Unexpected

di marty_ohba
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Golden Beach Hotel, Miami ***
Capitolo 2: *** Un Concerto Mancato ***
Capitolo 3: *** Precario Equilibrio ***
Capitolo 4: *** Darkness ***



Capitolo 1
*** Golden Beach Hotel, Miami ***


Ed ecco la fic, completamente rieditata dopo anni, è
passata da una commedia ad un sovrannaturale e ne
sono solo felice! E' un genere che non avevo mai sperimentato.
Dedico questa storia alla mia seme BeyonBday che mi ha sostenuta

e mi ha aiutata con le sue idee. Senza di te la storia non esisterebbe
Susy

Nota: Mello e Misa sono fratelli perché sono entrambi biondi
e per lo stesso motivo Linda, che ha i capelli rossi, è sorella
di Matt.

 

 



Unexpected

 

 


GOLDEN BEACH HOTEL, MIAMI

 

«E così, domani è il grande giorno, eh?», dissi, dando una spintarella al ragazzo stravaccato sul divano accanto a me.
«Non me lo ricordare, sono già abbastanza nervoso...».
«Non pensarci, andrai benissimo, su! Organizzate questo matrimonio da tre mesi, ormai! Non puoi mandare tutto a monte!».

Fissai il mio amico: non l'avevo mai visto così spaventato. In faccia aveva stampato il terrore. Era pietrificato.
«E se...», inghiottì. «E se dimentico le parole?».
Scoppiai a ridere. «Devi solo ripetere quelle del prete!».
Emise un lungo sospiro e chiuse gli occhi.
«Mi sto preoccupando troppo, vero?».
«Ma certo!»
. Non sembrava convinto. Sbuffai.
«Senti, Matt, fidati di me. Se fai così rischierai una crisi isterica!». Mi fissò.
«Ascolta. Tu ami Sayu, no?». Il suo sguardo si fece accigliato.
«Certo che la amo! Moltissimo! Altrimenti perché le avrei chiesto di sposarmi?! ».
Sorrisi. «Ecco. Pensa a quanto sarà bella e radiosa domani! Non vorrai rovinarle l'umore?!». Si morse un labbro.
Eh, no, eh! Ora basta! Accidenti a lui! L'avevo portato pure al night club migliore di Los Angeles, cazzo! Meglio di così!
Poi mi venne un'idea. Afferrai di scatto il Bacardi che stavo bevendo e glielo rovesciai addosso di colpo.
Il rosso, dapprima scioccato, si riscosse in fretta, scrollandosi la bibita dai capelli.
«Me lo sono meritato, vero?». Annuii convinto.
«Grazie, amico. Ed ora … pensiamo a divertirci!».
«Così ti voglio!».

Ciò detto, mi sfregai le mani e ghignai, occhieggiando la ragazza aggrappata al palo più vicino.

 

 

 

La marcia nuziale eccheggiò nel salone e si aprirono le porte. Due ragazze, una bionda e l'altra dai capelli rossicci avanzarono lungo la navata spargendo petali di rosa al loro passaggio. Portavano i capelli raccolti sulla nuca con fiori color avorio, lo stesso dei vestiti.
La musica si alzò di un paio di ottave e in fondo alla sala comparve una giovane donna non troppo alta, di origini orientali. La chioma castano scuro le ricadeva morbida sulle spalle, mentre il velo sostenuto da calle bianche le copriva il volto, ma senza impedirle di vedere.
Nonostante la sua espressione fosse celata, si scorgeva un sorriso radioso.
Accanto a lei stava il padre, un uomo di mezz'età dall'aria seriosa che nonostante i suoi sforzi, non riusciva a trattenere bene la forte emozione.
Giunti all'altare, l'uomo porse la mano della figlia a quella di Matt, per poi tornare a sedersi.
Il mio amico era raggiante. Sprizzava felicità da tutti i pori. Mi sentii estremamente orgoglioso di lui. Finalmente si era deciso a mettere la testa a posto e sposarsi!
Sogghignai, pensando che non avrebbe resistito a lungo senza comportarsi da scapestrato.
Il prete iniziò a parlare, accogliendoci in quel giorno felice ed invitandoci a prendere esempio da loro.
«Vuoi tu, Mail Jeevas, prendere come tua legittima sposa Sayu Yagami, per amarla ed onorarla sempre in ricchezza ed in povertà, in salute ed in malattia per tutti i giorni della tua vita finché morte non vi separi?».
«Lo voglio», promise Matt. Probabilmente era talmente felice in quel momento che non aveva pensato nemmeno lontanamente a quanto fosse barboso il discorso del prete, come invece avevo fatto io.
Il parroco rivolse la stessa domanda a Sayu, che giurò a suo volta il proprio sì.
I due si scambiarono gli anelli, sorridendosi radiosi.
«Ora, Mail, può baciare la sposa».
Ma lei, senza attendere che l'ormai marito si avvicinasse al suo volto, gli gettò le braccia al collo. Matt ridacchiò e la strinse forte. Una decina di secondi dopo si separarono, voltandosi verso di noi tra gli applausi.
Sayu si girò di spalle e lanciò il bouquet che finì dritto tra le mani di mia sorella. Emozionata, corse ad abbracciare la sposa, per poi scostarsi, lasciando passare l coppietta.

 

 

Il Gold Beach Hotel di Miami era il più lussuoso albergo della West Coast, proprio a 100 metri dalla spiaggia, il cui lido era riservato ai soli clienti.
Era di forma semicircolare, dotato di tutti i comfort, inclusi piscina ed idromassaggio.
La hall era ben arredata e situata proprio sotto il ristorante: questi era una sala circolare coperta da una cupola in vetro.
Si gustavano tre ricchi pasti al giorno ed il bar era sempre aperto per aperitivi, cocktails, caffè ed ammazzacaffè.
Le stanze vantavano la presenza di un balcone vista mare, servizio in camera, toilette privata, TV satellitare e telefono, collegato alla linea interna dell'hotel.
A mezzanotte apriva il Night Club, ovviamente vietato ai minorenni.
E la cosa migliore: le famiglie di Matt e Sayu ci avevano concesso di poter rimanere una settimana in quel paradiso a loro pagamento. Non li avrei mai ringraziati abbastanza.



Il rinfresco era stato organizzato nella grande sala ricevimenti.
I due sposini aprirono le danze, seguiti da me e Linda, la sorella di Matt, e Misa col fratello di Sayu. Quel ragazzo non mi andava molto a genio, perciò lo tenni d'occhio mentre stringeva la ragazza.
Fu davvero una cosa carina. Avevo sempre odiato la frivolezza dei matrimoni, ma dovevo ammettere che questo era tutto tranne che pieno di fronzoli. Di sicuro meglio dei “matrimoni del secolo” in TV.
La giornata trascorse tra danze e risate e a sera inoltrata Matt e Sayu ci salutarono, prima di partire per la luna di miele.
«Ciao, amico. Grazie per essere venuto».
«Matt, non potevo mica mancare il giorno più importante della tua vita!».
«Sì, in effetti non te l'avrei fatta passare».

Risi con lui e ci abbracciammo.
«Divertitevi a Sharm El Sheik», augurai a lui e alla moglie, che mi guardò con occhi pieni di commozione.
«Grazie, Mello. Senza di te questo qua avrebbe avuto un attacco di panico».
Ridacchiai. «Figurati, rompeva anche me!».
Baciai la ragazza sulle guance e i due entrarono nella lunga auto nera che era stata fatta portare all'ingresso. In pochi secondi sparirono. Sorrisi tra me e me, poi mi voltai a guardare gli ospiti.
I genitori degli sposi stavano salutando Linda e Light, dato che non avevano il permesso di restare: solo noi ragazzi avevamo avuto la fortuna della settimana gratis.
Mi rivolsi a mia sorella, raccomandandole di fare attenzione a Light. Lei odiava quando facevo così, ma era l'unico membro della famiglia che mi restava, essendo orfani.
«Non preoccuparti, Mihael! Ho diciott'anni, so badare a me stessa!», mi rassicurò.
Entrammo nella hall e ci facemmo consegnare le chiavi delle stanze. La mia si trovava in fondo all'ala ovest. La inserii nella toppa e la serratura scattò. Aprii la porta e mi guardai intorno.
Sulla sinistra c'era la porta del bagno privato, mentre il letto era ad un piazza e mezza, appoggiato alla parete di destra. Sul materasso trovai una trentina di tavolette di cioccolata fondente, divisi in pacchi da cinque. In cima, un biglietto.

 

Non finirle troppo in fretta,amico.
Matt
P.S: ti allego il VIP Pass. Domani c'è un concerto
degli Shinigami, tu e gli altri
ci potete andare in limo.

 

A seguito, uno smile mi faceva l'occhiolino.
Sorrisi, risposi le tavolette nel mini frigo e mi spogliai per andare a dormire, com'era mio solito, in boxer.
Poi mi diressi al balcone e lo aprii, facendo passare un po' d'aria e alle narici mi giunse l'odore della brezza marina.
Restai un po' a fissare la luna riflessa sull'Oceano e quando cominciai a sentire l'effetto dei Martini, volsi le spalle alla finestra e mi accostai al letto. Scostai le lenzuola di lino, fresche e profumate e mi immersi in quelle coltri, ascoltando lo sciabordio delle onde che si infrangevano sulla riva.

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Capitolo 2
*** Un Concerto Mancato ***


UN CONCERTO MANCATO

 

La mattina seguente mi svegliai col sole negli occhi. Strizzai le palpebre e mi tirai a sedere.
Dal balcone splendeva un meraviglioso cielo terso, alcune famiglie erano già in spiaggia.
Velocemente mi misi il costume, afferrai una t-shirt nera a mezze maniche e scesi nella hall. Consegnai la chiave al consierge e mi diressi al mio ombrellone.
Sfilai la maglia, mi spalmai di crema abbronzante, inforcai gli occhiali da sole e mi sdraiai godendomi il calore e il relax di quel momento.


Dopo quello che mi parve un attimo scattai su a sedere. Causa: schizzato da qualcosa di gelido.
Aprii gli occhi e mi ritrovai di fronte una Misa con tanto di codini e compagnia bella, e per compagnia bella intendo Linda.
«Misa, fallo un'altra volta...».
Ma lei interruppe la mia minaccia ridacchiando.
«Eddai Mihael, era solo uno scherzo!».
Ma poi, captando il mio umore poco trattabile, capì che era meglio girare al largo, e lei e Linda sparirono correndo verso la tavola oltremare che avevamo di fronte.
Di solito non ero così irritato d'estate, anzi. Solo che non sopportavo quando Misa si comportava da bambina. Erano i mocciosi che non mi andavano a genio.
Le fissai finché non si immersero, poi rinforcai gli occhiali da sole e tornai ad abbrustolirmi.

 

 

 

«Misa muoviti!».
Linda pestò i piedi per terra e sbuffò impaziente. Se mia sorella non si sbrigava avremmo perso il concerto, e questo non rientrava nei piani. Nessuno la batteva in fatto di ritardi. Per prepararsi le ci voleva un'eternità e più!
«Un attimo, sono quasi pronta!».
Si, come no: è quello che dicono tutti per tranquillizzare chi attende e sta perdendo la pazienza. Notizia dell'ultimo minuto: non tranquillizza affatto.
«Misa, se non esci subito butto giù la porta!».

Sentii un lamento proveniente dalla stanza e poi la maniglia si abbassò, permettendoci di ammirare la mia tanto attesa e ritardataria sorella.
Indossava un abito Gothic Lolita nero, calze a rete con giarrettiere, stivaletti con tacchi a spillo (Dio solo sa come faceva a restare in equilibrio), orecchini con la croce, una valanga di collane e bracciali e borchie da tutte le parti.
La guardai allucinato, indicandole perentorio la porta della suite.
«Non se ne parla, tu così non esci! Adesso torni dentro e ti cam-...».
Non avevo nemmeno finito la frase che Linda mi tirò per un braccio, un'espressione da cucciolo ferito stampata in faccia, supplicante.
«Mihael, per favore... siamo già in ritardo! Potete litigare più tardi!».
La fissai, poi scrutai dubbioso mia sorella, che si era aggiunta all'amica nel tentare di supplicarmi. Più che tentare, dal momento che cedetti, sbuffando sonoramente.
«E va bene, ma muoviamoci!».

 




 

«COME STATE GENTEEEEEEE??? SIETE PRONTI A DIVERTIRVIIIIIIIII???».
La folla emise fischi e applausi in un rombo frastornante.
A parlare, anzi, urlare, era stato il vocalist degli Shinigami, Ryuk. Era un tipo molto alto, coi capelli neri gellati all'insù, un sacco di borchie da tutte le parti e un sorriso enorme. Faceva un po' impressione.
Nemmeno un secondo dopo la band attaccò a tutto volume, le ragazze e i ragazzi si scatenavano a ritmo, strillando le canzoni insieme a lui.
Io non li imitai. A dire il vero non mi sentivo molto in vena di metal quella sera.
Mi allontanai dalle due e uscii dall'area del concerto.



 

Passeggiavo per le strade di Miami, affollate come sempre.
Coppiette, gruppi di amici e adulti indaffarati camminavano veloci lungo i marciapiedi.
Dai pub uscivano gli schiamazzi degli uomini che guardavano una partita di football, probabilmente. Eravamo nel pieno della stagione.
Non sapevo nemmeno cosa stavo cercando. Mettevo un piede dopo l'altro, sovrappensiero, con le mani nelle tasche dei miei aderenti pantaloni di pelle nera.
Pensai per qualche momento a Matt e Sayu, sperando che stessero bene, e poi persi il filo dei miei pensieri.

Chissà quanto tempo dopo mi ritrovai sulla spiaggia, a fissare il mare. Era scuro, blu notte. Sulla superficie piana si specchiavano la luna e le stelle con riflessi irregolari e tremolanti.
Mi avvicinai al litorale, stando leggermente dietro alle risacche, la schiuma che imbiancava la costa e tornava indietro.
Seguii il profilo del bagnasciuga, a sguardo basso, il vento leggero che mi scompigliava i capelli.
Poi un movimento ai margini del mio campo visivo mi distrasse: una piccola figura che brillava ai raggi della luna stava sul promontorio poco distante, avvicinandosi sempre di più al confine tra mare e roccia.
Lo fissai distratto, poi la figura allargò le braccia.

Oddio! E' andato di testa!”
Corsi verso la scogliera, fregandomene dei movimenti limitati che mi erano concessi dai miei pantaloni e un attimo dopo ero già sul promontorio, qualche metro dietro la figura.
Realizzai perché brillava sotto la luna: era completamente bianca: abiti, capelli, pelle.
Rimasi incantato a fissarla, distratto dai riflessi argentei della sua chioma candida.
Poi si mosse ancora verso il limite, ed io scattai, afferrandolo per un polso prima che potesse buttarsi.
Il mio gesto lo fece scontrare contro di me, e realizzai quanto quel ragazzino fosse minuto, fragilissimo tra le mie braccia, ispirava tenerezza e innocenza.
Con mia gran sorpresa si strinse a me, singhiozzando. Ero completamente spiazzato.
Tremava come una foglia, le lacrime mi bagnavano il gilet di pelle.
Un po' in imbarazzo gli cinsi la vita, mentre ancora era scosso dai singhiozzi; con l'altra mano gli accarezzavo i capelli, sorprendendomi di quanto fossero soffici al tatto.

Non so per quanto tempo restammo così, ma ad un certo punto il ragazzino – sembrava un bambino da quanto era piccolo – si voltò a guardarmi e rimasi a fissarlo stupefatto: i suoi occhi erano pozze d'onice da cui non riuscivo a staccarmi, il cuore prese a battermi velocemente.
Non avevo idea di che espressione potessi avere, ma non mi posi la questione.
Il ragazzino all'improvviso ruppe il silenzio che si era creato tra noi. La sua voce era calma e senza inflessioni, non pareva che avesse appena pianto.
«Scusami».
Non aggiunse altro, scostandosi da me. Io allentai la presa su di lui, rendendomi conto solo in quel momento di quanto lo stessi stringendo.
Rimase in piedi a qualche centimetro da me, prendendo ad attorcigliarsi una ciocca di capelli col dito, senza smettere di fissarmi.
Era forse in imbarazzo?
Restammo a guardarci ancora qualche secondo interminabile, poi il piccolo abbassò lo sguardo e si allontanò senza smettere di torturarsi i boccoli lattei.
Lo fissai finché non sparì dalla mia vista, ancora scosso da quello scambio di occhiate e scesi di nuovo sulla spiaggia.
Misi le mani a coppa, le immersi nel mare e mi sciacquai con un po' d'acqua, sovrappensiero, pensavo ancora a quel ragazzino bianco.
Cosa stava facendo? Perché voleva buttarsi di sotto? Cos'era successo?
Mille interrogativi mi affollavano la mente, chiedendomi se mai l'avrei rivisto.
L'idea del tempo mi fece ricordare un'altra cosa.
Improvvisamente mi ricordai del concerto, a quell'ora doveva già essere finito! E mia sorella di sicuro stava dando di matto.
Fortunatamente l'albergo era vicino. Cominciai a correre.

 

 

 

«Si può sapere dove DIAVOLO sei stato?!».
Sì, Misa era furibonda: mi fissava torva da sotto la frangia bionda. Linda, dietro di lei, mi fissava apprensivo, come per dire: “Ecco, adesso ti toccherà subire la sua predica”.
Riportai l'attenzione sulla biondina.
«Senti, Misa, ero andato a fare un giro, non ero in vena di metal stasera».
«Con chi?».

La guardai allucinato.
«Come con chi?! Da solo, no?!».
Non pareva convinta.
«Certo, come no! Di sicuro eri con una ragazza!».
«Misa, siamo qui da nemmeno due giorni! Come avrei fatto, eh?».
«Conoscendoti Mihael...».

Sbuffai. Con mia sorella non c'era speranza.
«Potevi almeno chiamare».
Sapevo che la bufera non sarebbe passata finché non le avessi dato ragione.
«D'accordo, questo avrei dovuto farlo».
Poi prima che potesse fare altre domande sulla mia fuga, mi voltai verso Linda.
«E voi vi siete divertite al concerto?».
La risposta le si leggeva in faccia: era contentissima, sprizzava entusiasmo da tutti i pori, le stelline negli occhi.
«Sìì! Pensa che abbiamo avuto anche gli autografi da tutti i membri della band!».
Ammiccai.
«Buon per voi».
E scappai di sopra.

 


 

Una volta in camera mi spogliai in fretta e mi feci una lunga doccia rinfrescante, per schiarirmi le idee. Non servì a molto.
Quel ragazzino continuava a spuntarmi in mente. Sembrava così indifeso… Desideravo stringerlo forte finché sul suo volto vi fosse più stata traccia di tristezza e sofferenza…
E quegli occhi… di un nero così intenso… in quel momento esprimevano terrore e ispiravano tanta tenerezza…
Scossi la testa con forza. Non era così che si comportava Mihael Keehl. Mi stavo rammollendo. Altroché.
Mi diedi dell'imbecille per essermi sentito tanto turbato e mi buttai a letto senza troppi ulteriori pensieri.

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Capitolo 3
*** Precario Equilibrio ***


PRECARIO EQUILIBRIO


Non riesco a dimenticare. E' più forte di me, e non ne ho mai capito il motivo.
Si dice che col tempo le ferite si rimarginano, che la ferita viene ricucita. Invece le mi piaghe non sono mai state in grado di guarire.

Avevo otto anni quando i miei morirono in un incedente d'auto. Davvero banale, ma non importa il come: importa il cosa.
Io e Misa siamo cresciuti senza genitori, ho dovuto essere per lei padre e fratello quando ci portarono in quell'orfanotrofio. Lei aveva qualche anno meno di me, ha sofferto di più, ma si è anche ripresa prima.
Io invece, dovendo ricoprire il ruolo di responsabile fratello maggiore, non ho avuto nessuno e ho dovuto cavarmela con le mie sole forze.
Io non mollo mai. E ce la feci.
Forse è per questo che sono così: arginando il dolore per la morte dei miei genitori, il più grande che avessi dovuto patire, non dovevo temerne uno peggiore.
Talvolta, quando ancora ero piccolo, Misa mi aiutava con il suo entusiasmo, incoraggiandomi a non mollare.


Quando poi avevo sedici anni le cose migliorarono.
Io e Misa eravamo stati presi in adozione quasi subito: eravamo belli ed intelligenti. Una sera i nostri genitori adottivi avevano portato Misa al cinema lasciandomi qualcosa da cuocere. Per una mia mancanza, lasciai il gas acceso e per poco non ci rimettevo la pelle.
Matt, il figlio dei vicini, sentì lo scoppiò e chiamò subito l'ambulanza e i miei. Se non fosse intervenuto così tempestivamente probabilmente non me la sarei cavata con solo una cicatrice.
Durante la convalescenza mi stette sempre vicino, stringemmo una forte amicizia e in tutto il tempo che lo conosco non abbiamo mai litigato.
E poi, beh, è facile capire com'è andata: Misa ha conosciuto Sayu e Matt ha perso la testa.
Poco male, almeno è felice.
Bei tempi: ricordo che non avevo nemmeno un momento per sentirmi male, niente preoccupazioni, niente cattivi pensieri …

Perché quel ragazzino si era messo in mezzo, sconvolgendo il mio già precario equilibrio?
Perché aveva distrutto così facilmente la mia tanto sospirata tranquillità?

Eppure …
La domanda più importante a cui dovevo rispondere era perché vederlo piangere mi avesse toccato così tanto. Dov'era finita la mia forza?
Forse ci vedevo un po' me da piccolo, quando tentavo invano di nascondere la mia tristezza, per questo ne ero rimasto così colpito…
NO!
Mai più dovevo lasciarmi trascinare in un turbine di tormento, vi ero stato anche troppo tempo. Lascia perdere, ecco cosa dovevo fare.

Tuttavia, la convinzione spesso non porta a niente: per quanto sei determinato, per quanto tu sia testardo, non puoi battere l'inconscio.
Non è come una sfida per dimostrare quanto si vale, per dimostrare le proprie capacità, non è qualcosa che controlli.
E' il tuo io più intimo, quello che mai potrai ignorare, perché anche se è inopportuno e fastidioso ciò che ti sussurra all'orecchio sai che è la verità: ti sbatte in faccia i tuoi sentimenti e ti dice di affrontarli.
Ed io non volevo ritornarci più. Ma dovevo: non fidarsi dell'inconscio è come non fidarsi di sé stessi ed io avevo grande fiducia in me.

 


Erano le dieci emmezza del mattino: le ragazze avevano insistito nel prendere il pedalò ed ora ci trovavamo ad una ventina di metri dalla costa.
Mia sorella e la sua amica continuavano a tuffarsi dallo scivolo, mentre io mi abbrustolivo accanto al timone, senza troppi pensieri per la testa. O perlomeno, niente che minacciasse la mia tranqillità.
Al momento mi stavo chiedendo perché Light non si unisse a noi: ogni volta che le ragazze gli proponevano qualcosa rispondeva che doveva studiare, o qualcosa del genere. Come faceva lo sapeva solo lui.
Le ragazze ridevano e si schizzavano a vicenda, invitandomi a tuffarmi con loro, ma non ero molto in vena. Le due non si offesero, continuando i loro giochi.

La giornata trascorse molto in fretta, il pomeriggio alle terme e la sera a ballare. Ignorai leggermente infastidito il look come al solito troppo appariscente di mia sorella, suggerendole solamente di prendere spunto da Linda, decisamente più sobria.
Una volta in discoteca venimmo investiti dalla solita musica a tutto volume, mentre i ballerini danzavano sotto le luci della stroboscopica, il barista serviva cocktails a volontà e alcune coppiette erano intente a scambiarsi effusioni sui divanetti.

Le ragazze non persero tempo e corsero a scatenarsi, mentre io mi dirigevo annoiato verso il bancone e ordinai un'Havana, il quale arrivò subito.
Sorseggiavo il mio alcolico osservando il dancefloor distrattamente, gettando di tanto in tanto un'occhiata verso le grandi finestre.
Ad un tratto rischiai che il drink mi andasse di traverso.
Una piccola figura camminava silenziosamente sulla spiaggia, a capo basso. Un leggero venticello le scompigliava le chiome chiare come la luna, intrufolandosi sotto gli abito candidi e larghi.
Lanciai in fretta un pezzo da 10 sul bancone e scappai fuori dal locale.




Secondo l'orologio digitale sul comodino era mattina inoltrata. Avevo aperto gli occhi con fatica, non capacitandomi completamente di ciò che era accaduto la notte precedente.
Il ragazzino, quegli occhi vuoti, e poi lo svenimento mi sembravano surreali. Purtroppo, girandomi sul fianco, mi trovai faccia a faccia con il figurino che avevo soccorso. I muscoli scattarono subito in risposta a quella vista, come se dovessi allontanarmi il prima possibile, ma ero ancora troppo addormentato per rendermene davvero conto, così rimasi immobile sotto il lenzuolo fresco e leggero. Lo osservavo di sottecchi che dormiva ancora profondamente e non potei che sentirmi turbato ancora una volta. Continuavo a non capire.
Poi realizzai che ero ancora vestito: la pelle degli abiti mi si doveva essere appiccicata addosso, sentivo un certo prurito, così svogliato scostai le coperte e mi alzai in piedi, scuotendomi la chioma bionda e sbadigliando. Afferrai distrattamente un paio di boxer ed entrai nel bagno, facendo scorrere l'acqua della doccia mentre mi spogliavo velocemente.
Immergermi sotto quella cascata d'acqua fresca era davvero un sollievo. Insaponai per bene la spugna e mi strofinai con vigore tutto il corpo, per poi massaggiare anche i capelli.
Quando fui abbastanza rilassato chiusi a malincuore il getto ed uscendo sul tappeto, frizionandomi le ciocche bionde che mi pendevano davanti al viso e picchiettando l'asciugamano sulla pelle umida.
Una volta finito tornai di là, pronto ad affrontare il ragazzino, il quale stava ancora bellamente dormendo sul letto fuori misura.
Sospirai, e mi accomodai su una poltrona, con tutt'intenzione di parlargli una volta svegliato.
Non dovetti aspettare molto: una mezz'oretta dopo lo vidi agitarsi un po' sotto le lenzuola, per poi strizzare gli occhi alla forte luce del sole estivo di Miami. Spalancò immediatamente le palpebre, sorpreso dall'ambiente in cui si trovava e scattò a sedere.
Non appena mi vide si spinse all'indietro, contro i cuscini morbidi e mi guardò di sottecchi, diffidente.
«Cosa ci faccio qui?», domandò.
La sua voce era completamente diversa da quella che aveva utilizzato la sera precedente: stavolta era chiara, decisa e – inspiegabilmente – annoiata.
Non mi alzai dalla poltrona, ma continuai a scrutarlo da sotto la frangia, addentando la tavoletta di cioccolato che avevo scartato poco prima che si destasse.
«Ti ho salvato la vita», rimbeccai con tono altrettanto indifferente. «Ieri notte hai tentato di buttarti giù da uno scoglio, ho fatto appena in tempo a tirarti indietro che mi sei svenuto tra le braccia».
Il ragazzino strinse gli occhi d'onice, guardandomi con diffidenza, soppesando le mie parole per decidere se stessi mentendo o meno, mentre il mio cervello lavorava febbrilmente. Il piccoletto sembrava non essere consapevole di come si fosse comportato qualche ora prima ed io capii che alla risposta ci sarei arrivato solo con parecchia calma.
Alla fine sembrò aver preso una decisione e mi rivolse un nuovo quesito. Stavolta nel tono vi era un punta di sconcerto e curiosità che non compresi.
«Tu … ti chiami Mihael», sentenziò, in trepidante attesa di una risposta.
La cosa mi stupì: come poteva saperlo se non ricordava nulla? Però annuii.
«Mi conosci?», domandai cauto.
«Più o meno». Ora sembrava in imbarazzo. «Ti ho visto in sogno».
Tanta schiettezza mi metteva a disagio. Sognava me? Non aveva alcun senso. Non sapevo come replicare, così rimasi in silenzio. Dal balcone aperto giungeva alle orecchie lo sciabordio rassicurante delle onde e gli schiamazzi delle famiglie in spiaggia.
«E tu chi sei?», feci infine.
«Nate River», rispose subito.
Ghignai. «Piacere mio, Nate. Ma ora dimmi... perché continui ad andare alla scogliera?». Assottigliai lo sguardo, sinceramente desideroso di scoprirlo, ma Nate si oscurò. «Cercavi forse di ucci-...».
«Non era ciò che stavo facendo»
, mi interruppe subito. Sentivo il suo fiato caldo sul viso, le sue guance imporporate erano adorabili.
«E allora, di grazia, che combinavi?».
Le sue labbra tremarono appena, ma non distolse lo sguardo. Ero sinceramente curioso.
TOC! TOC!
Un'imprecazione sfuggì dalle mie labbra e tornai in posizione eretta, avviandomi alla porta.
«Sì?», chiesi scocciato.
«Mello! Io e Linda andiamo a fare shopping, torneremo per l'aperitivo, ok?».
Bofonchiai qualcosa di incomprensibile che non capii neppure io.
«Che stai combinando?». La sua voce era sospettosa. Vidi subito la maniglia abbassarsi e la fermai.
«Niente, Misa. Non perdetevi», feci annoiato.
«Uff… cerca di uscire un po'», mi rimproverò e finalmente sentii i tacchi di mia sorella allontanarsi nel corridoio. Quindi tornai ad occuparmi del piccoletto, che osservava assente le onde.

Ancora … Ma che gli prende?
«Nate», lo chiamai ma non mi rispose, così mi avvicinai di nuovo, posandogli una mano sulla spalla e si voltò, posando lo sguardo perso su di me.
«Stai bene?».
Sembrò indeciso e annuì non troppo convinto, voltandosi. Ci fu qualche attimo di silenzio che trascorsi a chiedermi il perché di tutto ciò, quando lui parlò di nuovo.
«Il mare ha una potenza che pochi conoscono: è crudele e bellissimo, sì… tanto affascinante, totalmente privo di sentimenti…».
«Cosa?»
, chiesi disorientato.
«Non trovi anche tu?». Non mi lasciò il tempo di rispondere. «I suoi spiriti mi chiamano, la notte».
"Delira”, pensai, mentre tornava a guardarmi.
«Sai, Mihael, che hai il nome di un angelo?», mi interrogò, serio.
Scossi la testa. Non mi ero mai interessato a certi argomenti e dopotutto non capivo cosa potesse significare.
«E allora?».
Strinse gli occhi.
«Questa notte vieni con me».

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Capitolo 4
*** Darkness ***


Sto aggiornando entro un anno, non ci posso credere!
La storia ha preso una piega – appunto – inaspettata, e
spero la cosa non vi disturbi.
Buona lettura!

Susy

 

 

 


DARKNESS


Il mare di un profondo blu scuro riposava placidamente sotto il cielo notturno, le stelle offuscate dalle luci della città. Le onde sciabordavano quiete, infrangendosi dolcemente sul bagnasciuga, tingendo la sabbia fina e biancastra di tonalità più intense con la risacca.
L’odore salmastro penetrava ovunque mentre spruzzi d’acqua cristallina si alzavano contro gli scogli e le gocce ricadevano con grazia nell’oceano.
Ormai quel posto – con mio gran disappunto – quel luogo mi era diventato familiare in un modo che non mi sarei mai aspettato; di sicuro la mia vacanza non l’avevo immaginata così.
Dannazione a te, Matt, che ai scelto questo posto maledetto!”
Nate camminava lentamente davanti a me, come in trance. Mi aveva avvertito che probabilmente non avrei capito, e di quello anch’io ne ero certo.
Giunti alla scogliera infilai le mani in tasca, strette a pugno, per non avere la tentazione di fermarlo; tuttavia assottigliai lo sguardo, i muscoli in tensione come quelli di una pantera, pronto ad intervenire se fosse stato necessario.
Osservai il ragazzino procedermi leggero, fermandosi sulla sporgenza più estrema, e lo udii sospirare piano.
Il suono ritmico delle onde era l’unica fonte sonora in quel silenzio: rassicurante, continuo… faceva quasi venire sonno, e mi ritrovai a non sapere più se fossi in stato di dormiveglia o ancora incatenato alla realtà.
Scossi la testa, ma lo sciabordio dell’oceano mi costringeva alla quiete e al rilassamento. I miei nervi si sciolsero, portandomi a chiudere gli occhi.
La voce del mare…. Ecco, forse ora la sentivo… chiara, cristallina e delicata, dolce quanto quella di una madre che canta la ninnananna al proprio bimbo.
«…hael…», mi parve di sentire. Di sicuro era tutta un’allucinazione.
«Mihael…».
Ero stanco, senza dubbio. Un tremito mi scosse, come se un fantasma mi fosse passato dietro le spalle.
«Mihael!».
Spalancai gli occhi e Nate si voltò verso di me con un sorrisetto ambiguo.
«L’hai sentita, vero?».
Il mio sguardo si fece preoccupato, mentre mi riscuotevo dal torpore che mi aveva preso.
Sono pazzo, ecco la risposta”.
«No sei fuori di testa… anzi, mi sarei sorpreso se non avessi udito nulla».
«Chi era?»
, domandai, chiedendomi perché ne stessi discutendo invece di tornarmene in albergo.
«Non lo so», rispose semplicemente. «Ma sento che devo capire qualcosa».
«E cosa centro io?»
. Ora mi stavo irritando. «Come può volere qualcosa da me o da te senza spiegarlo?!».
«…».
«Andiamo Nate! Tutta questa storia è un’enorme cazzata!»
, imprecai voltandomi, pronto a tornare indietro.
«MIHAEL KEEHL!».
Mi pietrificai, un brivido freddo mi corse lungo la schiena. Non osai dare un passo finché un palmo freddo mi si posò sul braccio nudo. Allora mi girai lentamente, una brezza leggera che portava alle nostre narici l’odore salmastro del Pacifico.
Il vento si alzò e le increspature sulla superficie del mare si moltiplicarono. Le onde cominciarono pian piano ad alzarsi, la scogliera frustata violentemente dall’acqua, gli spruzzi sballottati nell’aria ci bagnavano e ben presto ci ritrovammo inzuppati da capo a piedi.
E poi, un muro d’acqua ci travolse, spingendoci verso l’oceano, la violenza degli impatti ci fece perdere l’equilibrio. Ad un certo punto Nate venne sbilanciato, e cadde all’indietro.
«Mihael!».
Sgranai gli occhi ed allungai una mano, afferrandogli il polso per trattenerlo.
«Nate!».
Il ragazzino però aveva perso stabilità e continuò a cadere all’indietro come al rallentatore, precipitando verso il mare. Lo seguii, strattonato con lui verso i flutti.
Sprofondammo nell’acqua gelida e salta, metro dopo metro, finché non mi sfuggì la presa, solo per un istante.
«Nate!», urlai, ma dalle mie labbra non uscì altro che un fiume di bolle.
Mi affrettai a riserrarle, ignorando il bruciore agli occhi ed alla gola e prendendo a scalciare per raggiungere l’albino.
Inorridii, vedendolo affondare nell’abisso, gli occhi d’onice spalancati, la bocca aperta in un muto grido.
Più scendevamo, più il mio fiato andava scemando, la mente confusa, l’immagine di Nate sempre più sfocata…



Nero. Aprii gli occhi e non vidi altro che greve oscurità.
In che luogo mi trovavo? Dov’era il mare?
La testa mi pesava. Provai a farmi forza e sollevarmi, ma non trovavo un punto d’appoggio sotto di me. Ero sdraiato?
Mossi le gambe, come se vi fosse un pavimento. Le suole delle scarpe non incontrarono ostacoli, non vi erano piani d’appoggio, eppure avanzai.
Ma verso dove?
Provai a girarmi, guardare in alto ed in basso, ma non c’era niente. Frustrato, sedetti. Non galleggiavo, era come se l’aria – potevo chiamarla così? – fosse solida e tuttavia non sentivo superfici. Pensai non vi fosse gravità, ma era come se essa fosse tutta intorno a me.
“… sono morto?”.
Sospirai. Niente vapore, niente suono.
Pensai a Nate. Cosa gli era successo? Perché non si trovava con lui?
Se questo è un sogno, voglio svegliarmi…”
Ma non accadde niente.
Cominciai a correre, in quale direzione non lo sapeva, il nulla incombeva su di me, attorno a me.
Non so per quanto errai, in quella dimensione senza spazio, tempo o materia che fosse. Ero stanco, ma le gambe non erano affaticate. Avevo fame, ma lo stomaco non reclamava di essere riempito.
Nero, nero, nero. Proprio come il colore che tanto amavo.
La mia testa dorata sarebbe galleggiata, in tutto quel nero, se vi fosse stata luce. Provai a guardarmi le mani, il corpo e non vidi nulla. Mi toccai il ventre, le gambe e constatai che perlomeno possedevo ancora carne ed ossa.
Tentai nuovamente di guardarmi attorno, ma non esisteva un “intorno”, né un confine, o una parete. Nessuna porta, tetto, via di fuga.
Non c’era odore.
Non c’era niente, solo il nulla.

Sedetti su quell’oscurità, sdraiandomi e chiudendo gli occhi, sentendomi simile ad un’ombra.
E come esco da qui?”.
Volevo liberare la mente. Scossi la testa, cercando di abbandonare le preoccupazioni, per poi riaprire le palpebre.
Tsk…!”
Non appena riaprii gli occhi dovetti subito riserrarli: una luce mi sovrastava, accecante.
Ma c'era già da prima o era apparsa solo in quell'istante?
Mossi subito le gambe, cominciando a capire come muovermi in quello strano mondo, avanzando verso lo spiraglio, finché non fui a pochi metri di distanza.
Non era una feritura, né una porta... più un varco.
«Mihael…».
Ancora la voce.
«Si può sapere chi diavolo sei? Cosa vuoi da me e Nate?!», gridai, ma pur avendo mosso le labbra, non udii il mio urlo. La mia domanda rimbombò nel tacito buio che mi circondava.
E poi, la voce parlò.
«Mihael… devi proteggere Nate».
«Che-…».
«È il tuo compito».
«Ma io-…».

Non capivo, e feci di tutto per non sembrare un bambino capriccioso.
«Ora saprai tutto».
Ed una figura perlacea, incorporea ed evanescente emerse dalla luce. Contro quell’oscurità pareva fatta di fumo.
Indietreggiai, sulla difensiva, scrutandola dall’alto in basso
La figura sorrise – o almeno, così gli parve – e dopo un attimo di silenzio sussurrò, come un soffio impalpabile. Non ero neppure certo che quel suono fosse risuonato, magari lo sentivo solo nella mia testa.
«Il mio nome è
Lecabel, Coro degli Angeli Dominazioni, custode dell’Opportunità».
Rimasi in silenzio, confuso, rimuginando. Era assurdo, era troppo. Eppure, con tutto quel casino non riuscii ad escluderlo e tentai di mostrare un minimo di gentilezza.
«Molto piacere».
Lecabel chinò il capo, in un gesto di cortesia.
«E tu»¸ continuò, «sei
Mihael, Coro degli Angeli Virtù, custode della Procreazione».
Il mio cervello rifiutò quelle frasi, senza capire. Non era possibile. Era tutto un sogno. Sospettoso, si rifugiò nel sarcasmo.
«E com’è che non sono traslucido come te?», chiesi bruscamente, con diffidenza.
«Perché i tuoi natali sono piuttosto singolari, quasi unici, direi».
Attesi, senza neppure sapere perché.
«Nelle Sfere Celesti vi è un solo divieto: agli angeli è proibito avere eredi. Sono disposizioni divine, non ci siamo mai interrogati sulla motivazione, ma è evidente che c’è stata una buona ragione». Mi indicò. «I tuoi genitori infransero la Sacra Legge e nascesti tu. Come punizione, furono condannati alla mortalità».
Finsi di accettare quella spiegazione.
«E Misa?».
«Tua sorella è stata concepita e partorita sulla Terra».

Certo, certo…”
L’angelo sembrava aspettarsi il mio scetticismo – doveva solo provare a biasimarmi – e proseguì.
«Da piccolo ti capitava spesso di venire scambiato per una bambina?».
Ignorando il tuffo al cuore – ero certo di non averlo mai confidato ad anima viva – annuii, ricordando poi con un ghigno le espressioni imploranti di quegli idioti che finivano sempre col chiedergli scusa.
«Gli angeli sono androgini. Solo ad una certa età si sviluppano i caratteri sessuali».
Tacemmo.
Ancora non sapevo se prendere per vero quel racconto o continuare ad infischiarmene, ma anche se ultimamente ero stato molto nervoso, ero ben lontano dal punto in cui si sarebbero dovute avere allucinazioni. Ero certo che Nate esistesse, che stessimo annegando… quindi, se non era morto, si trovava perlomeno in un posto irraggiungibile.
Lecabel continuava a sorridere, mentre rimuginavo sulle sue parole.
Io un angelo…?”, pensai frustrato, grattandomi la nuca per scaricare la tensione.
Schiere Celesti, ordini, Cori… ma esisteva davvero un Dio? Era una gerarchia a sé?
Sbuffai, confuso, massaggiandomi le tempie.
Cos’aveva detto
Lecabel?
«Perché devo proteggere Nate?», domandai con tono allarmato, i muscoli in fermento.
La luce irradiata dal sorriso dell’angelo svanì.
«Non siamo i soli che controllano quel ragazzino». La voce si era fatta più cupa, e mi predisposi ad ascoltare con più attenzione.
«
Belial, l’Angelo Rinnegato. Anch’egli vuole l’anima di Nate».
«Ma perché è tanto interessato alla sua anima? Nate è ancora… vivo…»
, terminai, la frase svanente mentre cominciavo a capire.
Non sapevo ancora se avessi accettato quella storia, ma non avevo molta scelta.
«No, infatti. È in coma, in perfetto equilibrio tra vita e morte. Riteniamo che non sia ancora la sua ora, ma
Belial non è d’accordo. Finché la sua presa su Nate non verrà allentata non potremo salvarlo».
«Capisco».

Ecco, adesso i contorni non erano più così sfumati… e mi spiegai perché nessuno pareva aver visto quel ragazzino latteo.
Pensò al mare, a quello che Nate gli aveva raccontato, che Mihael era il nome di un angelo.
Lecabel, notata la mia nuova determinazione, mi si accostò, cingendomi le spalle e prendendo ad avanzare verso la luce, sempre più accecante.
«Aspetta». Mi bloccai di colpo, e l’angelo mi guardò interrogativo. «Come combatteremo
Belial? Dove…?».
«Come faceva Nate a conoscerti?»
, rispose subito Lecabel, e compresi.
«Un sogno».

 

 


Avevo il mal di mare, come se fossi su un canotto in mezzo all’oceano.
Prima ancora di aprire gli occhi provai a puntellarmi sulle mani per sollevarmi; feci leva, ma non resistetti due secondi che avevo già ceduto, la faccia schiacciata contro la sabbia umida del bagnasciuga.
Sono sulla spiaggia…?”
E poi, in un lampo, mi ricordai della tempesta, Nate che affogava, il buio, l’angelo…
«NATE!», urlai a gran voce, scattando a sedere per poi barcollare, reggendomi la testa. Il capogiro mi procurò una nausea tremenda. Repressi il conato e dopo aver fatto due respiri profondi mi guardai intorno.
Il lido era identico a quando vi eravamo giunti, l’unica differenza era il sole che sorgeva ad oriente, tingendo l’immenso specchio d’acqua salata di tonalità rosate, violette ed arancioni.
È l’alba…”
Mentre mi sfregavo abiti e capelli per rimuovere quei dannati e fastidiosissimi granelli, abbassai lo sguardo e notai il corpo – o quello che era – di Nate.
Lo scossi, chiamandolo più volte finché il ragazzo non cominciò lentamente a muoversi.
«Mihael…», lo sentii mormorare e lo aiutai a girarsi pulendogli il viso.
Il piccolo strizzò gli occhi e finalmente aprì le palpebre. Le sue iridi nere cercarono subito le mie, e gli sorrisi.
«Sono qui».
«Hai visto qualcosa?»
, domandò tra il curioso ed il preoccupato.
«Sì. E tu?».
Nate rabbrividì.
«Cos'è successo?», chiesi, con una voce più ansiosa di quanto avrei voluto.
«Uno spirito... mi voleva», confidò. «Non volevo andare con lui una voce mi diceva di non farlo... era tutto così buio...».
Lo interruppi, turbato dal terrore che traspariva da quelle parole, abbracciandolo forte ed accarezzandogli la chioma candida.
«Ssh...», lo rassicurai. Non sapevo perché d'improvviso mi stessi comportando in modo così premuroso, ma mi venne naturale.
«Ti proteggerò io».

 

 

 

 

Angolo dell'autrice:
I nomi di quegli angeli non li ho inventati,
ma esistono davvero.

Fate attenzione al font del carattere degli angeli,

vi aiuterà a figurarveli meglio!^^

A presto!
Susy

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