al resto dell’isola.
“Ouch…”
–Balbettò Nettuno, mentre le acque si ritiravano, lasciandolo fradicio di
sangue e vergogna sulla soglia dell’edificio da lui stesso costruito,
profondendovi quel che restava del suo cosmo, prima di condannarsi a un
millenario riposo.
“Ecco,
resta lì! Non ti muovere! Voglio che tu ammiri il completarsi del mio progetto
di dominio e rivalsa!”
“Di…
cosa vai cianciando, Forco?!” –Affannò Nettuno, sputando e tossendo acqua,
mentre si rimetteva in piedi.
“Credevi
che non fossi a conoscenza del tuo segretuccio?” –Ironizzò l’ancestrale
Divinità, sollevando lo scettro e indicando la costruzione di fronte a sé.
Nettuno
non ebbe neppure bisogno di voltarsi per sapere cosa intendesse, del resto era
proprio lì che si stava dirigendo prima che Forco e Cariddi attaccassero. Non
disse alcunché, limitandosi a fulminare l’avversario con sguardo ostile.
“Non
ti permetterò di violare la cripta ove Elmas riposa! Questo mausoleo è tutto
quel che resta della sua memoria!”
“Ouh!
Io credo che nasconda molto di più!” –Ghignò Forco, con sguardo avido e
compiaciuto. –“Tu stesso hai ammesso che il corpo del consigliere fu travolto
dai flutti, quindi dubito che riposi là dentro!”
“Come
osi?! Mi dai del bugiardo e miri a profanare la tomba di un uomo giusto e
misericordioso che soltanto pace voleva per il suo regno?!”
“Pace
che tu non hai abbracciato!” –Puntualizzò il Dio antico, avanzando verso
Nettuno. –“Ideali che tu per primo hai calpestato salvo poi, invaso dai sensi
di colpa per la morte del vecchio amico, lavarti la coscienza omaggiandolo, scegliendo
come simbolo il suo tridente ed erigendo quest’opulento monumento funebre! Un
po’ voluminoso per essere solo una tomba!”
“Non
permetterti…” –Ma il fratello di Zeus non riuscì a terminare la frase che venne
colpito sul mento da una stoccata di Forco, il cui bastone lo spinse di lato,
schiantandolo contro il peristilio.
“Tu
non permetterti, casomai! Non puoi permetterti più niente, fallito di un Dio
minore! Solo di guardare mentre mi prendo quel che mi serve! L’oricalco che
tanto a lungo hai celato! Ah ah ah! Ottima idea, Nettuno, nasconderlo nella
cripta del tuo consigliere! Il modo migliore per tenerlo in bella vista senza
che nessuno se ne accorgesse!” –Rise Forco prima di piantare lo scettro
nell’interstizio tra le due porte centrali, imprimendovi poi tutto il suo
cosmo. –“Ora, dal momento che non hai più alcun esercito, non ti dispiacerà se
me ne servirò io…” –E liberò una violenta scarica di energia, che percorse
l’intera facciata del mausoleo, facendolo tremare fino ai basamenti.
Qualche
colonna si spezzò, crollando a terra, fregi e architravi andarono in frantumi,
ma la struttura pareva resistere, ben difesa dal divino cosmo di Nettuno che,
nel corso dei secoli, aveva eretto una silenziosa ma consistente barriera
protettiva.
“Apriti,
maledetto!!!” –Tuonò Forco, salvo poi spostare lo sguardo verso l’avversario
prostrato a terra, e capire. Che non tutta la sua debolezza era imputabile al
breve scontro sostenuto ma a un logorante impiego del cosmo che durava da
secoli. –“Sei… folle!!! Così tanto temevi che qualcuno si impadronisse
dell’oricalco?”
Nettuno
non rispose, limitandosi a rimettersi in piedi e a fissare il Dio negli occhi,
accennando per la prima volta un sorriso di sfida, prima di lasciar esplodere
il proprio cosmo, concentrandolo attorno alla gamba destra.
“Enosis!!!”
–Avvampò, calandola a terra e spaccando l’antico lastricato dell’isola.
Una
scossa improvvisa fece barcollare Forco, subito seguita da un’altra, mentre
l’intera pavimentazione di Atlantide iniziava a tremare, schiantandosi poco
dopo e trascinando a terra tutti gli edifici che il tempo aveva conservato.
Faglie si aprirono lungo l’intera lunghezza del perduto regno, da cui presto
getti e onde d’acqua schizzarono fuori, mentre numerose zolle sprofondavano di
nuovo nell’abisso.
“Meglio
che nessuno l’abbia, piuttosto che tu!” –Precisò Nettuno, osservando il volto
sbigottito e frustrato di Forco, che doveva balzare da un lastrone di terra
all’altro per non inabissarsi a sua volta.
“Idiota!!!
A tanto sei disposto? A sacrificare tutto, persino l’ultimo ricordo del tuo
perduto regno?” –Lo apostrofò, scagliandogli contro il bastone ornato dalla
conchiglia, che si piantò ai piedi del Nume Olimpico, esplodendo e
scaraventandolo contro il portone del mausoleo, ancora stabile ed eretto al
centro dell’ultima grande zolla dell’isola, dove anche Cariddi stava
affrontando Titis e i Cavalieri di Atena.
Nettuno
incespicò nel rialzarsi, afferrando un battente del complesso funerario e
usandolo per rimettersi in piedi, perdendosi a rimirare i tridenti scolpiti sui
portoni.
“Elmas…”
–Mormorò, trovando nel ricordo dell’antico saggio la forza per continuare a
lottare, portando al parossismo il proprio cosmo divino. –“Perdonami se puoi!
Il fato, per mano di Zeus, mi ha offerto una seconda occasione. La giocherò per
te!!!”
Un’aura
cristallina lo avvolse, illuminando quel che restava della piazza centrale di
Atlantide, costringendo Forco a coprirsi gli occhi per non restare folgorato da
quell’intenso lucore. Quando la luce diminuì di intensità, vide che Nettuno
aveva aperto le porte del mausoleo, rivelando quel che giaceva al suo interno,
in solinga attesa del suo padrone.
Al
centro di una bara vuota, protetta da un colorato strato di fiori animali, un
enorme corno di conchiglia riluceva pallido. Così grande da non poter essere
reale.
“Che
sia…?!” –Rifletté l’ancestrale Divinità, proprio mentre il cosmo di Nettuno
entrava in sincronia con l’oggetto stesso, che brillò di luce accesa,
distruggendo il corallo che lo proteggeva e portandosi di fronte al Nume, che
ne sfiorò la superficie sorridendo, prima di voltarsi verso Forco e annuire.
Un
istante dopo il corno di conchiglia si scompose in varie parti, tante quanti i
pezzi che componevano la Veste Divina di Nettuno, che ricoprirono prontamente
il suo corpo, donandogli nuovo vigore. Adesso, rivestito della sua prima
corazza, poteva affrontare Forco nel pieno delle sue forze.
“Un
altro inganno?!” –Bofonchiò questi. –“Non soltanto rifiutasti di usare il
proprio corpo, persino la Veste Divina nascondesti, affidando la protezione del
tuo pupillo ad un ben più friabile guscio! Doppia vergogna, Nettuno!!! Non vali
davvero niente come Dio!”
“Taci,
miserabile, e mira il potere del mare azzurro! Corno di Tritone,
echeggia!!!” –Esclamò il fratello di Zeus, mentre un gigantesco corno di
conchiglia, di color oro vivo, splendeva nel cielo sopra di sé, liberando un
fiume di energia contro Forco.
“Ah
ah ah! Tutto qui l’impeto che sei in grado di infondere alle tue correnti,
Nettuno? È questo per te il valore del mare?! Mi fa’ ridere! Mi fai ridere!!!”
–Tuonò l’antico rivale, espandendo il cosmo e fronteggiando a piedi uniti
l’assalto nemico, incurante del flusso energetico che l’Olimpico Nume stava
riversando su di lui. –“Non potrai ferirmi con la forza delle acque, perché le
acque appartengono a me! Io sono il mare primordiale, il mugghiare furioso di
flussi infiniti! E questa è la Prima, e per te ultima, Onda! L'onda da cui è
nata la vita e l'onda che sommergerà questo declinante mondo! Kata Thalassa!!!”
Nettuno
impallidì di fronte a tale pura potenza, che aveva percepito soltanto nel
giovane Zeus ai tempi della Titanomachia, quando il suo cosmo splendeva
abbacinante come un sole in terra, meritandosi a buon diritto l'appellativo di
Signore di Tutti gli Dei. In Forco c'era una forza diversa, dovette ammettere,
di stampo primordiale, a tratti oscura, ma ugualmente in grado di rovesciare
mondi. E vincerlo.
Il
gigantesco maroso di energia cosmica travolse Nettuno, strappandogli il
tridente di mano e scaraventandolo all'interno del mausoleo, proprio contro la
gabbia di coralli che aveva preservato a lungo la sua corazza. L'intera
struttura tremò per un istante, le porte vennero scardinate, numerose colonne
crollarono e persino un muro interno, rivelando, anche da lontano, un bagliore
caratteristico. Un azzurro pallido che soltanto un materiale poteva emettere.
Forco
sogghignò, muovendo un passo verso l'ingresso della costruzione, deciso a
strappare a Nettuno anche il suo ultimo tesoro, quando un leggero spostamento
d'aria lo raggiunse, portandolo a voltarsi di scatto, giusto in tempo per
osservare tre snelle figure balzare su di lui da posizioni diverse. E incorrere
tutte nel medesimo triste destino.
“Quale
onore!” –Ridacchiò il Dio, sollevando il bastone e ponendolo in trasversale
rispetto a sé, liberando guizzanti folgori di energia. –“Non mi capita tutti i
giorni che ben tre donne mi saltino addosso! E che donne! Giovani, belle,
formose! Fossi stato di carattere più dissoluto, avrei di certo approfittato di
una così succulenta offerta! Ma, ahimè, per voi ahimè, il mio cuore appartiene
ad un'altra e sono fedele di natura, per cui da me non avrete alcuna
attenzione, tranne la risoluta risposta ad un eventuale fastidio che per scelta
potreste darmi!” –Aggiunse, fermando la carica delle guerriere e scagliandole
poi a terra, stritolate da folgori bluastre che ne straziarono le già
martoriate corazze.
“Morgana!!!
Tisifone!!!” –Gridarono due giovani dai capelli colorati e le armature
malconce, accorrendo in loro aiuto.
“E
voi chi sareste? I Cavalieri dell'Apocalisse?! Tremo di terrore!” –Li derise
Forco, mentre i ragazzi declamavano a gran voce la loro provenienza.
“Siamo
Reda e Salzius, allievi del grande Albione, dell'Isola di Andromeda! E in suo
onore combattiamo!”
“Ma
fatemi il piacere!” –Li annientò il Dio, scaraventandoli in mare aperto con un
solo cenno della mano, prima ancora che potessero tentare una qualsiasi
tecnica.
“Aaargh!!!”
–Rantolò Titis, affannando nel rimettersi in piedi. –“Nettuno, mio Signore...
devo aiutarlo! Forco non deve raggiungere... il giacimento di oricalco!”
“No,
non devi niente a nessuno, sirena! Lascialo al suo destino e tiratene fuori!
L'offerta che feci al tuo Dio la rinnovo a te, che sei bella e piena di vita!
Accettala e concludi degnamente la tua esistenza, alla corte del vero Sovrano
dei Mari! Non gettarla via inseguendo un sogno fatuo destinato a schiantarsi
contro gli scogli della dura realtà!” –Le disse Forco, avvicinandosi. Quindi,
non ottenendo altra risposta che uno sguardo astioso, la colpì con lo scettro,
gettandola a terra e piantandole poi la punta nel palmo della mano. –“Ultima
possibilità, donna! Prendere o lasciare?”
“Prendere!!!”
–Gridò allora l'acuta voce di Tisifone, scattando alle sue spalle e
tempestandolo con una raffica di scariche energetiche. –“Ma prendi tu gli Artigli del Cobra!!!”
“Sciocca!!!”
–Commentò Forco, torcendo il bastone, che attirò tutte le saette violacee, vanificando
l'attacco. –“Cariddi avrebbe dovuto annientarvi fin da subito, ma ha sempre
avuto una predilezione per le Sacerdotesse di Atena! Forse perché, nel Mondo
Antico, di una di loro si era infatuato, così tanto da contribuire a spingerlo
verso l'opposta fazione! Errore che, da quel che noto, ha pagato caro!”
“Mai
quanto pagherai tu! Ho ascoltato i tuoi deliri imperiali e... grazie ma non ci
tengo che la Terra diventi un unico oceano! Non so quale guerra sia alle porte,
ma non ti permetterò di...”
“Chetati!”
–Sibilò il Dio, muovendo lo scettro e sbattendo la Sacerdotessa a terra,
facendole perdere la maschera eburnea. –“Ma bene! Cosa abbiamo qua? Guarda che
bel faccino!” –Ironizzò, puntando il bastone alla gola di Tisifone e
costringendola a voltarsi, e a sputargli in faccia tutto il suo disprezzo. –“Sentiti
onorata, sarai la prima a cadere per mia mano! Ma non temere, le tue amichette
ti raggiungeranno presto!” –Aggiunse, premendo l'asta sul petto del Cavaliere
d'Argento, fino a schiantarle l'armatura e a raggiungerle la pelle al di sotto.
Ma
prima che potesse trapassarle il costato, un ululato sinistro riempì l'aria, un
suono greve che rimbalzò di zolla in zolla, invadendo l'isola intera e
costringendo Forco a sollevare lo sguardo, cercandone l'origine. Si stupì, al
pari di Titis e Tisifone, nell'accorgersi che, mentre stavano combattendo,
l'isola era stata circondata da decine di navi. Imbarcazioni che, osservandole con
attenzione, riconobbe come velieri e vascelli, ornati con le inequivocabili
bandiere dei pirati.
“Uh?!”
–Mormorò il Dio ancestrale, allontanandosi dalle donne ferite e salendo in cima
ad un rialzo nel terreno, per guardare meglio.
Proprio
in quel momento da ogni imbarcazione partì un colpo di cannone, anticipando una
pioggia di voluminosi proiettili neri, tutti diretti su Forco.
“Cosa
sarebbe questo spettacolo? Il patetico tentativo degli umani di darmi il
bentornato?! Tsè! È destinato a immediato naufragio!” –Ghignò, sollevando lo
scettro e dirigendo violenti folgori di energia verso ciascuna palla di
cannone. Ma, con suo sommo stupore, i proiettili non subirono alcun danno,
proseguendo la loro traiettoria verso di lui. –“Che cosa???” –Esclamò, stupito
e indispettito, rinnovando l'assalto, che nuovamente non incontrò esito alcuno.
Fu
allora che un'agile figura gli balzò sulla schiena, le dita della mano
allungate a guisa di artigli e cariche di venefica energia cosmica.
“Hai
perso la bussola, Dio dei Mari? Lascia che ti ricordi dove sta il nord! Qua!” –Esclamò
la donna, mirando al suo collo.
“Idiota!”
–La redarguì subito lui, voltandosi di scatto, il bastone puntato in alto,
verso il cuore dell’avversario.
“Mor…
gana…” –Balbettò Tisifone, osservando attonita la sorella impalata sullo
scettro di Forco. –“Morganaaa!!!” –Gridò, rialzandosi di colpo e barcollando
avanti.
“Bel
tentativo! C’ero quasi cascato! Ma non dimenticare che sono un Dio e i miei
sensi superano qualsiasi limite umano!” –Commentò il Nume, mentre la donna
rimaneva in silenzio, trattenendo il dolore atroce, come aveva fatto fin da
bambina. Del resto la vita le aveva strappato ben più solidi legami.
“Il
colpo della bandiera… almeno quello… te lo darò…” –Rantolò, cercando di
sollevare un braccio, prima di venir scaraventata addosso a Tisifone.
“Perché?
Perché lo hai fatto, Morgana?!” –Pianse quest’ultima, stringendo forte la
sorella mentre moriva.
“Risponditi
da sola.” –Le sorrise la piratessa, spegnendosi poco dopo, il volto rorido
dalle lacrime di Tisifone.
“Una
scena davvero poetica! Ma inutile! Avreste potuto risparmiarvi tutti questi
guai rimanendone fuori!” –Commentò Forco, passando oltre i loro corpi feriti e
raggiungendo infine l’ingresso al deposito di oricalco, senza sorprendersi
troppo di trovarvi Nettuno, ripresosi finalmente dal precedente assalto.
–“Ancora insisti?”
“È
naturale! Se persino i Cavalieri di Atena muoiono per difendermi, nonostante io
li abbia combattuti in passato, come puoi pensare che sia disposto ad affidarmi
a delicate fanciulle guerriere per proteggere i miei territori?” –Esclamò
l’Olimpico Nume, espandendo il proprio cosmo e strappando una risata all’antico
rivale.
“Niente
più ti appartiene, Nettuno! Credevo lo avessi capito, ormai!” –Sospirò questi
sconsolato, prima di contrastarlo con la propria aura cosmica, saturando l’aria
di folgori energetiche pronte a scatenarsi in un’ultima imprevedibile danza.
Fu
mentre Forco stringeva la mano attorno all’impugnatura a conchiglia, sollevando
lo Scettro dei Mari, che si accorse che Nettuno non aveva più il suo tridente. Nello
stesso momento sentì qualcosa colpirlo alla schiena, un colpo netto e preciso che
lo trapassò, costringendolo ad abbassare lo sguardo proprio mentre le punte di
tre lame argentee sbucavano fuori dall’addome.
“Uh?!
Ouch!”
Titis,
Tisifone e persino Nettuno rimasero attoniti ad osservare la figura sgusciata
fuori da dietro una colonna dell’antico tempio, un uomo che non vedevano da mesi
e che mai avrebbero creduto di ritrovare sull’isola perduta.
“Ma
quello…” –Balbettò la sirenetta, osservandone gli abiti eleganti di John
Richmond, i curati capelli azzurri e l’affascinante volto delicato in cui amava
rispecchiarsi in sua presenza.
“Julian
Kevines!!!” –Esclamò Tisifone, mentre il giovane si allontanava di qualche
passo, osservando Forco crollare sulle ginocchia, il sangue divino che gli
imbrattava il ventre e le vesti.
Nettuno
approfittò di quel momento, richiamando a sé il tridente di scaglie d’oro e
portando il cosmo al parossismo, prima di liberare una devastante folgore di
energia che piovve dal cielo proprio contro il figlio di Ponto, centrandolo in
pieno e distruggendo il suolo attorno e sotto di sé. Annaspando per la duplice
ferita, Forco cercò di trascinarsi verso il più vicino bordo dell’isola,
nonostante Nettuno lo incalzasse con una continua pioggia di fulmini azzurri. A
fatica, raggiunse il limitare della zolla e si gettò di sotto, sprofondando
nell’oceano e tingendolo di rosso.
“È…
finita…” –Incespicò Titis, rialzandosi, nonostante le numerose ferite aperte.
Il
suo Signore annuì, prima di uscire dal mausoleo e ricongiungersi alle donne che
avevano lottato per lui. Anche Julian Kevines si era avvicinato, lo sguardo
improvvisamente stranito, quasi avesse appena compreso di trovarsi su un’isola
ignota in mare aperto.
“Julian!
Cosa fai qua? Come… sei arrivato?!”
“Io…
ero a Capo Vicente, nella residenza di famiglia, quando ho sentito un richiamo
all’improvviso… una voce parlare dagli abissi della mia coscienza. Così,
inseguendo questa mistica melodia, ho preso il largo con uno dei miei
motoscafi, giungendo fin qua… e aspettando il momento giusto per intervenire!”
“La
voce che hai sentito, e che ti ha guidato fin qua, dove la storia della tua
dinastia ha avuto origine, è stata la voce di un Dio, Nettuno per l’esattezza,
la cui Divina Volontà hai ospitato nel tuo corpo, al pari dei tuoi
predecessori!” –Confessò il fratello di Zeus, guardando il giovane negli occhi
e ponendogli infine una mano su una spalla. –“Forse non lo rimembri, ma credo
sia giusto che tu abbia questo!” –Aggiunse, sfiorandogli la fronte. –“I tuoi
ricordi. I nostri ricordi.”
A
quel tocco Julian trasalì, spalancando gli occhi di colpo, mentre una valanga
di immagini gli riempiva la mente. Dalla festa per il suo compleanno, in cui
Titis lo aveva trascinato via, all’incoronazione a Re dei Mari, fino alla
battaglia con Atena e i Cavalieri dello Zodiaco.
“Io…
ho fatto tutto questo?! Io ho causato così tanto dolore, sommergendo migliaia
di innocenti sotto un nuovo diluvio universale?!” –Mormorò, sconcertato, prima
che la voce severa del Dio gli togliesse ogni dubbio.
“No,
Julian! Non tu, ma io sono il colpevole! Io, Nettuno, il Dio che non è stato
degno di essere tale! Forco, su questo, aveva ragione! È tempo di andare
avanti, è tempo che anche gli Dei, al pari degli uomini, si prendano le loro
responsabilità, e io lo farò fin da subito!” –Spiegò il Nume, prima di compiere
un gesto che stupì tutti i presenti.
Fissò
l’erede dei Kevines negli occhi e poi si inginocchiò.
“Ti
chiedo perdono, Julian, per aver abusato di te, del tuo corpo, della tua
volontà, sovvertendola ai miei propositi, solo per la paura di ferirmi. Solo
per la paura della fine. È strano, adesso che la fine di tutto è realmente
arrivata, non provo più niente, alcuna paura, solo un gran desiderio di vivere!
Quale ironia!”
Capitolo 39 *** Capitolo trentasettesimo: Una verità. ***
CAPITOLO TRENTASETTESIMO: UNA VERITA’.
“Infine
sei giunta!” –Esclamò Avalon, in piedi sul muro che separava il Cerchio di
Urano da quello di Saturno, fissando l'enorme uccello nero composta da puro
tenebroso cosmo. –“Più volte invocata da Anhar e infine palesatasi a noi
tutti!”
“Avalon,
tu sapevi della sua esistenza? Sapevi che c'era la Notte dietro tutto questo?
Dietro tutte le guerre che abbiamo combattuto?” –Lo chiamò allora Atena,
forzando il Signore dell'Isola Sacra ad annuire.
“Sospettavamo
che la sua rinascita fosse avvenuta. Molti segni purtroppo lo indicavano e di certo
solo qualcuno di ben più potente avrebbe potuto allattare Ares nell'oscurità;
le Makhai non ne sarebbero state in grado. Ma non avrei mai pensato che si
sarebbe fatta viva adesso, qua sulla Luna, quando ancora non ha recuperato la
sua forma compiuta, per quel che vedo! Che voglia giocare con noi? Vedere fino
a che punto può spingersi, incutendo in noi il timore di una notte infinita?”
“La
Notte...” –Mormorò Pegasus, stringendo i pugni.
“La
primordiale Divinità madre di tutte le tenebre!” –Commentò Phoenix, mentre il
fratello annuiva, ricordando a entrambi che avevano già affrontato due figli
suoi.
“Thanatos
e Hypnos! La morte e il sonno! Gli Dei Gemelli lei li partorì!”
“E
non dimenticate Discordia! Anch'ella di Nyx fu figlia!” –Intervenne Jonathan, e
al solo nominare la Dea della Contesa Phoenix si scosse.
“Molti
figli ho avuto, in verità!” –Parlò allora la primigenia Divinità, con suono
greve e cupo che stordì le menti di tutti i presenti, mentre sopra di loro,
alto nel cielo, l'uccello nero ancora li sovrastava. –“E non tutti si sono
rivelati utili e dediti alla mia causa! Del resto, si sa, le pecore nere
esistono in tutte le famiglie, anche se nella mia preferisco chiamarle pecore
bianche! Eh eh eh!”
“La
tua ironia è fuori luogo! Dicci cosa vuoi e poi vattene! La Luna non è regno
per te!” –Esclamò allora Avalon, espandendo il proprio cosmo che fluì dall'alto
del muro di confine come onde di energia argentea, lambendo i corpi affaticati
dei combattenti e andando oltre, inarrestabile marea di luce.
“Queste
misere dimostrazioni di forza mi fanno solo sorridere, Gran Tessitore! Eh eh
eh! Quello che voglio? È interessante che tu lo chieda! Perché sono qui per
prendere una vita! La tua, per l'esattezza!” –Non aggiunse altro, il tenebroso
rapace, sbattendo le ali e dirigendosi verso Avalon con gran foga, il quale,
nient'affatto turbato, si limitò a volgerle contro il palmo della mano, da cui
si aprì un ventaglio di energia.
Lo
scontro tra i due poteri apparve a chi seguì la scena da sotto uno scontro tra
due mondi diversi, forse tra due universi. Abbagliante era la luce che
proveniva dal Signore dell'Isola Sacra, ostentata come mai Pegasus e i suoi
compagni gli avevano visto fare prima, quasi fosse egli stesso un Dio. E
forse, si chiese il Primo Cavaliere di Atena, lo è davvero?
Dall'altro
lato non poteva essere più oscura e profonda la tenebra che da Nyx sorgeva. Il
solo guardarla generava smarrimento, la sensazione di perdersi in un vuoto
primordiale dove niente esisteva più, ove nessuna luce, neppure il sole, poteva
permettersi di splendere ancora.
Uno
scontro tra due mondi, un fondersi continuo di luce e ombra che generava
folgori argentee e corvine che presto piovvero sull'intera superficie lunare.
“Stella
di Avalon!!!” –Declamò allora il Signore dell'Isola Sacra, generando un
astro di puro cosmo in grado di emanare un'intensa luce adamantina, che obbligò
la Notte ad allontanarsi con rapide falcate delle sue ali nere. Ma se qualcuno
ebbe a credere che quella luce la intimorisse capì subito di essere in errore.
Un
grido gutturale fuoriuscì da quello che pareva essere il becco dell'uccello
demoniaco, prostrando a terra Atena e i cinque Cavalieri, e di certo anche gli
altri Seleniti sparsi per il Reame della Luna Splendente. Un grido di guerra,
fame e tenebra che pareva scavare nella loro anima, svuotandola dell’essenza
primaria.
“È
incredibile...” –Mormorò Andromeda, crollando sulle ginocchia. –“La sento
dentro di me! È come se ci stesse risucchiando il cosmo!”
“Provo
anch'io la stessa spiacevole sensazione, Cavalieri!” –Interloquì Jonathan,
appoggiandosi al suo bastone dorato.
“Questo
perché la Notte si nutre di luce!” –Spiegò allora Avalon, parlando alle loro
menti ferite. –“Ricordate le ombre evocate da Flegias mesi addietro? Ricordate
la proibita tecnica della Maestria di Ombre, che persino gli Dei paventavano?
Anche allora affrontammo creature composte di sola tenebra, nate dai mali del
mondo, sostenute dal dolore e dall'odio degli uomini, miranti a annientare ogni
forma di luce, assorbendola, facendola propria e poi mutandola in tenebra.
Questo, ma in scala molto più estesa, è il proposito di Nyx! Svuotare i nostri
cosmi puri, per lei deleteri, di ogni stilla di energia lucente, per poi stendere
il suo manto di tenebra sulla Terra!”
“Terrificante!!!”
–Esclamò Atena, che a fatica riusciva a sorreggere Nike e l'Egida. –“Come
possiamo fermarla, Avalon? Esiste un modo, vero? Deve esistere!!!”
“A
una tenebra così fitta non possiamo che opporre identica e altrettanto intensa
luce! Sarà il bagliore dei nostri cosmi, portati al parossismo, nutriti della
benigna forza delle stelle e degli ideali che ci hanno condotto fin qui, ad
averne ragione! Non temere, Atena, non cadrai né qua né oggi! Le acque del
Pozzo Sacro non mentono mai!” –Chiosò Avalon sibillino, quindi, vedendo che la
Notte si preparava a piombare di nuovo su di lui, decise di anticiparla
balzando nel cielo, avvolto nel cosmo sfavillante. –“Cometa di Avalon!!!”
Un'abbagliante
sfera di energia tracciò una scia nel cielo tenebroso, diretta verso l'uccello deforme,
che agitò vanamente le sue ali, venendo centrato in quello che pareva essere il
petto. Pegasus e i Cavalieri videro la cometa energetica penetrare quell'abisso
di oscurità, perdersi al suo interno e poi... scomparire.
“Non...
può essere...” –Incespicò Avalon, per la prima volta meravigliato, mentre la
Notte sfrecciava verso di lui, allungando un artiglio di tenebra.
Il
Signore dell'Isola Sacra tentò di evitarlo, ma Nyx fu più veloce, trapassando
il suo corpo con numerosi strali di ombra, fino a schiantarlo a terra, poco
distante dal gruppo di attoniti e impotenti spettatori.
“Mio
Signoreee!!! Luce dello Scettro!!!”
Fu
Jonathan il primo a correre verso di lui, impugnando il Talismano e dirigendo
continui fasci di energia lucente verso l'enorme uccello nero che svolazzava
divertito sopra di loro. Reis lo seguì subito dopo, aiutandolo a rimettere
Avalon in piedi.
Le
belle vesti aulenti, tessute dalle Sacerdotesse sull'isola britannica, erano
adesso logore e strappate, e persino sul volto etereo dell'uomo spiccavano
ferite aperte e lividi che mai ne avevano deturpato lo splendore. Ciononostante
Avalon pareva ancora in forze, ringraziò Jonathan per l'aiuto ma li pregò di
starne fuori.
“Co...
come, mio Signore?! Noi vogliamo aiutarvi!”
“Se
davvero la luce di Avalon non può incuterle timore, pensi davvero che il
baluginio dei nostri cosmi possa qualcosa sulla Notte?!” –Rifletté allora Reis,
comprendendo le motivazioni del loro supremo comandante.
“In
effetti, sarebbero un prelibato antipasto. Ma niente di più!” –Giudicò allora
Nyx, abbandonandosi ad una cupa risata, prima di planare al centro del Cerchio
di Urano, rannicchiare le ali su se stessa... e cambiare forma.
“Che...
cosa?!” –Esclamarono i Cavalieri di Avalon e di Atena, osservando la
trasformazione in atto. Le zampe artigliate dell'uccello nero divennero lunghe
gambe mentre le ali sventolarono ancora un poco prima di assumere la forma di
un tetro mantello, atto a coprire lo snello corpo umano della Dea primordiale.
Il volto però non riuscirono a vederlo, riparato sotto un cappuccio nero da cui
soltanto due iridi violacee parevano filtrare. Occhi carichi di malvagità.
“Hai
dunque assunto forma definitiva, Nyx! La tua rinascita è completa!” –Chiosò
Avalon, strappando una nuova sghignazzata alla Dea, la cui voce ora era ben più
riconoscibile. Più umana, più acuta, ma ugualmente sadica.
“Da
tempo ormai ho riacquistato i miei poteri, da quando rinacqui tra le montagne
di Morea anni addietro sotto forma di uovo nero. Un uovo da cui presto,
alimentata dalle ombre del mondo, che gli uomini con i loro gesti e turpi
pensieri non fanno che accrescere ogni giorno, spalancai le mie ali,
rivelandomi agli ignari predoni che mi avevano trovata!” –Narrò Nyx, di fronte
allo sguardo attento di Avalon. –“Ebdera mi chiamarono, e per molti anni mi
venerarono come la loro madre, la dispensatrice di oscure carezze. Ed in
effetti una madre mi si può considerare, la madre del male e delle ombre, che i
miei figli, personificazioni di sentimenti crudi e violenti, hanno contribuito
a portare nel mondo! Inganno, vendetta e morte violenta! Vecchiaia, colpa e
miseria! Sentimenti che certamente conoscete bene!”
“Ebdera?!”
–Mormorò Pegasus, ricordando uno dei suoi primissimi scontri, ancora prima di
ottenere l'armatura di Cavaliere dello Zodiaco. –“Era il nome di una
confraternita di predoni che era solita razziare i villaggi fuori da Atene...
Io e Cassios ne sconfiggemmo una decina, come prova preliminare per accedere
all'arena.”
“Esattamente,
Cavaliere di Pegasus! Quelli da voi uccisi non erano che l'ultimo retaggio di
una stupida dinastia di bestie, una morbosa fratellanza cui entravano a far
parte tutti i reietti umani, i rifiuti che il Grande Tempio non accettava tra
le loro fila. Troppo violenti, troppo pericolosi e ben poco adatti a divenire
Cavalieri di pace e speranza. Un terreno confacente alle mie esigenze! Eh eh
eh! Crebbi alla loro ombra, nutrendomi del loro animo, della tenebra che ogni
giorno mi portavano con le loro azioni, e poi, quando ebbi ripreso le mie
forze, li abbandonai al fato crudele, svuotati ormai di qualsivoglia energia
cosmica. Fu un'esperienza piacevole, sebbene gli angusti spazi delle caverne
della Morea non fossero adatti a me. No, Avalon, tu ben lo sai che io amo gli
spazi ampi, le distese sconfinate del cielo ove posso spalancare le mie ali
d'ombra all'infinito!”
“Ali
con cui ricoprire la Terra con un manto di tenebra!” –Precisò questi, di fronte
al ghigno divertito della Notte.
“Ali
che ti spezzeremo, stregaccia!!!” –Avvampò Pegasus, facendosi avanti. Ma il
Signore dell'Isola Sacra gli afferrò subito un braccio, torcendoglielo e
dicendogli di andarsene.
“Subito!
E porta Atena con sé! Adesso che la Notte ha riacquistato la sua vera forma, e
con essa la totalità dei suoi poteri, è avversario al di là della vostra
portata!”
“Ma,
mio Signore, abbiamo risvegliato il Nono Senso! Possiamo tenerle testa! Questa
è anche la nostra guerra! La combatteremo assieme!”
“Non
essere sciocco, Pegasus! È di una Divinità ancestrale che stai parlando!
Persino il Nono Senso è poca cosa con lei, un trampolino di lancio ma niente
più. E voi non potete ancora lanciarvi! Per cui, se mi avete capito,
andatevene!” –Concluse Avalon con voce decisa, stupendo i Cavalieri dello
Zodiaco, che non lo avevano mai sentito parlare in modo brusco. –“Non fatemi
ripetere! Lasciate a me quest'ostico avversario di fronte al quale Ares e
Flegias erano niente!”
Pegasus
cercò di perorare la propria causa, sostenuto dai compagni e anche da Atena,
tutti restii ad abbandonare proprio adesso il Signore dell'Isola Sacra, anche
in virtù dei molteplici aiuti che l'alleato aveva sempre fornito loro.
“Morireste
tutti, giovani Cavalieri, e a nulla sarebbe valso il cammino percorso fino ad
oggi! Perché solo una nera tomba può attendere chi osa sfidare la Notte senza
adeguata preparazione! Ora va’, Pegasus, fa’ il tuo dovere di Cavaliere di
Atena e porta la Dea in salvo! Nell'Occhio! Selene è là e sta usando il suo
cosmo per mantenere unita la struttura molecolare della Luna! Con tutte queste
esplosioni c'è il rischio che questo zoccolo di terra si schianti da un momento
all'altro e quello sarebbe un pericolo enorme per il pianeta! Non devo certo
essere io a ricordarvi gli sconvolgimenti ambientali che potrebbero sorgere in
caso di distruzione del satellite?! Coraggio, Atena, andate! Unite il vostro
cosmo a quello di Selene, per il tempo che ci vorrà per porre fine a questa
minaccia!”
La
Dea finalmente annuì, sia pur riluttante, lasciandosi scortare da Pegasus,
Phoenix e Andromeda verso il Cerchio di Saturno, mentre Avalon si rivolgeva ai
suoi seguaci.
“E
voi?! Che fate ancora qui?!”
“Noi
restiamo, maestro! Ci siamo allenati tutta la vita per questo!” –Esclamò
Jonathan con voce fiera, prima che Reis gli facesse eco.
“Non
vi abbandoneremo! Useremo i tali...”
“No!!!
Dovete andarvene, adesso! Questo non è più posto per voi!” –Affermò perentorio
il Signore dell'Isola Sacra, stupendo i suoi stessi discepoli. –“Tornate sulla
Terra, raggiungete Ascanio e rimanete con lui! I Talismani non devono andare
perduti, non adesso!”
“Ma...
Signore... noi siamo i Cavalieri delle Stelle... ci avete creato per questo...”
“Reis,
dai una botta in testa al tuo biondo compagno! Temo che a frequentar troppo
Andrei abbia iniziato a mettere le passioni prima della ragione!” –Lo zittì
Avalon, prima di addolcire il tono della voce, vedendo quanto sinceramente i
due giovani volessero assisterlo in quel duro scontro. –“Il vostro compito era
di coadiuvare i Cavalieri dello Zodiaco, e lo avete fatto, come loro dovevano
prendere pieno possesso del loro Nono Senso. Entrambi gli obiettivi sono stati
raggiunti per cui non avete più motivo di rimanere su quest'ermo satellite.
Lasciate fare a me, adesso, mi occuperò io di Nyx! Ci rivedremo sull’isola
sacra quanto prima!”
“Vi
rivedrete da morti! E forse neppure allora!” –Ghignò la Notte, sollevando
ondate di oscura energia, che si abbatterono all'istante su Avalon, forzandolo
a porre tutto se stesso nel contrastarle.
“Dietro
di me!!!” –Gridò a Reis e Jonathan, afferrandoli con un braccio prima che
venissero risucchiati dall'imperiosa marea di tenebra. –“Pegasus!!!” –Si girò
di scatto, osservando Atena e i suoi Cavalieri correre a perdifiato verso il
varco per il Cerchio di Saturno, incalzati dalle dirompenti ondate di energia
nera, che li raggiunsero poco dopo, travolgendoli e sbattendoli con forza
contro il muro di confine.
“Maledizione!!!
Questa melma... sembra viva!!!” –Ringhiò Pegasus disgustato, cercando di
evitare di essere sommerso da quel continuo innalzarsi e turbinare della marea
d'ombra.
“Non
sembra, ragazzo. È!” –Commentò allora Nyx, assumendo la forma di uccello nero e
svolazzando sopra di loro. –“È il cosmo della Notte! Lasciati cullare, Pegasus!
Lascia che ti avvolga in un cielo senza stelle, dove non vi saranno più affanni
e dolore, solo l'eterna quiete del silenzio!”
“Sei
fuori di testa!” –La schernì allora il giovane, senza essere minimamente
ascoltato dalla Dea.
“Immagina
un mondo totalmente nero, dove non vi sono più contorni. Un mondo dove tutte le
cose sono uguali al punto da non risultare più distinguibili. Quello è un mondo
perfetto, dove tutte le differenze che dominano quello presente vengono
annullate. In un mondo di tenebra non vi sono ricchi e poveri, potenti e
deboli, anziani e giovani, tutti sono uguali e condannati allo stesso destino.”
“Un
destino di privazione e tenebra, finalizzato a servire l'oscurità!” –Declamò
allora il Signore dell'Isola Sacra, espandendo il proprio cosmo argenteo e
annientando le tenebra che lo attorniavano, permettendo a Reis e Jonathan di
tornare a respirare. –“Un destino che ancora non è stato scritto! Cometa di
Avalon, illumina la via!!!” –Aggiunse, dirigendo sciami di comete
energetiche verso Nyx, che, esaltata da quella nuova sfida, sfrecciò nella
miriade di sfere luminosi, sghignazzando divertita.
“Sei
vecchio, Avalon! Vecchio e stanco! Hai atteso per tutto questo tempo,
consumandoti vanamente per il giorno dell'ira! Della tua antica freschezza,
l'etere che avrebbe dovuto rischiarare il mondo, cosa è rimasto? Qualche fuoco
d'artificio, niente di più!” –Esclamò la Notte, puntando gli artigli verso il
basso e allungandoli, in modo da generare affilati strali di tenebra, che
subito diresse sul Signore dell'Isola Sacra.
“Forse.”
–Considerò quest'ultimo, rispondendo con eguale quantità di comete. Ma per
quante ne scagliasse, per quante ne scatenasse, lucenti, contro Nyx, tutte
venivanoinfilzate da quegli unghioni
neri. Tutte venivano trapassate, esplodendo e disperdendosi, senza causare
alcun danno all'ancestrale Divinità.
“Hai
avuto la tua occasione, vecchio tessitore! Adesso tocca a me!!!” –Gridò,
intensificando il proprio assalto, che divenne una vera e propria grandinata di
strali oscuri, che abbatté tutte le difese che Avalon poté sollevare in quel
breve lasso di tempo. Persino Reis e Jonathan vennero spinti indietro, le
armature trapassate da quei lunghi speroni di tenebra in grado di estinguere
anche la luce più pura.
“Pur
tuttavia...” –Rifletté pacato il Signore dell'Isola Sacra, socchiudendo gli
occhi e radunando il cosmo fino all'ultima stilla, costringendosi però a
risollevare lo sguardo poco dopo, quando un secco suono argentino mitigò la
macerante pioggia d'ombra. –“Uh?!”
“Non
sei solo in questa guerra!” –Esclamò Atena, sorreggendo l'Egida con entrambe le
mani, tanto poderosa era la pressione esercitata dal cupo cosmo di Nyx. –“Come
ci aiutammo a Mount Badon, ugualmente faremo quest'oggi! E i bardi canteranno
anche di noi in futuro! Di come vincemmo di nuovo l'ombra!”
“Dea
Atena...” –Sorrise per un momento il suo antico compagno d'armi. –“Non è
necessario...” –Ma in quel momento la spinta della Notte si fece più potente,
superando anche le difese dello scudo forgiato da Efesto, scheggiandolo in più
volte e sbattendo infine a terra la figlia di Zeus, facendole perdere l'elmo
nell'impatto e la presa sulle armi.
“Atenaaa!!!”
–Sbraitarono Pegasus, Andromeda e Phoenix correndo da lei, per quanto ancora
invischiati e ostacolati da quella melmosa corrente d'ombra, che adesso, a un
comando di Nyx, divenne un vero e proprio turbine oscuro, che risucchiòi tre Cavalieri al suo interno,
sballottandoli per qualche istante, prima di rilasciarli bruscamente,
schiantandoli a terra uno dopo l'altro, accanto alla Dea da loro amata.
Crocifissi
sul suolo lunare, da lunghi strali di tenebra che perforarono loro i polsi e le
gambe, i Cavalieri dello Zodiaco lottarono con tutte le forze per liberarsi,
per spezzare quell'oscuro legame che stava lentamente prosciugando la loro
energia. Gli parve quasi di vederla, a Pegasus, la lucentezza del suo cosmo
svanire, come gocce di rugiada, scivolando impotente lungo quegli unghioni
oscuri fino al cielo, laddove la Notte li osservava soddisfatta.
“No!!!”
–Gridò allora il Primo Cavaliere della Dea, incitando i compagni a reagire. –“Non
possiamo permetterlo! Nyx non deve avere la nostra energia, la nostra forza, la
nostra vita! Sarebbe un'offesa a coloro che ci hanno permesso di arrivare fin
qua! Ricordate, quanti amici? Quanti sacrifici? Quante esperienze abbiamo
vissuto in questo breve arco del tempo cosmico in cui abbiamo combattuto
assieme? Vogliamo gettare via tutto adesso, a un passo dalla fine? Io no!!!”
“Pegasus...”
–Commentò Andromeda, mentre già Phoenix bruciava il proprio cosmo ardente. –“Siamo
con te!”
“Anche
noi!!!” –Gli fecero eco Reis e Jonathan, i cui corpi risplendevano avvolti da
un turbinare di polvere di stelle.
“Insieme,
amici!!!” –Esclamò Pegasus, mentre un cavallo alato di lucente energia
scaturiva dal suo cuore, galoppando libero fuori dalla prigione di tenebra e
recidendone gli strali con il puro battere delle sue bianche ali. –“Iaiii!!!
Per Atenaaa!!! Fulmine di Pegasus!!!”
“Ali
della Fenice!!! Nebulosa di Andromeda diventa tempestaaa!!!” –Gli andarono dietro i due fratelli.
“Vortice
scintillante di luce!!! Grande Nube di Oort!!!” –Conclusero i
Cavalieri delle Stelle, mentre le cinque energie cosmiche sorgevano dal suolo
lunare, dirigendosi verso l'uccello nero, che ebbe giusto il tempo di
profondere in una sonora risata prima di essere investito in pieno dal
portentoso assalto.
Quando
il lampo di luce scemò d'intensità, Pegasus e i suoi compagni, e Atena che nel
frattempo si era rialzata, osservarono speranzosi la volta celeste, sperando di
veder ricomparire le stelle. Ma rimasero di sasso quando notarono che la luna
era ancora avvolta da un manto di tenebra e che al centro di quella stessa
tenebra si ergeva una figura dai tratti umani, per quanto i contorni ancora non
riuscissero a distinguere.
“No...
Non è possibile!!!” –Esclamò Pegasus. “Era un attacco di potenza devastante!”
“Ma
lei ne è uscita indenne...” –Osservò Andromeda, con voce minata dalla sfiducia.
“È
davvero una Divinità primordiale, la vera essenza della notte…” –Concluse
Phoenix.
Quasi
come avesse compreso il loro sconforto, Nyx calò su di loro, scivolando con
grazia nell'ombra, fino ad atterrare sul suolo lunare. Il lungo mantello
incappucciato le copriva ancora il volto, ma Pegasus, se avesse potuto, avrebbe
scommesso un occhio che sotto quelle tetre vesti dimorava una bestia.
“È
stato un bel tentativo! L'ho apprezzato, davvero! Ma ora toglietevi di mezzo e
lasciate che mi nutra della mia preda!” –Dichiarò l'acuta voce della Notte ma
nessuno dei Cavalieri si scansò, anzi tutti sollevarono le braccia in chiaro
segno di sfida. –“E sia, dunque! Che la vostra esistenza giunga quest'oggi alla
fine! Addio, impavidi eroi dell’ultimo secolo!Marea d'ombra, travolgili!!!”
Una
devastante ondata di pura tenebra fluì dalle mani di Nyx, sollevandosi rapida
sotto forma di giganteschi cavalloni di energia oscura, che investirono
Pegasus, Atena e tutti i loro compagni, superando qualsiasi difesa. Andromeda
tentò di ancorarsi al suolo con le catene, ma resistette pochi secondi, il
tempo di cui l'ombra necessitò per corrodere le sue armi e spezzarle.
“Aaahhh!!!”
–Gridarono i Cavalieri dello Zodiaco, sommersi, sopraffatti e schiacciati da
un'oscurità mai percepita prima d'allora. Un'oscurità pura e primigenia il cui
tocco li faceva rabbrividire. Un'oscurità in cui però, ad un certo punto,
notarono una luce brillare: prima fioca, leggera, lontana, poi sempre più
vivida, vasta e crescente.
Sulle
prime Pegasus pensò che fosse il cosmo caldo di Atena, che veniva in loro
soccorso come in passato, ma poi, allungando la mano, sfiorò la pelle della
Dea, che annaspava vicino a lui, alla ricerca di un'ancora di salvezza. Il
ragazzo la afferrò, tenendola stretta, prima di capire che quel sole nascente
era Avalon.
“Hai
troppa fiducia in te stessa, mia cara Nyx, e ben poca negli altri! Difetto che
un giorno ti costerà caro!” –Esclamò placido il Signore dell'Isola Sacra, le
cui vesti, ormai ridotte a stracci, turbinavano sul suo corpo, sospinte da un'improvvisa
tempesta di luce. –“Ti insegnerei un proverbio umano, ma dubito tu capisca cosa
siano un gatto e un sacco!”
“Tanta
irriverenza e una così misera potenza!” –Sibilò la Notte, concentrando su
Avalon tutto il suo attacco, ma accorgendosi, con fastidioso stupore, di non
riuscire a smuoverlo, tanto fermo era all'interno del suo vortice di luce. –“No...
Non è lui a generare quella corrente... bensì qualcosa che si è interposto tra
me e lui... Ma cosa?!” –Per saperlo dovette ridurre l'intensità dell'assalto,
sgranando gli occhi, al pari dei Cavalieri di Atena e delle Stelle, quando vide
un astro scintillante fuoriuscire dalle tenebre. Un astro artificiale, di una
qualche lega metallica che gli uomini avevano lavorato per dargli quella forma.
–“Ma quella è...”
“Vieni
e vestimi, mia armatura!” –Esclamò allora Avalon, mentre l'astro si scomponeva
in tanti pezzi quante le parti della corazza che andò subito a ricoprire il suo
corpo. Argentea, splendente e immacolata. Una corazza che trasudava la forza di
eoni di storia e che il Signore dell'Isola Sacra non indossava da secoli.
“Quindici
secoli per l'esattezza.” –Commentò Atena, ricordando la Guerra di Britannia in
cui Avalon aveva vestito l'angelica armatura.
“Ars
Magna...” –Mormorò infine Nyx, stupefatta. –“La gloriosa armatura di Avalon! La
cosa più grande! È questo il nome riservato alle corazze delle Divinità
ancestrali. Ma non ti servirà granché, poiché anch'io dispongo di una di esse!
Vuoi dunque che la indossi?”
“Fai
quel che devi! Adesso siamo alla pari!” –Chiosò Avalon, puntandole contro un
dito da cui lesto lampeggiò un fascio di energia luminosa.
“Pari?!
Ah ah ah! Sei andato fuori di senno? Le abiette nebbie dell'isola ti han
ottenebrato la ragione? Come potremo mai essere pari? Un uomo e un Dio, e dei
più antichi?” –Rise Nyx, parando l'affondo con il solo palmo della mano.
“Non
ci sono più uomini su questa Luna, solo entità che stanno oltre. Dovresti
averlo capito, vista la fine che ha fatto il tuo esercito di Signori della
Guerra!”
“Cosa
vuoi che mi importi?! Le loro vite servivano a ben poco. A differenza vostra,
io posso attingere ad un inestinguibile pozzo di energia! Un immenso buco nero
da cui estrarre un'armata di pura tenebre. Hai presente, Avalon? Tu sai cosa
attende silente e affamato nell’intermundi!” –Mormorò la Notte, torcendo le
labbra in un ghigno perverso.
“Intermundi?!
Lo spazio… tra i mondi?!” –Rifletté Andromeda.
“Che...
cosa intende? Quale forza ancora nasconde?” –Si chiese Pegasus, ricordando
l'ansia con cui il Signore dell'Isola Sacra aveva tentato di mandarli via poco
prima. Che cosa lo intimoriva davvero? Se Nyx era il nemico ultimo che stava
dietro Flegias, e dietro il ritorno di Ares e Discordia, perché non aveva
voluto affrontarlo insieme? Perché aveva voluto allontanarli? Non sarebbe stato
meglio fronteggiarla tutti assieme, unendo le forze nell’ultima battaglia?! Di
certo, non appena ne avesse avuto occasione, ne avrebbe parlato con Atena, che
sembrava nutrire dubbi al pari di lui.
“Ti
sei chetato? Non hai più validi argomenti da oppormi?” –Ironizzò Nyx,
interpretando il mutismo di Avalon come una sconfitta e preparandosi per l'ultimo
assalto.
“Ne
ho uno io!” –Esclamò allora una nuova limpida voce, accompagnata da un delicato
pizzicare d'arpa. Migliaia di falene di energia acquatica parvero sollevarsi
nel cielo nero, fendendo l'oscurità e maculandola con il loro glauco balenio.
–“Non sei l'unica ad avere un'immensa energia da parte, anche Avalon ne dispone
ed è quella dei suoi amici e fratelli, con cui ha condiviso il cammino!”
La
Notte si voltò di scatto verso l'ingresso del varco per il Sesto Cerchio, sul
cui devastato sentiero era apparso un giovane dai mossi capelli castani e gli
occhi verdi, rivestito di una scintillante armatura. Le forme e gli intarsi,
tutti lo notarono, erano simili a quella di Avalon ed emanava la stessa aura di
eternità, sebbene, anziché essere argentea, fosse di color verde acqua. Sulle
prime non lo riconobbero, avendolo visto in una sola occasione, ma quando mosse
di nuovo le dita, sfiorando le corda della cetra, si ricordarono di lui.
“Il
mio nome è Asterios, Principe della Luna. E fratello di Avalon!”
L'apparizione
di Asterios prese tutti di sorpresa, tranne Avalon che aveva percepito
l'avvicinarsi del suo cosmo, ma ancor di più fece scalpore la notizia che il
Signore dell'Isola Sacra, il solitario leader che da anni (secoli forse? si chiese Pegasus) tesseva in silenzio solide trame
contro l'ombra, avesse un fratello. Persino Reis e Jonathan parevano ignari
della cosa, sebbene, osservando meglio la corazza di Asterios, e poi quella di
Avalon, non poterono non notarne la somiglianza con un'altra armatura a loro
ben più nota. Soprattutto al Cavaliere dei Sogni.
“Non
fosse per l'assenza di spuntoni sui coprispalla, le forme più aggraziate e il
colore ovviamente, direi che è identica a quella di Andrei!” –Esclamò, mentre
anche la compagna annuiva, ricordando un altro misterioso individuo dalla
corazza ugualmente simile, da lei incontrato soltanto in una manciata di
occasioni. Quasi tutte funeste. –“Alexer! Il Signore dei Ghiacci! Che sta
succedendo, Reis?”
“Non
lo so, ma il fatto che persino i Quattro si siano mossi indica che siamo a un
passo dalla fine! I nostri Talismani... presto li useremo per l'ultima volta!”
“O
per la prima!” –Ironizzò Jonathan, riferendosi allo scopo per cui furono
forgiati.
Il
Cavaliere di Luce assentì, prima di riportare lo sguardo su Asterios, che nel
frattempo aveva affiancato Avalon, in un luccichio generato dalle migliaia di
falene che si muovevano nell'aria, seguendo i suoi spostamenti.
“Ridicoli
poteri metti in campo, Gran Tessitore! Un musico che si diletta con delle
farfalle?! Guarda cosa ne faccio delle vostre bestioline!” –Rise Nyx,
sollevando un'onda di oscurità con cui fagocitò lo spazio tra di loro,
inghiottendo tutte le falene.
“Così
pare.” –Chiosò Asterios, concedendosi un sorriso sghembo, al pari del fratello.
Indispettita
per quell'atteggiamento altezzoso, Nyx tirò un'occhiata al velo di tenebra che
aveva eretto attorno al satellite, notando che per la prima volta vi erano dei
buchi. E notando, al pari di Pegasus e degli altri combattenti, le stelle
continuare a brillare di là da esso, simbolo di un universo che seguitava ad
esistere, nonostante la Notte. Di un futuro libero e privo di ombre che poteva
ancora essere creato.
Per quanto sarà possibile? Si chiese il Primo Cavaliere di Atena, rimettendosi
in piedi a fatica, assieme alla Dea e a Phoenix e Andromeda.
“Sei
venuto a dar manforte al tuo affaticato compare? Ben poco utile sarai! Ma
provaci, Principino della Luna! Dimostra che quel titolo vale qualcosa!”
“Le
tue parole amare non mi tangono, Nyx! Ma dato che della Luna hai parlato, per
essa combatterò! Per chi vi abita, e che nel sogno di Selene ha creduto, e per
la Dea che mi ha accolto come fossi uno di famiglia, non facendomi mai mancare
affetto e protezione. Sebbene io dovessi garantirla a lei.” –Commentò Asterios,
pizzicando per l’ultima volta la cetra e poi gettandola via, rivelando uno sguardo
risoluto. –“Se notte porti, giorno avrai! Aye!” –Aggiunse, aprendo un braccio
di lato e lasciando cadere a terra una goccia di cosmo, di cristallino colore
celeste. –“Lance di ghiaccio!!!”
Il
sabbioso suolo lunare che lo separava dalla Notte venne ricoperto all’istante
da un consistente strato azzurrognolo, che si espanse ben oltre la posizione da
lei occupata, permettendo alla Dea di specchiarsi in quel terreno ghiacciato
dentro cui pareva fermentare una fiumana di pura energia. Poté guardarsi per un
istante, rimirando il luccicare di gioielli che teneva nascosti, l’unico segno
di luce in quel tenebroso spirito, prima che il terreno stesso si sollevasse,
assumendo la forma di aguzze aste di ghiaccio dirette al suo cuore.
Nyx
dovette balzare indietro, evitando i pericolosi affondi, ma ogni qual volta
toccava terra subito il suolo si congelava e nuove lance azzurre emergevano
pronte ad infilzarla, inseguita dalla silenziosa marea di cosmo che Asterios
aveva risvegliato.
“E
sia dunque!” –Sibilò, dopo l’ennesima schivata, balzando in alto e assumendo di
nuovo la forma di uccello nero, portandosi al di sopra della portata degli
attacchi nemici. Questo, quantomeno, fu quel che credette.
Il
fratello di Avalon torse le labbra in un sorriso astuto, mentre migliaia e
migliaia di strali azzurrognoli sfrecciavano nell’aria, obbligando l’oscuro
volatile a continue acrobazie per evitarle. Non vi era posto nel cielo ove le
lance di Asterios non potessero giungere, generate dal suo cosmo che fluiva
attraverso il suolo lunare, un territorio che nel corso dei secoli trascorsi
sul satellite aveva ben imparato a conoscere e a rispettare.
Per
un momento chiuse gli occhi, ricordando che proprio là, presso i cerchi
esterni, amava passeggiare, intrattenendosi con i guardiani e ascoltando le
loro storie, nutrendosi di un’infinita conoscenza che solo chi il mondo aveva
così tanto amato poteva trasmettergli. Da Chandra, Tsukuyomi e Tecciztecatl
molto aveva appreso, sulle culture dei popoli, sulle necessità degli uomini di
credere in qualcosa, fosse solo in un pallido disco che roteava attorno al
pianeta, e proiettarvi le loro ansie e paure. Sorrise, ripensando ai Custodi
dei Cerchi Esterni, a quanto avesse provato a insegnar loro a combattere,
venendo sempre ringraziato ma mai accontentato.
“Perché
non volete imparare a difendervi?” –Aveva chiesto loro più volte, stupito e
frustrato dal loro diniego. –“Temete di offendere la Dea della Luna, praticando
arti che lei ha bandito?!”
“Non
soltanto, ragazzo.” –Erano soliti rispondergli, soprattutto il Selenite di
Urano. –“Ma ognuno ha la sua natura, e questa è la nostra. Vorresti forse
cambiarla? Vorresti forse che la luna brillasse alla stregua del sole? Rossa e
radiante, come il sangue che in guerra cola, come l’ardore che infiamma l’animo
dei combattenti, come il vino che scorre copioso nelle coppe dei vincitori? No,
non lo vuoi, lo so bene. E allora lascia che la nostra luce sia come la vedono
dalla Terra. Lascia che sia pallida, diafana, forse un po’ triste, ma mai
spenta.”
“Mai
spenta!” –Ricordò Asterios, chiudendo le dita della mano destra a pugno,
proprio mentre Nyx, evitata l’ultima raffica di lance di ghiaccio, piombava
verso lui e Avalon, allungando lunghi artigli di tenebra. –“Non riuscirai in
quest’impresa!!!” –Avvampò, sollevando il braccio, le dita della mano aperte, e
dirigendo migliaia di azzurri strali di cosmo contro di lei.
Il
fratello lo imitò all’istante, liberando uno sciame di comete energetiche che si
avvolsero attorno alle lunghe aste di ghiaccio, riempiendo il cielo e
obbligando la Notte ad incrementare il numero dei suoi unghioni oscuri.
Lo
scontro continuo e pressante generò lampi di energia che saettavano a destra e
a manca, forzando Atena e i Cavalieri dello Zodiaco e di Avalon a rimanere a
debita distanza, per non essere raggiunti. Fremeva, Pegasus fremeva, dal
desiderio di lottare con quell’orrenda e temibile creatura eppure, al tempo
stesso, non poteva evitare di sentirsi frenato. Da perché a cui non sapeva
rispondere e da una spiacevole sensazione che l’aveva invaso quando Nyx aveva
posato gli occhi su di lui la prima volta. Quella sensazione gelida che mai lo
aveva conquistato in battaglia, nemmeno nei momenti più disperati, quando si
era detto pronto a dare la vita in nome della libertà e della salvezza
dell’umanità.
La
paura di morire.
Non… adesso. Mormorò il ragazzo, stringendo i pugni fin quasi a
farli sanguinare, mentre una poderosa esplosione dilaniava l’atmosfera di
fronte a loro, forzandoli tutti a sollevare le braccia per difendersi dall’onda
di riflusso. Quando questa scemò, i Cavalieri videro Avalon e Asterios ergersi
ancora, sia pur affaticati, avvolti dalle loro aure cosmiche, mentre la Notte,
recuperata forma umana, li osservava da lontano, il lungo mantello nero che le
oscillava attorno, donandole un’apparenza demoniaca.
“Ebbene?
Di nient’altro siete capaci, voi che così a lungo avete atteso l’avvento della
grande ombra?!” –Gracchiò con voce stridula. –“Ma perché mi sorprendo?! In due,
in fondo, cosa mai potreste essere in grado di fare? Evocare le nebbie, qualche
farfallina di energia per stupire gli amici di Grecia e sfere di luce destinate
a perdersi nella marea d’ombra che mi sorregge! Ma questo lo sapete già da
soli, non c’è bisogno che io puntualizzi, ricordandovi come vi siete ridotti! Se
avevo sorriso, quando da cinque rimaneste in quattro, adesso mi inebrio
esaltata del vostro fallimento! Ah ah ah! Come vi facevate chiamare un tempo?
La gilda dell’equilibrio? La pentarchia dei garanti? Nomi roboanti atti a
nascondere la debolezza delle vostre vane azioni e la mancanza di concordia che
vi caratterizzava, e caratterizza tuttora, da quel che vedo!”
Avalon
a quelle provocazioni non rispose, limitandosi a tenere fisso lo sguardo su di
lei, mantenendo quella parvenza di sicurezza con cui aveva sempre fronteggiato
ogni nemico, senza mai dargli occasione di compiacersi. Sebbene, in questo
caso, Nyx tenesse il pugnale dalla parte dell’impugnatura.
“Non
parli ma io so. Io vedo. Per mezzo dei suoi occhi, è chiaro! Ho visto quel che
avete fatto, come vi siete persi, incapaci di perseguire obiettivo comune! Ti
sorprendi che io sappia? Che lui sappia? Non dovresti! Sai bene, del resto, che
il tempo passa lentamente quando si è da soli, tu stesso l’hai provato, nelle
lunghe veglie solitarie trascorse sulla cima del colle nebbioso a fissare il
cielo, osservando e aspettando che la configurazione astrale venisse
ricomposta. Lavoro ingrato, non trovi? Quanto è durato? Secoli forse? Un
niente, se paragonato alla solitudine dell’intermundi. Una solitudine infinita,
durata millenni, eoni addirittura, in cui nient’altro ha potuto fare se non
osservare e meditare, preparandosi alla nuova venuta. Al secondo avvento!”
–Chiosò Nyx, mostrando il pugno ad Avalon e ad Asterios, avvolto in una bruma
scura, prima di aprire le dita una ad una. –“Cinque eravate, non un numero
casuale! E sette Talismani, che avete allevato come agnelli, non come figli, bensì
come bestie da sacrificare sull’altare dell’equilibrio. Sette manufatti da
opporre alle sette pietre nere. Peccato che qualcuno… vi abbia lasciato!”
“Taci!!!”
–Tuonò allora il Signore dell’Isola Sacra, avvampando in un’aura argentata e
puntando un dito contro la Dea, da cui scaturì un fascio di luce che colpì il
suolo tra i suoi piedi, spingendola indietro con una repentina esplosione.
“Mancato!”
–Sogghignò questa, rialzandosi. –“Non sei preciso nel colpire quanto io lo son
con le parole, nevvero, Avalon?”
“Per
la verità…” –Si limitò a commentare quest’ultimo, concedendosi un sorriso,
mentre Nyx si accigliava, non comprendendone l’atteggiamento. Solo allora si
accorse che, balzando indietro, era atterrata in una pozza d’acqua e che,
scrutandola meglio, capì che non poteva affatto essere tale.
“Non
propriamente…” –Commentò Asterios, espandendo il proprio cosmo. –“Spiriti d’Acqua, vi invoco!!!” –E, al
suo comando, decine e decine di sagome deformi sorsero dalla pozza in cui la
Notte era immersa, pozza che andava allargandosi a macchia attorno a lei e
sotto di lei, sprofondandola pian piano in un turbinante ruscellare di energia
celeste, simile alle ancestrali maree da cui sorse la vita.
“Ancora
giochini e trucchi per gli amici?!” –Ghignò Nyx, agitando il lungo mantello
nero e affannando per uscire da quell’improvvisata prigione, accorgendosi però
di non riuscirvi. E più provava, più si dimenava nel balzar fuori, più sagome
di energia acquatica le sorgevano attorno, allungando le loro roride braccia
deformi verso di lei, sfiorandola, toccandola, abbracciandola, abbarbicandosi
addosso a lei, generando nella Dea un subitaneo moto di disgusto ogni qual
volta veniva anche solo strusciata. Del resto, quell’energia era così pura,
così pregna di luce, da scuotere in profondità la sua essenza di oscurità.
E
quelle figure, quelle sagome che sembravano invocare il suo nome, fissandola
con sguardi muti ma intensi, parevano simboli del Mondo Antico. Sirene,
tritoni, putti e ninfe, forme aggraziate, eleganti, luminose, così lontane dal
mondo di tenebra su cui lei avrebbe voluto imperare.
“Ba…
basta!!!” –Ringhiò furiosa, lasciando esplodere il proprio cosmo oscuro e
dilaniando tutte le figure che la attorniavano con lame di ebano. –“Non so in
quali perversi giochi vi dilettiate, ma pretendere di fermare la calata della
Notte con queste grottesche statue d’acqua è quanto meno ridicolo! Ne
prosciugherò l’essenza, lasciandole ad essiccare su questo brullo suolo lunare,
memento mori della mia potenza e della vostra inutilità!”
“Ogni
cosa ha un posto nell’universo, anche gli Spiriti d’Acqua!” –Commentò placido
Asterios, continuando a infondere alla pozza tutto il suo cosmo, in modo da
generare un numero sempre maggiore di sagome celestiali, costringendo Nyx ad
aumentare ulteriormente la propria aura da battaglia.
Boom!!!
Un
gigantesco boato fece tremare l’intera Luna, con Pegasus e gli altri Cavalieri
che si tenevano per mano per non cadere, investiti poco dopo dal sollevarsi di
un’ondata di sabbia che, da Nyx, andò espandendosi a raggiera. Quando la
tempesta scemò, i paladini della giustizia videro che la Dea ancora si ergeva
in piedi, per quanto vistosamente affaticata e infastidita da quel patetico
tentativo di frenarne l’avanzata. Non s’avvide però la Notte che Avalon era
scomparso.
Lo
notò soltanto quando fu sopra di lei, e liberò la tempesta di lucente energia
che aveva accumulato in quel breve lasso di tempo in cui Asterios l’aveva
impegnata, e distratta.
“Nebulosa delle stelle!!!” –Esclamò,
investendo in pieno Nyx con un torrente di pura energia, che fece strabuzzare
gli occhi ai Cavalieri dello Zodiaco tanto abbacinante era il riflesso di
quell’ondata.
“Incredibile!”
–Mormorò Andromeda, a cui parve una versione potenziata del proprio colpo
segreto. Un vero e proprio fiume di stelle come le galassie che aveva rimirato
negli atlanti scolastici.
“A
così poderosa luce non posso che opporre altrettanta oscurità!” –Ghignò Nyx,
piegata al suolo dallo straripante getto energetico scaturito da Avalon. –“Ti
pentirai di avermi costretto a poggiare un ginocchio a terra! Non sai proprio come
compiacere le donne! Soprattutto quelle vendicative come me! Marea d’ombra!!!” –Avvampò, sollevando
marosi di pura tenebra che si schiantarono contro le onde luminose.
Asterios
tentò di intervenire, ma le sagome di energia acquatica vennero annientate
all’istante, mentre il riflusso di tenebra dilagava anche in altre direzioni,
obbligando i Cavalieri di Atena e di Avalon a difendersi. Lo stesso Signore
dell’Isola Sacra fu costretto a tornare con i piedi a terra, piegato dalla
potenza di serpi d’ombra determinate a trascinarlo verso il cuore di quella
notte, verso l’inferno più nero che l’umanità avesse conosciuto.
Fu
allora, mentre Avalon e Asterios affannavano per liberarsi dalla tetra
fanghiglia, che parve a entrambi che l’impeto di tale marea diminuisse,
nonostante Nyx fosse ancora concentrata nel produrne. Socchiudendo gli occhi, e
osservando meglio, notarono che un velo di energia era appena stato innalzato
tra loro e l’ancestrale Divinità, la parte estrema di una cupola protettiva che
aveva il suo baricentro alle loro spalle.
Incuriosito,
il Signore dell’Isola Sacra si voltò verso l’ingresso del Cerchio di Urano,
alzando un sopracciglio stupefatto.
Selene
era infine intervenuta.
“Dea
della Luna!!!” –Mormorò Avalon, osservandola avvicinarsi a passo lento ma
costante, lo sguardo timoroso e forse travolto da mille domande, da troppe
incertezze, ma comunque deciso ad aiutare chi così tanto per lei aveva
combattuto.
Endimione,
rivestito dalla sua intarsiata cotta da battaglia, camminava al suo fianco,
stringendole la mano, mentre Elanor e Matthew la assistevano sull’altro lato.
Di fronte a loro, disposti a semicerchio attorno alla Dea che avevano scelto di
difendere, i Seleniti rimasti avvampavano nei loro cosmi divini.
Li
guidava Shen Gado dell’Ippogrifo, la corazza danneggiata dallo scontro con
Kydoimos, macchiata del sangue versato, ma ancora non pronto a lasciarsi
andare. Attorno a lui i custodi dei cerchi più interni, decisi a vendicare i
compagni caduti e a dare un senso alla loro esistenza.
“Per
cosa abbiamo creato questo regno nascosto ai più, questo paradiso di cui tanto
abbiamo decantato le virtù, se alla prima difficoltà, al primo tentativo di
invasione, siamo disposti a cederlo così facilmente?!” –Aveva detto loro Sin
degli Accadi, nella breve conversazione avuta all’Occhio con i parigrado.
Avatea,
Mani e gli altri avevano annuito, accettando la proposta di marciare in aiuto
dei Cavalieri di Atena e di Avalon.
“A
qualunque costo!” –Aveva aggiunto il Selenite di Marte, adesso in prima fila, a
fianco di Shen Gado, avvolto nel lampeggiare rossastro del suo cosmo.
“Ci siamo, Mene!” –Disse Endimione, continuando a
dare forza alla compagna, che accennò un sorriso timido, prima di cercare lo
sguardo di Atena e annuire.
“Cavalieri di Atene e di Avalon, non ho parole per
ringraziarvi! E non dirò niente, no, solo agirò!” –Illustrò la Dea, riunendo
tutta l’energia rimastale in modo da allargare sempre più la cupola difensiva,
per arginare l’espansione della marea d’ombra.
Endimione, Shen Gado e tutti i Seleniti
sopravvissuti le donarono la loro forza, avvampando in un arcobaleno di cosmi
accesi.
“Ooh, finalmente combatto!” –Sogghignò Sin, scatenando
le fiamma di cui era padrone e sommandole al potere degli altri quattro custodi
rimasti.
“Umpf, dovrò occuparmi anche di te, Dea della Luna!”
–Ridacchiò Nyx, nient’affatto intimorita. –“Vorrà dire che prima sgozzerò il
tuo bel maritino, cibandomi del suo cuore martoriato, e poi verrò da te,
ficcandotelo in gola e punendoti per quest’atto di ribellione!” –Tuonò,
fissando Selene con uno sguardo così penetrante che alla Dea parve di vedere le
proprie difese andare in frantumi, travolta da un odio a cui non sapeva come
opporsi. Per un attimo il muro di energia vacillò, ma Endimione le strinse la
mano, infondendole quell’amore, quella fiducia, quella speranza di una vita
insieme che solo eliminando la Notte avrebbero avuto. E ciò bastò per ridarle
vigore.
“Adesso!!!” –Esclamò allora Pegasus, caricando da un
fianco scoperto di Nyx assieme ai due amici. –“Cometa lucenteee!!!” –Urlò, dirigendole contro il suo massimo colpo
segreto, subito seguito da Phoenix e Andromeda. –“Ali della Fenice!!! Tempesta
della Nebulosaaa!!!” –E persino da Atena, che puntò lo Scettro di Nike
avanti, liberando un potente raggio di energia luminosa.
“Sciocchi!!!” –Ghignò Nyx, sollevando e interponendo
un manto d’ombra ai loro attacchi. Ma quando fece per muoversi si accorse di non
riuscire a spostarsi, bloccata al centro di un quadrilatero di lucente energia
che quattro figure avevano generato attorno a lei. Quattro Cavalieri avvolti
nei loro cosmi sfavillanti.
“Talismani!!!” –Gridarono all’unisono Reis,
Jonathan, Matthew ed Elanor, incanalando l’energia dei manufatti in raggi di
energia con cui generare una gabbia da cui la Notte faticava a muoversi.
In quel momento Avalon e Asterios la attaccarono,
piombando sul fianco rimasto libero dopo l’attacco di Pegasus e compagni, strappando
un gemito di sorpresa alla Dea ancestrale. L’impeto della Nebulosa delle Stelle la investì in pieno, esponendola all’affondo
di migliaia di lance di ghiaccio e facendola ruzzolare per parecchie decine di
metri sul devastato suolo lunare.
Quando si rialzò, togliendosi il cappuccio e
gettando via il lacerato mantello nero, i suoi occhi eruttavano fiamme di puro
odio. Ma non fu quello a frenare i passi di Pegasus e degli altri Cavalieri,
bensì il volto della Dea, il suo aspetto aggraziato, la snella silhouette di
una donna nel fiore degli anni, come Isabel era sempre apparsa loro. Un aspetto
lontano anni luce dall’idea che avevano avuto di lei.
“Avete scelto la morte più atroce!” –Sibilò, prima
di fermarsi e tendere l’orecchio, attratta da un suono impercettibile ai più.
Si voltò verso il pianeta Terra, sbuffando scocciata alle notizie appena avute.
La stridula voce di Oizys appariva fastidiosa persino da quella distanza, sebbene
non avesse motivo di mentirle.
Qualcuno, in sua assenza, aveva violato i confini
del Primo Santuario, liberando Febo e Marins e rimettendo le sorti della
battaglia in gioco.
Sogghignò, certa che Avalon già sapesse, costretta a
concedergli il primo tempo di quello spettacolo, ben lungi dall’essere
terminato. Non disse alcunché, limitandosi ad avvolgersi di nuovo nel proprio
mantello e a scuotere lunghe ali di tenebra con cui si sollevò poco dopo,
assumendo la forma di un gigantesco uccello nero e volando via, non prima di
essersi abbandonata ad un ultimo stridulo verso che piegò buona parte dei
Seleniti e dei Cavalieri a terra, tant’era pregno di oscurità.
“Ci rivedremo presto. E quando tornerò, mi
riconoscerete, perché allora non sarò la Dea della Notte. No, sarò l’emblema
della vendetta! E come tale mi comporterò!” –Aggiunse. E ognuno dei rimanenti
temette che si rivolgesse a sé.
“Avalon!!!” –Gridò allora Atena, correndo verso il
Signore dell’Isola Sacra, subito seguita dai suoi Cavalieri. –“State bene?
Dov’è andata? Perché ci ha lasciato vivere?”
“L’avete sentita.” –Commentò sibillino il Gran
Tessitore, sebbene conscio che ormai non poteva più permettersi segreti. Non
dopo che Nyx si era rivelata. –“Tornerà!”
“Quando? Come possiamo fronteggiarla?! E cosa
intendeva dire parlando dell’intermundi?!” –Incalzò Pegasus, e anche Phoenix e
Andromeda, e persino i Seleniti, parevano avere molte domande, obbligando
Asterios e Shen Gado a placare gli animi, invitando tutti a rilassarsi un
momento.
“Presto avrete tutte le risposte di cui necessitate.
Ve lo assicuro, valorosi Cavalieri!” –Parlò allora il Signore dell’Isola Sacra,
con quel tono che da sempre lo caratterizzava. –“Dea Atena, inviate messaggi
sull’Olimpo, ad Asgard e in ogni regno divino con cui avete buoni rapporti! È
tempo che tutti coloro che combattono per l’umanità, contro l’avvento delle
tenebre, si riuniscano! È tempo di conoscere quello che accadde, sta accadendo
e accadrà!”
***
Estratto dalle Cronache di Avalon.
Tempo: Quindici anni prima del Secondo
Avvento.
Luogo: Isola di Avalon.
“Morto?!
Come può essere morto?! Egli era l’uomo della profezia!”
La
voce solitamente calma di Alexer si incrinò, ferita da un dubbio improvviso che
mai aveva violato il suo animo ferreo.
Vicino
a lui, in ginocchio sul cadavere martoriato del suo allievo, Avalon piangeva.
“Non
può essere accaduto! Egli non doveva morire! Non poteva!!! Era il Cavaliere
della Leggenda, l’uomo che avrebbe dovuto vestire la sacra corazza…”
“Ripetere
notizie già note non arrecherà conforto al mio dolore!” –Parlò allora il
Signore dell’Isola Sacra, sollevando lo sguardo, gli occhi bagnati da lacrime
sincere, che la brezza mattutina smosse, facendole luccicare nell’alba di
Britannia.
“Perdonami,
fratello! Comprendo il tuo dolore! Uguale pena riempirebbe il mio cuore se il
discepolo in cui avevo riposto così tante speranze e amore fosse perito!
Speranze per noi e per l’umanità intera. Pur tuttavia… io non capisco…”
“Neppure
io capisco, Alexer! Le visioni del pozzo sacro erano chiare, mai mi hanno
mentito! Mai ho errato nell’interpretarle! O ci saremmo persi molti secoli
addietro!”
“Di
questo puoi essere certo! La tua guida e la tua saggezza hanno permesso alla gilda
di prosperare nei secoli e ai Talismani di tornare a sbocciare!”
“E
allora perché?! Perché?!” –Gridò Avalon, stringendo a sé il corpo privo di vita
di Micene del Sagittario, la fascia imbrattata del sangue dell’ultimo
combattimento. –“Era suo il volto che le acque del pozzo sacro mi mostrarono,
sua la gloria eterna e la fede nella giustizia! Sue le mirabili imprese con cui
rimandò nel limbo Tifone, Seth e Apopi! Egli era la cura per i mali del mondo,
faro di luce verso cui le umane genti avrebbero potuto volgere lo sguardo ogni
volta in cui l’ombra avrebbe offuscato il loro malfermo cammino! Non riesco a
credere di aver sbagliato, non posso neppure pensare di aver voluto credere di
averlo trovato! Di essermi convinto di aver trovato colui che ci salverà tutti,
portando a compimento il nostro percorso!”
“Potresti
usare nuovamente la Vista…”
“Non
servirebbe a riportarlo indietro! Niente può tornare indietro, neppure gli Dei!
Ed egli ad essere uno di loro certo non aspirava! No, egli era un umano, e come
tale ha scelto di vivere! E di morire!”
“Forse…
se tu lo avessi salvato…”
“Cosa avrei dovuto fare?
Violare la sua volontà?!”
“Non è quello che facciamo da sempre? Incuranti
della volontà degli uomini, li usiamo per i nostri scopi?” –Rifletté Alexer,
con voce malinconica.
“Messa in questi termini, non siamo molto diversi da
Anhar!”
“Forse no!” –Commentò laconico il Principe. Poi
cacciò via i pensieri con un sospiro, sedendo accanto all’amico e ponendogli un
braccio sulle spalle, cui Avalon si appoggiò per trovare momentaneo ristoro
dagli affanni del presente.
Per
qualche minuto i due fratelli rimasero in silenzio, mentre il sole sorgeva e si
faceva spazio tra le nebbie che proteggevano l’isola sacra, illuminando il
cadavere del Cavaliere d’Oro, le numerose ferite e i tagli che costellavano
l’addome, stigmi che i suoi parigrado gli avevano impresso. Fu allora che un
guizzo rischiarò la mente di Avalon, portandolo ad alzarsi di scatto, di fronte
allo sguardo interessato di Alexer.
“E
se non fosse stato lui il diretto artefice della caduta dell’ombra… ma l’uomo
che, con i suoi gesti, l’avrebbe resa possibile? Se non fosse lui destinato a
scoccare l’ultima freccia, ma il suo erede… Tutto avrebbe comunque senso!”
–Mormorò il Signore dell’Isola Sacra, incamminandosi verso il Pozzo e
affacciandosi ad ammirarne le silenti acque. –“Prima di morire, Micene ha
consegnato una bambina a un uomo… quella bimba è la reincarnazione della Dea
cui era devoto e che avrebbe dovuto difendere… ma quell’uomo… chi è?”
–Aggiunse, espandendo il cosmo ed entrando in sintonia con le ancestrali forze
che permeavano quel luogo di preghiera.
Sulle
acque del pozzo si dipinse un volto che Avalon non aveva mai visto, un uomo di cinquant’anni,
dall’aspetto austero e severo. Colui che aveva ricevuto in custodia la Dea
della Guerra. Il Signore dell’Isola Sacra ne sondò l’animo, ne scoprì la storia
e i segreti e infine capì. Che il destino aveva scelto la sua strada, proprio
come Micene, e che i sogni che aveva cullato per anni potevano ancora trovare
realizzazione.
Così
placò le visioni, dando le spalle al pozzo, ad Alexer e al cadavere
dell’allievo, il cui rito funebre sarebbe stato celebrato quella sera, alla
presenza di tutti i druidi dell’isola ove era stato addestrato. Disse al
fratello di non preoccuparsi e sparì.
Sapeva
dove l’avrebbe trovato, avendolo visto poc’anzi grazie alla Vista. In una zona
degli scavi ove gli archeologi ritenevano un tempo fosse esistito un altare in
onore di Atena, un’ara di pietra che, sia pur scheggiata e ingiallita, ancora
si ergeva in un mare di polvere e ricordi. Di fronte a quel marmo di ben più
antichi splendori, Alman di Thule stava in ginocchio, piangendo e pregando Dio,
o qualunque altro nome gli avessero dato gli uomini, di dargli un segno, di
indicargli il cammino.
“Cosa
devo fare, Signore? Come posso prendermi cura di Atena? Chi sono io per essere
degno di tale gravoso ma meritevole compito?”
Per
qualche minuto nessuno parlò, neppure il vento. Soltanto il respiro affannato
di Alman segnava il tempo che passava, estraniandolo dal mondo che continuava
ad andare avanti. Poi, d’un tratto, al Duca di Thule sembrò di udire una voce
chiamarlo, una voce inudibile, proveniente dal profondo del suo animo. Un
abbraccio di serenità che parve confortarlo.
Chinò
lo sguardo sull’infante Dea e le parve quasi di vederla sorridere, di dirgli,
con quei suoi occhi pieni di vita, di non avere paura, che tutto sarebbe andato
bene e che lei sarebbe stata protetta e amata.
Allora
Alman pianse, consapevole del proprio ruolo, del ruolo che il fato aveva scelto
per lui. In fondo era ricco, erede del patrimonio di una famiglia che aveva
prosperato per secoli con il commercio e la navigazione, ma non aveva mai avuto
figli, non aveva mai avuto un erede. Adesso, forse, il futuro avrebbe potuto
essere riscritto, anche per lui.
Pensò
al suo burbero maggiordomo, chiedendosi come avrebbe reagito all’idea di avere
una femmina per casa, all’idea di vederla crescere e diventare donna. Sorrise,
sicuro che anch’egli si sarebbe commosso di fronte alla purezza della Dea. Poi
pensò ai bambini dell’orfanotrofio Saint Charles, di cui la sua dinastia aveva
finanziato la costruzione. Come lui, erano raminghi, ancora alla ricerca del
loro ruolo nel mondo, ed egli presto gliene avrebbe assegnato uno. Volenti o
nolenti, avrebbero fatto la loro parte, e chissà che tra loro non fosse stato
presente qualcuno in grado di distinguersi dall’ordinaria massa, di elevarsi al
di sopra delle umane genti e dare un senso alla propria esistenza.
Rinfrancato
da quella speranza, Alman si alzò, scosse i pantaloni dalla polvere e rese
grazie a Dio per averlo illuminato. Poche ore dopo era già in volo verso il
Giappone, pronto per organizzare la sua nuova vita.
Nascosto
dietro una colonna, nella bruma mattutina, Avalon annuì, certo di aver visto
bene. Micene era morto, questo era vero, ma il suo nome non sarebbe scomparso
con lui, avrebbe perdurato, scintillando nel cielo a memoria imperitura di
coloro che sarebbero venuti dopo di lui, e che in lui avrebbero visto l’eroe,
il martire per la causa, la Stella Polare cui volgere lo sguardo alla ricerca
della giusta direzione. Da lui, e in nome suo, sarebbe nato un gruppo di
individui dai sensazionali poteri sempre pronto a salvare la Terra ogni volta
in cui le tenebre fossero calate su di essa. Un gruppo che avrebbe ospitato il
Cavaliere della Leggenda, destinato a indossare l’ultima armatura. O la prima.
Capitolo 41 *** Capitolo trentanovesimo: Soltanto un respiro. ***
CAPITOLO TRENTANOVESIMO: SOLTANTO UN RESPIRO.
Tisifone
osservava la barca prendere il largo e portar via quell’accenno di felicità che
la vita le aveva regalato durante quell’interminabile giornata.
L’aveva
sistemata con cura, adagiandola sul fondo di una vecchia imbarcazione trovata
sull’isola. Le aveva pettinato i capelli all’indietro, carezzandole un’ultima
volta il viso, per poi coprirle le gambe e il ventre sfondato con la coperta
che la sorella le aveva fatto trovare sul canapè del castello; la coperta che
all’inizio non aveva riconosciuto, vecchia e sgualcita, ma che adesso invece
odorava di casa.
Era
stato l’ultimo lavoro intessuto da sua madre prima di morire.
Morgana
l’aveva messa sulle spalle di Tisifone, dopo essere
salite a bordo del Bell X-22, e lei aveva sorriso a quella gentilezza, senza
coglierne subito il significato nascosto. Adesso le avrebbe restituito il
favore, affidandola alle cure di colui che più di ogni altro la sorella aveva
amato, il luogo dove davvero, nel corso degli anni della sua burrascosa vita,
si era sentita a casa. Il mare.
Il
Cavaliere d’Argento sospirò, prima di voltarsi verso il Dio immobile al suo
fianco e annuire mestamente. Nettuno puntò allora il tridente avanti a sé,
liberando una folgore di energia che incendiò il tramonto di quel giorno
d’autunno, abbattendosi poi sulla barca ove riposava il corpo spezzato della piratessa, incendiandola all’istante.
Proprio nel mare, dove a lungo hai
imperversato nelle tue scorribande avventurose, termina il tuo cammino,
sorella! Mormorò Tisifone,
osservando l’imbarcazione di legno stantio consumarsi in una rapida fiammata e
sprofondare poi verso quieti abissi.
Era
successo tutto così in fretta, troppo in fretta. Passare dalla gioia di essersi
ritrovate alla disperazione della perdita nell’arco di una sola giornata
avrebbe fiaccato l’animo di chiunque, ma Tisifone era
una combattente, un’anima sola ma in grado di azzannare la vita ogni volta in
cui la stessa le vomitava addosso il suo veleno.
Le
era successo in varie occasioni. Con Pegasus, con se stessa, con la femminilità
che aveva dovuto reprimere per divenire una Sacerdotessa Guerriero, e adesso
con la sorella (per troppo poco tempo)
ritrovata. Avrebbe mai avuto pace?
Sospirò,
spostando lo sguardo sui suoi improvvisati compagni, allineati in rispettoso
silenzio alle sue spalle, e le scappò un sorriso di fronte all’ironia della
situazione. Era lontana dalla sua terra, dalla Dea cui aveva giurato fedeltà e
per cui aveva rinunciato al suo ruolo di donna, dai Cavalieri al cui fianco
avrebbe dovuto lottare, sopravvissuta per miracolo ad uno scontro mortale su
un’isola che non sarebbe più dovuta esistere. E le uniche persone al suo fianco
erano il Dio che l’anno addietro aveva tentato di ucciderla, la sua fedele
sirenetta e due ragazzetti che parevano aver ricevuto l’investitura più per
caso che per merito.
“Mi
dispiace per tua sorella! Era una combattente valorosa!” –Le si avvicinò allora
Titis, parlando con voce sincera. –“Accetta le mie
condoglianze, Cavaliere dell’Ofiuco!”
Anche
Nettuno le rinnovò la sua gratitudine per aver lottato assieme a lui contro Forco, prima di allontanarsi, diretto verso il mausoleo ove
riposava il suo primo consigliere, per completare la sua missione, mentre Reda e Salzius sedettero in
disparte, medicando le loro ferite, lasciando così le due donne da sole.
“Avresti
potuto essere tu su quella barca, lo sai vero?” –Riprese allora Titis, fissando la Sacerdotessa di Atena negli occhi.
“Ne
sono consapevole! Lo sono stata fin dal primo momento in cui sono scesa in
guerra!”
“Perché?”
“Perché
questo è il mio destino, che a volte ritengo maledetto! Qualcuno ritiene che l’Ofiuco, per la processione degli equinozi, sia in realtà il
tredicesimo segno dello Zodiaco e che, come tale, sia intriso di una
maledizione! Io non credo molto a queste storie di fantasmi, sembrano fatte per
spaventare senza motivo… Pur tuttavia, qualcosa nel
cuore mi rende infelice. E l’unico momento in cui non lo sono, l’unico in cui
riesco ad esprimere davvero me stessa…”
“È
in guerra!” –Annuì Titis, trovando conferma ai suoi
stessi pensieri.
Tisifone
sorrise, prima di incamminarsi verso i discepoli di Albione e sincerarsi delle
loro condizioni, quando la fresca voce del Cavaliere Sirena la richiamò,
indicandole un punto nel mare vasto di fronte a loro.
Una
nave in avvicinamento.
“Pare
che il mare prenda e il mare dia…” –Commentò Tisifone, osservando gli occupanti del ponte
dell’imbarcazione.
Pesto
e malconcio, Asher agitò un braccio nella sua
direzione, avendola avvistata da lontano. Il Professor Rigel,
Cliff O’Kents e i due
fratelli d’acciaio erano al suo fianco.
Reda e Salzius si rimisero in piedi, chiamati dalla Sacerdotessa,
che disse loro che adesso sarebbero rientrati tutti ad Atene per conferire con
la Dea.
“E
voi verrete con noi! È tempo che prestiate fede al vostro giuramento! Mai come
adesso Atena ha realmente bisogno di tutti i suoi Cavalieri!”
***
Ferito
e umiliato, Forco scivolò silenzioso verso le
profondità oceaniche, suo regno incontrastato da tempi immemori. In abissi così
lontani dove neppure Nettuno e i suoi tanto decantati Generali avevano mai messo
piede, ingiustamente insigniti di un titolo mai appartenuto loro.
Come possono definirsi Generali degli
Abissi se tutto quel che del mare han visto si è limitato al Regno Sottomarino?
A quelle ridicole colonne greche che continuamente miravano al cielo. Al cielo!
Umpf! Ridicolo! È a quello che Nettuno ha sempre
guardato, incapace, proprio come Ade, di accettare la maestosa bellezza dei
propri possedimenti. Se ne fosse stato in grado, se fosse riuscito ad andare al
di là dell'apparenza, avrebbe scoperto una potenza inimmaginabile!
“Qualcosa
ti turba, mio dolce compagno?!” –Una voce femminile lo rubò ai suoi pensieri,
portandolo a voltarsi verso l'ingresso della grotta ove era appena giunto.
Adorava
vederla così, nella sua forma originaria, e non con quelle bizzarre gambe umane
che dovevano sfoderare ogni volta in cui erano costretti a mettere la testa
fuori dall'acqua. Costretti, sì, perché sia Forco che
la sua amata non ne avrebbero di certo sentito la necessità, preferendo vivere
e morire là sotto, nelle oscure profondità dove il sole mai era giunto
“L'assalto
ad Atlantide non è andato come credevo! Cariddi è
caduto e Nettuno ha recuperato l'oricalco! Ho fallito!”
“Non
dire così! Sono certo che lui capirà! Del resto non è sulla terra che si
manifesta il tuo vero potere! Il nostro vero potere!” –Gli sorrise la sua
sposa, avvolgendosi sinuosa al suo corpo, che aveva nel frattempo recuperato le
sue reali fattezze.
Facendosi
strada nelle nere acque, la coppia raggiunse il centro della grotta, fuoriuscendo
in un'insenatura nascosta illuminata dalla fioca luce di alcune conchiglie
particolari. Là sotto giaceva tutto quello di cui avevano bisogno, nient'altro,
purché fossero stati insieme. Questo Forco lo sapeva,
eppure, come Nettuno e gli altri Dei che avevano avuto l'ardire di definirsi
Signori degli Oceani, anch'egli provava desideri, anch'egli covava ambizioni
imperiali.
La
compagna glielo lesse nel volto e sorrise, carezzandogli la pelle squamosa.
“Come
dicevo, non dovresti preoccuparti! Avremo presto un'altra occasione per
sbarazzarci di Nettuno! Del resto, cosa può fare da solo quel misero reuccio?
Egli non ha più un esercito che lo difenda! Mentre noi...” –Ridacchiò,
solleticandogli il mento e costringendolo poi a guardare avanti.
Anche
nella poca luce, Forco li vide.
I
guerrieri che la sua sposa e lui avevano addestrato, preparandoli a quel
momento, al momento in cui le acque sarebbero tornate ad avere vitale
importanza negli equilibri di potere del mondo. Per questo li avevano scelti,
per combattere per loro. Non per altri.
L'antico
Re dei Mari sogghignò, mentre i servitori a lui fedeli si inginocchiarono per
rendergli omaggio. In fondo, i Forcidi non erano mai
stati di grandi parole.
***
Zeus
era visibilmente soddisfatto. Nettuno si era dimostrato degno della sua
fiducia, riuscendo non soltanto a recuperare l’oricalco, ma anche a sconfiggere
un pericoloso avversario, riappacificandosi con il ricettacolo umano della cui
famiglia da tempi immemori si serviva. Il Signore dell’Olimpo non aveva mai
avuto preoccupazioni simili, non avendo mai trasferito la sua divina coscienza
nel corpo di un mortale, né essendo mai stato colto da un simile pensiero. A
differenza di Nettuno, di Ade o di altri Dei, Zeus aveva sempre preferito agire
di persona, mettendo in gioco ogni volta se stesso, sebbene, e di questo ne era
sempre stato consapevole, ben pochi pericoli potessero minacciare la sua
sopravvivenza. Forse solo uno.
E
quell’uno era infine arrivato.
“Mio
Signore?!” –La voce calma di Ermes lo rubò a nefasti pensieri, portandolo a
concentrarsi sui prossimi passi. –“Il giacimento di oricalco è intatto e pronto
per essere lavorato da Efesto! Nettuno garantisce che
sia ben fornito!”
“Molto
bene! Ermes, portane subito grandi quantità in Sicilia e dì a mio figlio che
scaldi le fornaci! Fatti aiutare da Euro, è giovane e veloce, oltre che molto
riservato! Nessuno deve sapere cosa stiamo progettando! Gli occhi dell’ombra
possono arrivare ovunque!”
“Al
riguardo, mio Re… mi permetto di farvi notare che
neppure io ne sono al corrente!” –Commentò il Messaggero Olimpico, suscitando
la divertita reazione del Signore degli Dei.
“Non
è chiaro, forse, mio vecchio amico? Efesto finalmente
forgerà nuove armature!”
“E
per chi? L’esercito dei Cavalieri Celesti è stato praticamente annientato
durante la scalata all’Olimpo! Solo Nikolaos e
Ganimede restano delle antiche legioni! E Shen Gado,
sebbene lo abbiate di fatto ceduto a Selene!”
“Non
a loro sono destinate queste nuove corazze, sebbene anche le loro vesti
meritino di essere riparate e solidificate! Ma ai Cavalieri della Speranza!
Della nostra speranza!” –Chiarì Zeus, di fronte allo sguardo ammirato del
Messaggero. –“Pegasus, Dragone, Cristal, Andromeda,
Phoenix! Solo loro possono salvare questo mondo dall’ultima ombra! Di questo
siamo tutti consapevoli, sull’Olimpo e ad Avalon! Per questo il Signore
dell’Isola Sacra ha messo a disposizione gli ultimi frammenti di mithril in suo possesso, residui di un meteorite
schiantatosi in Asia quasi cent’anni fa. Per questo ho chiesto a Nettuno di
recuperare l’oricalco. Adesso, assieme alle conoscenze di Efesto,
disponiamo di tutti gli strumenti decisivi per creare le più resistenti Vesti
Divine mai forgiate prima!”
“Divine,
mio Signore?!” –Balbettò Ermes, comprendendo quel che quella frase
sottintendeva.
“Prepara
i polsi, mio buon amico! Dovrai tagliarli a breve!” –Sorrise il Dio Olimpico,
prima di incitare il Messaggero ad adempiere alla sua missione.
Allontanatosi
Ermes, Zeus rimase a pensare. Aveva già deciso gli abbinamenti, sulla base dei
poteri e dei caratteri di ognuno, uomini e Dei, pur tuttavia non aveva ancora
informato nessuno. Da Ermes e Demetra non si aspettava rimostranze, neppure da
Era, in fondo. Ma con Nettuno avrebbe dovuto scambiare qualche parola in più,
qualora avesse avuto da ridire.
“Vuoi
dunque andare a fondo con il tuo progetto, possente Zeus?” –La vellutata voce
della sua sposa lo raggiunse poco dopo, mentre Era compariva in cima alla
scalinata, mettendosi a sedere tra le sue gambe.
“Ciò
è necessario, mia amata. Spero tu lo capisca!”
La
Regina degli Dei annuì silenziosa, ma Zeus percepì comunque il suo disagio. La
sollevò da terra, mettendola a sedere sulle sue gambe e le chiese infine che
cosa la turbasse, oltre all’ombra della fine di tutto che stava allungandosi
ormai su di loro.
“La
colpa, mio Signore. Le colpe di cui un tempo anch'io mi sono macchiata,
mettendomi sullo stesso livello degli sporchi umani che ho a lungo
disprezzato.”
“Umpf... Un errore che abbiamo commesso tutti, a quanto
pare!” –Ironizzò il Nume supremo.
“Ma
alle mie colpe non ho potuto fare ammenda, e tu lo sai! Sai a cosa mi
riferisco! Ti ho udito quest'oggi, conversare con tuo fratello nel giardino
della reggia. E ho sentito cosa ti ha chiesto. Del resto chiunque al suo posto
avrebbe desiderato di averlo adesso a fianco!”
“La
strada di mio figlio tu non l'hai scelta! Lui solo, con le sue azioni, a volte
stravaganti, l'ha segnata!” –Precisò Zeus, alzandosi in piedi e scansando la
compagna.
“No,
ma l'ho spesso ostacolata! Ricordi Tirinto, mio
Signore? Era splendida come nel Mondo Antico. Eppure io...”
“Basta
così, Era! Questa tardiva ammissione di responsabilità non è utile alla nostra
causa. Lo apprezzo, e sono certo che anch'egli apprezzerebbe. Ma ti prego di
rimanere concentrata su quanto dobbiamo fare. Gli sforzi cui siamo chiamati
adesso sono gravosi, persino per gli Dei.”
“Dunque
è vero...” –Si intromise allora una terza voce, interrompendo il dialogo tra la
coppia.
Zeus
si voltò verso l'ingresso del salone, laddove l'alta sagoma di un uomo dalla
barba grigia e dai folti capelli segnati dal tempo era appena apparsa, una mano
intenta a reggere un tridente di scaglie d'oro, lo stesso che la sua
reincarnazione aveva affondato ore addietro nella schiena di Forco.
“Nettuno...”
–Mormorò il Nume del Fulmine, conscio che adesso non avrebbe più potuto evitare
quella conversazione.
“Allora
tu sai cosa gli è accaduto, in quale limbo dimori adesso? Deve essere un limbo
piuttosto intricato se non è in grado di uscirne per prestare aiuto al suo
divino padre!” –Esclamò il Signore dei Mari, mentre Zeus e Era iniziavano a
scendere lungo la scalinata. –“Se non ricordo male, neppure Ade voleva saperne
di tenerlo all'Inferno con sé! E Cerbero latrava sempre in sua presenza!” –Rise
infine, ma dalle espressioni sui volti della coppia capì che la situazione
fosse ben più complessa.
“Vieni
con me! Ti mostrerò dove riposa adesso il Protettore degli Uomini!” –Parlò Zeus
con voce calma, incamminandosi verso il giardino sul retro, seguito dalla moglie
e dal fratello. Non ebbero da fare molta strada, solo portarsi ad un livello
inferiore, addentrandosi tra alberi così fitti che nessuno, se non i regnanti
dell'Olimpo, aveva mai violato. Fino ad allora.
“Non
conosco questa parte del tuo regno, Zeus! Dove mi stai conducendo?”
“Alla
cripta.” –Rispose marmoreo il fratello.
E
quando vi giunsero Nettuno comprese.
Di
fronte a loro, nascosto tra antichi alberi mai caduti, rimasti inviolati alle
guerre che avevano sconvolto la Terra e l'Olimpo, un mausoleo era stato scavato
su un fianco del Monte Sacro, incassato all'interno dello stesso, per essere
preservato in eterno. Là dentro, come Zeus ebbe modo di spiegare quando ne
varcarono la soglia, riposavano guerrieri che avevano combattuto per la libertà
e per gli uomini, rendendo il Signore del Fulmine fiero della loro stessa
esistenza.
Nettuno
trattenne il fiato di fronte a quella rivelazione.
“Incredibile!”
–Mormorò, sfiorando i muscoli del Dio che aveva sudato e vinto l'ingresso al
Monte Olimpo con le proprie imprese. –“Sembra... vero! Scolpito nella pietra a
sua diretta somiglianza!”
“Non
sembra. È!” –Precisò Zeus, sorprendendo ulteriormente il fratello. –“Le statue
che vedi, e che potrebbero ornare una reggia divina tanto sono eleganti e
curate nei dettagli, altro non sono che mio figlio e dodici dei suoi migliori
combattenti, quelli che lui stesso scelse nella Legione dei Migliori!”
“La
Legione...?! Eracle?! È stato questo il destino del figlio che procreasti con Alcmena?!” –Commentò triste Nettuno, osservando il fisico
possente del Protettore degli Uomini e le posture fiere dei guerrieri che lo
accompagnavano, ancora rivestiti delle loro gloriose corazze.
“Il
destino o chi contro di lui ha cospirato…” –Parlò
allora Era per la prima volta, raccontando degli scontri da lei stessa
sostenuti contro Eracle secoli addietro, scontri che avevano trovato drastica
fine, obbligando il difensore di Tirinto ad una
scelta finale. –“La morte o la fine del tempo. Così eccolo qua, il prode Eracle
e i suoi Heroes!”
“E
dormiranno in eterno, nel silenzio del loro mondo di pietra, finché sangue
divino non li risvegli! Ma, capisci bene, fratello mio, che per ridare la vita
a tutti e tredici ci vorrebbero almeno tredici Divinità, e si ritroverebbero
tutte molto deboli al termine del rito! Non solo noi non siamo più così tanti,
ma non abbiamo neanche energie a disposizione per questo, già dovendo occuparci
di altro con il nostro Ichor!” –Sospirò Zeus, dando le
spalle alle tredici statue. –“Pazienza! In fondo Eracle ha già sofferto troppi
patimenti in nome dell'Olimpo, gli eviterò almeno di combattere un'altra
guerra. Per quanto, lo ammetto e sono sciocco nel pensarlo, avrei davvero
desiderato abbracciarlo un'ultima volta, prima della fine!”
Nettuno,
a quelle parole, lo rincuorò, uscendo assieme al fratello dalla cripta. Solo
Era rimase indietro qualche istante di più, soffermandosi sul volto del figlio
bastardo di Zeus che a lungo aveva tormentato i suoi sogni e chiedendosi se il
rito che lo aveva tolto dal tempo era stata davvero una buona idea o se invece
adesso non avrebbero tutti avuto di che pentirsene.
***
“Sei
uno stupido! Siete due stupidi!!!”
La
collera di Nyx travolse Polemos
e Chimera, scaraventandoli indietro, fino a farli schiantare contro un muro del
Primo Tempio, inchiodandoceli, gli arti trafitti da lunghi artigli di tenebra.
“As… Aspettate mia Signora! Ascoltateci!”
“Cosa
dovrei udire? I vostri piagnistei?! O le vostre patetiche scuse?! Di entrambi
faccio volentieri a meno! Per colpa vostra, della vostra ridicola
intraprendenza, il Santuario delle Origini è stato violato, i Cavalieri delle
Stelle sono stati liberati e parte del nostro esercito è stato annientato,
prima ancora del suo ritorno! Un smacco imprevisto e oltraggioso per le
nasciture potenze del mondo!”
“Chiediamo
perdono… ma non potevamo sapere che gli Dei Egizi ci
avrebbero mosso guerra in nostra assenza! Quell’Amon
Ra è stato per secoli rinchiuso fuori dal mondo, nessuno avrebbe creduto che
provasse affetto per un figlio bastardo!” –Esclamò Polemos,
cercando di convincere la Dea della Notte della loro buona fede. –“Inoltre il tempio
non era sguarnito! C’erano le Astrazioni, si stavano già risvegliando quando
siamo partiti! Avrebbero potuto combattere!!!”
“Umpf… buoni quelli!” –Ironizzò Chimera, tentando di
liberarsi dagli unghioni d’ombra. –“Mai che muovano un dito, mai che
intervengano per guadagnarsi da vivere! Che razza di guerrieri sono?”
“Questo
è vero!” –Concordò Nyx, volgendo lo sguardo verso un
gruppetto di Divinità che si nascondevano dietro le colonne del tenebroso
salone. –“Oizys! Momo! Apate,
e voialtri! Cosa avete da dire a vostra discolpa?”
Inizialmente
nessuno rispose, poi un uomo basso e con sparuti capelli venne spinto avanti,
lamentando la sgarbatezza dei compagni.
“Mia
Signora, avete ragione, ma cosa avremmo dovuto fare? Siamo vecchie e stanche
Divinità! Geras, pace allo spirito suo, avrebbe
potuto invecchiarli di colpo, ma quelle furie avrebbero combattuto anche con il
bastone! E io, io cosa avrei potuto fare? Sono così piccolo che quasi mi
calpestano, mi avrebbero deriso se li avessi affrontato!”
“Piccolo
abbastanza per passare inosservato, non è vero, lurido vigliacco?!” –Avvampò Nyx nel suo cosmo oscuro, avvolgendo Momo in una spirale di
ombre. –“Cosa ho fatto di male per meritare una simile inutile progenie?! Eris, almeno, ha partorito dei veri guerrieri non dei
balocchi!” –Scosse la testa, mentre le tenebre da lei evocate si cibavano della
personificazione del Biasimo, scavando fino alle viscere e nutrendosi della sua
essenza vitale, fino a lasciare a terra soltanto una massa di pelle, ossa e
luridi stracci.
“Che
orrore!!! Iiihhh!!!” –Gridò una voce stridula,
proveniente dal mucchietto di impaurite Divinità.
“Vuoi
essere il prossimo, Oizys? Allora chiudi quella maledetta
bocca! L’unica mia vera sventura è quella di avervi concepito!” –Commentò la
Dea ancestrale, prima che una placida figura priva di vesti e di capelli,
fluttuando nell’aria, si portasse di fronte a lei, chiedendo ascolto.
“Siete
ingiusta, Madre Notte!”
“Moros! Persino tu remi contro di me?”
“Affatto!
Tengo solo fede al mio nome, ed ugualmente hanno fatto Geras
e gli altri! Cosa vi aspettavate, in fondo, da obliate Divinità che hanno
rinunciato a combattere nel momento in cui sono venute al mondo? Non lo
ricordate, mia Signora? Eppure siete voi ad averle generate, voi che le
mandaste tra gli uomini per acuire le loro debolezze! Le Astrazioni non sono guerrieri,
bensì la personificazione di sentimenti, vizi e virtù tipici dell’animo umano!
Come avrebbe potuto un vecchietto col bastone, come Geras,
combattere? O Oizys, quella sventurata creatura
deforme, ingaggiare guerra contro il Falco dalle ali argentee? Algea ci ha provato e ne ha ottenuto solo un’infinita e
infuocata pena! Ognuno fa ciò per cui è nato, ma noi non siamo nati per guerreggiare!”
“Almeno
tu avresti potuto fare qualcosa! Le forze non ti mancano, dato che le sprechi
in inutili sproloqui!” –Ringhiò Nyx, afferrando il
figlio per il collo e sbattendolo a terra, senza che questi muovesse ciglia,
come se neppure la prospettiva di morte lo turbasse.
“Avrei
potuto, certamente, ma non l’ho fatto. Non faccio mai niente io, perché tutto
in fondo è già stato scritto! Gli eventi seguiranno il loro corso, qualunque
cosa noi decidiamo di fare o meno, alla fine dei tempi tutti moriremo. A che
giova allora combattere? È inutile. A che pro difendersi? Tutto è vano, tutto è
fatidico. Questo è il destino ineluttabile! Volete sapere il vostro, mia
Signora?”
“L’unico
destino che conosco è quello in cui gli Dei ancestrali domineranno il mondo! E
tu, indovino porta scalogna, non ne farai parte!” –Sentenziò, spaccandogli il
cranio con un secco colpo di mano.
Di
fronte a quella violenza, nessuno degli altri Dei disse alcunché. Persino Polemos e Chimera smisero di dimenarsi, nonostante le
ferite agli arti, consapevoli che almeno su una cosa Moros
aveva ragione. Sarebbero tutti morti, a cominciare da loro due.
“Bah!”
–Commentò infine la Notte, schioccando le dita e facendo scomparire i lunghi
artigli di tenebra che li tenevano prigionieri. –“Sarebbe un vero spreco far
fuori due validi combattenti! Inoltre, devo ammettere che, senza la vostra ingerenza,
non avremmo avuto ciò di cui avevamo bisogno!”
“Per
questo siamo intervenuti, mia Signora! Sapevamo che i figli di Eris avrebbero fallito!” –Esclamò Polemos,
affannando nel rimettersi in piedi. –“Senza di noi la missione nello Jamir non avrebbe avuto successo!”
“Questo
vi va riconosciuto!” –Sibilò Nyx, spostando lo
sguardo verso un angolo dello stanzone, dove, guardato a vista da un gruppo di
guerrieri armati, giaceva inerme e nuda una donna dai lisci capelli viola e
dalle sopracciglia rasate in modo da formare due pallini simili a nei. Aveva la
schiena in fiamme, per le frustate subite, frustate che l’allievo di Polemos si era divertito a infliggerle con la coda, prima
che la Notte interrompesse il suo divertimento. –“Devo ammetterlo, Polemos! Hai avuto più successo tu, con una rapida e mirata
incursione, che non Ares e Discordia e tutto l’esercito che si sono portati
dietro sulla Luna! Forse vali davvero qualcosa! Ih ihih!” –Ridacchiò l’ancestrale Dea, avvicinandosi al
Demone della Guerra, inginocchiato di fronte a lei.
Polemos
non disse alcunché, ma Chimera, che non resistette alla tentazione di spostare
lo sguardo, riuscì a contare le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte,
temendo che l’atroce entità lo sgozzasse da un momento all’altro.
“Bene,
pare che tu abbia ottenuto quel che volevi, non è così?” –Gli disse infine, scarmigliandogli
i lunghi capelli rosa. –“Signori! Un attimo di attenzione, prego!” –Strillò,
obbligando tutti i presenti a voltarsi verso di lei. –“Ho il piacere di
presentarvi il nuovo Lord Comandante delle Armate delle Tenebre! Sarà lui a
curare la vostra dislocazione in campo, a lui dovrete obbedire! I miei
complimenti, dunque!”
Polemos
esitò un momento, poi si mise in piedi, mentre Chimera e altri guerrieri alle
loro spalle applaudivano, gridando a gran voce il suo nome.
“È
una cerimonia misera, lo ammetto! Forse avresti preferito aspettare che fosse
lui a conferirti l’incarico? Per dargli una maggiore ufficialità?”
“Lu… Lui?!” –Balbettò infine Polemos,
mentre Chimera al suo fianco deglutì.
“Naturalmente!
Sta venendo qui! Il varco tra i mondi ormai è aperto!” –Chiosò Nyx, abbandonandosi a una risata soddisfatta.
L’arena del Grande Tempio era gremita di gente, come
non lo era da molto tempo, quasi due anni ormai. Dall’unica volta, durante la
sua corrente incarnazione, in cui Atena aveva convocato un’assemblea generale
di tutti i Cavalieri, soldati e fedeli, poco dopo la caduta di Gemini e la fine
della guerra civile che aveva dilaniato il Santuario.
Pegasus, entrando nell’arena e prendendo posto sulla
tribuna d’onore, assieme ai suoi quattro compagni, ricordò quel giorno, il sole
che risplendeva sul volto di Lady Isabel, ripresasi dalla ferita della freccia
di Betelgeuse e pronta per portare la pace al Grande
Tempio. A pensarci adesso, a ripensare alla contentezza di quel momento, quando
per la prima e unica volta avevano davvero creduto che la guerra fosse finita,
che non vi fosse più da combattere, il ragazzo sorrise, scuotendo la testa. Una vita fa. Si disse, spostando lo
sguardo sugli spalti e passando in rassegna tutti i presenti.
La gradinata laterale era occupata dai Cavalieri di
Atena, sebbene ben pochi fossero rimasti, decimati dalle guerre interne e dagli
scontri provocati dal figlio di Ares. Pegasus notò subito le chiome colorate di
Castalia e Tisifone, in prima fila, ripresesi dalle
ferite, affiancate da Nicole, Yulij del Sestante, Asher e Nemes, accorsa
prontamente alla convocazione di Atena. Dietro di loro, in rigoroso silenzio,
quasi temessero di poter essere sgridati in qualsiasi momento, aspettavano Reda e Salzius. Completavano la
tribuna, per quanto non fossero Cavalieri, alcune aspiranti sacerdotesse, i più
anziani soldati semplici e membri della Fondazione fedeli a Lady Isabel: il
professor Rigel, accompagnato dai fratelli d’acciaio,
e Cliff O’Kents.
Alla loro destra Cristal
aveva fatto accomodare la delegazione giunta da Asgard, guidata dalla
Celebrante di Odino, Flare di Polaris,
scortata da alcune Guardie della Cittadella capitanate da Bard. Sotto di loro
sedeva la Dea della Luna, splendida nel suo vestito color panna, con l’amato Endimione che le reggeva la mano e le sue figlie assise
tutte attorno, guardate a vista da Shen Gado
dell’Ippogrifo e dai Seleniti sopravvissuti: Igaluk, Hubal, Avatea, Sin degli Accadi e
Mani.
A rappresentare l’Olimpo vi erano il Luogotenente
dei Cavalieri di Zeus, Nikolaos dell’Eridano Celeste, assieme ad Euro, il nobile Vento dell’Est,
amico ed estimatore dei Cavalieri di Atena, e all’Imperatore dei Mari, la cui
apparizione al Grande Tempio aveva subito provocato una certa tensione,
soprattutto da parte dei Cavalieri d’Oro e d’Argento. Ma poi Pegasus era
intervenuto, ricordando l’aiuto che Nettuno aveva dato loro durante la Guerra
Sacra inviando le armature d’oro nell’Elisio.
“Questo non significa che abbiamo dimenticato i
morti che il diluvio da te scatenato ha causato in tutto il mondo!” –Aveva
comunque messo in chiaro il Cavaliere di Atena, prima che il Dio prendesse
posizione, accompagnato dalla graziosa sirenetta.
Completavano l’ampia tribuna centrale Tirtha e alcuni santoni indiani e una delegazione giunta
all’ultimo istante, sorprendendo tutti i Cavalieri di Atena, tranne Ioria, che aveva riconosciuto colui che la guidava. Horus,
il Dio falco, scortato da un gruppo di Guerrieri del Sole, arrivato in
rappresentanza dell’Egitto.
La terza sezione degli spalti, quella vicino
all’ingresso nell’arena, era invece riservata ai Cavalieri delle Stelle,
presenti finalmente in formazione completa: Jonathan, Reis,
Marins, Febo, Matthew,
Elanor e il Comandante AscanioPendragon,
l’unico il cui sguardo trasudava fermezza e determinazione, anche in quella
delicata situazione. Alle loro spalle sedevano alcuni druidi e sacerdotesse di
Avalon, quelli più giovani e più propensi a viaggiare, affiancati da una
delegazione di soldati Inca che Jonathan aveva portato con sé dal Sudamerica.
L’ingresso di Atena nell’anfiteatro mise a tacere il
chiacchiericcio diffuso, catalizzando tutti gli sguardi sulla fanciulla dai
capelli viola, che si presentava ai suoi Cavalieri e agli ospiti ammessi a
quell’improvvisato consiglio con un delizioso, quanto semplice, abito bianco.
Un peplo di lana, tessuto dalle ergastine del Santuario, fissato sulla spalla da una fibula
dorata rappresentante una civetta. La affiancava Kiki,
splendido nell’abito da cerimonia, che reggeva un cuscinetto su cui erano
posati diversi rami d’olivo.
Alle sue spalle procedevano attenti i pretoriani
dorati, Ioria del Leone, Mur
dell’Ariete e Virgo, quest’ultimo stanco e provato
per la possessione subita, ma deciso a farsi forza e a non cedere proprio
adesso. A un passo dalla fine.
Mentre Atena saliva i gradini di marmo, per prendere
posizione sulla tribuna dell’arena, nel posto solitamente riservato
all’officiante, il Cavaliere della Vergine non poteva fare a meno di sudare
freddo, ben sapendo quel che sarebbe accaduto. Del resto, lui prima di tutti
aveva scoperto il nome del loro avversario, sebbene il termine non fosse adatto
ad indicare la terribile entità con cui avrebbero dovuto confrontarsi. Il
motivo per cui così tanto sangue era stato versato. Sospirando, Virgo affiancò Ioria e Mur, fermandosi ai piedi della tribuna, in tempo per
osservare gli ospiti più attesi accedere all’anfiteatro sacro.
Quattro figure, rivestite da fulgide corazze, dai
colori azzurro, rosso, argento e verde acqua, entrarono a passo deciso,
fermandosi al centro dello spiazzo, proprio dove Pegasus e Cassios,
e molti altri pretendenti alle sacre armature, avevano combattuto. In silenzio,
si inginocchiarono di fronte ad Atena, chinando il capo finché la Dea non li
richiamò, permettendo loro di rialzarsi.
“Signore dell’Isola Sacra, e voi, suoi fratelli e
praticanti! Celebrante di Odino, e voi, abitanti di Asgard! Seleniti e
discendenti della splendente Luna! Figlio di Eos, e tu, PoseidonEnnosigaeum! Primogenito di Osiride, detto il
lontano, e voi, devoti ammiratori del sole! Pellegrini giunti dalle rive del
Gange, dalle foreste dell’Asia o dalle rupi andine! E voi infine, miei
Cavalieri, miei fedeli, miei eroi! A voi tutti porgo il benvenuto in
quest’arena di pace, a voi tutti offro un ramo dell’albero sacro! Che sia per
noi segno di speranza e unione, di amore e rispetto fraterno!” –Esordì Atena,
sollevando un ramo di olivo e mostrandolo al sole, mentre anche Kiki e i cinque Cavalieri dello Zodiaco, alla sua destra,
facevano altrettanto, lasciando che gli effluvi della pianta riempissero
l’aria, giungendo alle narici di tutti i presenti.
“Con gioia vi accolgo, e vi ringrazio per essere
accorsi prontamente, da diversi luoghi del mondo, da regni divini che per
troppo tempo sono stati lontani, divisi o addirittura nemici! Figli di contese
durate secoli, di ostilità mal celate o di incomprensioni che non siamo
riusciti a superare, ci ritroviamo quest’oggi, in questo scorcio del tempo
cosmico che affanna su un filo sottile! Un filo che separa la luce dall’ombra! È
una guerra, questa, che da troppo tempo si procrastina! Riusciremo a metterle
fine?!” –Sospirò Atena Polias, prima di porre lo
sguardo sul Signore dell’Isola Sacra, invitandolo infine a parlare.
Sua era stata la richiesta di convocazione di una
così numerosa e variegata assemblea, sua la necessità di condividere le
conoscenze di Avalon con gli altri regni divini. E sua, forse, la speranza di
una soluzione.
“Dea Atena! Vi ringrazio per l’ospitalità con cui ci
avete accolto! Una simile magnificenza abbaglia i mondi!”
“Non ho fatto niente di trascendentale, Avalon! Sono
soltanto me stessa, come vorrei che anche tu, e i tuoi compagni, lo foste!”
–Rispose la Dea.
Avalon scosse il lungo mantello rifinito d’argento
che gli cadeva lungo la schiena, con una grazia che faceva parte della sua
natura. Eterea. Per qualche minuto non disse altro, limitandosi a fissare Atena
con uno sguardo magnetico che trascinò entrambi indietro, all’alba dei tempi.
Pegasus fece per dire qualcosa, ma Sirio lo frenò,
afferrandogli il braccio e pregandolo di non spezzare quell’unione tra due tra
le più potenti entità del pianeta.
“Leggo nei vostri occhi la stessa fierezza di
allora! Quando, dall’alto di Mount Badon, guidaste i
vostri Cavalieri nella battaglia di Britannia, assieme a vostro Padre e ai
bianchi Cavalieri di Glastonbury!” –Parlò infine il
Signore dell’Isola Sacra. –“Sempre pronta a mettervi in gioco pur di
raggiungere il proprio obiettivo! Anche a costo di rischiare la vita! E vi fa
onore, Atena! Certo! Ma non sempre il martirio è la via per la vittoria, ormai
dovreste averlo imparato!”
“Qualunque strada ci sia da seguire, per garantire
il sole agli uomini, non avrò timore! Io la percorrerò!”
“Avete centrato il punto, Atena!” –Sospirò Avalon.
–“Ma temo che di sole, ormai, agli uomini ne resti ben poco! Presto, troppo
presto, prima di quanto avessimo creduto, la Terra sprofonderà in un’immensa
tenebra, seconda soltanto a quella in cui era avvolta all’epoca della
creazione!”
“Parole enigmatiche le tue, Signore dell’Isola Sacra!
Se un’alleanza vogliamo creare, dobbiamo essere onesti gli uni con gli altri!
E, per quanto tu e i tuoi Cavalieri delle Stelle valido aiuto ci abbiate
offerto in questi ultimi anni, qualcosa dentro di me mi fa pensare che non ci
abbiate detto tutto! Non ancora!”
“Cos’altro vuoi sapere, Dea della Guerra Giusta? Il
nome di colui che, risvegliato dal lungo sonno, distruggerà la Terra con un
solo fetido respiro? Posso dirtelo se vuoi, in fondo è soltanto un nome! Ma ti
farà rabbrividire, togliendoti il sonno!”
“Il sonno l’ho perso millenni fa, accettando il
compito che mi era stato assegnato e spendendo le notti a sospirare, in pena
per le sorti dei miei Cavalieri!”
“E fai bene ad esserlo! Poiché soltanto la morte
attenderà tutti noi!” –Chiosò Avalon, fissando Atena con vividi occhi. –“Del
resto, essa è la naturale conclusione della vita, di un processo esistenziale
che inizia con la creazione e termina con la distruzione, in un ciclo continuo,
che perdura da sempre! Niente viene creato se non per morire un giorno! Che sia
oggi o tra mille anni tutto scomparirà! Atene, Avalon, tutti i regni divini,
sono solo espressione di un qui e ora che presto non avrà più valore!”
“Il tuo fatalismo mi spaventa, Avalon! Che ne è
dell’ardore che dimostrasti un tempo, riversandolo dall’alto di Mount Badon sui tuoi nemici?”
“L’ardore regna ancora in me, Atena! Ma se Ares o
Crono erano nemici che, sia pur con sforzo e sacrificio, era possibile vincere,
altrettanto non può dirsi dell’abisso di tenebra che si sta spalancando sotto
di noi! Un’oscurità così vasta, così primitiva, che non so, lo ammetto, se la
luce dei nostri cosmi potrà contrastarla!”
Pegasus fece per intervenire, chiedendo
delucidazioni, ma Avalon riprese a parlare, iniziando a camminare per l’arena
di fronte agli occhi interessati di tutti i presenti.
“Un tempo lontano, agli albori del Mondo Antico,
venne combattuta la prima grande guerra! Che fosse sacra o meno, questo non so
dirvelo, perché gli Dei all’epoca erano ancora un unico Dio, e quel Dio voleva
schiavizzare la Terra che lui stesso aveva generato, detestando il libero
arbitrio che gli uomini, figli suoi, avevano sviluppato! Di sicuro però fu una
guerra degna di essere combattuta, come lo sono tutte le guerre miranti a
difendere la vita e la libertà contro la bieca tirannide! Ma il potere oscuro
contro cui gli uomini liberi tentarono di lottare era troppo grande, troppo
potente, al punto da sopraffarli tutti. Armati delle migliori speranze,
rivestiti dalle più potenti armature, forgiate dal primo ordine di alchimisti
che in seguito si sarebbe sparso per il pianeta dando vita a Mu, Atlantide e a molti altri regni, tutti caddero. Uno ad
uno. Nessuno poteva essere forte abbastanza da difendersi dal proprio creatore!
Fu allora che una gilda di saggi, che aveva
trascorso la vita a studiare le sorgenti del cosmo, costruì sette Talismani
sull’isola che sarebbe divenuta Avalon, rinchiudendo in essi la forza
primigenia della natura, assorbendo il potere puro degli elementi che
componevano il mondo e ad esso davano forza! La luce prima di ogni altra,
necessaria per contrastare l’oscurità! Il sole, che della luce era il simbolo e
per gli uomini fonte di vita! La luna, che del sole era immagine concorrente e
al tempo stesso complementare! L’arcobaleno, che tingeva il mondo con i suoi
sette colori, vivacizzando quei toni spenti in cui invece sarebbe precipitato!
Il mare, che rendeva vivi gli uomini, con il suo scrosciare imperterrito! E
infine i sogni, cuore di ogni uomo, desiderio pulsante nascosto nell’animo di ogni
essere vivente! Costruirono sette Talismani e li impugnarono per affrontare la
terribile minaccia, combattendo con tutto l’ardore che avevano dentro, fino
all’esaurimento della più piccola stilla di vita. E vinsero, contando sugli
amici che avevano a fianco, aiutandosi l’un l’altro e tenendosi per mano quando
erano convinti di non poter più stare in piedi con le proprie forze! Solo così,
in nessun’altro modo, avrebbero potuto ottenere il successo, sia pur effimero,
che hanno raggiunto! E allo stesso modo dovremo cercare di fare noi,
combattenti di Avalon, di Atene, di Asgard o di qualunque altro regno, unendo
le nostre forze per l’ultima guerra!”
“Perché hai definito effimero il loro successo,
Signore dell’Isola Sacra? E che ne fu di questi sette valorosi?”
“Perirono, non tutti e non subito. Ma il tempo fece
strage anche delle loro vite, sebbene l’oblio mai li abbia vinti. Le loro anime
e il loro cosmo permasero nei Talismani, rendendoli vivi, facendone dei
cristalli di pura energia che un tempo, quando una seconda oscurità fosse
tornata per sommergere il mondo, avrebbero ricominciato a pulsare, scegliendo
sette nuovi combattenti, degni di tale ruolo! E quel momento è adesso! Il varco
tra i mondi, ove i sette scagliarono il male, nell’infinito vuoto cosmico, si è
riaperto, vittima del tempo che, alla lunga, polverizza anche la più potente
delle magie, e colui che un tempo questa Terra generò sta tornando per
riprenderla, e per distruggerla, completando così il ciclo vitale della
stessa!”
“Per questo siamo nati, Dea Atena!” –Intervenne
allora Andrei, affiancando Avalon. –“Per difendere i sette Talismani e coloro
che li avrebbero indossati di nuovo! E, in vista dell’ultima guerra, per unire
le genti libere rinsaldando l’antica alleanza che esisteva un tempo!”
“Noi siamo gli Angeli!” –Esclamò Avalon, lasciando
svolazzare il mantello di seta argentea e ergendosi in tutto il suo beato
splendore. –“Gli esseri immortali per eccellenza, generati per difendere il
mondo e custodirlo fino all’avvento dell’ultima ombra!”
“Io sono Alexer, Angelo di Aria!” –Esclamò l’uomo
dagli occhi di ghiaccio che aveva addestrato il Cavaliere di Acquarius, il cui cosmo risplendeva azzurro in un turbinar
di venti e nembi.
“Io sono Asterios, Angelo
di Acqua!” –Lo seguì il ragazzo che Selene aveva
ospitato per anni, pizzicando la cetra che stringeva in mano.
“Il mio nome è Andrei, Angelo di Fuoco!” –Continuò
il robusto maestro di Jonathan, prima che l’alta voce del fratello lo
sovrastasse.
“E su tutti io sono Avalon, Angelo di Luce e Principe
Supremo degli Angeli, investito dal Primo dei Sette Saggi del titolo di Signore
dell’Isola Sacra!”
In quel momento le quattro armature che avevano
indosso brillarono di una luce accecante, obbligando molti tra i presenti a
tapparsi gli occhi per non essere abbagliati. Quando riuscirono a riaprirli,
notarono le grandi ali spiegate sulle spalle degli Angeli, l’eleganza con cui
sapevano muoversi, la grazia che li rendeva leggeri come se nient’altro fossero
se non luce stessa.
“Noi siamo i garanti dell’equilibrio, la tetrarchia
degli Angeli!” –Affermò Avalon, avvolgendo l’intero anfiteatro nel suo immenso
e corroborante cosmo.
“È incredibile!” –Mormorò Tisifone,
che mai aveva percepito un’energia così intensa, neppure di fronte agli Dei
fronteggiati fino ad allora. –“Questo cosmo… è così
caldo, confortevole, capace di lenire qualunque affanno.”
“È un lento oblio, un Elisio ove niente può turbarci
più.” –Le fece eco Castalia, dando voce ai sentimenti di tutti i presenti, che
si lasciarono cullare da quella manna improvvisa. Un’ambrosia così raffinata
che nessuna Divinità aveva mai offerto loro.
“Straordinario!” –Commentò Horus, che pure già era
stato informato da Amon Ra sul vero ruolo degli
Angeli, ma che ancora non era stato raggiunto dalla loro luce. –“Questo è Maat, l’ordine cosmico, la forza positiva dell’universo!” –Naveed e i soldati che lo accompagnavano caddero in
ginocchio, coprendosi gli occhi con le mani, il volto segnato da un ruscellare
di lacrime che non riuscivano a fermare, tanta celestiale era la beatitudine
che aveva invaso i loro animi.
“I sumeri ci chiamavano Me, le forze che concorrono
a garantire l’ordine dell’universo, gli agenti dell’equilibrio! Noi siamo le
potenze del mondo!” –Concluse Avalon, prima di ritirare la propria luce che
fluì verso di lui, illuminando per l’ultima volta la sua argentea corazza,
prima di quietarsi.
“Sommo Avalon!” –Esclamò allora Atena, inginocchiandosi. –“Dovreste essere voi
a parlare da quest’alto scranno, non io che sono una semplice Dea!”
“Vi prego, Atena! Questa è casa vostra e noi siamo
qua in veste di ospiti, di amici e di compagni! Siamo venuti ad offrire
consigli, non a dare ordini!” –Chiosò il Signore dell’Isola Sacra, prima di
aggiungere, con un sospiro, parole che incuriosirono l’assemblea. –“E siamo qua
per chiedere perdono! Il perdono di tutti voi, uomini e Dei!”
“Perdono?! Spiegatevi, vi prego! Di cosa dovreste
scusarvi?”
“Di aver portato l’ombra! O comunque una parte di
essa!” –Rispose Avalon, per poi continuare, incitato dai fratelli. –“Come
avrete capito, dalle nostre impronte cosmiche, noi rappresentiamo gli elementi
della natura, nella loro forma più pura, così come furono creati! Quei cinque
elementi che sacerdoti, filosofi e alchimisti di tutto il mondo hanno sempre
studiato, venerato e forse mai compreso, pur essendo un motivo comune in tutte
le culture.”
“I cinque elementi?!” –Mormorò Mur,
ricordando antiche lezioni di Shin. –“Terra, acqua,
fuoco, aria e luce o etere.”
“Khsiti o bhumi, ap o jala,
agni o tejas, marut o pavan, e su tutti byom o akasha, da cui
nell’induismo si fanno discendere i primi quattro.” –Commentò Virgo. –“Ipanchamahabhuta,
i cinque elementi!”
“Alexer è di certo l’aria, Andrei il fuoco. Avalon
la luce più pura, o etere, e Asterios sarà l’acqua.”
–Aggiunse allora Cristal, prima che Pegasus rompesse
i suoi ragionamenti.
“Cinque elementi, ma quattro Angeli. Dov’è il
quinto?”
E la sua domanda pesò sull’arena per qualche
istante, rimbalzando nella mente di tutti i presenti, fino a strappare un
sospiro dispiaciuto al Signore dell’Isola Sacra.
“Il quinto lo conoscete bene, perché spesse volte vi
siete confrontati con lui, in questi ultimi anni!”
“Che… cosa?!” –Esclamò
Pegasus, comprendendo quel che Avalon aveva lasciato intendere. –“Vuoi forse
dire che… lui?! Flegias, il
figlio di Ares, è uno degli Angeli?!”
A quelle parole, un mormorio diffuso pervase
l’intera assemblea, mentre volti sbigottiti si fissavano l’un l’altro senza
sapersi dare una spiegazione. Ma bastò che Atena battesse tre volte lo Scettro di
Nike per riportare tutti al silenzio, consentendo ad Avalon di ricominciare a
parlare.
“Flegias è stata soltanto
una delle identità che ha assunto nel corso di millenni trascorsi ad avvelenare
l’animo umano, ben più di quanto il suo lo fosse stato! Il suo nome originario
è Anhare… sì, egli era uno
degli Angeli, uno di noi! O dovrei dire è, in quanto di certo è ancora vivo,
seppure non in forma corporea! Del resto non esiste niente a questo mondo che
possa annientare definitivamente uno di noi, niente se non la fine di tutte le
cose!”
“Ma com’è possibile? Cosa gli è accaduto? Lui… è il male allo stato puro!”
“Hai ragione, Pegasus! Oggi Anhar
è il male, il nostro più grande nemico nonché il servitore più fedele di colui
che siamo chiamati ad affrontare! L’araldo della grande ombra! Ma un tempo non
era così… Quando fummo generati, egli era l’Angelo
della Terra, l’elemento che maggiormente avrebbe dovuto rimanere a contatto con
gli uomini. Purtroppo, proprio come la razza umana, fu il primo, e per fortuna l’unico,
ad essere corrotto! Non lo avevamo notato al principio, e ammetto che non lo
ritenessimo neppure possibile, tuttavia il seme dell’ombra era germinato in
lui, trovando terreno fertile in un animo inquieto. E quando l’Antico, avendone
il sentore, lo cacciò dall’Isola Sacra, nominandomi suo successore, egli
abbandonò ogni parvenza di bontà, rivelandosi infine per quello che era! La
terra, che avrebbe dovuto costituire il suolo su cui edificare un nuovo mondo,
venne arsa da una fiamma d’ombra e resa sterile per l’eternità, divenendo melancholia, un
serbatoio di velenosissima bile nera. Così il pentacolo che avremmo dovuto
rappresentare cessò di esistere e gli elementi diventarono quattro, perdendo
potere e accelerando il secondo avvento!”
“Incredibile!” –Commentò Pegasus. –“Questo spiega la
sua potenza, superiore a quella di Ares e di altre Divinità che abbiamo
affrontato!”
“Anhar si è servito di
voi, di tutti voi, per favorire il ritorno dell’ombra sulla Terra, lavorando
per distruggere i regni divini dall’interno o per farli scontrare tra di loro!
Per farlo, per irretire uomini e Dei, piegandoli ai suoi scopi, utilizzò sette
pietre nere, intrise dell’essenza dell’ombra, che gli furono donate dal suo
creatore. Sette, proprio come i Talismani che furono creati per contrastarne il
potere. Anhar le sparse per il mondo, donandole a
potenti mai paghi del loro potere, a burattinai che non si accorsero di essere
manovrati, o inserendole in gioielli o monili con cui incantare re e Divinità,
per portare ovunque una notte di guerra. Una la diede a Seth, per istigarlo
alla rivolta contro Ra, un’altra la offrì a Loki, una
terza a Crono. Una era incastonata nell’Anello del Nibelungo, e due supponiamo
furono date ai gemelli custodi della Terza Casa di Atene. Solo una tenne per
sé, la più potente di tutte, quella che gli permetteva di canalizzare tutte le
energie e perdurare! è così che Anhar opera, sfruttando tutto ciò su cui può allungare le
mani, dominato da un materialismo che nient’altro è se non continua ricerca di
potere. Si finse consigliere di Ra, per accedere ai segreti delle piramidi e
aizzare gli Dei d’Egitto contro Atene, niente di diverso da quello che aveva
fatto anni addietro in America Meridionale, provocando un conflitto armato tra
templi di Divinità diverse. In Africa spinse i Savannah ad una lotta intestina,
portando alla fame il continente. In Grecia fece altrettanto, mettendo Crono
sul trono di Zeus e approfittando di quell’energia per nutrire suo padre e i
suoi fratelli bastardi!”
“E che dire di Loki e Surtr, ingannatori ingannati del pantheon nordico, la cui
discesa in campo, con il conseguente crollo di Yggdrasill,
ha accelerato il riprodursi della configurazione astrale necessaria affinché
l’ombra ritorni dal vuoto cosmico ove fu confinata!” –Intervenne allora Alexer,
supportando le parole del fratello. –“E proprio la caduta dell’Albero
dell’Universo ha segnato la fine del tempo a nostra disposizione, la fine del
tempo cosmico, poiché il grande frassino fu piantato dai Sette Saggi nel Mondo
Antico, terminata la Prima Guerra, e la madre di uno di essi, la Volva che possedeva la Vista, predisse
che sarebbe rimasto in fiore fino al secondo avvento!”
“Una concezione ciclica dell’esistenza che è
perdurata in molte culture!” –Rifletté Atena, mentre anche Nettuno, Euro, Horus
e altri annuivano a loro volta. –“In quella greca, dove ogni generazione
cosmica è stata soppiantata dalla successiva, Urano da Crono, Crono da Zeus, e
chi mai verrà dopo il Signore della Folgore?”
“Tracce ve ne sono anche in Egitto, nell’eterna
lotta tra il Dio del Sole e il Serpente Cosmico!” –Intervenne allora Horus,
presto seguito da Alexer, che cercò lo sguardo attento della Celebrante di
Odino.
“E in quella nordica, con i warg
che danno la caccia al sole e alla luna in uno scontro ciclico tra due forze
antagoniste, luce e ombra, destinato a durare per sempre. Perché proprio il
procrastinarsi di questa lotta garantisce l’equilibrio del mondo. Entrambe le
componenti sono necessarie, completandosi a vicenda, mantenendo l’universo in
equilibrio costante, senza che nessuna delle due prevarichi sull’altra. Questo
è l’ordine cosmico!”
“E se una simile prospettiva dovesse avverarsi? Se
una delle due forze prevalesse sull’altra?!” –Mormorò Atena, ponendo la domanda
che tutti si stavano chiedendo.
“In tal caso l’ordine cosmico verrebbe a mancare e
l’universo scivolerebbe verso la sua distruzione. Ed è il preciso momento del
tempo cosmico che stiamo vivendo noi!” –Confermò Avalon. –“Lo hanno chiamato in
molti modi! Armageddon, Ragnarok,
fine del mondo, giorno del giudizio, giorno dell’ira. Per me non ha alcun nome,
per noi è semplicemente l’avvento, la manifestazione del potere primordiale
della creazione, l’oscurità più pura di fronte alla quale persino la Notte
impallidisce!” –E, senz’altro aggiungere, disegnò con il piede un simbolo sul
terreno, allontanandosi in modo che tutti, da qualunque angolo dell’arena,
potessero vederlo.
“La catarsi del mondo è arrivata!”
Ω
Riluceva lì, al sole d’inverno, pallido e bieco,
scatenando ansie e timori tra gli spettatori. Fu Andromeda il primo a
riconoscerlo, ricordando l’ultimo gesto di un nemico affrontato mesi addietro. Sakis del Quadrante Oscuro.
L’Omega. La fine di tutte le cose.
“Ma chi è questo nemico che così tanto temete? Chi
può esistere, più spaventoso della Notte, da intimorire a tal punto gli Dei e
le entità più potenti della Terra?” –Incalzò Pegasus, stufo di tutti quei
discorsi.
“Colui che ha generato la Terra e tutti i mondi,
Pegasus, essendo anche nostro padre! Egli è l’Alfa e l’Omega, principio e fine
di ogni essere vivente!” –Mormorò Avalon, prima di spostare lo sguardo su
Atena, che sussultò di colpo, come trafitta da una lama di ghiaccio.
“Avalon… Vuoi dire…?!”
“Ê toimènprṓtistaCháosgénet!” –Chiarì
il Signore dell’Isola Sacra. –“In
principio Egli era il Caos, motore di tutte le cose!”
Fu abbastanza semplice, per lui,
entrare di soppiatto nel Grande Tempio, celandosi dietro nuvole di passaggio,
muovendosi a velocità così elevata che l’occhio umano avrebbe faticato ad
individuare anche se i soldati di guardia avessero saputo dove guardare. Del
resto, oltre ad essere il Dio dei Commerci, della Diplomazia, delle Strade e
dei Viaggi, e di altri attributi che gli uomini gli avevano assegnato nel corso
dei secoli, era anche il Dio dei Ladri e di tutte quelle ingegnose attività che
lo avevano sempre affascinato, incuriosito da quanto fossero capaci gli uomini
di dare vita alle idee più creative e bizzarre quando lo scopo fosse ottenere
un furbo vantaggio, quasi sempre a danno di altri. Una mentalità schietta e
scaltra di cui, sebbene non ne difendesse l’operato, comprendeva il fine.
Le tende della terrazza sul retro
della Tredicesima Casa sventolavano stanche, in quel tardo pomeriggio di fine
autunno, aspettando il rientro della Dea che vi dimorava, Dea che sarebbe stata
impegnata ancora per qualche ora nell’arena per discutere con gli ospiti che
aveva improvvisamente convocato. Anch’egli sarebbe dovuto sedere su quegli
spalti, per ascoltare la figlia di Zeus profondersi in un’accorata orazione per
la salvezza dell’umanità, e lo avrebbe fatto se Era non lo avesse fermato poco
prima di lasciare l’Olimpo.
“Ho un favore da chiederti, mio
vecchio amico!” –Aveva esordito, con voce vellutata, lo stesso tono che le
aveva sentito usare ogni volta in cui voleva conquistare le attenzioni del
Signore del Fulmine. –“Vorrei affidarti una missione di recupero, una missione
riservata che solo tu puoi portare a termine!”
A quel punto Ermes si era
incuriosito, invitando la Dea a terminare la sua richiesta, sgranando gli occhi
stupito quando gli aveva riferito quel che avrebbe dovuto recuperare. O, per
dirla in altri termini, rubare.
Non capisco cosa se ne faccia, ma dubito che lo userà per fare del
male. Rifletté il Nume, scivolando tra i tendaggi della Stanza del Grande
Sacerdote, avendo cura di non essere individuato dalle poche guardie rimaste,
che stazionavano abuliche presso i portoni di ingresso. No, l’espressione sul suo volto non tradiva alcuna malvagità. Solo un’infinita
tristezza! Aggiunse, raggiungendo il trono dell’oracolo di Atena, nel cui
basamento un prezioso manufatto era custodito.
Lo afferrò con cura, riponendo lo
scrigno che lo preservava sotto lo scranno, e rientrando poi di fretta
sull’Olimpo. Zeus avrebbe certamente essere voluto informato di ciò che
l’assemblea dei regni divini aveva deliberato, sebbene al momento le sue
preoccupazioni fossero altre. Ermes lo aveva capito, dagli sguardi incerti che
rivolgeva alla vetrata della Sala del Trono, la finestra che guardava a
oriente, oltre il Mar Egeo. La finestra che guardava lontano, fino ai Monti del
Caucaso.
Per quanto amasse dissimulare i
propri sentimenti, ormai il Messaggero Olimpico sapeva comprenderli comunque,
anche quelli nascosti, e poteva percepire la tensione che pesava sulla scelta
che Zeus avrebbe dovuto prendere a meno.
Perdonarlo e permettergli di combattere al suo fianco nell’ultima
guerra? O lasciarlo languire ancora, altri quindici anni o forse più,
condannato alla stessa prigionia di Prometeo?
Il Dio dei Mercanti sospirò,
conscio che la scelta non sarebbe stata facile, soprattutto per Zeus, che non
amava le sfumature della vita, preferendo confini netti ed inequivocabili,
fossero bianchi o neri. Il grigio avrebbe soltanto opacizzato la sua
risolutezza, mostrando che anche gli Dei possono sbagliare. Con quel pensiero
in mente, entrò nella Reggia della Signora dell’Olimpo sorridendo, prima di
bussare al portone delle sue stanze. Un tempo Ebe o Iris lo avrebbero accolto,
pregandolo di accomodarsi su morbidi cuscini di seta ricamati dalle
sacerdotesse dell’isola di Samo, ma entrambe le Dee erano scomparse, massacrate
dai figli di Ares durante la scalata olimpica, e dei loro spiriti erano state
perse le tracce. Persino il possente Zeus non conosceva il loro destino,
sebbene non lo ritenesse dissimile da quello che attendeva gli Dei
sopravvissuti.
Morte.
Era aprì il portone in quel
momento, tirando Ermes all’interno delle sue stanze, prima che qualche ancella
curiosa, o magari Ganimede, riferisse l’accaduto al suo consorte. Ringraziò il
Messaggero per quella cortesia, osservando affascinata l’intarsio della daga
dorata per qualche istante, sfiorando il freddo metallo con le dita, di fronte
agli sguardi incuriositi del Dio amico.
“Perché questa richiesta, mia
Signora? Cosa intendete fare?!”
“Solo rimediare a un vecchio
errore! Fintantoché ne ho la possibilità!” –Rispose laconica la Signora del
Cielo, prima di congedarlo con un sorriso tirato.
“Se posso aiutarvi…”
“Ti ringrazio ma non puoi. Nessuno
di voi può.” –Aggiunse, socchiudendo per un momento gli occhi lucidi e
lasciando che una lacrima le scivolasse lungo il volto. –“Sei stato un buon
amico, Ermes! Sempre a fianco di Zeus, anche nei momenti più difficili! So che
lo sarai anche stavolta, so che la tua bacchetta brillerà in battaglia contro
la grande ombra! E il solo pensiero mi rassicura!”
Il Dio dei Mercanti non comprese
le parole di Era, limitandosi a ricambiare il sorriso fiacco, mentre questa
richiudeva il portone di fronte a sé, lasciandolo fuori da tutto, dal suo
dolore e dalla sua decisione. Rimase per qualche secondo a pensare, prima di
abbandonarsi ad un sospiro e incamminarsi verso la Sala del Trono. Efesto era a
lavoro da giorni ormai, su quelle che, a sentir lui, sarebbero state le sue
migliori creazioni, e Ermes avrebbe contribuito a renderle tali.
***
Rimasta sola, Era fece la sua scelta. Ci aveva riflettuto a lungo, in
quelle ultime fredde notti prima della fine, soprattutto dopo che Nettuno aveva
scoperto la verità, riportando a galla antiche memorie sommerse dalla marea del
tempo. Una marea che aveva avuto origine neppure tre secoli addietro, quando il
suo temperamento era ben diverso, molto più simile al sanguigno e focoso figlio
che aveva quasi conquistato l’Olimpo, scatenandovi contro la furia di Tifone e
dei suoi berseker.
Ma il tempo era passato anche per lei, per tutti loro, Dei che non
avevano mai capito cosa volesse dire esserlo, o che forse lo avevano
dimenticato. Del resto, da secoli ormai non ricevevano più spontanee offerte
nei luoghi di culto a loro dedicati, in quei pochi, miseri e abbandonati
santuari che ancora resistevano sotto strati di edera e dimenticanza. Degli
Heraion di Samo e di Argo non rimanevano che qualche colonna mozzata e
ricoperta di erbacce. Adesso era tempo di andare oltre vetuste contese divine,
gelosie mai risolte che avevano soltanto inquinato il loro cuore, facilitando
l’avvento della grande ombra. Adesso era tempo di rinascere, per lei, come per
gli uomini. Adesso era tempo di restituire agli uomini il loro Protettore.
Non indugiò oltre, uscendo sul retro della reggia, passando tra i
quieti giardini curati da Demetra, stando ben attenta a non incontrarla, e
scendendo lungo il versante orientale, fino a raggiungere la cripta dove gli
eroi dei tempi antichi riposavano. Poggiò la mano sul portone, consapevole che,
una volta entrata, avrebbe avuto poco tempo a disposizione prima di essere
individuata, sospirò e lo spinse, andando incontro al suo destino.
***
Nessuna torcia rischiarava il salone del Santuario
delle Origini, il tempio ancestrale ove la Notte aveva radunato oscure creature
e Divinità arcaiche, molte delle quali da lei partorite agli albori del tempo.
Ma nessuno dei presenti aveva bisogno della luce per muoversi nell’intricato
labirinto che costituiva l’ossatura del santuario, abituati a giacere
nell’ombra, aspettando il giorno della sua venuta.
Il giorno del secondo avvento.
“Quel momento è adesso!” –Sibilò Nyx, in piedi di
fronte all’altare di pietra grezza su cui un corpo sanguinante, di ferite
ancora fresche, giaceva.
Aveva appena fatto in tempo a toglierlo dalle
grinfie delle Empuse, che già ne avevano dilaniato le membra, assaporando
sadiche il suo ichor.
“Presto avrete altre vittime con cui divertirvi!”
–Aveva sogghignato. –“Mondi interi di cui cibarvi! Ma lui voglio offrirlo come
dono al nostro Signore!” –E aveva gettato il cadavere di Osiride sull’ara,
immergendo le mani in uno squarcio sul fianco e schizzando poi di sangue il
muro retrostante, ricreando, con macabre gocce, una ben nota configurazione
astrale. Quella che, ricreandosi dopo millenni, aveva permesso la riapertura
del varco.
Alle sue spalle, in ginocchio e silente, l’Esercito
delle Tenebre attendeva.
Un tuono squarciò il cielo in quel momento,
anticipando un grido di guerra che racchiudeva la sofferenza di un mondo
condannato all’estinzione. Il muro dietro l’altare si accese di una
luminescenza violacea, che presto lo inglobò, spalancando un passaggio verso
mondi lontani, laddove fioche stelle brillavano inquiete.
“Vi aspettavamo, Potenze del Mondo! Oh Dei gloriosi
che generaste il creato! Bentornati prōtógonoi!” –Declamò Nyx,
mentre tre figure di puro cosmo iniziavano ad apparire all’interno del portale,
varcandolo pochi attimi dopo ed acquisendo solida consistenza. –“Dio
elementare, signore dei cieli più elevati, la cui aria superiore soltanto gli
Antichi han respirato! Lode a te, Etere, custode della luce più pura!”
E da una delle tre figure scaturì un riverbero così
chiaro e abbagliante, intriso di essenza divina, che obbligò tutti i presenti a
coprirsi gli occhi, per riaprirli soltanto quando il vero volto di Etere fu
rivelato.
Al suo fianco, quasi all’istante, apparve una
bellissima figura femminile, rivestita da un’armatura bianca come quella del
fratello.
“Dea primordiale del Giorno, sorella e sposa della
Luce più pura, lode a te, Emera, figlia mia!”
Quindi, mentre Etere ed Emera si posizionavano ai
lati, per permettere alla terza figura di farsi avanti, Nyx sogghignò, alla
vista del Progenitore cui si era unita un tempo. Suo figlio, sposo e
generatore delle tenebre.
“Lode a te, Essenza dell’Oscurità, le cui nebbie
nere avvolgono i confini del mondo e riempiono le cavità della Terra! Sei il
benvenuto, possente Erebo! Sei il benvenuto, Tenebra Ancestrale!”
A differenza di Etere ed Emera, quest’ultimo non
sprigionava luce alcuna, anzi il suo corpo, rivestito da una tetra armatura,
pareva essere più scuro della notte stessa. Soltanto due macchie rosse
risplendevano sul suo volto, occhi carichi di un perfido divertimento per la
guerra che avrebbe scatenato. In nome suo e del suo creatore.
In quella le tenebre presero a muoversi e il varco
alle spalle degli Dei Primordiali si allargò, mentre un’immensa sagoma di vuoto
cosmico penetrava all’interno del tempio da lui eretto millenni addietro, il
tempio che adesso, percependo a pieno la sua presenza, tremò, scuotendosi fin
dalle fondamenta e completando infine la sua edificazione.
“Primo tra i Progenitori, creatore dell’universo e
di tutti gli Dei che da te discendono, ci prostriamo al tuo servizio, Lord
Caos!”