Iridi di sangue

di pennafluo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***



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Io ho già deciso, io ti amo.
E se vuoi la mia testa, dammi un’accetta.
Ti darò la testa di un uomo che ti ama.
-Margaret Mazzantini.


PROLOGO




Il suono prodotto dagli alti tacchi a spillo che picchiavano sul marciapiede sconnesso, riecheggiavano ad ogni passo. La donna camminava con sicurezza, quasi con spavalderia, avvolta da uno stretto tubino scuro e con la schiena riscaldata da una leggera giaccia in pelle.
I boccoli scuri le cadevano dolci fino alla vita, le forme generose emergevano nonostante la fioca luce delle insegne che si illuminavano ad intermittenza. I pochi passanti che la incrociavano, probabilmente si chiedevano cosa ci facesse in quel quartiere una bella donna come lei, a quell’ora tarda, sola, ben vestita. L’attenzione di qualche uomo con cattive attenzioni si sarebbe potuta posare sui suoi occhi cioccolato, sui lineamenti delicati… sulla scollatura a V.
Ma quella notte aveva sete, e nessuna voglia di sedurre qualche uomo sposato in un pub per godersi qualcosa di caldo e pulito. In quella zona era semplice trovare qualche ragazzetto ubriaco o drogato, della cui sparizione nessuno si sarebbe accorto, e anche se il sangue avrebbe avuto un leggero retrogusto amaro, a lei non importava. Quella notte aveva sete.
Sotto quel cielo nero senza stelle non sarebbe stata lei ad avere paura.
Lo sentì come un soffio: le sembrò quasi un’allucinazione, frutto della sua immaginazione… ma poi divenne sempre più forte, sempre più forte, e i piedi si mossero da soli.
Affinò l’olfatto mentre i muri si susseguivano uguali, mattonelle che si incastravano le une sulle altre, interrotte da vicoli bui e maleodoranti. Fu in uno di questi che automaticamente svoltò, seguendo il suo istinto demoniaco.

‘Non può essere, non può essere’

Riusciva a ripetersi solo questo, perché ormai il suo profumo era ovunque, era così forte da confonderle le idee, riportandole alla mente immagini di secoli e secoli precendenti. Immagini di lei umana. Un muro le bloccò la strada, una strada senza uscita, così improvvisamente delusione e conforto si mischiarono attanagliandole il petto, le costole, il cuore fermo. Il suo marchio pulsò come se ardesse di fuoco. Cosa si aspettava? Chi si aspettava?
Poi lo percepì, quel respiro lento, così simile al suo. Simile perché finto, inutile, frutto dell’abitudine per non farsi notare, perché di suono di cuore che pompa e di sangue che fluisce, non c’era traccia.
Ma l’uomo era seduto a terra, a ridosso del muro, protetto dalle tenebre. I jeans scuri e rovinati dentro gli anfibi, la camicia stracciata, le braccia buttate sui fianchi con noncuranza, il fumo di una sigaretta che disegnava strane forme nell’aria. La sua figura le ritornò nitida tra i pensieri, come se non si fossero mai lasciati, come se non l’avesse mai lasciata: ogni particolare, dalle scapole un po’ sporgenti alle caviglie troppo fini, dalla cicatrice che gli percorreva avara la carne dalla spalla al basso ventre, le dita affusolate desiderose delle sue. L’angolo destro della sua bocca si alzò, era consapevole di non averlo mai dimenticato, neppure per una decina d’anni.

“Le belle donne non dovrebbero mai trovarsi in posti di questo tipo.” La voce rauca, vecchia di secoli, morte, tabacco. La lingua impastata di alcol e donne.

Sollevò piano il viso, la mascella dura, netta come se l’osso fosse stato tagliato secondo misure precise, contornata di una barba appena accennata. I capelli chiari, corti come allora.
Finalmente loro si posarono su di lei, vivi di rosso, come il primo giorno in cui si conobbero, con quell’accenno di malinconia intorno alla pupilla. Non ebbe alcun timore, e lui sembrò esserne sorpreso.

“Parlo con te, dolcezza.”

La donna non si mosse, indecisa. Come poteva non riconoscerla?
Fece un balzo agile, si rese quasi invisibile per qualche nanosecondo, una velocità innaturale.
Lo afferrò per il colletto della camicia attirandolo verso il suo corpo, il suo odore ormai le riempiva le narici, i loro petti si sfioravano, riconoscendosi. I suoi rubini si spalancarono, sorpresi, mentre si tuffavano in nei suoi nocciola.
La sua donna lo aveva in pugno, ancora una volta, ancora per un’eternità, anche se lei non se n’era mai accorta. Il passato gli si gettò addosso, come uno tsunami.

“Isabelle…” sussurrò, e le sue labbra ritrovarono il piacere di sfiorarsi, pronunciando quelle lettere.

La donna sorrise mostrando i canini affilati, talmente bianchi e perfetti che all’uomo venne voglia di averli conficcati nel collo. La desiderava ancora come allora, ovviamente. E si ritrovò a credersi pazzo e definirsi codardo, per aver passato così tante epoche senza di lei. Com’era nell’epoca vittoriana? Aveva ballato sulle prime note del jazz nei quartieri poveri di New Orleans? Si era cotonata i capelli negli anni ’70?
Le posò piano i palmi sui fianchi, l’abbracciò e i loro copri s’incastrarono come se fossero stati modellati insieme, divisi ma fatti per ritrovarsi. La baciò dolcemente, si leccò le labbra: riaveva il suo sapore.
Si ritrovò con la guancia sul muro freddo, una tanaglia con le unghie smaltate di rosso che gli storceva i polsi, l’alito che sapeva di fragola sull’orecchio.

“Ti sono mancata, Alexander?” la sua voce gli scaldò ogni lembo di pelle.

Le iridi di sangue del vampiro brillarono nell’oscurità.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***



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Io ho già deciso, io ti amo.
E se vuoi la mia testa, dammi un’accetta.
Ti darò la testa di un uomo che ti ama.
-Margaret Mazzantini.


CAPITOLO 1




Sedette al fianco del padre, al fianco del trono d’oro. Si adagiò sul morbido tessuto rosso che ricopriva il suo scranno, più piccolo ma ugualmente pregiato, poggiando braccia e mani sui manici elaborati a ricreare le fauci di un leone, la testa corvina con il suo diadema di diamanti sovrastata dal ritratto di famiglia.
I boccoli liberi cadevano sulle vesti chiare, pregiate e ricche di ricami, come quello dello stemma del regno sopra a sinistra, poco lontano dal cuore. Postura dritta, sguardo fisso davanti a se, senza emozioni. Così doveva mostrarsi al suo popolo, mai un accenno di sentimento se non fermezza, come il fluido delle sue vene le imponeva.
Il salone si stagliava in lunghezza e larghezza davanti al re e a sua figlia, dai piedi dei quali partiva un lungo tappeto rosso che terminava poco lontano dal portone d’ ingresso, che due servi erano intenti ad aprire dalle grosse maniglie a cerchio in metallo. Doveva pesare parecchio, a giudicare dalle loro espressioni contratte, il sudore che bagnava gli abiti sudici.
Distolse lo sguardo poggiando il gomito sui manici e a sua volta una guancia sul palmo della mano. Cominciò a studiare i decori delle vetrate istoriate, ripercorrendo le sfumature del vetro e apprezzandone la luce filtrata, in attesa dell’ospite che era stato convocato d’urgenza e in pubblico. Dedusse che si trattasse di una questione particolarmente importante per il regno, o per lo meno per il padre. In effetti, persino ai popolani era stato concesso di entrare tra le mura del castello, nella sala del trono, per vederlo con i propri occhi. Continuavano a sussurrare, parlottare, fare deduzioni. Avrebbe solo voluto zittirli e riacquistare il suo amato silenzio, andarsene nelle sue stanze, perfezionare il suo arco. In fondo, si trattava solo di un avaro cacciatore di taglie, per quanto famoso, chiamato a stanare una combriccola di criminali. Criminali non poi tanto astuti, perché erano le guardie di corte a non saper fare neanche un affondo decente con le proprie lame. Sospirò, lo avrebbe fatto lei se solo glielo avessero permesso.
Finalmente il grande portone fu spalancato, la gente si zittì di colpo e il rumore di un paio di stivali cominciò a riecheggiare nell’aria.
L’uomo percorse l’intero tragitto verso il trono con un sorriso beffardo a dipingergli le labbra, lo sguardo basso, il mantello nero e strisciante a coprirgli le spalle larghe e la mano stretta sull’elsa di una spada che sfiorava il pavimento in marmo, provocando un rumore stridente che infastidì la principessa. La pelle dell’uomo le sembrò stranamente diafana, e i capelli corti troppo slavati. A giudicare dall’aspetto, doveva arrivare da molto lontano.
Quando si trovò a pochi centimetri da loro si chinò piano poggiandosi su un ginocchio e finalmente alzò il viso puntando gli occhi verso di loro, anzi più correttamente verso di lei. E appena i suoi li incontrarono, fu come se una delle sue frecce avvelenate l’avesse colpita direttamente al cuore, e ora il veleno caldo si stesse diffondendo in tutto il suo corpo. Poi ebbe paura di lui, mai aveva visto delle iridi del genere, neanche sui libri. Il fiato le abbandonò i polmoni.

“Al vostro servizio, sire.” Una voce suadente correva fuori dalle sue corde vocali.

“Qual è il tuo appellativo, cacciatore?”

“Alexander, proveniente dalle terre del Nord.”

Le persone ricominciarono con il loro chiacchiericcio: “Tutti sanno che quelle terre sono maledette!” “Guarda i suoi occhi, è un demone!” “Costui è figlio delle tenebre!”
Il cacciatore mostrava una tranquillità e un’ immobilità stupefacente.

“Il mio regno ha bisogno di aiuto, il pericolo è divenuto insostenibile per la mia gente e per le mie merci. Mi affido a te, conosciuto per leghe e leghe.”

“La mia fama mi precede, sa quindi di potersi fidare.”

“Otto taglie, Alexander. E avrai ciò che meriti.”

“E sia, che la mia spada perfori otto gole, mio re!”

Detto questo si alzò, ripercorrendo il salone a ritroso, lasciando indietro i giudizi e i pensieri altrui. La principessa si girò subito verso la sua ancella, poco lontana dalla sua postazione, e le fece cenno con la mano di avvicinarsi. La minuta serva fece un piccolo inchino educato e sorrise alla giovane donna.

“Che posso fare per voi, principessina Isabelle?” Questa distorse le labbra, non era una principessina ma un forte arciere, ma non commentò per paura di far punire la sua Janette.

“L’hai visto, il colore delle sue iridi? Che se ne dice in giro?”

“Mia padrona, aleggia sulla figura del cacciatore una leggenda.”

“Parla!”

“Dicono che il suo sguardo sia rosso come il sangue di tutte le teste che costui ha tagliato nel corso degli anni, del sangue che ha versato, mia signora.”

“Bene, ritirati.” L’ancella si allontanò.

Isabelle non ci poteva credere, quell’uomo nascondeva qualcosa, quell’uomo aveva un qualcosa… qualcosa che le piaceva.


***


I due tramonti successivi, portò puntualmente al re le teste mozzate dei ricercati. Non le era permesso accedere ai loro incontri, ma era sempre stata abile a spiare: egli le riponeva dentro sacchi scuri che finiva per macchiarsi completamente e gocciolare.
Poi nel silenzio nel quale era venuto, se ne andava.
Isabelle non faceva altro che pensare a lui, alle sensazioni che le aveva fatto provate al primo sguardo, al mistero palpabile che gli aleggiava intorno. Persino il suo maestro d’arco la riprese durante l’ allenamento per la poca concentrazione, andando avanti e indietro tra gli alberi del giardino disposti come in un bosco, appositamente per lei e il suo addestramento da arciere. Aveva ragione però, i suoi pensieri erano altrove e non riusciva a tendere alla perfezione, a scoccare nella giusta mira. Un leggero velo di sudore le copriva la fronte e le tempie tese.
Ad un tratto un brivido freddo le percorse crudele la schiena sotto gli indumenti maschili e per poco non prese al cuore un servo che ripuliva il giardino dalle foglie secche.

“Isabelle, dannazione!”

Abbassò l’arma incredula, ella non errava mai così sbadatamente, neanche quando sbadata lo era. Non era stato un brivido di freddo, di troppa concentrazione o altre sciocchezze: qualcuno la stava spiando. Si voltò di scatto, analizzando ogni possibile nascondiglio, ogni centimetro di ettaro. Fu un attimo, così piccolo che ne percepì sono la scia, il movimento orizzontale.
Due occhi rossi, un fruscio.

“Chi va là?!” a nessuno era permesso partecipare, anche solo come spettatore, ai suoi allenamenti.

Erano privati, intimi, erano suoi. Tollerava solo il maestro e alcuni servi obbligati a lavorare all’esterno, ai quali era severamente vietato anche solo alzare lo sguardo. Era la sua arte, il tempo che si dedicava, e non voleva distrazioni di nessun tipo.
Ma ormai quei cerchietti rossi le erano rimasti impressi nella mente.

“Isabelle, non c’è nessuno, lo sai. Oggi ti vedo stanca, va’ a riposare.” le disse il maestro con tono premuroso.
E come sempre le sembrò di considerare più lui suoi padre, che il re.
E come sempre aveva ragione, la sua mente contorta le stava giocando brutti scherzi. Annuì e si diresse verso il palazzo, attraversando una piccola passerella alberata.
Si infilò l’arco sulla spalla e si scostò ciuffetti scappati alla crocchia con il dorso della mano.

“Alle principesse non si addicono determinate passioni.”

Si girò di scatto e vide il cacciatore seduto all’ombra dei rami intrecciati, solito abbigliamento, nessuna spada. Che ci faceva lì? Allora non era stata tutta una sua idea, la stava guardando poco prima?

“A nessuno è permesso stanziare qui, durante queste ore.” Tentò di mantenere una voce dura e decisa, ma si sentiva vulnerabile.

L’uomo di alzò e le camminò incontro, prima di fermarsi in ginocchio e baciarle la mano. Il cuore di lei cominciò a tamburellarle in petto, tanto che ebbe timore che egli se ne accorgesse o che ne sentisse il rumore rimbombante. Alexander sorrise, perché lui lo sentiva davvero, come se le sue orecchie fossero poggiate sulla sue pelle, che si alzava ed abbassava così dolcemente veloce. Sfiorarla con le labbra fu inebriante, come ubriacarsi, non le avrebbe più staccate fosse stato per lui e quasi cedette, percependo il fluire del sangue. Si trattenne, quella ragazza, praticamente donna, lo attraeva come mai nessuna prima, aveva un qualcosa… un qualcosa che gli piaceva.. Ma non solo come sua possibile vittima.

“Alexander, è un piacere.”

“Isabelle.” Non riuscì a sostenere il suo sguardo macabro, anche se aveva notato che stranamente si presentava più smorto, meno vivido.

“Mi delude, se le faccio paura. Lei vorrebbe diventare un arciere, no?”

“Sono gli altri a dover avere paura di me, e comunque non è affar suo.” Alexander alzò un sopracciglio.

“Errato, lei è una principessa. Non crederà davvero che suo padre le permetta una vita maschile che le sporcherà la coscienza?”

“Lei è solo un miserabile assassino non ha niente a che vedere con l’arte dell’arco.”

“Si tratta di armi. Le armi servono a combattere, e se non si vuole morire, a uccidere.”

“Lei dovrebbe adempiere al compito assegnatoli da mio padre, non importunare la sottoscritta.”

“Io non la sto importunando…”

Con uno scatto Alexander afferrò Isabelle per la vita, e le baciò delicatamente il collo.

“Questo è importunare.”

Si girò e prese a camminare verso il palazzo. Isabelle si portò le dita al collo, sfiorando lì dove le sue labbra l’avevano toccata, con il fiato corto. Lo osservò allontanarsi con quell’andatura un po’ storta e stanca mentre i capelli ciondolavano leggermente prima a destra e poi a sinistra. Infine, quando fu abbastanza lontano, si diresse alle sue stanze per cambiarsi d’abito ed indossare quello per la cena. In quest’ultima il padre si lamentò del fatto che il cacciatore quel tramonto non aveva portato nessun “sacco”, che si stesse dilungando troppo, che cominciava a pensare che volesse approfittarsi di loro e del benessere che gli stavano offrendo. La figlia lo confortò, dicendosi sicura che il giorno seguente avrebbe avuto ciò che voleva, e tra sé e sé confortata dal fatto che l’uomo si sarebbe trattenuto ancora e che forse lo avrebbe incontrato di nuovo, ma cercò di reprimere immediatamente quelle emozioni. Congedati, andò presto a dormire.


***


Il rumore ripetuto di qualcosa che sbatteva sulla finestra davanti al suo letto a baldacchino, l’aveva svegliata. Così, ancora scalza, si era affacciata. L’aria era fresca, la luna piena, e il cacciatore la invitava a scendere. Si fidò inconsciamente, spinta da una forza interiore che le prometteva che si poteva fidare di quell’Alexander, per cui percorse veloce ma piano gli scalini a chiocciola e uscì da una porta sul retro nascosta dagli arbusti, di cui spesso usufruiva quando le serviva del tempo da dedicarsi e non aveva voglia di incrociare nessuno.
Appena se lo ritrovò davanti, bello e dannato come non mai, si ricordò del fatto che il suo corpo era coperto solo da una leggera veste che le lasciava le braccia e le gambe sotto il ginocchio scoperte.
Presa dall’imbarazzo arrossì violentemente.

“Non c’era bisogno di presentarsi mezze nude per fare colpo su di me.” La incalzò, e lei non ebbe il tempo di rispondere che…

“L’ha già fatto il primo istante in cui l’ho vista.” Isabelle sorrise timida.

“Perché mi ha svegliata nel bel mezzo della notte? Spero sia importante.”

L’uomo le prese la mano e la condusse tra gli alberi in silenzio. Con un movimento brusco, la fece sbattere contro il tronco di uno, senza farle male, e la baciò. Lei prima si irrigidì, ma quando Alexander cominciò a carezzarle la schiena sotto la veste, si lasciò andare infilando le dita tra i suoi capelli e facendo incontrare le loro lingue. Un sapore vagamente dolciastro s’impossessò delle sue papille gustative. Infine lui si staccò.

“Per questo, mia signora.”

Isabelle tornò a baciarlo, perché era l’unica cosa che voleva in quell’istante, e presa da quell’amore puro e mai provato, appena accennato, quasi non si accorse delle mani di lui che le stritolavano troppo la pelle, dei canini che si infilavano nella sua giugulare, del fatto che le stesse succhiando via la vita.
L’ultima immagine fu di lei tra le sue braccia, il sangue che colava dal collo lì dove l’aveva baciata quel pomeriggio, il sorriso che dipingeva il viso dell’uomo e gli occhi più rossi che mai nelle tenebre della notte.
Si svegliò di soprassalto, intimorita dal suo subconscio, stavolta nella realtà. Si asciugò con le lenzuola il sudore, tentando di calmarsi.

’Era solo un sogno, Isabelle. Solo uno stupido sogno!’

Poi un nuovo rumore giunse dall’esterno della sua finestra, come di rami spezzati. Indecisa e ancora scossa, finì per alzarsi ed osservare fuori, tentando di nascondersi il più possibile e restando a debita lontananza dal vetro. Lo individuò subito, ma che ci faceva Alexander là a quell’ora?
Un ramo giaceva spezzato sul prato alle spalle di Alexander che camminava verso il palazzo, pulendosi con la manica della giacca larga qualcosa che gli macchiava l’angolo della bocca. La donna tentò di aguzzare la vista, sperando di capire di cosa si trattasse e avvicinandosi notò una strana sfumatura di colore del liquido, grazie alla luce della Luna. Presa dall’osservazione, urtò per sbaglio una cassapanca. Alexander alzò di scatto lo sguardo e per un attimo incrociò quello di Isabelle, che immediatamente si rigettò tra le coperte, il cuore in gola e i brividi sulle braccia.

Era sangue, quello sulle labbra del cacciatore.

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