Comptine d'un autre été

di None to Blame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prelude ***
Capitolo 2: *** Les promesses d'un visage ***
Capitolo 3: *** Le Coq et l'Arlequin ***
Capitolo 4: *** La cloche fêlée ***



Capitolo 1
*** Prelude ***


 


Note introduttive di marginale importanza

 

Cielo, non credevo fosse così complicato scrivere una AU (perché una cosa è scrivere della reincarnazione, un'altra è inserire 'sti qui in un universo alternativo che non ha niente a che vedere con loro). Niente cavalli, niente armature e, soprattutto, niente duelli e spade. Niente sangue! Miseriaccia, forse dovrei scrivere una cosa tipo gangster!Merlin.. Ma forse no.

Beh, è la mia primissima esperienza in questo campo e spero di esserne all'altezza. Credo che questo primo capitolo sia piuttosto una specie di prova. Ditemi voi se vi sta bene, se vi piace, se volete che lo continui o che bruci il quaderno sul quale l'ho scritta.

Oh, il correttore ortografico del programma di scrittura si è fuso. Mi segnala come errore “tavolo” e non “aksnfr”. Quindi, un po' questo, un po' il fatto che odio rileggere le storie, ci saranno errori ortografici (dovrei trovarmi un beta, ma non vorrei condannare qualcuno ad una tale tortura).

Mi sento già una specie di schifezza perché ho tipo sette milioni di long da completare e pubblicare, ma è stato più forte di me.

 

Vorrei seriamente sapere che ne pensate, riguardo ogni cosa – dal titolo (non ho potuto resistere alla tentazione di ficcarci dentro un po' di roba da cinefila) alle virgole – perciò, se non l'ho mai fatto prima, ora davvero vi prego di rendermi partecipe delle vostre opinioni a riguardo.

Vorrei sapere se devo perderci tempo o se è solo una perdita di tempo (?)

 

Beh, comunque, ai miei venticinque lettori rivolgo un enorme ringraziamento! :)

 

 

 

 





 

 

I

Prelude

 



 

 

 

 

 


 

« Merda, merda, merda! »

 

Arthur prese a pugni il volante.

Quando l'auto non diede segno di voler rispondere, rigirò rabbiosamente la chiave ed il motore singhiozzò, morendo con un ultimo ruggito rauco.

Afferrò la ventiquattrore e spalancò la portiera, sbattendosela alle spalle.
Contemplò l'idea di prendere a calci la sua Mercedes, tanto per sfogarsi, ma la carrozzeria lucida lo implorò di risparmiarlo. Si ritrovò, quindi, a strusciare i piedi sul marciapiede ed inveire contro la coltre bigia che brontolava sopra i tetti di Londra. Una donna, fasciata da un tailleur inamidato, passandogli accanto, lo squadrò sospettosa e strinse protettiva a sé la bambina lentigginosa che teneva per mano, uno zaino troppo voluminoso per quel minuto corpicino – ma Arthur non vi fece caso.
Si cacciò il cellulare dalla tasca, componendo un numero e se lo portò all'orecchio, puntando lo sguardo sulla strada, cercando nella fila di automobili un taxi libero. Non se ne vedeva l'ombra.

 

« Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiu- »

 

« Fanculo! »

 

Terminò la chiamata reprimendo l'impulso di scagliare via l'apparecchio.
Inspirò profondamente nel tentativo di placare l'ira che gli montava in petto. Aveva fatto un uso spropositato del turpiloquio – e non era da lui.
La pazienza gli stava scivolando tra le dita come fosse sabbia e la sua nobile indole pacata ne stava risentendo.

Quando fu chiaro che nessun taxi aveva intenzione di passare per Prince's Square – almeno non in tempi utili – Arthur prese la sofferta e necessaria decisione di usufruire della metropolitana.
Se la situazione non fosse stata così grave, avrebbe certamente evitato di mescolarsi alla caotica marmaglia di utenti della Tube. Era dai tempi del college che non si muoveva per la città su quei serpentoni sotterranei – e già allora gli facevano ribrezzo.

Ma era un'emergenza, una vera emergenza.
A mali estremi, si disse mentre svoltava l'angolo di Ilchester Gardens, estremi rimedi.
L'acuminato campanile della St. Mattew's Cathedral si stagliò nella sua indifferente visuale, la guglia che sembrava bucare il cielo, ma non un solo pensiero poetico attraversò la mente di Arthur. Aveva rivolto solo uno sguardo frettoloso alla strada e continuava a tenere gli occhi fissi sul display del telefono, la valigetta che ondeggiava in una mano ed il cappotto appeso al braccio.
Finalmente, lo schermo iniziò a lampeggiare ed Arthur pigiò il tasto verde senza nemmeno dare un'occhiata al nome e parlò prima di chiunque ci fosse all'altro capo della linea.

 

« Gwen, giuro che se dici solo una parola io ti- »

 

« Arthur »

 

« È una giornata no, maledizione! Prima la sveglia, poi la tua telefonata, il Mail non risponde… »

 

« Arthur, ascolta- »

 

« E la macchina non è partita! Che diavolo ce l'ho a fare una Mercedes se poi non parte?! »

 

« Arthur, sta' zitto! »

 

Arthur ammutolì, preso in contropiede.

 

« Abbiamo perso la Mercia »

 

 

 

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

 

 

 

 

 

MAI CIO' CHE SEMBRANO – LA VERITA' SU AREDIAN W. FINDER

(di Patrick Z.)

 

Pensavo fosse un uomo onesto e rispettabile” dice l'avvocato Laura McDowell, “non posso credere che ci abbia ingannati tutti in questo modo”.

[…]

I più lo conoscono grazie al caso della Pomegranade Corporation e molti ricordano le sue ambigue dichiarazioni in merito allo scandalo Isbone. È l'avvocato più brillante del Regno Unito, colui che ha scalato le vette del successo senza mai affondare.

Ma Aredian W. Finder ha nascosto più di uno scheletro nell'armadio.

[…]

Il nostro informatore – che preferisce mantenere l'anonimato, nel timore di ripercussioni – ci ha fornito ogni prova necessaria, illustrandoci ogni macchia sulla reputazione di Finder.

[…]

Agli arbori della sua carriera, aveva contatti con Michael O'Brien, conosciuto nel giro come “l'Irlandese”. Oltre al contrabbando generale, si occupava soprattutto del traffico di droghe pesanti, ricavandone un utile sufficiente per aprire il suo studio legale Finder. Sembra che tutt'ora collabori con il clan De Sanctis.

[…]

Ha avuto una parte fondamentale nella tragedia di Kensington – ricordiamo il massacro, nel 1988, del detective Kevin Humble, che indagava sull'Irlandese, e della sua famiglia. (lo special sul caso a pag. 8)

[…]

un gigantesco conflitto d'interessi. Finder ha difeso personalmente Samuel e Frank De Sanctis durante il processo conclusosi nel marzo 2006 – entrambi furono rilasciati per mancanza di prove.(in foto, Samuel De Sanctis e la moglie Teresa Gonzales a Montecarlo; Frank De Sanctis con il figlio Oscar a Hyde Park)

[…]

socio dal 2001 della Camelot Cost Reduction, la ben nota società fondata da Uther Pendragon (in foto), del quale attendiamo dichiarazioni a riguardo.

L'informatore ha inoltre suggerito eventuali coinvolgimenti di Pendragon nei traffici illeciti di Finder. Già nel 1999, la CCR…

 

 

« Ehi, non siamo in biblioteca, quello lo devi comprare! »

 

La testa di Merlin scattò in alto.
Da dietro il bancone, il panciuto cassiere gli stava puntando contro un dito accusatorio.

Merlin non aveva davvero intenzione di leggere a sbafo. Aveva afferrato la prima rivista che gli era capitata sottomano mentre aspettava che i clienti che gli stavano davanti nella fila venissero serviti.
In fin dei conti, nemmeno gli interessava quell'articolo. Ne aveva letto qualche frase, ma non aveva idea di chi fosse Aredian W. Finder né gli importava granché dello scandalo. Certo, era una brutta faccenda, scomoda per chi era direttamente interessato, ma si sarebbe sgonfiata da sola. Già da quella sera, il Daily Mail avrebbe trovato un altra succulenta notizia – magari su quell'insopportabile nuova presentatrice dello show del mattino.

 

« Allora? »

 

Il cassiere stava tamburellando le dita sul ripiano, la fronte aggrottata ed un'espressione che doveva risultare dura, ma era solo ottusa.
Merlin gli sorrise, riponendo il tabloid con cura sulla pila di riviste ed afferrando, invece, un sacchetto di caramelle gommose.

 

« Prendo queste »

 

« Ottanta pence »

 

La mano di Merlin si bloccò scandalizzata mentre era alla ricerca del portafogli.

 

« Che cos- Ma se fino a ieri stavano cinquanta! »

 

L'uomo sollevò le spalle, il ventre ampio premette pericolosamente contro i bottoni della camicia di flanella.

 

« I prezzi aumentano. Allora, ce li hai o no? »

 

Merlin sbatté sul bancone le monete, girando sui tacchi senza degnare di un saluto l'antipatico.

Strinse il pacchetto, che scricchiolò piacevolmente fra le sue dita, e lo aprì con un movimento secco, mentre le gambe si muovevano meccanicamente lungo la banchina gremita di persone. Si infilò quel che pareva un coccodrillo giallo fra i denti e ne succhiò lo zucchero, calmandosi immediatamente nel momento in cui la consistenza gommosa del dolciume premette contro la lingua ed il sapore familiare gli invase la bocca. Ne prese un'altra – un vermiciattolo rosso – e ripose accuratamente la confezione nella tasca anteriore della tracolla.
Si sistemò meglio la sciarpa attorno al collo, avanzando ancora di qualche passo, facendo scivolare lo sguardo sulla folla di viaggiatori.

Su un tabellone, le cifre arancioni di un orologio segnalavano che mancavano due minuti alle otto e che il treno per Wimbledon delle 07.53 era, a quanto pareva, in leggero ritardo.

Era un maledetto martedì e, come ogni maledetto martedì, doveva buttarsi giù dal letto all'alba per arrivare per tempo al locale di Gaius – il suo turno iniziava alle otto in punto e lui era ancora alla stazione di Edgware Road.

Naturalmente, da quando aveva ottenuto quel lavoro, non era arrivato mai in orario, nemmeno una volta. Gaius, dopo i primi tempi, aveva capito che la sua era una negligenza naturale e che i ritardi sulla tabella di marcia erano più che naturali per lui.
Merlin era consapevole della propria fortuna. Nessun datore di lavoro si sarebbe mai comportato così con un dipendente part-time e non ci avrebbe pensato due volte prima di sbatterlo fuori a calci senza liquidazione.

Sospirò, le mani affondate nelle tasche dei jeans, e sollevò di nuovo lo sguardo sull'orologio – le 8.09.

Un assordante sferragliare annunciò l'arrivo del treno, che sfrecciò sempre più lentamente sui binari e stridette fastidiosamente mentre frenava.

Gli sportelli si spalancarono con un rumore sordo ed iniziò la quotidiana battaglia per guadagnarsi la supremazia sui rari sedili liberi – doveva essere un martedì particolarmente maledetto, perché gli strilli acuti di decine di ragazzini in gita scolastica accolsero i viaggiatori mentre sgomitavano per farsi spazio.

Le porte si richiusero ed il treno ripartì.

Merlin estrasse da una tasca un taccuino nero dalla copertina consumata e spedì la propria mano alla ricerca di una penna, persa nei meandri della borsa. La scovò dopo qualche minuto – impigliata nel berretto che Will gli aveva regalato a Natale – e la estrasse dalla tracolla con un verso vittorioso. Ne afferrò un'estremità fra i denti, svitandone il tappo – che restò fra le sue labbra – e con le dita sfogliò le pagine del taccuino.

 

« Stazione di Bayswater. Prossima fermata: Notting Hill Gate. »

 

Le porte si spalancarono di nuovo ed il vagone si svuotò considerevolmente e abbastanza curiosamente da spingere Merlin a staccare lo sguardo dalle parole che stava buttando giù sulla carta per focalizzarsi sulla realtà circostante – la scolaresca era scesa e nel treno cadde un piacevole silenzio.

 

« Le posso assicurare che non abbiamo niente a che fare con questa storia e se solo mi lasciasse parlare con il Dirigente Esecutivo tutto si risolverebbe nel migliore dei modi. »

 

Naturalmente, anche la pace più deliziosa era stata interrotta dal solito imprenditore – o quel che era – che faceva la sua telefonata di lavoro in metropolitana, nonostante la linea disturbata.
Questo, in particolare, una voce imperiosa che sembrava appartenere più ad un generale trascinatore di popoli – e stava alzando il tono al limite dell'urlo di guerra senza prendere in considerazione gli altri pendolari, costretti ad ascoltare le sue beghe d'ufficio.

 

« Le ho chiesto… No, non ancora. Santo- Mi faccia parlare con Bayard! »

 

Merlin voltò la testa per includerlo nella propria visuale, nell'intenzione di provare su di lui lo sguardo di disapprovazione che Gaius gli rivolgeva piuttosto spesso – ed il tappo che reggeva fra le labbra cadde, rotolando sul pavimento.

Forse furono quelle ciocche bionde che gli ricadevano sulla fronte, andando ad addolcire il cipiglio corrucciato che sembrava tristemente naturale su quel volto. Forse le mani, una che stringeva il cellulare, i tendini tesi, l'altra che aveva smesso di gesticolare nervosamente, andandosi ad artigliare al ginocchio, stropicciando il tessuto del completo dall'aria costosa. O forse furono gli occhi – doveva esserci qualche legge che proibiva lo sfoggio indisturbato di un paio d'occhi del genere, anche se sotto sopracciglia aggrottate.

Magari fu semplicemente l'insieme di tutti questi fattori nella cornice della metropolitana.
Il cuore perse un paio di battiti ed il respiro gli mancò, mentre su un'insegna immaginaria che galleggiava sulla testa dello sconosciuto lampeggiava la frase “assolutamente fuori portata”.

Uno stridore intollerabile annunciò che il treno si era fermato.
Merlin ingaggiò una lotta con se stesso nel decidere sul da farsi. Era la sua fermata, doveva scendere e cambiare linea, ma stava seriamente prendendo in considerazione l'idea di fregarsene, contemplando quella bionda alternativa che continuava a sbraitare con – evidentemente – una segretaria ottusa.

Non che avesse intenzione di seguirlo.
No, affatto.

 

« Stazione di Notting Hill Gate. Prossima fermata: High Street Kensington. »

 

Lo sconosciuto sobbalzò, come se avesse solo in quel momento ripreso contatto con la realtà e gli si avvicinò, piazzandosi – con gioia di Merlin – di fronte allo sportello, che si spalancò un attimo dopo.

Merlin aveva sopravvalutato la propria coordinazione mente-corpo.

Dato che tutta la sua attenzione era focalizzata sullo sconosciuto, i movimenti motori ne risentirono.

Mise un piede in fallo e con una maldestra manovra si tirò fuori dal minaccioso e leggendario gap dal quale si viene solitamente messi in guardia – giusto prima che il treno ripartisse. Sfortunatamente, la manovra di auto-salvataggio aveva coinvolto anche lo sconosciuto, al quale braccio Merlin si era saldamente aggrappato per evitare di cadere, col risultato che avevano entrambi perso l'equilibrio, sbalzati in avanti dall'inerzia.

La ventiquattrore scura dell'uomo si era aperta, rovesciando sulla banchina lurida alcuni fogli, che venivano calpestati dai viaggiatori poco attenti.

 

« Ma che- Ma sei un totale idiota! Guarda che hai combinato… Idiota! »

 

Lo sconosciuto si scrollò di dosso Merlin – che ancora gli stringeva l'avambraccio – e si precipitò a soccorrere i preziosi documenti.

Intanto, l'altro si era rialzato, riassestandosi distrattamente.

 

« Non l'ho fatto apposta! Sono solo inciampato! »

 

Lo sconosciuto si bloccò, rivolgendogli un'occhiata gelida, continuando ad accusarlo sottovoc, furiosamente, e mentre raccoglieva i fogli. Un brivido percorse la spina dorsale di Merlin – e non aveva niente a che vedere con qualsiasi piacevole pensiero avesse precedentemente sviluppato nei confronti di quell'arrogante, insopportabile biondino.
Quello richiuse la valigetta con un clic e gli voltò le spalle, lasciandolo sulla banchina a masticare da solo il suo risentimento.

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

 

 

« E non mi ha nemmeno chiesto se mi ero fatto male! »

 

Lance annuì mentre lucidava il marmo del bancone.

Will, appollaiato su uno degli sgabelli, si spalmò il palmo sulla faccia.

 

« È la settima volta che parli di questo tizio. Faresti meglio a piantarla e cambiare argomento se non vuoi ritrovarti con questo coltello su per il- »

 

« D'accordo, d'accordo »  Lance impedì diplomaticamente che quello concludesse la frase  « Merlin ha afferrato il concetto, vero? »

 

L'imputato arricciò le labbra ed annuì, scoccando un'occhiataccia alla faccia da furetto di Will.
Soddisfatto, quello scese dal suo trespolo, infilandosi in bocca quello che rimaneva del suo sandwich, deglutendo rumorosamente.

 

« Io torno a lavorare, voi restate pure a cazzeggiare. Lance, ci si vede. Merl, oggi vado in facoltà »

 

« Che? Oggi non abbiamo corsi. »

 

Will si limitò a scrollare le spalle in risposta, infilando le braccia nella giacca.

Merlin scrutò sospettosamente l'amico.

 

« Non me la conti giusta »

 

« Fammi trovare la cena pronta! »

 

Mentre usciva dal locale facendo tintinnare allegramente i campanelli, Gaius picchiettò la spalla di Merlin, porgendogli un foglio.

 

« Charecroft Way, 62. Uffici della CCR. Quindici ordini entro venti minuti. »

 

Merlin scorse la lista – caffé nero, caffé con panna, cappuccini…

 

« Ma- »

 

« Niente ma. Forza, ragazzo, un po' di impegno! Fa' almeno finta di apprezzare questo lavoro! »

 

Tredici minuti dopo, Merlin stava correndo lungo Richmond Way.

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

 

 

Gwen sbuffò esasperata, infilandosi una mano fra i riccioli.

 

« Ho chiamato solo un quarto d'ora fa, Gwaine »

 

Il suo collega, la testa sul tavolo, la guancia spiaccicata poco igienicamente contro la plastica ruvida, fece una smorfia.

 

« Ma io ho bisogno della mia dose di caffeina, altrimenti non lavoro bene! Già mi sento male… »

 

Percy, seduto di fronte a Gwaine, ridacchiò e borbottò qualcosa come “tanto non lavori lo stesso” mentre teneva il telefono incastrato fra spalla e orecchio, le mani impegnate a digitare freneticamente sulla tastiera.

Gwen stava seriamente per perdere quel briciolo di pazienza che le era rimasto.

Era uno dei membri d'oro della Camelot – testuali parole di Uther Pendragon in persona – dipendente da quella che pareva un'eternità.
Era stato il suo primo – e unico – impiego serio.
Non appena aveva saputo che alla CCR avevano accettato la sua domanda, se ne era pentita. Riduzione costi, aveva pensato, sai che palle! 
Lei aveva un'ottima laurea in Architettura, non doveva gettarsi per forza sul primo lavoro con reddito fisso che le capitava sotto il muso – ma la necessità ed il timore della disoccupazone presero il sopravvento.

Sorprendentemente, Gwen non trovò mai noiosa la Camelot.

Gerarchicamente ordinata in base ad una flessibile distribuzione di compiti, assegnati in base alle competenze del singolo o del gruppo,  burocraticamente lineare ed organizzata in modo impeccabile, la società non aveva nulla da invidiare a redazioni di giornali e studi legali.
Non si cadeva mai nella routine e ogni nuovo progetto che veniva sottoposto al suo gruppo di lavoro – si occupò, inizialmente, di riduzione spese immobili, con la possibilità, quindi, sfruttare parzialmente la sua laurea – preannunciava una eccitante avventura.
Concludere con successo era, poi, una scarica elettrica sottopelle.

Lei era piaciuta immediatamente a tutti, sopratutto a Leon, veterano della società, ed Arthur, il figlio del Gran Capo.
Si era sorpresa scoprendo che Arthur Pendragon fosse un tipo così alla mano, riservato ma cordiale e dal cuore gentile. Non assomigliava per niente a suo padre – aveva solo la sua determinazione e dava in modo evidente tutto se stesso al lavoro, ma gli mancava il cinismo di Uther ed era decisamente più malleabile ed umano.

Si era perfino presa una cotta per lui e lui la ricambiò, senza troppa passione - solo in seguito Gwen scoprì che era stata una delle avventure più bollenti del giovane Pendragon - per quasi tre mesi, ma le cose finirono amichevolmente nel momento in cui si resero entrambi conto che non facevano davvero l'uno per l'altra. Gwen cercava di non pensarci troppo.

In breve, la CCR era un posto felice, insuccessi compresi.

Ma la Camelot non aveva mai affrontato una crisi simile, in precedenza.
Non solo dovevano tagliare i rapporti con uno dei maggiori soci contribuenti – lo studio di Aredian poteva essere considerato una specie di pilastro della CCR – ma, per paura di esser coinvolti nello scandalo, i clienti più fedeli si tiravano indietro ed i soci si defilavano.

Gwen era stata eletta a Responsabile Generale col Supremo Compito di Tenere Alto il Morale ed erano ormai ore che non faceva che rispondere diplomaticamente alle invadenti telefonate di riviste scandalistiche che le impedivano di fare il lavoro assegnatole.

Aveva implorato Gwaine, lo aveva pregato, chiedendogli in ginocchio di adempiere ai suoi doveri di centralinista, ma quello aveva risposto nisba – non riusciva a reggersi in piedi, era stato in malattia per una settimana e richiamato sul fronte dietro minacce di morte o, peggio, licenziamento in tronco.

 

« Gwaine, ti prego »

 

« Quando arriva il caffè, te lo prometto »

 

Gwen sospirò, sollevando di nuovo la cornetta, guardando Arthur nel suo ufficio , dietro le porte di vetro. Stava passeggiando avanti e indietro, ma aveva un'aria incredibilmente rilassata.

Si chiese come facesse ad essere così tranquillo.
Sperò che riguardasse qualche buona notizia riguardo le Mercia Inc. Era il cliente più prestigioso e facoltoso della società.
Confidava nel buonsenso di Bayard. Confidava nel proprio ottimismo, in realtà, e nelle capacità di Arthur.

Gwen tremò al pensiero di quello che sarebbe successo se la Camelot e Mercia si fossero separate.
Perdere Bayard sarebbe stata la fine della CCR.

Il telefono squillò nuovamente e Gwen sollevò la cornetta, preparandosi il no comment sulle labbra.

 

« Gwen, sono Elena. C'è il tipo dei caffè, lo mando su? »

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

 


 

Gli Alleati non furono accolti con maggior calore nei lontani anni della Guerra.

Gwaine, nel momento in cui udì la lieta notizia, sembrò dimenticare il malessere che lo inchiodava alla plastica del tavolo e schizzò verso la porta dell'ascensore, aspettando che si spalancasse come un cane attende il padrone.

Sorrise, quasi commosso, quando nella sua visuale, oltre all'invitante folla di bicchieri fumanti, si fecero spazio un paio di enormi orecchie, zigomi acuminati e una massa di capelli incolti. 

Nell'insieme, quel quadretto era più che attraente.

 

« Ehm, permesso… »

 

Con qualche attimo di ritardo, Gwaine si spostò di lato, permettendo all'altro di uscire dall'ascensore.

 

« Posso aiutarti, se vuoi. Il mio è un caffè macchiato. Comunque, io mi chiamo Gwaine. Tu sei? »

 

« Frena, frena »

 

Merlin sollevò la mano libera, preso alla sprovvista, una risata in fondo alla gola. Gli mollò volentieri il vassoio, regalandogli un sorriso ancora più ampio come ringraziamento.

 

« Su ogni cartoncino c'è scritto il tipo di caffè. Se mi aiuti a distribuirli, mi fai un piacere »

 

Gwaine annuì, cercando con lo sguardo il “caffè macchiato”.

 

« Io sono Merlin, comunque. Ti stringerò la mano dopo che avrò finito il mio lavoro »

 

Gwaine annuì con aria comicamente seria.

 

« Ben detto. Prima i caffè, poi i convenevoli. »

 

Dopo tre minuti, sul vassoio erano rimasti solo tre bicchieri.
Merlin seguì il passo sicuro di Gwaine, che si dirigeva verso la scrivania occupata da una ragazza dalla folta chioma scura ed un omaccione con la faccia da cucciolo bastonato.

 

« Ragazzi, questo è Merlin, pusher-mascotte della CCR. Merlin »  si rivolse a lui, poggiando il vassoio sulla scrivania e passando a Gwen il suo cappuccino  « il caffè è una droga, noi eravamo in astinenza, perciò tu ci hai ufficialmente salvato la vita. »

 

Gwen, senza dar conto all'intricato ed insensato ragionamento del collega, porse una mano a Merlin, prendendo una prima sorsata dal bicchiere.

 

« Io sono Gwen. Lui è Percy. »

 

Percy sorrise, mimando uno “Scusa” con le labbra e tornando a parlare alla cornetta con espressione cupa.

Gwen gli parlò di nuovo.

 

« Hai già conosciuto questa testa di cavolo, vedo. »

 

« Gwaine? Mi ha fatto fare il tour del piano come se fosse un safari in una savana sintetica e tecnologica. »

 

Quello scoppiò in una risata fragorosa.

 

« Siamo tutti animali, te l'ho detto, no? »

 

« Non saprei che razza di animale potresti essere tu »

 

Gwaine si protese verso di lui, sussurrando.

 

« Che animale vuoi che sia, Merlin? »

 

« Uno silenzioso »

 

Gwen, suo malgrado, rise.

Si guardò intorno, ritrovandosi a pensare che, in fondo, quel giorno assomigliava ad una savana. Una selvaggia e disperata savana.

 

« Il fatto è che è un brutto momento »

 

Merlino fece per replicare, ma Gwaine lo interruppe.

 

« Qui c'è un altro caffè! Di chi è il » lo sollevò all'altezza degli occhi, leggendo la descrizione sul cartoncino « “nero ristretto senza zucchero”? »

 

« È quello di Arthur. L'ufficio è laggiù »

 

« L'ufficio trasparente. Attenzione, lui è il leone e se vede una bella gazzella come te- »

 

« Gwaine, sta' zitto e rispondi alle chiamate o ti faccio il culo come un babbuino »

 

« Agli ordini, milady! Mi piaci quando sei graffiante. »

 

Merlin ridacchiò mentre si affrettava a portare a termine la sua ultima consegna.

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

 

 

 

Bayard era un uomo assennato, ne aveva avuto prova tante volte durante tutti quegli anni ed ora ne aveva avuto l'ennesima conferma.
Uther godeva ancora di una certa credibilità presso chi lo aveva conosciuto – nessuno di questi pensava fosse davvero un criminale.

Aredian non poteva essere salvato, ma ad Arthur nemmeno importava. Non gli era mai piaciuto, lui con quel suo “Metodi infallibili, conclusioni incontestabili”.
Non poteva negare che il suo contributo – quello economico, ma anche il suo sostegno legale era risultato utile – fosse stato conveniente per la CCR, ma, nel profondo, poteva quasi essere contento di essersene liberato – lo sarebbe stato, se fosse accaduto in un altro modo, in un modo meno dannoso, in un modo che non avesse coinvolto anche la Camelot. Ed, invece, un anonimo qualunque si era permesso di trascinare nel fondo anche suo padre e la sua società, ciò su cui aveva fondato la sua intera esistenza. Aveva raccontato un insieme di provate verità, ma aveva insinuato il dubbio nella pubblica opinione ed il Mail aveva fatto il resto.

Arthur ebbe uno scatto d'ira ed un blocco di post-it finì sotto la scrivania.

Il Mail. Il Daily Mail.
Fra tutte le cose, era forse questa quella che davvero non gli andava giù.
Vendere una società prestigiosa come la Camelot ad un tabloid sfogliato perlopiù nelle sale da manicure.

Si accasciò sulla sedia, stropicciandosi la faccia.

Aveva in qualche modo convinto Bayard a pensarci su. Perdere le Mercia sarebbe stato un colpo troppo duro perché poi la società potesse risollevarsi e tornare agli antichi splendori. In quel momento, sapeva che la promessa di pensarci su era il meglio che sarebbe riuscito a strappare ai clienti. Odin non aveva nemmeno voluto discuterne e sapeva che l'amministratore delegato della Essetir – Lot qualcosa – era al telefono con Uther.
 

Dio, aveva bisogno di una pausa.


Qualcuno picchiettò le nocche sul vetro della porta.

Non aveva la forza di sollevare la testa e mostrarsi fiducioso e responsabile.
Con la guancia premuta contro il braccio, si limito a rivolgere un cenno all'intruso.

Fu sorpreso quando non fu la gentile voce di Gwen a riscuoterlo dal suo pessimistico torpore, ma una che non riuscì ad identificare.

 

« Caffè »

 

Oh.
Quella era una notizia per la quale valeva la pena stendere la schiena ed aprire gli occhi.

Mise a fuoco la figura che gli stava di fronte e, dopo un battito di ciglia, realizzò.

La mascella gli si staccò dal volto.

 

« TU »

 

Doveva esserci del ridicolo in quella situazione, eppure nessuno dei due riuscì a fare nient'altro che digrignare i denti.

Erano appena le dieci del mattino e la giornata aveva già i presupposti per essere ricordata in eterno ed Arthur era arrivato al punto in cui avrebbe preferito rannicchiarsi nel cestino delle cartacce fino al tramonto piuttosto che scoprire cos'altro la sorte avesse in serbo per lui.

Stava già per mandare via quell'impiastro prima che potesse combinare qualche altro pasticcio, quando lo sguardo gli cadde sul vassoio.
E sul caffè.
Quello era importante. Caffeina. 

Anche l'intruso guardò in basso e quasi si sorprese nel vedere ciò che le sue mani reggevano, come se si fosse dimenticato del perché si trovasse lì. Riacquistando quella che pensava fosse un'aria professionale, si avvicinò alla scrivania di Arthur, un inspiegabile rossore sulle guance, e gli porse il bicchiere.

 

« Nero ristretto senza zucchero »

 

Arthur annuì, sfilandogli il caffè dalle mani e portandoselo alle labbra.

 

« È freddo, idiota »

 

L'idiota, che si era voltato con l'intenzione di uscire, lo fronteggiò nuovamente, le braccia conserte al petto, il vassoio che gli copriva una porzione di fianco.
In volto, un'espressione di sfida che ben poche persone avevano avuto il coraggio di rivolgergli – e certamente ben pochi estranei.

 

« Forse avreste dovuto specificare che lo desideravate caldo, signore »

 

Quello sgranò gli occhi e l'idiota si stampò sulle labbra un ghigno compiaciuto, lasciando l'ufficio prima che l'altro potesse replicare.

Attraverso il vetro, lo vide allontanarsi con passo veloce e dirigersi verso l'ascensore.

Lo squillo prepotente del telefono lo svegliò ed Arthur riacquistò una facciata professionale, rispondendo con l'usuale tono competente.


Fu solo quando incontrò il proprio riflesso nel vetro che si accorse che stava sorridendo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Les promesses d'un visage ***


II

Les promesses d’un visage
 

 

 

Fumo denso che si fondeva con l’orizzonte, tetti risucchiati dalla cappa grigia che copriva i palazzi, una foschia opprimente ingiallita dalle troppe luci, incupita dalla notte, addensata sotto una pioggia non abbastanza fitta, non troppo decisa da lavare via il fetore, quelle sensazioni negative che impregnavano l’asfalto, le gocce si abbattevano leggere e timorose, la coltre scura che si spandeva, insistente e provocatoria premeva sulla città senza lasciarle respiro.

Era Londra e sembrava un po’ un uccello in gabbia, fari brillanti che agonizzavano per un po’ di libertà, la cacofonia del traffico e della folla e degli angoli bui che si spiegava e si allargava, cercando spazio, cercando aria e poi restava impigliata, intrappolata, pulsava debolmente e poi svaniva, fioca e tremolante come una candela sottovento.

Merlin, i gomiti appoggiati al davanzale, sporgeva la testa fuori dal minuscolo rettangolo incastonato sul fianco dell’edificio – una finestra sulla città, una finestra sul mondo per studiare se stesso.

Gli piaceva la pioggia.
Gli piaceva il modo in cui sembrava purificare l’aria, addensandola e profumandola. Gli piaceva che l’asfalto ed il terriccio dei giardini restassero impregnati del suo odore, come quello che c’era sempre a Ealdor – terra bagnata, erba e pane appena sfornato.

Gli piaceva la musica della pioggia.
Gli piaceva il sottile ticchettio delle gocce timide e gli piaceva quando, invece, scrosciavano irriverenti o ancor di più quando piegavano feroci i rami degli alberi e si dimenavano incontrollabili, ruggendo col vento.

Merlin sospirò, richiudendo la finestra – che protestò con un cigolio sospetto.

Raggiunse il letto – ovvero, fece un passo – e ci si buttò sopra con ben poca grazia, i jeans ancora indosso, le gambe stese e le braccia piegate dietro la testa.

Portò una mano al comodino, accendendo l’abatjour – una patacca colorata e pacchiana, la base scheggiata. La lampadina rischiarò la stanza – una scatola quadrata che assomigliava vagamente ad uno sgabuzzino, con quella mobilia rovinata e polverosa, una moquette lisa che doveva esser stata blu, un letto sfatto dalle coperte verdi. C’erano anche una scrivania in legno divorata dalle tarme che reggeva una quantità sorprendente di testi universitari, impilati disordinatamente, ed un armadio di medie dimensioni, un’anta spalancata su un interno completamente vuoto – dato che l’intera stanza era costellata dei capi che andavano opportunamente riposti altrove.
L’intonaco era scrostato in più punti, i muri coperti da poster – grafiche dei Tool, gigantografie di paesaggi, ritratti di Baudelaire e fotografie di gattini in pose buffe. C’era una foto di sua madre, una di lui e Will con cappellini di carta e brillantini sul naso, quella volta che si erano ubriacati tanto al punto che avevano dovuto chiamare un taxi perché non si reggevano in piedi – e poi avevano dovuto evitare di comprare carne per due settimane. C’erano post-it blu con poche parole scribacchiate sopra, quelle che più gli facevano ridere – sfigmomanometro, tacchino e felafel – e quelle che lo ispiravano, le citazioni dei suoi autori preferiti e pensieri buttati lì a caso – finivano sul muro e non perse fra un mucchio di pagine perché dovevano sempre essere sott’occhio, perché potevano svanire se sbattevi le palpebre, perché potevano cambiare e tu dovevi essere lì per controllarle.

In un angolo, sparsi disordinatamente sulla moquette, stavano i libri più disparati, romanzi e raccolte di poesie, una versione soft del Kamasutra ed un saggio sull’influenza dei parametri di giudizio dell’arte greca sull’odierna società occidentale.

«Merl, hai cenato? »

Will non aveva bussato.
La sua testa aveva fatto capolino fra lo stipite e la porta, gli occhi iniettati di sangue ed i capelli disordinati – beh, più disordinati.

Merlin scattò a sedere, abbassando lo sguardo, colpevole. L’amico aprì completamente la porta e lo guardò con disapprovazione, una paternale già pronta a fior di labbra.

Però Merlin sollevò la testa e gli sorrise, mettendo in mostra i denti.
Ecco, in quel momento, Will perse la sua voglia di prendere a pugni l’amico. Sbuffò, più perché sentiva di doverlo fare che per effettiva perdita di pazienza, perché aveva un leggero senso di colpa alla bocca dello stomaco, ed afferrò il coinquilino per il gomito, costringendolo a seguirlo in cucina.

«Ti faccio mangiare io. Non sono ancora le nove, siamo in tempo per una cenetta come si deve. Mangiamo davanti alla tv e poi a letto, che domani abbiamo il corso presto! E poi devi andare a lavorare, tu! Ora riscaldiamo una buonissima confezione di spaghetti precotti. E poi ci sono delle uova. Proveremo a fare una frittata, proprio come ci ha insegnato Lance. »

Merlin riconobbe il vomito di parole, riconobbe la stretta nevrotica delle dita di Will sulla manica della sua maglia, riconobbe lo sguardo, quello che lui evitava di mantenere fermo e deciso.

Will era preoccupato.
Qualcosa lo turbava e non glielo aveva detto.

Storse la bocca, ricordandosi cosa era successo l’ultima volta che Will gli aveva nascosto qualcosa – ricordava le occhiaie scavate ed il tremore nelle mani, il modo in cui aveva aggredito Merlin quando gli aveva chiesto delucidazioni, ricordava i soldi che sparivano dalla cassa comune e quel sacchetto, Cristo, quel sacchetto di plastica nel suo zaino.

Merlin sospirò – di nuovo, ancora, quella giornata sembrava più pesante ogni secondo che passava.

«Non c’è il latte »

Will aggrottò la fronte.

«E che c’entra il latte? »

«Lance dice che- »

«Al diavolo quello che dice Lance! Inventeremo! »

Merlin gli lanciò un’occhiata dubbiosa. Né lui, né Will erano dei gran cuochi e, di solito, i loro pasti casalinghi consistevano in cibi precotti e tramezzini, magari fregati dal Roast Dragon.

Merlin non gli fece domande.
Si limitò a stringere il cucchiaio con forza e continuò a mescolare le uova.
 
 
 
 







**
 
 









«Non c’è altro modo, devi capirlo, Uther »

La lunga scrivania, lucida e bianca, gomiti fasciati da completi d’alta moda, le schiene dritte e gli occhi stanchi.

Uther Pendragon strinse i braccioli della sedia – fu l’unica emozione che lasciò intravedere a quella gente, la faccia una maschera impassibile.

Annuì, stancamente.

«Avevo già considerato quest’opzione »

«Non è un’opzione, signore. È l’unica linea di condotta da seguire per evitare il collasso. »

Era Leon, i capelli che dovevano esser stati domati da parecchio gel quella mattina ora erano di nuovo liberi, i riccioli che gli ricadevano sulla fronte, molleggiando.

«Sì, lo comprendo. Per il bene della Società. »

Agravaine si sporse verso il cognato.

« Uther, in segno di rispetto e di amicizia, il Consiglio ti permette di esprimere una preferenza. »

Patrick Young annuì, un vecchio dalla pelle filigranata, la giacca che si ripiegava su se stessa perché priva di un effettivo corpo da fasciare. Uther lo guardò, sovrappensiero.

«Penso che possiate immaginare chi ho intenzione di scegliere. »
 
 
 
 
 








**
 
 
 









    Mittente: Elena.

- ciao tesoro 6 già arrivato a casa? mi manki tanto

Arthur si sfilò le scarpe, allentandosi la cravatta, il cellulare in una mano e le dita che picchiettavano sui tasti.

- Sono appena rincasato. Anche tu mi manchi.

Non era vero, naturalmente, ma quelle parole suonavano così bene che sarebbe stato un peccato non utilizzarle.

Si diresse verso la cucina, appoggiando il cellulare sul ripiano in marmo.
Contemplò l’idea di mettere insieme qualcosa di buono, magari un’enorme e ricca insalata, di quelle che grondavano di patate e tonno, magari con dei pomodori, capperi o qualcosa di sostanzioso.
Il suo stomaco gorgogliava e pretendeva nutrimento.

Però non aveva desiderio di cucinare. Aprì l’anta del frigorifero, sperando di trovare qualcosa che potesse essere consumato senza aver bisogno di una qualsiasi preparazione – ed estrasse trionfante una ciotola di risotto, con degli invitanti calamari che sbucavano qua e là. Dovevano essere gli avanzi del giorno precedente, ma in quel momento non vi diede conto. Lo infilò nel microonde, puntando il timer sui cinque minuti e sorrise, estasiato.
Raggiunse il tavolo della sala da pranzo – in pratica, era tutto un enorme spazio senza divisioni di sorta, colori come il beige ed il grigio chiaro che saltavano all’occhio in tutta quell’eleganza.

Poggiò sulla tovaglia una caraffa d’acqua ed afferrò il telecomando, accendendo il televisore – un oggetto vergognosamente appariscente, uno schermo largo, piatto e dall’aspetto costoso.

Rabbrividì mentre faceva zapping da un canale di notizie all’altro, le giornaliste con le loro voci chiare e le agenzie che lampeggiavano sotto i loro sorrisi ignari.

Per quel giorno, ne aveva abbastanza di notiziari.

«Ma Ciro muore in battaglia nel 530 a.C. Non visse abbastanza a lungo per dimostrare quello di cui era capace lontano dall’ambiente di guerra. Un po’ come accadde con Giulio Cesare… »

Documentario.
Ecco un programma accettabile.
Arthur non aveva idea di chi fosse quel Ciro di cui si parlava, né cosa avesse a che fare con la colonna dorica – o ionica? Avrebbe interrogato Gwen a riguardo – che veniva inquadrata, ma gli andava bene così.

Raccattò la sua ventiquattrore da dove l’aveva abbandonata, estraendovi il computer mentre il timer del microonde lo avvertiva con un sonoro ding che aveva finito il suo lavoro.

Con la ciotola fumante in una mano ed il pc sottobraccio, Arthur si posizionò al tavolo, incrociò le caviglie sotto la sedia e soffiò poco educatamente sulla propria cena, il vapore che gli riscaldava il volto. Intanto, lo schermo del computer si illuminava.

Una vibrazione sorda lo avvertì dell’arrivo di un sms sul suo cellulare, ancora sul ripiano della cucina.

Inserì la password nella casella apparsa sullo schermo e si alzò, grugnendo.

Era un altro messaggio di Elena.

- domani dp il lavoro ke ne dici di stare soli io e te? una cenetta tranquilla da me e poi ci si riscalda…

Erano la coppia più invidiata dell’ufficio, splendidi, eleganti e innamorati. C’era la ragazza del Reparto Trasporti che gli aveva confidato, mentre erano in ascensore, che loro due erano il suo ideale di “perfetto romanticismo”.
Evidentemente, i suoi colleghi erano più fantasiosi del normale o vedevano quello che volevano vedere.

Elena stava durando più di ogni tentativo precedente – insieme da quasi un anno.

Però.

Però, come al solito, mancava qualcosa. Mancava passione, mancava coinvolgimento.
Lei era fantastica – bellissima e brillante, semplice nei modi e negli interessi, niente di troppo sofisticato, come quella dannata Vivian che l’aveva accalappiato due anni prima.

Il problema era lui. Il problema, a conti fatti, era sempre lui. Era lui che dedicava troppo tempo a lavoro, che era un prodigio in ufficio, che dimenticava un anniversario, un evento importante, una data che doveva essere assolutamente ricordata. Era lui che nascondeva qualcosa, a detta di alcune. Era distante ed un pessimo fidanzato. Lui non si confidava, non parlava.

Lui che non le amava mai davvero.

Aveva creduto di amare Gwen, forse l’aveva davvero amata – al punto che ricordava le cose insignificanti alle quali le ragazze fanno attenzione, come il suo colore preferito, come le piaceva il Martini, i cioccolatini dovevano essere al cocco e non al latte.

Ma anche lei non era durata.

Gwaine lo aveva più volte convinto ad uscire con degli uomini - «Magari sei gay e non lo sai ancora »- ma neppure quello aveva funzionato.

Il problema era la relazione.
Il problema – il problema vero – era che ad Arthur non interessava. Non gli interessava un rapporto serio, non comprendeva questa faccenda della “coppia” e dell’essere innamorati, non ci si impegnava, non ne aveva bisogno. Di nuovo, non gli interessava. Ci si buttava perché era come iniziare un nuovo gioco, in competizione con se stesso o con un eventuale rivale, lo faceva perché ogni tanto era piacevole trovare un modo per distrarsi – anche se considerava un buon film altrettanto piacevole.

Non gli importava, davvero.

L’unica cosa che contava, che contava sul serio, era il lavoro – perché tutto il resto sarebbe stato una perdita di tempo, no?

Per questo motivo, aveva riposto il cellulare accanto al computer, senza rispondere all’sms, aprendo, invece, un file dal titolo “Riduzione Costi Telefonia”.
Gli occhi scorrevano veloci lungo le cifre riportate sul grafico, le dita che battevano sui tasti, modificando alcuni dati ed aggiungendone altri.

Sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsi dello scandalo che aveva infangato la CCR, sapeva che avrebbe dovuto trascorrere la nottata al telefono con i giornalisti, con segretarie e dirigenti vari – quelli che non si sarebbero mai lasciati convincere.
Però Arthur aveva una sua etica. Bayard aveva dato loro una chance, non li aveva abbandonati e la Camelot non lo avrebbe ripagato ignorando il progetto Mercia.
Il contratto sarebbe scaduto la settimana successiva ed ancora mancavano i risultati dei gruppi che si occupavano della riduzione costi del trasporto merci e pubblicità – si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto telefonare a Percy l’indomani, chiedendogli di aggiornarlo sui progressi.

C’era stato un tempo in cui collaborava con tutti i gruppi di lavoro, contemporaneamente. Era un buon modo per mettersi in una luce positiva di fronte alla Società, certo, ma lo faceva anche perché gli dava una sensazione di euforia – che mai mostrava, naturalmente. Lo faceva sentire forte, invincibile – potente, insuperabile, mai felice, ma in fondo non era quello l’importante.

Se perdeva, veniva incentivato ad andare avanti, senza sosta. Per migliorarsi, per gonfiare il proprio ego.
Per dimostrare qualcosa – forse a se stesso, magari ai colleghi, certamente a suo padre.

Poi, i progetti erano diventati troppi e lui si era concentrato sempre sugli stessi gruppi di competenza – telefonia, immobili e materie prime.

Il cellulare squillò con prepotenza ed Arthur sobbalzò.

Afferrò l’apparecchio e si bloccò non appena vide quale numero stesse lampeggiando sul display.

«Padre »

«Arthur, ho una questione urgente della quale discutere »

«Ti ascolto »

«Riguarda il futuro della Società. Questo scandalo ci ha indeboliti in modo sconveniente e la CCR non tornerà agli antichi splendori- »

«Non è vero, padre, con un po’ di persuasione, clienti- »

«Non mi interrompere. »

La voce di Uther era dura. Arthur deglutì.

«Sissignore. »

«Stasera il Consiglio si è riunito. Siamo pervenuti ad una sola conclusione della faccenda: le mie dimissioni. »

«Cos- »

«Le ultime fughe di notizie e le voci in circolazione parlano chiaro. Chiunque abbia fatto quelle dichiarazioni, aveva come unica mira la distruzione della mia personale immagine. Odin ha detto chiaramente che non ha problemi con la CCR, se non fosse che io ne sono a capo. Non è la Camelot che ha perso consensi, ma io. »

«Padre, non- »

«Domani stesso si voterà per affidare la responsabilità della Camelot ad un amministratore delegato. Io ne resterò il Presidente, naturalmente, ma senza alcun potere decisionale. »

Arthur iniziò a sudare freddo.

«È chiaro che la scelta penderà su di te. Io ho dato loro il tuo nome e, come previsto, l’intero Consiglio l’ha accettato di buon grado. »

«Quindi… »

«Anche se non ancora ufficialmente, sei il nuovo Amministratore Delegato della CCR. Avrai la piena responsabilità e dovrai dare tutto te stesso alla Società, senza perderti in sciocchezze. »

«Padre, io non so se- »

«Non sono assolutamente accettati rifiuti o tentennamenti di sorta. Tu non mi deluderai, Arthur. »

Uther continuò, probabilmente augurando a suo figlio di trascorrere una piacevole notte – o semplicemente intimandogli di presentarsi in perfetto orario il mattino seguente.

Arthur non se ne accorse.

Respirava a stento, il cellulare ancora premuto contro l’orecchio, il regolare suono della caduta di linea che gli rimbombava nella testa – tu tu tu.

Non seppe con quale forza di volontà si alzò dalla sedia senza scaraventarla in terra.

Quando il mondo smise di vorticargli davanti agli occhi, molliccio e viscido come gelatina, era già nella sua camera da letto – ordinata, pulita, impersonale.

Si era inginocchiato davanti al candido comodino, lo sguardo perso in una diversa dimensione.
Aprì piano il secondo cassetto, lo aprì giusto un po’, infilandovi dentro la mano che cercava a tentoni qualcosa. Estrasse una chiave – lucida ed apparentemente mai usata. Se la rigirò fra le dita, accarezzandola. La ripose accuratamente nel cassetto – perché non era ancora quel tempo, forse non ci sarebbe mai stato quel tempo.

Tirò fuori un quaderno, un rettangolo sgualcito e rosso, un insieme di pagine segrete, ed una penna – voluminosa e colorata e poco professionale. Sfiorò la copertina liscia e sembrò tranquillizzarsi – era un po’ come tornare a casa. Girava piano le pagine, nel timore di rovinarle, di disturbare i sogni che vi dormivano, si svegliare pensieri che andavano cancellati.
Raggiunse un foglio vuoto e bianco, che chiedeva di essere riempito – lo chiedeva a bassa voce, con aria complice, e poi gli sorrideva come mai nessuno gli aveva sorriso, gli sorrideva, bianco e lucente, scrutandogli l’animo e succhiandogli via quello che non poteva restare sospeso nell’oblio.

Arthur accarezzò la carta con la punta della penna.

Scrisse per tutta la notte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

**
 
 
 








Morgana riagganciò.

«Che novità da Agravaine? »

Sua sorella accavallò le gambe con un movimento sinuoso, i gomiti sui braccioli della poltrona, il palmo della mano a reggere il mento.

«Uther appende le scarpe al chiodo »

Morgause si lasciò sfuggire un verso di gioia, il ghigno soddisfatto che le spezzava il viso.

«Tutto secondo i piani, dunque. Nemmeno il grande Uther Pendragon è riuscito a tener testa alle pressioni della stampa. »

«Arthur sarà il responsabile, ora »

«Il giovane Pendragon non suscita il mio interesse. Hai avuto una buona idea, sorella mia »      si alzò, lisciandosi i pantaloni e dirigendosi verso l’uscita     « Chiamare quell’Elios è stata un’ottima mossa. »

« È il migliore nel suo campo, d’altronde »

Morgause sembrò notare qualcosa nella voce di sua sorella.

«Spero che il fato di Uther non susciti la tua compassione »

Morgana scrollò le spalle, evitando il suo sguardo.

«È Arthur. Lui… lui non vuole questo »

«Cerca di passare oltre, sorella. Il nostro dovere non è ancora compiuto. Uther non è ancora annientato. »

Morgana tacque per qualche istante, poi annuì.

Qualunque senso di colpa sarebbe svanito con una buona dormita.
 
 
 
 
 
 





**
 
 
 
 
 
 






«No che non puoi mettere quell’orrenda roba spacca timpani come sottofondo! Spaventerai i clienti! »

«Ma sono gli Avenged Sevenfold! »

Per Merlin non era un difficile lavorare in un bar – tranne quando gli veniva chiesto di servire ai tavoli, magari durante le ore dei pasti.
Però aveva un viscerale bisogno di musica – della sua musica.
Gaius aveva un ottimo impianto stereo che preferiva usare per trasmettere canzoni country, robette commerciali o programmi radio che avrebbero probabilmente accolto il consenso della clientela molto più di un insieme di “terrificanti suoni metallici”.

«Allora i Ramones? Almeno i Butthole Surfers! »

Il famigerato sopracciglio del vecchio barista scomparve nella linea dei capelli.

«Tu non propinerai ai miei clienti la musica di un gruppo dal nome simile! »

Merlin voleva continuare la protesta, ma un colpo di tosse alle sue spalle gli ricordò che aveva lasciato Lance da solo a gestirsi la gente al banco, perciò si affrettò ad aiutarlo.

Il Roast Dragon era un bar piuttosto conosciuto, nella zona, e parecchio frequentato.
Apparteneva a quella serie di locali che non avevano ancora accettato la seconda rivoluzione industriale e di certo erano distratti quando il mondo aveva fatto la sua entrata nel ventunesimo secolo – almeno per quanto riguardava il design. La prima impressione che si aveva del bar era profondamente negativa, a cominciare dall’insegna grossolana, dipinta di un rosso porpora e decorata con un pacchiano drago dorato. L’interno appariva accogliente solo durante le fredde sere invernali, quando il fuoco nel caminetto donava al legno della mobilia una sensazione di nostalgia, piuttosto che di squallore.

Probabilmente, se il proprietario non fosse stato Gaius e se Gaius non avesse dedicato a quel locale attenzioni premurose e tante cure, nessuno vi sarebbe nemmeno entrato. Tuttavia, i clienti affezionati si sentivano un po’ come a casa, sgranocchiando pane fresco – erano soci della pizzeria in fondo alla strada, quella gestita da italiani – e sorseggiando del buon caffè, tostato al punto giusto.
Gaius conosceva tutti per nome, perfino quelli che si erano presentati solo una volta. Ricordava ogni faccia e trattava ognuno con egual calore, impartendo lezioni di relazioni pubbliche ai suoi pochi dipendenti – Lance, Merlin e due ragazzine appena uscite dal liceo, Rhonda e Tracy.
Erano stati tutti istruiti a dovere, nessun cliente si sarebbe mai dovuto lamentare del servizio del Roast Dragon.

E per quarant’anni tutto era andato bene.

Merlin, seppur imbronciato, continuò a coprire i cappuccini di morbida spuma, spruzzandoli di cacao.
Borbottava tra sé - «D’accordo, niente musica, niente System, poi non vi lamentate che inciampo, a me la musica serve »- e, man mano, riponeva le tazze pronte sul vassoio di Tracy, che aveva la straordinaria capacità di ricordare gli ordini di dodici tavoli senza doverli annotare.

Il locale era pieno. Era sempre pieno, a ora di pranzo. Erano nella zona uffici e molti impiegati preferivano un casereccio panino ad un prodotto industriale. Curiosamente, tutti loro ordinavano sempre le solite cose – sandwich con salame e formaggio, con poche varianti.
A poco a poco, Merlin si era abituato.

I campanelli sulla porta tintinnarono allegramente, annunciando l’entrata di qualcuno – che si sarebbe dovuto accontentare dei sedili al bancone, dato che i tavolini erano tutti pieni.

«Salve, benvenuto al Roast Dragon. Vuole ordinare? »

Lance accolse il cliente, Merlin poggiò l’ultima tazza sul vassoio e sorrise a Tracy, che barcollò leggermente sotto il peso di quelle sette tazze stracolme.

« Un caffè nero, ristretto e senza zucchero »

Quello fu il momento in cui Gaius si pentì di aver assunto quel ragazzo.

Non perché si era voltato di scatto, facendo cadere un’intera fila di bicchieri, ma per lo sguardo che aveva rivolto al nuovo cliente, ignaro, in piedi al bancone.

Il suddetto cliente aveva rivolto l’attenzione al punto da cui era provenuto il fracasso di vetro infranto – ed aveva sorriso.

Merlin fu preso decisamente in contropiede – aveva previsto reazioni del tutto differenti, molte delle quali prevedevano la violenza fisica.

«Lascia, faccio io »

Lance aveva evocato dal nulla una scopa ed una paletta e si era chinato per porre rimedio al disastro del collega, lasciando all’altro il compito di servire il cliente.

Merlin, quindi, gli si avvicinò, ostentando un’espressione distaccata.

«Può ripetere l’ordine? »

L’altro lo scrutò, socchiudendo le palpebre.

«Non ti ricordi come lo prendo? »

Si schiarì la gola.

«Abbiamo un sacco di clienti, ogni giorno e mi pare di averla servita solo una volta »

«Nero, ristretto, senza zucchero »

Aveva ripetuto l’ordine senza staccargli gli occhi da dosso.
Merlin deglutì a vuoto ed annuì, voltandosi per preparare il caffè.

Ogni tanto, gli lanciava occhiate fugaci, sorprendendosi di come apparisse diverso – e si erano incontrati solo il giorno prima.
Aveva occhiaie scavate ed un incarnato pallido, malato, i capelli dorati piatti e tristi. Si ritrovò a chiedersi se avesse dormito bene, se avesse effettivamente dormito – prima di mordersi l’interno della guancia, ripetendosi nella testa che non erano affari suoi.

«Ecco qua, nero ristretto senza zucchero »

L’altro sobbalzò, come se si fosse dimenticato di dov’era, ma poi sollevò lo sguardo e sorrise – era un sorriso tirato, stanco, quasi disperato.

«Siamo partiti col piede sbagliato, mi sa. Io sono Arthur, Arthur Pendragon. »

Gli porse la mano e Merlin gliela strinse, titubante.
Aveva una stretta vigorosa e sicura, ma che lasciava insoddisfatti – era la stretta di un uomo che sapeva quel che voleva ma non aveva il coraggio di ammetterlo, un uomo potente che può controllare una città con il pugno, ma che si ritrova a chiedersi se è davvero necessario, se ha davvero senso.

«Merlin Emrys »

Arthur sorseggiò il liquido scuro attentamente, evitando di scottarsi le labbra – e Merlin represse un pensiero osceno, ma, in fondo, gli era venuto spontaneo notando quelle labbra ed immaginandole in atteggiamenti poco casti.

«Allora? »

Quelle labbra gli stavano parlando, si erano mosse e gli avevano posto una domanda che lui, distratto, non aveva colto.

«Ehm, può ripetere? »

«Ti ho chiesto cosa fai nella vita, Merlin »

«Oh, sì. Lettere. Studio lettere, all’università. »

E certamente non si aspettava nemmeno quello sguardo - era una mattina ricca di sorprese, a ben vedere.
Di solito, quando diceva a chi incontrava che aveva scelto un percorso di studi umanistico, la gente gli riservava diverse occhiate – compassionevoli, pietose o, addirittura, indignate, come se stesse sprecando le sue possibilità, la sua vita, perché non avrebbe mai sfruttato appieno le sue capacità con  una misera laurea in Lettere.

E, invece, lo sguardo di Arthur era lucido. C’era ammirazione ed una punta d’invidia. Poi, s’incupì ed abbassò il viso.

«Dev’essere bello fare quello che ti piace »

Sembrava avesse fatto quella confidenza al caffè, la tazza ad un soffio dalla bocca, le parole uscite in un sussurro – ma non erano sfuggite a Merlin.

«Tu non- voglio dire, sei in un fantastico ufficio, no? Ed i tuoi colleghi – Gwaine è strano, ma è uno a posto, e quella Gwen mi sembra una tipa affidabile. Mi sembra un ambiente decente in cui lavorare, no? »

Stava cianciando senza pensare, sparando frasi a caso e gesticolando esageratamente.
Non si sentiva a proprio agio, c’era qualcosa, una tensione, come se ci fossero parole da dire o troppe parole già dette – sembrava che lo stesso Arthur non fosse a proprio agio.

E, infatti, un secondo dopo, quello poggiò la tazza sul piattino, insieme a una moneta da due sterline.

«Tieni il resto. Come mancia.  »

I  campanelli suonarono per pochi attimi, il loro squillante avviso che si spegneva gradualmente sotto gli occhi di Merlin, lo sguardo ancora fisso sulla porta.

Merlin non aveva avuto nemmeno il tempo di bloccarlo.

Arthur se n’era andato.
 
 
 
















 
 

 
 
 
 
 
 
 



NdA 
 


Ohilà, buondì! Ho scritto il capitolo ieri notte e ho deciso di pubblicarlo questa mattina. Sono un po' in ritardo, forse. Magari dovrei istituire una specie di calendario, come tutte le persone normali. Nuovi capitoli ogni martedì. O giovedì. Però mi conosco e so che non lo rispetterei. O forse sì. Potrei provarci, chissà.

Dunque, l'inizio del primo paragrafo, quello di Merlin alla finestra e tutto il resto, non era previsto. L’ho scritto ieri, ispirata dall’attuale tempo qui da noi – sul serio, è allucinante, preferisco il temporale a questa orrenda foschia (stamattina, fortunatamente il cielo è limpido).

Beh, spero non vi dia fastidio. Io odio le descrizioni e spero che non vi abbia annoiato. :)

Tutto quello che troverete negli sms di Elena è voluto – “k” comprese, per quanto tutto ciò mi faccia rabbrividire.

Ho dovuto spezzare il capitolo. C’era dell’altro, ma verrà inserito nel prossimo, perché altrimenti sarebbe venuto troppo lungo – almeno per i miei gusti.

Ho scoperto che questo è il capitolo che meno preferisco.
Non so perché, mi è uscito fuori troppo descrittivo e prolisso e non vedo l’ora di arrivare al succo della questione.

Sul serio, spero che non vi abbia deluso.
L’inizio ha avuto un tale successo – totalmente insperato e decisamente inaspettato – che mi è venuta una specie di ansia da palcoscenico. O strizza da prestazione. 
Non vorrei aver deluso le vostre aspettative – tremo a questo pensiero.

Comunque, ringrazio tutti voi che avete recensito il primo capitolo e chi l’ha inserita fra seguite e preferiti!

Grazie e, se dovesse avervi deluso questo secondo capitolo, perdonatemi! Non esitate a farmelo sapere! :)

Accetto critiche costruttive e distruttive! 



Oh, il titolo di questo capitolo è di Baudelarie, "Le promesse di un volto", una delle opere dei Fiori del Male.




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Capitolo 3
*** Le Coq et l'Arlequin ***



III

Le Coq et l’Arlequin

 
 











 
 
 
 
 
« Prendi il cappotto »

Arthur sollevò di scatto lo sguardo dalle scartoffie che stava consultando.
Gwen era sulla porta, i capelli tirati all’indietro da un fermaglio, le braccia incrociate sotto il seno.
Gli stava rivolgendo uno sguardo di severo rimprovero.

« E tu che ci fai ancora qui? »

« Prendi il cappotto, Arthur »

« Gwen- »

« Non hai intenzione di passare il sabato sera in ufficio, vero? »

Lui sbuffò, roteando gli occhi. Era stato vittima di simili scene anche troppo spesso.

« Certamente no, Guinevere. Tempo mezz’ora e torno a casa »

« E, una volta lì, continuerai a lavorare. Sul serio, signor capo »   si avvicinò alla scrivania, poggiando i pugni chiusi sul legno   « hai bisogno di staccare la spina. Perciò, prendi il cappotto. »

Arthur aprì la bocca per ribattere, ma Gwen gli rifilò un’espressione talmente dura che lui si ritrovò a corto di parole.

« Non ammetti repliche? »

« Assolutamente »

Si lasciò sfuggire una mezza risata e sollevò le mani in segno di resa.

« D’accordo, d’accordo, mi arrendo! Tuffiamoci nella movida. »
 
 
 








 
 
 
 
 


 
Se c’è qualcosa di peggiore di Londra durante la pioggia, è Londra dopo la pioggia, quando la cappa pesante sui tetti ancora non si scioglie ed evitare le ondate d’acqua delle pozzanghere – perché le auto sembrano farlo apposta – è una missione impossibile.

« Non te lo perdonerò »

Arthur mugugnò cupo, sollevandosi il colletto del cappotto per proteggersi dalla brezza frizzante che scivolava per le strade.
Al suo fianco, la donna si coprì il ghigno che le era nato sulle labbra con la mano, evitando lo sguardo dell’altro.
Davanti a loro, stava Gwaine e camminava, gesticolando esageratamente mentre blaterava, mandando Arthur fuori dai gangheri.
Si girò, per meglio spiegare un certo concetto – nemmeno Gwen vi prestava attenzione – quando si ritrovò a fissare il viso smorto e privo d’entusiasmo del collega – era il capo, ormai, ma per tutti sarebbe rimasto sempre e solo un collega, sullo stesso livello; e lui non voleva diversamente.

« Perché quella faccia lunga, Arthur? Problemi di coppia? »

Sghignazzando, gli si mise di fianco, stringendogli le spalle con un braccio.
L’interrogato represse l’istinto di mollarsi un pugno e perdere conoscenza – e lo fece solo perché non aveva alcuna intenzione di cadere rovinosamente su quel lurido marciapiede.
La risposta fu vaga – ed insoddisfacente, a quanto pareva, perché, mentre il collega aveva continuato a blaterare delle “due enormi qualità” di Elena e di quanto avrebbe desiderato “saggiarne la consistenza”, lo sguardo scettico di Gwen gli stava trapanando buona parte della visuale. L’empatia di quella donna lo spaventava. Ma, Arthur si concesse di pensare, era quello che la rendeva perfetta per le Risorse Umane, dove l’avrebbe spedita appena si fosse sgonfiato il caos di quel momento – per quanto lei avesse espresso il desiderio di continuare a lavorare in campi inerenti ad architettura e simili, Arthur sapeva che ciò che le riusciva meglio, ciò che la faceva sentire meglio era stare con gli altri, aiutarli per quanto possibile.

Proprio mentre Gwen dava l’impressione di voler approfondire quel discorso su Elena che lui aveva tentato di evitare, Arthur la troncò sul nascere, non appena si rese conto di essere sulla Richmond Way.

« Giusto per curiosità, dove avete intenzione di portarmi? »

Gwaine sorrise, malizioso.

« In paradiso, Arthur. Si chiama Sunnydale ed è il miglior pollaio della città, a soli dieci minuti da qui. La settimana scorsa, lì ho conosciuto questa bella bionda con un chilometro di gambe e un magnifico cul- »

« Non farmi pentire di averti invitato, Gwaine »

« E tu non essere gelosa, Gwen. Tanto sai che sei la mia preferita. »

Arthur interruppe il faceto diverbio al quale aveva prestato ben poca attenzione.

« Vorrei proporvi un’alternativa »
 
 
 
 
 
 
 
 











 



« Questo posto è un mortorio »

Erano trascorsi parecchi anni dalla sua età d’oro e Gaius aveva dimenticato quello che i giovani cercano in un pub, durante le serate dei finesettimana – musica trapana-timpani, cocktail dai nomi intriganti e dubbi ingredienti e, soprattutto, carne calda da mettere sul fuoco.
Lui era un vecchio nostalgico che preferiva servire birra e formaggi al posto superalcolici e stuzzichini elaborati. Aveva sempre cercato di rendere il suo locale simile ad una taverna campagnola – e ci era riuscito, con gran disappunto dei suoi giovani dipendenti. Il Roast Dragon era accogliente, ma alla sera non poteva contare su clienti al di sotto dei quarantacinque anni.

Arthur aveva convinto i due colleghi a fare dietrofront e fidarsi di lui – Gwaine aveva dovuto tirarlo per la manica della giacca, perché quello non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire la possibilità di stringere amicizia con qualche simpatica fanciulla.

Gwen era stata più accomodante, vista il rinnovato entusiasmo che sembrava aver preso il collega – ma aveva cambiato idea nel momento in cui avevano varcato la soglia del silenzioso pub. La sala era capiente, ma immersa in una luce soffusa che la rendeva piccola e opprimente. Due giovanissime cameriere dietro il bancone armeggiavano con lavastoviglie e bicchieri, un altro girava tra i tavoli con i vassoi in bilico sugli avambracci.
Un impianto stereo non immediatamente visibile trasmetteva una canzone che Gwen era certa di aver già sentito – dream up, dream up; let me fill your cup with the promise of a man. *
Eccezion fatta per qualche accessorio – come registratore di cassa, clienti e cibo –  tutto era in legno. Alle pareti, rivestite anch’esse di pannelli lignei, erano appese riproduzioni di quadri – Degas prendeva il sopravvento, ma c’erano anche Manet ed un Seurat – fotografie di una Londra antica ed una testa di cervo imbalsamata.
Ai tavoli, massicci e squadrati, erano sedute ben poche persone. Un gruppo di pensionati era radunato in un angolo, accanto al caminetto, a bere cedrata, ognuno col proprio bastone sotto il mento ed una ciotola di lenticchie fumanti a raffreddare.

« Per una volta, non posso che concordare con te, Gwaine. »

Lanciò un’occhiata ad Arthur, ma lui ignorò i loro commenti, richiudendo la porta e avanzando nella sala, voltando freneticamente la testa da un punto all’altro della sala, lo sguardo attento che si faceva largo attraverso la fastidiosa penombra alla ricerca di qualcosa.

Ma non c’era.

Reprimendo un moto di delusione, Arthur si accasciò sulla sedia più vicina.

Gwaine, ancora in piedi sulla porta, era allibito.
Lo raggiunse, strizzandogli le spalle, un’espressione al limite della disperazione sul volto.

« Stai scherzando, vero? Vuoi passare il sabato sera in quest’ospizio che puzza di dentiera?! I modelli di sensualità qui sono Nonna Papera e le scarpe ortopediche! »

Non avendo utilizzato un tono di voce adatto ad una considerazione potenzialmente offensiva come quella che gli era uscita di bocca, era stato ben udito dalla ragazzina dalle trecce rosse dietro il bancone – che, divertita, proruppe in una risata cristallina.

Gwaine si voltò, passando alla modalità seduzione – un brillante sorriso, il classico occhiolino ed un leggero movimento della testa per far svolazzare la sua chioma adorata.
Diede all’amico una bonaria pacca sul braccio, prendendo posto accanto a lui – senza smettere di flirtare con la ragazzetta.

« Sai una cosa? Non è poi così male ‘sto posto. »

Gwen era senza parole.

« Ragazzi, vi prego, non potete essere- »

« Buonasera! Benvenuti al Roast Dragon. Volete ordinare? »

Un cameriere si era appena materializzato al loro tavolo, armato di un blocchetto di fogli ed un’avvenenza che doveva essere proibita.

Perlomeno, questo fu quello che pensò Gwen non appena lo vide.

Rivalutando la propria opinione sulla permanenza al locale, si sedette, considerando l’improvviso tremolio delle ginocchia come una minaccia per il proprio equilibrio.

L’uomo le scoccò un’occhiata – e rimase incantato.

Arthur, intanto, che sembrava aver perso ogni vitalità, si decise a fare qualcosa, dato che entrambi i compagni sembravano alquanto distratti, assumendo poi una postura più adatta ad un uomo della sua posizione che non si lasciava abbattere da niente al mondo.

« Ci porti i menù, cortesemente »

Glielo chiese in tono spiccio, fissandolo distrattamente in volto.
Il cameriere sobbalzò, tornando alla realtà.

« Certo, signore »

Gwen scattò in piedi, impedendo frapponendosi fra lui e qualunque posto avesse da raggiungere.
Le gote arrossate e le palpebre spalancate, gli tese la mano.

« Io sono Guinevere, Guinevere Smith! »

Gli altri due occupanti del tavolo si staccarono a forza dalle loro attività – seduzione a distanza e autocommiserazione – per concentrarsi sulla collega, gli occhi sbarrati.

L’altro si illuminò, come se gli avessero appena rivelato un meraviglioso segreto.

« Lance. Un incantato Lance Du Lac »

Le prese delicatamente le dita e, invece di stringerle, si esibì in un perfetto baciamano, mentre Gwen squittiva dall’emozione.

La scenetta sembrava aver attirato l’attenzione della maggior parte dei clienti – i vecchietti erano esplosi in un coro di giubilo per via della dimostrazione di cavalleria di quel giovanotto.

I due non sembravano aver voglia di separarsi né di iniziare un qualche discorso – dalla catena ardente che univa i loro occhi, anzi, sembrava avessero in programma ben altro che una conversazione – ma furono riportati alla realtà dallo scampanellio che annunciava l’apertura della porta.

Anche Arthur si distrasse, voltandosi speranzoso – per poi accasciarsi con maggior desolazione sul tavolo alla vista di un rachitico turista giapponese, con completo di macchina fotografica, che parlottava con la sua sorridente moglie.

Lance si scusò profondamente con Gwen, ma il dovere lo chiamava.
Lei, intanto, si era accomodata di nuovo sulla sedia, lo sguardo acceso e le gote imporporate.

« Almeno tu combinerai qualcosa, stasera »

Gwaine non la smetteva di complimentarsi per la velocità di conquista dell’amica, godendo delle espressioni di improvvisa pudicizia e vaga vergogna che le si alternavano in faccia.

Quando Lance tornò con i menù, lei gli rivolse il più luminoso dei sorrisi e lui non dava segno di volersene staccare.

Arthur si sentì quasi in colpa, ma non poteva trattenersi.

« Senta, ehm, Lance »

Se Gwen era riuscita a buttarsi in pista e ad atterrare in piedi, pensò, cosa gli impediva di provarci?
Quello si chinò su di lui, le pupille che saettavano dal cliente alla sua dama.

« Quel suo collega che mi ha servito l’altra volta, quello con le orecchie enormi, magro… »

Lasciò cadere la descrizione, nell’attesa che quello afferrasse.

« Intende Merlin? »

Arthur fece un gesto vago con la mano.

« Quello che è, non m’importa. Beh, comunque si chiami lui… non è di turno, stasera, vero? »

Lance socchiuse le palpebre e negò scuotendo la testa.

« È già andato via »

Arthur evitò il suo sguardo mentre le dita prendevano a tamburellare sul tavolo.

« E mi sa dire i suoi orari? Ecco, sa, è un vero incompetente e non vorrei incrociarlo per sbaglio e vedermi rovinare la giornata. »

Aveva gli occhi piantati nelle interessanti venature del legno ed il corpo irrigidito e non poté notare il ghigno consapevole dell’interlocutore.

« Mi dispiace, ma non sono autorizzato a fornire informazioni sui miei colleghi »

Arthur deglutì, storcendo la bocca, il viso spento.
I compagni assistevano allo scambio con vivo interesse, incuriositi dall’anomalo comportamento dell’amico.

« Capisco, è naturale. »

« Tuttavia »

La testa gli scattò in alto, una rinnovata speranza palesata sul volto.

« Se torna lunedì, può trovare Merlin dopo le quattro. »

Sorridendo come un bambino la mattina di Natale, Arthur lo ringraziò, senza più preoccuparsi di nascondere il suo interesse – è incredibile quanto sia d’aiuto la penombra, in questi casi.

Lance strizzò l’occhio a Gwen, sorridendole caldamente.
Lei era ancora confusa per quanto accaduto.

Arthur aprì il menù, studiando la lista di panini e omelette, un gorgoglio nello stomaco ed il buonumore rinvigorito.

« Bene, ho un certo appetito! Che dite, birra e salame? »

Gwaine e Gwen lo guardavano straniti, un punto interrogativo stampato in faccia.
E se non gli fecero domande fu solo perché non sapevano da dove iniziare.
 
 
 
 
















 
**

















 
 
 
 
 
Avevano dieci anni ed Ealdor era una sconfinata oasi felice. Avevano tanti sogni ed infinite possibilità, le ginocchia graffiate perché i sassi sbucavano fuori dal nulla, si rintanavano nella biblioteca quando pioveva perché Merlin implorava e schiamazzavano durante le ore di pennichella perché tanto al massimo si beccavano una ramanzina dalle finestre.

Will era sempre stato un piantagrane, testardo come un mulo e polemico, pronto a fare a pugni con chiunque. Però, se finivano nei guai a causa sua, non permetteva mai all’amico di rimetterci, neanche una volta – era deciso a proteggerlo come un fratello e, da fratello, non si mostrava mai in difficoltà.

Un giorno, mentre si facevano la guerra in fondo ai giardini pubblici, trovarono un cucciolo – un gattino spelacchiato che miagolava piano, piangeva come un bambino.
Will lo prese in braccio, carezzandone piano le orecchie, riservandogli le amorevoli cure di una madre.

Per una settimana, la loro routine prevedeva una fuga al parco con qualche avanzo preso da casa per nutrire quel gattino. Giocavano con lui, lo accudivano, gli parlavano.
Merlin sapeva che Will andava dal cucciolo tutte le volte che poteva, anche quando non gli era permesso uscire, anche senza di lui.

Gli diedero un nome – Jimmy, perché suonava bene.

Poi, Jimmy iniziò a manifestare i segni di una malattia e Will attraversò il paese di corsa, da solo, con il gatto avvolto nella sua sciarpa.

Il veterinario gli disse che aveva sviluppato una avanzata forma di gastroenterite virale.

« È meglio così, piccolo, non soffrirà più. Tu non vuoi che Jimmy stia ancora male, vero? »

Quando Will lo raccontò a Merlin, utilizzò lo stesso tono professionale e distaccato – e spaventosamente adulto – del veterinario.

Dopo un momento di silenzio, Will sussurrò « è colpa mia ».

Merlin abbracciò l’amico.

Fu la prima volta che lo vide piangere – e l’ultima.
 
 
 
 
 
 
 












**
 

















 
 
 
« Ma che diavolo… ? »

Merlin si alzò a fatica dal pavimento, sul quale era caduto inciampando in un oggetto non identificato.

Massaggiandosi i gomiti, adocchiò il dannato ostacolo che aveva attentato alla sua vita - era un voluminoso pacco postale avvolto in una carta giallognola.

Inveendo contro il genio malefico che l’aveva appoggiato proprio sullo zerbino nell’ingresso, lo afferrò, studiandolo distrattamente mentre ne strappava la carta.

Un biglietto planò per terra e si chinò ad afferrarlo, mentre un materiale lucido e stomachevolmente rosa balzava fuori dalla carta.

« Cristo »

Un angolo del foglio recava l’elaborato simbolo che la redattrice dell’High Priestess aveva scelto come sigillo della rivista – sembrava un Idra che nasceva dalle fiamme e Merlin lo trovava eccessivamente inquietante per un settimanale destinato ad un pubblico medio-basso.

Quella sadica arpia incuteva timore e deferenza e la sua grafia, sottile ed elegante, rispecchiavano la sua essenza.
Aveva anche la bizzarra capacità di far apparire semplici e cortesi richieste come letali minacce.
 

Emrys,

ti ho fatto spedire i due titoli da recensire entro la fine del mese. Niente posta, stavolta. Inviale al mio indirizzo e-mail: despicable_me@highpriestess.uk
L’autrice è una mia stretta conoscente, perciò mi aspetto grandi cose.

Morgause.
 

Sospirò pesantemente, trasportandosi verso la poltrona ed abbandonandosi allo sconforto.
C’era un pacchetto di caramelle aperto sul cuscino. Vi estrasse un lombrico giallo appiccicoso e mezzo sciolto e se lo cacciò in bocca, succhiando golosamente.


Mentre aspettava di raggiungere il traguardo della laurea, Merlin non era rimasto con le mani in mano. Tra un esame e l’altro, era riuscito a sfruttare alcuni dei contatti che aveva collezionato, guadagnandosi qualche sporadico incarico come recensore – riviste per teenager, perlopiù, che gli affibbiavano da recensire raccolte e romanzetti in stile Piccoli Brividi.
Non aveva mai raggiunto le vette più alte ed il suo era ancora un nome ignoto nel giro, ma non si era lasciato scoraggiare – era solo l’inizio ed il cammino nell’editoria era lungo e tortuoso.
Poi, un giorno aveva accettato un lavoro dalla direttrice della rivista High Priestess – una vera e propria femme fatale. Il titolo che gli aveva propinato era destinato ad un pubblico femminile – dato che il settimanale era, effettivamente, letto prevalentemente da donne – ma lui aveva dato prova di gran malleabilità e “notevole comprensione dell’animo femminile” -  a detta di Morgause – e lei ne era rimasta tanto entusiasta da continuare a contattarlo piuttosto regolarmente.
Merlin, dal canto suo, riusciva quasi a sentire il profumo di un ingaggio fisso.

L’unico insignificante problema era, appunto, la materia prima su cui lavorare.


Sollevò all’altezza degli occhi uno dei due volumi, La gravidanza: affrontala con stile! di Annis Caerleon.
L’altro, più massiccio e meno invitante, era della stessa autrice e sembrava assumersi il compito di ricordare alle donne che La misura non conta per lui, la taglia non conta per te!

Sogghignò alla vista della copertina, sulla quale stavano una bilancia – la lancetta che superava i 70 chilogrammi – ed un omino di marzapane con un perizoma rosso che si era impiccato con un metro da sarta.

Sbadigliando, aprì il volume che aveva in mano, decidendo di saltare l’introduzione e passando direttamente al Capitolo Primo – Tonifica le braccia e tonificherai l’umore.

Era già inoltrato nella lettura, quando il cellulare iniziò a squillare e i Disturbed lo fecero sobbalzare.

Si sfilò l’apparecchio dalla tasca, il nome Will che pulsava sul display.
Col pollice, pigiò il tasto verde.

La voce preoccupata dell’amico gli arrivò diritta al cervello, assieme ad un’insalata di altri rumori poco chiari. La linea era disturbata.

« Hai mangiato? »

« Ciao anche a te, William. E sì, mamma, ho mangiato»

« Non ti credo. Quando torno ti cucino qualcosa. »

Merlin grugnì.

« Hai dato da mangiare ai ragazzi? »

« Ops, dimenticato. Ora lo faccio. »

« Lo spero. Ah, assicurati che Mafalda abbia bevuto. Ieri non ha neanche toccato la vaschetta dell’acqua. Se non ha bevuto, chiama Justin e avvertilo. Digli che poi passo da lui la settimana prossima e lo pago. Il numero di Justin è sul-»

« Will, ho tutto sotto controllo. » 

Un suono scettico dall’altro capo, poi una voce possente sembrò risuonare e la risposta dell’amico gli arrivò ovattata.
Evidentemente aveva coperto il telefono per impedirgli di sentire – e Will non l’aveva mai fatto.
Merlin si impose di non pensarci.

« Piuttosto, tu dove sei? »

« Lavoro. Torno tardi. Ci vediamo dopo. »

« Ah. D’accordo. Will, senti- »

Ma Will aveva già riagganciato.

Per qualche minuto, Merlin si limitò a fissare lo schermo del cellulare – perché era sabato e di sabato il negozio di animali dove Will era stato assunto era chiuso. Ed era chiuso anche la domenica, tranne durante i giorni d’inventario.

Reprimendo la tentazione di ricomporre il numero e chiedere, se lo rimise in tasca e si alzò, decidendo di occuparsi dei ragazzi.

Due anni prima, per il suo compleanno, Will gli aveva regalato un delizioso, morbido coniglietto, grigio, buffo col suo orecchio nero ed intraprendente – Hector.
In seguito, visto che era Will quello che aveva un debole per gli animali, ne vennero adottati altri due – non semplicemente comprati, no, venivano trattati come figli, parte della famiglia. Una femmina a chiazze, Mafalda, ed un grosso batuffolo candido come latte, che divenne Othello.

Economicamente, se ne faceva carico unicamente Will. Merlin aveva provato ad intromettersi, quelle volte in cui avevano bisogno di cure costose, ma l’amico non gliel’aveva mai permesso – faceva parte di quel complesso programma di protezione che Will usava con Merlin.

Per il resto, in teoria si dividevano i compiti; in pratica, Will se ne assumeva la completa responsabilità. Controllava che Merlin, quanto toccava a lui, mettesse la giusta quantità di mangime nelle vaschette, che pulisse bene il fondo della gabbia, che tutto funzionasse alla perfezione.
Erano i suoi pupilli e, nella scala delle priorità di quel folle del suo coinquilino, venivano immediatamente dopo Merlin – che si guadagnava il primo posto.

Vedendolo avvicinarsi col mangime, Hector iniziò a saltellare entusiasta, mentre Othello, alla sua destra, dormiva profondamente. Mafalda – che, fortunatamente, aveva bevuto a sufficienza – lo guardava impassibile.
Aveva quei due occhietti penetranti e spesso Merlin si sentiva a disagio.
Mafalda guardava, Mafalda giudicava.
Sembrava nutrire scarsa fiducia in quel ragazzo mingherlino e si rilassava solo quando il suo padroncino, più in carne e, quindi, accogliente, rincasava e le parlava dolcemente.

A volte, Merlin credeva che lei gli rispondesse.


Finiti i suoi doveri di tutore, tornò alla sua postazione di lavoro – la poltrona.
Dalla lucida copertina rosa, una donna con uno sporgente pancione tondo che sbucava dalla maglietta gli sorrideva felice.

Sbuffò, ignorando il manuale ed estraendo dalla borsa il suo fedele taccuino.

Sfogliando le pagine, lasciava vagare i pensieri.
Rifilò un’occhiata alle ultime parole che aveva scritto in facoltà, la penna che picchiettava ritmicamente contro la guancia.

Merlin era fatto così. Buttava giù sulla carta qualsiasi cosa gli passasse per la mente, in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione – era rinomato per questo, « Merlin? Sarà nel cortile a scrivere ».
Nessuno aveva mai una vaga idea di cosa contenesse quel quadernetto – non faceva leggere niente a nessuno perché era tanto intimo che nemmeno lui decifrava il significato di molti di quegli sfoghi.

C’erano intere pagine riempite da un solo termine, ripetuto più volte, per fissarlo bene nella mente – poteva variare da pollo a circumnavigazione, saltati alla mente durante una lezione. Disegnava occhi sui bordi, scarabocchiava e riempiva i quadratini.

Spesso, confidava all’inchiostro qualche segreto, preoccupazioni.
Spesso erano poesie – solo perché venivano da dentro e non riusciva a fermarle.

Le ultime pagine erano fitte, confuse, immagini tutte diverse e legate da un unico filo conduttore.

Stava rileggendo quello che aveva partorito quel mattino.
Erano frasi stupide, promesse sdolcinate e voglie inespresse.
Le aveva scritte, rilette e cancellate in un momento di rabbia, poi riscritte ed ignorate, concentrandosi sulla creazione di una cornice di cuoricini – anche quella cancellata, ma non ripetuta.
 

Ancora ti incontro,
nudo sul bordo; e canti
pensieri che ti fanno paura.
 

Arricciò il naso, come colpito da un odore da voltastomaco, e si ricordò che non doveva rileggerla. La cancellò con rabbia – la rabbia dell’artista che non ha talento e raccoglie le briciole lungo il sentiero.

Soddisfatto dell’informe macchia nera che restò sul foglio, poi, cercò una nuova pagina.
La osservò per molti secondi, poi minuti. Passò un’ora e la pagina restava intonsa, mentre lui era sovrappensiero.

D’un tratto, la penna si mosse da sola e lui si ritrovò a contemplarne il risultato.

Un unico nome al centro del foglio, in una grafia disordinata e caotica, un nome da solo evocativo e dolce sulla lingua, amaro se letto in fretta, unico sotto l’inchiostro.

 

Arthur
 
 
 
 
 
 
 
 
















Il giorno dopo, Will imprecò contro il coinquilino, svuotando il cesto della biancheria e ritrovandovi le lenzuola che aveva appena cambiato – appiccicaticce ed ancora umide.
 
 
 
 
 
 
 
 











 






**
 
 
 
 
 
















 
 

« Ho saputo che hai fatto conquiste. »

Merlin non ricordava di aver mai visto Lance arrossire, non lo credeva possibile – eppure era lì, in palese disagio e con lo sguardo ridente.

« Non c’è niente da dire. »

« Non ne sarei così sicura, Lancey-boy »

Tracy era sbucata fuori dal nulla, un’espressione maliziosa che stonava con le chiare lentiggini sul naso a punta ed il volto tondo da bambina. Le braccia incrociate sul bancone ed un’aria confidenziale.

« Si è comportato da vero cavaliere, il nostro intrepido amico! Le ha baciato la mano! Cioè, siamo nel ventunesimo secolo e lui le bacia la mano! La faccia che ha fatto lei!Dio, Merlin, ci dovevi essere! »

« È una forma di cortesia e non c’è davvero niente di strano »

Merlin si sporse verso la ragazza, facendole segno di continuare, ignorando il tentativo di autodifesa del collega – che aveva attivato la macchina dell’espresso, quella che doveva funzionare a carbone visto che faceva lo stesso rumore di una locomotiva.

La ragazzina sghignazzò.

« Non è educato, Tracy. Ed è anche di Gwen che state parlando e- »

« E così si chiama Gwen, uh? »

Lance decise di tacere.

Merlin gli mollò una pacca sulla schiena.

« Oh, Lance, sei un tenerone. Questa ragazza è fortunata. »

Il discorso cadde non appena Gaius fece la sua comparsa dietro il bancone, il temuto sopracciglio accusatore, accertandosi che ognuno dei dipendenti facesse il proprio lavoro – non che fosse necessario, in fondo, dato che prima delle cinque raramente ricevevano clienti.

Eppure, la porta si aprì.

E Merlin non fu completamente sorpreso di vedere Arthur Pendragon, in un completo scuro, lindo e senza una grinza, attraversare il locale, scegliere un tavolo isolato e sedersi, appoggiando la ventiquattrore accanto alla sedia.

Non era sorpreso, ma le mani iniziarono a sudargli.
Arthur non l’aveva degnato di uno sguardo, una cartellina aperta davanti a sé ed una penna fra le dita.

Deglutì ripetutamente, muovendosi meccanicamente per preparare il caffè, prendeva una tazzina – la più pulita – e la posizionava sul vassoio.
Con la coda dell’occhio, colse l’espressione divertita di Lance – ed avrebbe indagato in merito, ma non era ancora una priorità.

Camminando verso il tavolo, Arthur che gli dava le spalle, Merlin si concentrò sui propri piedi e sulla coordinazione mente-corpo che gli era tanto estranea, in modo da non ritrovarsi col muso sul pavimento e le gambe attorcigliate – ed un debito con la lavanderia dell’agiato signor Pendragon.

« Ecco il suo caffè. Nero e ristretto, come lo preferisce. »

Con piacere, notò che la propria voce non aveva tradito alcuna emozione – e nemmeno lo fece lo scatto della testa di Arthur, che slittò dal suo volto al vassoio.

« Devo ricredermi sulla professionalità del personale, suppongo. Precedere il cliente col suo ordine… notevole, invero. »

« Fa parte del servizio, signore. »

Gli fece cenno di poggiare la tazza sul tavolo e ridacchiò fra sé, con perplessità del cameriere.

« È perfino caldo, stavolta. »  Poi, sembrò ricordarsi di qualcosa  « Non è zuccherato, no? »

« Perché sei già abbastanza dolce di tuo? »

Seguì un momento carico di imbarazzo.

Il cervello di Merlin inveì contro la lingua che partiva da sola senza pensare e le sopracciglia di Arthur schizzarono verso l’attaccatura dei capelli, sul volto un sincero divertimento.

« Un po’ scontata come battuta, Merlin. »

Quello sollevò il mento, stizzito.

« Tu sai fare di meglio, immagino. »

« Dammi solo una possibilità e ti farò vedere… »

C’era un sottofondo implicito che entrambi parvero cogliere, una promessa dal retrogusto poco pudico – e Merlin dovette distogliere lo sguardo avido dalle sue labbra per concentrarsi sulle figure disegnate sul vassoio.

Cercando un qualunque argomento per infrangere lo scomodo silenzio che si era venuto a creare, si schiarì la gola.

« Beh, come va in ufficio? »

E, ancora una volta, maledisse la propria stupida lingua.
Si morse l’interno della guancia al ricordo di come aveva reagito Arthur quando il discorso era caduto sul tema lavoro.
Lo vide irrigidirsi, le mani strette in pugni nervosi, non incrociava i suoi occhi – e temette di doverlo guardare di nuovo fuggire via.

« Non li segui i telegiornali? »

Ma Arthur non era scappato.
Era ancora lì, sotto lo sguardo preoccupato di Merlin ed aveva scelto come arma difensiva un debole sarcasmo.

« Non molto. »

La bocca di Arthur si allentò in un sorriso flebile, un sussurro che forse rivelò solo a se stesso.

« Allora sei davvero una piccola Alice »

« Io… Eh? »

Il suo tono confuso aprì una breccia nel volto dell’altro.
Questi distolse gli occhi e fece per spiegare, ma il cellulare strillò dalla sua tasca.

Arthur chiuse le palpebre, in un’espressione sofferente. La fronte corrugata, estrasse il telefono e, con un cenno di scuse a Merlin, rispose.

« Percy, dimmi. »

Merlin ebbe la buona grazia di allontanarsi.
Ne approfittò per rimettere il vassoio assieme agli altri, trovando Tracy e Lance impegnati in una fitta conversazione – e non ci voleva molto ad indovinarne i protagonisti. Potevano permetterselo perché l’unico altro cliente era un ragazzino in compagnia di un voluminoso e polveroso libro e una spremuta di arance, nell’angolo più lontano dall’entrata.

Merlin non distolse un attimo l’attenzione da Arthur.
Il gomito sul legno, si reggeva la fronte, l’altra mano che premeva il telefono contro l’orecchio. Parlava a voce bassa, era serio, sgradevolmente professionale.

La telefonata si concluse e Merlin scattò di nuovo verso il tavolo.

Arthur aveva la faccia affondata nei palmi, si nascondeva dal resto del mondo – e nascondeva il resto del mondo alla sua vista.

Deglutì, allungando la mano verso di lui.
Tentennò, incerto, lo stomaco che si contorceva – perché non sapeva come l’altro avrebbe reagito, perché era un nuovo passo e c’era in ballo così tanto che un solo errore avrebbe rovinato tutto.

Gli sfiorò la spalla, gentilmente, ed attese, il viso dell’altro che riemerse di scatto dalla cortina delle sue proprie dita.

Arthur lo guardò, gli occhi sbarrati. Il corpo teso, era paralizzato ed interdetto.

Incrociò lo sguardo fermo di Merlin e si rilassò sotto il suo tocco, la stretta leggera che gli allentò la pressione, il nervosismo si scioglieva lentamente.

Merlin si chinò verso di lui, la presa sulla sua spalla che si faceva più riservata, i loro volti alla stessa altezza.
Un sorriso intimo gli curvò le labbra.

« Raccontami »

Ma Arthur scosse la testa, il cipiglio grave, il tono secco.

« Devo tornare in ufficio. »

Fu Merlin ad irrigidirsi, raddrizzando la schiena ed incrociando le braccia al petto, rendendosi conto di quanta libertà si fosse preso e pensando che forse l’altro non voleva e che era stato uno sciocco e probabilmente doveva ringraziare se quello non gli aveva mollato un pugno e-

« Non riusciremo mai a fare una vera conversazione, di questo passo. »

-e Arthur stava sorridendo. Una punta di ironia gli aveva illuminato gli occhi, prima che il viso si incupisse di nuovo.
Merlin deglutì, profondamente incerto sul da farsi.

« Ehm, già. Vi- vi porto il conto. »

Fece per allontanarsi.

« Ma se volessi? »

Si fermò, Arthur aveva lo sguardo piantato nel suo, fermo e deciso, un poco velato, un angolo lucido.

« Se io lo volessi, se volessi parlarti, se ne sentissi il bisogno- »

« Domani »

Non gli permise di concludere.
Strinse con trasporto la mano attorno al suo braccio, un gesto spontaneo, il viso acceso. Aveva il petto squassato dal batticuore, un sorriso luminoso – solo per Arthur, solo per lui.

« A qualunque ora, sarò qui. Ti aspetto qui. »  
 
 
 













 






 
 
 
 
 




Quella notte, Arthur riaprì il suo cassetto, il secondo cassetto – perché è più intimo. Sorrideva ancora mentre l’inchiostro danzava sulla carta, fluido come mai prima.
Fiduciose, le parole si susseguivano – non più disperate.

Quella notte, la piccola Alice tornò in vita sotto la sua penna, con i capelli neri ed il sole negli occhi. Riprese la lanterna nelle mani paffute e continuò a cercare il tesoro.

Quella notte, Arthur si sentì meno solo.
 
 
 
 
 
 
 







 
 
 
 
 
 
 
 










 
* da Harvest di Neil Young.

 







NdA

Ok, è tardi, lo so. Lo so, è davvero troppo in ritardo. Ma.. no, non ho scuse.
 
Ricordo che, quando l’avevo partorito, questo mi era sembrato un bel capitolo.
Evidentemente, l’effetto su carta è diverso, perché la mia opinione non cambia – lo trovo prolisso e schifoso come il precedente.

Ancora mi sorprende, tuttavia, questo gigantesco successo che ha! Ma, sul serio, è strabiliante! Sono così confusa! *_* Come vi ringrazio tutti quanti?? Vi adoro.

Dunquedunquedunqe, passiamo alle cose serie: il titolo (perché mi piace complicarmi la vita, yay!).
Non ho letto il saggio Il Gallo e l’Arlecchino (appunto, la traduzione) di Cocteau, ma più o meno ricordo di cosa tratta. Ci è stato nominato un numero esagerato di volte a lezione quando si parlava di Nietzsche e del suo maledetto caso Wagner eccetera eccetera e quindi un’idea me la sono fatta. Comunque, l’ho ripreso per evocare il richiamo alla semplicità, il disprezzo per “l’arlecchino” e tutto ciò che è artificioso, elaborato, che si discosta dalla semplicità del quotidiano, come il “gallo” – perché il poeta non è solo chi sceglie come soggetto di un’opera l’astratto presentato in multicolori arabeschi di aulicismi, ma anche e forse soprattutto chi preferisce parlare di una banale e semplice sedia.

Ok, la finisco qui. M’è già venuto mal di testa. Diciamo solo che, nella mia mente bacata, ha un suo senso, probabilmente.

Sappiate che la mia conoscenza del francese è pari a –18,4. L’ultima volta che l’ho “studiato” è stato in seconda media (della serie, me la cavo meglio col tedesco, a questo punto).
Perciò, quando ho letto “coq” a me è venuto in mente “cock” e.. beh, tecnicamente non sta in piedi come scusa, perché pure “cock” significa gallo, ma, suvvia, il “cock” che incontriamo di solito nelle fanficion non è certo quello che fa chicchirichì.
Non è la mia mente perversa. No, no. ù.ù

Btw, spero che il capitolo non sia l’ennesima delusione.

Questo Arthur è un po’ strano, ma purtroppo penso che sia più o meno necessario presentarlo in questo modo.
E avete fatto conoscenza con la piccola Alice! *_*     Poi, abbiamo, naturalmente, Lancelot e Gwen – perché, diamine, loro devono stare insieme, punto e basta.

Comunque, ripeto, spero continui a piacervi, spero di non deludervi mai, spero di non annoiarvi e di non disgustarvi.

Mettetemi alla gogna, se lo desiderate! Uova marce incluse!

Alla prossima! :)
  

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Capitolo 4
*** La cloche fêlée ***


Note introduttive di una miserabile autrice

Penso sia meglio eclissarmi prima che mi uccidiate.
Dunque, non sono molto brava con le scuse. Vi chiedo umilmente di perdonarmi per questo mio esagerato ed ingiustificabile ritardo. E vi ringrazio per le vostre splendide recensioni (a questa e a “A piedi nudi”, alle quali risponderò a breve, non temete) e le vostre affettuose parole nella casella di posta. Non so proprio che dirvi. Non ci sono scusanti.
Spero che questo (sudato, per voi) capitolo vi piaccia. Scusatemi ancora, davvero! Le mie colpe mi opprimono.
 
 
 
 

IV
La cloche fêlée

 
 

 
 
La camera di Morgana sembrava insolitamente morta.

Gli armadi erano aperti ed i ripiani liberi dai suoi preziosi vestiti, le grucce penzolavano miseramente, alleggerite dal peso dei cappotti, nella scarpiera i posti vuoti lasciati dalle Jimmy Choo e Louboutin pulsavano e parevano piangere di nostalgia.
Morgana si era portata via anche il poster di James Dean, che aveva incollato alla parete con cura e dedizione.

Arthur, nove anni (« quasi dieci! ») di pancetta morbida e cosce di pollo, si asciugò con la manica del pigiama i lacrimoni che gli rotolavano sulle guance paffute, tirando su col naso.

Si era seduto a terra appoggiando la schiena al letto. Era il suo posto preferito. In quella posizione, Morgana, stesa su un fianco, gli accarezzava sempre i capelli, infilandoci le dita e massaggiando meccanicamente, mentre parlava. Gli raccontava dei film che ancora non gli facevano vedere, di quello che studiava, dei ragazzi che le piacevano (ed Arthur si ingelosiva, e Morgana si divertiva).

Ogni tanto, Arthur leggeva a Morgana le storie che scriveva quando era certo di non poter essere scoperto. C’era una bambina che si chiamava Alice e aveva capelli neri e pelle bianca ed un leprotto come migliore amico. Sua sorella rideva, a volte si commuoveva. 

Ogni tanto parlavano della mamma.
Ygraine non era la madre naturale di Morgana, ma non importava perché anche lei era cresciuta idealizzando quella donna.

Morgana aveva quindici anni, i capelli in un lucido carré ed un fazzoletto rosa legato al collo, quando se ne andò.

Arthur non capiva cosa fosse successo. L’aveva sentita litigare con Uther nello studio e lasciare casa sbattendo la porta due ore dopo.

Passò una settimana e Morgana tornò.

Scoccò un’occhiata ad Arthur, fermo sulla porta con un sorriso largo e speranzoso, e gli accarezzò la guancia, per poi correre al piano di sopra e chiudersi in camera. Nel vialetto, appoggiato ad una station wagon ultimo modello, stava Agravaine, con i capelli impomatati e l’aria leziosa. Arthur aveva ereditato da suo padre il disprezzo per lo zio e lo zio vedeva nel piccoletto, sotto i capelli e gli occhi di Ygraine, ben troppo di Uther per farselo piacere.

Restarono a guardarsi, sotto quella pallida cappa estiva peculiare di Londra, e poi il bambino richiuse la porta con uno scatto. Non raggiunse sua sorella, ma si ritirò nella sua cameretta.

Morgana riuscì a riunire nell’ingresso tutte le sue cose in poche ore ed Agravaine le caricò in macchina. La ragazza aprì la portiera e tentennò prima di salire. Sollevando lo sguardo, vide il volto del fratello corrucciato dietro la finestra. Gli sorrise, come a scusarsi, e salì sull’auto.

Dovette tamponarsi il trucco con un cleenex perché non si sciogliesse lungo la strada.
 
 
 
**
 
 
 
La Renault frenò, scricchiolando sulla ghiaia. I fari pulsarono un ultimo attimo e poi si spensero. Quasi simultaneamente, le portiere si aprirono ed i quattro passeggeri uscirono. Will scese dalla postazione di guidatore, guardandosi sospettosamente in giro e strofinandosi le braccia per riscaldarle un po’.

«Levati dal cazzo, moccioso. Torna in macchina. »

A richiamarlo fu un uomo dalla stazza pesante e tozza, radi capelli rossi e gli occhi porcini. Rispondeva al nome di Ronnie, detto “la Volpe”, e si portava dietro una pessima reputazione. Joe “Manolunga” Prickley – un metro e novanta di peli sulle braccia e accento americano – lo spintonò, ammonendolo, mentre si sistemava una 7mm nella cintura dei pantaloni, nascosta sotto la giacca in finto camoscio.

Will annuì, ricacciando in un angolo remoto della mente il familiare timore, ed inserì la chiave nella toppa, facendola scattare.

« Ragazzo »  lo richiamò il terzo, facendo schioccare la lingua. Sembrava il più anziano del gruppo, i capelli sale e pepe e le folte sopracciglia grigie, la mascella squadrata ed uno sguardo quasi da saggio o filosofo sopra un perenne sorriso minaccioso.
La testa di Will scattò in alto. Era terrorizzato. Benny “la Fava” non gli parlava mai.

« Stai andando bene »  disse Fava, senza dargli la soddisfazione di incrociare i suoi occhi. « Devi solo controllarti meglio. »

« D- d’accordo, signore » balbettò l’altro in risposta. Fava sghignazzò e fece un cenno agli altri. Manolesta prelevò dal bagagliaio le borse ed una valigetta metallica. Si allontanarono lentamente, dirigendosi verso il disastrato casolare scelto come luogo d’incontro.

Will attivò l’autoradio. Ed aspettò.
 
 
 
 
 
 


 

« … cazzo è? »

« Africa, sono io » la voce di Will tremò.  « Quelli non sono tornati. Non sapevo cosa fare, cazzo. Sono andato là dentro ma non c’era nessuno, neanche i clienti. Non c’erano macchine o che cazzo so io, porca puttana. Africa, mi sto cagando sotto. Quelli magari li hanno ammazzati. Cazzo, il capo mi uccide, il capo mi uccide… »

La voce di Will si ridusse ad un sottile piagnucolio. Dall’altro capo del telefono, l’Africano sospirò. In sottofondo, si udivano distintamente voci agitate e toni litigiosi.

« Benny, Manolunga e Volpe hanno tagliato la corda. I clienti li pagati visti ieri. Oggi dovevano vedere un tizio che poteva piazzare la roba. Si sono fumati tutto. Senti, tu dove stai? »

« Cos- io? Dove? Addlestone, non mi ci sono mosso. Ma questo- »

« Questo è un bel casino. Le scimmie si sono sguinzagliate per tutta la città, ma quelli non stanno da soli e di certo non stanno qua. Sono trecento milioni, porca merda »  Africa sospirò di nuovo nella cornetta. « Promettimi una cosa: qualunque cosa, non tornare a casa. Vai da qualche parte, da un amico e non aprite a nessuno. Il capo non ce l’ha ancora con te, ma potrebbe venire a cercarti e tu lo sai come finiscono ‘ste cose… »

« Io… »

« Non tornare a casa. Non è un posto sicuro. »
 
 
 
 
 
 
 



La ragazza mise lo scooter sul cavalletto e, con movimenti agili, estrasse il cellulare dalla borsa, rispondendo all'insistente chiamata.

« Sì? »

« Freya, sono io. Sai cosa sta succedendo? »

« Will! Cavolo, ero così preoccupata! »

« Taglio corto, non ho tempo. Non posso farmi vedere a casa mia. Puoi ospitarmi da te? »

La ragazza rimontò sullo scooter, incastrando il cellulare nel casco.

« Ma sei scemo? Ci scoprirebbero subito. Dove sei? »

« Knightsbringe, sto passando la- »

« Fermati lì. Ho un posto perfetto, andremo da una mia vecchia amica. E sta’ attento, coglione! » gridò ad uno che gli stava tagliando la strada.

Will fece un verso dubbioso. « Dev’essere una persona fidata, Freya, non possiamo rischiare- »

« Ah, tranquillo! Di Morgana mi fido come di me stessa. »
 
 
 

**

 
 
merlin ti prego questa notte non tornare a casa. se sei a casa vattene. vai da lance o da gaius, vai in un motel.
non mi chiedere spiegazioni. ti dirò tutto ma non ora. ti prego!
NON TORNARE A CASA
 
- will
 
 
 
 


**
 
 


 
La CCR era come un corpo umano. Felice la mente, sano il resto del corpo.

L’associazione mentale era venuta spontanea ad Arthur mentre assisteva miracolosamente al cambiamento che comportava un po’ di allegria e buonumore in un gruppo di persone così eterogeneo. Aveva attraversato la zona degli uffici vicini con un sorriso contagioso ed irreprimibile (neanche il disgustoso caffè della macchinetta al piano terra che sorseggiava riusciva ad abbatterlo), irradiando di contentezza chiunque gli fosse vicino. Gwen lo aveva squadrato a lungo sospettosa, ma poi l’epidemia era arrivata anche alla sua scrivania ed aveva smesso di farsi domande.

Avevano lavorato con leggerezza e precisione per tutta la mattina, Percival aveva concluso con successo numerose trattative, Leon aveva dimenticato perché si sentiva così abbacchiato (un disguido familiare) e Gwaine riuscì ad organizzare un appuntamento con una sua collega centralinista.

La vita era bella ed Arthur era…

« … in ritardo! »

Si alzò di scatto, rovesciando la sedia e facendo cadere la matita sulla moquette. Guardò più attentamente l’orologio, nel caso si fosse sbagliato, ma i numeri indicavano che le due erano passate da cinque minuti. L’ora di pranzo era finita da un pezzo e lui non se n’era accorto. Si passò una mano fra i capelli, in uno stato di profonda disperazione, quando qualcuno bussò leggermente alla porta.

« Avanti »  disse bruscamente. Elena, i capelli biondi raccolti in alto in una coda penzolante, entrò nell’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle.

« Arthur, tutto bene? »

Quello sospirò. « Ho dimenticato la pausa pranzo. » 

La ragazza scoppiò in una risata cristallina. « Oh, andiamo, sei l’amministratore! Puoi permetterti una mezz’ora per mangiare un boccone! »

Arthur la fissò con un’espressione indecifrabile. Elena lo raggiunse dietro la scrivania, strattonandolo per la manica della camicia.

« Andiamo insieme, eh. Guarda, io ho il pomeriggio libero, perciò non c’è problema. Possiamo starcene un po’ insieme, che ne dici? »

« Ehm, immagino di sì. »

Elena squittì. « Fantastico! Avevi in mente un posto? »

Lui espirò pesantemente. Forse non tutto era perduto.

« Sì, è un locale un po’ rustico, giusto qui dietro… »
 
 
 
 
 
**
 
 
 


Merlin non apparteneva a quel genere di persone che si lasciano atterrare dalle preoccupazioni e dalle paranoie, interpretando ogni capello fuori posto come un segnale di pericolo. Semmai, era l’esatto opposto.
Stavolta, però, la questione era differente.

Era appena uscito dal Roast Dragon quando aveva ricevuto l’sms di Will. Lo stomaco gli si era serrato per il terrore, la paura che si fosse cacciato in qualche guaio. Aveva tentato di telefonargli, ma non aveva avuto successo, la linea era staccata. Pensò perfino di chiamare la madre di Will, ma poi un’ondata di buonsenso gli fece capire che forse non era il caso di far preoccupare anche loro.

La scusa che aveva rifilato a Lance nel chiedergli di ospitarlo non reggeva, eppure lui l’aveva accettata, leggendo fra le righe.

L’amico gli aveva preparato il divano affinché dormisse comodamente, assicurandogli che l’avrebbe svegliato in tempo per il turno del giorno dopo, ma Merlin non era riuscito a chiudere occhio. Si era rigirato sui cuscini del sofà, ansimando in fugaci morse di panico.

Intorno all’alba, Merlin era riuscito a stabilire un certo controllo delle proprie reazioni, allentando la tensione muscolare e respirando più lentamente. Gaius stentava a sopportare il suo servizio quand’era di buon umore, figuriamoci che sarebbe successo se si fosse presentato nervoso e preoccupato! No, non poteva permettersi gaffe, anche perché un campanellino nel retro del cervello cercava di ricordargli che quello era un giorno importante.

A Merlin tornò in mente il motivo e scattò a sedere, un’espressione terrorizzata in volto.  

Arthur.
 

Probabilmente, ovunque fosse, Will aveva percepito la maledizione dell’amico.
 
 
 
 
 
 
 
 




« … e così gli ho detto: “Guarda, se proprio vuoi ascoltare i Backstreet Boys, fallo mentre mi faccio il tuo amico nel bagno.” Dovevi vedere la sua faccia! »

Elena scoppiò in una risata sguaiata, coprendosi la bocca con una mano ed asciugandosi le lacrime con l’altra. Arthur sfoggiò un sorriso stentato e si mosse a disagio sulla sedia, mentre Merlin seguiva a ruota la ragazza in una risatina dal suono fasullo.

Merlin aveva iniziato a sperare che Arthur Pendragon si fosse dimenticato del loro appuntamento. Anche perché non era un appuntamento – per niente. Si erano solo detti che sarebbe stato bello vedersi di nuovo, non significava necessariamente che uno dei due, o entrambi, intendessero approfondire la loro relazione. Rapporto – di amicizia. No, conoscenza. Vaga conoscenza.

Sostanzialmente, non si sentiva in grado di reggere la tensione che accompagna gli incontri, di qualsiasi natura. Controllava il cellulare ogni tre minuti (con grande disappunto di Gaius, che aveva iniziato a minacciarlo con turni extra), sobbalzava al minimo rumore imprevisto, ad ogni faccia da poco di buono.
Poi, quando non ci sperava più, quando aveva iniziato a ringraziare il Cielo perché l’ufficio aveva divorato il giovane Pendragon, i marziani l'avevano rapito o qualcosa del genere, i campanelli sulla porta tintinnarono con un’allegria degna di un film horror.

Arthur, dorato e splendente e rosso in viso, fece il suo ingresso nel locale, piantando il suo sguardo in quello di Merlin, al suo posto dietro la cassa (fece di tutto per ovattare il fischio assordante nella sua mente e per reprimere quel delizioso brivido che gli saliva lungo la schiena). Artigliata al suo braccio, stava una giovane e bellissima ragazza, una coda molleggiante di capelli biondi ed un viso cordiale, genuino.

Merlin restò sorpreso, ma non lo diede a vedere. Si fiondò sulla coppia, sorridendo apertamente (gli facevano male le guance, perché è faticoso fingere di essere spensierati) e scortandosi ad un tavolo libero. Prese le ordinazioni senza incrociare lo sguardo con quello di Arthur – poteva percepirlo mentre studiava il suo volto, si augurò che non vi notasse nulla.

Quando era tornato con salmone e sandwich al tonno, Elena aveva fatto in modo che anche lui entrasse nella vivacissima conversazione, insistendo perché si sedesse con loro – « meriti anche tu una pausa, caro ragazzo! »

E così erano finiti a parlare di bizzarri tentativi di rimorchio e disastrosi appuntamenti. Ironia della vita.

Merlin prese un’oliva dal piatto della ragazza. « Ma come hai fatto a dire di sì a uno che ascolta una boy band? Non è che ci vuole un genio per capire che abita nella gay land, no? »

La risata di Elena fu così violenta che alcune teste dei tavoli vicini si voltarono. Il locale si era praticamente svuotato, era pieno pomeriggio ormai. Arthur ridacchiò sotto i baffi e Merlin gli scoccò un’occhiata penetrante. L’espressione del primo si addolcì e sarebbero rimasti a fissarsi se la ragazza non li avesse interrotti.

« Merlin, che lavoro fai tu? » domandò.

« Ehm, sto qui. Al Roast Dragon. »

Elena si schiaffeggiò la fronte. « Cavolo, che scema! Hai ragione! »

Merlin fece spallucce. « In realtà, ho anche un altro lavoro. I soldi non bastano, l’università costa un bel po’, così sbarco il lunario scrivendo recensioni per svariate testate. »

« Di film? Libri? Che genere? Magari ho letto qualcosa di tuo! »

« Ecco, sono »   il tono si fece imbarazzato al ricordo dei titoli che Morgause amava rifilargli   « letture settoriali. Spazio tra diversi generi, come medicina e teorie new age. »

Arthur si sporse in avanti, sollevando un sopracciglio, e l’altro maledisse la propria incapacità nel mentire.

« E quale libro ci consiglieresti? » chiese, in tono provocatorio. Merlin arricciò le labbra, fissandolo minaccioso.

« Non ti facevo un tipo da libri, Arthur. »

« Non ti facevo uno che sta sulla difensiva, Merlin. »

« Era per non farti perdere la faccia davanti alla tua amica, babbeo. »

« La mia faccia non ha nulla da perdere. »

« Quello che hai detto non ha senso. »

« Neanche la tua faccia * » si interruppe, godendosi la vittoria di una discussione, incurante della spettatrice interessata. Poi, notò qualcosa.

« Cosa c’è che non va, Merlin? »

Quello sussultò ed Arthur sgranò gli occhi. Merlin abbassò lo sguardo, temporeggiando, poi scattò in piedi, riponendo i piatti vuoti sul vassoio sotto l’espressione stupita degli altri due.

« Si è fatto tardi, devo andare » disse, a mo’ di scusa. Elena concordò, annunciando che sarebbe stato il caso di tornare in ufficio e si diresse alla cassa, con l’intenzione di pagare.
Merlin fece per seguirla, ma Arthur gli afferrò il braccio.

« Arthur, devo- »

« Te la sei presa perché ho portato anche lei? » chiese, diretto.

« Cos- no! Perché dovrebbe darmi fastidio una tua amica? No, è che oggi è una giornata… strana. Mi sono svegliato male. »

Arthur sospirò, allentando la presa. « Io ed Elena stiamo insieme, ma non è niente di serio. Sto giusto pensando di- »

« Non credevo fossi fidanzato. »

« Non abbiamo mai avuto occasione di parlare normalmente, Merlin, te l’avrei detto. »

« Tu vuoi parlare normalmente? »

« Più di ogni altra cosa al mondo. »
 
 
 
 
**
 
 
 


Arthur si fece solecchio con la mano, guardando con malcelato disgusto la folla di turisti che si dirigeva verso il Market o si sporgeva dal ponte per rimirare il Regent’s.

Camden aveva la capacità di appiccicarsi alla pelle, insieme al sudore e ai tatuaggi temporanei, e aveva quell’odore pungente di fritto, piscio e tabacco che doveva essere solo peculiarità di città come NYC o Los Angeles, non di una come Londra.

Detestava quel quartiere, ma forse lui era un po’ di parte. Quella mattina, si era svegliato con la luna storta ed una bizzarra determinazione nelle ossa. Aveva aperto il cassetto della scrivania e aveva estratto la chiave, infilandosela nella tasca dei pantaloni mentre telefonava a Gwen per avvertirla del ritardo in ufficio.

Nonostante Camden Town, il suo buonumore tornò al ricordo del giorno prima. Era un soleggiato e tiepido giovedì ed aveva rimediato un vero appuntamento con Merlin.
Beh, più o meno. Riteneva che “appuntamento” fosse una parola grossa, perché loro volevano solo stringere amicizia. Nient’altro.
E il venerdì sera è perfetto per due amici che vogliono solo conoscersi un po’.

Non riuscì a trattenere un sorriso, che gli affiorò sulle labbra più luminoso che mai.

Perso nei suoi pensieri, non si era reso conto di aver sorpassato la PharmoBiotech che era il suo punto di riferimento. Dovette tornare indietro sui suoi passi per ritrovare il portone rosso accanto alla vetrina della farmacia.
Si attaccò al campanello che recitava “Concierge” (perché forse “portinaio” sembrava troppo provinciale) e la serratura scattò.

Il portone cigolò sui cardini quando Arthur lo spalancò, entrando lentamente e guardandosi intorno. Il corridoio era buio e le pareti necessitavano di una buona intonacata. Sulla sinistra, un montacarichi con le porte faceva finta di essere un ascensore. Le scale erano in buono stato, probabilmente ricostruite dopo un crollo o l’infortunio di un condomino. Sulla destra, un piccolo archivio in ferro ed una scrivania, con telefono e quant’altro, dovevano costituire la postazione abituale del portiere.

« E lei chi è? » tuonò una voce da sotto la scrivania. Arthur si abbassò per vedere l’interlocutore, ma lui gli risparmiò la fatica tornando in piedi, in un’imponente figura dalla pelle rattrappita, naso adunco ed una grigia criniera leonina. L’uomo era incredibilmente vecchio eppure incuteva un timore reverenziale, quasi paralizzante, nonostante la camicia di flanella a quadri ed i chiari pantaloni a coste.

« Buongiorno. Sono qui per vedere l’interno 29A. Ho la chiave »  la tirò fuori dalla tasca, lucida e intonsa, per farla vedere al portiere. Lui assottigliò le palpebre dietro gli occhiali, sospettoso, scrutandolo in volto.
Infine, si lasciò cadere su uno sgabello, che scricchiolò pericolosamente, ed indicò le scale.

« Terzo piano, corridoio a destra. Le consiglio di andare a piedi. L’ascensore fa brutti scherzi. »

Arthur ringraziò e guardò le scale, ma non fece un ulteriore passo. Rimase fermo lì, davanti alla scrivania, congelato.

Il portiere appoggiò i gomiti sul tavolo, osservandolo. « Sei suo figlio, non è vero? »

Arthur sobbalzò. « Come? »

« Ygraine Wledig. Tu sei suo figlio. »

« Ma… »

Il portiere si alzò, girando intorno alla scrivania e porgendo la mano all’altro. « Sono Mr Garrah, concierge di questo condominio dall’inizio dei tempi. Puoi chiamarmi Kill, ragazzo. »

Kill Garrah non aspettò che gli stringesse la mano e tornò dietro il banchettò, iniziando a spalancare i cassetti dell’archivio. Arthur fissava il vuoto, ancora immobile nella sua posizione.

« Per tutti gli anni che è stata qui, miss Ygraine l’ho trattata come una figlia. Una cara ragazza, ma così fragile! Il suo appartamento è rimasto così come l’ha lasciato. Da qualche parte dovrei avere un suo quadernetto… A-ah! Trovato! »

Si voltò con un sorriso raggiante, sventolando un consunto taccuino rosso.

Arthur se n’era andato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
 
 

 
* piccolo tributo a Scrubs. ^^
 
Nda
 
Poco Merthur in questo capitolo, lo so… Ed Arthur è già la seconda volta che chiude il capitolo scappando sene. Ah, che codardo,così poco cavalleresco!
 
Comunque sul serio non so cosa dirvi. Mi sento profondamente bastarda e cretina e spero di riuscire a fare ammenda.
Non recensite, perché altrimenti mi viene ancora di più il senso di colpa. Lasciate che resti lo “0”, perché dev’essere una specie di punizione. Se proprio volete dirmi qualcosa, fatelo in privato, così potete anche insultarmi.
Perdonatemi, sul serio. ç_ç

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