I muri dei mondi

di Amy Tennant
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una fine ***
Capitolo 2: *** I Tempi degli uomini ***
Capitolo 3: *** L'amore Umano ***
Capitolo 4: *** Legami insidiosi ***
Capitolo 5: *** Le ombre nella memoria ***
Capitolo 6: *** La Genesi di un'Anima ***
Capitolo 7: *** Un filo di fiato ***
Capitolo 8: *** Una vita per una vita ***
Capitolo 9: *** Sonni e incubi ***
Capitolo 10: *** Empatia (I) ***
Capitolo 11: *** Empatia (II) ***
Capitolo 12: *** Sensi (I) ***
Capitolo 13: *** Sensi (II) ***
Capitolo 14: *** Sensi (III) ***
Capitolo 15: *** I tuoi occhi e la sua voce (I) ***
Capitolo 16: *** I tuoi occhi e la sua voce (II) ***
Capitolo 17: *** Intrecci e labirinti ***
Capitolo 18: *** Meravigliosa ma già esistente ***
Capitolo 19: *** Menti e menzogne (I) ***
Capitolo 20: *** Menti e menzogne (II) ***
Capitolo 21: *** Menti e menzogne (III) ***
Capitolo 22: *** Io credo in Lei ***
Capitolo 23: *** Essere e non essere ***
Capitolo 24: *** Il passato presente ***
Capitolo 25: *** Io sono ***
Capitolo 26: *** Spazi e Tempi ***
Capitolo 27: *** Umanità ***
Capitolo 28: *** Un ultimo respiro ***
Capitolo 29: *** Il buio per una stella ***
Capitolo 30: *** L'Uomo impossibile I ***



Capitolo 1
*** Una fine ***


La neve cadeva dolcemente fuori e John stava in piedi davanti alla finestra con sguardo scuro, fisso e lucidissimo. Le luci della strada e degli addobbi che si intravedevano dalle altre case, si riflettevano nelle sue iridi come fiammelle ma i suoi bei lineamenti erano tesi. Non era preoccupazione era qualcosa di spaventosamente fisico, presente. Era proprio dolore.
Il suo fiato era fumoso come vi fosse freddo e non c’era, lo sapeva. Ed era stato così forte da svegliarlo e portarlo lontano dal suo letto e dal sonno tranquillo di Rose, nella stanza accanto. Tormentato da qualcosa che non comprendeva aveva cercato umanamente conforto nel cielo e rivolto lo sguardo alle stelle, ma le luci attorno avevano spento i deboli riflessi di un altrove che ancora ricordava e sentiva addosso. Pensò che ironicamente lì era tutto diverso. Non conosceva i mondi paralleli di quell'universo. Si chiese come potessero essere rispetto agli altri in cui era stato.
Era tutto diverso ma simile. Mai visto. Non dagli occhi che aveva e non da lui.
Inquieto, John ascoltò il suo respiro "umano". Il dolore lo toccò dentro all'improvviso e lo fece lamentare piano. Strinse le dita sulla sua veste da camera e si guardò la mano, preoccupato. Aumentava, non diminuiva. Forse stava succedendo di nuovo.
Come due giorni prima, in un laboratorio di Torchwood dove era impegnato nel suo personale progetto. Fortunatamente era accaduto quando era da solo. Aveva percepito qualcosa di strano, qualcosa che non aveva compreso fin quando non gli aveva fatto del male. Si era sentito attraversare un dolore spaventoso, annientante. Era crollato a terra senza che potesse rendersi conto di quel che stava succedendo.
Aveva cercato di sopportare il dolore ma si era sentito dilaniare da una violenza invisibile ed alla fine aveva gridato, aveva gridato disperatamente fino ad arrivare ad una soglia che non poteva più sopportare e quindi i suoi occhi si erano chiusi. Per la prima volta.
Quando si era svegliato tremava, tremava così tanto che stravolto aveva guardato le sue mani aspettandosi di vederle brillare per poi ricordare che non sarebbe mai più accaduto.
Non a lui.
Senza dire nulla a nessuno si era recato nel reparto medico di Torchwood e chiesto di essere visitato con la scusa di un certo senso di debolezza. Le analisi lo avevano trovato in condizioni "normali" in relazione al diverso standard fisico che gli era proprio - a parte alcuni valori, indici di un certo stress - e quindi non si trattava di un possibile processo di disgregazione cellulare, cosa che aveva temuto. Su di sé in realtà aveva timori inconfessabili ma cercava di non concentrarsi su quello. Pareva andare tutto in modo diverso da come avrebbe mai previsto in teoria e quindi si limitava a seguire la sua esistenza in divenire. Qualcosa però gli diceva che ciò che percepiva, la stranezza che sembrava sfiorare il suo corpo come fosse una corrente a volte, dipendeva da qualcosa che lo legava all'universo parallelo in cui si era generato. Il misterioso istinto da signore del Tempo che gli apparteneva, sapeva che c’era qualcosa che lo legava ancora a quella dimensione dalla quale proveniva, ma come non credeva e certo in modo che non aveva ancora compreso. Ciò lo inquietava profondamente e forse per questo non aveva detto nulla a Rose, per proteggerla. Quello che gli era successo però aveva lasciato traccia dentro di lui.
Era la Morte quella cosa che lo aveva toccato tanto profondamente? Era a quel modo che il corpo precedente si perdeva per sempre? Era spaventoso.
Finire un’esistenza non era mai stato facile ma per tutta la sua decima rigenerazione l’idea l’aveva tormentato come mai prima da allora. Avrebbe davvero desiderato poter restare quella persona per più tempo che altre volte ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato tale per quanto avrebbe voluto.
Ogni volta la persona che era prima moriva, ogni singola cellula, ogni cosa che era stata. Certe cose restavano tali ma altre mutavano del tutto. Vedeva le cose con altri occhi, le toccava con altre mani.
Il cibo aveva un sapore diverso e persino toccare era differente. Anche Rose era cambiata con lui, in quel momento. E se i sentimenti per lei prima erano stati di tenerezza e protezione, appena si era svegliato nel nuovo corpo l’aveva guardata e trovata così bella da restarne confuso. Toccarla, stringere le dita nelle sue, era stato infinitamente più dolce.
Nell’eccitazione del momento, con la rigenerazione che non era andata esattamente per il meglio e nella confusione di quel che era seguito, non aveva compreso subito il senso di quella differenza ma era stato chiaro quando si erano guardati la prima volta e sorrisi. Neanche lei, prima di allora, gli aveva sorriso a quel modo e quindi non era poi vero quel che aveva sempre pensato, ossia che il suo corpo fosse così poco importante in fondo.  Era importante per lei.
Così lo era diventato per lui.
Il giovane che si specchiava incuriosito era così diverso dall’uomo che lo aveva preceduto in tanti sensi e per i sensi di Rose. La sua Rose. Bellissima e dolorosa insieme.
Lo aveva capito subito benché non conoscesse quel sentimento.
Non pensava di poterne essere toccato; non di colpo e in modo così dolce, così umano. Viaggiare con lei non era più solo divertente, il Tempo non era una giostra di eventi sulla quale salire per spirito di avventura. Lui doveva proteggerla, doveva avere cura di lei. Ogni volta che l'abbracciava si accorgeva che era sempre più a lungo, che lei tremava quando lo toccava e il suo sorriso tradiva una speranza che era anche la sua, restare insieme per sempre. Il senso di solitudine che aveva cominciato a provare dopo la rigenerazione si era fatto più cupo e troppo spesso si trovava a pensare a come l’eternità potesse essere una condanna. Cambiava per sopportarla? Forse era terribile anche quel mutare in ALTRO. Per non perdere i suoi sentimenti, per non perdere lei… aveva iniziato ad avere paura di cambiare di nuovo e non voleva.
Era però possibile che LUI dovesse cambiare per forza, per qualche motivo. Ma altrove. E quindi?
Anche se quell’angoscia fisica glielo impediva doveva capire che stava succedendo e restare lucido.
La sua ipotesi al proposito era la più scontata: che si fosse rigenerato nella sua Undicesima vita e con notevole sofferenza, a quanto sembrava; ma il dolore continuava. Continuava ed era sempre più intenso. Cosa voleva dire?
John chiuse gli occhi e soffocò un gemito. Qualunque cosa fosse era intensa e lo faceva tremare dentro.
Era il gelo assoluto, che sorgeva da dentro il suo corpo come avesse avuto radici altrove, radici nere e vischiose che stavano riducendo le sue vene in qualcosa di vetroso. Inorridito osservò il suo respiro fumoso. Aveva paura. Strinse forte la mano al suo petto sul suo unico cuore che correva impazzito, forse troppo veloce per non fermarsi e probabilmente era così visto che iniziò a sentire un dolore lancinante e cadde in ginocchio portando una mano al muro per sorreggersi.
-          Dottore! – gridò Rose. John rivolse lo sguardo alla voce. Nella penombra lei quasi brillava, nella sua vestaglia chiara. Era sulla soglia della stanza e lo guardava spaventata. Doveva essersi svegliata e non lo aveva trovato accanto a sé. Rose corse verso di lui. Lo sorresse e lui la guardò come stordito - cosa c’è? Che… sta succedendo? – non l’aveva chiamato “John”. Succedeva sempre quando era nervosa. Lui la guardò e sebbene non fosse il momento e il dolore rendesse ogni cosa più crudele, pensò che lei era bellissima e vicina. Era calda e il contatto con lei gli diede sollievo – Dottore... tu stai soffrendo...!
-          Rose… – mormorò lui stremato  – non…  - rinunciò a finire la frase. Chiuse gli occhi chinando il capo. Tremava e lei lo strinse a sé più forte.
-         Dimmi perché... – la voce di lei era un sussurro impaurito. Per un momento John esitò a dirlo. Perché non voleva vedere quell’ombra nei suoi occhi, quell’istante di indecisione che pure restava sotto ogni suo sguardo d’amore rivolto a lui. Si fece forza e portò una sua mano al suo viso guardandola fisso.
-          Rose… Credo… credo che LUI stia soffrendo che… si stia… per rigenerare – Rose impallidì – e spero che...faccia presto! – soffocò un grido e la guardò con occhi lucidissimi, come di pianto –  è tremendo… io ho… paura…
-          Perché anche tu senti dolore? Perché tu…?
-          Io sono lui, Rose. Sono… LUI! Evidentemente un signore del Tempo è tale in tutte le sue parti e ovunque esse siano …
-          John… - quel nome anonimo ma che era diventato il suo. Lui le sorrise.
-          Dillo ancora… !
-          John…  – ripeté lei disperatamente – dimmi che non stai morendo, dimmi che…
-          Non lo so – rispose lui sofferente e le lacrime caddero dai suoi occhi bagnandogli il viso. Rose lo strinse disperatamente tra le braccia.
- Non morire, ti prego… non morire…!
-          Me lo hai già detto una volta – ed accennò un breve sorriso che però venne spento dal dolore. Era troppo, non sapeva che poteva succedere. Non doveva stargli così vicina. - Rose, vai! – disse e la sua voce sembrò piegarsi in un tono cupo – Rose… allontanati...! – lei continuava ad attirarlo a sé ma d’istinto John la respinse tentando di rimettersi in piedi. Lo fece barcollando e guardò Rose con occhi scintillanti di lacrime, ansimando. Il respiro correva, correva avanti, si sentiva sull’orlo dell’abisso e conosceva quella sensazione.
-          Sta… per succedere…  – disse stendendo le braccia. Tremava. Non doveva accadere a quel modo. Perché stava per succedere a quel modo? - io non voglio... non voglio! - gemette.
Rose non fece in tempo ad andare verso di lui che vi fu l'esplosione. La luce la colpì, abbagliante e assoluta. Quella luce.
L’aveva vista due volte, era terribile. Irreale, violentissima. Stravolta fissò il corpo dell’uomo che amava avvolto da un qualcosa che risplendeva come fiamma e che bruciava attorno in scintille terribili. Lui, in mezzo a quel bagliore accecante, sembrava arreso ad una volontà superiore alla sua ma il suo sguardo scintillava di pianto.
Sembrava resistere a qualcosa di infinitamente più forte ma ad un tratto lo vide chiudere gli occhi sconfitto.
-          No!!! – Rose gridò con tutta la forza che aveva.
La luce divenne più chiara e poi, si spense, lasciando che le ultime scintille si perdessero nell'ombra. Quando tutto finì, Rose si avvicinò al corpo che era crollato a terra.
Era spaventata.
Era cambiato?... era… morto? I riflessi delle luci fuori illuminavano appena il viso di quell’uomo. Un viso dolce e familiare.
Era quello del suo Dottore diventato abbastanza umano da poter restare con lei. Rose si inginocchiò accanto a lui e mise una mano tremante sul suo petto. Sorrise con un singhiozzo di pianto quando sentì battere il suo cuore. Correva e il suo respiro era veloce, come dopo un grande sforzo. Rose lo raccolse tra le braccia come già una volta e lui aprì gli occhi e la guardò. Le sorrise.
-          Ciao –  gli disse con un velo di voce.
-          Ciao – le rispose mentre le lacrime le bagnavano il viso. John sollevò un braccio e le accarezzò i capelli e poi la schiena.
-          Ti sei rigenerato in te stesso…
-          No… no, Rose – mormorò – solo…Lui è cambiato. E’ cambiato e ora io… sono solo... qui – lei lo strinse a sé e John si sollevò prendendo lei, tra le sue braccia. Rose iniziò a piangere e lui ad accarezzarla per darle conforto, stringendola al suo petto come tante altre volte. Forse era quello il momento in cui lei ricordava che non era colui a cui aveva detto “ti amo” la prima volta. Un solo cuore. Uno. John chiuse gli occhi baciandole i capelli. Sì, era giusto che piangesse per Lui, era giusto. Anche se gli faceva male, un male che non doveva avere senso. Rose lo piangeva perché lo amava e amava lui per questo.
Anche in John vi era una certa strana tristezza. Per secoli l'aveva chiamata in altro modo ma ogni volta era una morte a tutti gli effetti e una parte di sé... non c’era più. Emise un sospiro di tristezza, un sospiro sottile ma Rose alzò lo sguardo e lo fissò un lungo momento con occhi dolci, ancora umidi di pianto.
Non se l’aspettava, come era stato altre volte, ma lei lo attirò a sé risoluta e lo baciò. E lo baciò piano, delicatamente, come potesse farlo in mille pezzi e avesse paura di fargli male.
John allora sentì che non piangeva per quel che pensava ma per lui, che era lì con lei. Per la prima volta ricambiò il suo bacio senza nessun timore che lei non fosse con lui ma con l’altro e che attraverso di lui baciasse chi era rimasto al di là di quel muro per sempre.
Quel muro che aveva toccato anche lui.
Rose lo amava, lo sentiva chiaramente.
Amava lui. Piangeva perché aveva avuto paura di perdere l’uomo che le aveva detto di amarla e di poter restare con lei per tutto il tempo che avrebbe avuto.
John lasciò le sue labbra e le sorrise, sorrise pieno di speranza anche se ancora piangevano entrambi. Per la prima volta si sentì davvero con lei del tutto. E forse…
Dipendeva anche da quel che era accaduto.
Rose non sapeva che poteva voler dire una cosa molto importante, qualcosa che non pensava fosse possibile.
Ancora stanco e tremante John taceva, perché non era il momento.
Addosso aveva ancora la Morte, quella che aveva evitato per più di novecento anni. Si guardò la mano, le lunghe dita e il polso sottile. Era accaduto alla fine. Ora lui esisteva a quel modo solo lì, con lei. 

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Capitolo 2
*** I Tempi degli uomini ***


Quando la dottoressa Catherine Lane entrò nella stanza vide che lui era già lì e si irrigidì.
Non avrebbe voluto ma non era qualcosa sulla quale potesse avere controllo.
Lo vedeva e succedeva. Le sue mani iniziavano a tremare, a sudare, lo stomaco sembrava premerle sul cuore e la sua voce si alzava troppo di tono, tanto che più di una volta l’aveva visto fissarla con sguardo interrogativo e sorpreso, come davvero non si rendesse conto dell’evidenza della cosa ma cercasse una surreale spiegazione ad un fenomeno così fisico come l’attrazione.
Lei, una donna adulta, neanche una ragazza alle prime esperienze, turbata da lui come da nessun altro prima. Si sentiva male solo a pensarci. Tuttavia era accaduto perché lui non era come gli altri ma eccezionale. Lo si sentiva chiaramente avendolo accanto.
Ogni volta che lo guardava, assorto con il capo chino, le mani in tasca, perso nei suoi veloci pensieri su chissà quale mondo, lei restava ad accarezzare il profilo di quell’alta figura, sottile ma forte, che tanto sembrava giovane a volte, nonostante la profondità di uno sguardo vecchio di secoli.
Quando l’aveva visto la prima volta, era stata colpita proprio da quegli occhi scuri, grandi. Spalancati su quel che lo circondava con curiosità e un certo timore. Ma in lui era anche tipica un'ironica sfrontatezza che alleggeriva le questioni più gravi. L’aveva imparata a conoscere, come i suoi strani modi.
Strano uomo, John Smith.
Il suo viso lo conosceva da tempo ma quando Rose Tyler l’aveva portato da loro, credeva di avere davanti LUI prima che gli fosse detto chi era L’UOMO.
-          Non ho capito, lui sarebbe una sorta di copia? – aveva chiesto lei, professionalmente.
-          Che cosa?  - era rimasta stupita dal tono indignato e dai suoi occhi così brillanti spalancati su di lei in un’espressione profondamente offesa.
-          Lei non è…?
-          Io non sono un clone più di quanto non lo sia lei! – poi uno sguardo strano – lei è un clone?
-          Ma…!
-          Io sono il Dottore! – aveva detto sicuro persino spavaldo poi qualcosa l’aveva fatto irrigidire – ma… - aveva esitato – sono… in parte umano – l’aveva detto quasi con incredulità e questo l’aveva turbata, intenerita d’istinto.
Era stato allora che aveva notato Rose Tyler prenderlo dolcemente per mano. Lui l’aveva guardata con ansia alla quale la ragazza aveva risposto con un sorriso che era parso di incoraggiamento. Negli occhi della giovane aveva riconosciuto un dubbio, un dolore, l’indecisione. Lei per prima lo guardava con perplessità e un velo di qualcosa di indecifrabile, qualcosa che doveva esserci tra loro – Rose e il Dottore – ma forse non tra Rose il giovane che le era vicino.
Era però nei grandi occhi scuri di lui. Allora come in qualunque altro momento dopo.
-          Tu sei inavvicinabile per un’altra donna, purtroppo – pensò Catherine guardando John Smith, l’uomo cui avevano dovuto creare un’identità dal nulla, perché nessuno chiedesse troppo di lui. Prese respiro e sperò in un tono di voce più normale – Ciao! – non c’era speranza, allora. Le parve anche più stridula di quanto temesse. Se la schiarì. Lui continuava a guardare la griglia di fronte a sé – hey!
-          Ah, scusa. Ciao… – le rispose a mezza voce, quasi tra sé. Catherine sentì una fitta di fastidio ma doveva controllarsi e soprattutto, stargli lontana.
-          Pensavo di non trovare nessuno, visto l’orario.
-          Avevi lasciato qualcosa in sospeso? – aveva sorriso continuando a guardare lo schermo. Lei deglutì a fatica. Non sopportava quando sorrideva, era anche peggio – sei… molto silenziosa – mormorò John – sei preoccupata?
-          No… io ho solo…
-          Se ti riferisci all’analisi dei materiali che avevi iniziato ieri, l’ho portata a termine poco fa.
-          Non può essere! Devo ancora fare dei calcoli che…
-          Variabili conosciute, una cosa di poco conto, ci ho pensato io – aveva aggiunto distrattamente.
Lo guardò ammirata e inquietata. John Smith, sebbene avesse un corpo apparentemente umano, tale non sembrava a nessuno, soprattutto quando risolveva tutto con una facilità impressionante, se paragonata ai loro tempi. A volte sembrava si annoiasse molto. O forse la sua mente vagava altrove, dove non poteva raggiungerlo neanche Rose Tyler.
-          Cosa sta attraendo la tua attenzione? – lui l’aveva guardata. Catherine cercò di mantenere un contegno ma si irrigidì ancora.
-          Che cos’hai? – le chiese lui accorgendosi della cosa.
-          Nulla. Mi manca… un buon caffè.
-          Mi sembri abbastanza nervosa, stamattina.
-          Lo sono ogni volta che mi fai sentire stupida, John Smith – lui aveva accigliato la fronte perplesso – tu riesci a venire a capo delle cose con talmente tanta facilità…
-          Non sentirti stupida tu sei una delle donne più intelligenti che io abbia mai conosciuto – disse con tono rassicurante. Catherine gli sorrise – io ho solo vissuto più di te e visto molte cose o meglio… io sono così perché lo è LUI – percepì il velo di una certa strana amarezza nella sua bella voce ma anche qualcosa di diverso. Catherine si limitò ad annuire distogliendo lo sguardo dal suo viso ma gli si avvicinò e accanto a lui dovette trattenersi da non toccarlo, fargli anche una carezza di conforto.
Notò stranamente il suo respiro sembrava quello di qualcuno che avesse molto freddo. La temperatura del laboratorio era confortevole ma l’attenzione di John sembrava concentrata su altro.
-          Allora, Dottore, mi dici cosa ti ha portato qui a quest’ora?
-          Sono alle prese con un mistero spazio temporale – la sua espressione accigliata e pensierosa contrastava comicamente con il suo mezzo sorriso.
-          Sei vicino alla soluzione o ti diverte il problema?
-          Ho compreso parte del problema e sono alla verifica di un sospetto! – disse trionfante con un altro sorriso – però… ho trovato un problema nel problema.
-          Intricato.
-          Intrigante – precisò lui.
-          E sarebbe? – avevano davanti gli schermi del computer e una serie di dati che scorrevano velocemente. Catherine li riconobbe – aspetta, tu stai calcolando…
-          Lo sviluppo della sua crescita, della crescita del Tardis, sì!
-          Ah…!
-          Lo sviluppo di qualcosa che proviene da un altro mondo, che non potrebbe trarre energia da questo perché è sbagliata ed allo stesso tempo, per qualche strano paradosso… si sviluppa per come dovrebbe e molto più velocemente del previsto.
-          I dati dicono che il ritmo di crescita è raddoppiato negli ultimi tre giorni.
-          Molto più che raddoppiato, mia cara Catherine… - mormorò John pensieroso. Comprese dai suoi occhi che sapeva o per lo meno sospettava quale fosse il motivo.
-          Sai da cosa potrebbe dipendere, suppongo.
-          Può darsi – fece un mezzo sorriso profondando le mani nelle tasche. Del soprabito. Fu allora che lei notò che aveva ancora indosso il cappotto. Lo guardò perplessa.
-          John, stai bene?
-          Io sto sempre bene.
-          Hai addosso il cappotto e qui ci saranno almeno ventuno gradi.
-          Ho freddo – rispose lui con tono allegro, quasi esaltato – ho un freddo terribile e… penso che la mia temperatura corporea si stia abbassando, forse mezzo grado all’ora – Catherine impallidì.
-          Ma è assurdo…!
-          Suppongo si tratti di qualcosa che abbia a che fare con quel che mi è successo – disse piano quasi fra sé e poi rise.
-          Mi spieghi? Io non riesco a capire…
-          Mi sono rigenerato – disse semplicemente. Lei lo guardò sconvolta e John le sorrise – o meglio… LUI l’ha fatto – precisò con occhi lucidissimi – il che vuol dire due cose: io non sono più io e Lui non è più me.
-          John!!
-          Aspetta, aspetta, aspetta! – lui la guardò divertito con gli occhi spalancati dall’eccitazione – Undicesima rigenerazione, sconosciuta… - le prese una mano e la mise sul suo petto – io sono com’ero alla mia decima vita - lei capì e tolse la mano dal suo corpo come fosse stato incandescente e non sempre più freddo, come diceva.  A stento represse l’emozione e si irrigidì. Lui non si era accorto di nulla, come al solito.
-          Credo di aver capito – mormorò con un filo di voce.
-          In realtà non è molto difficile. Lui è cambiato e non so come. Non lo so! Però… è successo qualcosa anche a me. La temperatura del mio corpo si sta assestando su valori simili a quelli che avevo prima anche se… diversamente da prima non mi sembra così confortevole. E quando io sono cambiato il Tardis lo ha sentito. Il Tardis è telepatico ed è unito a me.
-          Ma tu sei umano!
-          Lo è il mio corpo, in parte. Ma non la mia mente. Il Tardis mi percepisce al di là di quel che sono fisicamente. Il Tardis guarda nelle anime – Catherine lo guardò esasperata.
-          Io non capisco, non capisco che cosa tu voglia dire!
-          Catherine, io non ho più due cuori e… ed effettivamente è un peccato, danno dei vantaggi – disse con tono serio ma gli occhi gli brillavano divertiti – eppure, nonostante la grave perdita e questo corpo differente ... io non sono umano. Per il Tardis io sono un signore del Tempo. In condizioni biologicamente eccentriche ma… è pur sempre quel che sono! Probabilmente in senso fisico appartengo troppo ad un universo opposto a questo, opposto per molti aspetti e… il Tardis forse dovrà portarmi via da qui il più presto possibile, solo che non so come, non capisco…  – Catherine ebbe un fremito istintivo. Non si trattenne e mise una mano su un suo braccio stringendolo. Vedendo che la sua espressione era cambiata, John mise una mano sulla sua, improvvisamente preoccupato – che cosa c’è?
-          Dovrai andare via da questo universo?
-          Sto cercando di capirlo.
-          I mondi sono chiusi, lo hai detto tu più di una volta!
-          Sembra che i muri dei mondi siano più elastici di quel che pensavano anche i signori del tempo – mormorò John – non si abbattono ma si piegano e forse… esiste qualche ponte temporaneo tra una fessura e l’altra, forse… si aprono a certe condizioni oppure tramite qualcosa che conosca entrambe le parti e faccia aderire gli universi come fa una mano destra ha con una sinistra.
-          Tu mi confondi e parli di un insieme di dubbi, ipotesi! – protestò Catherine.
-          Eppure il Tardis sta crescendo in fretta! Prima pensavo ci volessero almeno dieci anni! A questo ritmo invece avrà completato il suo sviluppo primario tra pochi  mesi.
-          Quanti?
-          Questo ancora non lo so – disse più piano.
-          Rose che cosa dice di questo? – Catherine vide i grandi occhi di John addolcirsi al nome ma allo stesso tempo velarsi di un’ombra.
-          Lei non lo sa - lui la lasciò e si allontanò un po’.
-          Rose qui ha la sua famiglia, il suo mondo…!
-          Rose non è di questo mondo.
-          Ma tutto quello che aveva altrove è sparito! Nell’altro mondo lei è morta!
-          LO SO – il suo tono era sofferto e infastidito insieme – ma… tutto questo, tutto quello che può voler dire è straordinario ed è…
-          Non mentire, non a me, no! – Catherine lo fissò risoluta come mai e lui di fronte a lei la ricambiava inquieto – tu sei felice di questo, vero? – aspettò una risposta ma taceva. Le labbra serrate in un freddo silenzio che però non era nei suoi occhi. Vi era in lui un’eccitazione forte, innegabile. Questo la feriva in un senso che non avrebbe dovuto e che la faceva sentire debole. Lui non comprendeva quanto la facesse soffrire ma Rose era l’unica cosa che lo raggiungesse nella profondità più nascosta di quell’animo a tratti indecifrabile. Sarebbe stata la sua lama, se per toccarlo dentro doveva fargli del male – tu hai dimenticato Rose Tyler, Dottore.
-          Non potrei mai!
-          Davvero? – Catherine sorrise ma fu quasi una smorfia di dolore – sono certa che così affascinato da tutto questo e da ciò che potrebbe dire, tu l’abbia considerata poco, quasi una variabile da calcolare all’ultimo minuto – vide che i suoi lineamenti ora erano tesi, come per il dolore. Aveva centrato il suo punto debole, si vedeva dall’espressione del suo viso. Catherine riprese più risoluta – è inutile negarlo, è così evidente! Se tu potessi andare via, se tu potessi riprendere ad apparire e sparire nelle vite degli altri a tuo piacimento… lo faresti, lo faresti di nuovo! – John distolse lo sguardo da lei, uno sguardo ferito profondamente  – senti spesso di non essere adatto a questa vita, vero? – silenzio, per un lungo istante che però non fu di tregua.
Lui continuava a tacere e Catherine sapeva che gli stava facendo sempre più male, lo capiva da come subiva le sue parole. Era in lui una paziente dolcezza, come quella di certi vecchi; lui in fondo lo era, vecchissimo e gentile, anche se nessuno lo ricordava perché sembrava giovane; e tanta delicatezza in un uomo così giovane era bellissima, affascinante. Lei ora la detestava.
E lo odiava, in quel momento.
Lo odiava perché ne era innamorata, non solo attratta. E la cosa le era stata tragicamente evidente quando aveva sentito che sarebbe potuto andare via. Le era mancato un battito nel petto, caduto come nel vuoto. Avrebbe voluto stringerlo, avrebbe voluto dirgli altre parole.
Avrebbe voluto toccarlo.
Il dolore che lui non comprendeva e ignorava, in lei somigliava alla disperazione. Piangeva dentro ma non voleva. Lei non poteva. Avrebbe voluto fargli il cuore a pezzi come sentiva il suo.
-          La vita di un essere umano è noiosa, ripetitiva; riduttiva, non è vero? – gli occhi di lei brillavano d’ira amara e la sua voce era tagliente  – tu…! Sei sicuro di non essere più umano di come credi? Io ti vedo molto umano, ora, in questo momento. Sei un egoista, un umanissimo egoista, John Smith! – finalmente lui la guardò e l’espressione dei suoi occhi la colpì dentro come un pugno. Ma continuava a tacere ed era insopportabile. Catherine reagì con altra cattiveria – tu non sei in grado di mantenere la promessa che le hai fatto!  – John sgranò gli occhi - non le hai promesso di restare? Non le hai promesso la vita?
-          L’ho fatto – mormorò.
-          Rose sa che vuoi andare via?
-          Probabilmente sarà necessario che io…
-          Allora sa che probabilmente la lascerai? – lui emise un respiro che le parve sofferto. Le rivolse allora uno sguardo lunghissimo e nonostante i suoi occhi scuri le parve tanto trasparente che lei tremò perché vi aveva misteriosamente percepito un abisso di solitudine passata e presente insieme ma sul fondo anche una luce brillare ferma, risoluta, una luce abbagliante.
-          Io non la lascerò mai – disse con voce ferma e Catherine sentì d’istinto quanto forte potesse essere John Smith, più di quanto non avrebbe mai saputo – ho lasciato Rose già una volta e non potrei farlo di nuovo. Avrei preferito morire del tutto, per sempre, dopo che è successo. Ed ora preferirei morire, che separarmi da lei – una lacrima bagnò il viso di Catherine che lo guardava smarrita. Il tono della voce di John era calmo ma molto dolce e triste, come il sorriso che le aveva rivolto nonostante le sue taglienti parole.
Ciò la fece stare anche peggio.
Lui era una creatura gentile. E mai come allora le fu chiaro perché Rose Tyler non fosse riuscita ad andare avanti con la sua vita e invece tentato l’impossibile per tornare da lui.
-          John… tu… - lui scosse il capo.
-          Io le dirò tutto, le dirò ogni cosa ma quando sarà chiaro esattamente quel che sta succedendo. Oggi sono qui per capirlo o per iniziare a farlo. E… se tu volessi darmi il tuo aiuto… - Catherine abbassò lo sguardo – ho bisogno del tuo aiuto, davvero – aggiunse – vuoi…? - Lei annuì piano.
-          Tra un po’ però ti accompagno in sala medica, vorrei che si capisse che cosa succede al tuo corpo.
-          Si raffredda – rise lui. Lei lo guardò severamente.
-          Un umano soffre, a quella temperatura.
-          Non io. Io sto sempre bene – ripeté per l’ennesima volta.
-          Tra mezz’ora ti trascinerò lì di peso, John.
Lui sorrise e le fece posto accanto a sé davanti alla griglia dei valori calcolati progressivamente dai computer, cifre sempre più lunghe, più inquietanti nel significato.
Catherine non si sbagliava, per un attimo aveva pensato a partire, scappare lontano, vedere mondi nuovi, avventurarsi in qualche mistero… ma mai, senza Rose. Mai più.
Quella donna gli faceva una pena infinita perché aveva capito cosa sentiva. Avrebbe voluto abbracciarla ma non le sarebbe stato di alcun conforto.
Con uno sguardo la invitò ad avvicinarsi di più ma quando gli fu accanto non la toccò.
Non le fece un gesto d’affetto che invece gli sarebbe venuto spontaneo perché la vedeva trattenere il pianto a stento.
Aveva notato da tempo come lei si agitasse davvero troppo, ogni volta che erano insieme. Era quello che succedeva a Rose quando lui le era vicino ed era stato lo stesso per lui con lei, praticamente da sempre. Se anche toccarlo casualmente per Catherine era difficile non era il caso di farla soffrire.
Soffriva a causa sua. Come tanti altri prima di lei e per vari motivi.
Il dolore che questo gli causava durava da secoli e John Smith era già carico di rimorsi e rimpianti come pochi altri in tutti gli universi.
Non invidiava la sua Undicesima vita, iniziata altrove; altri dolori da affrontare, altre separazioni e le lacrime che si lasciava alle spalle. Non era più in grado di sopportarlo, senza cambiare.
Ormai aveva solo un cuore e già così pieno di dolore da pesare a volte troppo, per un uomo solo. 

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Capitolo 3
*** L'amore Umano ***


 
 
Il vento spingeva le nuvole veloci su un cielo abbagliante di luce, luminoso come lo è solo prima della pioggia. Probabilmente il pomeriggio sarebbe stato pessimo, un’altra giornata d’inverno, ma era sempre così sotto Natale e Rose non ricordava una sola volta che durante le feste ci fosse stato bel tempo, se non per poche ore. Almeno questo non era cambiato, in quel mondo.
Abituarsi alle differenze non era stato facile. Diversa la Storia, la geografia politica; diversi i destini delle persone che aveva conosciuto nel suo primo mondo, quello per il quale era morta, e che invece lì non l’avevano incontrata perché non era mai nata.
Quando il pensiero vagava in quella direzione Rose si sentiva quasi persa, poi ricordava. Ricordava che chi l’amava era lì, con lei.
Sua madre, che finalmente sembrava essere più felice di come non fosse prima e non così sola. In quel mondo parallelo Rose aveva anche ritrovato suo padre, un uomo che l’istinto le diceva di amare incondizionatamente ma che non sembrava provare per lei gli stessi sentimenti, piuttosto un disagio strano, tale anche dopo tempo. La accettava ma non come “figlia propria” quando incredibilmente aveva sostituito una Jackie con l’altra e quindi avuto il figlio che desiderava con lei.
A volte Rose si sentiva di troppo, in quella grande e bellissima casa. Le mancava il quartiere, i cortili con le scritte sui muri lasciate per noia o solo per gridare qualcosa; le mancava qualcosa che non esisteva. In quel mondo infatti, quei palazzi non erano stati costruiti. Rose però non rimpiangeva nulla. In quel mondo c’era LUI.  
Era con lei al mattino, quando si svegliava spesso prima di lui e restava a guardarlo, addormentato accanto a sé, i capelli scompigliati, l’espressione dolce del sonno più profondo, il suo avvolgersi nelle coperte facendo peso con il corpo perché lei tendeva a rubargliele durante la notte.
John spesso non si svegliava quando lei lo accarezzava e si stringeva al suo corpo ma più di qualche volta la abbracciava e teneva stretta a sé d’istinto, come anche nel sonno avesse coscienza di doverla proteggere.
Lui sognava molto e spesso insisteva per raccontarle quel che vedeva, ed era una tragedia; facevano colazioni lunghissime, lei con la testa poggiata sulla mano e gli occhi semichiusi davanti al tè fumante e lui ad agitarsi per la cucina in preda all’eccitazione ripetendo anche cento volte “oh, Rose! Avresti dovuto vedere!”.
A volte Rose pensava che quello fosse l’unico modo che gli fosse rimasto per viaggiare, andare lontano e quindi i suoi racconti la rattristavano. Ma anche questo era essere “umani” e quindi prendeva coscienza che sarebbe stato così per sempre e lui l’aveva accettato. O per lo meno, lo aveva fatto per lei. L’aveva sempre ammirato per il coraggio, aveva iniziato ad amarlo per quello; forse.
John non la stava deludendo. Scegliere lei, scegliere di restare lì con lei era la cosa più coraggiosa che potesse fare.
Quando il coraggio mancava a lei, lui la prendeva tra le braccia, come aveva sempre fatto. Il suo calore la confortava, il suo modo di aprire gli occhi e guardarla ogni giorno, il suo sbadigliare come un bambino, la facevano sorridere e ridere. Ridevano molto, loro due insieme.
In fondo era sempre stato a quel modo.
Tranne che per quel primo periodo, difficile e strano.
Anche allora John aveva dimostrato una pazienza e un amore infinito, verso di lei. Aveva atteso, lasciato che lei cercasse dentro di lui quel che voleva trovare e che ritrovandolo, lo amasse per quel che era; colui che lei conosceva.
I pensieri di Rose vennero spezzati dal pianto della neonata e dal borbottare di Jackie.
Guardò sua madre. Curata, ben vestita. Sembrava avere dieci anni di meno ed era molto più bella. Nella grande sala, l’albero di Natale brillava addobbato da scintillanti creazioni di vetro, costosissime sicuramente. Pete non badava a spese, questo si era intuito da subito. E ciò nonostante, quando vide lo sguardo di Jackie sull’albero, pensò che anche lei aveva ripensato a quel Natale passato.
Era stato allora che Rose aveva capito come anche Jackie tenesse al Dottore.
-          Oh, tesoro… dicci come possiamo aiutarti! –
Le aveva sentito dire queste parole, al suo capezzale, mentre lui soffriva ed uno dei suoi cuori si era fermato per lo sforzo improvviso fatto troppo presto.
Certo quell’esperienza surreale aveva reso per loro ogni albero di Natale un po’ inquietante. Come la vista di Babbo Natale, che però in quel mondo parallelo non era vestito di rosso e bianco perché la CocaCola non aveva fatto quella famosa pubblicità. Jackie continuava a borbottare e Rose la guardò.
-          Ti piace l’albero, mamma? – le chiese con un sorrisetto.
-          Mi dà i brividi – disse Jackie avvicinandosi a Rose, la bambina in braccio che si lamentava debolmente. Aveva gli occhi azzurri di Pete ma le somigliava, lo dicevano tutti. L’avevano chiamata Elizabeth, un nome da principessa; molto diverso dal semplice “Rose” – oh, povera me, sono a pezzi! – sospirò con tono lamentoso – forse ero troppo vecchia per avere un bambino, Rose!
-          Non dire sciocchezze!
-          È trascorso molto tempo da quando ne avevo avuto uno – le sorrise.
-          Già… – Rose guardò le manine della sorellina agitarsi mentre la piccola bocca si arricciava in bollicine di saliva e smorfiette deliziose – posso prenderla un po’? – chiese a Jackie.
-          Speravo davvero che me lo chiedessi! – disse con un sospiro sollevato e con cura la mise tra le braccia della figlia, ancora un po’ impacciata nel tenerla tra le mani – stai tranquilla, non è fatta di vetro…
-          È che sembra… è così piccola! – mormorò Rose stringendola sé delicatamente.
-          Ti somiglia tanto, Rose. A te da piccola, intendo – Jackie accarezzò i capelli biondi di Rose e la guardò un lungo momento. Era cresciuta, era diventata più donna. Era cambiata molto e l’aveva cambiata lui. Spesso, guardandoli insieme, pensava a quanto si somigliassero loro due.
Qualunque cosa legasse entrambi era diventata più forte proprio quel Natale passato cui stava ripensando, guardando l’albero nella sala. Se prima il loro viaggiare insieme le sembrava strano, imprudente e inopportuno, in seguito qualcosa era cambiato; LUI. Il Dottore era tornato sulla Terra diverso, un ragazzo. Le aveva fatto tenerezza, diversamente dall’altro che le pareva persino arrogante. Era un bel tipo, il primo Dottore che aveva conosciuto. L’aria strafottente nella sua giacca di pelle nera, gli occhi azzurri perennemente spalancati e l’aria inquieta. Un uomo affascinante, anche per lei. Comprendeva quindi che la figlia se ne sentisse attratta. Era però sfuggente, freddo. Glaciale. Il ragazzo dagli occhi scuri e con quei capelli ribelli era diverso.
Non che non fosse originale o fastidioso, tale era rimasto. Era però più dolce, incline alla tenerezza, nonostante lo avesse visto anche spietato. E quando aveva accettato di passare il Natale insieme, cosa che non aveva voluto fare l’ALTRO, si era accorta che qualunque cosa Rose provasse per lui, era ricambiata. Il sorriso che lui e la figlia si erano scambiati sulla porta l’aveva convinta una volta per tutte che Rose con lui era al sicuro. Con lui più che con chi era stato prima.
-          Mamma, che stai pensando?  - chiese Rose.
-          A quel Natale movimentato – Jackie fece un sospiro di sollievo per esserne lontana anni luce. In tutti i sensi, ormai.
-          Sai se papà torna a casa, oggi? – la neonata iniziava a protestare, forse aveva fame. Jackie però sembrava ancora pensare ad altro – mamma…!
-          Ah, sì… scusa, Rose. Sono stanca, la bambina dorme poco e penso che ora voglia il latte…
-          Non preoccuparti. Se vuoi glielo do io…
-          Va bene – sorrise – comunque, non so se tuo padre sarà di ritorno fino a sera, al laboratorio stanno facendo delle prove importanti, così dicono. E detesto tutte le chiamate al cellulare che riceve. Non ha tregua.
-          Sì, lo so. Anche John è molto impegnato, in questi giorni.
-          Volevo chiedertelo ma… sta bene? Mi sembra pallido, stanco – Rose abbassò lo sguardo un momento – Rose… che c’è?
-          Niente.
-          Rose, hai fatto una faccia strana. Dimmi che c’è… se non parli con me che sono tua madre…
-          È che non lo so, mamma. Davvero. Non so che succeda – Rose strinse la sorellina forse un po’ più forte. La bimba rise appena poi riprese a fare brevi strilli. Forse aveva davvero fame – se mi dai il biberon intanto le do da mangiare…
-          Andiamo in cucina a prepararlo – disse Jackie.
La casa di Pete era immensa. Ci si perdeva. Uscirono dalla sala da pranzo e fecero un corridoio lunghissimo, in fondo l’enorme cucina. Grande il doppio della loro vecchia casa. Entrandoci dentro Jackie faceva sempre un’espressione un po’ strana, neanche molto soddisfatta. Aveva sempre desiderato più mezzi e se l’erano vista brutta, lei e Rose. Eppure quello era troppo. Poco dopo il loro ingresso, una delle giovani cameriere a loro servizio, era già pronta agli ordini.
-          Cara, non ti preoccupare, faccio io – disse Jackie un po’ a disagio. Cercare il bollitore lì in mezzo però era un’impresa. Dopo aver aperto due cassetti, Jackie si rassegnò a chiedere alla ragazza dove fosse e già che c’era di metterlo su per la poppata di Elizabeth.
Intanto Rose continuava a tenere la bimba in braccio, molto pensierosa.
-          Rose, avanti… dimmi cosa è successo – insistette a voce più bassa.
-          Mamma, qualche giorno fa John ha avuto un’esperienza molto dolorosa – disse le parole sottovoce ma la cameriera rivolse loro uno sguardo un po’ intimidito, si sentiva di troppo. Rose le sorrise per tranquillizzarla.
Il personale al servizio di Pete era trattato bene e ben pagato. Jackie era una padrona di casa un po’ petulante ma rispettosa. Dell’altra “Jackie”, Rose aveva un ricordo drammatico che diventava fastidioso ogni volta che vedeva le divise della servitù.
Come aveva fatto Pete a superare tutto così velocemente e sostituirla con un’altra? Per un periodo si era chiesta qualcosa del genere per sé stessa, visto che John non era il Dottore.
Poi aveva capito che era diverso. Del tutto.
La cameriera finì di preparare l’occorrente per la poppata e le lasciò sole. Jackie porse a Rose il biberon dopo aver sentito sul polso il latte e Rose, sedendosi vicino alla finestra, lo prese ed iniziò ad allattare la sorellina.
La piccola succhiava avidamente e Rose si mise a ridere.
-          Almeno non dà problemi per mangiare – sospirò Jackie.
-          Piccola, se continui ad avere una fame simile, dovrai stare attenta alla linea – disse Rose scherzosamente.
-          Rose, ora che siamo sole, continua, dimmi tutto – Rose si intristì. Era preoccupata – ma è una cosa grave? Una cosa tra voi?
-          No, no…
-          Bene, perché se lui ti facesse ancora soffrire io non lo sopporterei!
-          Lui non mi ha mai fatto del male, mamma. Quel che è successo ha fatto soffrire molto entrambi.
-          Perché ho l’impressione che il passato c’entri qualcosa con ciò che dicevi prima?
-          Perché in fondo è così – disse Rose. Porse il biberon vuoto a Jackie che riprese in braccio la bambina.
-          Rose… - la ragazza esitava. Perché non glielo diceva e basta? La stava facendo innervosire – Rose! – insistette.
-          Il Dottore si è rigenerato, mamma. E John ha sentito la sua morte – Jackie la guardò con occhi sgranati e bocca aperta per la sorpresa. Non poteva essere. Non doveva essere.
-          Lui è … il Dottore intendo, è … ?
-          Sì. L’uomo che abbiamo conosciuto è morto – disse con accento triste – ora… lui è cambiato, John dice che sta bene ma…Ma lui…! Lui l’ha sentito ed è stato lento, doloroso.
-          Lui è umano, come è stato possibile?
-          Non è proprio tale e ancora non lo sappiamo.
-          Ma è successo… in un altro universo!
-          Sì, eppure non è bastato a dividere il Dottore dal Dottore. Io… - esitò. Jackie la guardò preoccupata – mamma, l’ho visto, l’ho visto bruciare come già era accaduto quando era cambiato davanti ai miei occhi! E’ stato terribile.
-          Oddio…  Ma ora, John sta bene?
-          Pare di sì – Rose accarezzò la sorellina. Era però triste e Jackie comprese il senso di quello sguardo.
-          Hai pensato molto a LUI, non è vero? – Rose abbassò lo sguardo.
-          Ho pensato a lui ma non come temi. Io amo il mio Dottore. E lui è John – Jackie annuì – però… il pensiero che abbia sofferto, che la sua vita come chi conoscevamo sia in fondo durata poco mi ha angosciata. Perché temo che potrebbe valere anche per John e lui non può cambiare, rigenerarsi.
-           Perché dovrebbe riguardare lui?
-          Non lo so. Non è un pensiero razionale.
-          Temere per la vita di chi si ama è naturale, Rose – disse Jackie – quando restavo sola ad aspettarti, ad aspettarvi entrambi ad un certo punto, io… avevo paura, per voi. Sapevo, sentivo, che i vostri viaggi non erano tranquilli e sono stata malissimo.
-          Mamma…  – Rose le si avvicinò abbracciandola – so di averti lasciata molto sola.
-          Molto.
-          Però lui mi ha sempre protetta, come ti aveva promesso. Sempre.
-          Questo lo so! Ma ha preso mia figlia e l’ha portata via da me ed io l’ho detestato, per questo. Lo ammetto.
-          Però ora gli vuoi bene – sorrise Rose. Jackie fece una smorfia alzando gli occhi e poi entrambe risero. Non si accorsero che lui stava sulla soglia a guardarle.
Rose ebbe un moto di sorpresa, accorgendosi che era lì. Con le spalle poggiate alla porta, il lungo soprabito marrone ancora addosso e le braccia conserte. I suoi occhi ridevano.
-          Da quanto sei qui?
-          Abbastanza da aver sentito qualcosa di compromettente – disse John con un sorriso.
-          Non montarti la testa! – protestò Jackie con tono petulante ma espressione scherzosa. La luce che entrava dalla finestra era più forte. Il cielo, piuttosto che incupirsi, si era inaspettatamente schiarito. Jackie guardò per l’ennesima volta il sorriso che si scambiavano Rose e lui, qualcosa di più caldo di mille parole.
Lo stesso di allora, forse ancora più dolce.
 John si avvicinò a Jackie guardando la bambina che aveva in braccio e la piccola tese verso di lui le manine con uno strillino acuto. Rose rise.
-          Ho l’impressione che mia sorella ti apprezzi molto, guarda come ti sorride! Sfacciata, direi.
-          Ti somiglia anche in questo – Rose rivolse un’occhiata finto offesa alla madre – se è come temo prevedo almeno vent’anni di problemi.
-          Mamma!
-          Entrambe le mie figlie hanno pessimi gusti – John rivolse a Jackie un sorriso ironico ma i suoi occhi erano fissi in quelli della bambina. Sembrava che si parlassero, anche se non era possibile.
-          Jackie … posso… ? – le chiese quasi sottovoce.
-          Visto che hai avuto cura della grande, ti affido la piccola… - gli sorrise e lui la prese tra le braccia con attenzione ma sapendo esattamente come fare. Jackie lo guardò sorpresa – sei molto più bravo di Rose!
-          Beh, non è difficile capire cosa vuole un bambino –  disse John sorridendo – in realtà i neonati sono talmente espliciti che persino gli animali li comprendono. Meno spesso le persone –  Rose lo guardò divertita e Jackie scosse il capo con espressione poco convinta. La bambina afferrò un lembo della giacca di John e lui rise – sì… sì… sono d’accordo, la mamma ti veste troppo di rosa – disse sorridendo alla bambina.
-          Ma che fai, puoi parlarci? – Rose lo fissò incredula.
-          Oh, ma certo – disse John con tono professionale – tua sorella sta protestando, ha dei gusti molto precisi. Detesta il rosa.
-          Non ci credo!
-          Al fatto che te lo dica o che il rosa non le piaccia? – John rise, Rose lo fissava a bocca aperta – dai, Rose… scherzavo!
-          Ah…!
-          Però quando sono così piccoli i bambini vogliono poco, mangiare, dormire… stare poggiati contro il petto di chi li ha in braccio – mormorò e la guardò – sentire i battiti del cuore li tranquillizza.
-          Perché è  quel che sentivano prima di nascere, no? – lui annuì.
-          E’ il ticchettio dolce del loro tempo – si allontanò un po’ verso l’ultima finestra della grande cucina, gli occhi fissi in quelli della bambina – ah, piccolina… mi dispiace. Lo so, mi trovi freddo, vero? – sussurrò pianissimo perché non lo sentissero. La piccola emise un debole verso – vuoi lo stesso stare un po’ con me? Sì? Ah… certo, ora hai sonno – Jackie e Rose lo guardavano un po’ stupite. John strinse delicatamente la bambina e rivolse le spalle alla finestra, proteggendo con la sua ombra la piccola dalla luce.
La teneva in braccio con un’espressione dolce e divertita, accarezzandola piano. Dopo qualche minuto la bambina già dormiva e lui la cullava. Sembrava non aver fatto altro nella vita. Rose sorrideva intenerita e Jackie lo guardò un lungo momento.
-          Guarda com’è bello John in questo momento – disse Jackie piano. Rose rivolse lo sguardo alla madre  – dovreste pensare ad avere un bambino…  – Rose sgranò gli occhi e arrossì.
-          Mamma… ! - protestò piano, neanche troppo convinta.
-          Forse dopo qualche centinaio d’anni si sentirà pronto. O no? – Rose scosse il capo continuando a guardarlo.
Sapere chi era, faceva sembra la bambina che aveva in braccio ancora più piccola.
Era un signore del tempo "umano".
Capace di una tenerezza infinita.  
E lei lo amava più di quanto non lo avesse amato in passato.

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Capitolo 4
*** Legami insidiosi ***


Pete Tyler entrò nella sala e già lo aspettavano. Vide dalle espressioni dei presenti che si profilava una riunione lunga e difficile. Con un sospiro di rassegnazione e stanchezza insieme, prese posto al tavolo e così tutti dopo di lui. Incrociò le dita davanti a sé e sfoderò il suo sguardo più fermo. Era importante sembrare sicuri, gelidi, anche se non si era tali dentro.
-          Stavo per tornare a casa, spero che la questione sia importante come sembra.
-          Lo è decisamente – un giovane in camice bianco poggiò sul tavolo alcuni faldoni. Una quantità di carta impressionante. Pete lo guardò stravolto e il ragazzo mormorò qualche parola incomprensibile – mi creda – disse un po’ meno confusamente – non era il caso di trasferire questi numeri su un dispositivo elettronico.
-          Perché, non vengono dal computer?
-          No, signore. Sono calcoli fatti… a mano.
-          Cosa?
-          È un vezzo, una stranezza del DOTTORE – Pete si morse le labbra già nervoso e fece un lungo respiro per reprimere la sgradevole sensazione che provava al riguardo. Di fatto quel che facevano non era quel che sembrava ed al centro di tutto LUI. Senza che ne fosse consapevole.
-          Di che si tratta?
-          Disegni, diagrammi… conti. Ma sono applicazioni matematiche a noi non comprensibili.
-          Come fate allora a sapere che sono importanti?
-          Riguardano il Tardis, signor Tyler – il nervosismo stava aumentando. Pete Tyler avrebbe voluto alzarsi in piedi ma avrebbe fatto comprendere la sua debolezza. Rimase quindi incollato alla sedia, iniziava però a sudare.
-          Il Tardis… – mormorò quasi fra sé – sta succedendo davvero, allora.
-          Sì – confermò il giovane – e il ritmo di crescita è ancora aumentato. Il Tardis sta sviluppando una grandissima quantità di energia o meglio… il nucleo di crescita è aumentato di volume in senso… inverso
-          Che vuol dire?
-          Lo ha detto il Dottore: più il Tardis cresce, più aumenta l’energia e più… diventa piccolo. Non c’entra con la nostra fisica, signore.
-          Se è per questo, neanche le navi spaziali piccole fuori ma enormi dentro – mormorò.
-          Ad ogni modo il Dottore oggi è stato in laboratorio con la dottoressa Lane che potrà confermare gli sviluppi della questione – Catherine Lane era presente al tavolo, silenziosa. Tristissima, tesa. Pete Tyler pensò che sembrava molto stanca ma nessuno in quella stanza aveva una bella cera.
-          Dottoressa… ?
-          Sì, confermo quanto anticipato dal dottor Thompson, il Tardis si sta sviluppando ad una velocità incredibile e neanche il Dottore lo aveva previsto. Tuttavia pare che la questione sia più complessa di quanto non credevamo.
-          Ossia?
-          Il Tardis è collegato al Dottore – disse con un tono strano, indecifrabile.
-          Cosa c’entra il Dottore con questo Tardis? – la dottoressa fece un sorriso un po’ ironico, come avesse trovato la domanda troppo stupida.
-          John Smith è il Dottore.
-          È umano.
-          Sì, lo è abbastanza.
-          In che senso?
-          Certo non può rigenerarsi e invecchia ma è un caso eccezionale, come la sua mente.
-          Eccezionale davvero – osservò il ragazzo con ancora i faldoni accanto. Le occhiate verso di lui lo misero ulteriormente in imbarazzo. Abbassò gli occhi e tacque. Pete lo guardò scuotendo il capo.
-          Dottoressa Lane, mi spieghi dunque: John Smith è legato al Tardis perché è il Dottore…
-          E quindi il Tardis si sviluppa in un certo senso perché così è giusto per un signore del tempo.
-          Pensavo che lui fosse in grado di farlo sviluppare perché a conoscenza di come procedere al riguardo ma che il Tardis non avesse con lui un legame particolare, non più!
-          Il Tardis è legato al suo signore del Tempo. Questo Tardis è legato a John Smith – un mormorio stupito e perplesso avvolse la sala. Pete Tyler passò una mano sulla fronte sudata. La mano era freddissima – per altro c’è qualcosa che ancora non sapete e che ha complicato la questione. L’ha complicata chiarendola, almeno da un certo punto di vista.
-          Sarebbe?
-          Nel mondo parallelo il Dottore è cambiato – attorno un altro mormorio preoccupato. La dottoressa era tesa come una corda di violino, lo erano tutti – il Dottore ha concluso la sua decima vita ed ora è un altro.
-          E noi come…? – non completò la domanda perché aveva capito. In fondo era abbastanza comprensibile che ciò potesse accadere. In una logica universale non sembrava così assurdo – John ha sentito la rigenerazione del Dottore?
-          No, non solo. L’ha subita.
-          Cosa?
-          È cambiato. Il suo corpo sta reagendo alla cosa in modo inaspettato – un addetto del settore medico mise davanti a Pete delle schede con dei valori. Pete le guardò perplesso.
Indicavano un progressivo raffreddamento del corpo di John Smith, uno stato di sofferenza fisica notevole cui però resisteva come non avrebbe potuto un umano normale. Pete guardò le carte più sconvolto di quanto non sembrasse all’esterno.
John Smith era il Dottore ma anche il compagno di Rose ed entrambi vivevano nella sua casa da tempo, ormai. Non poteva essergli indifferente, nonostante la priorità del progetto.
Il Dottore aveva salvato il suo universo e poi sacrificato molto perché tutto non andasse in pezzi. Per non avere scrupoli al riguardo, cercava di ricordare che John Smith non era lo stesso uomo che era rimasto separato da Rose Tyler dietro il muro chiuso di un mondo parallelo. Non lo era.
…Eppure…
-          John corre pericolo di vita?
-          Come vede dalla scheda, è una situazione fluttuante. La temperatura corporea del soggetto si alza e si abbassa di molto, in una giornata. Non sembra risentirne quanto dovrebbe ma …
-          Ha vertigini, forti emicranie – aggiunse Catherine – davvero il minimo, vista la situazione.
-          Ciò potrebbe compromettere la sua lucidità – osservò un medico.
-          Non ho ancora avuto una risposta: John Smith corre pericolo di vita? – insisté Pete.
-          Faremo in modo che anche in momento di crisi, lui duri abbastanza da far completare lo sviluppo del Tardis – un lungo brivido percorse Pete Tyler. Non aveva considerato la questione in questi termini, non aveva voluto farlo. In fondo loro volevano solo il Tardis.
Il Tardis sarebbe stato un mezzo potentissimo con il quale cambiare in meglio l’universo. Avrebbe avuto un equipaggio costituito dai migliori elementi del Torchwood, coadiuvati da John Smith, avesse accettato l’idea. Ma già sapevano che non l’avrebbe mai fatto.
Era stato anche ingenuo da parte sua accettare di sviluppare il suo progetto nei loro laboratori. Forse si aspettava che quel che era successo prima avesse cambiato sostanzialmente le finalità dell’organizzazione e forse l’avere delle persone “amiche” vicino, l’aveva convinto della loro buona fede. Ma come rinunciare ad un’opportunità come quella che si era loro palesata all’improvviso? Dopo tutto, John Smith non era poi così diverso da uno di loro a caso. Era ormai un essere umano e quindi il Tardis avrebbe potuto avere un pilota diverso da un signore del tempo.
Ora però dubbi e scrupoli improvvisi affioravano nella sua coscienza.
Se lui fosse…
…MORTO…
Cosa sarebbe rimasto…
Che cosa sarebbe stato…
Il pensiero di Rose prese forma su ogni altro che frullasse nella sua testa in quel momento. John era l’uomo che amava sua… figlia…?
-          No, non è mia figlia, non lo è – ripeté a sé stesso. Anche il Dottore lo aveva detto, proprio a Rose: Lui non è tuo padre, lui è morto!
Ma Rose gli era cara d’istinto. Non sapeva per quale motivo, forse solo per una strana questione di sangue e quel richiamo che dicevano esistere tra persone legate in tal senso. Ma non lo erano, non loro. Non poteva essere. La preoccupazione gli stava facendo del male, anche fisicamente.
-          Il Tardis quindi si sta sviluppando a questa velocità perché il Dottore si è rigenerato? Non capisco ancora cosa c’entri.
-          Potrebbe essere importante per la vita di John – disse piano Catherine. Pete le rivolse uno sguardo interrogativo ma lei tacque per un lungo momento – ancora… non sappiamo in che senso ma il Dottore ha detto questo – ebbe l’impressione che gli nascondesse qualcosa ma non insisté. L’istinto gli diceva di non affrontare la questione lì, davanti a tutti.
-          Signori, come intendiamo procedere? – disse con un lungo sospiro.
-          Secondo i calcoli del Dottore, il Tardis potrebbe completare lo sviluppo tra tre mesi – impallidì.
-          Cosa? E’ un tempo troppo breve, l’addestramento, la preparazione dell’equipaggio... tutto è ancora in sospeso!
-          Velocizzeremo il tutto, si fidi – Pete deglutì amaramente. La presenza di quell’uomo lo inorridiva ma nulla di quel che stava accadendo sarebbe stato possibile senza di lui. Lo aveva visto entrando, come sempre vestito di scuro, con quella divisa militare minacciosa, sinistra. Aveva taciuto, come altre volte. Presenziava ad ogni riunione ma parlava poco. Stavolta evidentemente c’era da precisare qualcosa di importante – signor Tyler, per il bene dell’Impero Britannico il progetto sarà perfettamente completato e non abbia dubbi al riguardo. Quando avremo la nave, l’equipaggio adatto sarà pronto. Abbiamo potenti mezzi per fare fronte agli imprevisti.
-          Con tutto il rispetto, signor Tashen, ma non penso che sia possibile pianificare il tutto con un largo anticipo e… - la fredda risata dell’uomo vestito di scuro lo colpì duramente. La dottoressa Lane spostò lo sguardo ad un punto a caso della stanza, per cercare di sembrare indifferente ma ne era disgustata. Non sopportava quell’uomo e ciò che significava. Avevano liberato il Torchwood da un controllo per poi ritrovarsi chiusi in un altro vicolo cieco.
Quell’uomo rappresentava l’ombra del Torchwood. Qualcuno continuava a definire la questione “male necessario” ma molti erano preoccupati dalla piega che il controllo esercitato sui loro esperimenti stava prendendo. Si vociferava di una struttura parallela che ne regolava non solo i finanziamenti ma anche i metodi di indagine, le ricerche.
Torture su degli alieni catturati sulla Terra. Esperimenti, mostruosità di ogni tipo.
Non credeva a tutto ma anche solo l’evocare lo spettro di un passato non glorioso, agitava l’animo di chi aveva combattuto per rimuovere il cancro che divorava l’organizzazione all’interno.
Se l’uomo vestito di scuro non era qualcosa del genere, molto gli somigliava.
-          Signor Tyler – riprese l’uomo misterioso - noi ammiriamo il suo impegno per rendere il Torchwood una struttura giusta, una grande opportunità di miglioramento per tutta l’umanità ma … è pur vero che ogni cosa, a questo mondo, come penso in qualunque altro parallelo o meno, deve essere finanziata e controllata e in questo periodo, soprattutto visto quel che le forze aliene hanno fatto al nostro pianeta, sarebbe il caso di investire sulla ricostruzione più che su certi progetti avveniristici, ne conviene?
-          Penso che il Torchwood sia una struttura importantissima proprio perché ormai consapevoli della minaccia aliena – l’uomo vestito di scuro gli sorrise. Un sorriso freddissimo, come i suoi occhi color ghiaccio che si intravedevano chiarissimi nell’ombra.
-          Lei ha ragione. Ma il Torchwood è nostro. Non alle condizioni in cui operava precedentemente certo ma… è nostro e tutto quel che è alieno… ci appartiene.
-          Sono d’accordo sul controllo, anche memore di quel che è successo con l’invasione dei Cyberuomini ma…
-          In un modo molto particolare lei ha ricostruito la sua famiglia, non è vero, signor Tyler? – Pete rabbrividì. Qualunque cosa potesse toccare Jackie, la bambina…
… e Rose…
Lo faceva diventare potenzialmente pericoloso. Percepiva in quelle parole una velata minaccia e non poteva restare indifferente. Si sforzò però di apparire freddo.
-          Non tutti hanno avuto la sua fortuna, signor Tyler. Lei è stato fortunato in più di un senso. Ora, apprezzi quel che può avere e ciò che stringe tra le mani adesso. Faccia quel che le è stato chiesto, per il bene di tutti – le parole dell’uomo in divisa scura erano strane, ambigue. Ma Pete sapeva esattamente che cosa voleva significare tutto questo – il Tardis avrà il suo equipaggio, voi dovete darci la nave completa e chiarire in che senso dipenda da John Smith, se è una questione fisica, se è qualcosa di diverso. Dobbiamo sapere tutto ed eventualmente porvi rimedio.
-          E come fareste se fosse davvero dipendente da lui fisicamente? – le parole di Catherine Lane risuonarono su ogni bisbiglio nella stanza e nella pesantezza del momento sembrava che l’aria attorno fosse diventata acqua e le parole qualcosa che vi galleggiava sopra.
-          Prima chiarite in che senso e fino a che punto John Smith è legato al Tardis, poi… eventualmente prenderemo noi i provvedimenti necessari – non avrebbero avuto altre risposte. Pete Tyler lo sapeva e lo sapevano tutti coloro che erano lì in quel momento.
La dottoressa Catherine Lane rabbrividì pensando a John Smith. In quel momento gli parve molto indifeso, tragicamente indifeso. 

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Capitolo 5
*** Le ombre nella memoria ***



 
Rose Tyler si guardava allo specchio.
La luce dorata della lampada illuminava tutto in modo soffuso ma chiaro. Avvolta nell’asciugamano rosa, si pettinava e ripensava a qualcosa di lontano. Era inquieta per quel che stava accadendo a John e per qualcosa che sentiva attorno. Viaggiando si era sviluppato in lei uno strano senso per il pericolo e dopo tempo lo sentiva nuovamente vicino alla sua vita. E forse per questo le correnti dei pensieri la portavano verso le ombre più dense della sua memoria recente.
Ripensava all’inizio di tutto in quel mondo; quando lei e John erano soli più di quanto fossero insieme.
 
Non l’aveva più toccato, da quella volta.
Anche prenderlo per mano era difficile per lei e le veniva da piangere ogni volta che ripensava a quella scena, a quello specchio fra i due uomini che forse erano solo uno e lei, in mezzo, a cercare le parole sulle labbra dolorosamente serrate di uno per poi trovarle su quelle di colui che aveva baciato.
Il Dottore alla fine era andato via per sempre e l’aveva lasciata con quell’estraneo appena nato ma con la memoria di secoli dentro e perdutamente innamorato di lei. Più vendicativo di come in seguito lo aveva reso l’amarla. Bisognoso di lei e solo al mondo.
Sembrava lui.
Era lui.
Eppure non riusciva a toccarlo.
Rose soffriva ma non aveva più lacrime.
Lui sì. Sentiva, sapeva, che per lei aveva pianto. Spesso ne aveva l’ombra in quello sguardo così vecchio, così assurdo per quel viso giovane. Non era però sicura che ciò le importasse.
Lei pensava a quanto il Dottore dovesse aver pianto per lei, altrove.
L’Umano era stato accolto nella grande casa di Pete, dove altro poteva andare? Eppure incrociarlo le faceva tremare il cuore. Aveva quindi notato come sembrava nascondersi da lei per evitarle il dolore che le dava anche il suo sguardo addosso, la sua speranza.
La conosceva bene, la comprendeva del tutto. Ed anche questo era altro dolore per Rose.
Jackie seguiva la cosa con apprensione, vedendolo vagare per casa come uno spettro, mangiare pochissimo e tormentarsi. Le aveva sentito dire più di una volta che lui le faceva una pena infinita e questo aumentava la sofferenza, la offendeva. Perché neanche sua madre riusciva a comprendere come tra i due fosse lei, a dover affrontare il dolore più grande. Almeno così pensava.
Pete almeno si teneva a parte.
Aveva conosciuto il Dottore e tutto quel che ne conseguiva ma lui non aveva fatto parte della sua vita come della loro e la presenza di quell’essere umano che era tale e quale a lui non lo turbava, non poteva turbarlo. Sembrava interessato all’Estraneo per altri aspetti, più pratici. Era anche razionale che qualcuno pensasse al destino che quell’uomo avrebbe potuto avere in quel mondo. Torchwood poteva essere migliorato dalla sua conoscenza e poi lì avrebbe potuto portare avanti la sua personale impresa. Perché il Dottore gli aveva lasciato la possibilità di crescere un Tardis?
Era il suo regalo d’addio o qualcosa che sarebbe servito all’Altro? Non bastava avergli lasciato lei, che ancora lo amava?
Per un crudele paradosso la risposta la sapeva solo l’Estraneo.
Rose lo amava. Ma perché immagine di un perduto amore.
Ma poteva essere tanto ingrata, superficiale, stupida, da sostituire ilDottore con lui?
Eppure doveva parlargli, sciogliere con lui i nodi di quel dolore che le stringeva il cuore in una morsa e forse stringeva anche quello di lui. Poi che fosse quel che doveva essere. O non essere.
 
Sembrava che la grande casa fosse vuota. Lui era nello studio, dove trascorreva molto tempo a leggere. Lo studio sembrava un ambiente di altri tempi. Arredato con mobili antichi, rivestito di legno, traboccante di vecchi libri e rari titoli riccamente rilegati. Ogni cosa là dentro, parlava di un tempo lontano ma che lui aveva conosciuto, visto. Nel quale anche l’aveva portata, quando era capitato.
A lui piaceva molto stare in quella stanza più che altrove. Forse quella patina antica lo rassicurava come nient’altro in quel momento. Nessuno glielo chiedeva ma Rose ci pensava.
Leggeva moltissimo, sembrava placarsi a quel modo e ascoltando musica classica.
Ma quella sera non aveva alcun libro tra le mani e c’era molto silenzio. L’aveva trovato al buio, seduto davanti al camino acceso, unica luce in quella stanza.
Quando l’aveva visto, lo sguardo rivolto alle fiamme, uno sguardo lucidissimo, le si era stretto il cuore. Sentendola si era girato verso di lei e si era alzato in piedi, Rose aveva avuto un brivido.
Perché era lui. Perché la guardava come lui. Perché le avrebbe sorriso come faceva sempre ed era crudele, insopportabile. Lui però non le aveva sorriso.
Aveva abbassato lo sguardo e le aveva fatto cenno di sedersi sul divano poi si era nuovamente accomodato su quell’antica sedia ma rivolto verso di lei e con le fiamme alle spalle. Erano distanti.
-          Hai freddo, Rose?  - le aveva chiesto ad un tratto, vedendo che si tormentava le mani. Aveva annuito nervosamente – allora avvicinati tu al fuoco…
-          Preferisco stare qui – gli aveva detto con voce indecisa. Lui l’aveva guardata un lungo momento poi aveva annuito. Conosceva quell’espressione.
Aveva già visto la sua reazione al timore nei suoi confronti, molto tempo prima, quando era cambiato. In quel momento gli parve lo stesso di allora ma il suo cuore guardandolo correva e lo guardava smarrita.  Dopo averlo toccato più profondamente, le sembrava di riuscire a sentire quel qualcosa di strano che lo avvolgeva, qualcosa che si portava addosso per l’aver viaggiato secoli e che aveva sentito anche sulle sue labbra.
Ma non era lui. Anche se proprio su quell’uomo aveva sentito quel qualcosa.
Rose aveva sospirato dolorosamente e lui l’aveva guardata con comprensione. Allora gli aveva rivolto uno sguardo più dolce.
-          Vedo… che hai trovato dei vestiti di tuo gradimento… - aveva accennato in imbarazzo.
-          Difficile da queste parti e di questi tempi ma almeno ho ritrovato anche qui le mie scarpe preferite -  aveva sorriso e Rose non aveva potuto fare a meno di ricambiarlo. Le era venuto spontaneo. Elegante in un senso strano, decisamente fuori dal tempo. Lui. Il sorriso le si spense sul viso. Ancora una volta lui comprese il perché – stai… pensando…?
-          Sì.
-          Penso anch’io, a lui. E’ difficile per me.
-          Anche per me, credimi.
-          Lo so, Rose – mormorò – ma è difficile per me essere quel che sono ed insieme esistere diversamente da come è sempre stato - Rose lo guardò. Sembrava stanco – non avevo mai chiuso gli occhi, sai? – disse con espressione un po’ strana.
-          Non avevi mai dormito?... proprio mai?
-          No. Dà tanta pace ed è bello, dormire…
-          Sì, è vero – disse Rose.
-          Prima non capivo e pensavo fosse una perdita di tempo… già… tempo  – mormorò quasi tra sé. Lei si era sforzata di ignorare quel suo solito vagare, quella tristezza.
-          Hai sognato?
-          Ancora no. Spero presto!  – aveva aggiunto con breve sorriso – sono pur sempre viaggi immaginari, no? In realtà sarebbero… ah, no – aveva abbassato lo sguardo – troppo spoetizzante.
-          Ti manca già viaggiare? – lui aveva annuito.
-          Mi manca farlo con te – le sue parole erano cadute in una crepa del silenzio tra loro  – ma l’avventura è anche qui, è questa. Ora è tutto nuovo, per me. E’ strano anche respirare!
-          Respirare?
-          Viene spontaneo ovviamente ma io avevo due cuori, Rose – la sua voce si era leggermente incrinata aveva quindi riso appena, per farsi forza – non ci crederai ma io sento che ne manca uno. Sento più freddo, ho sperimentato il mal di testa ed anche una certa… nausea. Tua madre mi dice che dipende dal fatto che io non mangi volentieri, per ora …
-          Mi dispiace…
-          Non preoccuparti – aveva detto in un sussurro che le era parso una carezza.
Rose avrebbe voluto fargli una carezza davvero ma non poteva perché sarebbe stata a chi lui non era. Aveva quindi stretto forte le sue dita come per impedirselo fisicamente e lui l’aveva guardata perplesso.  Pensando avesse ancora freddo, si era tolto la giacca e fatto per mettergliela sulle spalle ma aveva esitato e quindi preferito porgergliela perché lo facesse lei. Rose l’aveva accettata di buon grado ma quando l’aveva avuta addosso si era sentita di colpo più debole davanti a lui, perché quel qualcosa di terribilmente dolce ed eccitante insieme lo sentiva vicinissimo ed era ciò che faceva parte del piacere di toccarlo e del desiderio di stringerlo a sé profondamente. Lo voleva, in quel momento.
Non lui eppure lui.
Era terribile.
Il respiro di Rose si era fatto più veloce. Forse lui l’aveva percepito perché aveva cercato di alleggerire il momento.
-          Sto… vivendo un interessante paradosso – aveva detto con tono allegro - mi sembra a volte di poter essere spezzato dalla qualunque eppure non mi sento meno forte. E’ strano, mi disorienta!
-          Devi abituarti…
-          Lo farò.
-          Siamo prigionieri di un mondo estraneo – disse Rose.
-          Di un mondo nuovo – rabbrividì per il tono che aveva usato ma anche perché la sua voce per lei era la più bella. Insopportabile, una calamita.
Loro si attraevano irresistibilmente, da sempre.
Rose aveva sentito che anche lui voleva toccarla, anche solo come accadeva prima. Ora aveva la certezza che quei lunghi sguardi su di lei non erano di curiosità o semplice preoccupazione ma erano un velo sottile che copriva i sentimenti di una strana creatura che prima di lei non aveva mai amato. Lui era stato confuso, smarrito, spaventato dalla cosa. Dal doverla perdere per forza.
Per questo non l’aveva mai baciata. Neanche alla fine.
…E invece l’aveva fatto chi poteva RESTARE…
-          Ricordi quando restammo bloccati in quella stazione spaziale sospesa sul buco nero? – disse lui con tono scherzoso e un sorrisetto.
E come avrebbe potuto dimenticarlo? Era stato forse il momento in cui lui era stato più vicino a dirle …
-          Pessimo posto per trascorrere la propria vita – disse Rose con gli occhi lucidi.
-          Oh sì! A me sarebbe toccato anche più tempo e l’infinita disperazione, dopo  – aggiunse più seriamente ed aveva abbassato lo sguardo un breve attimo. Poi l’aveva guardata fisso, affondando i suoi occhi dentro quelli di lei – no, restare bloccati qui con te non è poi così male, Rose Tyler.
Rose ricordò le parole che gli aveva detto lei, allora.
Le sorrise come le aveva sorriso quel giorno quando si erano abbracciati dopo aver temuto di non potersi rivedere mai più. L’aveva guardata allora con occhi fiammeggianti, come quelli che aveva in quel momento. L’aveva stretta più forte. Aveva sentito il suo respiro vicinissimo a lei, come mai.
Se avesse avuto il coraggio di dirgli in quel momento che lei lo amava, lui non avrebbe potuto far altro che ammettere ciò che era evidente. Non avrebbe potuto negarlo ma per primo non le aveva detto nulla.
E non lo stava facendo neanche chi aveva davanti in quel momento anche se quello che provava per lei era lì, puro e brillante. Incorrotto da qualunque cambiamento.
Lo vedeva.
Non era riuscita più a trattenere le lacrime che avevano iniziato a rigare il suo viso.
Lui allora aveva sospirato con espressione seria e si era avvicinato, non riuscendo più a starle lontano. Rose si era alzata in piedi davanti a lui e così si erano guardati come fosse la prima volta e guardati dentro.
Esitando lui aveva teso la mano sul suo viso e lei allora l’aveva presa e portata alla sua guancia. L’aveva accarezzata piano, come fosse una bambina da consolare e poi, dolcemente, l’aveva abbracciata e stretta a sé. E contro il suo corpo, di nuovo, lei aveva sentito quel qualcosa che forse si portavano addosso entrambi anche per l’essere stati tanto insieme. Il suo cuore correva e lui tremava. Tremava anche lei per come la stringeva.
Se l’avesse baciata di nuovo, non si sarebbero fermati.
Se fosse accaduto come sulla spiaggia, avrebbero fatto l’amore lì, finalmente.
Ma lui ad un tratto l’aveva lasciata.
Immobili entrambi come privi di coraggio. Ma non era quello, non per lui.
-          Ho sempre sperato di ritrovarti – le aveva detto con voce decisa ma sguardo dolce - ho anche pensato di far crollare gli universi, per finire quella frase su quella spiaggia e non l’ho fatto solo perché tu dovevi vivere.  Ogni giorno, per tutto il tempo che sei stata lontana da me, io ho ripetuto quelle parole ai miei silenzi, ti ho detto molto altro di me, ti ho parlato quando non c’eri eppure tu ci sei sempre stata, Rose. Dentro di me.
-          Dottore…  - la sua voce era stata un sussurro incredulo. Lo aveva chiamato a quel modo per la prima volta e lui le aveva sorriso.
-          Io non avevo neanche i sogni dove cercarti, Rose  – le disse – ora invece tu sei qui ed è bellissimo, lo sarebbe anche galleggiassimo di nuovo di fronte ad un buco nero che divora l’universo. Almeno io ho potuto toccarti di nuovo  – aggiunse più piano. Lui.
Non glielo diceva la ragione ma l’istinto. Solo lui avrebbe potuto dire quelle parole, solo lui si sarebbe fermato sulla soglia delle sue paure per aspettarla.
Solo lui poteva amarla così.
Con gli occhi lucidi si era chinato su di lei un breve momento e le aveva baciato piano la fronte, scostandosi dolcemente da lei che voleva trattenerlo perché non era il momento, non quello. Il suo sguardo era fermo ma non le sue mani. Lei l’aveva sentito quando aveva preso la sua stringendola forte, come prima di scappare da qualcosa. Rose aveva intrecciato le dita nelle sue come molte altre volte prima e lui le aveva sorriso.
-          … Rose, corri… - un sussurro come quello che l’aveva chiamata in sogno.
… corri, corri…!
-          Dottore  – aveva ripetuto lei incredula con occhi lucidi.
-          Sono io, Rose, sono qui. Corri da me!
...corri…  
Poi l’aveva lasciata delicatamente ed era uscito da quella stanza senza voltarsi verso di lei.
 
Quel ricordo si dissolse nel suo riflesso dorato del presente e Rose poggiò la spazzola sulla specchiera con un leggero sospiro.
Alle sue spalle John la guardava, con i capelli scompigliati dalla doccia appena fatta. Si sorrisero.
-          Come va?
-          Bene, stai tranquilla – lei abbassò lo sguardo e gli occhi di lui brillarono.
-          Ti amo, Rose Tyler – le disse piano.
-          Grande notizia – gli rispose. Poi si alzò, andò verso di lui e lo baciò. 

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Capitolo 6
*** La Genesi di un'Anima ***


 
Pete Tyler entrò nel laboratorio e la dottoressa Lane gli rivolse uno sguardo che era un insieme di parole non dette poi spostò gli occhi su di John, che era lì.  Era intento a rovistare tra fili e apparecchiature smontate con il cacciavite sonico che si era costruito per sé, rifiutandosi di condividerne il progetto con il laboratorio perché entrasse a far parte della fornitura di base del Torchwood. Ne era geloso, aveva detto così; e quando i suoi occhi diventavano in un certo modo, nessuno riusciva a contraddirlo.
Era davvero impressionante.
Impressionante come riuscisse a mettere insieme le cose in modo assurdo eppure perfettamente aderente ad idee che rispondevano a logiche troppo più complesse delle loro. Impressionante quanto fosse sensibile, a volte. Umorale forse era la parola adatta.
Un genio assoluto, una mente aliena affilata come una lama.
…era l’uomo che amava sua figlia…
Pete cacciò quel pensiero pericoloso per la sua coscienza ma sperò davvero che quel che stava accadendo non volesse dire perderlo, in nessun senso.
Sentì che borbottava mentre lavorava.  
Fece per avvicinarsi ma inciampò.
Sul pavimento vi erano i resti di qualcosa che sembrava semplicemente essersi buttato dietro senza molto garbo, forse perché inutile al suo scopo. Glielo aveva visto fare parecchie volte.
Quando lavorava era consigliabile non stargli mai alle spalle.
-          Che cosa sta facendo? – chiese piano alla dottoressa.
-          Sta costruendo un dispositivo di contenimento temporale differenziato.
-          E sarebbe?
-          E’ necessario per il Tardis ma…
-          Ma è sempre qualcosa che non ha a che fare con la nostra fisica, suppongo.
-          Lui non è di questo mondo -  disse lei guardandolo. E Pete intravide negli occhi di lei ammirazione ma anche preoccupazione.
-          Come sta? – chiese sinceramente impensierito.
-          Trentanove e mezzo! – gridò lui trionfante e con un sorriso. Pete lo guardò interrogativamente – è la febbre. Oggi ho battuto il record personale! Mai avuta temperatura così alta, se non considero quella volta che mi contaminai per sbaglio con quel virus mutante che era rimasto attaccato a quella dannata interfaccia biologica che … ah, ma roba vecchia!  - rise – ah, scusa… ciao, Pete! – aggiunse giocherellando con il cacciavite come fosse una normale penna. Pete lo guardò spiazzato. Gli si avvicinò e vide come fosse evidente il suo stato. Era sudato, gli occhi lucidi come specchi, pallidissimo. Il suo cuore doveva andare anche troppo veloce visto che il suo respiro gli sembrava strano.
-           John, tu non ti senti bene…
-          Niente affatto! Mai stato più lucido, più efficace!
-          Diamine, John! Hai un aspetto terribile… - John lo guardò sinceramente stupito dalla cosa, almeno così gli parve. Possibile che non si sentisse male?
-          Pete, sto lavorando ad una cosa urgente, urgentissima! – continuò come se non gli importasse d’altro – il… il Tardis – il fiato gli si era spezzato e lui ne era rimasto stupito ma per un istante – ecco, il Tardis sta aprendo una dimensione condensata nella quale definisce la sua variabilità volumetrica nello spazio.
-          Cosa!?
-          In sostanza sta cercando lo spazio nel quale “aprirsi” – disse con un sorriso – ma c’è un problema e non da poco. Non è compatibile con la matrice di questo universo.
-          Vuoi dire che…?
-          Sì, sì, sì!  -scattò in piedi. Aveva l’aria un po’ folle certe volte ma i suoi occhi facevano paura in quel momento.
-          Calmati, John.
-          Sono, calmo. Ma non lo è il giovane Tardis che proviene dal mondo parallelo e per questo motivo qui c’è qualche problema ma… è superabile perché si è sviluppato ed è cresciuto con questa energia. Che paradosso meraviglioso e terribile insieme! Ma… questo lo farà da sé, sa che fare e in realtà io devo solo… indicargli dove stare – sembrava parlasse di qualcosa di vivo e non avevano capito fino a che punto lo fosse. Pete trovava la cosa sempre più inquietante ed anche i progetti su quest’entità aliena allevata da quell’alieno-umano.
-          John, il dispositivo di… insomma, quella cosa che stai costruendo serve a dargli delle coordinate?
-          No, no. Quello… Mette al riparo questo mondo dall’apertura che serve al Tardis, un’apertura interdimensionale che potrebbe scaraventare dentro una parte del mondo nel quale si apre.
-          Vuoi dire che aprirà una sorta di buco nero???
-          Assolutamente no, no! – disse John tranquillo poi aggrottò la fronte un po’ perplesso – beh, ecco… in realtà io lo definirei qualcosa di approssimativamente più vicino ad un cono con un rigonfiamento sulla parte superiore - aggiunse quasi fra sé - ma sempre ragionando in termini inopportuni e a ben pensarci non è che c'entri granché e le dimensioni in questo caso… ah, sono davvero tante!
-          Non riesco a seguirti.
-          Rinunciaci, Pete. E’ difficile farlo anche per me – sorrise divertito.
-          Di quanto spazio avrà bisogno?
-          Siamo di fronte all’incognita più grande! Ed è eccezionalmente tremendo! Come dicono sia la mia ira – aggiunse piano e rise.
-          E’ un incubo! – gemette Pete.
-          Mi aspettavo non fosse esattamente facile, neanche per me – rise ancora - e poi è tutto così rapido, come non pensavo! Dottore, Dottore… puoi sbagliarti ancora!
-          Perché ne sembri contento?
-          Perché mi sento vivo, vivace. Perché c’è ancora del mistero! Io non avevo mai allevato un Tardis, prima d’ora! Il… il mio era l’ultimo rimasto nell’universo e …  – John si fermò di colpo come qualcosa l’avesse colpito.  I suoi grandi occhi si spalancarono davanti a qualcosa che non vedevano e Pete lo vide cercare d’istinto un sostegno. Fece appena in tempo a prenderlo perché non cadesse a terra e la dottoressa Lane si avvicinò subito per aiutarlo  – che stranezza… - mormorò John -  tutto sembra avere un colore strano …
-          Hai quaranta di febbre ed è assurdo che tu stia in piedi! Ora ti portiamo in sala medica – disse Catherine.
-          Non ora, non posso… ! Io devo finire è una cosa urgente.
-          Vuoi morirci sopra? – quasi gridò Pete. John lo guardò interrogativamente.
-          È davvero possibile?
-          Sì, è davvero possibile – disse lei spazientita e seriamente preoccupata.
-          Ah, quindi è una cosa seria…
-          Possibile tu faccia umorismo anche in un momento del genere? – protestò Pete.
-          In realtà è una cosa abbastanza comune quando si è in questo stato … - osservò la dottoressa.
-          Ma cosa state dicendo! Io sono perfettamente lucido, maledizione! – John si divincolò dalla loro stretta e li guardò entrambi con aria quasi minacciosa – dico sul serio, devo finire al più presto – disse in un sussurro – sta chiamando…
-          Cosa?
-          Il Tardis! – gridò spazientito alzando gli occhi al soffitto – il Tardis ha bisogno di aprirsi, di aprire le dimensioni e non posso permettere che tutto questo vada in pezzi, non posso!
-          John… ti prego, John! – Catherine gli si avvicinò e lui la guardò scosso da un lungo tremito. I suoi occhi avevano le fiamme dentro – devi riposare – lo prese piano per un braccio con prudenza.
-          Non sa che fare, non sa dove andare… - protestò piano – devo guidarlo, devo aprire i suoi occhi o vagherà alla cieca, si chiuderà per sempre…
-          Sta delirando – disse Pete inquietato. Lei lo guardò e scosse il capo. Non era così. Non delirava affatto. Ed era questo il problema. Catherine fece una carezza sulle spalle a John che restava con lo sguardo fisso nel suo angoscioso pensiero con il fiato di qualcuno che correva.
-          Non deve esserci paura… - si portò una mano alla testa con una smorfia di dolore - ci vuole… delicatezza con tanta forza con… tanta forza – mormorò con gli occhi lucidi.
-          Shh… calma, stai tranquillo … - gli sussurrò Catherine - tu lo aiuterai, lo farai benissimo  – lentamente, sorreggendolo, lo fece sedere. Gli toccò la fronte con la mano e guardò Pete preoccupata.
-          Se non lo faccio al più presto… si chiuderà in sé stesso! – disse John guardandola stravolto – è giovane!
-          No, non si chiuderà, non resterà cieco e sarà bellissimo… - gli disse piano lei cercando di tenerlo calmo. Ma lui non sembrava calmo, sembrava sfinito. Pete lo guardava profondamente turbato dal suo stato e da quel che diceva.
-          La nascita di un giovane Tardis è un evento cosmico è la genesi di un’Anima – aggiunse con infinita dolcezza - è l’essenza della Bellezza, di ogni giustizia, della Verità! E’ qualcosa di stupefacente anche per me, un dono! Una Vita senza tempo che è tante vite di tutti i tempi insieme per quel che saranno e sono … è… è un terribile miracolo – mormorò poi chiuse gli occhi piegando le braccia su sé stesso ed emise un lugubre gemito che sembrava quasi di rabbia impotente – oh, no… no… ! Non può perdersi e qualcosa mi sfugge… - Catherine lo prese piano per le spalle e guardò Pete allarmata.
-          Chiami un medico! – gli disse con tono urgente.
Pete annuì. Era sconvolto. Fece subito il numero del reparto medico perché mandasse urgentemente qualcuno in laboratorio. Poi si avvicinò di nuovo a John che continuava a restare ripiegato in sé, tremante. Le dita sottili delle sue mani artigliavano le maniche della sua giacca. Ad un tratto sembrò loro che piangesse. Catherine si chinò su di lui e vide le lacrime nei suoi occhi.
Che stava succedendo? Cosa lo stava distruggendo? In un moto di tenerezza lo abbracciò come per proteggerlo e fosse davvero il ragazzino indifeso che in quel momento le pareva.
-          Ho… bisogno di te. Tu sapresti dire la parola giusta… tu sapresti, Rose! – sussurrò John. Catherine continuava ad accarezzarlo ma era scossa dalla situazione.
Pete lo era almeno quanto lei.  
Prese il telefono personale dalla tasca della giacca ed ebbe un momento di indecisione poi fece rapidamente il numero di cellulare di Rose perché venisse subito da lui.
Non sapeva cosa potesse fare per il Tardis, cosa volesse dire lui con quelle parole ma John aveva bisogno di lei.
 
 
Rose chiuse il libro e scarabocchiò qualcosa sul quaderno che però le parve subito non avere il senso che avrebbe voluto. Fece un sospiro che fu di stanchezza ed inquietudine insieme.
Non riusciva a concentrarsi.
Continuava a sentirsi strana e quella sensazione, curiosamente le riportava alla mente qualcosa che sembrava non c’entrare assolutamente nulla con quel che la innervosiva in quel momento ossia quando si era resa conto per la prima volta della continua coincidenza, ovunque e in ogni tempo, di quelle due parole apparentemente senza senso: Bad Wolf.
Era il ricordo di qualcosa di lontano eppure l’impressione che provava dentro era molto simile. Si sentiva come vicina ad una porta socchiusa dalla quale poteva intravedere della luce ma non riusciva a capire altro di cosa potesse esservi al di là della soglia.
Quello che era successo a John l’aveva turbata.
Quel che continuava a succedere, ormai molti giorni dopo, l’aveva addirittura spaventata.
John che diventava un pezzo di ghiaccio e nella stessa giornata aveva la febbre altissima. Il suo continuo mal di testa, il suo restare con lo sguardo fisso nel vuoto a pensare con attorno silenzi spessi come tende scure. Era strano anche come la toccava, sembrava esitante come in passato, sembrava… meno sicuro di qualcosa di importante. Era capitato che si svegliasse più spesso, quelle notti, e Rose l’aveva trovato sdraiato accanto a sé intento a guardarla con espressione inquieta, triste. Anche l’apprensione di suo padre, normalmente piuttosto freddo e controllato, l’aveva messa in agitazione. E così anche Jackie, preoccupata per la salute di John e per quel che sentiva attorno.
Rose non aveva resistito e lo aveva incalzato di domande, cercando risposte convincenti.
John le aveva detto quel che succedeva e spiegato che fosse aveva a che fare con il Tardis ma la cosa non le tornava. Il signore del Tempo e il suo Tardis erano uniti, e lei lo sapeva.
Più di ogni altro sapeva che quella nave era viva e che più che tale era lei stessa la prima compagna del Dottore. La sua coscienza era superiore, assoluta. Il Tardis aveva persino agito al di là della volontaria coscienza del suo signore del Tempo e fatto in modo che avvenisse la metacrisi, rischiando così la sua distruzione fisica. Possibile che questa nascita facesse così male al Dottore, se quel che aveva visto DENTRO non aveva a che fare con il dolore ma con la cura di tutto?
Certo non ricordava più quelle terribili impressioni che le si erano riversate nella testa perché Lui le aveva rimosse perdendo la vita per questo ma…
Come poteva essere, cosa poteva significare quel che stava succedendo?
Avevano già notato come il Tardis si stesse sviluppando molto velocemente, in tempi più brevi da quelli teorizzati all’inizio ma dopo la rigenerazione sembrava che tutto stesse precipitando verso la conclusione come di fretta.
Improvvisamente le venne un dubbio atroce.
Che John stesse così male per il legame faticoso con quella Vita nascente – ora che il suo corpo era umano – in realtà sapeva c’entrare poco. Perché non era quello il legame tra lui e il Tardis. Il legame era più intimo, un legame interiore. Lui lo sentiva dentro.
-          E la sua mente non è cambiata… l’anima non cambia! – pensò sgomenta.
Era come se il Tardis stesse attraversano i tempi più velocemente per un motivo preciso, lo aveva sicuramente.
Stava…
correndo…
da lui…?
Improvvisamente il telefono che aveva tra i libri, sul tavolo, iniziò a vibrare. Rose guardò il numero.
Era quello di suo padre. 

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Capitolo 7
*** Un filo di fiato ***


Rose stava correndo come molte altre volte inseguita da qualcosa di spaventoso e di fatto lo era. Ma non era alle sue spalle. L’ascensore le era parso troppo lento, il pianerottolo, le scale, la strada... Troppi minuti, troppi preziosi minuti.
Il tempo correva.
…Corri, Rose…
La sua voce nella sua testa. Non era reale, non era un richiamo ma la sentiva lo stesso.
E le diceva di correre.
 
Il reparto medico del Torchwood era enorme. Rose non vi aveva mai fatto caso.
Vi era stata un paio di volte in compagnia di John per i controlli di routine cui si sottoponevano tutti coloro che lavoravano lì o avevano contatti con sostanze di origine particolare o sospetta ma a parte chi doveva fare delle analisi o si recava lì per essere medicato per qualche piccolo incidente avvenuto in un laboratorio, non vi era nessuno se non qualche sfuggente figura in camice bianco che appariva e spariva dietro delle porte perennemente chiuse.
Molte stanze si aprivano lungo i corridoi e grandi vetrate dividevano un settore dall’altro, dando al piano un’atmosfera più ombrosa e sinistra che altrove. Aveva anche notato dei rotoli di materiale isolante, così aveva detto una volta John impensierito dalla cosa, e quelle casse in materiale plastico di color arancio in giro per i corridoi ma mai tante come in quel momento. Le intralciavano la corsa.
Correva, Rose.  
In fondo all’ultimo settore che aveva aperto, aveva visto un gruppo di persone e proprio accanto ad una porta, suo padre. Era pallido e agitato.
Vicino a lui la dottoressa Catherine Lane che Rose conosceva, visto che lavorava con lui allo sviluppo controllato del progetto di John. Sapeva di lei anche per quel che ne diceva lui, che ne apprezzava molto le doti intellettuali e caratteriali. Sembrava sconvolta, il viso tirato, una mano nervosamente poggiata sulla bocca a tormentarsi le labbra senza nessun interesse per altri attorno, solo per una porta chiusa alle sue spalle.
Rose vide che c'era troppa gente in fondo a quel corridoio; ma lui non c’era.
Quando la vide, Pete rivolse uno sguardo alla dottoressa Lane che le venne incontro, pur restando un po’ più distante.
-          Rose eccoti…! – disse Pete. La voce era ansiosa. Rose aveva ormai compreso quanto suo padre fosse in genere controllato ma in quel momento non lo era affatto.
Ma qualunque ansia potesse incrinare la sua voce non era nulla al confronto di ciò che stava provando lei in quel momento.
-          Papà, papà! dov’è? – chiese allarmata.
-          Cerca di calmarti e stai a sentire…
-          Solo dopo che l’avrò visto, dov’è? – ripeté impaziente, agitandosi. Rose notò che la gente attorno la guardava, come tutti si aspettassero la sua presenza in quel luogo. Ebbe un brivido lungo la schiena – che è successo, che gli è successo? – Pete la prese fermamente tra le braccia e la guardò fisso.
-          Rose, John è di là… - la trattenne appena sentì che voleva entrare nella stanza – Rose, ora gli hanno dato qualcosa per abbassare la febbre ed è tranquillo ma la situazione è critica.
-          Io… non capisco.
-          Temiamo per la sua coscienza, per la sua mente. Un uomo non può sopportare a lungo febbri di questo tipo, signorina Tyler – Rose si girò verso la cupa voce che l’aveva chiamata per nome. Aveva avuto uno strano brivido.
Pete, che la stringeva ancora, l’aveva lasciata piano e la sua espressione si era fatta più fredda.
L’uomo che aveva davanti era come sbucato all’improvviso dal nulla, forse da una delle tante porte chiuse e in ombra, porte che di fatto li circondavano. Era una presenza che percepì immediatamente come negativa. Alto, massiccio, il volto pallido di chi non vede mai il sole. Indossava una giacca che sembrava di tipo militare ma molto scura e dai particolari indecifrabili, vista anche l’illuminazione del corridoio. Rose lo guardò allarmata e incuriosita insieme. Non lo conosceva. Ma lui conosceva lei.
-          Mi scusi, lei chi è? – chiese con la solita ruvida franchezza. Non le importava nulla, voleva solo aprire quella dannata porta oltre la quale lo avrebbe trovato; e ancora non sapeva in che stato.
Pete si irrigidì e la guardò un po’ preoccupato ma l’uomo con gli occhi gelidi accennò ad un sorriso, anche se la piega della sua bocca era quasi priva di labbra.
-          Mi permetta di presentarmi. Io sono l’ispettore superiore Daniel Tashen, signorina Tyler.
-          Ispettore, se mi conosce lei sa perché sono qui! – disse Rose impaziente.
-          Certo, comprendo il suo stato d’animo. Il Dottore è molto provato dalla situazione.
-          Provato, signore? Io non userei quel termine è decisamente riduttivo – disse Pete Tyler con scoperta amarezza e preoccupazione. Le persone vicine ne rimasero molto colpite come non se l’aspettassero. Rose vide che era lo stesso anche per l’uomo in divisa, sebbene si sforzasse di non far trapelare la cosa. Ma quel che aveva detto suo padre l’aveva fatta rabbrividire.
-          Papà…
-          Noi non sappiamo da cosa dipendano le condizioni di John Smith – disse calmo l’uomo in scuro – e tuttavia stiamo cercando di fornirgli la migliore assistenza possibile. Il Dottore sta portando avanti una ricerca di primaria importanza e noi teniamo alla sua salute più di ogni altra cosa, anche per motivi di interesse.
-          Per voi ce ne sono altri?  - Rose non riuscì a trattenersi. L’uomo in scuro non le rispose se non con uno sguardo gelido che parve un muro d’acciaio.
-          Dovremmo… riconsiderare la questione, signore. Se le condizioni di John dipendessero dal soggetto della sua ricerca, non sarebbe il caso di fermarsi? – Rose guardò Pete tacendo. Il suo sospetto andava in senso opposto a quel che tutti là dentro credevano. Notò però che la dottoressa Lane la stava fissando e il suo sguardo era impossibile da ignorare. Negli occhi di quella donna qualcosa, una domanda diretta a lei oppure…
-          Signor Tyler, ovviamente è il Dottore a decidere in proposito e qualunque sua decisione sarà la nostra.
La porta bianca alle loro spalle si aprì e tutti tacquero. Un giovane in camice bianco uscì dalla stanza seguito da altri due colleghi più maturi. L’espressione che avevano era indecifrabile.
-          Come sta? – Rose fu anticipata dalla dottoressa Lane e la cosa non le piacque. D’istinto le lanciò un’occhiata di fuoco che la donna ignorò del tutto.
-          Le condizioni del paziente sono instabili.
-          Instabili? – Rose impallidì.
-          La febbre è scesa è sveglio ed è cosciente – disse gelido il medico – consiglierei di tenerlo in osservazione ma il dottor Smith insiste, con notevole veemenza, di voler riposare a casa.
-          Molto bene, allora – disse l’uomo in scuro e rivolse lo sguardo a Pete Tyler –come vede, signor Tyler, certe situazioni sono meno drammatiche di quanto non appaiano agli occhi di un familiare apprensivo – Pete aveva dato un leggero segno di disagio, pur tenendo un atteggiamento composto - credo sia il caso di aggiornarsi sulla questione, non pensa? - Pete tacque. Tra i due uomini troppe parole non dette ed era evidente ma Rose non riuscì più a trattenere la propria impazienza. Voltò le spalle al gruppo di persone in cui era per varcare di prepotenza la soglia della stanza, seguita da uno dei medici che prima ne erano usciti.
Lo vide, disteso sul letto con una flebo in vena e avvolto dalle coperte. La giacca del suo vestito e il suo cappotto, piegati su una sedia con una certa cura che la colpì.
Aveva gli occhi chiusi, come dormisse.
Rose si sentì scossa guardandolo, percependo la sua debolezza in quel momento. Comprese una volta per tutte che cosa potesse significare che lui era in parte umano.
-          Ma non era sveglio? – chiese con voce sospesa. Uno dei medici si avvicinò a lui con aria perplessa. Controllò il suo polso e il respiro, poi la guardò.
-          Sta dormendo, signorina Tyler.
-          Ed è …?
-          La cosa migliore che possa fare adesso – l’uomo le rivolse un breve sorriso ma Rose pensò che avrebbe preferito non lo facesse.
-          Se dorme, aspetteremo che si svegli e poi andremo a casa, se vorrà.
-          Sarebbe il caso che …
-          Sarà come vuole lui – concluse lei con tono deciso. Poi prese una sedia e si mise vicino al lettino. Il medico le rivolse uno sguardo neutro, uno sguardo totalmente bianco che Rose non si sforzò neanche di ricambiare, poi uscì dalla stanza.
Rose lo guardò ancora, respirava piano ma aveva l’aria molto stanca. Tese una mano verso il suo viso per fargli una carezza.
-          Potresti svegliarlo – Rose chiuse le dita a scatto e si rivolse verso la voce che aveva sentito.
Lei. Era anche entrata là dentro per prima. Si irrigidì, lei non c’entrava nulla lì, in quel momento. Ma gli occhi tristi e preoccupati della dottoressa le fecero comprendere che forse non era la persona su cui sfogare la preoccupazione.
-          Perdona la mia presenza qui – disse Catherine intuendo le ragioni del suo sguardo ostile, inizialmente.
-          No, mi scusi lei. In fondo sembra che le stia molto a cuore, John. E a prescindere dal progetto che segue.
-          Per me il progetto e John Smith sono la stessa cosa. Ed è necessario che esso venga portato a termine con successo il più presto possibile. John deve dedicarvi tutte le sue forze, fino alla fine – il tono era stato gelido. Un fremito d’ira percorse Rose Tyler.
Che cosa crudele. John parlava della Lane come una donna sensibile e gentile. Proprio per questo aveva creduto fosse lì per lui invece si era sbagliata. E lui su di lei. Era stata stupida a credere che una donna come la Lane potesse interessarsi a John come persona. Catherine Lane si avvicinò, prese in mano le cose di John ben piegate sulla sedia e si sedette, proprio di fronte a lei. Rose la guardava confusa. Piena d’ira ma trattenuta perché lui era lì, riposava e se dormiva era il caso che lo facesse fin quando fosse necessario.
Lei la fissava in silenzio e il disagio aumentava. Poi Rose vide una cosa che la colpì. La donna, innervosita, accarezzava la giacca di John lisciandone le pieghe. Non dipendeva dal fatto di avere qualcosa in mano, qualcosa che avrebbe potuto mettere da parte tranquillamente su un’altra sedia ma che invece stringeva con cura. Il gesto di lei tradiva altro. Le sue dita si perdevano sui fili della giacca, sul colletto ed una manica, si perdevano dentro la manica dolcemente. Catherine poi non lo guardava ed era strano perché chiunque gli avrebbe rivolto uno sguardo impensierito ma lei non l’aveva fatto. Rose allora comprese che quelle erano carezze, carezze rivolte all’uomo addormentato tra loro.
-          Rose, è molto importante che John riprenda subito a lavorare. Non possiamo perdere troppo tempo, capisci? E’ fondamentale – Rose non sapeva che dire. Le parole e gli occhi sembravano non essere della stessa persona. Sembrava gelida ma non le sue mani sulle sue cose. Rose sentì una fitta di gelosia dentro ma non era il momento. La fissò perplessa e poi annuì lentamente abbassando lo sguardo.
Catherine rispose con un tiratissimo sorriso che aveva un senso profondamente diverso a quello che le aveva fatto il dottore.
-          Gli porterò quel che ha lasciato in laboratorio oggi. Deve finirlo.
-          Dottoressa…
-          Deve finirlo – ripeté la donna con tono deciso.
Catherine si alzò in piedi, poi ripose delicatamente quel che aveva in mano e finalmente, prima di uscire, sfiorò con lo sguardo John.
E fu qualcosa di simile al gesto che avrebbe voluto fare Rose sul suo viso. Anche lei rinunciò a fermarlo. Come avesse avuto peso, quello della sua mano; stesa su di lui.

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Capitolo 8
*** Una vita per una vita ***


 
Non conosceva le stanze di quel posto, forse. Non si rendeva esattamente conto di dove fosse.
Ricordava solo di essere uscito e non era solo; la strada, confusa e velata, le tracce della pioggia sull’asfalto, voci attorno, il cielo bianco. Le pozzanghere che avevano specchiato un palazzo rivoltato chissà in quale angolo, strisciate da arcobaleni di idrocarburi. 
Faceva freddo, un freddo azzurro e pungente. Le mani nelle sue, sulle sue, le mani addosso… troppo fredde. E poi gli occhi di quel cane, gli occhi chiarissimi di quel cane dal pelo rosso che lo aveva fissato…
… E la donna con la carrozzina scura, quello strano cigolare del mondo attorno…
Dov’era adesso?
Si guardò le mani, le sentiva strane. Guardò il suo riflesso in un vetro della finestra e i suoi occhi lo fissarono inquietamente. Giovane e vecchio insieme.
… tu non ci sei più…
Come chiunque altro prima, pensò. Era strano come riflesso non vedesse solo l’ultimo uomo che era ma anche le ombre di quelli che era stato. Nessuno sapeva che per questo, a volte, si fissava a lungo, per cercare qualcosa lasciato altrove, in qualcun altro di cui aveva avuto le iridi fredde o color miele, qualcuno che portava giacche diverse, più larghe e dalle tasche più profonde.
Proprio la sua giacca in quel momento lo stupì.
Leggera, scura. La conosceva ma non doveva averla più.
John si guardò attorno smarrito.
No, non c’era freddo, in quel momento.
La finestra era spalancata sul giardino, le tende bianche alzate dal vento. La sala aveva un pavimento di marmo così lucido che gli pareva di camminare sull’acqua. La stanza era grande ma attorno tante altre porte  spalancate su altre stanze, forse altrettanto grandi. Ciò che però l’attraeva in quel momento era fuori. Il sole tramontava e i suoi occhi diventarono tristi.
Il cielo era limpido e quindi attese quel momento in cui si accendeva di arancio scuro, di quel tono esatto, nell’inconsapevole coincidenza con un altro cielo ormai distrutto. Quando accadeva, gli occhi gli si inumidivano di lacrime e se era solo, piangeva. Chi più non c’era.
Finì quell’attimo, in un battito di ciglia umido, in un pianto trattenuto. John allora riguardò la stanza dove si trovava. C’era una luce innaturale, là dentro, come fosse in pieno sole ed invece non lo era. Sembrava il mattino, dentro, mentre tutto fuori si scuriva.
Si accorse che nelle stanze di cui vedeva la soglia, la luce era molto diversa.
Varie stanze e vari momenti del giorno, forse.
Del medesimo e per le stesse persone?
Non era detto.
Incuriosito mise le mani in tasca ed avanzò verso il centro della sala poi fece un giro su sé stesso. Apparentemente sembrava aperta su tre lati e la serie di porte sembrava molto numerosa.
Ad un tratto sentì qualcosa vibrare.
Non comprese subito perché la vibrazione la sentirono appena i vetri delle finestre e poi lui, provenire come dalle pareti della stanza. Si concentrò sul suono e sforzandosi sentì qualcosa.
Qualcuno… stava cantando…
Non riusciva a sentire la melodia ma solo che si trattava di qualcosa di basso, note lunghissime, quasi un richiamo. Il suo sguardo si fece più attento, come in attesa di altro. Quella nota inquietante lo toccava dentro.
Una risata femminile spezzò quell’incanto negativo, una risata che conosceva bene.
Nella stanza accanto la vide.
Rose Tyler…
D’istinto fece per andare verso di lei ma si accorse che era altrove.
La luce di un pomeriggio dorato nella vecchia casa di Rose…
Disordine ovunque in una camera da letto che conosceva. Su quel letto era stato sdraiato per un tempo che non ricordava del tutto. Rose incredibilmente era lì. Stava scherzando con qualcuno, con qualcuno che la stava stringendo tra le braccia e dal quale fingeva di volersi divincolare. John non riuscì ad avvicinarsi di più alla soglia, qualcosa lo spingeva a restare dov’era mentre l’abbraccio tra Rose e quell’uomo era diventato più stretto, più intimo. Ad un tratto lei lo aveva afferrato per la giacca di pelle scura che lui indossava e l’aveva baciato furiosamente, ricambiata allo stesso modo. Lui l’aveva circondata con le braccia e afferrata per la maglia, sotto la quale aveva infilato le mani per toccarla, accarezzarle i fianchi. Lei allora l’aveva lasciato, quasi scostandolo e con sguardo lucido, piegando le labbra umide in un sorriso di sfida, se l’era tolta e lui, ridendo, aveva buttato a terra la giacca. Vide Rose gettarsi addosso a lui e l’uomo prenderla in braccio rivoltandola sul letto. Li vide spogliarsi del resto di fretta, con urgenza. Lo vide chino su di lei che lo aspettava con ansia, gli occhi bellissimi che conosceva incollati a quelli chiari di lui.
Una scintilla di dolore intenso colpì John quando sentì il gemito di piacere di lei appena lui le fu dentro.
I loro respiri erano quasi furiosi, i loro corpi uniti in quella che quasi sembrava una violenza reciproca di cui entrambi si lamentavano in modo insopportabile.
..Lui.
Smarrito, incapace di muoversi, John si ritrovò a fissare chi era prima, mentre faceva l’amore con Rose.
Non era mai accaduto, non era mai stato.
Rose e lui non avevano mai…
Un urlo atroce lo fece voltare in un’altra direzione. In un’altra stanza stava accadendo qualcos’altro. John si girò un momento ancora verso gli amanti impossibili, ma quel che stava accadendo nella stanza vicina lo preoccupava d’istinto. Uomini vestiti di scuro attorno a qualcosa, qualcuno, mentre un pianto urlato sul fondo sembrava poter graffiare l’aria. Poca luce. E non era una stanza era una strada di notte…
 Ancora una volta sentì che non poteva avvicinarsi oltre. Vide solo la pozza di sangue allargata sotto il corpo a terra. Quando uno degli uomini si chinò su di esso, John vide un uomo dai lineamenti severi ma belli, giacere nel suo sangue. I grandi occhi verdi spalancati sul nulla, la giacca vittoriana inzuppata da una profonda ferita.
Lo riconobbe e ancora una volta non comprese.
Quando era stato lui non era accaduto. Di tutto quella volta, anche non ricordare chi fosse dopo che era cambiato, ma… non una cosa del genere. Lui poi non moriva a quel modo.
John era confuso. Poi lo vide.
Il cane.
Il cane che ricordava vagamente lo stava guardando da un’altra stanza.
John lasciò la soglia della stanza che guardava prima e si avvicinò a quella. Il cane era lì, immobile che lo fissava in un luogo vuoto, una sala spoglia. Lampi di luce attraversavano il pelo fulvo, come se delle scintille percorressero il corpo dell’animale. John lo fissava senza ansia, non era ostile e lo sentiva. Il cane ad un tratto si girò e lui vide che dal fondo, un’onda di oscurità stava passando velocemente, come correndo; le luci delle stanze più profonde stavano spegnendosi nel nulla e sentiva ogni porta chiudersi rumorosamente alle spalle del buio.
John si irrigidì e si accorse che il cane era sparito.
Tutte le porte che aveva attorno si chiusero di colpo. Poi, da fuori…
Qualcuno iniziò a bussare furiosamente.
Ad ognuna di esse e contemporaneamente.
John vide che sotto ciascuna, una lingua oscura tentava di penetrare nella luce della stanza. Anche fuori dalle finestre, sembrava che non vi fosse più il cielo.
John si girò ovunque.
Bussavano, bussavano a tutte le porte chiuse…
… chi c’era dietro le porte?
… cosa…?
Dove era…?
CHI ERA?
Il rumore si fece insopportabile, confuso, come qualcosa di spaventoso graffiasse fuori impaziente di entrare. Immaginò artigli, mani mostruose. Continuavano a battere ed ogni colpo lo sentiva dentro.
John sentì che il rumore stava diventando più regolare ed infatti divenne ritmico, i battiti del suo cuore.
Colpi violenti ad ogni porta, sempre più veloci, sempre più veloci, come tamburi impazziti.
Si portò le mani alle orecchie perché nonostante tutto, sopra ogni cosa, ancora, riusciva a sentire quella nota lunga, sorda, impressionante. Gli faceva vibrare le ossa, era una nota nera, una voce che mormorava in un pozzo di angoscia. Gli parve di precipitare in un abisso di dolore e iniziò ad urlare, perché sembrava che tutto dovesse schiacciarlo, che qualcosa potesse farlo esplodere da dentro. Era un buio nell’anima, l’orrore…
Il dubbio.
Sentì allora la rabbia impossessarsi di lui, salire dal più profondo del suo essere, spalancare il suo unico cuore fino alle sue labbra. Strinse i denti per il dolore ma questo divenne qualcosa di diverso.
-          ORA BASTA!!! – gridò con tutte le sue forze e gli occhi gli brillarono come cristalli splendenti.
Sopra ogni cosa; sarebbe stato in piedi davanti a qualunque cosa, anche alla tempesta, al mare immobile, al cielo che stava per crollare su tutto, non importava. Lui l’avrebbe fatto.
Perché lui sapeva essere terribile.
Come fosse stato un ordine, tutto tacque di colpo.
John con espressione tesa restava immobile quasi al centro della stanza.
Ad un tratto sentì dei colpi sul pavimento.
Non erano passi ma proprio colpetti, leggeri.
Si voltò, abbassò lo sguardo e rimase interdetto.
Una bambina di una decina d’anni era lì, davanti a lui, con gli occhi chiusi. Vestita di bianco lucido, scarpette dello stesso colore. Aveva i capelli lunghi, castano chiaro, fermati da un cerchietto elegante. Sembrava stesse andando ad una festa. John la fissò un lungo momento.
Il suo sguardo si fece più chiaro poi lentamente si avvicinò a lei che tese verso di lui la mano ma senza aprire gli occhi.
-          Voglio toccarti! – disse lei con tono deciso. John sorrise appena e si inginocchiò davanti a lei. I suoi occhi si erano fatti attenti ma dolci. La mano della bambina lo raggiunse. Era calda, gentile. Gli accarezzò il viso con attenzione, le labbra, e poi mise una mano sul suo petto ed inclinò un po’ il capo, come ascoltasse con attenzione qualcosa.
-          Dove sei? – le chiese lui sottovoce.
-          Non lo so – gli rispose la piccola accarezzandolo sul cuore. Il suo cuore era per lei una calamita - non ci vedo…!
-          Lo so – mormorò John. Mise la mano su quella della bambina – qui siamo…?
-          In un luogo che ho trovato nella tua mente.
-          Sto dormendo allora…
-          Sì.
-          È tanti posti insieme e tutti immaginari – mormorò – un mondo senza tempi e pareti ma con tanti tempi ed infiniti muri. Stupefacente.
-          È tutto dentro di te – disse la bambina – hai sentito dolore perché…
-          Perché ho avuto paura, lo so. Non è colpa tua – le sorrise.
-          Hai paura di me?
-          No, non ho paura di te. Tu sei meravigliosa – le accarezzò il viso e i capelli. Aveva un profumo delicato, che conosceva e non poteva dimenticare – ma dimmi, cosa c’è dietro quelle porte? Cosa ho visto?
-          Hai visto cose.
-          Quali cose?
-          Cose – ripeté la piccola. John chinò lo sguardo pensieroso -  tu sai da dove vengo?
-          Sei parte di Uno di un altro mondo. Non so molto altro e non ho conosciuto qualcuno che sapesse di più. Ma so che tu non hai tempo. Io lo sento dentro, lo vedo; ma non posso dominarlo.
-          Io posso, invece.
-          Sì, tu puoi – lei sorrise divertita.
-          Sai chi sono? – le chiese.
-          Sì. Sei un signore del Tempo. Mortale… - aggiunse piano.
-          Alla mia ultima vita – disse John.
-          Invecchierai.
-          Sì.
-          Morirai – John fece un respiro più lungo.
-          Sì, morirò.
-          E mi lascerai morire?
-          NO. Te lo prometto. Saprò cosa fare, quando sarà il mio momento.
-          Il tuo momento è già venuto eppure non lo è.
-          Ma io lo sento vicino – disse John. Finalmente lo ammetteva.
Nel silenzio aveva ascoltato qualcosa risuonargli dentro, qualcosa che davvero gli era parsa la nota sorda e buia che aveva generato la paura in quel luogo. Cacciava quel pensiero ma continuava a tornare, come quel suono in grado di scuotere il suo animo. 
-          È la morte che temi?
-          Di lasciare lei, sola – i suoi occhi si fecero lucidi. La bambina lo accarezzò piano.
-          Sento che devo arrivare ma non so dove sei.
-          Ed io non so dove tu sia, anche se ti sento.
-          Non posso vedere.
-          Ti guiderò io.
-          Come?
-          Sto cercando il modo, tu però abbi fiducia in me.
-          E sai che dovrai fare, non è vero? – John abbassò il capo e annuì.
-          Lo farai?
-          Sì…
-          Allora fammi arrivare da te, fammi arrivare e svegliami – gli sussurrò.
-          Accetti di stare con me? – le chiese John con tutta la speranza, il dolore e la dolcezza che aveva dentro.
La bambina con gli occhi chiusi era sparita nel nulla.
Al suo posto una ragazza vestita di bianco, i capelli chiari con scintille dentro; in ginocchio davanti a lui. Non poteva aprire gli occhi.
John sorrise emozionato. Timidamente cercò le sue labbra e le diede un lunghissimo bacio.

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Capitolo 9
*** Sonni e incubi ***


Pete era chiuso a chiave nel suo studio da solo, ormai da ore, in un silenzio assoluto e tormentato. Questo era evidente per tutti, anche per il personale di servizio che si preparava alla festa di Natale prevista due giorni dopo e che Jackie aveva rinunciato ad organizzare, come altre in precedenza, visto il numero di invitati che non conosceva e il suo evidente disagio verso tutta quella disponibilità di mezzi a cui non si era ancora abituata. Al momento poi non sarebbe riuscita a pensare al ricevimento, con John in quelle condizioni, Rose preoccupatissima e Pete così cupo e scostante da sconfortarla.
Rose aveva ritrovato un padre dal carattere più cupo e freddo di quanto avesse mai immaginato. Jackie un uomo identico a quello che aveva perduto eppure molto diverso. A volte le sembrava di stare con un estraneo con il quale non aveva ricordi in comune del passato che entrambi invece avevano diviso con altri; un estraneo al quale si era unita per nostalgia di altro che non era stato e non sarebbe stato mai. In fondo era quello che Rose aveva avuto paura di trovare in John per poi accorgersi che non era vero.
Eppure nel suo caso Jackie aveva percepito subito, d’istinto, di trovarsi davanti alla stessa persona che aveva conosciuto. Tempo prima Rose le aveva rinfacciato di non aver compreso le difficoltà iniziali tra lei e il Dottore umano, Jackie invece aveva capito silenziosamente entrambi e aspettato fiduciosa.
-          Mia figlia è stata fortunata e sfortunata insieme, ad incontrarti –
Gli aveva detto. Ricordava bene come avesse abbassato il suo sguardo profondissimo a quelle parole. Per una volta non le aveva risposto con ironia.
Perché l’amore che li legava sembrava di un altro mondo, come John e come era diventata Rose viaggiando con lui. Ma era pur vero che se l’avesse perso… nessun altro, nel cuore della figlia, sarebbe riuscito a superare un meraviglioso Signore del Tempo. E tale restava, anche se in un corpo Umano.
Per questo vederlo in quelle condizioni era per lei sconvolgente. Come per Rose. E Pete.
Perché era più che mai evidente che il gelo apparente di Pete Tyler non era davvero tale, nel suo cuore.
Rose aveva notato il suo sguardo nello specchietto retrovisore della macchina, mentre li riportava a casa e l’amarezza assoluta mentre guardava John, stretto a lei, tremante e smarrito; eppure lei aveva idea che John non lo fosse quanto sembrava, non completamente, poiché i suoi occhi scuri erano puntati su Pete in modo indefinibile, al di là della febbre e del gelo che lo raffreddava innaturalmente fin quasi a far sembrare le sue iridi ricoperte di un sottile velo di brina.
Era tuttavia evidente da tempo come Pete si tormentasse per qualcosa che nella mente di Rose aveva assunto le sembianze di quell’inquietante figura nera.
John si era fidato di Pete ed aveva deciso di crescere il Tardis al Torchwood  anche perché lì disponevano di materiale difficilmente reperibile altrove e molto spazio; altrove una persona come John sarebbe stata sprecata ma Rose sapeva che lavorare fuori dal mondo comune lo aiutava a vivere più serenamente la sua nuova condizione umana. Tuttavia il Torchwood era cambiato, stava cambiando. E lo sentiva anche Rose.
Pete era inquieto per questo, Rose lo sapeva per certo e Jackie l’aveva intuito.
Ormai anche Jackie si fidava del Dottore; si fidava di lui e gli voleva bene e il sospetto che Pete c’entrasse con il suo stato, la rendeva astiosa verso di lui.
Dopo averlo portato a casa, aveva messo John a letto perché riposasse e lui aveva continuato a dormire un sonno fastidioso, dal quale si svegliava per istanti come di soprassalto. Rose aveva visto sua madre, seduta sulla sponda del letto, accarezzare John piano come fosse un bambino malato, come ricordava fare con lei quando aveva la febbre. Lo guardava con occhi preoccupati, senza sapere che fare ma con il medesimo dubbio della figlia cioè che Pete sapesse che stava succedendo. E lo sapesse anche John.
 
Seduto alla scrivania Pete maneggiava quelle fiale di liquido lattiginoso, riposte in una scatola nera. Inorridito la chiuse a scatto e respinse; ma non quanto avrebbe voluto.
Restavano lì, in mano sua. Restavano lì e doveva decidere LUI.
-          Signor Tyler, si rende conto che un cervello umano non può resistere a lungo a stimoli fisici così estremi?
-          Proprio per questo sarebbe il caso di riconsiderare la questione, signor Tashen.
-          Avete chiarito se questa crisi fisica ha a che fare con il Tardis?
-          Così sospettiamo. Forse dipende dal fatto che essendo Umano, non può sostenere lo sforzo necessario a seguire il suo sviluppo. Forse questo tipo di fusione telepatica ormai è al di là di quel che John Smith può sopportare...
-          Le sue onde cerebrali non sono umane, è diverso  – lo aveva detto uno degli uomini che avevano trovato pronti a soccorrere John, nel reparto medico. Ne avevano approfittato, a quanto vedeva, per sottoporlo a test e controlli che lui aveva sempre rifiutato.
-          Pensa che non possa trattarsi di stress mentale?
-          Probabilmente sì. E forse è quel che sta facendo impazzire il suo corpo.
-          Signor Tyler, è necessario che il Dottore possa resistere fino alla fine del progetto. In questo stato non riuscirà a durare i tre mesi necessari alla sua conclusione e noi dobbiamo avere quella nave, è vitale per i nostri scopi.
-          A costo della sua vita?
-          A qualunque costo. E’ vitale per questo universo. Lei non vorrà ritrovarsi con la prospettiva di un’invasione aliena capillare…! Lei non vuole che la nostra civiltà venga spazzata via dall’ostilità che è ormai evidente verso la Terra, non è vero?
Ostilità evidente. Pete si chiedeva se poi fosse così davvero.
I Dalek, i Cyberuomini, i movimenti sospetti tracciati dalla rete d’osservazione spaziale globale, controllata dalle varie organizzazioni nazionali che avevano funzioni simili al Torchwood ma di fatto facevano capo ad esso. I dati parlavano chiaro, interferenze, relazioni che provenivano dalla superficie ed erano inviate nelle profondità dello spazio da agenti inviati sulla Terra per studiarne i punti deboli.
Un intero piano degli edifici del Torchwood era pieno di…
Pete scosse il capo cacciando via l’immagine di quel luogo, delle luci intermittenti, il rumore delle scariche elettriche, dei lamenti…
…quello delle macchine che trapanavano, spezzavano, tagliavano…
Spaventoso.
Come il silenzio dei piani superiori, ignari di tutto.
Il male sprofondato lì, il male necessario.
Ma avevano già avuto ripetuta prova di quanto gli altri mondi potessero essere ostili e i contatti con essi rappresentare potenziali catastrofi planetarie e stragi di innocenti. Il pensiero della sua Jackie trasformata in un orrenda creatura metallica e senza sentimenti, gli fece emettere un gemito di dolore ed esasperazione. Si sentiva impotente, frustrato, devastato dai dubbi.
Riprese, esitando, le fiale sulla scrivania.
-          Le condizioni del Dottore potrebbero peggiorare ulteriormente …
-          Per questo John dovrebbe essere aiutato!
-          Sono di questo parere, signor Tyler – ma gli occhi di Tashen, quei maledetti occhi che sembravano pareti grigie, gli avevano chiarito subito che non era un aiuto nel senso che avrebbe sperato per lui.
-          Che avete in mente?  - lo aveva chiesto con timore.
-          I laboratori hanno sviluppato uno stabilizzante molto efficace, qualcosa che permetterà al Dottore di sentirsi meglio e subito. Sospende progressivamente gli stimoli dolorosi e rende insensibili fisicamente.
Pete era rimasto interdetto.
-          Questo farmaco non migliorerà le sue condizioni ma lo farà sentire meglio. E’ in queste fiale che vede, divise in cinque dosi singole – il medico gliele aveva porte in una scatola aperta, con dentro una siringa speciale, simile ad una pistola – contengono una sostanza sinaptico-protettiva e quindi proteggeranno le sue funzioni celebrali garantendogli una piena coscienza. Terranno inoltre il suo corpo ad una temperatura stabile appena superiore alla norma e mai inferiore, quindi fisicamente più sopportabile per un uomo.
-          Non mi ha ancora detto in cosa consistono le controindicazioni.
-          Il ritrovato è molto efficace ma l’assunzione prolungata indebolisce il cuore e alla lunga causa un blocco renale nel soggetto – le parole del medico erano state gelide.
-          In ogni caso si muore senza dolore, signor Tyler – Pete era rimasto sconvolto ma l’orrendo sorriso di Tashen lo aveva addirittura spaventato. Com’era possibile che si giungesse a qualcosa del genere? Come poteva essere sopportabile moralmente?
Avute in mano le fiale, Pete non si era neanche chiesto perché avessero scelto lui. Era evidente.
John forse non si fidava di loro ma di lui, sì. Era voluto tornare a casa piuttosto che restare in osservazione al Torchwood perché lì si sentiva al sicuro ma non lo era.
Pete aveva tenuto quella scatola  tra le mani tremando e rivolto loro uno sguardo che doveva essere stato di supplica. Come poteva farlo?
Che non fosse lui a tradirlo, a fargli del male.
Ma se quel che avevano visto e subito fosse tornato? Che ne sarebbe stato di tutti?
E la sua famiglia?
Se il mondo dipendeva da quello, se davvero era necessario proteggere il pianeta da quel che poteva accadere, era giusto richiedere sacrifici e coraggio estremo a tutti.
Pete non sapeva se ne aveva abbastanza, non per quello.
Prese la scatola e la mise nella tasca interna della giacca del vestito, che ancora indossava. Poi si alzò dalla scrivania e guardò la porta.
Lo scatto per girare la chiave ed uscire gli fece quasi male.
 
Rose vide uscire suo padre dallo studio e fece per andargli incontro. Vide che Pete aveva fatto un lungo sospiro.
-          Come sta, John? – le chiese con tono strano.
-          Dorme. Ti volevo parlare…
-          Scusa, Rose, non è momento.
-          Papà…
-          Vado da… lui – Rose ebbe una strana impressione a quelle parole. Non la guardava. Pensò che fosse meglio lasciarlo solo anche se non avrebbe voluto  – Rose… -  lei non ebbe il tempo di rispondere. Pete la prese tra le braccia e la strinse forte a sé. Era la prima volta che lo faceva. Il cuore di Rose quasi si fermò per la felicità di quell’attimo tanto desiderato e immaginato da tempo e affondò il viso nella giacca del padre che sapeva di buono. Le vennero le lacrime agli occhi e si aggrappò a lui come fosse tornata bambina. Pete la accarezzò e baciò sui capelli poi la lasciò e si allontanò da lei. Senza guardarla.
 
 

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Capitolo 10
*** Empatia (I) ***


 
Si sentì accarezzare dolcemente e prendere la mano. Aprì gli occhi e la vide. Assorta nei suoi pensieri lo stringeva piano con tenerezza infinita. Sorrise appena senza farsi capire. Quando lei lo guardò le rivolse uno sguardo spalancato. Jackie e lui si fissarono un lungo momento.
-          Stai per dire qualcosa di sarcastico? – disse lei con tono già pungente ma indeciso.
-          Stavi facendo qualcosa di sconveniente?
-          Nooo! – quasi gridò e fece per lasciarlo. John le afferrò la mano e intrecciò le dita nelle sue. Poi le sorrise svagato e Jackie lo ricambiò, appena. Ancora preoccupata – come ti senti…?
-          Molto bene e ho molta molta fame! – rise poi si fermò un istante pensieroso – in realtà dovrei anche andare in bagno…
-          Ci sei dovuto andare cento volte, stanotte – disse. Lui la guardò disgustato – non avevo mai visto nessuno stare così male… nemmeno quella volta che ho mangiato frutti di mare non freschissimi ed io e la mia amica Peggy abbiamo trascorso tutta la notte a vomitare l’anima.
-          Ah… - non era contento di saperlo. Ma lei continuò.
-          Ti assicuro che non è stato niente, niente al confronto! Mi hai fatto paura! E anche a Rose – l’espressione di John cambiò istantaneamente. Jackie notò come fosse bella la trasparenza dei suoi sentimenti per lei. Diversamente da com’era Pete nei suoi confronti.
Il suo sguardo si era fatto pensieroso.
-          Dov’è Rose …?
-          È andata da Liz e poi a riposare un po’, poco prima che ti svegliassi. Oh, John!  Ho temuto che… - Jackie esitò e scosse il capo cacciando quel pensiero - avrei voluto chiamare l’ospedale, eri agitatissimo, deliravi. Pete non ha voluto e non capisco perché!
-          Pensa che non me lo ricordo…  - mormorò perplesso.
-          In effetti sembri un altro, da questa notte.
-          E tu sei stata qui con me … ? – si sollevò e si mise seduto. Jackie allora si alzò dalla sedia vicina e si sedette sul letto accanto a lui.
-          Visto che c’ero… La bambina non ha dormito molto e quindi ero sveglia – puntualizzò lei con una punta di finto sarcasmo  – e poi… ho aiutato Rose a… insomma, tu sei alto e anche se sei come ragazzino…
-          Un ragazzino! – lui la guardò offeso e lei sorrise.
-          Anche se sei così, tu pesi …
-          Ok, ho capito! Sono contento di non ricordare – disse guardandola con le labbra appena piegate tra un sorriso e l’imbarazzo. Sebbene non ne provasse molto al pensiero della propria nudità davanti agli altri, fino a certi casi estremi, con Jackie si sentiva a disagio al pensiero di farsi vedere in tali condizioni. Pensò che stranamente era stato così anche con Rose quando...
-          E comunque non pensare che sia stata la prima volta che ti ho visto – disse lei con un sorrisetto – chi pensi che ti abbia messo addosso il pigiama, quel Natale?
-          Quel pigiama del tuo amico, giusto! – marcò ironicamente la parola e Jackie assottigliò gli occhi con espressione infastidita; Poi John fece una smorfia –  non mi ero mai posto il problema ma… speravo fosse stata Rose!
-          Rose? Ma figuriamoci! Mickey ed io – disse Jackie con un sorrisetto.
-          Fantastico! – in realtà se lo immaginava.
-          Lei era troppo imbarazzata da te… da te cambiato. Per me invece tu eri solo un ragazzo che non stava bene, come stanotte. Ma voi non avete madri, dalle vostre… dalle vostre parti?
-          No...non era come per voi – disse con un velo di qualcosa di indefinibile. Poi la guardò ironicamente – per fortuna.
-          Sì, sì… certo! – disse Jackie – il tuo umorismo mi tranquillizza. Sei tornato il solito acido alieno.
-          Oh, sì! – disse lui con un sorriso trionfante. Poi il suo sguardo si fece insolitamente tenero guardandola e Jackie pensò che in fondo le veniva facile comprendere perché sua figlia avesse perso la testa per quel tipo – grazie, Jackie – le disse piano e lei quasi arrossì per come aveva pronunciato quelle parole. Poi le lasciò la mano – ora però, scusami, ma devo decisamente andare in bagno! – si alzò buttando all’aria le coperte e rimase un attimo fermo, constatando il proprio perfetto equilibrio sulle sue gambe, poi si diresse verso la stanza accanto fischiettando una canzoncina natalizia.
Mentre lo guardava Jackie pensò che il Dottore aveva un temperamento molto più dolce di quanto avesse mai creduto anche se lo nascondeva molto bene.
In ogni caso era davvero bellissimo vederlo stare meglio e in piedi.
 
Aveva trovato Rose addormentata profondamente su un divano del salotto e nonostante la luce le accarezzasse il viso ed accendesse i capelli come fossero fiamme chiare, non si svegliava. Doveva essere esausta. Si era inginocchiato accanto a lei un momento e l’aveva guardata, sospeso nei suoi pensieri e del pensiero di quanto fosse dolce il suo viso da ragazzina, mentre dormiva. Non la baciò per non svegliarla ma lo fece, nei suoi pensieri. Come aveva fatto per tanto tempo.
Scostò la malinconia dalla sua mente e guardando le decorazioni natalizie fece un sorriso. Aveva proprio voglia di fare un giro in città per qualche bel negozietto e passeggiare con un bicchiere di tè caldo tra le mani godendosi in pace l’atmosfera festosa. Per quell’anno non era previsto nessun disastro alieno. Forse.
Magari in un mondo parallelo le astronavi preferivano precipitare su Londra per Carnevale.
Con sguardo perplesso sui suoi pensieri si chiese se tale festa somigliasse a quella che conosceva sulla Terra dall’altra parte dell’universo. In ogni caso era tutto da scoprire e la cosa lo elettrizzava.
Indossò il suo lungo cappotto marrone con un sorriso e dopo un altro sguardo a Rose addormentata, uscì silenziosamente dalla stanza.
 
La voce alterata di sua madre, svegliò Rose di colpo. Per un momento aveva avuto l’impulso di cercare la sveglia e sbatterla giù dal comodino. Non succedeva da anni. Nel dormiveglia le era anche parso di essere nella camera da letto della sua vecchia casa e stava facendo un sogno strano, assurdo, confuso…
Gli addobbi natalizi la riportarono al momento presente.
Cercò di mettersi dritta ma l’aver dormito raggomitolata sul divano la faceva sentire indolenzita. Le urla di sua madre però la scossero e fecero rapidamente mettere a sedere.
Prese coscienza del momento e allarmata cercò con lo sguardo Jackie, vicinissima.
-          Mamma! – chiamò.
-          È un folle, un pazzo! Ma come ha potuto pensare di fare una cosa simile?
-          Chi, cosa? – era ancora stordita ma nella sua testa si fece subito strada il pensiero di John. Impallidì e si alzò di scatto – oddio che è successo…?
-          È uscito di casa! Rose… è uscito di casa!
-          Ma lui come…?
-          Oh, Stava meglio, Rose! Molto meglio.
-          Bene…
-          Doveva riposare però! E’ normale uscire dopo una notte simile?
-          È quindi è… uscito? – ripeté la domanda meccanicamente mentre lisciava i capelli increspati dal sonno improvvisato. Jackie la guardò con gli occhi quasi schizzati dalle orbite.
-          L’ho detto prima, Rose! John è uscito! – si lamentò esasperata – e tu non dici niente?
-          Sarebbe dovuto restare a letto…
-          O almeno a casa! Stanotte è stato l’inferno!
-          Già…
-          Ma perché, perché è così imprudente?
-          Perché non se ne rende conto  –  disse piano Rose.
-          Ma se si sentisse ancora male?
-          Non pensare al peggio. Se stava bene come dici non c’è motivo di preoccuparsi – vide Pete sulla soglia della stanza sorridere rassicurante.
-          Ma pensavo morisse! Stanotte io pensavo morisse…
-          Jackie…
-          Pete, credimi. Quando l’hai visto era in una tregua. Dopo che sei andato via è stato… - Jackie ancora non si capacitava del fatto che non avesse voluto chiamare l’ospedale – non voglio pensarci.
-          È stata una notte faticosa per tutti – disse Pete.
-          Ho visto che ha preso il mio telefono – disse Rose – in ogni caso, ha come chiamare – le venne quasi da ridere al pensiero che fosse il Dottore a dover chiamare Jackie per rassicurarla – mamma… se lo chiami ti strozzo – aggiunse piano. Jackie la guardò malissimo.
-          Ad ogni modo si può discutere su tutto tranne sul fatto che sia abbastanza adulto da prendere decisioni da solo.
-          Non fatemi pensare al problema della differenza d’età tra noi… – mormorò Rose con un sorriso indeciso. Jackie la guardò perplessa – mamma, stavo scherzando…! – disse subito, per evitare un discorso assurdo da portare avanti ancora stordita. Pete le sorrise. Sembrava notevolmente più sereno della sera prima – papà, come mai non sei al laboratorio, oggi?
-          Ho preso qualche giorno per stare con la mia famiglia, è Natale – disse. Rose gli sorrise felice. Jackie li guardò entrambi in silenzio.
-          Un po’ di riposo farà bene a tutti, soprattutto a John.
-          Signor Tashen permettendo – a quel nome, Rose notò come gli occhi di suo padre avessero cambiato luce, anche solo per un attimo.
-          Gli ho parlato, Rose. E’ d’accordo. Ci vuole riposo per tutti. Dobbiamo monitorare le condizioni dell’esperimento perché non vada fuori controllo ma…
-          Quindi la dottoressa Lane non è venuta a casa? – Pete la guardò perplesso.
-          Catherine? Che doveva fare qui?
-          Ha detto che avrebbe portato qui il lavoro che John aveva lasciato in sospeso e che doveva finirlo il prima possibile – lui scosse il capo pensieroso – strano. Eppure sembrava tenerci molto…
-          Rose, non so nulla. Posso chiamare in laboratorio e chiedere se…
-          Hai appena detto che è Natale, no? – protestò Jackie con tono lamentoso – e allora lascia stare. Purtroppo ogni volta che hanno bisogno di te, sanno come raggiungerti – lui annuì, si avvicinò a lei e la strinse tra le braccia, poi la baciò. Rose, ancora stordita dal sonno guardò la scena come quasi fosse un altro sogno e sorrise.
-          Adesso… speriamo che John torni presto a casa e che stia ancora bene – disse Pete allegramente – noi qui abbiamo anche una festa da organizzare.
-          Non me ne parlare! – gemette Jackie.
-          Vedrai che andrà tutto benissimo – Pete le sorrise.
Rose guardò fuori dalla finestra. C’era un tempo splendido ma fuori era freddo.
In realtà era molto meno arrabbiata di sua madre per il fatto che John fosse uscito senza dire niente ma comprendeva le sue ragioni ed erano giuste. Se fosse stata sveglia avrebbe fatto di tutto per cercare di tenerlo a casa tranquillo. Ma il Dottore aveva sempre fatto come voleva e non era per nulla strano. Avrebbe persino dubitato di lui, vedendolo fermo per troppo tempo.
Sperò che fosse prudente e non vedeva l’ora di vederlo tornare a casa da lei.
Era bello il Natale in famiglia.
 
La strada era affollatissima e lui di ottimo umore, si sentiva addirittura euforico. Si chiese se fosse una controindicazione della febbre altissima o solo una reazione personale alla cosa. Optò per una ragionevole media delle due cose e poi la mise da parte per un pensiero che non c’entrava nulla: nonostante due zollette di zucchero, il tè non sapeva di niente e non era neanche caldo come avrebbe voluto. La tazza però fumava. Aveva fame, nonostante avesse mangiato qualcosa a casa prima di uscire e si rese conto che neanche quel che aveva ingerito era parso avere molto sapore. Era una cosa molto particolare per lui e osservò la questione allegramente.
Gli addobbi erano gli stessi di sempre, alla fine. A parte il Babbo Natale verde o bianco che vedeva in giro al luogo di quello rosso e l’uso di fili d’argento anche superiore a quelli d’oro per qualunque decorazione. Forse perché stavano meglio con il bianco e il verde? Era discutibile, molto.
Si intrattenne con considerazioni sul gusto corrente per gli accostamenti di colori per qualche minuto poi rivolse lo sguardo al cielo limpido e sereno di una giornata che alla fine non era neanche fredda come aveva temuto o come gli diceva il fiato. La gente attorno si muoveva presa dalle ultime spese addossandosi, spingendo, camminando velocemente con i pacchetti in mano; lo trovava bellissimo e osservava tutto come un invitato ad una festa improvvisata. Altrettanto improvvisamente si accorse che era successa una cosa gravissima.
Non aveva comprato nessun regalo. Neanche per Rose non almeno… un dono tradizionale.
L’ultimo mese era stato molto strano e faticoso per lui ma forse aveva il tempo di rimediare alla cosa.
Una donna con una carrozzina scura gli passò accanto con una certa fatica, vista la strada affollata e lo distolse dal pensiero. Una delle ruote rimase leggermente incastrata in una fessura del marciapiede.
-          Aspetti, la aiuto – le aveva detto con un sorriso, vedendo che aveva difficoltà a farsi strada, anche per i pacchi che teneva in mano. Guardò in piccolo. Il bimbo era strettamente avvolto nella sua copertina e un berrettino verde gli copriva la testa. Incrociò i suoi occhi scuri per un breve attimo e gli sorrise; così a lui la madre che lo guardò con un certo interesse. Era una ragazza sottile dai capelli biondi e il viso affilato. Per un momento gli parve di averla vista da qualche parte.
-          La ringrazio molto dell’aiuto – disse timidamente.  John raccolse un giochino del bambino, caduto a terra ma poco prima di ridarlo alla madre lo guardò perplesso e poi sgranando gli occhi lo fissò come rapito. La ragazza lo guardò perplessa.
-          Oh, mi scusi, tenga – disse John con un sorriso radioso. Lei non poté fare a meno di ricambiarlo pur non comprendendone il senso. Poi si allontanò con il passeggino nella folla, voltandosi a guardarlo altre due volte.
Rimasto inchiodato alla strada, perso nei suoi pensieri.
-          Non è possibile… era una soluzione così ovvia, così ovvia! – mormorò tra sé protestando – beh, è fantastico, fantastico! – disse a voce alta e più di qualcuno si girò a guardarlo.
Come aveva fatto a non pensarci? Il suo stato fisico doveva avergli reso più difficile pensare.
Ora aveva trovato la chiave per la serratura del tempo e dello spazio nelle sue dimensioni.
Doveva solo capirecome girare e aprire la porta.
Per nulla turbato pensò che doveva tornare a casa, che doveva andare in laboratorio e fare una modifica fondamentale, non prevista ma semplice. La voglia di rimettersi a lavoro era irrefrenabile.
Guardò la strada piena di persone indaffarate. Era eccitato, quasi fuori di sé.
Aveva voglia di correre velocemente, rifare la strada in un decimo del tempo, saltare la gente, attraversare i quartieri a festa senza farsi distrarre. Sorrise al cielo limpido e poi si voltò verso la prima vetrina vicina, una cosa casuale, un istante.
Ma quando la vide il bicchiere di carta gli cadde dalle mani.

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Capitolo 11
*** Empatia (II) ***


Odiava le feste. Le odiava profondamente. Non era stato sempre a quel modo ovviamente ma ormai erano anni che per lei erano un momento avvilente, triste.
Quell’anno addirittura una tragedia ma forse le feste lo erano sempre, per la commessa di un negozio di corsetteria di lusso. La serie infinita di donne isteriche e compagni annoiati che le seguivano distrattamente in attesa degli acquisti teoricamente più eccitanti, tirava fuori il peggio del suo carattere. Le richieste spesso e volentieri rasentavano l’assurdo e il modo di porsi delle clienti era davvero troppo maleducato per i suoi gusti. Non riusciva a farselo piacere o a sopportare il senso di superiorità con il quale molte la guardavano e le chiedevano pareri sulla mise imbarazzante di turno indossata senza pudore, il cui costo era mediamente pari a quello di suoi tre stipendi. Si trattava di oggetti che nella migliore delle ipotesi avrebbero fatto figura per cinque minuti scarsi. A meno di non trovarsi a letto con qualcuno più interessato alla biancheria intima che al contenuto.
Che senso avevano quelle cose? Ironicamente le doveva vendere.
Non avrebbe avuto futuro, là dentro. Sapeva già che finito quel periodo non le avrebbero chiesto di restare. E così sarebbe stato l’ultimo lavoro perso della serie.
Aveva un bel dire sua madre al proposito del trovare un’occupazione. Le diceva almeno quattro volte al giorno che alla sua età non poteva più permettersi di sperare in qualcosa di meglio di quel che trovava e non aveva più senso mollare tutto ogni tanto facendosi venire delle crisi, tali da spingerla a spendere i risparmi di mesi per fare viaggi spirituali o corsi per placare la propria inquietudine personale. Non aveva torto ma nessuno sembrava interessato alle sue ragioni. La sua vita era su un binario sbagliato, lei si sentiva un treno impazzito.
E Le sarebbe davvero piaciuto poter investire quel tizio che aveva davanti, un uomo con la bocca larghissima, i capelli tinti di un improbabile nero assoluto e un sorriso odontoiatricamente corretto ma più finto e fuori posto di una dentiera in un bicchiere di vetro, messo tra le tazzine da tè.
Perché diavolo continuava ad agitarle davanti quella sottoveste rossa, l’aveva presa per un toro?
-          Senta, signorina…
-          Signorina? Le sembro una zitella? – lo rintuzzò aggressiva.
-          Signora…
-          Ho l’aria così vecchia?
-          Ma insomma! Come devo chiamarla? – con un sorrisetto mostrò il cartellino appuntato sulla giacca dove il suo nome era scritto a chiare lettere, nero su bianco – ah, bene… - il tizio ignorò la cosa – senta, mi hanno detto di chiedere a lei per questo.
-          E che sarebbe?
-          Come, che sarebbe? – se non si dava una calmata rischiava l’infarto, sicuramente. E non le sarebbe dispiaciuto – allora, ho acquistato questo dono per la mia… aem…amica…
-          Dono perfetto per un’amica – disse con un sorriso.
-          Grazie – rispose quello senza comprendere l’ironia – ad ogni modo ho sbagliato… taglia – sussurrò come fosse stata una parola sconveniente.
 Lei lo guardò stravolta. In sostanza, il tizio aveva fatto un regalo di Natale all’amante, regalo che lei aveva aperto in anticipo alla faccia delle tradizioni. Un regalo allusivo che sicuramente si era già trasformato nell’incubo del poveraccio perché aveva sbagliato sicuramente al difetto, a giudicare dal nervosismo.
Compatì brevemente quel patetico uomo. Ad una donna non piaceva mai cercare di indossare qualcosa di troppo stretto.
Guardò rapidamente il cartellino della sottoveste che aveva in mano e lui la guardò speranzoso.
-          Mi dispiace, signore. E’ la taglia più grande – concluse.
-          Ma…
-          Cambi modello, ce ne sono di…
-          Ma lei voleva proprio quello!
-          Non c’è…
-          Ma…
-          Le ripeto che non c’è – una ragazza che assisteva alla scena in imbarazzo, si mise quasi tra lei e quel tipo. Con un professionale e rassicurante sorriso, prese la sottoveste dalle mani dell’uomo e con tono soave gli disse che forse avrebbe potuto mostrargli qualcosa di molto simile con cui sostituire l’articolo. L’uomo parve rianimarsi e prima di allontanarsi con la giovane, le rivolse un’occhiata astiosa che lei ricambiò con un sorrisetto ironico.
Un'altra commessa molto giovane le si avvicinò.
-          Odioso – le disse – ma cliente tra i più affezionati.
-          Immagino il perché – la guardò – ma come fai a sopportare questa vita?
-          A me piace il contatto con le persone.
-          Anche a me, non sono un’asociale! – la ragazza rise.
-          No, no. Ma… ho l’impressione che tu sia poco adatta a questo lavoro, senza offesa.
-          Non mi offendo, lo so benissimo – concluse lei più seccata dalla cosa che triste.
-          Il tuo carattere dev’essere un bel problema con gli uomini però – rise lei.
-          Eh già! Perché negarlo?
-          Eppure mi sa che hai proprio fatto colpo!
-          Cosa? – la guardò con occhi sgranati. Incredibile davvero. E non se n’era accorta.
Chissà che razza di pessimo esemplare maschile le aveva messo gli occhi addosso. La ragazza le indicò con un cenno la vetrina.
-          Lì in fondo, guarda.
-          Dove?
-          Quel bel tipo alto con il cappotto marrone, lì! – lei lo vide ed appena lo guardò, lui le sorrise, le sorrise in modo così bello e luminoso che restò a guardarlo con espressione idiota per qualche istante.
-          Oddio…! Guarda proprio me - mormorò agitata.
-          Appena ti ha vista è rimasto folgorato. E’ lì da una decina di minuti almeno! – la ragazza rise ancora – mai vista una cosa simile. Un vero e proprio colpo di fulmine. Però… è bel ragazzo davvero!
-          Sì… ma non direi ragazzo non è poi così giovane…  – mormorò lei guardandolo fisso.
-          Quel tipo ti pare vecchio?
-          Ha l’aria strana…
-          Strani i suoi capelli – disse la ragazza e poi guardò l’orologio – stupido invece che tu sia ancora qui e non sia uscita a vedere cosa vuole!
-          Questo è un negozio. Se vuole qualcosa, può usare la porta! – disse decisa; certo non voleva fare la parte della sfacciata o di quella che non aspettava altro che attrarre l’attenzione di uomo. Inoltre era davvero insano pensare di attaccare bottone con un estraneo che la guardava da una vetrina. Lui però sembrava decisamente insolito ed anche attraente. Cacciò via, sdegnata, il suo pensiero al proposito ostentando indifferenza.
La ragazza rise ancora poi guardò la vetrina stupita e le tirò una gomitata, visto che già lei ostentava indifferenza rivolta dall’altra parte.
-          Hey! – protestò. La ragazza si limitò ad indicare fuori.
Era inaudito. Il tizio aveva iniziato a gesticolare. Assottigliò lo sguardo ed inclinò il capo con espressione perplessa.
-          Ma che…? – l’uomo con il cappotto marrone insisteva. Sembrava agitato. Era irritante.
Incurante della clientela attorno e degli sguardi stupiti, lentamente e scandendo le parole a distanza, gli chiese cosa volesse da lei e attese la risposta con le mani sui fianchi, indispettita.
Lui, perplesso, le rispose nello stesso modo, che voleva parlarle.
Sempre più nervosamente gli fece capire, sottolineando il concetto con lunghi gesti, che non sarebbe uscita da lì senza una buona ragione. L’uomo l’aveva guardata fisso, con i grandi occhi spalancati e poi aveva riso.
Va bene, arrivo.
Le aveva risposto.
Le commesse e più di qualche cliente guardarono lo strano tipo entrare nel negozio con le mani in tasca e lo sguardo fisso su di lei.
-          Se per caso ti va buca, dagli il mio numero di telefono – mormorò la ragazza strizzandole l’occhio.
Guardandolo percepì che sembrava confuso, sorpreso e felice. Tutto insieme. E lei se ne rendeva conto profondamente, solo avendolo davanti.
Era un uomo giovane, anche se qualcosa in quello sguardo era molto strano. Quando le fu vicino, molto vicino, si mise davanti a lei come in attesa. Lo squadrò senza ritegno.
Era bello ma in modo particolare. Vestito in modo singolare, forse un po’ retrò, non fosse stato per le scarpe da ginnastica ai piedi. Non aveva buon gusto, concluse, ma aveva un bel sorriso. Un’espressione per nulla rassicurante forse; ma lo erano i suoi occhi profondi che la guardavano brillando come stelle. Urtata dall’imbarazzo che le provocava gli piantò addosso lo sguardo più freddo del suo repertorio.
-          Allora, cosa…?
-          Ciao! – le rispose con un gesto della mano. Una voce bella e gentile.
-          Cia… - si interruppe incredula. Salutare così un estraneo non era da lei – buongiorno, signore – scandì acidamente.
-          Ok, buongiorno! – rispose lui allegramente. La sua voce non era comune eppure…
…Familiare…?
Cercò rapidamente di fare mente locale e ricordare dove avesse potuto incontrarlo. Perché qualcosa le diceva che non era la prima volta che lo vedeva.
-          Noi ci conosciamo? – gli chiese.
-          Davvero non so come risponderti – mormorò lui indeciso.
-          Ci siamo già visti, allora.
-          Può darsi – disse esitante. Un ex collega di lavoro? Era possibile. Ma di quale lavoro?
-          Siamo stati insieme al recupero crediti?
-          No…
-          Al call center dell’azienda telefonica…
-          No!
-          Al negozio di animali?
-          Veramente no, ma forse mi sarebbe piaciuto, salvo che per i gatti … - si mise a braccia conserte e la guardò sempre più confuso sul da farsi. Come lo era lei.
-          Venditore porta a porta? – insistette. Lui scosse il capo - … controllo qualità delle merendine…?
-          Hai fatto anche questo? – le chiese stupito. Lei lo guardò rabbiosamente  – no, no. Comunque… No – disse cercando di restare serio.
-          Allora eravamo insieme a quel provino per la pubblicità del dentifricio sbiancante …? - a stento si trattenne dal riderle in faccia.
-          Davvero è un’esperienza che mi manca. Sarà per la prossima volta… - disse abbassando lo sguardo con un sorriso.
Ma era un gioco a quiz? Chi diamine era quell’uomo?
-          Sto perdendo la pazienza…!
-          Io invece ne ho davvero molta.
-          Ma davvero? – anche lei si mise a braccia conserte. Sembravano allo specchio – ecco un uomo discreto e paziente, quindi.
-          Discreto non direi in nessun senso. Paziente…Te l’assicuro.
-          Irritante sopra ogni cosa – protestò lei.
-          Me lo dicono, a volte.
-          Ora basta… mi dica perché mi stava guardando! – lui la guardò come avesse chiesto una cosa stupida ed evidente e questo la fece ulteriormente innervosire – Allora? Voleva entrare?
-          Volevo uscissi!
-          E quindi non entrare…? – si guardarono fissi un lungo momento.
-          Aspetta… che intendi per entrare… ? – chiese lui con voce esitante.Lei lo guardò interrogativamente poi divenne rossa e lui abbassò lo sguardo imbarazzato. Lo erano entrambi – cioè io…
-          Intendeva quindi…?
-          No, no, no, no!  –  disse lui di fretta con gli occhi sbarrati. Lei lo fissò sconvolta – io non …  - avrebbe voluto dire altro ma non riusciva a dire, altro.
-          Lei è il tipo più strano che abbia incontrato – le fece un mezzo sorriso – e si fa anche delle strane idee sulle persone.
-          In continuazione, questo è vero – disse annuendo pensieroso.
-          Ora basta, la finisca di giocare! – disse lei quasi ringhiando. Lui cercò di mantenere un’aria più seria ma era difficile. Gli venivano in mente tanti ricordi, tante cose insieme, che lo spingevano a sorridere suo malgrado. Lei fraintendeva, ovviamente – mi deve una spiegazione! – incalzò lei.
-          Va bene.
-          Perché continua a guardarmi a quel modo?
-          A quel modo come? – esitò.
-          A quel modo.
-          Non capisco…
-          Come fossi… ecco, mi fa sentire come fossi una fetta di torta! – lo vide alzare un sopracciglio con aria perplessa. La cosa la fece indispettire ulteriormente – forse non mi trova abbastanza appetitosa?
-          No… cioè sì… - fece un lungo sospiro – ma in questo momento preferirei qualcosa di salato…
-          Cosa? – gridò lei e lo fissò con occhi sgranati.
-          Ok, va bene… vada per la torta – disse indeciso vedendola diventare paonazza.
-          Allora è proprio vero!
-          Ah, uh… sì… ? – era confuso.
-          Lei è un maniaco … ! - lui si portò le mani al viso e poi passò le dita tra i capelli scompigliandoli mentre alzava lo sguardo con un lungo sospiro.
-          Perché con te all’inizio è sempre così difficile…? - disse piano.
-          Che cosa?
-          Niente, niente. Ricominciamo da capo…
-          Dal ciao o dal buongiorno? Ci presentiamo per la terza volta?
-          Anche per la quarta, la quinta … E se pensi possa essere quella buona, andrà bene la sesta…  – la guardò un lungo momento. Il tono di voce era gentile, lei non sapeva che fare.
Tutti attorno iniziavano a guardarli un po’ troppo. Ad un tratto lui le prese delicatamente la mano nella sua sperando che non gli tirasse qualcosa addosso o che non cominciasse a picchiarlo davanti a tutti. Lei non lo fece e lo strinse guardandolo stupita.
Forse toccarla sarebbe stato più utile delle troppe parole che tendevano a dire entrambi e peggio ancora insieme. Sentì la sua ansia, la sua indecisione. Sentì che anche lei provava qualcosa di strano, vicino a lui.
-          Io ti conosco… - mormorò e lui le sorrise  – chi sei…? – che poteva dirle?
Che in un mondo parallelo era parte di lui? Che quando l’aveva vista, il suo cuore aveva iniziato a correre e qualcosa dentro si era mossa irresistibilmente verso di lei?
Lei non era la stessa persona, lo sapeva e non era difficile capirlo per un signore del Tempo ma…
Qualcosa in lui non era d’accordo. Straordinariamente sentì che era la stessa cosa anche per lei ed era teoricamente impossibile.
-          Sono confusa – protestò lei ma intanto sentì che l’aveva stretto più forte – perché ti guardo e …?
-          Oh, parli sempre troppo… ! – la prese alla sprovvista stringendola a sé quasi di prepotenza. Lei rimase rigida un istante poi ricambiò il suo abbraccio poggiando il capo sulla sua spalla, come fosse la cosa più naturale e giusta da fare.  Attorno tutti li guardavano confusi e indecisi.
-          Ma tu, chi sei? – gli chiese ancora ma stavolta con tono dolce e incredulo.
-          Ah, la mia Donna Noble… ! – le sussurrò con gli occhi lucidi e quando lo guardò ancora confusa, le sorrise. 

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Capitolo 12
*** Sensi (I) ***


Portare a casa il congegno era stato rischioso. In realtà si trattava di qualcosa di molto piccolo, rispetto a quel complesso groviglio di fili e metallo che era rimasto in laboratorio e sul quale tutti lo avevano visto lavorare per giorni. Nessuno sapeva che la cosa importante, fondamentale, era in realtà tanto minuta.
E apparentemente essenziale.
-          Catherine, ho bisogno che lo tenga tu. Se le cose precipitassero, portalo da me ma non lasciarlo qui – glielo aveva detto quel giorno, mostrandole quella che lui chiamava la porta. Lo aveva fatto quando le aveva spiegato i suoi timori sul suo stato. Lo aveva fatto sapendo di lei. Ne era certa. Ma consapevole che qualcosa l’avrebbe spinta ad agire diversamente da come le era stato chiesto.
-          John…  - voleva confessarglielo ma non era stato necessario.
-          Io mi fido di te – le aveva detto risoluto.
Dal suo sguardo aveva compreso che John aveva intuito anche quel che stava accadendo. Forse non del tutto perché non poteva conoscere il resto ma era stato abbastanza lucido da aver pensato ad un diversivo per spostare l’attenzione di tutti su un oggetto in laboratorio, qualcosa che non significava assolutamente nulla e non avrebbe mai funzionato, ma al quale dovevano vederlo sempre a lavoro. Quel qualcosa era l’oggetto che Pete Tyler e gli altri pensavano fosse destinato ad aprire le dimensioni.
-          Ma allora, che cosa stai costruendo qui?
-          Un distributore alimentare di sintesi – aveva detto con quel sorriso che la disarmava, gli occhi perennemente spalancati  – entrasse in funzione produrrebbe sanissimi pasti proteici in pillole, al manzo, al pollo o… ad entrambi insieme – John era stupefacente. Ma anche molto spaventato dalle loro intenzioni. E c’era altro.
Si recava spesso al piano medico del Torchwood e all’inizio, come tutti, Catherine credeva che fosse per un certo disorientamento fisico, visto il suo ritrovarsi umano dopo quasi mille anni trascorsi in altro modo. Era però un comportamento strano. Sembrava quasi che fingesse una certa ipocondria eppure non ne aveva i sintomi evidenti. Non era ossessionato dal farsi male. Non era attento ai sintomi di qualunque cambiamento nel suo corpo. Doveva ricordargli lei di mettere i guanti quando maneggiava sostanze velenose per gli umani, doveva spesso rammentargli di fare attenzione con l’elettricità, alle sostanze volatili…
Ma nonostante questo, ad ogni colpo di tosse in laboratorio, ad ogni dolore muscolare di cui si lamentava tanto da far sorridere tutti i presenti, correva al reparto medico per un controllo. Molto strano.
Non era da lui e Catherine l’aveva capito.
Ogni volta che era di ritorno con le sue analisi, lo vedeva strappare i fogli senza alcuna attenzione e restare incupito, pensieroso, anche per ore. Catherine sapeva cosa veniva nascosto in quella parte dell’edificio ma non del tutto. Nessuno lo sapeva tranne chi vi lavorava.
John intanto continuava a lavorare e il suo umore sembrava normale ma dai suoi occhi aveva capito che era calato in molti labirinti di pensiero, complessi e contemporanei. In uno di questi c’erano dei mostri di cui forse aveva intuito la presenza.
 
Se aveva ben compreso gli appunti e il principio che John le aveva spiegato, doveva essere vicina al completamento di quel dispositivo. Aveva lavorato tutta la notte, seguito le indicazioni, confrontato le cifre. I valori crescevano ancora, in modo sempre più veloce. Nessuno sapeva che le previsioni di qualche giorno prima erano da mettere da parte. Gli eventi stavano precipitando, qualunque cosa significasse. John era distrutto e quell’entità che chiamava Tardis stava per manifestarsi nel loro mondo con molto anticipo; non era una coincidenza.
Catherine sperò facesse in tempo perché il suo istinto le diceva che lui era in pericolo; anche più di quanto avrebbe temuto. Tashen voleva il Tardis, il Torchwood era praticamente sotto il suo controllo.
Usare il Tardis per scopi diversi dall’esplorazione personale era qualcosa che il Dottore avrebbe impedito eppure avevano sperato tutti che lui, da umano, fosse diventato moralmente piùelastico; in realtà avevano capito presto che lui era sempre lo stesso e quindi impossibile da manipolare o convincere di ragioni unilaterali e che non concepiva come proprie neanche condividendo quello che più di una volta aveva freddamente definito status biologico. Non si sentiva contro nessuno né dalla parte degli umani a qualunque costo. Era quindi un problema.
Inizialmente l’avevano affidata al suo laboratorio perché lo tenesse, per quanto possibile, sotto controllo e aggiornasse il consiglio generale dei progressi del progetto “Tardis”. Si profilava un lavoro lungo e difficile ed ancora non le era chiaro esattamente chi fosse il Dottore e come fosse. Non davvero.
Con l’andare del tempo Catherine aveva compreso che qualunque tentativo di piegare la sua volontà ad esigenze superiori, sarebbe stato vano. E lei aveva ammirato tantissimo la sua integrità di uomo prima che altro.
Riuscire ad avere un Tardis, riuscire a poter condizionare i tempi e lo spazio alle esigenze di qualcuno era molto pericoloso e più di una volta lui le aveva detto come fosse pericoloso aggirarsi tra nodi e linee temporali anche per un signore del Tempo, che comprendeva la differenza tra eventi principali e secondari. Sconvolgere tutto senza criterio sarebbe stato un disastro per tutti. Qualcosa di incontrollabile.
Non aveva pienamente compreso cosa intendesse per sterilizzazione dei mondi e neanche la questione dei paradossi temporali estremi ma qualunque cosa fossero, a giudicare dalla sua espressione severa e preoccupata, erano decisamente pericolosi per tutti; tutti gli universi.
Il Tardis però era la peggiore tentazione possibile. Cambiare gli eventi, modellarli, prevenire le guerre. Azioni teoricamente lodevoli ma che John definiva errori.
Le disposizioni sul Tardis e il progetto quindi erano cambiate e teoricamente anche il ruolo di Catherine vicino a John. Lo spiava. Lui si fidava di loro e lei tradiva la sua fiducia e non era la sola.
Anche Pete Tyler era roso dallo stesso tormento.
Preventivavano un atto di violenza per impossessarsi di qualcosa che avevano compreso che solo John Smith sarebbe riuscito ad ottenere ma che, in quanto uomo, non aveva più il diritto di tenere solo per sé. Neanche questo era vero.
Avevano sbagliato tutto, stavano sbagliando tutto. Catherine aveva terrore del momento in cui Il Tardis avrebbe aperto le dimensioni manifestando la sua presenza. Se anche John, come le aveva detto, avesse dovuto usarlo per un viaggio nell’altro universo – ammesso fosse possibile come teorizzava – non gli avrebbero lasciato portare via la nave. Neanche ciò avesse significato la sua morte.
Catherine però aveva compreso, stando con lui più di chiunque altro, che quello che loro chiamavano macchina era qualcosa di profondamente diverso e persino incomprensibile per le loro menti.
Il Tardis non era di John, lui lo ripeteva sempre; il Tardis stava con il suo signore del Tempo per il resto della sua vita per scelta. E se lui era riuscito a farlo sviluppare, a crescerlo, probabilmente era davvero rimasto identico dentro.
Catherine però sentiva anche quanto tragicamente potesse essere umano e quindi più vulnerabile di prima.
In fondo sapeva che non sarebbe riuscito a farlo in quelle condizioni, tuttavia aveva detto a Rose che John avrebbe dovuto finire il suo lavoro perché lei comprendesse che era la cosa era più importante, più di quanto pensasse. Rose non era stupida, lo sapeva. Quella ragazza aveva intuito qualcosa e Catherine voleva che il dubbio la facesse riflettere ancora. Se qualcuno poteva capire di lui più di chiunque altro, era Rose Tyler. Ma intanto si era anche accorta di altro. Purtroppo.
Parlandole aveva visto le scintille di fuoco nei suoi confronti e non solo di rabbia: lei si avvicinava troppo a John anche quando ne stava lontana. Era un’amante non ricambiata e lei lo aveva sentito.
Catherine detestava Rose Tyler perché c’era e non per altro ma a volte era troppo anche quello.
Era stato strano essere lì, una di fronte all’altra, e prendere reciprocamente atto dell’esistenza dei sentimenti che ciascuna provava per lui.
Lei si era specchiata nell’amore assoluto di John, l’unica donna della sua vita.
Catherine avrebbe voluto essere una rivale, avrebbe fatto di tutto se la cosa avesse potuto avere una speranza; ma non l’aveva ed era evidente. Il cervello si era arreso subito ma il cuore e i suoi sensi non sentivano ragioni. Per John lei era trasparente mentre Catherine ne era sempre più sconvolta e disperata per esserlo, visto che ormai fantasticava su di lui come non accadeva con estranei dall’adolescenza. La distrazione stava diventando evidente per molti.
Quando lo trovava perso nei suoi pensieri gettato su una sedia con la testa indietro tra le mani, le lunghe gambe sul tavolo e gli occhi chiusi, più di una volta aveva pensato di potersi avvicinare tanto da sfiorare le sue labbra per un momento.
Anche solo un bacio le sarebbe bastato. Non ricambiato, rubato.
L’avrebbe trattenuto nella memoria per sempre, per consolarsi.
Era patetica. Non era da lei neanche essere così romantica o accontentarsi di così poco. Ma era il niente che lui non le avrebbe mai concesso e quindi già troppo.
John ultimamente la evitava. Era ancora più distante. E lei, bruciava di una passione dolorosa.
Si chiedeva spesso come fosse fare l’amore con lui.
Conoscendolo, l’aveva immaginato impetuoso, irruento; ma doveva essere anche tenero, dolce, addirittura in lui, un velo di straordinaria timidezza seppur mescolata alla sfrontatezza più curiosa.
Il suo corpo era completamente umano nel sentire o in lui era rimasto qualcosa di diverso? Doveva pur essere differente, per un Signore del Tempo, unirsi fisicamente a qualcuno.
Prima, quante volte gli era successo? Come era stato?
... perché… Lei…?
Certo non lo avrebbe mai saputo.
Era un altro mistero tra lui e Rose Tyler.
Ma i suoi pensieri erano come gli sguardi, incontrollabili. E troppo spesso si fermava a pensare a come le sue dita sfiorassero le pagine dei libri o le cose. Le immaginava stringere le lenzuola del suo letto mentre la prendeva con l’ansia del desiderio sospeso da tempo, quello che provava lei per lui; A volte era così forte che le sentiva quasi stringerla.  
Le avrebbe volute addosso, dentro.
Erano mani meravigliose anche quando si agitavano durante un discorso.
-          Cosa ti incuriosisce delle mie mani? – le aveva chiesto continuando a lavorare, una volta; si era accorto di quanto lei le guardasse. Si era profondamente imbarazzata. Lui si accorgeva di tutto.
-          Sono… belle, tutto qui… - John aveva accigliato la fronte, continuando ad armeggiare con il congegno, senza guardarla.
-          Io le avrei volute come quelle di prima.
-          Di prima?
-          Sì… come ero prima di cambiare in chi sono ora – per lei era davvero inconcepibile pensare che potesse essere stato diverso. Eppure lo sapeva – prima ero un bel tipo, sai… fisico da combattente, occhi di ghiaccio…
-          Accidenti! – lui aveva inclinato il capo con un mezzo sorriso.
-          Grave perdita, ne convengo. Rose mi ha conosciuto a quel modo e all’inizio non se ne faceva una ragione.
-          Davvero? – aveva annuito.
-          Ero molto diverso. E le mie mani erano più forti più … salde. Queste invece sono sottili e un po’ tremolanti ma mi accontento –  le aveva preso una mano e l’aveva stretta per un breve attimo con un sorriso disarmante e lei si era ammutolita per l’ennesima volta davanti a quegli occhi.
Gli occhi che l’ultima volta aveva visto spalancati in un delirio sofferto e poi chiusi dalla stanchezza senza rimedio. Lei sapeva e aveva deciso di tacere per proteggerlo e perché lui le aveva chiesto il silenzio.
Avrebbe avuto quello, da lei; se era davvero l’unica cosa che poteva dargli.
La fatica le rendeva la sofferenza più sopportabile perché i pensieri diventavano più veloci e non potevano fermarsi sui sensi, sul desiderio. Eppure anche la sua mente era concentrata su di lui.
Aveva così deciso di fare lei quel che lui non poteva.
Il dispositivo funzionava teoricamente secondo un principio semplice ma assolutamente inconcepibile. Però…Mancava qualcosa, qualcosa di cui lui le aveva detto ma le sue ultime parole erano state molto confuse. Ripensò ai suoi occhi lucidi, fissi su ciò che non vedevano. Lo rivide ripiegato su di sé, sofferente e la sua voce, chiamare… lei. Perché proprio lei, proprio Rose Tyler? Perché un Signore del Tempo che aveva vissuto così a lungo, dopo tante avventure in infiniti mondi che lei non avrebbe potuto neanche concepire, si era innamorato proprio di una ragazzina che non sembrava avere nulla di speciale?
Non era certo la più bella che avesse incontrato.
Neanche la più intelligente.
Non era la donna più brillante che avrebbe voluto amarlo…
Ma l’anima di quell’uomo e quel corpo erano stati solo di lei e non sarebbe mai stato di nessun’altra. Non Lui. Era un mistero tra loro, un mistero che aveva legato i loro sensi e il senso delle loro vite in modo che Catherine non poteva conoscere ma appena sospettare. In fondo Rose lo aveva amato tanto da sfondare il muro del mondo tra di loro e andarlo a riprendere.
Si asciugò le lacrime che spontaneamente avevano bagnato le sue ciglia.
Lei, così chiusa. Così discreta. Lei, gelida fuori come fosse di metallo e dentro piena di tenerezza inespressa, qualcosa che alla fine si era indurita facendola irrigidire verso il mondo. Perché non esisteva la dolcezza che avrebbe voluto, la sensibilità, la delicatezza…
Perché forse bisognava vivere troppo, per essere tali e l’opposto insieme; e tanto non aveva mai vissuto uomo; tranne John Smith.
Dicevano del Dottore che si trascinava dietro la Morte ma non solo quello. Catherine sapeva che doveva aver spezzato molti cuori, doveva averlo fatto per forza e suo malgrado.
Perché lui le pareva davvero un principe stregato, l’eroe delle favole, quello che per lei non era mai stato nessun uomo e forse non poteva essere, un uomo.
Con un lungo sospiro, anche di stanchezza, guardò quel piccolo congegno sul tavolo. Grande come un bicchiere cilindrico, trasparente. Si chiese come si potesse contenere l’apertura dimensionale con qualcosa del genere eppure…
Era quel che serviva. E in fretta. Altrimenti sarebbe stata la fine del Dottore umano. Non lo avrebbe permesso. L’avrebbe salvato lei, stavolta.  Non Rose Tyler ma proprio lei, la donna che non avrebbe mai chiamato nel momento più buio, che non avrebbe mai toccato come lei avrebbe voluto. La donna che per lui non esisteva. 

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Capitolo 13
*** Sensi (II) ***


Donna continuava a guardarlo, meravigliata e turbata insieme. Seduti al tavolo di una caffetteria, pranzavano insieme. Due sconosciuti. Eppure non era così. Se c’era qualcosa di cui era assolutamente certa era il fatto di conoscerlo e conoscerlo bene. Era un tipo particolare, sopra le righe. Sembrava perennemente nervoso, teso, eccitato dal mondo. Ma scintillava.
Non impossibile ma decisamente improbabile, incontrare uno come lui.
Eppure non la stupiva.
Provava per lui qualcosa di assolutamente singolare. La attraeva in un senso strano ma…
Ma come poteva guardarla a quel modo?
Il pensiero andò stranamente verso suo nonno, morto tre anni prima per un incidente stradale. Un dolore immenso dal quale non si era mai ripresa del tutto. Lo pensava spesso ma non avrebbe mai creduto di ritrovare negli occhi di un uomo giovane il riflesso di un lungo tempo passato. Sembrava addirittura che gli occhi scuri di lui fossero molto più vecchi di come ricordava quelli di suo nonno.
Eppure la luce dello sguardo era simile.
Donna, mente pratica, era smarrita e sconvolta dalla situazione e da quanto l’avesse accettata, istintivamente. Quando l’aveva presa per mano, un estraneo…
Avrebbe teoricamente pensato di voltargli uno schiaffo invece l’aveva stretto forte.
Era tanto tempo che un uomo non la stringeva così, come per farle coraggio, come per sostenerla e guidarla. Come potesse prenderla e…
portarla via…?
Ma dove? E via da cosa?
-          Senti, siamo parenti? – gli chiese a bruciapelo. Lui la guardò perplesso e stupito.
-          Come ti è venuta in mente una cosa simile?
-          Perché mi somigli – disse lei squadrandolo – ancora non ho capito in cosa ma… mi somigli – John sentì il suo unico cuore reagire a quelle parole accelerando. Il cuore che lei aveva sentito battere prima che tutto succedesse e lui aprisse gli occhi.
Era interessante, inaspettato. Lei percepiva qualcosa al di là del fatto che la riguardasse perché la riguardava in ogni caso. Come signore del Tempo trovava la cosa inquietante perché voleva poter dire che i sigilli ai mondi erano molto più deboli di quanto credessero. Ma c’era anche un'altra possibilità: che una metacrisi di quel genere fosse qualcosa di talmente estremo e improbabile da sfidare le convenzioni extrafisiche dei mondi e la sua parte umana percepiva tutto questo come bello.
-          I mondi non finiranno mai di stupirmi – mormorò quasi tra sé con un sorriso incantato e lei lo guardò stranamente.
-          Ad ogni modo… in comune non abbiamo certo l’appetito, vedo – John inclinò il capo aggrottando la fronte. Lei indicò il piatto che aveva davanti: quasi intatto.
-          Ah, sì… beh, io normalmente mangio tanto…!  – disse allegro. Lei lo guardò diffidente.
-          Tu? Sei così magro che stringendoti temevo di romperti!  - l’aveva detto con tono petulante e l’espressione tipica di quando lo prendeva in giro. Che fosse tanto sottile glielo diceva sempre – in realtà ancora mi chiedo perché io ti abbia abbracciato…! – lui la guardava come incantato. Era così bello sentire la sua voce ripetere quelle parole e lei, ripetere gli stessi gesti! – hey…! – protestò Donna vedendolo quasi imbambolato. Si scosse cercando di comporre un’espressione più seria ma continuava a guardarla con occhi sgranati e l’ombra di un sorriso sulle labbra – tu continui a guardarmi a quel modo!
-          Scusami, oggi  è una strana giornata.
-          Le mie giornate sono tutte strane – puntualizzò lei – anche se le definirei stranamente monotone – lo guardò ancora ma stavolta con sincera preoccupazione – come mai non hai appetito?
-          Non sono stato  bene – mormorò guardando il piatto.
Aveva fame ma non riusciva a mangiare. Non sentiva il sapore di nulla e la consistenza del cibo in bocca, a quel modo, quasi lo ripugnava.
Sospirò amaramente perché non era più vero che stava sempre bene.
Doveva abituarsi a quello come ad altro ma continuava a pensare che in fondo ne valeva ampiamente la pena. Anche di sentire quel peso al petto così strano…
-          L’influenza di quest’anno è davvero micidiale – disse con tono indefinibile. Andava rassicurata.
-          Uh, non parlarmene! L’influenza natalizia, che bellezza! – esclamò Donna. Lui le sorrise – io ho sostituito una ragazza in malattia, al negozio.
-          Ah, capisco. Quindi non è nulla di definitivo…
-          Definitivo? Io sono stabilmente precaria! Lo avrai anche intuito dalla lista dei miei lavori, quella che ti ho fatto prima.
-          Cambiare spesso non è poi così male.
-          Inizio a sentirmi stanca di farlo – sospirò lei.
-          Prima o poi… bisogna fermarsi, hai ragione – disse John con voce sospesa. 
La fame era molta ma quella sensazione rovinava tutto. Cercò almeno di bere il frullato alla banana che aveva ordinato ma era inutile. La sua espressione quasi disgustata colpì Donna.
-          Che cosa c’è?
-          Non sento bene i sapori. E’ orrendo…! - protestò come un bambino e la fece ridere.
-          A me succede sempre, dopo aver avuto l’influenza.  E’ la prassi.
-          Ah sì? – poggiò la testa sulla mano e la guardò interessato. Lei sorpresa.
-          Scusa, è la prima volta che ti ammali?
-          Diciamo di sì…  – le sorrise indeciso.
-          Strano ma… prima o poi doveva succederti. È l’età che avanza!
-          Mi stai dando del vecchio? – sgranò gli occhi. Lei lo fissò profondamente e poi scosse il capo.
-          Perché qualcosa mi dice che tu lo sei più di quel che sembri? – John schiuse le labbra stupito. Donna fraintese la sua sorpresa  – oh beh, sì… capisco che anche per un uomo…
-          No, no… per me non ha alcuna importanza. Solo che… è strano che tu lo dica – aggiunse più piano. Lei fece un lungo sospiro.
-          È strano essere qui con te, ora.
-          Io lo trovo meraviglioso!  – disse John con un sorriso abbagliante e lei lo ricambiò spontaneamente.
-          Tu mi terrorizzi – rise Donna. Glielo aveva detto la prima volta che le aveva chiesto di viaggiare con lui. John abbassò lo sguardo e Donna gli mise una mano sul braccio facendogli una carezza  – ma non vuol dire che…
-          Lo so  – gli occhi di lui furono profondamente dentro i suoi e Donna provò di nuovo quella sensazione assurda, verso di lui.
John divideva con Donna qualcosa che il Dottore avrebbe potuto comprendere fino ad un certo punto. Si erano resi simili. Lui, con un corpo in parte umano. Lei, un po’ Dottore.
Ma sebbene la donna che aveva di fronte non fosse la sua metà, qualcosa reagiva lo stesso. Comprese il turbamento di Pete davanti a Rose. Ma nel loro caso era qualcosa di più forte e molto più profondo.
Avrebbe voluto dirle che era meravigliosa, che era la più importante; avrebbe voluto stringerla ancora forte, altre mille volte. Il suo sostegno, il suo conforto. Lei, che sarebbe rimasta con lui per sempre, avesse potuto. E per non lasciarlo mai da solo.
Era stata la migliore, era la migliore. Lui l’amava. L’amava davvero.
-          Mi dicevi quindi di essere un dottore… - lei spezzò il filo dei suoi pensieri. Mangiava e pensava, con gli occhi chiari incollati a lui.
-          Io sono il Dottore – la corresse d’istinto.
-          Sei un medico?
-          A volte… - mormorò. Donna lo guardò spiazzata.
-          Che vuol dire a volte? Sei quindi anche professore, ingegnere, musicista … meccanico…  – rise e addentò un altro biscotto ma lui le rivolse uno sguardo che le fece avere il dubbio di aver detto qualcosa di vero e la risata si spense  – ma santo cielo! Sembra la rincorsa del discorso dentro il negozio!
-          È che succede sempre così – sorrise.
-          Sempre? – lui annuì – non capisco che significhi. Tu mi lasci senza parole.
-          Questo no, è impossibile!  – alzò gli occhi scuotendo il capo e poi guardò lei stringere le labbra con l’espressione vagamente offesa che conosceva; ma poi le fece un mezzo sorriso - senti, ti va di uscire di qui?
-          Sì, sto mangiando solo io e tanto vale che smetta  – disse Donna finendo di masticare l’ultimo biscotto al tavolo. Si alzarono in piedi praticamente insieme e con il medesimo gesto misero a posto la sedia al tavolo. Alcuni avventori li guardarono incuriositi, entrambi invece non vi fecero caso.
John guardò Donna con un sorriso e le porse il braccio, lei lo prese spontaneamente.
Uscirono seguiti dagli sguardi della cameriera che già si chiedeva da quanto tempo fossero sposati.
 
Camminarono in silenzio per un po’. La strada era un po’ meno affollata, visto l’orario.
-          Non mi dirai nulla, vero? – gli disse con voce smarrita e turbata in fondo.
Lui la guardò stringendole la mano sul suo braccio. Ma non le rispondeva.
Doveva ancora capire come fare e poi qualcosa aveva iniziato a tormentarlo: Il rimorso di aver voluto ciò che non doveva toccare. Era stato molto umano desiderare di rivederla, di sentire la sua voce. Era stato molto umano ed era stato da lui.
La situazione e quel che stava capitando, il dubbio di dover lasciare quel mondo e non averlo ancora detto a Rose; il suo sentire scivolare il suo tempo in modo strano, sul bordo di un presentimento che gli raggelava le ossa più di quel mistero fisico che lo legava ad un mondo teoricamente chiuso da un muro invalicabile …
Tutto questo, gli avrebbe suggerito razionalmente di rivolgere lo sguardo altrove, dopo averla vista.
Di farlo per non farle del male, per non darle dolore.
Poteva scomparire dalla sua vita come era apparso e le sarebbe mancato; poteva metterla in pericolo e non lo avrebbe sopportato.
Lei gli aveva dato molto, tutto; la vita. Avrebbe dovuto ignorarla per il suo bene.
Ma lei gli mancava dentro. Gli mancava. E lui non era mai stato razionale.
-          Noi ci conosciamo, l’ho capito. Ma non ricordo come…
-          Non puoi – le disse lui dolcemente – è… complicato.
-          Ti piace dirlo spesso.
-          Molto spesso lo è. Senti… - si staccò da lei e la puntò con quell’espressione per nulla rassicurante che le generava una punta d’ansia ma che già le piaceva da morire – Donna Noble, sto per farti una proposta…
-          Vuoi invitarmi ad uscire? – lui sgranò gli occhi. Lei sorrise perfidamente anche del suo imbarazzo - andiamo, non dicevo sul serio. E poi in fondo, lo hai già fatto…
-          Già…
-          E tu non puoi essere single, giusto?
-          Sono decisamente impegnato – disse quasi timidamente. Donna fraintese la sua ritrosia.
-          Lo sapevo! Sei gay…! – lui la guardò con la bocca aperta.
-          Io? No, veramente… no. Se mi capiterà di incontrare Jack dovrò chiedergli perché mi viene chiesto spesso – aggiunse pianissimo – comunque, no. Io sto con una donna, si chiama Rose, Rose Tyler.
Aveva pronunciato il suo nome completo, lo faceva spesso. Negli occhi di Donna Noble passò un’ombra. Fu un istante, un istante brevissimo ma lui lo colse e gli parve una preoccupante eternità. Cosa voleva dire?
-         Era scontato che non fossi libero - disse Donna scuotendo il capo - gli uomini come te non restano soli per molto tempo  – John abbassò lo sguardo per un attimo ripensando alla crudele ironia di quella frase  – quindi non vuoi uscire con me…
-          A dire il vero volevo invitarti ad entrare – lei gli rivolse uno sguardo esasperato cui lui rispose con un sorriso quasi perfido – fra un paio di giorni ci sarà una festa…
-          È periodo, sì – disse lei con un sospiro.
-          Una bellissima festa alla quale saranno invitate tante persone… - continuò lui puntandola con lo sguardo – si tratta di un evento importante, qualcosa di cui parleranno le cronache mondane – sussurrò con tono quasi di confidenza. Sapeva che Donna divorava tutti i giornali e la cronaca locale era la sua passione. L’espressione interessata di lei gli disse che aveva centrato il bersaglio.
-          Se si tratta di una festa esclusiva, io come farei ad essere invitata? Sono solo una commessa…!
-          Sarai mia ospite, Donna – lei lo strinse più forte – mi piacerebbe molto, ah… moltissimo, se ci fossi anche tu!
-          Ma… ma il vestito…?
-          Andiamo, non puoi dire sul serio!  Quelle come te non restano mai senza vestiti adatti per l’occasione … – si fermò un momento, turbato. Spontaneamente aveva usato lo stesso tono e le stesse parole di lei, dette poco prima. Identica costruzione logica.
Donna e lui si fermarono e misero di nuovo uno davanti all’altro.
Sembrava uno specchio e non era, uno specchio. Gli parve persino che respirassero, insieme. Donna fece uno strano gesto e quasi spaventata lo toccò sul petto come spesso faceva Rose. Per un istante John chiuse gli occhi sentendola chiaramente ascoltare il suo cuore. O forse era il suo cuore che ascoltava lei. Si ritrasse da lui con espressione turbata eppure non avrebbe potuto capire nulla.
-          Mio Dio… - mormorò guardandolo.
-          Cosa hai sentito? – le chiese ansioso.
-          Non… non lo so. Ascolta, la situazione è assurda: assurdo come ci siamo incontrati, come stiamo passeggiando tranquillamente insieme senza conoscerci. Non mi stai spiegando il perché tu mi voglia invitare ad una fantastica festa e non mi stai chiarendo perché io e te ci conosciamo ma non ci conosciamo. Sono confusa.
-          Lo capisco.
-          Allora capirai perché voglio fare una cosa. Questo! – con forza lo attirò a sé prendendolo per il cappotto e lo baciò sulla bocca di prepotenza. Lui si irrigidì per la sorpresa e le mani gli si aprirono quasi a scatto, tremando, come per tenere l’equilibrio su un’asse sospesa nel vuoto. Durò poco ma quando lei lo lasciò non era il solo ad avere un’espressione sconvolta.
-          Perché lo hai fatto! – protestò lui con occhi sgranati e voce petulante.
-          Credimi, non lo rifarò mai più – mormorò lei che lo guardava stupefatta – è stato… mi è sembrato di…
-          Baciare...
-          Mio fratello!
-          Mia sorella! – lo dissero contemporaneamente.  E contemporaneamente si sorrisero turbati. Perché era vero e non era vero insieme.
-          La cosa ti fa paura? – le chiese esitante. Donna lo accarezzò su una spalla.
-          No…  - mormorò - è… bello!
-          Oh, sì… lo è! – John la guardò fuori di sé per l’eccitazione e le prese la mano stringendola. Donna iniziò a ridere.
-          È pazzesco… ! – disse.
-          È fantastico – le rispose lui facendo schioccare la lingua sul palato. Lei lo guardò perplessa, inclinando il capo. Inutile: continuava a guardarla come fosse una torta.
John invece stava pesando che la amava ed erano destinati a stare insieme in ogni mondo possibile per questo si erano incontrati nuovamente.
La amava come non avrebbe potuto amare nessuno e questo significava qualcosa di importante, oltre ogni ragione o pensiero, persino di un signore del Tempo. Donna Noble era ormai legata a lui per sempre.

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Capitolo 14
*** Sensi (III) ***


Rose sentì arrivare una macchina nel viale e scese di corsa le scale per raggiungere il giardino. Non mise neanche una giacca, per la fretta. Anche se era uscito a piedi e aveva preso i mezzi, e lui continuava a trovarlo divertente nonostante contrattempi e ritardi, aveva l’impressione che fosse di ritorno con quell’auto.
La piccola utilitaria bianca si fermò un po’ distante.
John uscì da lì e lo vide salutare qualcuno al volante. Intravide una donna ma era troppo lontana per capire chi fosse. Pensò istintivamente alla dottoressa Lane e senza rendersene conto, si ritrovò a correre più veloce verso di lui. Non fece in tempo. La macchina andò via, seguita dallo sguardo di John, fino al limite della strada. Rose gli fu accanto e fu molto colpita dal fatto che quasi parve non badare a lei, tanto era distratto. Era alle sue spalle e vedeva solo il suo profilo ma vide che era pallido. Non poteva essere diversamente, visto quel che aveva passato appena qualche ora prima. Sarebbe dovuto restare al caldo, a casa.
Sarebbe rimasta tutto il tempo con lui, avrebbero trascorso una giornata insieme. Invece era uscito e non aveva chiamato. Cacciò via la tentazione di fargli una sfuriata degna di Jackie. La tendenza era quella e la spaventava. Certo non voleva trasformarsi in una bisbetica.
-          Forse non avresti dovuto fare quella passeggiata, Dottore – gli disse quasi con tono di rimprovero ma appena si voltò verso di lei gli fece un sorriso. Che lui ricambiò. Rose gli si avvicinò di più e portò una mano alla sua fronte. Sentì subito che aveva di nuovo la febbre ma non era alta. Scosse il capo e lo prese per mano, conducendolo verso la casa. Taceva e non era da lui. Rose strinse più forte la sua mano – sei stato via praticamente tutta la giornata…
-          Avevo voglia di prendere un po’ d’aria…
-          Mamma si è molto arrabbiata della cosa – John accennò ad un sorriso sarcastico – e te la sei svignata mentre dormivo.
-          Ma sono passato a salutarti – Rose e lui si guardarono un lungo momento. Uno di quei momenti in cui non c’era bisogno di dire altro e le parole riempivano solo i vuoti tra un battito di ciglia e l’altro.
-          Stai… bene? – gli chiese direttamente.
-          Mi sento meglio – le rispose ma indeciso.
-          Stai tranquillo, mi prenderò cura di te e passerà anche questa.
-          Tu ti prendi cura di me sempre, Rose.
-          Chi… ti ha accompagnato a casa? – era la prima cosa che avrebbe voluto chiedergli ma non doveva sembrare quel che era: gelosa, terribilmente gelosa di lui.  Quel qualcosa che sentiva in quel momento aumentò quando lui non le rifilò la solita battuta al proposito e non tentò neanche di rassicurarla. Continuava a tacere  – John…
-          Devo… dirti alcune cose importanti – lo sussurrò ma quello sguardo la colpì dentro. Rose pensò che le volte che aveva visto i suoi occhi a quel modo era stato in momenti difficili. Addirittura le venne in mente quel momento, il peggiore della sua vita. Ebbe un brivido, un vero e proprio brivido di paura. Lui la circondò teneramente con un braccio e strinse a sé mentre camminavano  – non dovevi uscire di casa coperta così poco, Rose. C’è freddo, dicono.
-          Dicono?
-          Sì… lo dicono tutti…  – ripeté con voce atona, rivolgendo lo sguardo al cielo che già si scuriva.
Rose capì che lui aveva pienamente compreso il senso del suo tremare e sapeva che non era di freddo. Non l’aveva stretta per farle caldo ma coraggio.
 
Non aveva mangiato nulla. Neanche vi aveva provato. Gli odori erano disgustosi, la consistenza delle cose, semplicemente orrenda. La fame era molta e ne era inquietato ma non riusciva a buttare giù un boccone. Neanche l’insistenza di Jackie al proposito era riuscito a spingerlo a provare almeno con un brodo. L’acqua era amara ma la beveva lo stesso. Aveva una sete terribile. Aveva mangiato due dolcetti alla banana che Rose gli aveva preparato ma per farle piacere. E poi si era ritrovato in bagno a rimettere, di nuovo. Era passato velocemente, per fortuna. E ora riposava su una poltrona dello studio ad affilare i molteplici pensieri che gli venivano in mente.
Se n’era accorto.
I suoi sensi si stavano velocemente affievolendo.
Le carezze di Rose erano fredde, non riusciva a sentire il suo corpo se non attraverso una sorta di lenzuolo spesso. Aveva bisogno di lei e lei sembrava fisicamente distante anche se non lo era.
Sentiva vicinissima invece Lei, ancora in attesa. La sentiva perché il giovane Tardis poteva raggiungerlo dentro. La rivide per un attimo bambina, tendergli la mano con gli occhi chiusi. Doveva sbrigarsi, doveva farlo ad ogni costo.
Qualunque cosa significasse stare a quel modo, era uno stato più semplice, fisicamente. Non sentiva più la testa friggere, le mani diventare rigide, i muscoli tendersi dolorosamente. Solo un senso di oppressione al petto, qualcosa di sfumato ma cupo. Si sentiva meglio, sicuramente. Ma stava peggio e lo sapeva. Non c’era tempo.
L’incontro con Donna l’aveva distratto. No, di più; l’aveva stordito, sconvolto.
Ma il pensiero di Lei nascente era un sussurro nell’animo, il rumore di fondo ai suoi pensieri dispiegati su un universo diverso da quello in cui si trovava. I suo sentire la trama del Tempo i suoi nodi, le tracce, la percezione di tutto…
non era cambiato.
Tutti davano per scontato che diventando umano avesse perso qualcosa. Ma era una logica molto riduttiva. E come nel caso degli spazi più profondi internamente piuttosto che all’esterno, la metacrisi era stata in un senso particolare: non aveva a che fare con la quantità di qualcosa che era stato diviso ma con la qualità di quello che era stato messo insieme. Il Dottore e Donna lo sapevano entrambi.
Diventare simili era stato un azzardo senza precedenti ma un azzardo deciso dall’universo. Donna non era diventata meno umana toccandolo ma aveva avuto parte della sua mente senza che questa cambiasse o diventasse più lenta. Lui invece aveva avuto da lei ogni cosa ma in un corpo umano che era quello mortale di quel momento: il suo. Un uomo che invece di perdersi nel nulla, avrebbe potuto vivere la sua vita con qualcuno, fino alla fine.
Era stato molto più fortunato di lei, John lo pensava spesso.
-          Sei un signore del Tempo, mortale – gli aveva detto in sogno Lei.
… lo era.
Il giovane Tardis lo sapeva. Più di chiunque altro. Per questo aveva accettato di stare con lui, di aiutarlo. Lei arrivava per salvarlo, per unire la sua vita, la sua mente, alla sua.
Arrivava per viaggiare, per esplorare nuovi mondi.
Al pensiero John tremava di paura e desiderio insieme.
Una cosa straordinariamente simile a come era stato innamorarsi di Rose Tyler e finalmente poterla toccare come aveva voluto già da quella volta che si erano distesi sull’erba mela insieme, a guardare il cielo meno di quanto si guardassero negli occhi con ansia.
Per questo forse i signori del Tempo aspiravano a liberarsi del corpo, del desiderio, di tutto. Per questo diventare un uomo era stata la cosa migliore che potesse accadergli. Ma umano lo era fino ad un incerto punto.
Era quello che Donna aveva sentito ascoltando il suo cuore? Non poteva saperlo, non del tutto.
Rose arrivò in camera con una teiera fumante. Lui le sorrise. L’odore lo colpì subito. Tè al limone. Quel sentore acido gli diede stranamente sollievo.
-          Stai attento, è bollente – gli sussurrò allungandogli la tazza. Lui la prese nel modo peggiore possibile e lo fece scientemente. Come sospettava gli parve appena tiepida. Rose lo guardò perplessa.
-          Credevo che ora ti scottassi… come tutti!
-          Infatti – disse piano – ma… per me non è mai stato molto diverso che per voi, non questo – le sorrise brevemente. Ma Rose guardava ancora la sua mano stringere una sottilissima tazza di tè incandescente.
-          Che cosa ti sta succedendo?
-          Non lo so. Non del tutto.
-          Che vuol dire non del tutto? – la voce allarmata di Rose. Stranamente gli portò alla mente, per un secondo, tutte le volte che gli aveva rivolto domande simili. Qualche volta era stato in momenti elettrizzanti. Non quello.
-          Rose… sta succedendo qualcosa che io non avevo previsto. Qualcosa di molto strano – lei si avvicinò già preoccupata. Gli occhi scuri di lei lo fissavano inquietamente – la mia rigenerazione…
-          Intendi la sua…? – lui annuì. Era sempre difficile fare la differenza. Non ce n’era, non come pensavano tutti.
-          La rigenerazione ha avuto effetto su di me ma non solo momentaneo. Il mio corpo si sta… scompensando – Rose impallidì di colpo.
-          Cosa…?
-          La fine della mia decima vita… ha generato in me una sorta di squilibrio perché per la prima volta la persona che io sono non è andata perduta per sempre ed è rimasta viva – vide che Rose aveva accennato ad un sorriso senza rendersene conto. Lo ricambiò appena ma quel che doveva dirle era drammatico – Rose, la metacrisi ha avuto origine dall’altra parte e tramite il contatto con un umano dell’altro universo ed evidentemente questo non mi consente di trattenere uno stato fisico stabile. Non qui. Non dopo che lui è cambiato.
-          Ma dell’altro universo sono anche io, anche mamma! E Liz è figlia di due persone che …
-          Di due esseri umani, Rose – disse piano lui con un breve sorriso – per voi è diverso.
-          E non sei umano, tu?
-          In parte! E la rigenerazione mi ha come… sfasato. Perché questo corpo evidentemente era legato al suo. Ora io devo riuscire a metterlo in relazione con lo spazio nel quale ha avuto origine tutto e poi… - esitò un attimo ma si fece forza – poi, cercare di tornare indietro, qui. Eventualmente.
-          Perché dici eventualmente?
-          Perché ci sono molti aspetti da considerare. Dolorosamente contemporanei, Rose.
-          Tu… tu vorresti tornare dall’altra parte per riprendere a viaggiare per i mondi, vero? – sussurrò con un velo di voce Rose.
Lui la guardò con occhi lucidi un lunghissimo momento. Fece un lungo respiro.
-          No – le rispose piano ma sicuro, con un triste sorriso – riprendere i miei viaggi qui sarebbe anche più bello per me. Non conosco questi luoghi, non così…
-          Sarebbero nuove avventure! – disse con un sorriso Rose.
-          Già…
-          Ma allora che intendevi per tornare eventualmente? Tu… il Dottore ha detto che questi mondi sono chiusi e non si possono più aprire! Tutto crollerebbe!
-          Sì, sì, lo so  – John scosse il capo infastidito – crepe, fessure, crolli, sfondamenti … ho considerato tutto. E devo dire che certe volte sembra di parlare di mattoni veri e propri – aggiunse con un ghigno divertito - ma i muri che ci dividono dall’altra parte sono come porosi, Rose – lei lo guardò interrogativamente – qualcosa passa, qualcosa impregna le parti equivalenti in tutti i luoghi. Ne hai avuta diretta prova con Pete. Questo universo non è isolato dall’altro in modo così netto come pensavo e per me… in senso diverso che per chiunque altro ed oggi l’ho compreso  – John abbassò lo sguardo e gli occhi scuri di Rose si fecero più attenti.
-          Parli della donna che ti ha accompagnato oggi pomeriggio?
-          Sì… lei. Incontrarla è stato come perdere l’orientamento, in tanti sensi. Molti più di quelli che tu possa anche solo immaginare – aggiunse pensieroso. Rose si irrigidì.
-          La pensi davvero così, signore del Tempo? – John la guardò stupito - proverò ad immaginarlo, se mi dici come quella donna ti ha distratto. Ti ha distratto tanto da dimenticarti di me per quasi una giornata! – John la guardò con le labbra schiuse per lo stupore.
Cosa c’entrava quel tono di voce in quel momento? La sua Rose aveva gli occhi lucidi, sembrava offesa. Comprese e ne fu turbato.
La gelosia. Diversa dalle altre frecciatine con le quali lo colpiva ogni volta che una donna gli era vicino. Stavolta vedeva nei suoi occhi una sincera preoccupazione. Qualcosa in grado di distrarla dalle parole che gli stava dicendo. Ed era assurdo. Ma molto umano.
-          Rose…
-          Adesso sei un uomo e quindi devo pensare che potresti… - John poggiò la tazza sul tavolino e le rivolse uno sguardo strano.
-          Tu pensi davvero che io…?
-          Mio padre faceva così, con mia madre. Anche se diceva di amarla – aggiunse Rose. John si alzò, le venne vicino e si inginocchiò davanti alla poltrona dove si era seduta. La fissò dritta negli occhi.
-          Io ho più di novecento anni. E mi sono innamorato di te. Pensi davvero che possa essere come per chiunque altro? – le prese una mano e la strinse tra le sue. Non la sentì quasi ma si sforzò di non pensarci – Rose, tu hai paura di quel che ti sto per dire. Hai paura e quindi…
-          John, dimmi chi ti ha accompagnato a casa – la voce di Rose, ebbe un accento quasi metallico.
-          Non è la cosa più importante in questo momento…! – protestò.
-          Per me lo è!
-          Più del fatto che io debba fare una scelta che potrebbe essere definitiva? Potrebbe essere un viaggio senza ritorno – la lasciò e si alzò in piedi.
Rivolse gli occhi alla tazza fumante sul tavolo, pur di non incrociare i suoi. Sapeva di averle fatto male, dicendolo a quel modo. Non la vide rivolgergli uno sguardo disperato.
Era terribilmente difficile spingerla di nuovo ad una scelta, spezzarle il cuore. Per un attimo pensò di non dirle tutto, di non farlo. Ma era Rose, aveva bisogno di lei, aveva assoluto bisogno della sua piccola, dolce, Rose Tyler. Che lo fermasse, che lo trattenesse.
Che lo consolasse del terribile presentimento che lo scuoteva; e lo facesse anche se non glielo avrebbe mai confessato e tenuto per sé. Le avrebbe nascosto solo quello e non altro. Non poteva nasconderle altro.
-          Il Tardis si sta aprendo, si sta aprendo così velocemente perché io ho bisogno che venga da me. Viene a prendermi, Rose.
-          A… prenderti? – lui annuì.
-          Non sto male per questo, come qualcuno sostiene e lo so. Io sto male e… per questo succede – Rose lo sapeva. Sapeva che non poteva essere colpa del Tardis. Ma la cosa faceva paura allo stesso modo. Si alzò e si avvicinò a lui.
-          Cosa può fare per te?
-          Devo sincronizzarmi con l’universo d’origine. Il Tardis si stava sviluppando lentamente, com’era giusto che fosse ma dopo che lui è cambiato, ha accelerato la crescita e questo sta causando un grosso problema: non si orienta perché sta usando la sua energia per esistere fisicamente al più presto e in più è in condizioni spazio dimensionali che lo rendono esistente in senso ibrido.
-          Ibrido?
-          Proviene dall’universo parallelo ma è cresciuto qui. Un qualcosa che non è mai accaduto. Mai. E’ un Tardis nuovo, un… essere capace di trascendere ogni spazio, ogni tempo e tutte le dimensioni possibili. Diversamente da ogni altro mezzo per passare da un universo all’altro, il nuovo Tardis non apre fessure, non danneggia i muri dei mondi. E’ una porta eterna su tutto, ogni cosa in ogni momento e in ogni sua parte, ovunque - abbassò lo sguardo. Rose comprese che esitava a dirgli qualcosa. Lo accarezzò per confortarlo ma lui non la guardava, come indifferente.
-          Cosa non mi dici?
-          Che sono certo riuscirà a passare nell’altro universo ma non so se potrà ritornare qui.
-          Non hai appena detto che si tratta di una porta perenne! – lui le rivolse uno sguardo sofferto. Rose capì.
-          Tu hai paura che il Tardis cada in pessime mani, qui.
-          Temo questo. Temo… Torchwood – Rose abbassò il capo.
Di nuovo.
Stava accadendo di nuovo. Ancora una volta di fronte alla medesima scelta. La sua famiglia ormai era nel mondo in cui lui l’aveva portata e lasciata con se stesso umano ma se John tornava indietro…
Avrebbe potuto rivedere il Dottore…
Il pensiero colpì Rose improvvisamente. Sperò che John non si accorgesse dell’esitazione, del momento di confusione e di quella scintilla di qualcosa che le era brillato dentro a tradimento.
Tornare indietro di nuovo. Al nulla.
Ma con John. Rose capì che l’avrebbe fatto. Lo avrebbe fatto di nuovo, per lui.
…e anche per il Dottore, Rose Tyler?...
Rabbrividì a quel pensiero. Lo avrebbe fatto anche per cercare un uomo di cui ormai non conosceva neanche il viso?
Rose guardò fisso John, l’espressione assorta che conosceva bene, quel suo tenere gli occhi perennemente spalancati su cose invisibili mentre i suoi pensieri strani diventavano assurde parole e umorismo imprevisto. Lui.
Ma prima di lui c’era stato un altro di cui lei rivedeva a volte l’ombra, in colui che amava.
Un uomo dal carattere più chiuso, dagli occhi chiari ma profondi come precipizi nel mare, che spesso sorrideva inquietamente e faceva anche paura, quando sorrideva. Era intriso di dolore, quando l’aveva incontrato. Di un dolore solitario. Era l’uomo che la teneva per mano con forza, che la proteggeva. Un uomo del quale si era già innamorata, tanto da voler tornare da lui nonostante tutto e che poi era sparito nella luce abbagliante della sua distruzione, il sacrificio estremo per salvarle la vita.
Dopo tutto, sorta come dalle fiamme, era arrivata una persona molto diversa.
Lui l’aveva amata subito e dolcemente.
… e l’avrebbe fatto per sempre.
Rose ripeté quel per sempre a sé stessa e al tempo. Senza ripensamenti e senza rimpianti. Non c’erano, non c’erano mai stati. Ma quell’indecisione imprevista allora? Era timore?
Si vergognò di pensare più a quello che all’eventualità di lasciare la sua famiglia. Ma prima o poi si cresce, gli aveva detto una volta. Prima o poi si lasciano i genitori e si va per la propria strada.
… lontanissimo…
-          Se dovrai andare, io verrò con te – gli disse fermamente.
-          Rose…
-          Se andremo via, sarà insieme. Promettimelo, promettimi che non mi lascerai qui da sola! Non di nuovo, non più!
-          Non posso … che giurartelo – le disse e la prese tra le braccia stringendola forte. Lei chiuse gli occhi contro il suo corpo e ricambiò la stretta.
Non vide gli occhi smarriti di John.
Non la sentiva. Non sentiva quasi nulla. Era terribile. Percepiva il suo profumo e il suo peso. Ma la sua pelle delicata, le sue labbra che in quel momento lo cercavano con tanta dolcezza, erano lontane da lui, come il suo calore. La baciò e anche quello parve l’ombra della sensazione che avrebbe dovuto sentire anche se il suo desiderio per lei era forte come sempre. Lei sembrava un sogno del dormiveglia.
E quando le sue mani cercarono come sempre il suo cuore, John chiuse gli occhi come gli avesse fatto del male perché quel senso di schiacciamento era feroce, rabbioso. Si staccò da lei con delicatezza, per non farle rendere conto della cosa.
Rose lo guardò. Era teso e febbricitante. Sicuramente stanco.
-          Dovresti riposare.
-          No. Non posso. Devo… finire il mio lavoro. Credo che stanotte tornerò al laboratorio.
-          Stanotte? Ma tu non…
-          Il tempo stringe. Non ho i dati ma sento che sta per arrivare il momento ed io devo finire.
-          E qui non puoi fare nulla …?
-          Ho bisogno di qualcosa che è al Torchwood.
-          Il congegno…?
-          No, non il congegno … - mormorò John – mi chiedevo… se fosse possibile prendere in prestito un giocattolo di Liz, sarebbe divertente partire da lì – Rose lo guardò a bocca aperta. Lui rispose con un sorriso disarmante – ah, ragazza! Ho in mente qualcosa di complicato e ho bisogno… di un carillon.

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Capitolo 15
*** I tuoi occhi e la sua voce (I) ***


John aveva riposato qualche ora, poi durante la notte, Rose aveva preso la macchina e insieme si erano recati ai laboratori del Torchwood, sperando che Pete non si accorgesse della loro assenza. Rose si sentiva molto a disagio per quella situazione ma cercava di mantenere la calma e soprattutto si fidava di John ciecamente e persino l’istinto le diceva che in fondo era meglio non mettere il padre a parte di ogni cosa.
Il palazzo era custodito e molte telecamere controllavano l’entrata e l’uscita del personale. Parecchi lavoravano al Torchwood nei turni di notte di alcuni laboratori, ma John aveva studiato la cosa da un po’ perché evidentemente aveva intenzione di fare qualche indagine notturna ai piani inferiori. Rose non si meravigliò del fatto che avesse pensato ad un dispositivo che disturbasse le telecamere. Le conosceva bene e sapeva anche le loro posizioni sul percorso. Un vero stratega.
Per uscire di casa, Rose aveva preso la vecchia jeep di Pete, quella con la quale erano partiti per la Norvegia quel dannato giorno. Odiava quella macchina ma per la prima volta dopo tempo, non vi fece caso. Lui era con lei, seduto accanto a lei. Semplicemente non ci pensò.
Durante il percorso, mentre Rose faceva attenzione a non schiantasi contro un albero o un’altra macchina, John era stato impegnato a fare qualcosa con il suo cacciavite sonico. Le era sembrato che stesse modificando al volo delle batterie di un orologio che poi aveva messo in tasca.
Lasciata la macchina ad una certa distanza avevano preso una via che si incrociava a nord con delle entrate secondarie dell’edificio. Non si trattava di un accesso pratico ma certamente era il meno controllato. Il Torchwood gestiva al suo interno il programma dei pasti e del riciclo degli avanzi secondo le stringenti direttive imposte dal Governo agli uffici sottoposti al suo controllo più o meno diretto. Una questione lodevole ma decisamente complessa da gestire. Il Torchwood chiaramente se la cavava benissimo e per questo aveva una struttura interna attrezzata a questo scopo. Loro dovevano entrare dalla prima porta disponibile poiché ascensori e montacarichi si dipartivano capillarmente da quel piano.
Era intanto finiti nella zona rifiuti e Rose non poté fare a meno di lamentarsi del puzzo. Cosa che sembrava non urtare minimamente John, immerso invece una riflessione sull’effettiva qualità del pasti serviti dalle varie mense del Torchwood.
-          Possibile che ti venga in mente di parlare di cibo qui e ora! – protestò lei sottovoce. Lui non le disse che era stata un’associazione d’idee spontanea, visto che l’odore dei rifiuti e quello della zuppa di Jackie erano molto simili per lui, al momento. O forse in assoluto.
Continuò a chiederselo mentre la luce blu del cacciavite sonico e il familiare ronzio, precedevano di qualche istante il click di ogni serratura sulla loro strada.
Nonostante la situazione fosse difficile e più pericolosa di quanto lui non le avesse detto, più di una volta John e Rose si erano guardati complici negli occhi, sorridendo. Strisciare per cunicoli bui e poi correre insieme, per mano, alla ricerca della porta giusta, in quel labirinto, era per loro naturale. Erano eccitati e spaventati insieme.
Arrivati nel laboratorio, John attivò le luci ausiliari staccando momentaneamente i contatti elettrici con il resto dell’edificio. Erano giunti lì nell’oscurità e dovevano, per quanto possibile, rimanerci.
Qualche minuto dopo, lui era già a lavoro mentre Rose fissava il complesso congegno sul tavolo, avvolto da fili lucidi e vischiosi. Era parzialmente ricoperto da lastre di metallo che però al contatto le parvero straordinariamente morbide. Lui la guardava sorridendo con la coda dell’occhio, continuando ad armeggiare con quel che aveva tra le mani.
-          È… un oggetto strano – disse Rose.
-          Se ti riferisci alla copertura di metallo morbido… sappi che sono rimasto stupito di averne avuta di questo tipo. Ovviamente è aliena.
-          Ovviamente!
-          E’ di un tipo che non conosco.
-          Davvero?
-          Ricordi che sono nuovo di questo universo? – Rose abbassò lo sguardo - le lastre che sto usando per la copertura, facevano parte della grande collezione di rottami spaziali in possesso del Torchwood – lei colse nella sua voce una certa indecisione.
-          Provengono dal reparto medico, vero?
-          Sì. I materiali vengono testati ed esaminati in modo da determinare che siano innocui per gli esseri umani.
-          Nel reparto medico ho visto quei contenitori gialli e…
-          Tanto materiale isolante, sì. Troppo. E della peggior specie, per giunta – aggiunse piano.
-          Che intendi dire? – lui si fermò e la guardò fisso un lungo istante.
-          Prodotto dagli umani ma su modello alieno. Fabbricazione contemporanea, questo sicuramente. Quel materiale mi riporta alla memoria qualcosa di terribile.
-          Cosa ti ricordano?
-          Le prigioni, Rose. E’ il materiale con il quale si isolano le prigioni da qualunque contatto esterno, fisico e telepatico. Sono delle vere e proprie spugne psichiche.
-          Ma qui non ci sono prigioni… - Rose si fermò e impallidì. Lui la fissava senza dire una parola – tu… pensi…?
-          Non lo so. Ma… quel materiale è davvero… tanto, troppo – fece una smorfia che parve quasi di dolore. Rose non poteva sapere cosa stava ricordando in quel momento. E lui non glielo avrebbe raccontato perché era qualcosa di lontano e doloroso.
Una delle sue tante guerre, forse. Una delle avventure avute molto prima che lei esistesse.
-          Ora mi spiego la tua espressione davanti a quei rotoli per i corridoi. Temevi ne parlassi con mio padre?
-          Sarebbe stato normale. E non ero sicuro.
-          Ora lo sei.
-          Devo… accertarmene. Ma fosse come temo… ah, Rose Tyler… questo posto diventerebbe l’inferno sulla Terra perché lo ridurrei in cenere – i suoi occhi brillarono d’ira. Vi intravide un lampo di ferocia impressionante. Ma tutto si spense rapidamente, come non succedeva quasi mai. Qualcosa lo tratteneva e lei cercava di comprendere cosa fosse. Forse l’urgenza di quel che erano venuti a fare durante la notte. Forse il suo non stare bene.
-          Come ti senti?
-          Strano  – lei lo guardò con ansia – ma anche molto eccitato – le rivolse un sorriso luminoso, anche se in quella penombra.  
Adorava quando sorrideva. Anche se c’era tristezza e preoccupazione dentro di lui e lei li vedeva limpidamente.
-          Quando avevi gli occhi azzurri era più facile – disse. Lui la guardò stupito – intendo… cambiavano colore quando cambiavi umore, dopo un po’ mi ero abituata alle tue sfumature. Ed erano belli… - lui rise.
-          Belli, eh?
-          Sì… eri sexy – mormorò con voce calda. Lo sguardo di John si fermò sulle sue lunghe ciglia e la sua bocca ma per un attimo.
-          Non è il caso che tu mi distragga ora, Rose Tyler.
-          Perché, ne sono ancora capace?
-          Ah, come nessun’altra cosa nell’universo – sorrise ma non la guardò assumere quell’aria soddisfatta e pungente che gli piaceva da morire – sai, di recente ho pensato molto a lui.
-          Intendi al Dottore…?
-          Intendo al Dottore di cui dicevi prima, quello… sexy. Finisco per farmi troppe domande strane, al momento.
-          Davvero ancora ti chiedi se io…? – lo vide sorridere.
-          A volte. Ma poi ricordo i tuoi occhi quando mi hai detto “non morire”. E smetto di farmi domande – Rose sorrise intenerita.
-          Tu non sei mai stato così bello, Dottore – gli disse. Lui la guardò con finta noncuranza.
-          Ah, lo so! – gli strizzò l’occhiolino e le rivolse un sorriso assassino. Uno di quelli che Rose definiva così. Peccato la situazione, sicuramente inopportuna.
-          Ora sei tu che distrai me – gli sussurrò.
-          Bene. Mi fa piacere di riuscirci, nonostante io sia sprovvisto di meravigliosi occhi chiari.
-          Ti odio… !
-          No, non è vero. Tu mi ami! – lei gli diede un colpetto sulla spalla con un sorriso. John non lo sentì quasi e si irrigidì per un attimo. Ma lei non doveva accorgersi della cosa e quindi rivolse lo sguardo a quello che aveva tra le mani e senza guardarla le tese la mano – ora… vediamo di sistemare questo azzardo senza precedenti. Dammi il giocattolo di Liz… - Rose cercò nelle tasche e tirò fuori un oggetto grande quanto il palmo della sua mano. Lo porse a John che lo prese senza guardarlo per poi quasi scattare come lo avessero colpito con un filo scoperto – cosa…? – disse piano e la guardò quasi sconvolto – cooosaaa? – ripeté stridulo.
-          È questo…
-          Ah, divertente! Tra tutti i giochini di tua sorella… mi hai rifilato giusto questo!
-          È l’unico piccolo carillon, John – mormorò lei acidamente ma in fondo divertita dalla cosa.
-          Una testa di papero con il cappello da marinaio…! Una… testa di papero con… - le rivolse uno sguardo spalancato - mi appresto ad usare un oggetto simile per chiamare un glorioso Tardis… !
-          Non ci farà caso, vedrai. E poi… non ho potuto fare diversamente. Io lo trovo carino, però.
-          È un osceno papero con il becco lungo come una proboscide!
-          Qui, Donald Duck ha avuto successo così… ah, no. Si chiama Jeff Duck ,dimenticavo.
-          Fondamentale davvero, Rose – disse già preso dallo smontare il giocattolo con il cacciavite sonico. Era stupefacente come riuscisse a venire a capo dei piccolissimi pezzi in pochi istanti. Era impressionante davvero, anche conoscendolo bene, vederlo lavorare. E lavorare in silenzio. Qualcosa non andava. Lo conosceva. E aveva anche intuito il problema.
-          Tu sapevi dall’inizio che il Torchwood avrebbe tentato di mettere le mani sul Tardis, vero?
-          Un Tardis è una tentazione terribile per tutti anche per me, il primo… l’ho preso in prestito, come sai.
-          Per altri scopi!
-          Oh sì. E il Tardis era d’accordo, questo è scontato. Ma fu un vero e proprio furto. Non mi aspetto quindi che qualcosa del genere non interessi delle persone più limitate – Rose annuì un po’ disturbata dal termine che aveva usato ma comprendeva il senso delle sue parole.
-          Allevarlo altrove?
-          No. Qui ci sono i mezzi e non sarebbe cresciuto, in un altro luogo. Quando mi è stato affidato, dovevo dargli la possibilità di esistere e…
-          Darti la possibilità di viaggiare ancora, vero? – negli occhi di John quella luce profonda. Qualcosa che quando vedeva la eccitava, anche se non era il momento. Lui era sempre lo stesso e illudersi di una vita normale, con lui, sarebbe stato stupido. Neanche l’avrebbe voluta lei, ormai – cosa pensi, Dottore…? – chiese spontaneamente.
-          Penso che Tashen sia la punta dell’iceberg, un pericolosissimo iceberg. E che si tratti di qualcosa di decisamente peggiore di quanto non appaia ma spero di sbagliarmi.
-          Sbagliarti tu?
-          Fortunatamente, capita. Ma non dirlo troppo in giro, ho una reputazione da salvaguardare – aggiunse piano con un breve sorriso.
-          È già pessima – osservò Rose.
-          E tale deve restare.
-          Però… io non credo sia possibile sbagliarsi sul conto di quel ripugnante individuo. E’ un uomo viscido, senza scrupoli. Non si sforza neanche di apparire diverso da come sia. Mi meraviglia il suo ruolo di supervisore del lavoro svolto dal Torchwood.
Rose voleva chiederglielo dall’inizio e sicuramente John l’aveva capito. Si fece coraggio.
-          Cosa pensi che sappia, mio padre? – lo vide restare impassibile alle sue parole – tu credi…?
-          Probabilmente Pete sa meno di quel che pensa – disse freddamente – ed è così anche per altri – si girò pensieroso verso dove restava abbandonato il dispositivo cui lavorava. Rose ancora si chiedeva come mai non si fosse neanche avvicinato ad esso  – ad ogni modo ora so come indicare la strada alla mia giovane amica…
-          La tua giovane amica?  - Rose alzò un sopracciglio –ma bene!
-          Il Tardis mi appare nei sogni sotto forma umana – lei fece un mezzo sorriso ironico.
-          E di giovane femmina, guarda caso!
-          Suppongo che sia un modo di adattarsi a me
-          Ma brava…!
-          È una bambina… – disse piano dolcemente e lei lo guardò sorpresa – e…una ragazza, una ragazza molto giovane, questo dopo … - aggiunse con noncuranza gustandosi l’espressione di Rose.
-          Dopo? Dopo che cosa, Dottore…?
-          Niente di quel che stai pensando. Vuoi discutere dei sogni, Rose? – la vide perplessa ed era divertente – oh, sai che mi piace parlare di viaggi immaginari ma ora non è il momento. In ogni caso… il Tardis non ci vede, ma mi sente. Comunichiamo così e per immagini.
-          Telepaticamente, suppongo – annuì.
-          È la forma più delicata nei miei confronti, soprattutto per ora – disse piano John – la stranezza è che quando ci incontriamo vedo… cose strane. Irreali, impossibili… Sono davvero strani sogni.
-          Strani sogni, dici? – la vide dubbiosa e poi cambiare espressione. Una cosa da nulla ma lui conosceva bene Rose Tyler.
-          Che cosa hai sognato di recente? – le chiese interessato.
-          Ah, no… nulla di speciale, niente che abbia a che vedere con la cosa, insomma …  – Rose arrossì e lui le rivolse un’occhiata dubbiosa. A proposito di sogni strani e della sua precedente vita, uno l’aveva lasciata davvero perplessa ma non era necessario che glielo raccontasse. E neanche sapesse che le era piaciuto.
Vide però che lui già cercava una connessione con qualcos’altro, si era distaccato da quel pensiero per andare altrove. I suoi occhi scorrevano immagini che lei non vedeva.
-          Devo finire il congegno – mormorò – e l’ultima volta ero così stordito che non ricordo esattamente a che punto fossi arrivato.
-          Puoi guardare, è lì…
-          No… no – mormorò lui mettendo una mano sul viso.
-          La tua bella dottoressa mi ha intimato di farti lavorare alla cosa al più presto e ad ogni costo – Rose marcò le parole risentita. Lui non la guardò ma i suoi occhi si fecero ancora più scuri.
-          Sì, lei… oh, Povera Catherine … – mormorò con un velo di voce. Rose si irrigidì e lui fece un lungo sospiro lasciando le cose che aveva sul tavolo per un momento – è … difficile, per lei e anche per me… - esitò.
-          Non la biasimo per esserti innamorata di te, è una cosa che capisco più di chiunque altro – Rose lo guardò accennare ad un sorriso che però era anche triste - succede spesso a chi ti sta vicino – gli sussurrò. Il suo sguardo lucido la colpì – tutti coloro che sono stati con te alla fine ti hanno spezzato il cuore, come si vede… a volte  – non glielo disse. Lo pensò mentre lo vedeva riprendersi un po’.
La testa in plastica del carillon era aperta, le batterie collegate a dei fili che aveva preso in un cassetto del laboratorio. Qualunque cosa fosse aveva già un volume doppio a quello di partenza e Rose pensò che per qualche motivo quell’oggetto faceva impressione. Forse più della faccia del papero dal becco lungo chiamato Jeff Duck.
-          Quando sei stato male e sono venuta qui… io e lei ci siamo parlate – lui la guardò un attimo – io e la dottoressa Lane, intendo.
-          E che vi siete dette?
-          Solo poco, a parole – mormorò Rose – lei però mi aveva detto che ti avrebbe portato il lavoro a casa, io invece lo vedo qui – Rose indicò il congegno sul tavolo vicino.
-          Quindi non è venuta…
-          No. E mi sono meravigliata della cosa. L’ho anche detto a mio padre – John le rivolse un’occhiata lucida e silenziosa. Rose capì – ma lei… aspetta… quindi lei sapeva, vero? Sapeva quando io…
-          Sapeva, sì. Le ho chiesto di aiutarmi.
-          Ma tu hai me!
-          E tu fai tutto il resto, Rose! Ma lei è una scienziata. E quando ha iniziato a succedere lei ha compreso che c’era qualcosa che non quadrava perché è intelligente. E lo dicevano i dati – Rose non poteva farne a meno. La confidenza tra i due la urtava istintivamente.
E sebbene avesse la certezza dei sentimenti di John, il fatto che un’altra donna a lui vicina ne fosse attratta, la innervosiva. Poi le venne in mente un ricordo, improvvisamente.
Lei e lui, sulla nave Dalek. Prigionieri. Martha Jones che minacciava di spaccare la Terra e poi quella domanda, vedendola lì con il Dottore.
-          E lei chi è?
-          Io sono Rose Tyler – l’espressione di Martha quando aveva detto il suo nome. E poi quegli occhi lucidi guardando lui.
-          L’hai trovata…! - le era parso un triste gemito di sorpresa con l’ombra di un dolore intenso, forse passato ma non del tutto.
Trovata.
…tanto cercata, pur sapendo dove fosse…
Mai cercata in nessun’altra.
Il Dottore l’aveva dimenticata ora che lei era con John Smith nell’universo parallelo?
Ancora quel pensiero ma rivolse gli occhi su chi l’aveva cercata e trovata sicuramente. Lui.
Colui che aveva davanti.
-          Come va con il tuo giocattolo?
-          È… complicato.
-          Lo stai dicendo in continuazione.
-          Oh, più è difficile e più mi piace! – disse con un sorriso.
-          Non mi hai ancora spiegato che cosa stai facendo con quel carillon – disse Rose venendogli ancora più vicino. Lui era assorto tra le parti minute di quell’oggetto. L’espressione del suo viso era adorabile e sorrise – sembri un bambino con un giocattolo nuovo.
-          Questo è un giocattolo nuovo – disse con gli occhi sgranati. Fece un sorriso strano, soddisfatto – guarda e stupisci! - fece fare uno strano click al piccolo congegno che coincise con lo schiocco della sua lingua sul palato. Fu una scintilla abbagliante per un momento e d’istinto Rose si coprì gli occhi. Quando abbassò le mani dal viso vide che il carillon proiettava un complesso schema di rette luminose che ruotavano in vari sensi e si intersecavano in varie direzioni e profondità. Una ragnatela complessa che cercò di seguire ma che si perdeva in ciò che non riusciva più a distinguere come “parte” singola, proprio come si trattasse di scatole di varie forme e dimensioni, chiuse e generate contemporaneamente da altre in vari sensi.
Lui la guardava con un sorriso bellissimo e gli occhi scintillanti. Rose stupefatta guardò quello che le parve una mappa stellare anche se non lo era. Non del tutto.
-          Una mappa, sì – disse John prendendola per mano e tenendola più vicino a sé. Lei lo guardò un po’ stupita.
-          Leggi nel pensiero? Io pensavo proprio a quello.
-          Hai viaggiato nel Tardis e la tua percezione dello spazio e del tempo è cambiata per sempre. Hai potuto percepire che si tratta di una mappa ma non è come credi – avvicinò la mano di Rose ad una delle righe luminose ed essa vibrò, come fosse una corda. Il suono fu dolce, intenso. La attraversò in una vibrazione scintillante e nella sua mente si formò un colore, un colore vivace e poi una sensazione di calore. Rise stupita guardandolo ed anche lui.
-          È meraviglioso…!
-          Una mappa senso-temporale musicale di tipo complesso. Una guida.
-          Un carillon per il Tardis!
-          Ah, sì! Alla fine di ciascuna di quelle che tu vedi come rette, c’è la sua coscienza diffusa.
-          Ma le rette non hanno fine…!
-          Beh, in realtà sì, solo che… se ne discuterà meglio tra qualche tempo – disse con un sorrisetto – è geometria trascendentale superiore, un pizzico di matematica dell’inverosimile e musica!
-          Matematica dell’inverosimile… tu mi stai prendendo in giro! – protestò Rose sorridendo.
-          Giusto un po’ – le strizzò un occhio – in realtà, sappi che tutto è generato da vibrazioni. In piccolo, che poi in questo caso è decisamente in piccolo, immagina che questa sorta di fili che vedi siano stringhe. A seconda del loro modo di vibrare, producono particelle che danno luogo agli infiniti universi paralleli che esistono contemporaneamente e non.
-          Quindi mi stai dicendo che… siamo in un enorme carillon?
-          In un certo senso. Potremmo però descrivere tramite musica superiore la quantità e qualità di qualunque tipo di vibrazione. E la sua durata… il Tempo, Rose.
-          Ma come può una cosa così piccola fare qualcosa del genere?
-          Infatti non deve fare, qualcosa del genere! Qui vengono considerati solo due universi : quello di partenza e quello di arrivo. La terza parte necessaria perché la cosa riesca, l’incognita, è gestita dal Tardis ed è per ora l’unica cosa che sa precisamente.
-          Sa dov’è?
-          No. Sa cos’è, Rose. E questo è fondamentale. Userò la musica per inviare al Tardis le coordinate sia dello spazio che del tempo. Potrò anche segnargli i confini, determinare il dove. Le aprirò gli occhi… e vedrà.
-          Ma… non capisco.
-          Perché  non consideri l’infinità delle note e la loro profondità! Io posso calcolare delle coordinate interdimensionali che coincidano con questo universo nel tempo utile al Tardis per definirsi fisicamente qui ed ora. Mandare una composizione, una sorta di spartito…! Ah, è eccitante, bellissimo!
-          Beethoven ti ha insegnato qualcosa anche in tal senso?
-          È stato Bach, a dire il vero ma… qui non avrebbero saputo dove mettere le mani è mentalmente estremo e per questo… ci vuole il Dottore …! - sorrise soddisfatto. Un attacco di presunzione e megalomania insieme. Da lui. Ma i suoi occhi erano dolci, felici. Le ispirò profonda tenerezza – mi… guardi stranamente, Rose… - osservò un po’ perplesso. Rose rise ancora e strinse più forte la mano di lui, ancora chiusa nella sua.
-          Dimmi, genio… perché ho visto un colore e sentito una sensazione, quando ho toccato la mappa?
-          Perché a questo livello della realtà genera sensazioni complesse e associate. E tu le hai condivise…
-          Con te – disse Rose. Lui abbassò lo sguardo.
-          Sì…
Ma non era esattamente come pensava Rose o come sperava lui. Non sentiva quasi nulla e in quel momento era stata la sua mente ad unirsi a lei, e non qualcosa di fisicamente bello come condividere quel modo di parlare senza parole. La corda univa telepaticamente chi la faceva vibrare a chi ascoltava. Lui aveva potuto sentire solo quel che sentiva Rose e non la somma percettiva di entrambi, come sarebbe dovuto essere.
Rose non poteva percepirlo in quanto umana ma purtroppo lui sì perché non abbastanza umano.
Non altro ma nella sua mente, dopo, aveva ascoltato la nota di coda del vuoto. Un qualcosa che non dovevi poter sentire, se avevi un corpo. Ricordò il nome che alcuni popoli davano a quel “momento”.
Ma non era il luogo adatto a rifletterci sopra.
-          Qui abbiamo finito ora portiamo via questo oggetto.
-          E il dispositivo? – aggiunse Rose. Lui scosse il capo.
-          No, deve restare qui.
-          Ma…
-          Devo lavorarci qui, Rose – ripeté risoluto – per altro c’è un altro problema da risolvere.
-          E sarebbe?
-          Il carillon deve essere accordato – le fece un mezzo sorriso. Lei lo guardò stravolta.
-          Che intendi per…?
-          Ti spiegherò ma ora devo… prendere delle cose - le lasciò la mano e si diresse velocemente ai cassetti di uno dei tavoli da laboratorio, cercandovi qualcosa con impazienza.
-          Hai dimenticato qualcosa?
-          Dove l’ho messo? – mormorò quasi ignorandola. Trovò quel che cercava dopo aver rumorosamente rovistato tra varie cose e Rose lo capì dall’esclamazione costituita per il novanta percento da consonanti. John mise in tasca l’oggetto quasi furtivamente poi si avvicinò a dov’era lei e spense la mappa che si richiuse ripiegandosi su sé stessa ad una velocità impressionante, che la lasciò con espressione stupita e gli occhi spalancati. Anche il carillon finì velocemente nelle tasche del cappotto marrone.
Un po’ stordita si guardò attorno nella poca luce di prima.
Si sentì nuovamente prendere per mano, con delicatezza infinita. Lui la stava guardando con occhi che le parvero immensamente grandi ed eccitati, era fuori di sé ormai lo conosceva. E lui sapeva che lei lo sentiva. Lo vide accennare ad un sorriso.
-          John, ma cosa …?
-          Torniamo a casa  – lei lo strinse forte –  … Allons-y! – Rose sorrise. Inquieta ma sorrise di nuovo; mentre correvano. 

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Capitolo 16
*** I tuoi occhi e la sua voce (II) ***


La mano di Rose tremava ancora quando sfiorò il suo viso. Ad entrambi mancava il fiato e sentiva il suo cuore correre come impazzito. Si sollevò su di lui. Toccò appena le sue labbra con un bacio e poggiò il capo sul suo petto socchiudendo gli occhi. Erano sfiniti. Quasi con sforzo John la strinse piano accarezzandola e Rose cercò le sue mani con le sue. Le loro dita si intrecciarono dolcemente come era stato per quasi tutto il tempo. Un tempo che le era parso sospeso in un altro luogo. Così sembrava ancora lo sguardo di lui, gli occhi come cristalli scuri. Ad un tratto lo sentì emettere un profondo sospiro poi, insieme, si misero a ridere.
Rose si sentiva un po’ stordita, addirittura dolorante.
Certo tornando quasi all’alba dal Torchwood e con lui reduce da una notte da incubo appena il giorno prima, tutto avrebbe pensato tranne che sarebbe finita a quel modo. Ma lui l’aveva voluta con una risolutezza tale che non aveva potuto far altro che arrendersi. Quel che era accaduto però era stato nuovo. Le sembrava di essere ancora un po’ dentro di lui perché era stato quello. Neanche sapeva che per John fosse possibile fare qualcosa genere o almeno non credeva potesse ormai umano; ma visto che lo era, si stava chiedendo perché fosse successo solo in quel momento.
L’aveva spogliata con foga, si era liberato dei vestiti di fretta e stretta a sé sul loro letto. Rose era stata travolta da lui, dalle sue mani ovunque, le sue carezze, la sua bocca. Le aveva impedito quasi di muoversi. Ed aveva pensato a quel sogno, quello che aveva fatto il giorno prima, dove lui aveva fatto l’amore con lei quasi con furia. Anche se non il lui di adesso ma il primo che aveva conosciuto. Le era davvero parso di  vivere con John un déjà vu.
Almeno fino a quel sussurro sulla sua bocca...
… ti fidi di me…?
Lei aveva risposto con un bacio appassionato e la sua ansia sembrava aver acceso di fiamme gli occhi scuri di John. Aveva tra le dita i suoi capelli e piano li aveva accarezzati via dal suo viso liberandole le tempie. Sentiva che la voleva disperatamente ma sulla soglia del suo grembo lui si era fermato e aveva voluto…
… la sua mente. Quando l’aveva stretta in sé in quello che le era parso un abbraccio profondissimo, Rose gli si era abbandonata e aveva sentito la sua delicatezza infinita, il suo scivolarle dentro in ogni senso e tra i sensi. Ed era stato come aprire mille porte, mille finestre e mille occhi su di lui.
Avevano condiviso ogni cosa. Fino ad un certo punto.
… resta dove ti porto io, Rose… le aveva detto e lei si era lasciata guidare da lui.
Come per la corda tesa tra due mondi, le era parso di poter risuonare di qualcosa insieme, ma era qualcosa di ancora più fisico ed allo stesso tempo non lo era. Era stato contemporaneo, ogni respiro, ogni gemito. Era stato essere uniti in modo diverso. Straordinario. Un piacere persistente come un lungo eco che li aveva lasciati stremati.
Scossi.Rose accarezzava la sua pelle avvolta solo dalle lenzuola e dal piumone in uno stato di calma calda, apparente. La luce invernale sembrava freddissima su di lui che era pallido ma così bello, nel suo essere così spettinato, stanco; nel suo continuare a cercarla accanto a sé.
Ogni volta che facevano l’amore si chiedeva come avessero fatto ad aspettare tanto tempo. Ed ogni volta che lei guardava quel cappotto marrone, gettato su una sedia e quasi scivolato del tutto a terra, Rose ricordava la prima volta che era successo.
John seguì il suo sguardo e poi chiuse gli occhi sorridendo.
-          Hai capito che sto pensando, vero?
-          Non è difficile. Mi viene in mente ogni volta che lo indosso.
-          Ogni volta? – chiese Rose accarezzandolo e ridendo.
-          Oh sì, ogni volta!
-          Non è quello di Janis Joplin, però.
-          No, ma è quello di Rose Tyler – lei sorrise luminosa. John pensò che quel cappotto che portava sempre doveva essere stato riposto da lui nell’immenso armadio del Tardis. In mezzo ad altri vestiti, a quelli delle sue altre vite passate ma accanto alla giacca di Rose, ne era sicuro.
-          In ogni caso io penso che questo cappotto sia più caldo e più bello – disse Rose soddisfatta.
-          Non rivorrei l’altro, potessi averlo. Il tuo è quello che mi hai portato in camera quel pomeriggio, quello che mi hai messo addosso perché lo provassi, che mi hai tolto poco dopo. Con tutto il resto… - aggiunse sorridendo.
-          Quanti strati di vestiti che porti…  – lei rise ricordando le sue parole. L’aveva sempre pensato, guardandolo. Anche quando erano nel Tardis e gli era vicino, spesso si ritrovava a contare mentalmente quante cose avrebbe dovuto togliergli di dosso per spogliarlo – sai, quella volta ho pensato che addirittura avessi paura di me…
-          Sono stato un amante così disastroso?
-          Non meriti una risposta – Rose lo guardò perfidamente.
-          Bel pretesto, il cappotto.
-          Non era calcolato…!
-          Sì, lo so – sussurrò lui e le rivolse uno sguardo tenero – sei… stata molto dolce, con me.
-          Era pur sempre la tua prima volta – Rose gli rivolse un’occhiata maliziosa e una linguaccia alla quale lui rispose con un sorrisetto. Era vero. Lui era stato solo con lei ed era certo che il Dottore non avesse voluto altre, nella sua decima vita. Che cosa succedeva nell’undicesima era un mistero come chi fosse diventato. Era una curiosità che gli si affacciava alla mente da quando aveva sentito la rigenerazione ma era qualcosa che non lo riguardava e ne era felice.
Rose intanto pensava ancora ad altro.
-          Trovare quel cappotto non è stato semplice ma smettere di cercare te altrove, ancora meno. Sono… stata una stupida a non capire subito che…
-          Non è stato stupido ma molto umano, mia dolce Rose. Molto umano – la baciò.
Il riverbero dei sensi di lei stava affievolendosi dentro di lui ed era crudele. Lei però non spariva, non scompariva nell’indefinito come sembrava che facesse lentamente tutta la realtà concreta. Rose era lì e John la sentiva dentro. Non le avrebbe detto che aveva cercato i suoi sensi attraverso la sua mente e l’aveva amata sentendo solo quel che sentiva lei. Era qualcosa che non importava perché era stato insieme e così dolce e bello come non pensava potesse essere qualcosa che di solito lo aveva portato ad ascoltare dolori e sofferenze. Percepire il suo amore era stata la cosa più commovente che gli fosse accaduta e a stento non aveva pianto; e lei con lui.
La strinse a sé e si voltò di fianco per guardarla meglio in viso.
-          Io invecchio e tu diventi sempre più bella, Rose.
-          Sì, devo essere proprio bella, ora! – disse lei scherzosamente.
-          Bellissima, ora – le sussurrò e lei quasi arrossì di piacere. Poi lo vide cambiare espressione, decisamente meno romantica e dolce – ah… visto quel… che abbiamo fatto…non ti ho ancora chiesto come ti senti…
-          Come fossi stata investita da un camion! – Rose lo disse seriamente e lui la guardò con gli occhi spalancati e l’espressione incredula.
-          Immagino sia quel che ogni uomo vorrebbe sentirsi dire, a questo punto – lei lo guardò con un sorrisetto e poi entrambi scoppiarono a ridere di nuovo.
Il silenzio si avvolse alle loro parole come aveva fatto per molto tempo e restarono lunghi momenti solo a guardarsi, vicini. Una cosa che non era mai cambiata. Rose vide che lui era anche più stanco di lei e quindi lo lasciò scivolare lentamente nel sonno. Sperò che riposasse il più possibile e che quello stato fisico strano non lo tormentasse ancora per molto. Lo avvolse nelle coperte e si appoggiò a lui guardando la luce diventare sempre più forte nella sua stanza. La stanza di lei e John nella casa di Pete, nel loro mondo nuovo. Era tristissimo prima che ogni altra cosa.
Tutto quel che stava costruendo stava per svanire nel momento in cui era sul punto di illudersi che fosse per sempre; e con lui. Ma forse non era possibile.
Incontrare il Dottore aveva significato dover fare scelte dolorose continuamente anche se senza rimpianti.
Anche Rose era stanca ma sapeva che non sarebbe riuscita a dormire.
Quel momento d’amore non cancellava la preoccupazione per quello che stava succedendo e il pensiero del dolore che avrebbe causato a sua madre andando via per sempre. Sopra ogni cosa aleggiava però qualcosa di strano, un presentimento. Lo aveva sentito dentro John.
Nascosto nella penombra dei suoi sensi, in un suono sordo e prolungato.
 
John aprì gli occhi e si tirò su di colpo dal letto quando si accorse che doveva essere sera. Aveva dormito una giornata intera? Così sembrava. Non c’era molta luce. Il rumore dell’acqua attrasse il suo sguardo verso la porta del bagno. La doccia. E sotto la doccia Rose canticchiava qualche terribile canzone commerciale, al suo solito. Pessimi gusti in fatto di musica, niente da fare. Sorrise. 
Ma il suo sorriso si spense quando si rese conto che ai piedi del letto una donna lo stava fissando.
Minuta, bionda.
Evanescente, come fosse l’ombra luminosa di una coscienza ormai perduta.
La riconobbe subito e la sensazione che provò fu un brivido sinistro.
-          Astrid…! – mormorò. Lei lo guardò con occhi vuoti. E sofferenti.
John sentì il senso di peso al petto diventare più forte anche se non era dolore ma percepiva ansia, un’ansia che stava facendo vibrare i suoi muscoli. Gli occhi di lei erano quasi insopportabili da fissare.
La vide schiudere le labbra e parlargli ma non sentì nulla. Non una parola. Vide che aveva iniziato a piangere, piangere disperatamente. Lui scuoteva il capo perché non capiva neanche dal labiale, non comprendeva nulla di quello che cercava di dirgli eppure percepì che era una supplica. Una lunga supplica che non capiva.
Sgranò gli occhi inorridito vedendo che aveva iniziato ad urlare, ma urlare senza voce. Lunghissime urla di una bocca spalancata nel vuoto. Un precipizio di silenzio.
Fece per alzarsi e andare verso di lei ma improvvisamente tutto il mondo attorno parve iniziare a girare vorticosamente, fino a diventare improvvisamente un irreale bianco senza luce. E davanti a quel colore orribile non poté che chiudere gli occhi istintivamente stringendoli forte come per non farlo penetrare dentro il suo animo.
Il respiro gli mancò un lungo momento.
Quando riuscì ad emettere un lungo fiato lo fece; e fu un istante prima di liberare il suo sguardo in una stanza che non conosceva. Era in piedi.
Stupito guardo le sue mani, le sue braccia. Sentiva.
Sentiva un bruciore terribile sotto la pelle e si accorse che il dorso delle sue mani era tagliato, come ferito da schegge di vetro. Con una smorfia di dolore strinse le dita. Nei tagli, brillavano frammenti lucidi di qualcosa che si era rotto. Qualcosa contro cui era caduto?
Sorpreso si accorse che aveva addosso di nuovoquel vestito.
-          Ma davvero non mi cambio mai? – disse ripensando ad una cosa che gli aveva detto Donna la seconda volta che si erano incontrati.
Donna.
Proprio Donna Noble era davanti a lui. Le braccia conserte e lo sguardo spavaldo. Anche lei vestita come l’ultima volta che l’aveva vista. Rimase a guardarla un lungo momento, smarrito.
-          Ohi, uomo dello spazio! – lo apostrofò lei acidamente.
-          Ohi, ragazza della Terra! – replicò lui con lo stesso tono. E si sorrisero.
John la guardò fisso negli occhi e capì che colei che aveva davanti non era l’immagine della Donna del mondo parallelo ma davvero la Donna Noble a cui doveva la sua maggiore passione e irruenza. Lei.
-          Non sei un’immagine onirica tu… in qualche modo sei reale!
-          Reale davvero. La donna più importante dell’Universo!
-          Lo sei – disse lui piano con un sorriso. Fece per andarle più vicino perché voleva abbracciarla e lei scosse il capo tristemente mettendo una mano davanti a sé.
-          Non distrarti, lascia che sia io a toccarti e farlo poco altrimenti mi accorgerei di te più profondamente e questo potrebbe distruggermi – aveva ragione.  
Notò che continuava a guardarlo in modo strano e i suoi occhi erano tristi.
-          Come sei…
-          Lasciami indovinare: Invecchiato?
-          No. Ridotto male…  – mormorò.
Lui la guardò stupito e lei indicò con un gesto uno specchio che prima non aveva notato.
Uno specchio che sembrava riflettere solo l’oscurità. E tutto sembrava immerso nel buio, tranne una sorta di striscia di luce bianchissima sulla quale loro camminavano, come fosse una passerella. Improvvisamente si sentì in bilico. Come davvero stessero tenendo l’equilibrio in un qualche tipo di vuoto. Si guardò attorno smarrito e confuso.
Il luogo era cupo, molto più minaccioso della volta precedente e quello specchio non gli piaceva d’istinto, lo inquietava. Sembrava addirittura che il gelo lo avesse ricoperto di brina sottilissima. Ma non c’era freddo. La guardò indeciso. Donna lo prese per mano e lo guidò verso di esso. Avvicinandosi vide che la superficie dello specchio non era appannata e che rifletteva benissimo. Vide il suo viso. Pallido, esangue. E il suo vestito lacerato da tagli molto profondi. Si guardò perplesso.
Donna lo spinse ad allontanarsi dallo specchio, lo lasciò e si mise davanti a lui. John sentiva qualcosa bruciare, bruciare come fuoco dentro. Qualcosa di profondo.
-          Cosa sta succedendo? – le chiese confuso – questa è una metafora del mio stato fisico? – capì dallo sguardo di Donna che non si trattava di quello – è allora qualcosa che è accaduto a Lui, il motivo per cui è cambiato?
-          Io non so come sia successo né chi lui sia ora. Sono solo… cose – disse Donna perplessa. Lui accigliò la fronte guardandola – no, non sono un’immagine della tua bambina!  - infastidita alzò gli occhi sentendo il suo pensiero – ma anche Lei è qui.
-          Qui? – lei annuì.
-          Io…sono proprio io.
-          Come fai ad essere qui?
-          Un signore del Tempo è tale in tutte le sue parti e tu… sei parte anche di me – lui la guardò tristemente.
-          Mi manchi, Donna – mormorò. Donna sorrise.
-          Anche tu a me, sebbene non ricordi più niente – John lo sapeva.
Quando erano andati via, sapeva quello che lui avrebbe dovuto fare al più presto e per il suo bene. Pensarci era stato uno strazio. Un dolore che si era sommato a quello provato per Rose. Non aveva condiviso con lei il pensiero di Donna perché non era possibile e non era il momento. Era però quello che l’aveva sempre spinto a cercarla nei suoi ricordi, nei suoi pensieri. E alla fine, trovarla per caso in un negozio.
-          Perché non c’è qui Lui?
-          Non farmi domande di cui sai la risposta, Dottore! – Donna lo fissò profondamente.
Lui non lo sentiva perché era morto ed ora erano due persone distinte. Lei invece gli era legata in modo più estremo di quanto non lo fosse a sé stesso dopo che era cambiato. Il Tardis nascente era un’anomalia spazio dimensionale, a livello subconscio la parte di Donna che gli era legata lo aveva percepito e quindi si erano incontrati in una dimensione mentale estrema, perché Signori del Tempo entrambi. Interessante. Se non fosse stato un incubo.
-          Sai, conoscendoti non pensavo che tu fossi tanto inquietante, dentro – disse Donna con il solito tono petulante.
-          Eppure non sono del tutto convinto che questo dipenda da me…  – disse pensieroso.
-          Ragazzo mio, quando vuoi far fare a Rose una passeggiatina nella tua mente, stai attento! – John si scosse e la guardò stravolto. Lei rispose con un sorrisetto allusivo.
-          Fortunatamente so che lo sai perché te l’ho detto io adesso – aggiunse sarcastico.
Si guardò ancora le mani tagliate. Il bruciore stava diventando decisamente quel qualcosa di sordo e strano che percepiva come una vibrazione lunga, cupa, sinistra. Vide che lei lo aveva guardato indecisa.
-          Lo senti spesso, vero?
-          Che cosa?
-          Nei sogni. Lo senti spesso, vero? – lo sentiva. Dalla prima volta che aveva incontrato il giovane Tardis nel suo sogno. Da allora, in ogni sogno quello strano suono che sembrava un lamento – non so cosa sia e lo sento anch’io ma non così forte. Quando succede faccio sogni strani. Sogno cose impossibili, avvenimenti che non sono accaduti, realtà diverse.
-          Succede anche a me.
-          Vedo un passato che non può esistere e poi vedo te, l’unica cosa che io dimentichi del tutto al risveglio. So che sei tu ma non sei, tu. Ti vedo avvolto dalle fiamme, ti vedo con lo sguardo buio come il buio più spaventoso. Ti vedo combattere…!
-          Combattere?
-          Sembrano passati remoti e non lo sono.
-          Oppure sì – disse lui con tono amaro – tu hai condiviso con me la mia mente ma non la mia memoria. E nonostante tutto posso dire che è stato davvero troppo, mi dispiace... mi dispiace… - ripeté in un tristissimo sussurro abbassando lo sguardo.
-          A me di averti dovuto dimenticare. Ma non del tutto.
-          Dimenticare…  - esitò - Donna, prima di vedere te ho visto un’altra persona – lei lo fissò stupita, come non se l’aspettasse – tu… dovresti averla…
-          No. La cosa mi inquieta perché dovrebbe essere un tuo pensiero e quindi dovrei averlo percepito.
-          Potrebbe non essere un mio pensiero – si guardarono perplessi. Indecisi.
-          Chi era questa persona? – gli chiese esitante.
-          Qualcuno che sarebbe potuto essere molto importante, per me – abbassò il capo.
Il pensiero di Astrid era un’altra ombra nel suo animo.
-          Pensi che tutto questo derivi dal Tardis?
-          No, quel che ho visto è stato spaventoso. Il Tardis non lo è… - lei sorrise ma lui era sempre più preoccupato - Donna, perché sei qui? – ancora una volta lei lo guardò indecisa.
-          Tornerai in questo mondo per via degli effetti della rigenerazione – lui annuì – e qui troverai qualcosa che non funziona.
-          Tanto per cambiare – mormorò quasi tra sé – e cioè?
-          Io lo percepisco inconsciamente e so che il Dottore sta già cercando di capire cosa sta accadendo.
-          Cosa pensi che sia?
-          Non lo so. Ma so che l’hai sentito anche tu da questa parte e non riguarda solo il mio universo ma anche il tuo. Non comprendo se tutto ciò parta proprio da qui, dallo spazio tra i muri di questi due mondi…
-          Ah, i muri. Certo. Ho sempre amato gli open space danno meno problemi – disse petulante e lei lo guardò ironicamente – no, davvero… Inizio a pensare che al posto del cacciavite avrei dovuto costruirmi una cazzuola sonica! – Donna si mise a ridere ma la risata le morì sulle labbra continuando a guardarlo. John la guardò perplesso e seguì i suoi occhi, fermi sulla sua mano sinistra. Un rivolo di liquido stava gocciolando a terra dalla manica e bagnando le sue dita. Lo sentiva caldo, viscido. Sentiva il suo odore: era sangue – beh… - mormorò John guardandosi la mano - questo è più inquietante del mio umorismo in questo momento – lei però sembrava davvero spaventata – Donna…
-          Oh, no… non tu, non tu…! – fu un gemito.
-          Io cosa?
-          Tu no, no! … sei meraviglioso, tu non meriti tutto questo! – gli occhi chiari di lei si erano fatti lucidi, acquosi.
-          Donna… Questo cosa? – gli chiese piano in un sussurro doloroso.
-          Il futuro…  
-          Questo… è il mio futuro?
-          Passati impossibili, futuri improbabili… presenti instabili! – Donna si mise le mani sul viso sconvolta – oh, ti prego…! Sveglia il Tardis e raggiungi presto il Dottore, ti prego…! Non può essere…
-          Se passo dall’altra parte, succederà questo? – lei scosse il capo – dimmi, succederà questo? – lei non gli rispondeva. Si allontanò da lui tremando e vide che piangeva.
-          Perché ora vedo tutto questo, perché tu…?
-          Ma io non vedo niente! – gridò lui esasperato e impaurito.
… sei caduto…
Una voce orribile lo scosse dentro e scosse la stanza nella quale si trovavano, ovunque essa fosse. Lo specchio appeso alla parete tremò, si staccò e scivolò giù ma senza sfracellarsi al suolo. Sotto di esso non c’era più luce, la passerella si era ristretta e davvero sembrava fosse sospesa nel vuoto, dove quell’oggetto era caduto. Quella voce aveva fatto vibrare tutto.
Era una vibrazione sorda, profondissima. Quella che restava dopo le parole. John guardò Donna.
-          Vai via perché qualunque cosa sia è meglio che non trovi due signori del Tempo nello stesso posto e soprattutto, te che non sai di esserlo – Donna lo guardò sconvolta – vai, Donna! – le ripeté in un sussurro tagliente.
Lei gli rivolse un ultimo sguardo lucido, disperato. E tali erano anche gli occhi di John. Donna tese la mano verso di lui e le loro dita quasi si sfiorarono ma fu lui a scuotere il capo e chiedere di non toccarlo.
Per il suo bene.
-          Addio – le sussurrò e l’ultima cosa che vide fu Donna che piangeva.
L’ombra di lei si dissolse sfocandosi lentamente, come un miraggio di nebbia. John vide la vibrazione che aleggiava sinistramente nell’aria, attraversare il riverbero della sua presenza proprio come sarebbe stato per un’onda concentrica lasciata da un sasso lanciato in acqua.
Era solo. Con chiunque lì fosse.
La vibrazione di quella voce che taceva, strisciava, impregnava ogni cosa. Tutto era buio, tranne la passerella luminosa, sempre più stretta. Si guardò attorno allarmato e guardò le sue mani.
Sembrava che i tagli si aprissero, che qualunque ferita diventasse più profonda. Sentiva la pelle lacerata sottilmente da quel vetro che era sprofondato dentro di lui. Disperato ascoltò il suo respiro diventare ancora più veloce.
Chiunque o qualunque cosa fosse lì, stava deridendo la sua condizione umana. Stava giocando con i suoi incubi, con i suoi sensi. Ma probabilmente non aveva idea di chi avesse davanti, probabilmente l’essere più pericoloso dell’Universo.  In lui quel qualcosa che non lo faceva ripiegare su sé stesso mai e la curiosità insana di sapere cosa stesse succedendo. Risoluto, anche se tremante, John  avanzò verso la traccia luminosa. Qualunque cosa fosse era meglio andare avanti.
Era un sogno, non poteva ucciderlo. Non in quel momento.
O forse non era esattamente così visto che lì c’era il Tardis. Improvvisamente ebbe paura che quella cosa fosse lì per Lei.
Se era così doveva proteggerla ad ogni costo. E raggiungerla, ovunque fosse.
Il buio si mosse e la vibrazione si fece più profonda. Insopportabile. Con una smorfia di dolore continuò a camminare lentamente anche se non sapeva per dove. Stava però per mancargli l’equilibrio.
La testa gli girava, si sentiva sempre più debole e la passerella sempre più stretta. Non si sarebbe arreso lo stesso, non lo conosceva. Qualunque cosa fosse evidentemente non lo conosceva affatto.
Crollò in ginocchio, a stento dentro lo spazio luminoso. Attorno, stretto, il buio che mormorava e la vibrazione che ormai gli faceva dolere anche le ossa. Rabbioso, fuori di sé chinò il capo sul rivolo di sangue scuro che si stava allargando dove teneva le mani. Fece per alzarsi.
Una mano gentile lo tenne giù.
Non fece in tempo a guardarla in viso che si era già voltata verso l’oscurità.
Davanti al buio, una ragazzina dal vestito bianco. Sembrava indossare un vestito da sposa, lungo, abbagliante, fatto di fili lucenti, fili infiniti. Era un po’ più grande di come l’aveva vista l’ultima volta, esile ma forte. I suoi capelli chiari scintillavano di fiammelle. Smarrito, la vide aprire le braccia come per proteggerlo e sembrava che da lei provenisse una luce assoluta, caldissima. Gli parve iniziare a bruciare.
John vide il buio contorcersi e mormorare. Per un momento riuscì a sentire qualcosa di acquoso che li circondava, come se l’oscurità fosse davvero più simile ad un liquido che alla mancanza di luce. Qualunque cosa fosse iniziò ad arretrare, a sciogliersi attorno. Vide la luce diventare sempre più forte e cacciare fuori dalla passerella il buio che la lambiva. Vi fu un lampo fortissimo e dovette ripararsi gli occhi con le mani. Sentì il calore sulla pelle ma fu un calore dolce e poi, lentamente, la luce assoluta diventò penombra.
Quando aprì gli occhi vide che la stanza si vedeva tutta e che comunque non vi era alcuna traccia del buio che aveva avvolto lui e Donna finché erano stati insieme.
La ragazzina non era più davanti a lui, ma accanto. Sollevò lo sguardo su di lei e vide il suo profilo dolce, le mani piccole. Gli occhi chiusi. Pensò di averla già vista. Non sapeva dove ma l’aveva già vista.
-          Mi hai salvato…
-          No…  – rispose lei. Un lungo silenzio - che cosa vedi? – gli chiese piano. Lui la guardò ancora stravolto indeciso. Ancora in ginocchio – dimmi, che cosa vedi? – ripeté ansiosa.
John allora alzò gli occhi e vide, di nuovo, davanti a sé uno specchio. Ma diverso. Era molto più grande e sembrava una porta.
Davanti a ciò che vide, John schiuse le labbra e per un attimo perse il respiro. E un battito del cuore.
Il riflesso era tristissimo. I suoi occhi erano lucidi di pianto e le lacrime gli rigarono silenziosamente il viso.
-          Ti prego, dimmi cosa vedi… - la ragazzina insisteva ma dolcemente. Prese fiato a fatica.
-          Vedo… me – rispose con un velo di voce.
-          Tremi…
-          Sì… - la giacca del suo vestito era inzuppata di sangue. Lei gli fece una carezza sui capelli e lui rivolse ancora gli occhi a quel riflesso. John mise le mani sui bottoni e fece per aprire la giacca ma lei, anche se con gli occhi chiusi, fermò la sua mano scuotendo il capo.
-          Non guardare – gli disse.
-          Mi hai chiesto di dirti cosa vedo…
-          Non guardare – gli sussurrò piano. Vide dagli occhi chiusi di lei scintillare lacrime che parevano di vetro. Piangeva. Lui cercò di controllarsi anche se l’angoscia lo stava stringendo in una morsa.
-          È quello che accadrà? E’ questo quello che mi aspetta… ?
-          Sono…cose… - gli disse ancora una volta. Lui abbassò lo sguardo. Lei allora si chinò su di lui e circondò la sua schiena con le sue braccia, poggiando il capo su una sua spalla. Esitando lui le prese una mano e la strinse.
-          Non ti rifletti in questo specchio…
-          Non ci vedo. Aprimi gli occhi, aprimi gli occhi e fammi vedere... Accorda la musica e fammi vedere!
-          Come… come posso farlo?
-          La sua voce… - lui la guardò confuso – cerca di darmi la sua voce.
-          La voce di chi…?
-          Quella che io ricordo… quella che conosco… l’unica che potrebbe portarti indietro – John accigliò la fronte, poi i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa.
Comprese le sue parole, comprese cosa intendesse dire. Capì tutto. Anche di quel che aveva sentito all’inizio di quell’incubo.
In fondo era la cosa più logica, più sensata.
Vide che la ragazzina, pur continuando a piangere, aveva sorriso.
Non lui, alzandosi in piedi davanti a sé stesso.
Colui che vedeva in quello specchio aveva combattuto come una furia e lui sapeva bene che voleva dire.
Aveva combattuto fino alla fine. Ma aveva perso.
 

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Capitolo 17
*** Intrecci e labirinti ***


Il passo di quell’uomo sembrava metallico, come i suoi occhi. Uno dei giovani dottori presenti pensò questo per l’ennesima volta, prima che la figura nera di Tashen si manifestasse in laboratorio. Il rumore della grande ventola a forma di ingranaggio era di sottofondo ad ogni azione e pensiero in quel luogo ed incombeva su tutto, anche fisicamente. I primi tempi che aveva lavorato lì, come tutti gli altri, aveva dovuto prendere degli analgesici speciali poiché quel rumore risultava essere assolutamente insopportabile alla lunga. Lavorava al Torchwood da poco. Erano venuti a cercarlo direttamente nel dipartimento universitario dove stava svolgendo un dottorato di ricerca. Sembravano molto interessati agli sviluppi dei suoi studi sui materiali biologicamente compatibili. Gli avevano proposto di lavorare nel laboratorio di una struttura d’avanguardia e dato piena disponibilità a sovvenzionare le sue ricerche ma non era stato quello che l'aveva spinto ad accettare l'offerta. Dopo gli attacchi alieni subiti condivideva ed ammirava l'impegno del Torchwood a lavorare in difesa del pianeta. Onorato di poter dare il proprio contributo in tal senso, aveva quindi lasciato l'università per lavorare con loro. Tornando indietro non lo avrebbe mai fatto. Non perché la ricerca non procedesse nel migliore dei modi, forse era esattamente il contrario; ma qualcosa in quel posto lo infastidiva a livello istintivo e per una persona sostanzialmente razionale come si riteneva, era certo inquietante. Ogni cosa al Torchwood lo era. Almeno ad un certo livello.
Sapere che il Governo aveva un controllo parziale su di esso aveva tranquillizzato molti ma il rappresentate di questa presenza esterna era Tashen, l’uomo più sinistro che avesse mai visto nella sua vita. Odiava il suo passo metallico, la sua voce dal timbro strano. Odiava quegli occhi del colore dell’attrezzatura che avevano in laboratorio; quella per tagliare profondamente.
Il giovane si allontanò da lui sperando che non avesse niente di personale da chiedergli.
Il direttore del laboratorio spiccava fisicamente tra gli altri. Di mezza età, alto e magro, calvo. Tashen si diresse da lui senza degnare gli altri presenti di uno sguardo specifico.
-          Notizie del Dottore? – chiese Tashen.
-          Il signor Tyler ci ha informato. Possiamo contare riprenda a lavorare al più presto al congegno.
-          Bene. Ha seguito le nostre direttive? – il tizio accennò ad un sorriso e annuì – e lei sta eseguendo gli ordini come stabilito?
-          Naturalmente, ispettore. L’equipaggio e le armature sono quasi pronte.
-          I donatori?
-          Ormai rimane poco da sfruttare – disse l’uomo con freddezza – ma abbiamo ancora delle parti a disposizione, parti… interessanti per i nostri scopi.
-          Bene. Manteneteli in vita quanto basta. Poi sapete come riciclare il biologico.
-          Certo, ispettore - Tashen rivolse lo sguardo verso la ventola. Socchiuse gli occhi e  assunse un’espressione compiaciuta. Il direttore del laboratorio continuava a prendere appunti su dei fogli. Tashen lo guardò infastidito e questi gli porse quel che aveva in mano.
L’ispettore lesse velocemente la prima e la seconda pagina. La piega della sua bocca si incurvò verso il basso.
-          Come pensate di superare questi problemi? – chiese asciutto.
-          Non sappiamo ancora se possano essere risolti definitivamente. Ma la traccia spazio dimensionale è sempre più forte.
-          Potremo allora utilizzarla per passare?
-          Io penso di sì. Ma solo in un senso. Non sarà possibile tornare indietro con questo mezzo.
-          Non sarà necessario. Una volta che avremo il Tardis, cambierà tutto. Cambierà tutto davvero – aggiunse piano in tono cupo – ogni cosa.
 
Pete aveva trascorso la notte inchiodato al letto e con gli occhi spalancati.
Non era riuscito a dormire se non poche ore. Liz aveva pianto molto, Jackie e lui si erano alzati a turno per vedere che avesse ma sembrava solo fosse nervosa, come entrambi i genitori. Sapeva che Jackie pensava a John. Non glielo diceva come non si fidasse di parlargliene, dopo che non aveva voluto chiamare l’ambulanza come gli aveva chiesto la notte prima. Neanche le parole dello stesso John l’avevano convinta che sarebbe stata un’esagerazione. Jackie era preoccupata. In qualche modo Pete sentiva che sua moglie stava diffidando della sua sensibilità. Non poteva biasimarla visto che lo faceva spesso anche lui.
Forse aveva un lato negativo abbastanza sviluppato da sopportare l’ambiguità della situazione e tutto il resto senza fare troppo appello alla coscienza; forse il suo essere capace di mantenere il controllo dipendeva dal fatto che il suo cuore si era come raffreddato. Non spezzato del tutto ma diventato incapace di grandi slanci.
Con rimorso pensò a Rose che lo guardava sempre con occhi pieni di fiducia incondizionata e amore, sentimenti per un uomo che invece era un estraneo e insieme non si sentiva tale, non quanto avrebbe voluto a questo punto, visto quel che stava accadendo. Abbracciarla, chiederle perdono per quel che stava facendo, gli aveva fatto comprendere che perderla sarebbe stato per lui doloroso come per una vera figlia. Ma forse non abbastanza doloroso in assoluto. Forse aveva perso anche la capacità di soffrire intensamente. Forse; perché il pensiero di John a tratti era un tormento.
Si chiedeva sempre come facesse lui, il Dottore, a non essere diventato gelido nei confronti degli altri. Sviluppare l’indifferenza l’avrebbe protetto dal dolore ed invece sembrava che per l’aver vissuto tanto fosse accaduto il contrario. Aveva parlato qualche volta di alcuni suoi compagni di viaggio e sempre, mentre ricordava ogni persona, era percepibile dolore, rimpianto, la traccia indelebile della loro assenza in lui, che si sentiva sempre così solo da cercare disperatamente la compagnia di altri, anche diventato John Smith. Era strano ma molto socievole, curioso. Restava però un alieno. Superiore.
Perché allora cercava il sostegno degli altri? Non comprendeva davvero, dopo novecento anni di viaggi e avventure, come potesse ancora prendere ogni cosa, ogni singola cosa, con tanta passione. Troppa passione. Come aveva fatto un Signore del Tempo ad innamorarsi perdutamente di un essere umano?
Pete se lo chiedeva ogni volta guardando lui e Rose insieme. Lui la amava come gli umani amavano da giovani, totalmente; ma con la pazienza di un vecchio. Lei lo amava come forse un essere umano avrebbe potuto amare alla fine di una lunga vita, fermamente e senza indecisione, ma con la passione della sua giovane età. Se dopo secoli lui era così felice solo tra le sue braccia, Rose doveva essere eccezionale.
Pete non si era mai sentito particolarmente romantico ed anzi, il sentimentalismo lo metteva a disagio. Neanche era stato sempre corretto nei confronti della prima Jackie, come in fondo non fosse particolarmente importante la fedeltà ma solo restare insieme e sostenersi. Aveva poi compreso che era un errore e quindi si era ripromesso di non offendere nello stesso modo quella che viveva come la sua seconda possibilità con lei. La tentazione era però presente, sempre.
Pete voleva bene sua moglie, forse l’amava più di quanto non credesse ma l’amava in una forma strana che somigliava a volte al ricordo, al rimpianto. La amava a suo modo ma non come il Dottore amava Rose.
Anche questo pensiero lo tormentava, quello di distruggere qualcosa di raro e irripetibile. Distruggere senza rimorso e per insensibilità. Per uno scopo che forse non era quello giusto. Forse.
Con simili pensieri dentro, dormire non era facile.
Sperava che quei pochi giorni di festa lo rallegrassero un po’ ma la vicinanza della sua famiglia, della famiglia che voleva salvare ad ogni costo, anche dell’anima, lo stava facendo sentire anche peggio.
Sapendo che dopo quella notte orribile John era riuscito addirittura ad uscire, si era quasi illuso di non aver fatto il suo male con quel farmaco ma quando a cena lo aveva visto sentirsi male dopo aver mangiato i dolci di Rose era stato troppo. Perché era stato a casa, aveva visto lei prepararli e lui prenderli solo per farle piacere. Penoso.
Aveva sperato che almeno la notte fosse stata per John più serena ma non era stata tale la sua. 
Alzarsi presto era stato un sollievo.
Incassava l’insonnia cronica, ormai, con freddezza e un paio di caffè caldi. Jackie invece sembrava uno straccio.
Uscito dalla stanza da letto, scendendo le scale, Pete fu attratto dalla grande confusione che sembrava esserci tra la servitù. Pensò fossero già impegnati nei preparativi per il ricevimento, ormai mancava poco e c’erano molte cose da sistemare, ma i movimenti attorno sembravano dettati più dal fastidio e l’esasperazione che finalizzati al fare qualcosa di programmato. Capì presto che il luogo dal quale partiva il trambusto era la cucina.
La cosa lo infastidì in modo particolare, forse anche perché sperava in una colazione serena, nonostante tutto. La sua espressione neutra virò rapidamente verso altro.
-          Che cosa succede? – chiese manifestandosi in cucina ancora in veste da camera e con accanto Jackie ancora assonnata. Con una certa disapprovazione istintiva notò che non aveva preso l’abitudine di darsi una sistemata prima di scendere. In quello era decisamente l’opposto della donna che era stata sua moglie, prima.
Cacciò via la considerazione dalla sua mente e le sfiorò una spalla con finta noncuranza, quasi per sincerarsi che fosse lì con lui. Jackie non ci badò, distratta da quel che c’era in giro. E dalle facce disgustate.
-          Allora, qualcuno può dirmi cosa sta succedendo? – stavolta il tono di Pete fu più alto e infastidito.
Una ragazza si avvicinò con in mano una pentola fumante e lo fece in modo maldestro, come avesse urgenza di fare altro piuttosto che rispondergli.
-          Signor Tyler, ci scusi ma… è il Dottore…
-          E cioè?
-          Il Dottore…sta mangiando.
-          Oh, bene…! - disse Jackie con un sospiro di sollievo, legandosi un po’ meglio i capelli ancora sfatti.
-          Non direi bene – mormorò esitante la ragazza ed entrambi la guardarono perplessi – io… non posso guardarlo mangiare a quel modo, non a quel modo!
-          In che senso? – chiese Pete inquieto. La ragazza accennò al tavolo in fondo ingombro di varie cose, formaggi, pentole sporche che colavano crema giallastra e glassa bruna, bottiglie di latte e succhi di frutta. Forse tutto quel che c’era nei frigoriferi era sul tavolo. L’odore in giro era strano.
Jackie fece una smorfia ma scostò Pete e andò direttamente verso la finestra.
John aveva in mano una pentola e stava divorando una zuppa cremosa direttamente con un mestolo. L’espressione non era rassicurante, sembrava che lo stesse facendo addirittura con sforzo ma mandava giù ogni mestolata quasi con furia. Quando vide Jackie che lo guardava con gli occhi spalancati, lasciò lentamente la pentola , la mise sulle ginocchia e dopo essersi pulito le labbra, la guardò con un’espressione pensierosa.
-          Che c’è?
-          Cosa stai facendo? – gli chiese quasi strillando.
-          Sto… mangiando…
-          Ma che stai mangiando?
-          La tua zuppa, Jackie – lei lo guardò sorpresa ed accennò quasi ad un sorriso – la tua zuppa corretta con mezzo litro di succo di agrumi misti, qualche banana a pezzi e una scatola di cetrioli sott’aceto ben sgocciolati… almeno credo…  – Jackie spalancò la bocca senza riuscire a dire una sola parola. Solo disgustata all’idea.
-          Ma… ma era un minestrone… !
-          E nel minestrone più cose metti meglio è, non è vero? – sorrise quasi perfidamente.
-          E tu stai mangiando…?
-          Ne convengo, resta una porcheria…
-          John! – protestò offesa Jackie.
-          Dai, Jackie, non prendertela. Lo sai che la cucina non è la tua arte – lei, con le braccia conserte, lo fissava indecisa se ucciderlo o chiedergli come mai stesse facendo qualcosa del genere. A parte tutto era ripugnante e neanche John sembrava particolarmente contento della cosa. L’espressione disgustata dei suoi occhi era più che mai evidente. Vide che accanto aveva una brocca piena di liquido traslucido, biancastro. Pete, che si era avvicinato anche lui, fece un’associazione d’idee che lo fece appena irrigidire. John lo guardò e la indicò – questa è limonata, ne vuoi?
-          No… preferirei di no – mormorò lui.
-          Limonata…!
-          Fa bene, se non stai bene – disse cantilenando come fosse stato un vecchio detto scontato – rimedio della nonna, dicono; almeno lo dicono quelli che la nonna l’hanno avuta e hanno rimediato qualcosa, evidentemente – mormorò più piano quasi incerto – e comunque è ottima per il raffreddore, calma la nausea, aiuta contro la diarrea… - la ragazza che portava i piatti alzò gli occhi e scappò via per non sentire il resto. John la guardò accigliato – hey, una limonata potrebbe salvarvi nel momento del bisogno più estremo!
-          Proprio quel che mi piace sentire al mattino prima di colazione – osservò Pete.
-          Intanto io la apprezzo moltissimo. Mi fa buttare giù ogni boccone è… buona. Salata, naturalmente.
-          Santo cielo! – gemette Jackie.
-          Ma che cosa…? – Pete si mise una mano sulla bocca e il naso, leggermente nauseato dalla mescolanza di odori. Cavolo acido, aringhe salate, una giardiniera di verdura a grossi pezzi e panna aromatizzata alla vaniglia, erano tutti insieme nello stesso piatto. E immersi nel succo di qualcosa – John, ma cosa stai facendo?
-          Sto mangiando, Pete. Sto cercando di mangiare. E… davvero, per favore… è già difficile quindi, se non vi spiace, potremmo rimandare le discussioni sulle preferenze culinarie a tra un po’? – lo guardò perplesso.
-          Mi stai cacciando dalla mia cucina?
-          No, no… ! Vuoi restare? – guardandolo riprendere in mano la pentola Pete ebbe un brivido di disgusto.
-          Vorrei un caffè e delle uova con bacon, se ne è rimasto – aggiunse guardando l’assoluta confusione attorno. Uscì scuotendo il capo. Jackie invece si avvicinò a lui. Si chinò verso John e lo fissò dritto negli occhi.
-          Va molto male? – gli chiese direttamente, ansiosa. Lui le rivolse un lungo sguardo che lei ricambiò scuotendo il capo – ho capito. Intanto ti faccio un tè verde, non si sa mai … - lui abbassò gli occhi e rise appena. Jackie si fece largo tra i fornelli iniziando mettere su il bollitore, miracolosamente rintracciato già sul piano di lavoro della cucina.
-          Jackie…
-          Sì, John?
-          Credo di volerti bene – le disse piano. Lei annuì e lo guardò.
-          Potrei anche crederti – le sorrise come sorrideva ogni volta che non aveva altro da aggiungere. Lo vide quindi riprendere a mangiare quel che c’era nella pentola e sebbene l’espressione del suo viso sembrasse quasi divertita dalla ripugnanza per il suo comportamento e dagli sguardi inorriditi e di disapprovazione che gli lanciava la servitù, Jackie, che lo conosceva, pensò che i suoi occhi erano inquieti e di una tristezza infinita.
Da una stanza vicina sentirono qualcuno dire che stava nevicando. Jackie sbirciò fuori dalla finestra un momento. I fiocchi sembravano piume di cuscino ma erano pochi e cadevano lenti.
John continuava a mangiare apparentemente indifferente.
 
Sylvia guardò la neve cadere e fece una smorfia di fastidio. Non lo faceva da qualche giorno e proprio quel pomeriggio aveva appuntamento a casa di un’amica, Avrebbe certo trovato più traffico in città. Ma almeno quella stramba di sua figlia aveva riportato in tempo la macchina, questa volta. Viste le contenute dimensioni, avrebbe parcheggiato più facilmente in centro. In realtà più di una volta le era parsa troppo piccola e con gli stessi soldi avrebbe potuto comprare quella per cui Donna aveva tanto insistito, un’auto in offerta speciale al concessionario, ma era di un blu improponibile davvero ed anche se il suo valore era superiore, quel colore la rendeva decisamente poco appetibile quindi aveva preferito comprare l’auto bianca e più piccola per lo stesso prezzo. Certo Donna aveva dovuto contribuire.
Se si trattava di dividere casa e mezzi, anche tutte le spese andavano divise ed ora che era, per l’ennesima volta, rimasta senza lavoro erano punto e a capo. L’avrebbe spronata a cercare subito qualcosa, la qualunque, senza quelle stupide pretese che avanzava. Tristemente, per un attimo, il suo pensiero andò al padre. Le mancava ma certo non le sue stranezze che spesso la facevano innervosire.  
-          L’unica eredità che mi hai lasciato è stata una figlia stramba come te, papà – mormorò. E bevve l’ultimo sorso del suo tè, già troppo freddo.
Si chiese che stesse facendo Donna.
Era tornata a casa più scossa di quanto non immaginasse, dopo l’ultimo licenziamento. Le aveva chiesto se sapeva il motivo o semplicemente la commessa fosse tornata al suo posto. Le aveva risposto molto vagamente. E questo nonostante le sue insistenze. Qualcosa doveva essere successo e doveva sapere cosa. Vista la scarsa intelligenza di sua figlia era proprio il caso che stesse attenta a non farla cadere vittima di qualche strana idea. Poggiò la tazza sul tavolino e con passo risoluto entrò in camera di Donna.
Rimase sulla soglia con l’aria infastidita vedendo che il letto ed anche ogni maniglia di porta, finestra e armadio, era ingombra di grucce e vestiti.
-          Non sembra che tu stia facendo le valigie per uno dei tuoi assurdi viaggi alla ricerca di te stessa – disse e Donna, che frugava in un cassetto, sollevò lo sguardo verso la madre – che cosa stai cercando? Qualche risparmio messo da parte in qualche posto strano? Tuo nonno aveva quest’abitudine, di lasciare soldi nei vestiti. Pessima abitudine davvero.
-          Non sto cercando soldi, mamma.
-          Peccato, ce ne servirebbero. Visto poi che hai avuto il buon senso di restare disoccupata proprio in questo momento…
-          È un momento come un altro, come tutti gli altri – disse continuando a rovistare nel cassetto e gettando altre cose sul letto.
-          Donna, non sembri prendere seriamente la cosa. E poi, dimmi che stai facendo! – Donna guardò la madre esasperata.
-          Senti, sto cercando un vestito, un particolare vestito. E non lo trovo.
-          Un vestito di che tipo?
-          Elegante!
-          E che te ne fai, tu, di un vestito elegante? Hai in programma qualcosa che non so?
-          Può darsi – mormorò e Sylvia strinse le labbra innervosita.
-          Sarebbe?
-          Sono stata invitata ad una festa – Donna la guardò con aria di sfida incrociando le braccia e gustandosi l’espressione stupita della madre.
-          Vista la situazione, ti sembra il caso di buttare soldi in qualche pub con le tue amiche?
-          Non intendevo questo!
-          Non puoi certo avere in programma qualcosa di più elegante…
-          E invece sì – sorrise Donna. Sylvia si irrigidì. L’aria soddisfatta di Donna non le piaceva per niente. Improvvisamente le venne in mente un'altra opzione e i suoi occhi si assottigliarono.
-          Ci vai con un uomo? – la vide sorridere e sorridere stranamente. Le bastò – ci vai… con un uomo!
-          Se anche fosse?
-          Chi è? Uno che ti ha presentato qualcuna delle tue conoscenze altolocate?
-          Perché, non posso averlo incontrato in altro modo, secondo te? – ringhiò Donna.
-          In altro modo... E quando? E soprattutto chi mai potresti incontrare, visto gli ambienti che frequenti? Mi chiedo stavolta con che razza di tipo d’uomo te ne uscirai. Cos’è il solito disoccupato dallo stile di vita alternativo? Un filosofo del nulla? Uno incontrato all’ufficio collocamento?
-          Niente di tutto questo.
-          E cosa allora, un medico? – Donna sorrise.
-          È un dottore.
-          Ah. Un… dottore in cosa?
-          Lavora al Torchwood – Sylvia la guardò stupita accigliando la fronte.
-          È un uomo sposato, vero? – Donna ebbe un attimo di indecisione, subito colto dalla madre che non capì  – complimenti davvero, Donna! Esci con un uomo sposato…!
-          Non è sposato – precisò lei – e comunque sei fuoristrada.
-          Ma davvero? – mise le mani sui fianchi con un sorrisetto – e dimmi, secondo te, un uomo che ti invita ad una festa per la quale stai disperatamente cercando un vestito che ti faccia apparire migliore di quello che sei… che cosa vuole in cambio?
-          Niente… mi ha solo invitata e…
-          Sei ingenua o troppo stupida? – Donna la fulminò con uno sguardo.
-          Ma ti sembra periodo buono per una tresca?  - Sylvia la guardò con disappunto – senti, mamma, gli uomini con l’amante, proprio di questi tempi, li trovi ben appiccicati a mogli e figli! – aveva ragione Donna. E la cosa le diede ancora più fastidio – in ogni caso, lui si chiama John Smith e l’ho incontrato al negozio. E’…una persona particolare.
-          In che senso? – incalzò.
-          Un uomo attraente e molto gentile – la voce di Donna diventò dolce. Sylvia la guardò stravolta. L’espressione della figlia non prometteva niente di buono.
-          E’ un… vecchio? – chiese con disprezzo. La vide perplessa – tu esci…?
-          No, mamma. Lui è giovane…
-          E perché lo dici a quel modo? – lei fece spallucce distogliendo lo sguardo da quello della madre. Neanche comprendeva il perché avesse difficoltà a definirlo tale - da quanto vi conoscete? – Donna cercò rapidamente qualcosa da dire con tono sicuro, qualcosa che facesse sembrare la faccenda meno assurda e che tranquillizzasse Sylvia.
-          Da qualche tempo – il tono indeciso non giovò alle parole più vaghe che potesse pronunciare. Un invito per un affondo.
-          Da qualche tempo – ripeté Sylvia con un sorriso perfido.
-          Da non molto ma abbastanza perché possa dirti che è una persona davvero… speciale.
-          Ah, fatico a crederci.
-          E perché mai?
-          Perché tu non lo sei affatto! – Donna si scosse. Le parole di sua madre erano sempre le stesse ma si sentiva ferita lo stesso. Lei era capace di farle male come nessuno e non aveva pietà di lei, mai.
-          Sei molto crudele…
-          E tu sei una delusione – le rispose asciutta – ti sei impegnata poco negli studi, hai sprecato le tue possibilità, hai buttato anni a sognare di poter fare qualcosa che non eri in grado di fare. Cara mia, hai davvero poche speranze di trovare qualcuno che ti voglia! Ma guardati…!
-          Che cosa c’è che non va in me? – Sylvia la guardò acidamente.
-          Non hai davvero niente di eccezionale. Prendine atto. Chissà cosa vuole da te questo tizio, chissà!
-          Non ti riguarda!
-          Certo che mi riguarda! Tu vivi sotto il mio tetto e fin quando sarai qui, a vivere come una ragazzina immatura, io ti tratterò da ragazzina immatura!
-          Non te lo permetterò, mamma – Sylvia ebbe un gesto di stizza e buttò all’aria quello che Donna aveva sul letto. Lei la guardò ostentando indifferenza ma già gli occhi le diventavano lucidi. Li rivolse ancora verso l’armadio aperto e la cassettiera in disordine. Sua madre fece per uscire ma si fermò sulla soglia.
-          Ah, Donna… stai per caso cercando… quel vestito blu, di raso, quello lungo? – Donna la fissò speranzosa – l’ho dato mesi fa a Gladys, sua figlia doveva partecipare ad una festa in maschera e più o meno ha la tua taglia – lei impallidì.
-          Ma era mio! Come ti sei permessa…?
-          Non mi sono permessa. Quando è stato ti ho chiesto se potevo darlo a lei e tu mi hai risposto solo di farmelo pagare qualcosa. Beh, l’ho fatto. E tu hai speso quei soldi! – Sylvia la guardò un momento e poi con un sospiro infastidito uscì dalla stanza lasciando la porta aperta.
Donna abbassò lo sguardo. Mesi fa, era vero.
Mesi fa dell’ennesimo anno di vita trascorso nel nulla. Certo non avrebbe mai creduto nemmeno una settimana prima che quel vestito le sarebbe potuto servire. Fu presa da un momento di sconforto; ma solo un momento. Ora diventava una sfida, doveva trovare qualcosa da mettere. Immediatamente.
-          Ok, Donna! Sarai come Cenerentola – si disse a voce bassa. Ripensò a lui, a come l’aveva abbracciata a quel che le aveva detto e sorrise – ci vuole altro per fermare Donna Noble – pensò.
Prese dalla borsa il telefono e compose rapidamente un numero.
 
Passeggiava in giardino tra la neve, lo sguardo assorto verso il cielo, il viale e le altre case. Era inquieto e si vedeva. Più inquieto di quanto non fosse normalmente. Fece un lungo respiro come per prendere la rincorsa e quindi si decise ad avvicinarsi. John rivolse subito lo sguardo verso di lui e si fece raggiungere.
-          Si gela – disse Pete sfregandosi le mani. Le mani di John erano sprofondate nelle tasche del suo cappotto, lui lo fissava in silenzio – non so se ti convenga… restare qui fuori, non dopo quel che hai passato questi giorni.
-          Il freddo dà un certo sollievo – la voce di John era più fredda della neve attorno. Pete abbassò il capo, si sentiva a disagio. Lo sguardo di John era fiero e sofferente. Quegli occhi puntati addosso sembravano bruciare.
-          Senti, John… - mormorò.
-          Oggi ho fatto una colazione davvero abbondante! – Pete rimase smarrito dal tono imprevisto che aveva usato, svagato e scherzoso. Aveva sorriso. Non i suoi occhi.
-          Perché hai mangiato a quel modo, stamattina?
-          Oh, dicono che si mangi molto anche per noia – mormorò.
-          Ma a quel modo…!
-          Beh…In effetti ha un senso, nonostante tutto. Vedi, l’unico sapore che sento sopra ogni cosa è l’acido e l’acido mi aiuta a sopportare il resto. Ho quindi cercato di capire i gusti che tollero e con le banane ho decisamente sbagliato, purtroppo…  – scosse il capo facendo un’espressione disgustata  – poi… ho solo unito un po’ di cose assieme, qualcosa di sostanzioso. E’ stato… disgustoso ma divertente.
-          Sembrava ci stessi prendendo in giro… - disse Pete piegando appena le labbra.
-          Non è il peggio che abbia mangiato, credimi.
-          Se ti riferisci alla cucina di Jackie, non posso che darti ragione.
-          Gli odori, Pete. Gli odori a volte dicono molto di quel che c’è in pentola. Anche gli odori della spazzatura – Pete gli rivolse uno sguardo lungo ma indeciso. Gli occhi di John erano severissimi.
-          John, a cosa ti stai riferendo? – un lungo silenzio tra loro.
Attorno i rumori delle case vicine avvolte da un velo di neve già grigiastra sui bordi delle strade. Pete rivolse attorno gli occhi non riuscendo a reggere quelli di John. Fermi, scintillanti.
-          Il materiale isolante, Pete. Dimmi del materiale isolante – lo guardò sconcertato.
-          Di cosa stai parlando?
-          Di quei rotoli di spugna psichica che si usano per sigillare le prigioni e le camere di tortura – la luce nei suoi occhi gli fece paura. Un lungo brivido percorse la schiena di Pete anche se cercava di ostentare sicurezza.
-          Io… non ne so niente…
-          Quanto non ne sai niente?
-          John… davvero, non capisco a cosa ti stia riferendo! – John fece un gesto di stizza e sgranò gli occhi stringendo i denti.
-          Tu non sei uno stupido, Pete. Non puoi ignorare cosa succede, non puoi!
-          Non so cosa tu ti stia riferendo. Davvero. Te lo giuro! – Pete lo disse sicuro. Sicuro perché davvero non lo sapeva, non sapeva a cosa si riferisse. John lo guardò poco convinto. Fece un sospiro, si chinò a terra e prese un po’ di neve indurita nella mano, stringendola, immergendo le dita nel ghiaccio che era diventata. Poi lo guardò nuovamente mentre la sbriciolava lentamente.
-          Non la sento – mormorò - non sento freddo, non sento dolore, non sento piacere. Non sento niente. Tu… sei nelle stesse condizioni, Pete. Cosa ti hanno fatto? – Pete abbassò nuovamente lo sguardo e John  sollevò invece gli occhi al cielo, occhi umidi – va bene…  – disse in un triste sussurro – ora… dammi… quattro ore. Quattro ore e avrò assimilato qualcosa. Poi potrai fare quel che devi – Pete trattenne il fiato fumoso guardandolo. Poi annuì con le labbra strette.
-          John…
-          Fai quello che devi – ripeté risoluto con gli occhi così lucidi che quasi  Pete ebbe l’impressione di potervisi specchiare. E Sapeva già che quel che vi avrebbe visto non gli sarebbe piaciuto.
-          Spero che il Tardis possa aprirsi al più presto – mormorò con un filo di voce. John sorrise tristemente.
-          Lo spero anch’io  – gli rispose. Pulì la mano bagnata d’acqua sul cappotto con noncuranza e dopo aver incrociato silenziosamente gli occhi di Pete ancora una volta, si girò verso il viale e fece per tornare in casa. Pete rimase qualche minuto lì, da solo. Immobile ma purtroppo non indifferente. Invidiò l’albero del giardino che aveva davanti. I rami tesi, spogli, gocciolavano e sembrava piangesse.
Ma diversamente da lui era un silenzioso testimone del cielo.
Senza alcuna colpa.

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Capitolo 18
*** Meravigliosa ma già esistente ***


Rose cercava di sorridere ma quel che la circondava la riempiva di amara tristezza perché aveva il senso di una fine ed ancora nessuno lo sapeva. I preparativi della festa, la casa piena di gente che sistemava le decorazioni floreali, altri che mettevano luci in giro; sua madre che stava letteralmente impazzendo per la confusione e Pete che per una volta sembrava così allegro, le ricordavano che quella forse sarebbe stata l’ultima volta che erano tutti insieme. Eppure non aveva preso neanche in considerazione per un attimo l’eventualità di non partire con lui. Non avrebbe mai potuto.
Si ripeté per l’ennesima volta che Jackie avrebbe capito. E così Pete.
Sarebbe stata con lui per sempre, glielo aveva detto molto tempo prima. Era più vero di allora. Non poteva essere diversamente. Il pensiero però le pesava addosso perché se non fossero potuti tornare indietro, avrebbe avuto per sempre parte del suo cuore, per l’ennesima volta, oltre un muro invalicabile.
Ma stavolta non sarebbe morta.
Rose prese in mano la lista che gli era stata data da sua madre ed iniziò a guardare che c’era da fare. A partire dalla cucina. Alzando gli occhi verso la porta della stanza, vide John. La guardava assorto, i grandi occhi fissi su di lei come molte altre volte; eppure ogni volta incrociarli era come la prima volta per lei. Aveva in braccio Liz che finalmente sembrava tranquilla.
Lei gli sorrise luminosa e lui la ricambiò allo stesso modo.
Non fece caso al fatto che più di qualcuno si era distratto per guardarli.
 
La donna bionda e bella era molto sciupata e questo lo notò più di qualcuno. Pete Tyler la intravide ma non poté avvicinarsi a lei, anche se avrebbe voluto. Sicuramente era venuta per John ma il congegno era in laboratorio, così gli era stato confermato. Non aveva compreso che la natura dell’interesse di lei per John fosse di un certo tipo fin quando lui non aveva avuto quel malessere in laboratorio. Gli occhi di lei, i suoi gesti, l’avevano tradita. Ormai era più che mai evidente che Catherine Lane fosse anche troppo legata a John. Era lì per lui, a prescindere dal lavoro.  Poteva essere un problema ma non sapeva fino a che punto visto che il ruolo di Catherine era parziale nella cosa, come il suo.
Quel che John gli aveva chiesto infatti, lo aveva profondamente turbato. Non sapeva di prigioni e camere di tortura.  Il Torchwood era un mistero anche per chi vi lavorava e di fatto si era tenuti al corrente della piccola parte che riguardava i propri compiti. Le incongruenze, le stranezze, erano davvero insopportabili a volte ma si potevano quasi ignorare evitando di farsi troppe domande. Pete, per un certo periodo, lo aveva fatto; ma non era più così sicuro di riuscirci. Avrebbe voluto parlare a Catherine, anche solo per un confronto, ma non era il momento giusto, visto che Jackie stava avendo l’ennesima crisi organizzativa e ora toccava a lui badare un po' alla bambina.
Liz continuava a piangere disperatamente. Solo con John era rimasta quieta, poi aveva ripreso a lamentarsi.
-          Lo ami anche tu?  – gli sussurrò esasperato – pare davvero, da come strilli se non sta con te! – in braccio a lui invece non stava calma. Pete era indispettito dalla cosa oltremodo.
Liz continuava ad urlare, senza sosta. Jackie si avvicinò a lui scuotendo il capo e con gli occhi sgranati dalla stanchezza.
-          Speriamo si calmi, non so che fare! – gemette porgendogli il ciuccio rosa.
La bambina, appena l’ebbe in bocca, lo sputò a terra. Jackie e Pete si guardarono con esausta rassegnazione.
 
Catherine conosceva la casa, vi era stata ospite varie volte e quindi fu anche salutata da qualcuno della servitù che si ricordava di lei. Ricambiò velocemente chi la riconosceva e con passo svelto, avvolta in un lungo cappotto nero e con la borsa scura stretta quasi al petto, si diresse sicura verso lo studio, che dava sul giardino. Era in ansia. Un’ansia che aveva un doppio fondo. Il suo cuore aveva accelerato, vedendo la portafinestra della stanza. In ogni caso sarebbe passata da lì e poi in salotto, visto che sulla porta d’ingresso principale si accalcava troppa gente.
Sperò di trovarlo meglio, di trovarlo in piedi. Sperò che quel che aveva fatto fosse giusto e che gli servisse.
Quando entrò lo vide. Su una poltrona, con gli occhi chiusi. Esitò un attimo che le parve lunghissimo.
Sembrava addormentato ma non lo era. Le lunghe dita delle sue mani tormentavano i braccioli tamburellando e lui sembrava concentrato in qualcosa di complicato, qualcosa di fastidioso. Le parve in quel momento un ragazzino, molto più giovane. Smise di sembrarle tale quando spalancò i suoi occhi scuri e profondi su di lei.
Per l’ennesima volta Catherine ebbe un brivido davanti a quell’abisso di tempo e al piegarsi della sua volontà davanti a lui. Se avesse voluto qualunque cosa da lei, lei avrebbe detto “sì”. E questo le faceva paura.
John si alzò subito e le venne incontro, mentre timidamente Catherine restava con la mano stretta alla maniglia della portafinestra.
-          Catherine…  – la tensione o il colore che nella sua mente aveva assunto quella voce, le fecero pizzicare gli occhi come fosse per la rincorsa del pianto. Si sforzò di controllarsi e si avvicinò a lui, che restava immobile quasi al centro della stanza.
-          John, ciao…
-          Ciao – le sorrise e lei abbassò lo sguardo d’istinto.
-          Stai meglio, vedo – lui annuì.
-          E tu, come stai?
-          Bene, John – lo disse esitante. Con un lungo sospiro nervoso, Catherine aprì la borsa scura e preso dentro l’oggetto glielo porse, ansiosa. Lui lo guardò e guardò lei stupito, poi lo prese tra le mani delicatamente iniziando ad esaminarlo – io… spero di non aver fatto errori e di non averlo rovinato…
-          È assolutamente perfetto – mormorò lui e la guardò davvero impressionato – sei riuscita a…
-          I tuoi appunti e quel che mi avevi detto. Ho trovato una logica e tutto si è come… incastrato alla perfezione. Avevo i dati e ho fatto dei calcoli. Io spero siano giusti – John mise il cilindro controluce e annuì, poi sorrise e sorrise anche Catherine.
-          Tu sei eccezionale! Sono sinceramente ammirato…
-          Tu? – rise piano Catherine.
-          Sì, io – disse in tono fermo – sei un genio.
-          Non credo sia stata l’intelligenza a guidarmi – Catherine lo guardò e i suoi occhi erano chiari come il cielo fuori dalla finestra ma lucidi – tu sapevi che avrei provato a finirlo ad ogni costo, per te – mormorò e lui la guardò con comprensione.
-          Catherine…
-          Lo so… non dirlo. Lo so – alzò appena una mano verso di lui. Ma tremava perché non lo voleva lontano.  Nei suoi occhi lei vide il dolore profondo, per il suo. Sapeva, quel vecchio gentile, che ciò che provava non era un capriccio o un sentimento superficiale. Aveva perfettamente compreso e soffriva sinceramente per lei. E questo aumentava il suo dolore perché lui era incapace anche di quell’odiosa indifferenza che gli uomini potevano avere verso una donna che non ricambiavano – adesso… assemblerai tutto qui? – disse con un filo di voce senza guardarlo. Lui continuava a fissarla immobile – John…
-          Sì. Ho finito il resto. Manca solo una cosa ma è fondamentale.
-          Che cosa?
-          Qualcosa che già esiste. Meravigliosamente perfetta  – la voce di lui ebbe un accento dolce ma allo stesso tempo terribilmente malinconico.
-          Sai già cosa fare, quindi? – lui annuì – io posso…?
-          Devo farlo da solo. A questo punto dipende da me.
-          Va bene – disse in un sussurro.
Catherine lo seguì con lo sguardo mentre poggiava il congegno sul tavolino vicino alla poltrona. Si accorse di un suo momento di indecisione e vide che si era appena sostenuto alla spalliera facendo un lungo respiro. Andò verso di lui per sostenerlo ma John si era già messo dritto.
-          Ti gira la testa…? - lui annuì.
-          Una cosa da poco, è già passato  – d’istinto Catherine tese una mano verso il suo viso e lo accarezzò.
John percepì limpidamente la tenerezza che quella donna provava verso di lui e persino il timore di toccarlo ma si chiese perché il suo cuore stesse accelerando. Quando la mano di lei scese sulla sua spalla e il braccio, appena fu sul dorso della sua, John le strinse piano le dita. Lei schiuse le labbra per la sorpresa ma nel momento dell’incanto, vicina a lui come non era mai stata, poggiò il suo corpo contro il suo. Una vampata di calore la attraversò, come avesse potuto toccare la sua pelle oltre tutto quello che li divideva. Lui restava immobile, la guardava come da una distanza infinita ma con dolcezza.
Fece per allontanarsi da lui ma John la prese tra le braccia e la strinse forte. Catherine poggiò il capo sul suo petto e non riuscì più a trattenere le lacrime. Ma le sembrava di piangere sulle fiamme perché lui era quello, per lei. Sentì la sua mano accarezzarle con delicatezza la schiena e per un momento le parve di potersi abbandonare, ma sapeva che non era vero.
Non vide che John l’aveva come ascoltata e poi chiuso gli occhi con forza, spaventato; come davanti ad un abisso.
Con un lungo respiro per farsi coraggio Catherine si sciolse dal suo abbraccio e guardandolo vide l’angoscia di lui, forse davanti alle lacrime che lei non riusciva più a trattenere.
-          Oh, mi dispiace… mi dispiace, Catherine…  – mormorò lui con gli occhi umidi. Lei scosse il capo e in un impeto di coraggio si sollevò verso il suo viso e sfiorò dolcemente le sue labbra con le sue.
Non fu un bacio ma più simile ad una carezza.
La sentì tremare e tremò anche lui. La guardò smarrito e addolorato insieme.
Catherine gli rivolse un sorriso sofferto.
Si allontanò guardandolo un ultima volta ma senza dire altro. Poi si voltò e uscì da dove era entrata.
John si avvicinò alla portafinestra e la vide attraversare il viale a testa bassa, stringendosi il cappotto scuro sul petto per darsi un minimo di conforto. Si era alzato un po’ di vento che le aveva scompigliato i capelli biondi, come quella volta…
… su quella spiaggia in Norvegia?...
Non era lei. Non lo era.
Eppure aveva il profumo di lei addosso, lo sentiva chiaramente.
Un profumo dolce, delicato, sottile. Inconfondibile. Un profumo che non poteva essere di due persone ed invece lo era.
Aveva reagito a lei d’istinto. Non del tutto e fino ad un certo punto ma il suo corpo l’aveva riconosciuta subito e sulle sue labbra era parsa lei…
…Rose. La sua Rose.
Avesse chiuso gli occhi l’avrebbe baciata. L’incongruenza di tutto era dilaniante.
Qualcosa di terribile, una cosa davvero spaventosa. Sapeva cosa significava.
Quel che avevano fatto, che stavano facendo, trascendeva i suoi peggiori sospetti ed ancora non sapeva fino a che punto si fossero spinti. Il Torchwood nascondeva delle mostruosità, ora ne era certo.
Lei non sarebbe dovuta riuscire a montare del tutto quel congegno. Le aveva chiesto di tenerlo e portarglielo, non di montarlo.
Avrebbe potuto capire fino ad un certo punto ed invece aveva completato tutto in un giorno appena.  Catherine era geniale ma quello era davvero troppo per una mente umana.
Non avrebbe voluto ingannarla ma aveva dovuto.
Chinandosi per poggiare l’oggetto sul tavolo, non gli era girata la testa ma sapeva che un attimo di debolezza l’avrebbe fatta avvicinare di più. Voleva sincerarsi del suo tremendo sospetto ma per farlo doveva poterla toccare senza farle male.  
Sentire la sua dolcezza era stato penoso per il suo cuore. L’aveva scosso profondamente.
Non avrebbe mai creduto che potessero arrivare a tanto pur di raggiungere i loro scopi.
-          Era la sua vita… – sussurrò con tristezza e rabbia insieme – la vita di una persona!  - si trattenne dall’urlare, dallo scaraventare qualcosa a terra per avere il sollievo di un brevissimo attimo ma era inutile. L’ira aveva già passato quella soglia ed ora bruciava in lui come fiamma silenziosa, fredda.
Umano non si sentiva debole;  non era più debole. Si sbagliava chi lo credeva.
Nei suoi occhi vi era un’immensa collera. Stava per abbattersi su di loro. 
Era la tempesta imminente.

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Capitolo 19
*** Menti e menzogne (I) ***


Rose aveva cercato di aiutare per i preparativi della festa ed ormai era tutto pronto.  
Pete aveva invitato molti membri del Torchwood e purtroppo a casa ci sarebbe stata molta gente. Avrebbe voluto qualcosa di più intimo, vista anche la situazione, ma purtroppo i ricevimenti a casa di Pete si trasformavano spesso in riunioni di lavoro e occasioni di pubbliche relazioni. Rose sapeva che per il Torchwood era molto importante. Per questo non si era meravigliata del fatto che nella lista degli invitati comparisse quel nome che le faceva venire i brividi. Suo padre non poteva permettersi di non averlo come ospite, visto che si trattava di un rappresentante del Governo e la struttura dipendeva in certa misura da esso. Eppure la cosa le sembrava sbagliata. Come sbagliata l’idea di utilizzare il Tardis per scopi diversi da quelli per cui era stato allevato. Ma il Torchwood ignorava quanto fosse diverso da una semplice macchina e quanto dipendesse dal signore del Tempo con cui accettava di viaggiare. Su certe cose John era sempre stato evasivo con tutti e Rose aveva compreso il motivo solo tardi.
-          Sta per aprirsi – ripeté a mente le parole di John.
Il Tardis stava per arrivare a prenderlo. A prenderli entrambi.
Più si avvicinava il momento più l’angoscia e il senso di colpa aumentavano. Non poteva essere altrimenti ma per qualche ora era riuscita a mettere da parte quel pensiero per poi iniziare a concentrarsi su qualcosa che l’aveva fatta agitare ancora una volta: Catherine Lane.  Perché la innervosiva tanto? Perché la tristezza e la paura aumentavano, quando pensava a lei? Si chiese se sapesse qualcosa in più, se davvero fosse a parte del marcio che si nascondeva dentro il Torchwood.
Ormai era pomeriggio inoltrato e Rose si era decisa ad andare da John per vedere cosa stesse facendo. Si era chiuso in camera loro. Sapeva che doveva finire quel lavoro e quindi non si era meravigliata di non vederlo uscire da lì per ore. Si chiese a che punto fosse, ormai.
Bussò e poi aprì, senza aspettare risposta, come faceva sempre.
Non c’era.
Stupita e inquietata, fece le scale correndo e lo cercò nello studio e in tutte le stanze al piano di sotto.
Jackie e Pete erano ancora impegnati e badarono a lei relativamente. Incrociò lo sguardo di suo padre ma non gli chiese dove fosse John, l’istinto le diceva che non sarebbe stato il caso. Era tornato ai laboratori, lo sentiva.
E non l’aveva voluta portare con sé. Non poteva più chiuderla dentro il Tardis ma dentro la sua casa sarebbe stata al sicuro. Rose si fermò tremante vicino alla finestra guardando il cielo del tramonto. Aveva fatto in modo che non potesse raggiungerlo, per l’ennesima volta.
E per l’ennesima volta non poteva fare altro che aspettarlo.
 
L’oscurità calava sulla città come un manto spesso e solo le luci delle feste sembravano tenere fuori dalle finestre e le porte delle case i sospiri dolorosi degli spettri dell’inverno. Il freddo bussava sui vetri ed ogni legno scricchiolava come qualcuno che vi camminasse sopra, indeciso.
Natale. A metà, prima della luce. A metà nel buio.
Proprio come lui. Si era diretto verso quello che pareva un vicolo cieco e lurido, quello che aveva già percorso. Il passo lento, elegante ma sicuro. L’odore nauseante impregnava le pareti della strada come nessuno poteva sentire, tranne lui. L’indifferenza attorno ne era una prova. 
Non aveva lasciato indifferente invece il suo passaggio per la strada. Più di qualcuno aveva guardato passare quell’uomo giovane che sembrava una lama di vento. Sebbene i lineamenti del suo viso fossero belli a più di qualcuno aveva fatto anche più paura, per questo.
Nessuno lo aveva fissato negli occhi.
Stringeva tra le dita qualcosa che brillava di una luce freddissima, irrealmente blu. Non era un’arma ma sembrava tale in quel momento.
La luce stava abbandonando il cielo ma dentro John Smith era calata la notte prima che nel mondo. Solo una parola, un nome, tratteneva quell’angelo nero dall’abbattersi su di loro con tutta la sua forza.
Rose.
Nella sua testa, nel suo cuore, lo ripeteva all’infinito.
Rose.
Le sue mani, la sua pelle, le sue labbra. Il suo respiro dolce tra le sue braccia.
Lei che lo accoglieva dentro di sé, nel calore più intimo e profondo del suo corpo, che era capace di mettersi tra lui e l’abisso e trattenerlo dal precipitarvi dentro e trascinare con sé tutto il resto, come aveva già fatto prima che lei esistesse.
Lei, gentile, capace d’amore incondizionato, che aveva dita che stringevano le sue con la tenerezza di una bambina; le stesse mani che facevano di lui un uomo appassionato perché lei era parte della sua anima da molto tempo ma ora anche della sua carne e la sentiva addosso anche se non c’era. Lei, capace di eccitarlo e placarlo con uno sguardo. Molto più forte di quanto credeva di essere e per questo anche più di lui, fino ad un certo punto.
Umana, meravigliosa.
In questo senso, come lei, doveva essere "umano". Ricordare di esserlo, in quel momento.
Ma in fondo non lo era. Non del tutto.
 
Rifece la strada a ritroso, la ricordava alla perfezione. La fece velocemente, muovendosi con prudenza ma con meno timore perché da solo.
Rose.
La sentiva vicina, anche se era altrove e al sicuro, la sentiva vicina perché ne aveva bisogno e sentiva la sua mano sul suo cuore, come per tranquillizzarlo e ricordargli insieme chi era. Sentiva la sua mano stretta nella sua perché lei non l’avrebbe mai lasciato. Non lo lasciava mai.
Dentro gli era esploso l’inferno, quel che aveva portato il Dottore a definirlo pericoloso.
Lo era. Senza di lei lo era più di quanto non lo fosse mai stato prima, ma Rose l’amava e questo lo salvava da sé stesso. E poi salvava gli altri.
Notò che stava meglio. L’aver diluito il farmaco gli aveva fatto recuperare una certa sensibilità ma purtroppo anche quella al freddo. C’era un freddo terribile.
Quando giunse al piano medico si guardò attorno accendendo il dispositivo che confondeva le telecamere. Di fatto i suoi segni vitali, sostanzialmente umani, erano più facili da occultare.
I corridoi erano illuminati poco e tutto aveva un’aria viscida e sinistra.
Era leggermente disorientato, una nuova sensazione che trovava interessante e inquietante insieme. Sentiva qualcosa ma non riusciva a capire esattamente cosa e quel gelo si stava facendo più forte. 
Il suo corpo ad un tratto si tese d’istinto, come non gli era mai accaduto.
Pensò che era la prima volta che percepiva delle sensazioni simili, così intense, ed era diverso da come ricordava. Più profondo. La cosa lo stupì perché avrebbe creduto il contrario, per un umano.
Con prudenza mise una mano sulla parete vicina, quella dalla quale sentiva provenire l’impressione più forte. Chiuse piano gli occhi. Una vibrazione, una vibrazione profondissima. Non era come quella del sogno ma somigliava a quella del sogno come una nota vicina a quella giusta.
Si accorse che la sua pelle si era increspata e il suo cuore aveva accelerato.
Seguì per un tratto di corridoio quella sensazione strana, poi qualcosa lo colpì dentro all’improvviso e si lasciò sfuggire un gemito di dolore staccando la mano dal muro con gli occhi spalancati.
Urla. Urla terribili.
Ma qualcosa non tornava, non capiva.
Sembravano aver impregnato i muri come all’esterno sentiva gli odori farlo con i mattoni dei vicoli ma non sarebbe stato possibile neanche per creature mentalmente superiori. Era altro che non comprendeva.
Sentì dei rumori sul fondo del corridoio, stava arrivando gente. Un gruppo di almeno tre persone, a giudicare dai passi. Cercò la prima porta vicina e con il cacciavite la aprì velocemente per infilarsi nella stanza buia e socchiudere abbastanza da guardare chi passava.
Quattro uomini in camici bianchi spingevano un carrello sul quale era adagiato un contenitore giallo, uno di quelli che gli era capitato di notare varie volte per i corridoi, quando si recava nel reparto medico. Vide che appariva parzialmente ricoperto da qualcosa e comprese subito di che si trattava: il materiale isolante.
Il respiro di John si fece più veloce, sentì un profondo dolore al petto così forte che d’istinto si portò la mano al cuore perché sembrava voler scoppiare. Poi, come qualcosa di tagliente nella carne, sentì limpidamente quella cosa e i suoi occhi si aprirono sconvolti, le sue orecchie fischiarono quasi e cadde in ginocchio dietro quella porta. Di colpo, come dal nulla, la sua testa si riempì di voci, gemiti, la percezione chiarissima, fisica, di un dolore furioso, incredulo.
Qualcuno chiedeva pietà e anche se non capiva le parole, sentiva il loro senso chiaramente dentro e gli faceva male fisicamente per quanto era intenso il dolore di altri. Il materiale riusciva ad isolare il campo psichico ma parzialmente, non abbastanza per lui.
Ma quello che sentiva addosso era proprio sofferenza fisica e non gli era mai accaduto. Sembrava un’esperienza empatica superiore e si chiedeva come fosse possibile, visto che ormai era in parte umano.
La sua mano strinse il cacciavite più forte ma vide sconvolto che tremava come non aveva mai visto, come i suoi muscoli non potessero fare altro che scuotersi dolorosamente contro la sua volontà. Dovette fermarla con l’altra, ripiegandosi su sé stesso. Strinse i denti ascoltando parole che non capiva mescolate a gemiti di moribondi. Poi le urla orribili si allontanarono per il corridoio, si allontanarono senza eco. Chiuse in quella scatola. Silenzio.
Oh, Rose…!
Disse il suo nome in un sussurro sfinito. Le chiese quasi aiuto perché era stato terribile.
Mise una mano sulla parete e si tirò su con sforzo e gli occhi umidi di pianto.
Solo centinaia di anni prima aveva ascoltato qualcosa di simile. Ed era più giovane, era diverso. E non aveva un solo cuore purtroppo in sofferenza.  
Ora non poteva più chiedersi cosa ci fosse in quei contenitori, in quel contenitore che quegli uomini stavano portando via con indifferenza.
C’era qualcuno, là dentro. Qualcuno che stava morendo.
Rabbiosamente si guardò attorno nella penombra. La stanza in cui si era introdotto era un magazzino e vide alcuni rotoli accatastati sul fondo. Si avvicinò e li esaminò. La sua bocca si piegò in una smorfia di dolore e orrore insieme. Non si sbagliava. Materiale isolante. Prodotto dal Torchwood ma su modello alieno e si trattava di qualcosa di cui erano entrati in possesso in qualche modo che ignorava. E non solo lui.
-          Torturate e uccidete…  – sussurrò quasi a sé stesso.
Per cosa? Per esperimenti? Per estorcere informazioni, tecnologia? Come avevano catturato quegli alieni?
Si addossò al muro per un momento, chiudendo gli occhi.
Aveva chiuso Rose in un luogo orribile. Lo pensò come l’avesse fatto lui ed infatti era così.
Solo il fatto di averle lasciato sé stesso, sarebbe potuto bastarle?
Avrebbe potuto proteggerla da tutto questo?
Se l’umanità fosse stata davvero quella l’avrebbe lasciata al suo destino molto tempo prima. Ma non poteva essere vero, neanche in un luogo parallelo. Non poteva davvero credere che quell’esistenza fosse solo il negativo dell’universo che conosceva. Non era così, glielo diceva l’istinto. Ma si sentiva ferito, lacerato da quel che aveva percepito.
Come da quel che aveva sentito in Catherine Lane.
Altro dolore, altro terribile dolore inutile. Sentiva il buio calargli dentro, un buio mormorante, quasi come quello del sogno. Forse non esisteva altro lì e davvero lui e Rose camminavano su una sottile passerella luminosa sospesa nel nulla. Si sentiva molto più sconvolto di quanto avrebbe creduto ma all’improvviso qualcosa illuminò le tenebre del suo animo, come fosse un lampo di luce improvvisa.
Donna.
La Donna che aveva incontrato, che era come la Donna che aveva conosciuto. Un’altra ma sempre la stessa. Lei. Se era così allora doveva essere così sempre. Lo era, lo era per tutti e lo era per tutto. Si scosse.
C’era speranza allora, come da qualunque altra parte. C’era speranza!
Ma doveva trovare le prigioni nel Torchwood. Sapeva che non avrebbe trovato solo ostaggi ma peggio.
Si fece forza.
Nonostante il materiale isolante avrebbe sentito il dolore ed ebbe paura perché quel corpo in parte umano che ora era il suo, sentiva più intensamente le cose, in modo più pericoloso. Come in quel momento. In fondo a quei corridoi, scendendo ancora più giù, la vibrazione sorda diventava più forte e glielo dicevano le sue ossa. Il Dottore non aveva idea di quanto un essere umano potesse essere più sensibile in un certo senso. E anche in altri.
-          Se mai riusciremo ad incontrarci, dovrò spiegarti qualcosa in più sugli umani – sorrise amaramente.
Fece un lungo respiro, uscì con attenzione dalla stanza e velocemente si diresse dove l’istinto lo guidava. 

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Capitolo 20
*** Menti e menzogne (II) ***


 
Si chiese perché ci fosse così poca sorveglianza. La cosa lo innervosiva. Aveva però visto spesso delle cose abbastanza paradossali per convincersi che anche in quel mondo, durante quelle feste, potevano esserci stranezze e colpi di fortuna. A Natale aveva sempre avuto i migliori. Però era anche vero che qualunque disastro sembrava tendesse pericolosamente a ripetersi proprio durante quel periodo.
Si rendeva conto che era come ragionare sul niente, ma lo teneva più tranquillo.
Si era accorto che il suo nervosismo istintivo diventava più sopportabile nel momento in cui si applicava razionalmente sulla qualunque. Più la riflessione era complessa, più il senso di allarme diminuiva. Ma i muscoli tremavano.
Non era per il farmaco, stava bene. Era proprio quel qualcosa che sentiva dentro e al quale cercava di opporre resistenza mentale, visto che non riusciva a fare lo stesso fisicamente. A fatica riusciva a dominare quel qualcosa che somigliava terribilmente…
All’odio e alla paura insieme.
Tutto ne era impregnato. Non si trattava di quel che avveniva nel presente, non solo. Erano echi mentali così forti da aver inzuppato i muri di quell’edificio.
Con orrore pensò che quella torre di vetro, cemento e metallo stava urlando.
Sempre più forte. Prima o poi qualcuno avrebbe potuto sentirla ma…
Quella vibrazione, quel rumore continuo e sordo, sembrava coprire e inghiottire tutto.
Qualunque cosa producesse quel suono doveva essere enorme e trovarsi decisamente in basso, rispetto agli altri piani. Ma in quel momento John stava seguendo le grida, le grida presenti confuse e attutite, non quelle attaccate ai muri. Era riuscito a concentrarsi oltre i riverberi passati e ora poteva sentire qualcosa di indistinto. Ma vivo. Ancora combattivo, rabbioso anche se sofferente.
Trovò una scala laterale al piano, la percorse stando attento ai rumori ma impaziente di arrivare. Avrebbe corso ma non poteva o non sarebbe neanche riuscito a seguire quella traccia mentale che cercava di tenere stretta dentro di sé con difficoltà.
Conosceva la pianta dell’edificio ma fino ad un certo punto. Sapeva però che quei settori non risultavano esistere. Non si meravigliò della cosa. Che il Torchwood nascondesse interi piani era la prassi anche nell’altro universo.
I corridoi erano sempre più scuri e si sorprese a chiedersi perché il concetto di “sinistro” si accompagnasse umanamente all’oscurità in senso fisico. Forse aveva a che fare con il desiderio di non vedere del tutto, di vedere le cose sfumare in altro. In effetti non era fondamentale come considerazione, soprattutto in quel momento, ma si trattava di un altro pensiero che gli stava dando un po’ di sollievo, visto il crescente senso di disagio.
E il senso di disagio era certamente acuito da quella situazione assurda che si trascinava dalla prima rampa di scale. Era decisamente meglio smettere di ignorarla.
Si voltò dietro di sé, puntò il cacciavite e sonicizzò il vuoto apparente nel corridoio. Due scintille bluastre squarciarono l’ombra.
Sentì mescolarsi imprecazioni e ordini, tutti in una volta.
Davanti a lui si materializzarono cinque persone in tuta scura, elmetto e corazze. Erano armati di fucile.
Ne ebbe subito cinque puntati addosso.
John si mise dritto davanti a loro sollevano il capo e guardandoli dall’alto in basso con espressione più seccata che intimorita.
Quando uno di loro fece per avvicinarsi ulteriormente, John usò il cacciavite sul suo fucile e questo si bloccò di colpo e i comandi iniziarono a lampeggiare.
-          Ma cosa…?
-          Ti consiglio di buttarlo a terra… - disse con un sorrisetto quasi divertito. Il ragazzo non fece in tempo. Una dolorosa scossa glielo fece cadere dalle mani. Tenendosi dolorante quella che lo impugnava, gli rivolse uno sguardo stupito e rabbioso. Un altro guardava il fucile a distanza.
-          Che cosa hai fatto con quel coso?
-          È un cacciavite.
-          Cosa?
-          Un cacciavite. È molto utile e non fa male come una pistola. Avete qualche altro gingillo nascosto nei pantaloni? Ci  manca solo che mi rivolgiate contro un phon per capelli…  – aggiunse ironicamente.
-          Siamo ben equipaggiati.
-          Bah! – fece una smorfia poco convinta – vecchie coperture standard, fucili obsoleti…  – mormorò squadrandoli, quasi più interessato alla loro dotazione che alla loro presenza – pessimo. Davvero pessimo – disse quasi fra sé scuotendo il capo.
-          Cosa ne sai tu di armi?
-          Decisamente più di quel che vorrei. Ora togliamoci di qui o ci vedranno. Tutti – si guardò intorno poi puntò il cacciavite verso una porta di ferro più pesante che si aprì di scatto. Si diresse dentro la stanza e il gruppo dietro di lui.
Entrati dentro videro che si trattava di una sorta di lavanderia. Almeno sembrava quello, vista la grandissima quantità di camici e tute, appesi a vari ganci e avvolti in cellophane semitrasparente. John si guardò intorno impensierito. Il gruppo con lui addirittura disorientato.
Sembrava quasi che sulle loro teste fossero appesi dei corpi. Migliaia di corpi avvolti in sudari in plastica.
Una grande quantità di bidoni era accatastata vicino ad un macchinario.
Uno di loro fece per avvicinarsi.
-          Non farlo! – disse John – credo si tratti di quel che usano per le tute. E non si tratta di sapone – il ragazzo si ritrasse indeciso guardandolo diffidente.
-          Cosa sono? – chiese un altro.
-          Macchinari per la decontaminazione e distruzione delle coperture da laboratorio – mormorò turbato dalla grande quantità di materiale nella stanza. Era enorme e piena – alcune non sono recuperabili e non possono essere semplicemente buttate quindi le portano qui e le eliminano-  fu tentato di mettere la mano in uno dei secchi dove vedeva un mucchio di guanti viscidi e ricoperti di materiale maleodorante ma ricordò che ora poteva contaminarsi più facilmente.
Conosceva l’odore del sangue non umano, purtroppo. Ne era tutto impregnato. La sensazione di disagio era forte ma controllabile. Cercò un pensiero razionale che gli desse sollievo ma si accorse che istintivamente pensava invece a Rose. Sorrise appena.
-          Lakil! – John si voltò verso la voce che aveva avuto un tono preoccupato. Un componente del gruppo che lo aveva seguito aveva portato le mani alla testa con espressione sofferente. Una compagna gli si era avvicinata per sostenerlo ma lui l’aveva allontanata con un cenno.
-          Non è niente, è passato  – si era già messo dritto ma con un certo sforzo. John lo fissò un lungo momento.
E poi si accorse che di fatto lo circondavano di nuovo, tenendolo sotto tiro.
Sicuramente si trattava di un gruppo improvvisato, non con una vera dotazione. Si era subito accorto di poter facilmente disattivare gran parte delle loro armi ma non era il caso di lasciarli lì privi di copertura. Lo pensò anche se praticamente gli puntavano tutto addosso.
-          Sono in arresto? – chiese ironicamente – non so neanche chi siete.
-          Da quando ti sei accorto di noi?
-          Il vostro dispositivo di occultamento interferisce con il mio. Ed decisamente pessimo anche quello – aggiunse con un sospiro annoiato – inoltre uno di voi ha il passo davvero molto pesante. Contro gli elefanti non ci sono ammortizzatori che tengano, neanche di questo tipo – indicò gli stivali che avevano ai piedi mentre il più robusto di loro assottigliò lo sguardo rivolgendogli un’occhiata che prometteva decisamente altro. Ma non era il momento.
-          Devi sentirci piuttosto bene – disse una delle ragazze – non è facile distinguere i passi occultati da un rumore di fondo.
-          Per me lo è – concluse John.
Fissò meglio il gruppo davanti a sé. Tre uomini, due donne. Uno di loro evidentemente alieno. Era il ragazzo che aveva avuto un mancamento. Lo guardò fisso. Non conosceva la sua specie.
-          Smettila di guardarmi come fossi una cavia, Dottore – mormorò con voce tagliente.
Era giovane, lo sentiva chiaramente. Giovane, irruento e sofferente. A prima vista poteva sembrare umano ma gli occhi erano di un blu cobalto innaturale. Visto l’elmetto che indossava, apparentemente era l’unica cosa che lo rendesse differente dagli altri.
-          Mi conoscete, dunque.
-          E chi non conosce il Dottore? Un alieno che è diventato umano… !  - l’ultima parola fu pronunciata con un disprezzo impressionante. Non era però quello che lo toccava di più in quel momento. John chiuse gli occhi una frazione di secondo ma troppo lunga per la ragazza che lo stava fissando.
-          Che cosa c’è? – gli chiese perplessa.
-          Pensavo che purtroppo non sono umano abbastanza o troppo umano, ancora non l’ho capito – disse piano.
-          Cioè?
-          Oh, nulla  – disse con un sorriso quasi svagato  – ora… signori, mi dispiace di non avere altro tempo da dedicarvi ma devo… tornare alla mia ricerca. Mi spiace ma… non posso indicarvi l’uscita, non so dove ci troviamo…  – li vide guardarsi in faccia spiazzati.
-          Pensi davvero di potertene andare così?
-          Ne sono sicuro – il tono di voce e i suoi occhi fecero rabbrividire anche chi gli puntava l’arma addosso. Si guardarono perplessi e turbati. Lui invece, guardò loro preoccupato. Erano un gruppo di ragazzini mal equipaggiati e addestrati ancora peggio. Non poteva lasciarli a quel modo  – perché voi siete qui?
-          Facciamo noi le domande!
-          Va bene – incrociò le braccia, le labbra piegate dalla perplessità estrema -  sembrate la banda Bassotti allo sbaraglio.
-          Cosa??
-          Andiamo! La banda…  - si interruppe  - ah, lasciate stare! – mormorò scuotendo il capo seccato – qui avete Jeff Duck!
-          Cosa stai farneticando?
-          L’umorismo aiuta nelle circostanze più difficili e credetemi, siete oggettivamente nei guai.
-          Tu no?
-          Io lo sono sempre e mi piace  – disse con un sorriso che li lasciò inquietati –ma siete voi che fate le domande, giusto! Beh, prima che mi faceste perdere tempo con il vostro inseguimento improvvisato, stavo cercando di raggiungere delle celle di detenzione. Credo che in questo posto vi siano delle vere e proprie prigioni, prigioni con dentro delle persone che vengono torturate, temo. Io devo trovarle – il gruppo si scambiò delle occhiate d’intesa – devo dedurre che siate qui per lo stesso motivo? – l’alieno lo fissava più nervoso degli altri. Gli tremavano appena le mani. Gli occhi blu erano venati di rosso. Si chiese se per caso non fosse come per un umano avere gli occhi lucidi di rabbia - senti molto dolore? – gli chiese. Il giovane si irrigidì stupito dal tono gentilmente sincero e lo guardò più intensamente. Sentì che lo aveva toccato, dentro.
Gli occhi scuri del signore del tempo incrociarono quelli di un essere sconosciuto, molto potente telepaticamente, più di lui.
Si rivolsero un’occhiata silenziosa, lunghissima.
-          Sei molto… vecchio – mormorò l’alieno e gli altri guardarono John perplessi.
-          E tu molto, molto giovane  – lo vide abbassare lo sguardo. John continuava a fissarlo impensierito.
-          Ha detto la verità – disse rivolto ai compagni.
-          Sicuro? – alieno annuì.
-          Le sto cercando anch’io, ve lo ripeto.
-          E noi siamo qui per una missione di salvataggio, diretti proprio dove dici – John li guardò con gli occhi spalancati.
-          Cooosa…? Salvataggio? Hanno mandato voi per…? – si portò le mani alla testa e si scompigliò i capelli scuotendo il capo incredulo con gli occhi rivolti al soffitto – non posso crederci, non posso crederci! Una missione di salvataggio costituita da cinque persone e un equipaggiamento plausibile solo in un film d’azione con Sylvester Stallone…! - li fissò indeciso – lui è un attore anche qui, giusto?
-          Ovviamente… ma che…?
-          Certe tragedie devono ripetersi come punti fissi – mormorò sconfortato. Lo guardavano tutti e cinque con espressione quasi traumatizzata – che c’è?
-          Parli sempre così e così tanto?
-          Solo quando sono nervoso. E sono sempre nervoso.
-          Allora calmati.
-          Non è facile con quello che sento! – sbottò improvvisamente.
Era troppo eccitato, troppo agitato. Era qualcosa che lo stava stressando, che gli tendeva i sensi e l’anima. Tremava di più, sempre di più. E lo odiava profondamente.
La cercò, allora. La cercò d’istinto oltre l’utile matematica. E trovò le sue dita strette nelle sue.
Rose. Come fosse lì.
… Restagli vicino…
Un singhiozzo di pianto. Si irrigidì.
Che cosa significava?
La voce di Donna nei suoi pensieri. Non un ricordo, non qualcosa di accaduto. Un singhiozzo di pianto vicinissimo. John schiuse le labbra stupito.
-          Li senti pure tu, non è vero? – il giovane alieno lo guardò con comprensione – li senti anche se sei umano – non era quello che aveva sentito, era altro. Altro che non capiva.
Gli occhi profondamente scuri di John erano lucidi, strani. Fu l’alieno a chiedersi come potessero credere fosse umano un uomo con quegli occhi.
-          Dottore, lei cercava la strada ma noi sappiamo dove andare.
-          Perché vi guida lui che ne è fuggito, certo – disse. L’alieno aveva abbassato l’arma puntata su di lui e i suoi compagni lo avevano imitato scambiandosi un cenno di assenso – quando è successo?
-          Cinque mesi fa, Dottore. Davvero lei non sa nulla? – John scosse il capo.
-          Se mi conoscete, sapete che cosa sto cercando di fare.
-          Costruire il T.A.R.D.I.S. la mostruosa nave spaziale più pericolosa di tutti i tempi ! – la ragazza che aveva pronunciato quelle parole l’aveva fatto con disprezzo e John le rivolse uno sguardo profondamente risentito.
-          Prima di tutto puoi chiamarlo semplicementeTardis, senza scandire le lettere – osservò – e poi non si costruisce ma sialleva…
-          Stiamo parlando di una macchina o di un animale?
-          Che stupidi! – mormorò alterato – il Tardis è un essere potente che esiste oltre i tempi e lo spazio e voi, voi pensate che …!  - lo fermò il dolore. Comprese subito.
Se non manteneva la calma lo avrebbe raggiunto. Emise un lungo respiro.
… Una forma energetica metasolida, sviluppata principalmente in dodici dimensioni, può essere divisa in entità regolari dalle quali ricavare variazioni fisico-modulari ad incastro multiplo, compatibili variabilmente con le alterazioni dei vari piani causate da un’ingerenza fisica temporale a più livelli …
Il dolore si calmò.  Cercare anche solo di pensare a come il Tardis potesse assumere una forma e un volume variabile in quell’universo, o in altri, lo aveva messo al riparo da quell’orrenda marea di impressioni.
-          Voi non capite – riprese con voce più ferma - non si tratta di una mostruosità è esattamente l’opposto. Ed è parte di me – aggiunse più piano.
-          Qualunque cosa sia è pericolosa.
-          Tutto è potenzialmente pericoloso, soprattutto le migliori intenzioni – John lo disse con tono lugubre. Guardò il ragazzo alieno. Era evidentemente in difficoltà anche lui e lo percepiva. La sua presenza amplificava la scia telepatica che sentiva – da quale pianeta provieni? – gli chiese. Lui abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano sempre più blu.
-          Il mio pianeta è conosciuto come Sancter – John lo guardò stupito. Conosceva un luogo chiamato Sancter anticamente, per tutti Stx02 del sistema Agak. Era una landa desolata da molto prima che lui nascesse. Ma nell’altrove che conosceva. Il popolo che lo abitava prima del disastro ambientale che lo aveva ridotto ad un ammasso di rocce desertiche, sul quale restavano rovine interessanti solo per gli archeologi, si era sparso in altre colonie dell’universo e quindi perduto del tutto. Tante le storie al proposito e tutte diverse. Pensava che le differenze tra universi fossero spiccate ma non fino a quel punto. Quello andava al di là di ciò che chiunque avrebbe teorizzato al proposito. La cosa era eccitante. Nuovi mondi, passati presenti e presenti diversi. Viaggiare tra quelle stelle sarebbe stata un’avventura strepitosa. Era terribilmente eccitante e John sorrise – che cosa la diverte, Dottore?
-          I paradossi dei mondi, Lakil – lui lo guardò perplesso ma non era necessario sapesse che altrove non esistevano da talmente tanto da essere diventati quasi la misura del tempo perduto – come siete giunti sulla Terra?
-          Le crepe tra gli universi. Ad un certo punto ha iniziato ad accadere – la vibrazione.
Pianissimo, dentro. Ma c’era. John fece un lungo respiro. Il presentimento. E il dolore di nuovo bussava nel suo petto.
Rose… stringimi forte, sto cadendo…
La sua voce, la sua stessa voce nella testa ma come un pensiero non suo.
Perché quelle parole? Ne rimase turbato.
-          Quando si sono aperte le crepe negli universi è iniziato ad accadere. Nei cieli della Terra hanno iniziato a materializzarsi strani oggetti. Qualcuno precipitava, altri atterravano. Parecchi restavano sospesi in orbita.
-          Navi spaziali…
-          Navi civili, mercantili…
-          Navi da guerra – aggiunse piano tra i denti. Il materiale isolante proveniva sicuramente da lì. Dovevano aver smontato praticamente tutto ma a ritmi velocissimi e non potevano aver fatto tutto da soli. Le carcasse dove venivano nascoste?
Sicuramente i contatti del Torchwood con gli istituti di difesa nazionale con il medesimo ruolo in altri paesi, dovevano essere continuativi e costanti. Scambio di favori, condivisione della tecnologia ricavata da quella aliena.
Materiale, materiale prezioso.
… Se è alieno è nostro…
Il motto del Torchwood del suo universo.
Erano dei principianti rispetto al corrispettivo parallelo.
-          Tecnologia, tecnologia aliena da esaminare e replicare – mormorò stravolto.
-          Le armi sono state migliorate, potenziate per la difesa. Sono state create armature da battaglia, l’esercito vanta la migliore dotazione al mondo e parecchie risorse sono ancora segrete – il senso di disagio stava nuovamente aumentando e così il tremore. I suoi nervi stavano cedendo, il suo cuore batteva troppo in fretta. Cercò un altro pensiero complesso sul quale concentrarsi ma intanto sprofondò le mani tremanti nel cappotto.
-          Ma nessuna di queste navi cercò di difendersi, cercò… un contatto? – chiese.
-          A causa dei precedenti contatti alieni, il Governo aveva disposto la costruzione di un’arma che fosse utilizzata in caso di offensiva esterna, così dicevano. In realtà…
-          Preferirono l’attacco preventivo, Dottore – disse una delle ragazze. John impallidì – non ne parlò nessuno. Si seppe poco. Non bisogna parlare di alieni, mai. Il Torchwood veglia sul mondo intero.
-          È molto peggio di quanto potessi immaginare – gemette piano John.
Potevano non essere le uniche prigioni. Potevano non essere i soli luoghi nei quali alcuni si spingevano ben oltre i limiti che un umano dovrebbe avere per ritenersi tale fino in fondo. Un uomo, a prescindere dal luogo di nascita o dal suo status biologico. Ma se l’attaccare poteva essere condiviso dalla paura, se lo sfruttamento tecnologico diventava persino ovvio, non era affatto sicuro che torturare e uccidere fosse contemplata come una possibilità accettabile dall’ufficiale struttura governativa.
Poteva darsi che quel limite fosse stato oltrepassato in quel senso solo da pochi e di nascosto.
Poteva sperare fosse così.
-          Non abbiamo tempo, ne abbiamo già perso troppo – disse preoccupato guardando i ragazzi davanti a lui – visto che ormai abbiamo capito di essere dalla stessa parte, vi suggerirei di fidarvi di me.
-          Lei sta costruendo quella nave, Dottore!
-          Quella è la mia nave e vi assicuro che non sarà mai di nessun altro, non è una nave da guerra, non lo è mai stata e non lo sarà mai – lo disse con tono sicuro, guardando ciascuno di loro dritto negli occhi – fidatevi di me – ripeté. Sembravano indecisi e spaventati. Il ragazzo alieno però lo guardava diversamente dagli altri. John gli si avvicinò e mise una mano sulla spalla e lui lo guardò stupito. Ora che lo toccava lo sentiva tremare. E lui poteva sentire lo stesso attraverso la sua mano. Questo li tranquillizzò entrambi di istinto.
-          Loro non lo sanno, vero?  - l’alieno lo fissò un lungo momento e poi scosse il capo.
-          Cosa non sappiamo? – John fece un lungo sospiro e poi gli rivolse un sorriso triste.
-          Una bella squadra davvero. Quattro ragazzi. Quattro ragazzi e un… bambino – si guardarono l’un l’altro smarriti.
-          Dottore, cosa sta dicendo?
-          Il vostro amico è solo un bambino.
-          Che cosa…? – la ragazza accanto a lui lo guardò con gli occhi sgranati, l’espressione stupita e inorridita insieme.
-          È un bambino molto spaventato e proprio per questo molto coraggioso. Ma pur sempre un bambino, per la sua specie – lo guardò tristemente.
-          Come lo hai capito? – gli chiese con un filo di voce. Lui sorrise appena.
-          Sono molto molto vecchio. E conosco delle storie su di voi. Storie bellissime – il ragazzo mise la mano su quella che gli teneva sulla spalla. John sentì forte in lui, il conforto di aver trovato un adulto, qualcuno che lo proteggesse. Nessuno era meno adatto a combattere ma pochi così coraggiosi da provarci. Era tornato per qualcuno, lo  percepiva.
E percepiva che non gli avevano detto tutta la verità. 

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Capitolo 21
*** Menti e menzogne (III) ***


Sapeva che cosa significava la presenza di quel piccolo gruppo di imprudenti ragazzi, il più adulto dei quali non arrivava a trent’anni: organizzazione parallela. Doveva trattarsi di una sorta di gruppo antigovernativo che stava progettando un assalto al Torchwood da mesi. Chiaramente, sotto Natale; chiaramente lo stesso giorno che si era deciso ad affrontare quella paura di ritrovarsi davanti qualcosa di orrendo.
La sua solita fortuna. La fortuna di quel gruppetto di ragazzini. Forse.
Aveva compreso subito quanto loro costituissero sostanzialmente un diversivo.
Era infatti inammissibile che un’impresa del genere coinvolgesse solo cinque elementi così giovani e mal equipaggiati. Non si sarebbe neanche meravigliato più di tanto se avesse scoperto che di fatto si trattava dei peggiori a disposizione mandati in giro in una missione parallela, una sorta di specchietto per le allodole. Qualcosa infatti gli diceva che chi si prendeva la briga di entrare in quell’assurdo edificio dalla pianta nascosta, non lo faceva per il bene di chi, in quel mondo, consideravano nemico a priori.
Non senza delle ragioni, doveva ammetterlo.
Dentro il Torchwood vi era qualcos’altro, qualcosa di più interessante, utile, probabilmente distruttivo.
Non sapeva se chi si trovava lì fosse intenzionato a distruggere o portare via quella cosa e neanche di cosa si trattasse. Ma dovevano essere già alla ricerca di quel che li aveva spinti ad entrare là dentro e magari da ben prima che lui arrivasse. In tanti e in gamba, sicuramente.
Il Torchwood aveva un sistema di sorveglianza molto sofisticato. Niente di impossibile da aggirare, pensò. Ma ci sarebbe lo stesso voluto tempo.
John era sicuro costoro stessero cercando quella cosa enorme e rumorosa che si stava quasi sovrapponendo al battito del suo cuore.
Quel rumore profondissimo, un rumore molto simile a quello del suo sogno. Un rumore buio, assordante. Ma che nessuno sembrava sentire.
Neanche Lakil. E questo era molto strano.
Ma non era quello che aveva scelto di cercare lui in quel momento.
Si chiese che cosa avrebbe trovato nelle prigioni del Torchwood.
Come aveva fatto un bambino alieno, che sembrava un ragazzo di vent’anni non dotato di particolare forza fisica, a scappare da quel luogo assurdo? Se le storie sul suo popolo erano vere, poteva averlo fatto solo in un modo. Doloroso e traumatizzante.
La rigenerazione al confronto era una passeggiata.
Non avevano mentito sulla missione di salvataggio, questo lo aveva sentito chiaramente da Lakil. Ma fino ad un certo punto. Qualcosa non quadrava.
Doveva pensare tante cose contemporaneamente, il più possibile. Il dolore gli stava vicino; lo sentiva come uno spiffero gelido nell’animo. Non poteva concentrarsi, non ci riusciva.
Per questo si attardava in considerazioni sulla situazione cercando di non farla precipitare.
Notò che nonostante tutto, gli piaceva da morire.
Il disagio e tutto il resto lo avevano incuriosito e persino la sofferenza era interessante.
Era inutile forzare la sua natura, lui era fatto per l’avventura, per risolvere e creare problemi. Era fatto anche per combattere, non se lo negava, e questo anche se l’idea di usare le armi stava diventando davvero insopportabile anche per lui, nonostante l’altro Dottore lo avesse definito pericoloso.
Non sarebbe mai stato umano.
Lo era solo con Rose e per Rose. Eppure mentre lo pensava una parte di sé negò il suo pensiero.
Se esisteva un paradosso esistenziale senza precedenti era la metacrisi tra un umano e un signore del Tempo. Studiava sé stesso con interessata curiosità per quello.
Sembrava quasi sul punto di assestarsi, di riprendersi un’identità separata da quel che era stato quando…
La rigenerazione nell’Undicesima vita lo aveva stravolto. Ma forse tutto ciò che stava succedendo aveva anche a che fare con le anomalie temporali di cui gli aveva parlato Donna.
Ripensò a quelle voci che aveva sentito nella testa poco prima.
Anche quella di Donna.
Parole che non gli aveva mai detto.
Aveva anche sentito la propria voce, come provenire da altrove. Un altrove lontanissimo.
Stringimi Rose perché sto per cadere…
Cosa voleva dire?
Inquietudine, eccitazione, preoccupazione. Tutto insieme. Il suo cuore ansioso correva veloce.
Terribile e bellissimo; come l’aver avuto lei dopo averla desiderata tanto. Terribile e bellissimo, come ciò che più amava.
Era la follia meravigliosa di riuscire ad essere pienamente sé stesso solo a quel modo.
 
John aveva deciso di non riparare i dispositivi di occultamento della squadra. Aveva invece modificato il proprio perché tutti restassero invisibili se restavano accanto a lui nel raggio di pochissimi metri, naturalmente aveva detto loro di non poter fare diversamente. Questo costringeva il gruppo a procedere compatto.
Tacevano preoccupati. Sentiva il loro inghiottire nervosamente una saliva diventata vischiosa. Sentiva quasi lo scricchiolare delle loro articolazioni e i muscoli tremanti.
I lamenti più profondi, dentro.
Il nervosismo già lo stava tormentando ma non sopportava la tensione silenziosa.
-          State troppo zitti e non mi piace – mormorò.
-          Ma…!
-          Ho regolato il convertitore perché emetta un rumore di fondo molto simile al silenzio e quindi potete parlare, a bassa voce però...
-          Potremmo non avere voglia di farlo – disse seccato il più robusto – tu sei un gran chiacchierone, Dottore.
-          E tu hai il passo di un elefante, te lo ripeto – rispose John seccato aggiungendo un sorrisetto soddisfatto per l’espressione che il ragazzo aveva fatto. Lakil lo guardò un po’ perplesso.
-          Sei davvero strano – disse.
-          Non sei il primo che me lo dice.
-          Posso… sapere… - John gli rivolse uno sguardo incuriosito. Lakil lo guardava ansiosamente ma sembrava non osare andare avanti.
-          Cosa vuoi chiedermi?
-          Ecco… vorrei sapere…  - esitò ma si fece coraggio - quanto sei vecchio, Dottore? – chiese con gli occhi luccicanti.
-          Ho… più di novecento anni – disse quasi distrattamente e sulle sue labbra ebbe un sorriso veloce, sentendo e vedendo i ragazzi chiaramente scossi dalla notizia.
-          Tu cosa…?
-          Fantastico…! – mormorò Lakil ammiratissimo. John inclinò lo sguardo.
-          Non so se darti ragione…
-          Te li porti bene, però! – osservò un ragazzo dietro.
-          Dovresti vedermi al mattino – rispose John ma le parole restarono sospese. Lo aveva già detto.
Quella volta.
Alla testa di un gruppo improvvisato di sopravvissuti che aveva perso quasi ad uno ad uno, cercando di salvarli. Poi aveva salvato tanti altri, praticamente tutti. Ma fra coloro che erano caduti, c’era lei.
…Astrid…
-          Tutto bene, Dottore? – chiese Lakil che doveva aver percepito il suo turbamento improvviso. Lui annuì ma non rispose. Vi fu un attimo di silenzio. Ma non poteva permetterselo.
-          A volte mi sembra di aver vissuto troppo – mormorò.
-          Dottore, prima ha detto che questo occultatore emette un rumore simile al silenzio? – gli chiese una delle ragazze.
-          Beh, sì… tecnicamente su un pianeta il silenzio non esiste. Per questo ho detto rumore.
-          Ah… suppongo che sia vero… - mormorò confusa.
John si accorse che in Lakil era aumentata l’ansia, proprio come lo era per lui.
Gli stava molto vicino. Era rassicurato anche fisicamente da lui e il loro contatto dava sollievo mentale ad entrambi, come riuscissero a dividersi l’onere di quella traccia che andavano seguendo.
Una delle ragazze guardava Lakil con indecisione e occhi troppo lucidi perché fosse solo per la tensione del momento. Era la stessa rimasta turbata dal sapere chi fosse il loro compagno.
-          Non è drammatico come sembra – le disse e lei lo guardò interrogativamente – dalle sue parti non è neanche reato… - aggiunse serio. La ragazza comprese il senso delle sue parole e arrossì evidentemente arrabbiata per l’imbarazzante ingerirsi nella cosa.
Lakil invece sembrava tranquillo e aveva addirittura accennato ad un sorriso.
-          Dottore… le hanno mai detto che è una persona troppo curiosa?
-          Ci ho costruito sopra la mia esistenza.
-          Lena, ha ragione il Dottore. Non è drammatico come sembra – disse Lakil alla ragazza e lei abbassò lo sguardo. John in mezzo emise un sospiro.
-          Digli quanti anni hai – suggerì al ragazzo. Lakil esitò un momento davanti agli occhi della compagna. Il Dottore gli fece un cenno di incoraggiamento – avanti, non avere paura…  - il ragazzo annuì.
-          Ok… Lena, io.. ho settantanove dei vostri anni… - la ragazza lo guardò di nuovo smarrita e cercò una conferma istintiva da John perché tutto le appariva senza alcun senso, persino surreale.
-          Non capisco, davvero io…
-          Lakil è un bambino per la sua gente, ma è più vecchio di te. E non è un bambino nel senso che umanamente si dà al termine – la ragazza continuava a guardare entrambi imbarazzata e smarrita – avrà molto da raccontarti e sarà per te interessante. Adesso smettila di sentirti in colpa per qualcosa che hai pensato o… fatto con lui – Lakil e la ragazza diventarono color vermiglio e contemporaneamente misero gli occhi a terra senza avere neanche il coraggio di guardarsi.
-          Che delicatezza! E poi sarei io l’elefante? – blaterò il ragazzo robusto.
-          Ah, come la fate lunga! – disse John con tono seccato - ora fatemi un po’ distrarre o finirò per innervosirmi sul serio. Qualcuno sa dirmi se anche in questo universo trasmettono sul secondo canale quella soap opera “Amate memorie”? – gli rivolsero l’ennesimo sguardo basito – perché quelle facce? Era molto divertente!  - protestò con un sorrisetto ironico.
Un sorriso che nascondeva il suo timore di essere arrivato quasi alla meta.
 
Le luci delle feste lampeggiavano sulle facciate delle case del quartiere e Catherine si sentì infinitamente più triste perché le tornò alla mente quella che si era lasciata alle spalle, piena di persone e che si preparava ad un festa. Quella casa però la rendeva triste perché lui era lì.
Uscire da quella stanza era stato insopportabile ma doveroso.
Si erano toccati fino ad una certa soglia. Varcata da lei per un istante incosciente.
Asciugò le altre lacrime dai suoi occhi facendo appello alla sua solida capacità di razionalizzare le cose. Purtroppo ancora una volta non riuscì a calmare il cuore.
Lo sentiva contrarsi malamente nel suo petto. Le sembrava che stesse diventando troppo più veloce. Non poteva continuare a correre a quel modo, non poteva resistere.
Non le importava. Se fosse morta, pensò, nessuno avrebbe pianto per lei.
… forse lui. Lui avrebbe pianto.
Lui era stato sul punto di piangere, quando erano stati vicini. E lei l’aveva sentito prima che gli occhi gli diventassero lucidi. Perché era così triste?
Lo era diventato quando l’aveva abbracciata. E accarezzata tanto dolcemente…
Cacciò via il pensiero doloroso delle sue mani rendendosi conto che per un istante aveva pensato stranamente ad un posto che non c’entrava nulla con tutto il resto.
Una strano luogo dalla luce dorata e azzurra insieme. Un guscio?
No. Qualcosa che però faceva sentire al sicuro.
Pensò che poteva addirittura sentirne il rumore di fondo. Il rumore di fondo che sembrava un soffio, un lungo sospiro su…
… un doppio battito…
Non aveva senso. Perché?
Entrò in casa confusa, tremante di freddo.
Aveva sempre avuto una notevole immaginazione, faceva parte del suo carattere, ma Catherine era sempre stata capace di conciliare il tutto con la razionalità.
Ultimamente quel fantasticare stava diventando strano. Strano perché aveva sempre a che fare con lui ma anche perché sembrava riuscire a prendere il sopravvento sulla realtà ed era preoccupante.
Tremando si chiese per quanto tempo i suoi nervi avrebbero potuto sopportare tutto senza spezzarsi come rami secchi.
Il freddo dopo il tramonto era diventato tagliente come vetro. Le mani erano screpolate e quasi sanguinavano. Probabilmente ci sarebbe stata un’altra nevicata, durante la notte.
Detestava essere sola.
La casa era buia, tristissima. Accese subito la luce e la televisione, per farsi compagnia.
In frigo aveva una bottiglia di vino bianco, aperta giorni prima. Decise che un bicchiere le avrebbe dato un po’ di conforto.
Non aveva addobbato. Non all’esterno e neanche dentro.
Non aveva molto senso, stava in casa pochissimo e per Natale aveva pensato ad una breve vacanza.
Andare lontano.
Non aveva più nessuno, nessun parente stretto. Anche lei vittima, come quasi tutti coloro che lavoravano al Torchwood, dell’invasione dei cyberuomini. Avevano dimenticato che proprio quelli non venivano da altri mondi ma erano la mostruosità prodotta da un uomo ambizioso. E ciò nonostante, la disgrazia aveva molto cambiato chi l’aveva subita. La guerra preventiva agli alieni era sembrata la mossa più logica e intelligente da fare. E poi si era innamorata. Di un alieno.
Tornando a casa tutto le era sembrato infinitamente più triste eppure averlo toccato l’aveva come accesa. E sebbene il suo stomaco fosse chiuso, tanto da non essere riuscita neanche a mangiare, si sentiva meglio e un po’ peggio insieme. Come ogni volta che lo vedeva. Era successo qualcosa, lo aveva visto e sentito.
Nei suoi occhi la distanza assoluta ed insieme la comprensione ma non l’aveva toccata con indifferenza. Aveva voluto toccarla, ne era certa.
Ed era rimasto turbato. La trasparenza di John nei suoi confronti era qualcosa di nuovo perché lei riusciva a capirlo, ad intuirlo solitamente. Stavolta invece la reazione era stata molto evidente e strana.
Catherine ripensò alle loro mani strette. Lui le aveva chiuso le dita tra le sue come dovesse portarla via, dovesse condurla da qualche parte. Non era un pensiero sensato ed era stanca. Molto stanca.
Non era un pensiero sensato ma restava lì.
Almeno il suo lavoro era servito. Sperò che stesse meglio, di non vederlo più come giorni prima; che non dovesse andare via per sempre. Il pensiero di Tashen e di coloro che aspettavano l’apertura del Tardis però le fece venire una fitta allo stomaco. Era terribile come le migliori ragioni potessero diventare causa di dannazione.
Certo non sarebbe stato risolutivo ma decise di rilassarsi con un bagno caldo, ne aveva bisogno.
…non pensare…
… corri… !
Si irrigidì e mise una mano alla testa, confusa.
Doveva essere la stanchezza perché aveva sentito qualcosa, un sussurro. Un sussurro dentro, una voce che non conosceva. Cosa voleva dire?
…corri? Perché? Per dove?
Nella sua mente una domanda sovrastava le altre…
Con chi doveva correre?
Si versò un altro dito di vino, si spogliò di ogni cosa lasciando parte dei vestiti in camera da letto, su una sedia, poi si diresse nuda in bagno. Iniziò a riempire la vasca di acqua calda, versando il sapone liquido sul fondo. Banana. Aveva sempre detestato i saponi alla frutta ma quello l’aveva attratta irresistibilmente.
Neanche le piacevano particolarmente ma le venne voglia di mangiarne una.
Si chiese se ne aveva ancora qualcuna in frigo o se invece fosse vuoto.
Guardò nello specchio il riflesso appannato del suo viso e inclinò la testa, perplessa.
Si vedeva strana, forse per la condensa che velava i suoi lineamenti; eppure sembrava ci fosse qualcosa di diverso in lei. Bevve un altro sorso di vino e fece un lungo sospiro.
L’odore del bagnoschiuma la fece sorridere.
… sei…. Così bella…
Non lo era. Non si sentiva tale.
Anche se glielo dicevano spesso. Ma lui no.
A volte lui le aveva sorriso in silenzio.
No, non era bella. Per lui nessuna era come Rose Tyler.
Lei invece era solo una donna stanca che stava sfiorendo.
Ma tu vuoi me…?
…Vuoi me?
Quel pensiero non sembrava suo, non era suo. Quella voce però continuava a parlare nella sua testa. Sembrava un parlare sottovoce.
La cosa la preoccupava. Possibile che non aver dormito ed essere nervosa le stesse procurando disturbi della percezione? Erano i sintomi di una malattia mentale?
Catherine si morse le labbra nervosamente e poggiò il bicchiere su un tavolino poi si distese dentro la vasca sperando di trovare sollievo. L’acqua l’accolse dolcemente, come un abbraccio.
Adorava l’acqua calda. Era eccitante.
Cercò di cacciare dalla sua mente altre immagini che avrebbero potuto farla agitare piuttosto che distendere ma non vi stava riuscendo. Chiuse allora gli occhi arresa. La luce soffusa faceva sembrare tutto più tenero, anche un pensiero triste e solitario. Il pensiero di lui.
Le venne in mente una collina affacciata sul mare e un cielo che correva. Tra le mani l’erba, che sapeva di…
Catherine sorrise per l’assurda associazione con le mele.
Lui era con lei e c’era vento.
C’era vento e lui sorrideva. Incantevole. E gli sorrideva anche lei.
Amo viaggiare con te…
… anch’io…
Catherine avrebbe voluto accarezzarlo. Lui voleva che lei lo toccasse ma non la toccava per primo. Stavano innocentemente distesi, l’uno accanto a l’altro. Era bellissimo lo stesso.
Sentì una scintilla di felicità ma il cielo che stava immaginando sfumò improvvisamente in qualcosa di oscuro, un corridoio profondissimo dal quale provenivano rumori strani. Un corridoio antico. Legno, finestre dai grandi vetri. Il ringhio cupo di una bestia feroce.
Si irrigidì per la paura ma si sentì quasi sollevare e poi prendere per mano. Lo vide, lui.
Correvano. Correvano con qualcuno dietro.
Lui le diceva di non voltarsi e lei guardava solo avanti. Avanti…
Catherine accigliò la fronte.
…immaginava ora un muro bianco.
Era di un laboratorio? Era immerso in una sorta di foschia.
Si stupì di quanto potesse sentirlo freddo, liscio. Un muro quasi viscido.
Sbatté la mano contro, come fosse una porta che si poteva aprire. Sbatté la mano contro qualcosa di chiuso per sempre con furia e le fece male; ma ad un tratto sentì. Sentì quella di lui sulla sua, attraverso un mondo intero. Un mondo sigillato …
…un altro universo…
… Sto bruciando un sole solo per dirti addio…
La voce…
No, io non ti lascerò mai…!
-          Ho deciso molto tempo fa  – sussurrò Catherine con voce sospesa e un lungo tremito scosse il suo corpo. Di scatto portò una mano al bordo della vasca e lo strinse. Spalancò gli occhi con il respiro di chi viene fuori dall’acqua dopo una lunga apnea.
Aveva pronunciato delle parole.
Senza averne coscienza.
Si avvolse le braccia al corpo tremante. L’acqua già sembrava troppo fredda, di colpo. La pelle increspata dalla paura.
-          Sto impazzendo, allora… - pensò terrorizzata – sto diventando folle…
Quelle fantasie, erano strane fantasie; strane scene da inventare in quel momento.
Non sembravano tali, non erano tali.
Di cosa si trattava?
Pensò assurdamente che le sembrava davvero troppo diverso dall’immaginare.
Sembrava piuttosto che stesse ricordando qualcosa.
Che non aveva mai fatto.
Non lei.

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Capitolo 22
*** Io credo in Lei ***


 
Catherine era nel panico. Avvolta nell’asciugamano, tremante ma incapace di muoversi, stava seduta vicino alla finestra guardando fuori con occhi spalancati che davvero non vedevano oltre l’ombra dei contorni del suo corpo. Il riflesso la spaventava. A morte. Se l’avesse di nuovo vista, sarebbe morta di paura, ne era certa. Si era trascinata lì quasi in trance, fredda come un pezzo di ghiaccio.
Neanche ricordava esattamente gli attimi dopo aver guardato nello specchio del bagno, dopo essere faticosamente uscita da una vasca d’acqua che davvero le era parsa riempita di ghiaccio sciolto.
Era stato un attimo, un momento che era parso qualcosa di terribilmente lungo e insensato, come quelle voci che le sussurravano dentro.
I suoi occhi chiarissimi l’avevano fissata come fossero altri. E scuri, profondi.  In quel momento aveva perduto i propri lineamenti e aveva visto davanti a sé un’altra.
Non sapeva chi, aveva chiuso gli occhi impaurita, ma… chiunque fosse quella donna era lì; o almeno era stata lì davanti a lei, presente in quel tempo come Catherine lo era davanti a sé stessa di istinto.
Quello l’aveva sconvolta. Più di ogni altra cosa. Più del sussurro continuo sotto ogni pensiero.
Si guardò le mani, incredula. Rosse. Tremavano, anche per il freddo.
Ma doveva riprendere il controllo e lo stava facendo. Il suo respiro andò regolarizzandosi e lentamente Catherine sentì tornare le forze. Si alzò in piedi.
Non era una donna paurosa ed era abituata a fare fronte alle situazioni di crisi. Persino quando si era ritrovata a fuggire dai Cyberuomini aveva percepito in sé una fredda e tranquilla razionalità, a guidare le sue azioni. Eppure quel qualcosa l’aveva terrorizzata.
Perché se stava perdendo la ragione non le restava più nulla. Non era più niente.
Un pensiero emerse dalla sua volontà inconscia e si disse che se qualcuno poteva aiutarla era proprio John. Era certa che avrebbe capito, che sarebbe riuscito a calmarla. A calmarla anche perché vicino a lui si sentiva al sicuro come con nessun altro. E di nuovo si irrigidì.
Come faceva a provare questo genere di sensazione se lei e John avevano avuto un rapporto professionale limitato praticamente alle ore in cui lavoravano insieme? Eppure quella stretta, quel suo stringerla, anche se piano, le aveva fatto ricordare…
Ricordare.
Non poteva ricordare nulla. Eppure lo stava facendo.
Cercò di distendere il ragionamento in qualcosa di razionalmente accettabile, l’avrebbe calmata. Ma non vi riusciva. Non poteva farlo. Aveva bisogno di John. Aveva bisogno…
…Ho bisogno di te, Dottore… !
Aveva bisogno di lui. Perché la cosa aveva a che fare con lui e lo sentiva chiaramente. Anche se non sapeva in che senso e fino a che punto.
I rumori per la strada attirarono la sua sconvolta attenzione sulla realtà e si scosse.
Tenendosi stretta l’asciugamano al corpo cercò di guardare fuori. Ciò che vide la lasciò perplessa.
Un uomo vestito in modo stranissimo, barcollava per la strada tenendosi un fianco. Pensò ad un ubriaco reduce da qualche festa in costume, visto anche il periodo qualcuno aveva iniziato ad organizzarne, ma era ancora presto, decisamente presto anche per iniziare una serata, figuriamoci per finirla.
Lo vide girarsi attorno, sollevare lo sguardo e vista la luce, forse, guardarla. Non poteva vedere i suoi occhi, erano troppo lontani, ma se ne sentì toccata e si irrigidì perché fu una sensazione chiaramente fisica. Catherine ricambiò lo sguardo con un certo timore. Durò un attimo.
Quell’uomo si scosse e si voltò altrove, evidentemente spaventato. Lo vide correre via ma proprio mentre lo faceva Catherine si accorse che sembrava ferito. Cercò di capire se ci fosse qualcun altro dietro di lui ma sembrava non esserci nessuno.
Rimase a fissare la strada deserta poi tirò le tende ancora più perplessa. Chi era quell’uomo?
Per un attimo un pensiero folle l’aveva sfiorata e le era parso che guardasse…
… come John.
Si portò una mano alla testa, era troppo confusa.
… ora dimmi che ti dispiace…
Impallidì. Di nuovo. La voce che non conosceva.
Sapeva a cosa si riferiva ma era una cosa assurda, come un pensiero annoiato. Una cosa senza senso. Lei aveva visto morire suo padre ucciso dai Cyberuomini. Cosa c’entrava con quella strada che vedeva nella sua mente? Cosa c’entrava con l’immagine limpida di quell’uomo con gli occhi gelidi e bellissimi puntati su di lei, offeso, adirato…
…come…
Catherine chiuse gli occhi un lungo momento.
Doveva parlare con John, doveva tornare da lui.
Lui sapeva. Glielo dicevano le stesse voci che sentiva dentro.
 
Doveva andare da lui. Era ciò che desiderava più di ogni altra cosa e sarebbe stato meglio affrontare il pericolo per l’ennesima volta piuttosto che struggersi in quella terribile attesa.
Ma non poteva.
Rose continuava a tormentarsi, continuava a restare chiusa nella loro stanza con quello strano oggetto davanti che ancora non comprendeva cosa potesse fare senza quello che John aveva lasciato in laboratorio. Gli si avvicinò con gli occhi lucidi, timorosa anche di toccarlo.
La parte del cilindro trasparente non l’aveva vista. Aveva la grandezza di un bicchiere e curiosamente era collegata al carillon. L’oggetto era complesso e curioso ma sembrava assemblato in ogni sua parte.
Fece un giro attorno al tavolo, con prudenza.
Poi vide un’altra cosa che prima non aveva notato.
Sembrava una sveglia digitale di forma cubica, una di quelle che proiettava l’orario sul soffitto. Si chiese dove l’avesse presa. Attaccato sul pulsante un foglietto blu con una freccia e sopra scritto “Rose”.
La sua scrittura. Antica e bella. Era piegato in due e lo aprì.
Accigliò la fronte davanti alla riga: “spegni la luce”.
Perplessa prese in mano il cubo di plastica bianca, spense la luce nella stanza e premette il pulsante. Quasi sobbalzò quando si vide davanti un’interfaccia olografica. In tutto e per tutto simile a quella del Tardis e d’istinto le venne in mente l’altra volta che lui l’aveva chiusa da qualche parte allontanandola dal pericolo. Rose si irrigidì.
Come quella volta sembrava uno spettro ma diversamente da quella, guardava fisso oltre di lei.
 
…Ho dovuto fare in fretta e scommetto che non è ben riuscita come avrei voluto ma… basta che sia un supporto dignitoso…
 
La sua voce, appena più metallica.  Decisamente nel suo stile.
Si perdeva nelle parole anche nei momenti meno opportuni. Sospirò con un sorriso istintivo ma era preoccupata. Stranamente, come l’avesse vista, l’immagine di lui sorrise.
 
Aem… ciao, Rose…
So che stai pensando: potevi scrivermi un biglietto? Naaaa, troppo noioso!
E non voglio lasciare qualcosa in giro che possa perdersi, non mi fido dei fogli...
 
-          Tu sei sempre il solito… - disse come lo stesse ascoltando.
 
…So anche che in questo momento starai combattendo davanti alla porta per non uscire e andare a cercarmi ma… Rose, ascoltami bene: io non voglio che tu mi segua. Non questa volta.  
Sei al sicuro, nella tua casa.
Ma non lo sarò io se farai capire a tuo padre dove io possa essere perché non posso fidarmi di lui completamente.
So che intuisci dove io mi trovi ed hai ragione.
Ma oggi pomeriggio la visita di Catherine Lane mi ha fatto comprendere che la realtà è peggiore di qualunque cosa pensassi e quindi devo andare a vedere e farlo ora...
 
Rose rimase turbata. Non sapeva che fosse stata a casa. Doveva averlo cercato mentre lei era impegnata con sua madre per gli addobbi. La cosa le diede molto fastidio e strinse le labbra d’istinto. Ancora una volta fu come se lui avesse potuto sentirla.
 
… so cosa provi ogni volta che ti nomino Catherine ma…Credimi, le hanno fatto del male, un male profondo. Dopo la sua visita…
Ho capito in che senso l’altro Me ha definito la metacrisi “pericolosa”.
Lo sono. Persino più di quanto il Dottore sia stato tale in passato.
 
Per Rose era ormai irreale credere che quell’uomo di cui conosceva l’infinita dolcezza potesse essere  anche qualcosa del genere. Ma l’aveva visto combattere e sapeva che aveva ragione.
 
…In ogni caso…Catherine è una vittima.
Spero sia la sola di questo genere almeno, ma ne dubito.
L’ho toccata, Rose.
 
Rose si irrigidì e lo guardò offesa chiedendosi in che senso l’avesse toccata. Poi si diede della stupida da sola, perché anche se le parlava attraverso quel messaggio olografico, ormai conosceva il suo sguardo e i suoi occhi cambiavano sempre, quando parlava con lei. Da sempre.
 
… io l’ho toccata per capire e ho capito.
Nei laboratori del Torchwood stanno facendo degli esperimenti e sono sicuro che siano esperimenti su degli alieni ma non solo. Sono andati al di là di qualunque mio timore e Catherine… mi ha fatto avere paura di me stesso. Di non riuscire a controllare la mia rabbia verso chi è stato responsabile di un simile scempio perché… io non penso si possa fare più male di quello che hanno fatto a quella donna.
 
Rose era confusa. Cosa voleva dire? Le sembrava una persona assolutamente normale, le pareva decisamente …
 
… Ora però viene il difficile, Rose. Ho bisogno di te.
Ho bisogno di te dove sei adesso. Non solo ad aspettarmi…
Se io non tornassi in tempo…
 
Gli occhi di Rose si spalancarono.
-          No, non farmi questo, Dottore…  – mormorò.
 
… il Tardis potrebbe restare cieco. Ho esaminato i dati… c’è un picco.
Un picco che fa pensare al fatto che debba aprirsi al più presto, questione di ore. E’ anche per questo che ho deciso di andare al Torchwood. Andarci fin quando riuscirò a stare in piedi.
 
Rose lo guardò turbata.
 
…Pete mi ha somministrato un farmaco messo a punto dai laboratori del Torchwood, un farmaco molto potente che apparentemente mi stabilizza ma mi fa del male.
 
Rose impallidì.
Suo padre aveva …
 
… Non devi preoccuparti comunque. Ho ottimizzato il dosaggio, sono degli incompetenti, ne bastava molto meno per tenermi in condizioni apparentemente accettabili ma…
Non potrò resistere molto…
 
Glielo stava dicendo dolcemente, calmissimo. La stava rassicurando ma Rose era sconvolta.
Strinse tra le mani la sveglia e così forte che sentì scricchiolare la plastica del rivestimento esterno.
 
… è giunto il momento di chiamarla e mi ha detto come fare, in sogno.
Ma il Tardis deve sapere dove andare e questo luogo deve essere… protetto. Oppure la realtà verrà inghiottita da un buco nero…
Beh no,  non è un buco è… una sorta di…
… ah, lascia stare!
 
Lei rise appena ma parve quasi un singhiozzo tra le lacrime, aveva gli occhi lucidi. Anche lui, lo vedeva chiaramente.
 
…  Ora ti spiegherò come accordare il carillon e in fondo… è semplice.
Il Tardis entrerà nello spazio da te indicato e per pochi minuti esisterà qui, per poi ritirarsi nella dimensione metatemporale in cui sta costituendosi. Si materializzerà nuovamente in questo mondo appena avrà raggiunto uno stato di coerenza ambientale ossia… quando avrà capito come definirsi qui e ora. Lo farà molto presto.
Apparirà la prima volta in condizioni che non immagino e il più vicino possibile a me… è la mia speranza, almeno.
La seconda volta sarà del tutto in questo universo e in condizioni fisiche completamente stabili.
 
Il Tardis quindi sarebbe apparso due volte in tempi ravvicinati, pensò Rose. L’ologramma continuò.
 
…La sua prima manifestazione serve a farlo adeguare a queste condizioni ed avviene totalmente in stato di rischio per entrambe le realtà, ma non posso fare nulla per questo. E’ la prima volta che un Tardis è ibrido…
… ho… messo a punto un congegno regolato sul carillon e quando sarà accordato io potrò sentirlo. E spero… che mi trovi, dove sarò. Perché avrò bisogno di… Lei.
Devi riuscire a mandarla da me.
Io mi fido di te, io credo…
...credo in te.
 
-          Ora spiegami quel che devi e convincimi che non devo venire io a prenderti! – mormorò Rose spazientita e sempre più tesa. L’ologramma iniziò ad esporre lentamente ciò che avrebbe dovuto fare ma all’improvviso l’immagine iniziò a sparire frazioni di secondo fino a singhiozzare tanto da rendere il messaggio incomprensibile. Rose d’istinto diede dei colpetti al cubo di plastica ma l’ologramma si fece ancora più sottile fino a sparire del tutto - oh, mio Dio! No! – ringhiò con gli occhi lucidi già nel panico – che cosa sta succedendo? Cosa…? – si spense tutto e rimase al buio. Il suo respiro ansioso le parve talmente forte da sembrare quello di qualcun altro sommato al suo. Rose cercò la luce e la accese nuovamente nella stanza.
Lo squillo del telefono di casa quasi la spaventò.
 
Daniel Tashen aspettava quella chiamata. La prese in auto, già diretto al Torchwood.
-          Signore, è tutto pronto – disse la voce al telefono.
-          Sono entrati nell’edificio?
-          Sì, sono dentro. Diretti alla trivella.
-          Perfetto. Potremo sperimentare la sua potenza allora – rise.
-          Procediamo con il piano?
-          Secondo quanto stabilito. Sarò lì tra poco.
-          Devo chiamare Pete Tyler, signore? – Tashen piegò le labbra in un ambiguo sorriso.
-          No… è già impegnato per il ricevimento di domani – disse ironicamente – lasciamolo tranquillo con la sua famiglia. Chiami invece il Presidente e lo informi che i terroristi della Unit sono nell’edificio – chiuse la telefonata proprio quando la macchina si fermò davanti all’ingresso del palazzo.
 
Rose era sempre più nel panico. Non riusciva capire come mai non funzionasse.
Solitamente i marchingegni messi su dal Dottore erano piuttosto strambi ma affidabili. Certo poteva darsi che la fretta l’avesse portato a non fare un lavoro perfetto, visto quel che aveva usato ma lo trovò strano lo stesso.
Maledì che non le avesse lasciato un semplice pezzo di carta anche se in effetti non sarebbe stato prudente. Un ologramma poi avrebbe avuto il vantaggio di rassicurarla, per quanto possibile, e lui lo sapeva.
Con in mano ancora la sveglia modificata, scese le scale per andare al piano di sotto e incontrò suo padre.
Si irrigidì. Le parole di John riecheggiarono nella sua mente.
Pete gli aveva somministrato un farmaco del Torchwood, un farmaco pericoloso. Sembrava che il Dottore fosse d’accordo ma era qualcosa che stava facendogli del male. Come poteva, suo padre, aver accettato di fare una cosa simile? Avrebbe voluto chiederglielo senza mezzi termini.
Ma non poteva tradire John, doveva controllarsi.
Pete tuttavia la percepì istintivamente come agitata e le rivolse uno sguardo interrogativo.
-          Rose… va tutto bene?
-          Sì… certo – mormorò ma con esitazione. Pete guardò quello che stringeva in mano.
-          Che cosa ci fai con quella vecchia sveglia?
-          Ah, è una cosa che volevo mostrare a John… ma lui non c’è… - Pete aggrottò la fronte.
-          Credevo fosse in casa a riposare…
-          È… uscito per delle spese sai… non ha avuto molto tempo per comprare i regali… - Pete annuì gravemente.
Una scusa banale era la più plausibile.
-          Dovrò dire a Catherine di aspettarlo, allora – Rose lo guardò perplessa – sì, ha telefonato prima. Ha detto che aveva dimenticato di prendere una cosa che le serviva, quando è venuta qui da John.
-          Ah, sì… John mi ha detto che è stata qui questo pomeriggio.
-          Pensavo che fosse uscito prima… - Rose si morse le labbra e provò a sottrarsi allo sguardo indagatore di suo padre. Era troppo nervosa.
John aveva riposto la sua fiducia in lei ma non poteva fare niente di quello che era necessario facesse. Quel dannato affare non funzionava e non sapeva come ripararlo. Continuava a tenerlo tra le mani come scottasse e Pete lo guardò con curiosità.
-          Perché volevi mostrare questa cosa a John?
-          Perché è un ridicolo orologio… - tirò una lieve risata – e lui è un signore del Tempo con l’ossessione per gli orologi, so già che finirà per giocarci  – Pete accennò ad un sorriso.
-          Terrò presente la cosa allora quando …
Il campanello interruppe la discussione.
Erano praticamente nell’ingresso e Pete si diresse verso la porta facendo un cenno alla ragazza della servitù che stava andando ad aprire.
-          Dottoressa Lane, buonasera – la donna ricambiò il saluto di Pete ed entrò in casa.
Appena la vide Rose rabbrividì. Era terribilmente pallida ma non era questo che la faceva sembrare… strana. Non comprendeva razionalmente di cosa si trattasse ma qualunque cosa avesse sentito o visto John in lei, iniziava a percepirla. Stava diventando evidente.
Ma non per Pete, a quanto pareva. Chiunque, se l’avesse vista come la vedeva lei in quel momento, le avrebbe chiesto per lo meno se stesse bene. Perché non sembrava, decisamente.
Catherine Lane fissò Rose turbata.  
Pete entrambe, abbastanza perplesso dal momento di silenzio tra loro.
Poi ripensò che poteva essere dovuto a John. In fondo la dottoressa era lì per vederlo e come si era reso conto lui di quel che lei provava, a maggior ragione doveva averlo fatto Rose.
Il nervosismo tra loro era palpabile. Decise di spezzare il momento in sospeso.
-          Dottoressa, mi dispiace molto che si sia precipitata qui prima che potessi raggiungerla al cellulare, quando le ho risposto credevo John fosse in casa ma è uscito.
-          Uscito…
-          Ultime spese natalizie – disse Pete – ma può aspettarlo…
-          Se fosse possibile... ma non vorrei essere di disturbo – Rose cambiò espressione.
Improvvisamente un’idea.
L’ultima speranza in tal senso.
Ma doveva aiutarlo, doveva riuscirci.
-          Dottoressa Lane, John mi ha lasciato quella cosa per lei… – disse e Catherine la guardò incuriosita.
-          Ha… lasciato…?
-          Non è venuta per questo? – Rose sorrise e la donna la fissò intensamente  – bene, allora mi segua.
-          Ma dovrei anche chiedere a John…
-          Intanto le consegno la cosa – insistette Rose. Catherine capì e annuì.
Pete le guardò entrambe salire la scala che portava all’appartamento di sopra.
Dalla voce al telefono, la dottoressa sembrava davvero molto preoccupata. Si chiese cosa potesse aver lasciato di così importante da averla spinta a tornare indietro e non aspettare un giorno, visto che l’indomani ci sarebbe stato il ricevimento. Era una donna apprensiva, più di quanto non gli fosse parso all’inizio. La sua attrazione per John l’aveva resa più fragile, era evidente.
Con un sospiro pensieroso Pete si allontanò verso il salone.
Rose fece strada a Catherine fino alla loro stanza.
Entrambe si sentivano a disagio e molto nervose, insieme. Il nervosismo di Catherine aumentò quando si trovò nella loro camera da letto.
La guardò interrogativamente. Rose rispose con un cenno che indicava la scrivania. Sopra la dottoressa vide il dispositivo legato ad un gioco per bambini da una serie complessa di fili. La guardò esitando.
-          John dice che è completo ma io pensavo ci volesse la parte che è rimasta in laboratorio – disse Rose. Catherine osservò interessata l’assemblaggio – penso che, diversamente da me, lei abbia un’idea di cosa sia esattamente questo oggetto.
-          Lo ha legato ad un risonante ultra dimensionale… - mormorò pensierosa. Rose la guardò sorpresa. Catherine stessa si stupì di aver compreso cosa avesse fatto John. Ultimamente le veniva più facile e nonostante la sua lucidità stesse andando perdendosi in quel delirio mentale estremo.
Il suo sguardo smarrito e la sua esitazione colpirono Rose.
-          Dottoressa, si sente bene…? – la donna annuì.
-          Dimmi perché mi hai portato qui, Rose – disse cercando di tenere la voce più ferma. Rose le porse la sveglia di plastica e Catherine la guardò perplessa – cosa…?
-          John ha realizzato un’interfaccia olografica con questo – Catherine fissò l’oggetto smarrita.
-          Geniale… - disse ammirata e Rose ebbe un gesto di fastidio istintivo.
-          Sarà geniale come dice ma non funziona!
-          Qual è il problema…?
-          Non è stabile, sembra fluttuare. Dottoressa, io ho bisogno di ascoltare il suo messaggio perché è importante. Molto più importante di quel che possa dirle – il tono della ragazza fece capire a Catherine che Rose non esagerava al proposito.
-          John è in pericolo…?  - chiese allarmata. Rose la fissò negli occhi un lungo momento.
-          La prego… se tiene a lui… Mi aiuti a ripararlo…! – Catherine girò l’oggetto tra le mani e poi guardò l’espressione tesa di Rose. Abbassò lo sguardo e annuì.
-          Vediamo di capire perché non funziona – disse mettendo l’oggetto sulla scrivania e iniziando ad aprirlo con estrema attenzione.
Rose si avvicinò a lei con un certo timore.
Quella donna la innervosiva ma i sentimenti per John erano sinceri, lo percepiva chiaramente. L’avrebbe aiutata di certo. Sperò che facesse in fretta perché il tempo era poco. Cercava di non pensare al fatto che fosse andato al Torchwood convinto di poterne uscire con il Tardis. Era azzardato, imprudente.
Era assurdo. Eppure tutti quei conti sui quali si era accanito nello studio forse erano quello, calcoli sul momento giusto. Arrivato presto e subito dopo la visita di quella donna, la strana donna che aveva davanti.
Guardandola lavorare Rose pensò stranamente che Catherine Lane somigliava molto a qualcuno. Qualcuno che conosceva bene. Non riusciva però a capire di chi si trattasse.
Intanto aveva completamente dimenticato che nel messaggio John parlava di lei.

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Capitolo 23
*** Essere e non essere ***


Le luci verdastre del corridoio rendevano il portello metallico, largo quasi come la parete di fronte, ancora più scuro e sinistro. Diversamente da altrove, le pareti di quel settore erano grigiastre e ruvide. Sembravano impregnate di qualcosa di oleoso.
John le guardò impensierito e poi le sfiorò con esitazione. La sostanza era liquida, inodore. A stento vinse la tentazione di portare le dita alle labbra e assaggiarla.
-          Che cos’è? – sussurrò uno dei ragazzi piuttosto inquietato. John abbassò gli occhi con espressione tesa.
-          E’ il segno che purtroppo ci siamo, le prigioni esistono e sono piene – disse con un velo di voce.
-          E questo…?
-          Credo si tratti di un residuo di solidazione. Siamo vicini ad ambienti isolati dall’esterno in modo speciale – i ragazzi lo guardarono interrogativamente e John sospirò nervosamente toccando ancora il muro – è ciò che accade in presenza di isolanti psichici. Non si tratta di schermi solo contro l’attività telepatica esterna. Alcune forme di comunicazione potrebbero avvenire in senso chimico e il residuo di solidazione è un sottoprodotto dell’azione delle spugne che trasformano le interazioni chimiche in materiale inerte e totalmente privo di connotazione psichica.
-          Quindi questa cosa è…?
-          Pensiero liquido e… gocciolante, sì – Lakil emise un debole gemito e lui lo guardò con comprensione.
-          È disgustoso… – mormorò Lena.
-          Non è disgustoso ma terribile – disse John abbassando lo sguardo e cercando di restare calmo. Ma non era facile.
Una volta era stato su una nave che sembrava sudare, visto lo stato delle sue prigioni.
Una nave che…
Si irrigidì. Il dolore tornava, non doveva pensarci. Non doveva pensare a sé stesso allora.
Si portò la mano al petto un istante, senza neanche rendersene conto, ma Lakil era vicino a lui e lo guardò con apprensione perché sapeva che sarebbe stato più debole di lui fisicamente; come lui sapeva che mentalmente Lakil avrebbe potuto avere un crollo e quindi doveva sostenerlo.
Certo non poteva farlo nessun altro.
Per l’ennesima volta John pensò che doveva concentrarsi maggiormente perché qualunque cosa lo toccasse emotivamente lo scopriva ad altre sensazioni. Solo Rose faceva eccezione ed ancora non comprendeva pienamente il motivo. Forse perché il suo pensiero era legato anche a qualcosa di fisicamente molto intenso e piacevole per lui e iniziò a considerare la cosa dal punto di vista razionale. Era interessante. Il dolore si allontanò del tutto e sorrise senza rendersene conto. Lo fece anche Lakil percependo in lui qualcosa che aveva respinto la sofferenza.
John però continuava a sentire quella nota profondissima, terrificante, dentro. E il ritmo di quel suono disturbava i suoi pensieri ma anche il suo respirare. Probabilmente anche l’aver preso una dose inferiore di farmaco aveva attutito gli effetti positivi, oltre che i collaterali. Il suo polso era accelerato. Non solo per la tensione istintiva. La sua temperatura corporea si stava alzando, di nuovo.
Sperò di non perdere la lucidità proprio nel momento in cui gli sarebbe stata più utile ma quel suono era al limite dell’insopportabilità.
Fu contento che Lakil lo ignorasse perché stava cambiano e cercando di seguirlo, la sua mente sembrava vagare, sprofondare in qualcosa che lo attraeva e spaventava. Non era qualcosa di umano, questo era certo.
Era il signore del Tempo ad esserne profondamente inquietato.
 
Aprire quella porta non era stato difficile e l’ultima delle cose troppo semplici, per i suoi gusti. Non avevano incontrato più nessuno, non sembrava che quella parte dell’edificio fosse sottoposta a particolari misure protettive o di custodia. Era tutto troppo calmo, tutto come in attesa di altro.
Quando entrarono in quello che secondo le informazioni della squadra che aveva al seguito era il laboratorio, John sperò che la sua mente, in quel corpo più fragile, riuscisse a sopportare la sollecitazione che stava per affrontare. Sapeva infatti che quel che avevano sentito era nulla, rispetto a ciò che poteva travolgerli. E il pensiero andò anche al bambino alieno, molto più sensibile di un signore del tempo. Soprattutto ai lamenti della propria specie.
La tensione lo stava stritolando dentro e quel dolore al petto si era fatto più pressante, come ancora più sordo e profondo quel suono misterioso.
Perché iniziava a sentire chiaramente che quel suono aveva un odore?
Era una strana sinestesia. Lo turbò più di quel che ammise a sé stesso.
 
Entrò per primo d’istinto sebbene gli altri fossero armati, lui no. Non era neanche riuscito a prendere in mano la pistola che Lakil gli aveva porto solo toccarla lo aveva disturbato. E ancora una volta pensò che l’effetto di Rose sulla sua natura, era stato più veloce di quanto potesse credere anche il Dottore.
Entrando purtroppo fu come pensava. Dominò il suo limite fisico con apparente freddezza e dopo qualche istante. Non Lakil.
Gli stava letteralmente addossato e ad un tratto lo aveva preso per mano, proprio come un bambino umano. Sarebbe potuta sembrare una situazione imbarazzante ma non lo era per nessuno dei due. Era giovane, terrorizzato a morte e considerava, per forza di cose, lui l’unico adulto. Gli chiedeva quindi protezione istintivamente ed istintivamente lui si sentiva in dovere di dargliela.
Chiaramente aveva intravisto più di qualche sguardo ironico, da parte della squadra. Lena era visibilmente imbarazzata dal suo comportamento.
Era il problema della specie di Lakil. Fisicamente poco forti. Mentalmente molto complessi ma dallo sviluppo lento, in certi sensi. Altrove, nell’universo da lui conosciuto, questo aveva causato loro una serie di problemi; dove si trovavano invece, evidentemente ne avevano avuti altri.
La gente cui apparteneva Lakil aveva quella che veniva definita capacità di generazione, ossia quella di creare da qualunque traccia biologica un corpo ospite in grado di essere il loro per sempre, se non aveva incidenti. Il processo però era doloroso. Soprattutto se la matrice, quella che loro consideravano l’anima, era stata rimossa dal primo corpo e danneggiata. Magari per essere buttata nella spazzatura.
Lakil doveva essere uscito da quel laboratorio come rifiuto. E John sapeva che il suo essere quasi umano dipendeva dal fatto che era stato gettato con resti non alieni.
Voleva dire che lì dentro non solo gli alieni venivano fatti a pezzi.  
Si chiese allora se la missione di salvataggio cui avevano accennato non fosse per costoro più che per gli altri. A lui non importava di certo. Chiunque fosse torturato e ucciso in quel luogo era una vittima. E basta.
Si sentiva in colpa solo di non essersene reso conto prima.
In ogni caso lì non venivano fatti a pezzi solo i corpi ma anche le menti.
Il pensiero di Catherine lo assalì prepotentemente.
Chissà se stava già succedendo, se stava già accorgendosi di qualcosa di strano. L’aveva percepito in lei, toccandola. Lo scollarsi della sua coscienza da quel che restava della donna precedente.
Come avrebbe potuto definire quella donna? Tragicamente umana in un nuovo senso, quello di quel mondo così sinistro da aver concepito da sé la minaccia dei Cyberuomini.
Intanto, vista la situazione aveva allargato il raggio di protezione del dispositivo d'ccultamento incanalando parte del segnale su uno dei loro. Il ragazzo robusto l’aveva guardato abbastanza seccato.
-          Io ero sicuro che avresti potuto sistemarli tutti subito – gli aveva detto acidamente ma poi aggiunto un sorrisetto. Simile a quello che gli aveva rivolto lui come ammissione.
Una delle cose che gli era stata chiara da subito era il fatto che quel ragazzo non fosse stupido, che Lakil e Lena fossero abbastanza incompetenti e spaventati e che invece quello che pensava di essere a capo, fosse certamente il più pericoloso e ottuso del gruppo. Una cosa che tra gli umani succedeva troppo spesso per i suoi gusti.
-          Avete uno schema del circuito di sorveglianza, vedo – disse guardando di sfuggita una delle mappe osservate dai ragazzi.
-          Sì… dobbiamo disattivare …
-          Ho isolato le telecamere prima – disse con un sorrisetto. Si guardarono perplessi. In effetti aveva vagato per gli angoli della stanza un paio di minuti. Sempre con Lakil per mano, ovviamente.
-          Si tratta di quattordici punti video…!
-          Quattordici e due derivazioni, per essere precisi – puntualizzò.
-          Ma davvero tu…?
-          Oh, forte il Dottore… ! – disse Lena e le lui sorrise. Sorrise in un modo che la fece arrossire e quindi abbassò gli occhi mentre Lakil la guardava perplesso.
-          Hai usato sempre quel coso?
-          Questo coso mi ha salvato la vita innumerevoli volte! – protestò quasi offeso. Certo sarebbe stato corretto anche aggiungere che non si trattava propriamente del medesimo oggetto e della stessa vita, visto che entrambi erano per lui nuovi di zecca, ma si trattava pur sempre di sofismi. Quelli che potevano calmarlo in quel momento.
-          Lakil… hai un comportamento imbarazzante… – mormorò il ragazzo a capo del gruppo guardando sia lui che John con un certo disprezzo.
-          E stai tremando come una foglia! – aggiunse l’altra ragazza con tono ironico.
-          Ecco, io…  -  Lakil sentì che la mano alla quale si aggrappava l’aveva stretto con più forza e rivolse uno sguardo riconoscente a John.
-          Siamo nell’anticamera dell’inferno, per questo trema – disse John con lo sguardo fisso su quell'ultima porta che aspettava di essere aperta e i ragazzi cambiarono subito espressione  – già da qui… io sento provenire delle urla orribili quindi… - sorrise ironicamente – se per caso mi vedrete tremare sarà anche per la paura perché fanno, paura. E siete fortunati ad essere così sordi.
 
***
 
Rose guardava le mani della dottoressa Lane muoversi velocemente su quello strano oggetto come solo avrebbe pensato di vedere quelle del Dottore. Sembrava che sapesse esattamente come fare, nonostante avesse detto di non avere idea di come procedere. In dieci minuti aveva smontato tutto e in due rimontato ogni cosa in modo che quella sveglia non sembrava neanche essere stata aperta per guardarvi dentro. Era decisamente incredibile. Rose non poteva fare altro che osservare la donna con ammirazione.
In realtà si sentiva a disagio, e lo era anche Catherine. Solo che oltre dieci anni tra le due facevano la differenza e la dottoressa sembrava molto più calma della ragazza.
Quando finì di sistemare i fili rivoltando ogni cosa, Rose notò una cosa che la colpì: sembrava utilizzare gli strumenti esattamente come John. Persino il cacciavite che aveva utilizzato per chiudere l’oggetto, l’aveva impugnato in quel suo strano modo e fatto ruotare tra le dita come faceva lui quando era soprapensiero.
Aveva compreso chiaramente a chi sembrava somigliare. A lui. In modo incredibile, in certi istanti.
Ma c’era anche dell’altro, che non riusciva a comprendere; e quella sensazione particolare, quando le era vicino.
-          Non capisco… è perfetto. Dovrebbe funzionare benissimo – disse dubbiosa. Catherine poggiò tutto sulla scrivania guardando il congegno di John per un istante. Il congegno completo – in ogni caso ha fatto bene a non registrare nulla su supporti preesistenti, il messaggio poteva essere intercettato.
-          Davvero pensa che anche qui…?
-          Non posso escluderlo. Comunque con questo ho finito, vediamo che succede! – Catherine le lanciò tra le mani la sveglia. Proprio come avrebbe fatto John. Rose la guardò turbata ma il momento non permetteva riflessioni troppo lunghe in proposito. Catherine spense la luce e Rose premette il pulsante della sveglia.
L’ologramma di John apparve nella stanza.
Rose vide come gli occhi chiari della dottoressa avessero avuto, nonostante la penombra, una scintilla. I suoi occhi ammettevano ogni cosa, ogni cosa sentisse. Rose cercò di concentrare la propria attenzione sul momento. L’ologramma era più stabile di come non le fosse apparso la prima volta, più concreto. Ma appena iniziò il messaggio, si resero conto che non era in sincrono. L’audio però era abbastanza percepibile.
Fu quello il momento in cui Rose si ricordò che nel messaggio John parlava anche di Catherine.
Ebbe un attimo di panico ma anche quello non poteva permetterselo.
-          C’è… modo di andare oltre questo punto? – disse Rose con tono urgente. Catherine le rivolse uno sguardo dubbioso, nell’ombra – dottoressa, devo andare avanti con il messaggio, questa è l’introduzione… - Catherine le si avvicinò e iniziò a trafficare con le rotelle dell’oggetto, proprio come avrebbe fatto John. Trovò incredibilmente come fare e il messaggio andò avanti. Ma non abbastanza. La voce di John risuonò nella stanza più chiara.
… Catherine è una vittima. Spero sia la sola ma ne dubito. L’ho toccata, Rose. L’ho voluta toccare per capire esattamente fino a quanto, fino a dove… si erano spinti. E ho avuto paura…
Le si gelò il sangue. Non era andato abbastanza avanti.
Vide Catherine impallidire a quelle parole, tremare. Stringere la scatola di plastica che emetteva il raggio di luce più forte, forse per non farla cadere dalle sue mani.
-          Dottoressa Lane…!
-          Allora… avevo ragione …  – disse in un sussurro e Rose la guardò sorpresa e turbata. Catherine le mise una mano su una spalla, come cercasse sostegno – … lui sa … ! – Rose comprese che qualunque cosa alla quale si riferisse John nel messaggio, stava diventando evidente anche per Catherine ma in modo che lei non riusciva a comprendere. Doveva essere successo qualcosa in quelle ore, qualcosa di sconvolgente.
Ecco il motivo per il quale la dottoressa era tornata indietro. Per parlare con lui di quello.
Ciò spiegava l’aria stravolta della donna, quella che Rose aveva notato appena l’aveva vista, prima di essere distratta da tutto il resto. Presa dall’urgenza del momento, Rose aveva solo pensato al messaggio e non si era chiesta di altro. Qualcosa che però sentiva essere importante.
-          Dottoressa, lei cercava John per … questo? – lei annuì.
-          Rose, non riesco neanche a spiegare cosa mi stia accadendo è assurdo … – il filo di voce della donna si era perso in un soffocato singhiozzo di tensione. Ma gli occhi di Catherine Lane, nonostante tutto, brillavano risoluti, sebbene si sentisse stravolta.
Era in gamba e coraggiosa. Rose lo ammise schiettamente a sé stessa.
-          Io vorrei poterla aiutare. Ma non so nulla.
-          So che è così, lo so. So che John invece ha capito. Ha capito tutto…
-          La prego…! Ora dobbiamo pensare a lui, io devo… - Catherine la prese per le spalle. Non vide i suoi occhi, la luce era poca, ma intuì il suo sguardo come fosse il proprio.
-          Rose… dove si trova John? – Rose esitò. Non era del tutto certa di poterglielo dire. Anche se il suo istinto le diceva di farlo. Catherine lo intuì – va bene… vuoi proteggerlo e devi capire che puoi fidarti di me – fece un lungo sospiro. Rose non sapeva una cosa importante – il dispositivo in laboratorio, quello a cui John lavorava, non ha niente a che fare con il Tardis – Rose si irrigidì per la sorpresa.
-          Ma io credevo che …  – lei scosse il capo.
-          Lo ha lasciato nel laboratorio perché l’attenzione si concentrasse sull’oggetto sbagliato - la dottoressa Lane ancora una volta sapeva qualcosa che lei ignorava. Rose si sentì ferita. Ma ciò che in quel momento le parve più evidente era il fatto che John si fidasse assolutamente di quella donna, più di quanto lei credesse - John ha nascosto i suoi progressi a Tashen. Tashen ha in mente qualcosa per il Tardis, qualcosa che io so fino ad un certo punto. Dovevo… riferire del progetto di John, era il mio compito.
-          Doveva spiarlo?
-          Aiutarlo e riferire del suo lavoro. Ma… Appena ho compreso cosa fosse il Tardis per John… io non ho potuto rovinare ogni cosa ne valeva… della sua vita – disse in un sussurro.
-          Al Torchwood non tengono alla vita di John. Probabilmente neanche mio padre – aggiunse con amarezza.
-          Non giudicare male tuo padre. Teme per voi. Tashen vuole impossessarsi di quella nave a qualunque costo ma non conosciamo il suo piano se non nei dettagli che ci riguardano. Noi siamo responsabili solo della parte scientifica del progetto. Tuo padre non è suo complice, non completamente e non più di me – aggiunse amaramente.
-          Cosa può avere in mente quel mostro? – Rose la sentì sorridere.
-          Qualunque cosa sia non ha fatto i conti con il Dottore – Catherine le prese una mano e la strinse forte. Rose la guardò nella penombra – fidati, Rose… fidati di me, io tengo molto a John. E so che purtroppo hai anche capito quanto – la lasciò e vi fu un istante di silenzio. Nessuna delle due disse nulla perché sarebbe stato inutile – bene allora, se ora ti fidi di me, cerchiamo di aiutare John e poi… io penserò al resto – aggiunse Catherine più piano. Rose esitò ancora ma appena un attimo.
-          John si trova al Torchwood – disse tradendo la tensione fino in fondo.
-          Cosa?  - la voce di Catherine si era nuovamente incrinata – perché… lui…?
-          Ha a che fare anche con lei, dottoressa. Quel che… diceva nel messaggio. Non so come ma ciò che fanno al Torchwood sembra riguardarla direttamente e lui si trova lì perché pensa che stiano facendo qualcosa di terribile nei laboratori, qualcosa che non può accettare continui.
-          Ho sempre sperato si trattasse di voci… – sussurrò Catherine.
Cosa poteva c’entrare con lei? Cosa poteva aver capito John soltanto toccandola?
-          Dottoressa, nel messaggio John dice che il Tardis sta per aprirsi e che ha bisogno che lo raggiunga dove si trova ora!
-          Al Torchwood…! – gemette. L’ultimo posto dove avrebbe voluto vederlo con il Tardis.
-          Mi ha detto che si aprirà in due momenti di cui solo il secondo stabilmente. Ma questo dispositivo deve essere accordato su qualcosa  – Rose ebbe un fremito di nervosismo.
-          Ascoltiamo John …  – Catherine riattivò il dispositivo. Entrambe rivolsero lo sguardo all’interfaccia.
Che improvvisamente tremò in modo strano.
E fu allora che per un istante, un istante lunghissimo, a fissare gli occhi Catherine furono quelli di un altro uomo. Un uomo anziano, vestito elegantemente, con un lungo mantello nero. Con gli occhi che erano quelli di John anche se non lo erano.
Degli occhi che sembravano paradossalmente più giovani.
-          Ma cosa…? – gemette stupita e spaventata insieme. Rose la guardò dubbiosa.
-          Dottoressa, sta bene…?
-          Non hai visto? – chiese allarmata.
-          Cosa intende…?
-          Non hai visto l’immagine olografica? – insistette. Rose rimase in silenzio. Non capiva. L’immagine aveva appena tremato ma non capiva cosa si riferisse la dottoressa – tu… non hai visto allora! – concluse con tono turbato Catherine scuotendo il capo – Rose…
-          Non capisco. Io vedo l’immagine tremare, l’immagine non è stabile…
-          Ma non lo è perché è come se sopra ce ne fosse un’altra – mormorò Catherine spaventata -  anzi… più di una… - fluttuava in un disturbo complesso, come vi fossero almeno una decina di sovrapposizioni, tutte contemporanee. Tutte presenti.
-          Ora l’immagine sembra ferma – disse Rose. Catherine annuì. Lo era perché in quel momento tutto sembrava essersi normalizzato. Ma era apparenza, qualcosa di instabile e glielo diceva l’istinto.
Sentiva quella sensazione crescere sentiva sussurri sommessi dentro, si sentiva circondata.
Si fece forza allora. Se John era in pericolo doveva aiutarlo e doveva aiutare Rose.
Deglutì a fatica cercando la parete con la mani si addossò proprio accanto alla porta. Rose la guardava turbata. Non sapeva cosa fare.
-          Rose…- mormorò con sforzo – continua con il messaggio.
-          Dottoressa… - Rose sentiva molto concreto il turbamento della donna ma la paura di non fare in tempo per John mise da parte ogni cosa per l’ennesima volta – andrò da lui. E’ la cosa migliore, non dovevo coinvolgerla non…
-          Non farai niente del genere, Rose Tyler… – disse con voce malferma ma tono deciso Catherine – ora facciamo come ha detto il Dottore. E’ la cosa migliore. E lo sai anche tu – Rose si irrigidì per il rimprovero e per come l’aveva fatto. Le era parso, nuovamente, di sentire John. Tuttavia aveva ragione.
Rose pensò che qualunque cosa stesse accadendo a Catherine Lane era davvero strana e inquietante.
Vide gli occhi lucidi della donna rivolti verso l’immagine di John che brillava nella stanza, come davvero potesse esserle di conforto in qualche modo.
 

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Capitolo 24
*** Il passato presente ***


 
L’odore era terribile. Ricordava quello degli ospedali, di tutti gli ospedali dell’universo e lui lo sapeva, anche se quei ragazzi che aveva al seguito lo ignoravano. L’aria sapeva di malattia, sapeva di conservante e disinfettante insieme. Accendendo le luci rimasero turbati dalla grandezza di quella sala ma lui no.
Lo immaginava. Catherine sapeva di qualcosa che non andava, nel reparto medico. Lo sapeva ma insieme lo ignorava. Aveva compreso che nel suo caso la questione era più complessa e si trattava di una sorta di condizionamento psicologico. La sua incongruenza esistenziale non le era stata percepibile per un periodo piuttosto lungo ma John sapeva che la condizione di Catherine era precaria.
Da tempo, nell’universo, avevano smesso di creare quel tipo di esistenze perché erano instabili, non funzionavano oppure… diventavano altro. Catherine Lane stava diventando qualcosa di imprevisto per tutti. Per la vicinanza a lui, ne era sicuro. Perché reagiva a lui; e perché lui stava reagendo a qualcosa di esterno.
Ragionando sulla cosa John era giunto all’idea che non dipendesse solo dalla rigenerazione del Dottore o dal Tardis, che effettivamente si sviluppava ad una velocità impressionante, ma a qualcos’altro che lui sentiva limpidamente anche in quel corpo umano, che forse soffriva proprio per quello. Era quell’indefinibile scricchiolare dentro che percepiva anche come suono, quel suono sordo sopra ogni cosa e che gli faceva male.
Il suono che nei suoi pensieri si sovrapponeva all’immagine di sé stesso riflesso nello specchio del sogno dove aveva incontrato Donna. Lei gli aveva detto di raggiungere al più presto il Dottore, perché qualcosa nei tempi non tornava o forse…
Tornava in un altro senso.
Quel pensiero gli fece venire i brividi. Come il ricordo del suo viso, delle sue mani e dei suoi occhi, in quello specchio. Tutto quel sangue, quei vetri. Quei vetri dentro…
… Io morirò presto…
Era questo che aveva percepito con chiarezza. Era quello che Donna aveva visto, che non aveva voluto dirgli, in lacrime.
Abbassò lo sguardo lucido sui suoi pensieri.
Era partito pieno di rabbia, era partito intenzionato a distruggere il Torchwood persino a costo della propria vita, se quel che sospettava era vero. Ma qualcosa lo stava fermando, lo stava… placando.
Ed era il pensiero di Rose, il pensiero della propria vita con lei. Ma anche il pensiero di quel che avrebbe devastato senza capire. Doveva capire, doveva quietarsi e capire.
L’aver incontrato quella squadra di ragazzi aveva fermato la tempesta prima che si abbattesse su qualcosa che anche loro stessi erano intenzionati a distruggere nella parte maligna.
Ma quale era quella parte? Tutto era terribilmente strano e confuso tranne quella che sembrava ormai una certezza: non aveva molto tempo. E il cuore gli si strinse dolorosamente, non per paura.
… Io ti lascerò presto … mi perdonerai, Rose?...
Lo pensò senza parole. Era qualcosa nei suoi sensi. Cercare di spiegare ciò che sentiva sarebbe stato come tentare di spiegare il Tempo. Non poteva. Non poteva sapere cosa lo aspettava ma il giovane spirito con gli occhi chiusi
Davanti a quello specchio… piangeva. Per lui.
Non poteva rassegnarsi alla fine, non faceva parte della sua vera natura. Avrebbe combattuto.
Ma il riflesso in quel sogno era di un uomo sconfitto.
John rivolse lo sguardo a quello che lo circondava con quasi più angoscia che rabbia ma la controllò assumendo un’espressione gelida e pensosa. Distante da tutto apparentemente.
Anche da quel gruppo di ragazzi che in realtà lo preoccupava.
-          State attenti! L’avere capacità psichiche alquanto limitate potrebbe non bastare, qua dentro – disse a voce alta.
-          Le tue considerazioni sono sempre molto gentili… – osservò il ragazzo robusto. John gli rivolse un’occhiata ambigua e uno strano mezzo sorriso.
-          Apprezza le intenzioni – John puntò il cacciavite sonico verso le luci disposte in vari punti e la stanza, per quanto possibile, si illuminò.
Ancora una volta le celle. Celle semitrasparenti, come capsule, una di seguito all’altra. Al centro delle vasche; piene di liquido alcune, vuote altre.
-          È enorme…!  – disse il ragazzo robusto.
-          Dottore… cosa sono quelle? – la voce di Lena tradiva tensione. Lui la guardò un momento.
-          Qualcosa che non avrei voluto rivedere ancora una volta – disse amaramente.
Molti tavoli di metallo e strumenti, lasciati come all’improvviso. Troppo disordine per un laboratorio, gli fu evidente da subito. Ma quelle celle erano davvero orribili. Per un momento John ripensò a quando si era recato con Rose a New Earth e poi scoperto gli orrori dietro quel perfetto ospedale.  
Ripensò a quanto era stato sconvolgente aprire quelle capsule e trovare delle persone infettate da tutte le malattie possibili. Infettate per il bene di molti altri. Ma era inaccettabile.
In quel laboratorio non avevano neanche quella sottile scusante. Il male che veniva fatto ai prigionieri aveva altri scopi. La quantità di individui usati su New Earth per la ricerca era certo maggiore ma i prigionieri in quella stanza erano in condizioni anche peggiori, se possibile. Lo si vedeva dal materiale che avvolgeva anche le capsule. L’isolante della stanza non bastava a fermare i lamenti, il dolore.
-          Probabilmente chi lavora qua dentro ha avuto mal di testa…  – mormorò inorridito. Se infatti ci si trovava al centro di un campo telepatico, si poteva percepire malessere.
Lakil gli stava stritolando le dita. Lena, accanto a loro, si guardava intorno shoccata.
Non c’era molta alternativa. Si trattava di creature che avevano catturato durante il periodo di cui gli avevano parlato i ragazzi o poco dopo. In realtà sulla Terra vivevano da sempre persone che non erano native di quel mondo. Lui per esempio.
Doveva guardare. Non avrebbe voluto ma doveva.
Si sciolse dalla mano di Lakil.
-          Non guardare… - gli sussurrò e gli fece cenno di portare via Lena. Lakil, si allontanò da lui prendendo Lena per le spalle ma il ragazzo robusto restava accanto a John – non farlo neanche tu – disse John rivolto a lui.
-          Dottore, le assicuro che ho visto delle cose orribili.
-          Mi dispiace, mi dispiace veramente – mormorò con un filo di voce – ma… non è necessario che ne aggiungi altre quindi… dammi ascolto – il ragazzo lo fissò un secondo poi annuì e si allontanò. John notò che proprio i due che facevano i coraggiosi si erano messi da parte per primi.
Doveva essere prudente. Non poteva più esporsi a contaminazioni biologiche pensando, al limite, di avere la possibilità di rigenerarsi. E tuttavia il presentimento della sua fine in modo differente lo spinse ad agire come avrebbe fatto in ogni caso e soprattutto nella sua vita precedente. Sfilò il materiale da una cella aspettandosi di essere investito da un lamento. Nulla.
Tristemente pensò che l’ospite doveva essere già morto. Aprì lentamente e con prudenza la cella che fece uno scatto sinistro. Guardò dentro. Ciò che vide lo fece visibilmente impallidire.
Perché aveva visto di tutto e nulla lo impressionava. Nulla tranne quel terribile dolore e la sua inconsapevole mancanza di rispetto verso un altro essere vivente. I suoi occhi diventarono lucidi, aveva voglia di piangere.
Dentro quella capsula i resti di qualcuno. La cui pelle era ricoperta da scaglie metalliche.
Quelle che gli erano state date per il dispositivo. Quelle con le quali aveva ricoperto un inutile oggetto che faceva da specchietto per le allodole nel suo laboratorio.
-          Ho fatto una cosa orribile… - mormorò di fronte a quei resti, inorridito – una cosa… orribile…  - abbassò lo sguardo ed esso cambiò di nuovo. La rabbia superò il dolore e stava per avere il sopravvento ma non doveva permetterlo, non poteva. Permise solo all’ombra di una lacrima di inumidire i suoi occhi ma a costo di un dolore sempre più sordo e incontrollabile.
John passò a quella vicina e la richiuse subito. L’odore era nauseante e dentro vi era della poltiglia vischiosa. Strappò furiosamente l’isolante da altre ma le trovò alcune vuote ed altre solo con dei resti dentro. Resti che conosceva, di razze che aveva incontrato nel passato remoto della sua vita.
E questo lo turbava.
Se da lì non provenivano quelle urla, da dove venivano? Le sentiva vicinissime, le sentiva presenti. Le sentiva accanto. Ma sembrava non fosse rimasto più nessuno in vita.
Iniziò a sussurrare qualcosa, come tra sé.
I ragazzi erano confusi dal suo comportamento che sembrava essere la rincorsa per altro, sembrava davvero dovesse iniziare a spaccare ogni cosa. Lo avrebbero seguito ma nessuno osava iniziare per primo. Lakil si avvicinò a John e gli mise una mano sulla spalla guardandolo con apprensione.
-          Dottore…. Le parole cosa significano…? – lui lo guardò interrogativamente.
-          Quali parole? - di che cosa parlava? Lakil però continuò a fissarlo.
Cercò di ignorare i suoi occhi blu intenso che lo attraversavano. Sentiva il suo pensiero dentro.  Un pensiero strano. Non capiva.
John rivolse gli occhi alla stanza facendo un giro su sé stesso. Le celle erano in parte spente in parte illuminate, forse quelle i cui sistemi vitali erano attivi per il mantenimento dell’individuo prigioniero della capsula contenevano ancora delle memorie, delle memorie che urlavano. Poteva anche essere questo ma non del tutto. Non era completamente vero.
La luce però era strana, si stava affievolendo.
John emise un lungo respiro. Il dolore era strano, molto strano. Quel maledetto farmaco del Torchwood …
… ma non solo.
Spalancò gli occhi sull’ombra che stava calando. Qualcosa lo stava afferrando e portando verso il buio.
…devi chiudere gli occhi…
Perse l’equilibrio e cadde in ginocchio.
Il suono aveva cambiato ritmo ed era tremendo a sentirsi dentro, come il secondo cuore che gli mancava; ma il suo corpo non lo voleva, ne sopportava uno…
E questo qualcosa stava sgretolandolo dentro come fosse diventato di gesso. E infatti John fissava un buio bianco davanti agli occhi, qualcosa che era il nulla. Il suo fiato era fumoso.
Lakil e il ragazzo robusto corsero verso di lui, John si addossò al ragazzo cercando di sollevarsi ma non ce la fece. Lo guardò allora fisso negli occhi e sussurrò qualcosa con difficoltà; lo ripeté con espressione incredula e poi Lakil e il ragazzo lo sorressero perché aveva perso i sensi.
-          Che succede, cosa succede? – gridò uno del gruppo.
-          Non lo so… ha detto qualcosa che non ho capito…!
-          Cosa?
-          Non ho capito! – disse Lakil in preda al panico.
Dentro John, come fosse una stanza vuota, delle parole risuonavano con il loro eco. Delle parole che lui stesso aveva sussurrato inconsapevolmente guardandosi intorno. Per questo Lakil l’aveva fissato stupito, per questo si era spaventato anche più di quanto non lo fosse da ciò che aleggiava in quel luogo.
Quelle parole e i suoi occhi mentre le pronunciava:
… I tuoi occhi, la sua voce…
Il Dottore era troppo debole per accorgersi di quel che stava per accadere. Ma di quanto lo fosse, il giovane alieno se ne era reso conto solo in quel momento perché il signore del Tempo, benché umano, era riuscito a nasconderglielo per non fargli avere ancora più paura.
 
**
 
… Il dispositivo di contenimento dimensionale renderà il luogo sicuro. Certo… parlo per la seconda volta, Rose. Non posso fare niente per proteggere questo mondo dal primo tentativo del Tardis…
E mi dispiace, Rose… mi dispiace davvero molto…
 
Catherine guardava l’ologramma cercando di mantenere la calma. Era ormai chiaro che quel che vedeva lei non era manifesto anche a Rose. La persona che parlava non era una ma decisamente tante. Sentiva le voci confuse, i toni variare, vedeva le ombre sovrapporsi per poi chiarirsi in istanti brevissimi. Sapeva di John. Sapeva delle rigenerazioni del Dottore ed era proprio quello che stava vedendo. Ne era sicura.
Una traccia temporale complessa. Doveva trattarsi di questo.
Il dispositivo olografico aveva registrato tutto quello che lui vi aveva inciso. Non solo le parole ma proprio ciò che aveva avuto dentro. Non era possibile, non sarebbe stato possibile. Qualcosa non quadrava, doveva esserci un’altra spiegazione. Una traccia temporale complessa non era registrabile ma percepibile solo in date condizioni. Catherine si portò una mano alla testa.
Cosa ne poteva sapere lei? Era qualcosa che una volta le aveva detto John al proposito di altro ma allora non aveva pienamente afferrato il senso della sua spiegazione. Di colpo tutto le era evidente, limpidissimo. Intanto sentiva su di sé lo sguardo inquieto di Rose Tyler e insieme il suo bisogno continuo di rassicurarla. Le faceva tenerezza. E rabbia.
Della rabbia comprendeva il motivo. La rabbia quieta che ben conosceva verso la donna del Dottore pur non riconoscendole alcuna colpa per i suoi sentimenti avversi. Ma quel desiderio di sostenerla, proteggerla e aiutarla? Era un impulso non legato solo al bene di John ma decisamente a quello di Rose. Non se ne capacitava. Neanche di riuscire a maneggiare i dispositivi costruiti da lui con tanta disinvoltura.
Rose intanto guardava la Dottoressa quasi spaventata.
Gli somigliava. Somigliava decisamente a lui. E non solo a lui. Qualcosa in lei le faceva addirittura paura. Pensò che se lei percepiva la cosa, come umana, forse l’impressione di John al riguardo era stata straordinariamente più forte. John aveva mantenuto inalterate le facoltà che erano proprie di un signore del Tempo ma il suo corpo più fragile poteva rendere le sensazioni meno sopportabili per lui.
Comprese quanta sofferenza ciò potesse dire. E che non ci pensava molto spesso, dando per scontato che lui fosse… come era sempre stato. Sicuramente l’uomo più coraggioso che avesse mai incontrato. Rose guardò l’immagine di John brillare nella stanza. Avrebbe voluto fosse lì, avrebbe voluto stringerlo. Consolarlo del dolore che vedeva riflesso in quegli occhi lucidissimi e che sentiva nella sua voce.
 
Rose, è importante che a questo punto tu non abbia paura e faccia esattamente quello che ti dico. Se sei riuscita a portare in asse l’accordatura con il dispositivo, è tutto pronto perché il percorso si orienti nella direzione giusta per il Tardis. Se accelerazione e addensamento della materia procedono secondo i miei calcoli, il momento è vicino e la ragazza…
 
Catherine e Rose sorrisero insieme sentendo come aveva chiamato il Tardis
 
…la ragazza dovrebbe trovare me. Sperando non decida di andare in esplorazione per il mondo… sempre ipotizzando che riesca a trovare proprio questo luogo tra tutti e questo momento…
Sai… ammetto di essere un po’… nervoso…
 
-          Immagina come possiamo esserlo noi – mormorò Rose e Catherine la sfiorò con lo sguardo. Incredibilmente parve farlo anche l’immagine di John, che aveva sorriso.
 
…ma sai bene che questo è bellissimo per me quindi… Allons-y!
 
…G e r o n i m o …
 
Catherine si voltò verso Rose quasi spaventata.
-          Hai detto qualcosa? – le chiese con un filo di voce.
-          Io… ?No...
-          Ma allora… - il riflesso di John era cambiato, un momento. Ma era stato, diversamente dagli altri, qualcosa di vago, sottile, meno presente al resto.
 
… Ora… tendi le corde riconfigurando la mappa e per aprire i suoi occhi tu devi solo…
 
Qualcuno improvvisamente bussò alla porta.
 
**
 
Non si svegliava. Avevano provato a scuoterlo ma non rispondeva a nessuno stimolo. Era vivo ma sembrava essere caduto in uno strano stato. Che non sembrava esattamente un sonno. Lakil aveva compreso una cosa: qualunque cosa fosse, era per il suo bene. Aveva chiaramente sentito come gli fossero stati chiusi gli occhi con più delicatezza possibile ma di prepotenza.
Era come se gli fosse stato imposto di fermarsi, di dormire.
…chiudi gli occhi…
-          Che cos’ha? – chiese rabbiosamente il capo del piccolo gruppo. Lakil, chino su di John lo ignorava tenendogli una mano sul petto. Troppo veloce. Sentiva che quel cuore umano andava troppo veloce ma lui resisteva. Resisteva in modo impossibile.
-          Che ti succede, che ti hanno fatto …? – mormorò rivolto a John. Lena e l’altro ragazzo lo guardarono sconvolti – il Dottore sta male. La temperatura del suo corpo è bassa. Troppo … bassa – mormorò Lakil scoraggiato – e qualcosa lo ha… colpito, qualcosa che ha sentito ora. Ho paura…
-          Che novità…! – disse stizzito un ragazzo del gruppo e la ragazza vicina fece un sorrisetto disgustato.
-          Ho paura davvero, è orrendo…! Al di là di quel che c’è qui, ben al di là di ogni cosa…
-          E cosa può esserci di peggio di una stanza piena di frigoriferi puzzolenti?
-          Poche cose, penso. Sono contento di non aver guardato – disse il ragazzo robusto.
-          Persone… o resti di persone… - disse Lakil – credo di essere stato qui anche io.
-          Mio Dio, Lakil … - mormorò Lena con gli occhi lucidi. Lui le rivolse una breve occhiata molto sofferta. Faceva forza su di sé per non iniziare ad urlare. Aveva moltissima rabbia in corpo, quella che il contatto con il Dottore aveva in qualche modo frenato. E lui aveva frenato la sua, lo aveva sentito.
Intanto sembrava che non vi fossero resti umani, almeno non nelle celle aperte dal Dottore e questo era un problema. Gli umani modificati dovevano essere lì o altrove. Forse con il resto.
Il governo considerava la Unit un’organizzazione terroristica. Era inizialmente nata come gruppo militare scelto, di supporto in caso di emergenza ma la minaccia aliena e l’avvento del Torchwood aveva portato i gruppi ad un attrito. Il Torchwood aveva sostenuto l’aggressione preventiva come unica difesa possibile, in un conteso di crisi. La Unit invece si era opposta all’uso che veniva fatto delle risorse extraterresti da parte della rete mondiale. Di fatto avversavano i programmi di difesa del gruppo controllato da Daniel Tashen. Ed in particolare la Unit si batteva perché Torchwood interrompesse l’esperimento con quella cosa. E perché non facesse partire la macchina-mostro, come chiamavano ormai il Tardis. Di quest’ultimo però non sapevano molto perché non era ancora chiaro come si stesse sviluppando e cosa fosse il Dottore per quella macchina. Sapevano invece della preparazione dello speciale equipaggio. Lo sapevano perché alcuni alieni erano scappati da centri di raccolta del tutto analoghi a quelli dei Cyberuomini e qualcun altro si era imbattuto in loro per quella coincidenza di fatti che qualcuno si ostinava a definire come “Caso”.
Lakil era stato prezioso per il loro piano. Prezioso che sapesse come usare molti dei materiali recuperati, che ricordasse delle scene della sua precedente vita, che avesse disegnato nei minimi particolari ogni luogo nel quale era stato torturato e con una precisione fotografica. Lakil aveva fatto, a pezzi sempre più piccoli, viaggi per più piani, ascoltato cose
Ogni singolo pezzo sensibile fino al momento in cui, estremo scarto di sé stesso, era stato gettato in mezzo agli avanzi di altro e altri.
Ma nessuno lo sapeva. Nessuno sapeva in che termini e Lakil lo aveva in parte dimenticato.
-          Lakil, tu sei stato qui… dovevano essere qui…!
-          Vi ho detto che non ricordavo esattamente… parte del mio esistente passato è stato distrutto dal dolore. Perché non mi traumatizzassi…
-          Fantastica autodifesa aliena, te la invidio – mormorò il ragazzo robusto con un sorriso ma di incoraggiamento – beh… ora però dobbiamo sperare che questo posto sia l’unico, almeno qui, e che gli altri riescano ad entrare nel pozzo di Tashen.
-          Quello mi fa ancora più paura e non so perché o forse… non posso capirlo – Lakil guardò John. La sua sensibilità particolare gli fece comprendere d’istinto che probabilmente John stava soffrendo per qualcosa legato a quel luogo sinistro che chiamavano il pozzo.
-          La Jones è stata chiarissima: entriamo, facciamo quel che dobbiamo e scappiamo. Il Dottore è stato un imprevisto.
-          Stava cercando di fare la stessa cosa.
-          Forse dovremmo dirgli che cosa sta succedendo davvero…
-          E così mandare all’aria il piano? Ormai saranno dentro – il fiato fumoso di John inquietava il ragazzo robusto che gli era accanto. Era gelido. Non c’era freddo. Era sempre più freddo.
-          Lui è… umano in parte ma non lo è… non lo è affatto – mormorò turbato e si rivolse a Lakil – cosa senti?
-          Che lui sente qualcosa di diverso da me ed è incredibile … - disse pensieroso.
-          Quale cosa? – Lena guardò Lakil turbata. Lakil strinse la mano di John, si chinò su di lui e gli sussurrò qualcosa, come avesse potuto sentirlo – Lakil, cosa…?
-          Ha sussurrato “devo chiudere gli occhi” e prima una strana frase. Io non capisco…
-          Lo hai già detto – disse l’altra ragazza con tono seccato.
-          C’è qualcosa di enorme e… rumoroso. Ora la sto ascoltando dentro di lui… - mormorò Lakil – è… molto molto forte. E lui per ora è debole.
-          Debole… - Lakil lasciò John continuando a fissarlo.
-          Cosa vuol dire, maledizione? – il ragazzo a capo del gruppo si avvicinò a loro – siamo in una situazione critica, siamo nei guai! Non possiamo stare qui a discutere su…  su quello che ha… LUI.
-          Ci ha aiutati ad arrivare fin qui! – protestò Lena e lui la guardò velenosamente.
-          Tu e il tuo ragazzo vecchio, ancora non ho capito, e anche tu – si rivolse al ragazzo robusto – cosa avete deciso di fare, comunella con questo umano-alieno che sta costruendo la macchina-mostro?
-          Non è quello che pensavamo – disse Lakil – non è una mostruosità…!
-          Ma razza di ingenui, cosa vi aspettavate che dicesse: avete ragione è una macchina che va in giro, a zonzo per i mondi ed è tutto a posto? – l’altra ragazza guardava John e gli altri con lui con un certo scoperto disprezzo – io francamente non capisco perché sia ancora vivo. Per me sarebbe morto nei corridoi.
-          Ci ha disarmati con un gesto, Sophie… - disse il ragazzo robusto – ma ti sei resa conto che quest’uomo non è un uomo comune? E lo ammetto solo perché non mi sente – aggiunse piano.
-          Proprio per questo va eliminato. Eliminiamolo ora, che non può difendersi – puntò verso di John una pistola carica e pronta a sparare – che cosa dite, ora che è umano muore come tutti noi? Muore e basta?
-          Decisamente sì… - mormorò John che aveva aperto gli occhi e li aveva rivolti verso la ragazza che appena li incrociò ebbe un tremito di indecisione e quindi abbassò l’arma con un’imprecazione, allontanandosi. John fece un sospiro e si sollevò a sedere – cosa… è successo? – chiese scompigliandosi i capelli come soprapensiero.
-          Te ne sei andato altrove per qualche minuto – disse con un sorrisetto il ragazzo robusto – ho dovuto raccoglierti o ti saresti fatto in cento pezzi.
-          Fortunatamente abbiamo te che sei una testa di ponte! – John gli rivolse un sorrisetto malefico che il ragazzo robusto ricambiò.
-          Non rispondo perché ho rispetto degli anziani – gli disse velenosamente e si guardarono un momento.   
-          Dottore… il rumore, mi dica del rumore che sente – chiese Lakil. John emise un sospiro e per un istante fissò il proprio fiato freddo. Era come prima di rigenerarsi.
Prima che si rigenerasse lui.
Era stato così sfortunato da doverlo rifare praticamente subito?...
No, non poteva essere. Non poteva sentire tutte le rigenerazioni. O sì.
-          Dottore… - insistette Lakil.
-          Non so cosa sia, che cosa senta ma so che ha qualità temporale. Per questo io lo sento e tu no. Io sono un signore del Tempo – si rimise in piedi aiutato dal ragazzo robusto. Lakil lo fissò con gli occhi spalancati.
-          Tu… tu sei un figlio di Gallifrey…? – disse in un sussurro. John lo guardò turbato.
-          Tu… conosci… Gallifrey…? – Lakil annuì visibilmente emozionato.
John si portò una mano al petto abbassando il capo. Non poteva essere. Non era possibile. Gallifrey era perduto, bloccato nella guerra del Tempo. Molti non ricordavano neanche chi fossero, i signori del Tempo. Poteva volere dire una cosa, qualcosa di inquietante e che avrebbe spiegato anche quello che vedeva in giro in quel momento e Catherine stessa, per com’era.
Il dolore però aumentava e non riuscì a trattenere un debole gemito. Ormai era lì. Doveva affrontarlo. Il dolore che lo circondava e quel qualcosa di sordo che stava fessurandogli l’anima e la coscienza.
Devi chiudere gli occhi…
John lo fece un momento. Un lungo momento ma restando in equilibrio.
Stava succedendo anche qualcos’altro.
In quel momento si accorse che il fatto di essere in un corpo umano non lo rendeva diverso da come era sempre esistito. Sentiva cosa stava accadendo. Sentiva ogni cosa.
-          Dottore… - il ragazzo robusto lo scosse un po’ ma con delicatezza – tutto… bene? – lui lo guardò e annuì.
-          Un figlio di Gallifrey tra noi – mormorava ancora Lakil guardandolo come stordito. Talmente tanto che sembrava aver allontanato le altre sensazioni e persino la paura di quel luogo, che prima lo attanagliavano.
-          Sei… molto stupito dalla cosa – disse John.
-          Siete delle leggende… - e loro lo erano per i signori del Tempo ma nell’universo che John conosceva.
-          Non dovremmo essere delle belle storie… - osservò John perplesso.
-          Siete un popolo misterioso …
-          E crudele – aggiunse come soprapensiero John. Lakil abbassò un po’ lo sguardo.
-          Qualunque cosa tu sia, sei anche umano. Come è possibile che …?
-          Io sono una metacrisi.
-          Cioè…?
-          Semplicemente me… in un corpo umano ottenuto tramite una coincidenza volontaria dello spazio e del tempo perché ciò si realizzasse in una… reazione eccezionale tra due stati biologici incompatibili, qui fusi in un paradosso – Lena sgranò gli occhi e guardò Lakil interrogativamente.
-          Saresti… ? – John alzò gli occhi spazientito.
-          Sarei una somma di cose che non devono stare insieme! Un’esistenza unica in uno stato apparentemente umano e…attualmente interessato da una difficile compensazione fisica causata dalla mia undicesima rigenerazione in un mondo parallelo e forse da qualche altra anomalia temporale di tipo artificiale  – lo disse velocemente, con gli occhi semichiusi.
Tutti lo guardavano gelati.
-          Questo… spiega molte cose – mormorò Lakil.
-          No, non spiega niente… tu cosa? – biascicò penosamente il capo del gruppo.
-          Lascia perdere – disse il ragazzo robusto guardando John – ci ha detto ancora una volta che è un caso a parte per tutto.
-          Lo sono – sorrise ironico ma solo per un breve momento.
-          Lo è – disse Lakil con un filo di voce.
-          Sapevamo che… eri diventato umano…
-          Vi siete chiesi come? – disse John tono quasi distratto.
-          Al Torchwood fanno cose strane e di te si dicono delle cose … assurde…
-          Possono rendere gli alieni umani o rendere gli umani e gli alieni dei mostri?  - John puntò lo sguardo alle celle intorno. Poi rivolse gli occhi su ciascuno di loro con un lungo sospiro e l’espressione severa – per chi siete venuti qui?
-          È una missione di soccorso – disse il capo del gruppo – una missione che…
-          Sì, sì, va bene – lo interruppe seccato John – voi… sapevate cosa andavate a cercare? Sapevate… di questo? – indicò tutto quello che li circondava – sapete cosa sono quelle cose lì in fondo – i ragazzi guardarono le vasche metalliche. Avevano delle luci puntate sopra, luci di tipo operatorio. I ragazzi sembravano a disagio, molto quello a capo del gruppo – sapete cosa sono? – chiese nuovamente.
-          No…
-          Sono vasche per la clonazione. E per il bio assemblaggio di parti. Sono… - aggrottò la fronte – vecchia, vecchissima tecnologia, a dire il vero… perché… usano queste …?
-          Dottore, sono pratiche che da noi vengono considerate avanguardistiche e pericolose – mormorò Lakil – per voi signori del Tempo sono già vecchie? - John lo fissò un lunghissimo momento. I suoi occhi cambiarono, diventarono più lucidi e poi li spalancò nuovamente attorno con aria che sembrava smarrita ma che era altro e Lakil non afferrava pienamente in che senso. E non vi riusciva perché, e lo capì incrociando il suo sguardo, lui riusciva a nascondergli i suoi pensieri.
-          Dottore…
-          Lakil, sto capendo la situazione solo ora… soltanto adesso. E mi sto scoprendo ottuso come non pensavo  – concluse John con un tono di voce sinistro – questo… è materiale del passato, tutto questo è passato…! - ed anche quel che avevano fatto a Catherine lo era.
Perché non aveva capito prima? Anche quel che Lakil aveva detto dei signori del Tempo…
Sopra ogni cosa quella sensazione e la consapevolezza di essere in certe condizioni anche per l’esposizione ad un’anomalia temporale artificiale. Questo lo aveva compreso e detto.
Ma ancora non sapeva come fosse possibile ottenerla.
Anche se vista l’epoca … poteva trattarsi…
… no. Non quello. Sperò che non fosse quello ed insieme era certo che lo fosse.
John emise un profondo respiro, nervosissimo. Anche per il freddo che sentiva e per il dolore che stava tornando ad ondate. I ragazzi della squadra lo fissavano incerti.
Lakil guardava tutto spaventato ma l’attenzione era ancora rivolta a John. Si stringeva la mano al petto senza neanche farci caso. Soffriva molto, più di quanto non potesse sentire. Glielo nascondeva e riusciva a farlo anche in quel corpo.
Lakil pensò due cose che facevano parte del suo essere di un certa razza: che chi aveva davanti era un signore del Tempo e cosa più importante aveva oltre novecento anni. Andava protetto ad ogni costo. I vecchi erano la speranza per il futuro.
Pensava questo prima che ogni cosa iniziasse a tremare.
Ed allora il rumore sordo percepito da John fu sentito da tutti chiaramente. 

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Capitolo 25
*** Io sono ***


Jackie entrò nella stanza senza aspettare che le fosse risposto e si ritrovò davanti agli occhi quello che per un istante le parve uno spettro e poi realizzò essere l’ologramma di John. Non era certo la cosa più strana che avesse avuto modo di vedere neanche in tempi recenti, visto che gli stranissimi congegni del Dottore erano spesso in giro per casa, ma rimase lo stesso interdetta. Poi rivolse lo sguardo stupito verso la figlia.
-          Rose… - esitò con preoccupazione - ma cosa sta succedendo qui?
-          Va tutto bene, mamma è… un messaggio di John – Jackie si avvicinò alla figlia e poi notò Catherine accanto a lei.
-          Lei è la dottoressa Lane…? – Catherine non ebbe modo di rispondere.
-          Mamma, mi sta aiutando…  
-          Ma… Aiutando? E cosa…?
-          Signora Tyler, John ha chiesto di fare urgentemente una cosa ed io e Rose stiamo facendo come ci ha indicato – Catherine era a disagio. Quella donna le faceva davvero una strana impressione. Diversa da quando l’aveva conosciuta. Sembrava quasi un’altra. Cercò di concentrare la mente altrove perché la distraeva.
Ma Jackie si stava agitando e Catherine pensò che le dava davvero sui nervi in quel momento.
Lo pensò anche a Rose.
-          Rose…  - insistette – dimmi che sta succedendo! Dov’è, John…? – Rose emise un sospiro e la prese per le spalle.
-          Non posso dirti tutto ora. Dobbiamo finire, è una cosa complicata ma… non dire nulla a papà, per favore. E’… importante – Jackie aveva compreso, dal tono della figlia, che il momento era delicato. Ormai anche lei aveva visto troppe cose per meravigliarsi di trovare un messaggio olografico nella stanza oppure per chiedersi cosa stesse facendo Rose per John. Ma certamente, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, se Rose le chiedeva di non dire nulla a Pete aveva le sue ottime ragioni.
-          Ero venuta a chiamarti per la cena… non pensavo di trovarvi qui, in camera da letto – aggiunse più perplessa ma guarda in giro in quella stanza, sempre un po’ disordinata, nonostante la penombra notò una catasta di oggetti strani, sicuramente quelli messi insieme dal Dottore per passatempo. Fece un sospiro preoccupato – vorrei potervi aiutare…
-          Lo farà egregiamente non facendo niente ed evitando che suo marito entri qui dentro, per ora – disse Catherine quasi soprapensiero e Jackie sgranò lo sguardo su di lei e poi su Rose chiedendole conferma di quel che le era parso evidente in modo impressionante: per un momento era parso di sentire parlare LUI.
Rose rispose alla domanda silenziosa della madre scuotendo il capo e Jackie capì che era confusa, quindi  la spinse di nuovo verso la porta con una certa decisione.
-          La dottoressa ha ragione, fai come ti ha detto…
-          Ma… - Jackie esitò ancora guardando la donna che nella penombra fissava l’immagine di John con preoccupazione e disagio ma anche altro. C’era decisamente altro in quello sguardo e lo vedeva chiaramente – Rose, senti … ma lei …? - Rose comprese che intendeva dire.
-          Lo so mamma, lo so – le sussurrò – ma il Dottore non ha fatto niente di male – Jackie la guardò ed annuì, poi aprì la porta e uscì dalla stanza.
Rose rivolse lo sguardo verso Catherine. Sua madre aveva notato un’evidenza assoluta, come la donna guardasse l’immagine del Dottore ed insieme come gli somigliasse. Ma c’era anche qualcosa ed era quello, più del resto, che la turbava. E si trattava di quello che non riusciva a capire.
-          Ti prego di credermi quando ti dico che vorrei che i miei sentimenti fossero… meno evidenti – le disse ad un tratto Catherine e Rose neanche si meravigliò di come avesse compreso quanto fosse trasparente.
-          Che lei tenga a John sinceramente è il suo bene, in questo momento – mormorò Rose e Catherine annuì.
-          Lui… - no. Rose lo sapeva. Non c’era bisogno di dirlo e non c’era altro da dire, in fondo.
Purtroppo non c’era altro.
Catherine la guardò un istante e poi premette nuovamente il tasto del congegno del Dottore. La registrazione riprese il suo corso.
 
… per aprire i suoi occhi tu devi solo…
… cantare…
 
Rose e Catherine lo guardarono con la medesima espressione con gli occhi spalancati.
-          Coooosa? – lo dissero contemporaneamente e parve davvero che John le avesse sentite perché nella registrazione sorrise divertito.
 
… adoro l’espressione che fai quando ti prendo alla sprovvista e mi dispiace davvero non essere, lì… !
Immagino la cosa ti appaia stranissima eppure è la più semplice, in questo caso.
Quando Lei mi ha suggerito come chiamarla mi ha più volte ripetuto: i tuoi occhi e la sua voce…
Ho capito che doveva vedere e dovevo aprirle io gli occhi ma…
.. LA VOCE! No, non mi è venuto subito in mente!
Eppure era la cosa più scontata, Rose!
 
-          Non direi, Dottore… - mormorò Catherine.
-          Non lo direi per niente – aggiunse Rose.
 
… Forse ci sarei arrivato prima, qualche secolo fa … sto invecchiando? Ah, forse…
anzi, sì… sto invecchiando! Fantastico…! ... anche se…
… Ad ogni modo, pensa: il carillon e la mappa dimensionale sono quel che ti ho detto e il Tardis può usare per accordarsi a questo universo, per accordarsi al tutto… qualcosa che è “dove deve essere”, ma viene da “dove dovrebbe andare”. Ma non è per questo che la tua voce è ciò che serviva, sebbene io la trovi meravigliosa… se non canti quelle cose orribili sotto la doccia…
 
… Rose Tyler…
 
la sua voce ebbe un accento così dolce che lei sorrise e Catherine sentì quella fitta nell’animo che ben conosceva.
 
… Lei ti ricorda, come tu non puoi ricordare.
E come tu sei cambiata dentro dopo aver guardato nel cuore del Tardis, per venire a prendermi … così, incredibilmente, è cambiata anche Lei. Questa ragazzina è parte di Lei e TU… sei una delle cose più sicure a cui possa aggrapparsi per venire da me perché … ti conosce dentro e forse da questo dipende anche quanto cerchi di essere umana… e non per me, come pensavo ma…
… perché lo sei tu. E lei sta cercando di salvarmi a tutti i costi perché è la cosa che sente di dover fare …
Lo sa perché lo hai fatto tu. Forse è per questo che succede.
Ed io… Io lo trovo bellissimo, Rose…
 
-          Lo è…! – sussurrò incredula Rose guardando - lo è ma… È pazzesco…! - Catherine guardò la ragazza. Non sapeva a cosa si riferisse John nel messaggio ma la cosa era assurda. Assurda in una logica umana ma decisamente comprensibile in altro senso. Anche se cominciava a pensare che non avrebbe dovuto capire nulla, come invece stava facendo in quel momento. Rose era spiazzata e la guardò, gli occhi lucidi dalla tensione e per il timore.
 
…ed ora che sai… non prendere sul serio niente di quel che ti ho detto…!
 
Le due donne impallidirono. L’immagine di John rise ma Catherine vide ancora tremolare dentro di essa qualcosa di diverso e confuso. Distolse lo sguardo tirando il fiato.
 
… no, non proprio “niente”; diciamo che non dovrai “cantare”. Basta che la tua voce risuoni sulla carta dispiegata. Hai il dispositivo di contenimento, è importante che sia attivo e ben funzionante oppure potrebbe essere un disastro, ricordatene. Controlla che funzioni correttamente… Secondo le mie ultime stime dovrebbe coprire un raggio d’azione… approssimativamente corrispondente alla Gran Bretagna e spero che basti…  
 
-          Speriamo …  – mormorò Catherine che l’aveva già preparato e attivato.
-          Perché dite “speriamo”?
-          Perché è una delle incognite, Rose –  le rispose controllando il congegno. Sembrava appena risplendere dentro, come un bicchiere di vetro vuoto in controluce.
 
… Attivato, creerà attorno al Tardis una sorta di “gabbia” … si tratta di compensare lo scarto tra la definizione della matrice in senso fisico e la sua effettiva costituzione in essere ossia… con l’aspetto che ha normalmente un Tardis e che non può assumere subito. Lei non avrà un aspetto definitivo in questa fase, penso di averlo chiarito. Sarà presente qui ed ora in una sorta di versione incompleta… la definirei persino “esplorativa”. Pochi minuti, pochissimi. Ma spero abbia già i mezzi per consentirmi di…
 
Esitò un momento ma lo aveva già detto. Era partito per il Torchwood sperando di poter essere portato fuori dal Tardis.
 
… Ad ogni modo, Rose… la mappa inizierà a ruotare e vibrare posizionandosi correttamente rispetto ad un asse teorico che poi… non è un asse, visto che si parla di un punto in dodici dimensioni differenti...
 
-          Dottore, ti odio quando fai così…! – mormorò preoccupata Rose. E Catherine la guardò con comprensione.
-          Parla troppo… - sorrise e sorrise tesa anche Rose.
 
… Questa mappa musicale va orientata con l’accordatura e perché Lei capisca cosa fare, essa avverrà tramite la tua voce. In pratica le tue corde vocali, vibrando, emetteranno una traccia tra i due universi di cui essa descrive degli estremi: un punto di partenza, che Lei conosce, e quello di arrivo. E’ un accordo, Rose. Le coordinate esistenziali di questa dimensione, per dirlo semplicemente.
Tu, qui, ora. E Me.
E quindi, Rose, ti serve una PAROLA. Non una frase, non una canzone. Basta…
Una singola parola.
Ma una parola potente, molto potente. Perché più colore avrà il tuo timbro, più la traccia sarà chiara e… poiché c’è qualcosa di umano in Lei, almeno questa reminiscenza di TE…
Lei ha bisogno di qualcosa di importante per te. Qualcosa che mi faccia trovare. Ora… pronuncia quella parola e portala da me, Rose. Perché ora… sono certo che avrò bisogno di Lei.
Cercami. Trovami.
… Fallo un’altra volta…
 
-          Va bene, John… - Rose si sfregò nervosamente le mani mentre Catherine sospendeva il messaggio – e dunque… eccoci qui – mormorò guardando con occhi sgranati il reticolo luminoso sulle loro teste. Era talmente strano cercare di seguire quel divenire di volumi uno dentro l’altro e il vibrare di quei fili che non erano tali ma sembravano corde, che Rose dovette smettere di immaginare quanto potesse essere profondo quel che osservava così in piccolo.
-          L’avevi già vista dispiegata a questo modo? – le chiese Catherine. Rose annuì.
-          Ora però devo capire il punto che…
-          L’ha calcolato lui. È questo – indicò sicura Catherine sfiorando con le dita una corda. Che vibrò e le vibrò dentro facendola irrigidire per la sorpresa ma poi sorridere. Rose la guardò con un mezzo sorriso – ma… è…!
-          Che colore ha sentito…?
-          Blu… - disse stupita – ho visto il blu…!
-          Sì, si sentono i colori ed è… una stranissima sensazione …
-          È una sinestesia procurata – precisò Catherine inclinando lo sguardo. Rose distolse l’attenzione da come guardava le cose, da come tendeva le dita verso la mappa.
Ripensò a lei e John nel laboratorio del Torchwood, quando aveva aperto la mappa del carillon la prima volta. Ripensò alle loro mani strette insieme su quella corda. A lui, che aveva sentito con lei quella nota e quel colore. Ripensò a come indicava la mappa a come i suoi occhi cercavano e trovavano l’orientamento in quel meraviglioso e complesso reticolo. E poi vide che Catherine Lane era proprio così. Come lui. LUI. Ma non solo.
Il suo mordersi le labbra soprapensiero, socchiudendo gli occhi… persino il suo sorridere con la lingua leggermente tra i denti e l'arricciare le ciocche di capelli fissando altrove.
Ebbe uno scatto istintivo e si scostò. Si scostò impaurita.
Non poteva essere.
Eppure lo era. LO ERA DECISAMENTE.
-          Oh mio Dio… - pensò ed ebbe un brivido - ecco perché tacevi su di lei, Dottore...! – di colpo Rose comprese cosa le faceva paura in Catherine Lane.
Era stata da lui il pomeriggio. E poi lui era andato via, al Torchwood.
Aveva improvvisato la cosa ma per ore e quindi fino ad un certo punto. Rose pensò che lui le aveva lasciato un incarico che difficilmente sarebbe riuscita a portare a termine da sola ma allo stesso tempo aveva parlato di Catherine, nel messaggio. E in un modo che sembrava essere piuttosto inopportuno, se pensava alla sua possibile presenza lì. Ma in certe cose il Dottore finiva per essere anche troppo spontaneo e forse, a quel punto, per lui era stato più importante spiegarle il senso del suo atteggiamento verso la dottoressa piuttosto che nascondere a quella donna qualcosa che sapeva essere ormai fin troppo evidente. Ed infatti Catherine non aveva reagito perdendo il controllo ma solo prendendo atto di ciò che già sapeva.
E questo John l’aveva certamente previsto.
Catherine Lane era in un certo modo e quindi Lui sapeva come.
Più ci pensava, più Rose ne era convinta: John era sicuro che Catherine, dopo quel pomeriggio, sarebbe tornata indietro. E che l’avrebbe aiutata.
Perché quel qualcosa di strano che anche lei ora riusciva a vedere in quella donna…
quella donna lo percepiva verso sé stessa. Per questo era tornata indietro, non per altro. Sapeva che il Dottore aveva capito e voleva una spiegazione.
Qualunque cosa fosse sottesa, nascosta dentro Catherine Lane, stava venendo fuori con prepotente evidenza. E Rose lo percepiva come terribilmente sbagliato e spaventoso.
John doveva averlo trovato addirittura agghiacciante.
Lei era come lui.
E come lei. Insieme.
 
**
 
Erano circondati e non c’era speranza di poter scappare. In realtà il piano era stato meno efficace di quanto avessero sperato, nonostante i mesi di preparazione. Avevano perso molti informatori, scoperti e poi spariti nel nulla. Avevano perso molti contatti, gli equipaggiamenti. Ormai erano rimasti in pochi, armati male e tenuti insieme dai comandanti che erano rimasti vivi o che erano diventati tali in un momento di emergenza. Lei apparteneva a quest’ultimo caso. Si era ritrovata la responsabilità del comando improvvisamente ma il suo temperamento l’aveva messa in grado di far fronte agli impegni nonostante la paura di non essere all’altezza. Ma era inesperta, purtroppo. In quel momento era quello che pensava avesse fatto la differenza tra il loro fallimento e una possibile riuscita ma non avevano avuto alternative.
La loro resistenza era stata progressivamente annientata, politicamente erano considerati ormai antagonisti del governo e delle forze di difesa. Avrebbero dovuto sciogliere l’organizzazione e perdersi nell’anonimato ma non era da coloro che erano rimasti.
In fondo sapevano che non rinunciare al proposito di cercare e trovare il pozzo, era stata una follia. Ma almeno ci avevano provato. Non sembrava abbastanza, vista la situazione e il prezzo che si apprestavano a pagare, ma Martha Jones pensò che morire con la coscienza pulita e la certezza di aver tentato di fare anche l’impossibile per fermarli, era forse meglio che sopravvivere a quel che sarebbe venuto dopo.
Intanto la piccola squadra mandata in avanscoperta non era lì.
Era riuscita a trovare i laboratori e le prigioni? Si augurava davvero che qualcuno fosse ancora vivo. Guardandosi attorno, pensò che forse quelle erano le ultime cose che avrebbero visto: le forze speciali del governo in uniforme oscura, le armi avveniristiche contro, Tashen sopra il soppalco metallico che si affacciava su quel laboratorio in cui erano stati fermati e sopra tutto e tutti … quell’orribile COSA. Che emetteva un suono insopportabile, continuo. Una vibrazione che Martha sentiva come aspirarle dentro qualcosa. La svuotava…
E faceva più paura di ogni altra cosa lì dentro. E lì fuori.
 
**
 
L’ansia faceva battere troppo veloce il suo cuore e la temperatura del suo corpo era troppo bassa, persino più di quella che avrebbe avuto nel suo corpo originale. Era insopportabile. Le dita erano rigide, i muscoli erano contratti dolorosamente. Non aveva senso stare a quel modo.
Puntò il cacciavite sonico su di sé ed esaminò i dati. Le sue labbra si strinsero con forza mentre tentava di reprimere le emozioni.
Scosse il capo con gli occhi umidi e cercò di tenere calmo il proprio respiro. Ma non vi riusciva.
Quel corpo era meno dominabile, più fragile, estremamente più insidioso.
Stava già accadendo e non se n’era accorto. Nel suo corpo da signore del Tempo avrebbe sentito cedere ogni parte singolarmente, momento per momento; saputo esattamente cosa stava accadendo. Gli umani invece morivano improvvisamente.
Maledì di aver diminuito le dosi del farmaco del Torchwood. Non avesse sentito così tanto dolore, avrebbe almeno avuto una mente più limpida e ferma, in quel momento.
-          Che cos’è questo rumore infernale! – urlò spaventato il capo del gruppo. John lo guardò con occhi lucidi e strani. Era un ragazzo ottuso, stupido e arrogante. I pensieri che stava avendo su di lui erano persino violenti, in quel momento. Non era da lui. Non era da lui da molto tempo. O forse lo era per quello che era diventato? Vide che Lakil cercava di mantenere una calma che fino ad allora non aveva avuto. Avrebbe voluto sentire che pensava ma non sentiva più niente, solo quel rumore. Lo guardava e stava ricordando frammenti di favole che non ascoltava da secoli, che erano sepolte nella sua memoria e che stavano affiorando con una chiarezza impressionante proprio in quel momento. Era straniante.
Il rumore faceva gemere tutti, entrava in testa.
Persino la luce sembrava tremare.
-          Una maledetta trivella dimensionale – mormorò con espressione tesa e voce nervosa – una… spaventosa trivella dimensionale…!
-          Cosa vuol dire, Dottore?
-          Vuol dire che in un mondo parallelo, per l’ennesima volta e in modo ancora peggiore… il Torchwood ha utilizzato in modo improprio qualcosa che ha sottratto con la forza! – quasi ringhiò per l’esasperazione e il dolore. I suoi occhi stavano diventando davvero terribili, Lakil guardandolo ebbe un brivido perché gli fu più che mai evidente che il signore del Tempo poteva essere pericoloso come non pensava, come non credeva. Lo era. A stento trattenuto da una volontà fortissima.
-          Dottore… stai…?
-          La sento dentro, la sento dentro! – gli si rivolse esasperato – quest’orrore non dovrebbe esistere da molto molto molto tempo! E a ragione…! – soffocò un gemito rabbiosamente – questa… cosa faceva enormi buchi …  - si piegò su di sé con una smorfia di dolore e il ragazzo robusto lo sostenne perché sembrava essere sul punto di crollare nuovamente a terra. Si sentì artigliare da lui quasi disperatamente e vide il suo fiato freddo fumare – sta…. sta bucando il tempo… probabilmente è arrivata qui proprio da un buco fatto altrove! Se ne sono perse parecchie in giro e questa è stata… PERSA chissà quando e loro… LA USANO, LA STANNO USANDO!
-          E’… insopportabile! – gridò quasi Lena, tenendosi una mano sul petto. John scosse il capo e alzò lo sguardo attorno. Le celle vibravano, tutto vibrava in modo sordo, cupo.
-          Dottore…!
-          Do… dobbiamo capire da dove vengono le urla – disse con sforzo aggrappandosi al ragazzo robusto - … devo… capire se…
…devi chiudere gli occhi…
Emise un gemito di sorpresa e scosse il capo.
-          Non posso…  – sussurrò come tra sé.
Quella voce nella sua testa, gentile. Insisteva.
-          Dottore… cosa…?
-          No, non puoi capire – disse rivolto al ragazzo – usciamo, seguiamo queste urla…
-          Non c’è nessuno da salvare, non c’è nessuno! – disse forte il capo del gruppo rivolto a lui e soprattutto agli altri della squadra – dichiaro la missione fallita, cerchiamo di andarcene …!
-          Io sento le urla, loro ci sono! – disse Lakil venendo avanti – non puoi abbandonare tutti, ogni cosa sarà stata inutile…
-          Se restiamo qui moriremo!
-          No… no… non succede questo – disse John faticosamente e tutti lo guardano turbati – non avete capito, non potete… capire.
-          Allora spiega, spiega! – gli urlò contro Sophie – spiega cosa sta succedendo!!!
John la fissò cercando di trattenere la rabbia, cercando di rimettersi in piedi dritto nonostante il dolore che lo attraversava dentro.
Ormai non bastava più un pensiero complesso. Non riusciva a sentire vicina neanche Rose, non in quel momento. Era su un abisso, da solo. Persino coloro che gli erano accanto gli sembravano irreali, un incubo…
… devi chiudere gli occhi, devi…
Chiuse gli occhi lentamente. Il suono fu una fitta lancinante nell’animo.
La voce animata di Sophie era come rallentata, attutita da quel che sentiva, dal gelo che lo avvolgeva. Sentì che stava per prenderlo, aspettò di esserne sfiorato e quindi raccolse tutte le sue forze. Spalancò gli occhi sulla luce, di nuovo, e riuscì a rimettersi in piedi da solo.
Fieramente dritto guardò la ragazza con occhi così bui che la fecero spaventare.
-          Stanno tornando i passati – disse con voce calma e irreale. Sembrò stranissima da sentire dopo che appena prima era stata rotta dalla sofferenza. Lo guardarono turbati, tremando quasi più per quello che per la vibrazione cupa sul fondo di tutto ma Lakil, che lo sentiva dentro, lo fissò con paura.
-          Cosa significa tutto questo…?
-          Il passato sta tornando come fosse presente. Sarà presente… alcuni passati lo sono già anche se ancora ombre ma stanno tornando indietro – li sentiva, staccarsi lentamente da sé.
Altri uomini, altre persone…
Non fece una piega quando sentì il suo cuore urlare perché al limite.
…shhh…
-          Dottore…  – il ragazzo robusto accanto a lui lo chiamò come per scuoterlo da uno stato di trance nel quale sembrava quasi perduto. Ma John era cosciente. Perfettamente.
Solo spaventosamente oltre un certo limite e non sapeva quanto avrebbe potuto resistere.
Stava cadendo. Stava cadendo senza sentirlo.
La voce gentile gli chiedeva di chiudere gli occhi ma lui non poteva.
Gli occhi del Dottore erano fissi sul tempo come buio che fissava altro buio.
E lo guardava con occhi scurissimi, con occhi gelidi, con occhi color miele, con occhi verdi…
E il buio era in tutti gli occhi che fino a quel momento il Dottore aveva avuto e già chiuso per andare oltre. Ma gli occhi scuri dell’uomo che era, sarebbero stati gli ultimi.
In ogni caso.

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Capitolo 26
*** Spazi e Tempi ***


Daniel Tashen guardava dall’alto il piccolo gruppo bloccato nel laboratorio. Nonostante sapesse bene delle condizioni della Unit, si sarebbe aspettato di catturare più persone ma evidentemente le stime sulla loro pericolosità erano state pessimistiche. Erano caduti nella loro trappola. Sapevano che il loro intento era reperire notizie sul Pozzo e possibilmente entravi, visto che era stato chiarito che quell’oggetto non sarebbe stato possibile da spostare e portare via. Avevano in mente di distruggerlo ma il Torchwood non poteva permetterlo. Era loro più grande ricchezza.
Che fosse importante lo avevano compreso da come era stato messo da parte da quella nave che erano riusciti ad abbattere solo dopo numerosi sforzi. Gli alieni avevano tentato di fuggire con l’oggetto, spostandolo all’ultimo momento su un’altra nave più piccola ma grazie al programma di difesa e le armi messe a punto, erano riusciti a catturarli.
E compreso perché fosse così importante.
Una trivella dimensionale. Cosa fosse erano riusciti a saperlo solo dopo impegnativi interrogatori con ogni mezzo a disposizione. Le potenzialità di quella cosa erano praticamente infinite. Avevano iniziato a lavorarci sopra prima che il Dottore umano accettasse l’idea di lavorare al suo progetto sul TARDIS dentro il Torchwood. La nuova prospettiva aperta prima dal suo arrivo e poi da ciò che stava accadendo negli ultimi giorni, avevano fatto ripensare all’utilità dell’oggetto in senso differente.
Il progetto iniziale di difesa si era tradotto in un piano di conquista preventiva. Anche di una nuova ricchezza. La trivella era esattamente questo: come trovare ciò di cui avevano bisogno senza muoversi. Funzionava meravigliosamente. Nei test erano riusciti a portare sulla Terra ogni cosa su cui erano stati in grado di calibrarla. Cercava ciò che le veniva chiesto e lo portava indietro.
Il Torchwood era riuscito a mettere da parte molto oro, pietre rare e una grande quantità di rottami di vario genere che la trivella riportava indietro come sottoprodotto della sua azione. Al ritmo cui stava lavorando, avevano potenzialmente in mano la possibilità di fare dell’Impero Britannico la prima forza a livello mondiale ma Tashen aveva iniziato a pensare su vasta scala. Molto più di quanto non fosse chiaro dall’inizio.
Una macchina del tempo a loro disposizione. La creazione di un equipaggio perfetto per lo scopo.
Il Dottore però stava consumandosi velocemente e quella strana nave, nascendo prima del previsto. Fece un sorriso ironico pensando a come quello strano uomo definisse quella macchina. Spesso come fosse una persona, un…bambino. In fin dei conti era decisamente meglio che stesse morendo in quello strano modo.
Se anche il Tardis fosse stato dipendente da lui in un senso che non avevano avuto modo di approfondire, visto il precipitare degli eventi, sarebbero riusciti a venire a capo del suo funzionamento. Lo avevano fatto anche per altri mezzi molto complessi, perché quella nave doveva fare eccezione? Disponevano dei migliori cervelli e della tecnologia per potenziarli. La perdita del Dottore era drammatica in questo senso. Anche appurato che non era stato possibile fare una copia stabile del suo schema sinaptico neanche con un innesto su una struttura cerebrale preesistente, sia pure in quelle condizioni.
Avrebbero ripetuto il tentativo in seguito e dopo aver risolto altri problemi più urgenti. E soprattutto quando il Tardis sarebbe stato pronto. Ma in quel momento il problema, il piccolo problema, era costituito da quella squadra di ribelli alquanto fastidiosa.
Erano patetici.
Un gruppo di giovani anche troppo giovani e vecchi troppo vecchi.
-          E così… ecco ciò che rimane dei terroristi – disse a voce alta e in quel luogo essa rimbombò, nonostante il suono cupo di fondo – davvero poco.
-          Non si permetta di definirci così – rispose Martha guardandolo con rabbia, ancora le armi puntate addosso a coloro che li tenevano sotto tiro.
-          E come dovrei definirvi, dottoressa Jones?
-          Lei conosce il mio nome? – alzò un sopracciglio inquietata ma doveva aspettarselo.
-          Prima della tragedia dei cyberuomini, lavorava con noi una dottoressa Jones molto somigliante a lei.
-          Era mia cugina. Non se ne seppe più nulla.
-          Come di molti altri, purtroppo. Ma se gente come voi ha deciso di andare contro la riorganizzazione nazionale della difesa… evidentemente la tragedia non ha insegnato nulla.
-          La smetta di strumentalizzare il dolore e la paura, Tashen – disse decisa con un sorriso amaro – la guerra preventiva non ha mai scusanti.
-          Noi ci occupiamo di difesa.
-          LaUnit  si occupava di difesa. Lo ha sempre fatto.
-          Il Torchwood è nato per disposizione della regina Vittoria, abbiamo una storia gloriosa alle spalle…
-          E un presente vergognoso! – sbottò un uomo accanto a Martha. Tashen lo fissò un lungo momento e poi gli rivolse un inquietante sorriso.
-          Simili parole proprio da chi ha tradito il suo paese per unirsi ai terroristi…
-          Voi siete dei pazzi, siete dei folli criminali! Del Torchwood riformato non è rimasto più nulla…!
-          Da sempre delle persone si prendono la responsabilità del lavoro sporco per la sicurezza e la tranquillità di tutti gli altri.
-          Nessuno riuscirebbe ad accettare quello che fate, se si sapesse!
-          Io non ne sarei sicuro, dottor Steward – disse Tashen. Martha pensò che le parole di quell’uomo si insinuavano dentro come veleno. Sarebbe stata persino tentata di riconoscergli delle ragioni, non avesse saputo il resto. Quel rumore intanto la stava tormentando e così tutti. Persino Tashen ne era disturbato. Era impossibile non esserlo.
Quando erano entrati, con lo scopo di farla saltare in aria, era immobile.
Tetra, oscura. Nell’angolo. Sembrava apparentemente un portello circolare dentro un muro. Un portello metallico dai riflessi verdastri. Sapevano dagli schemi il suo aspetto originario. Una struttura complessa, in blocco unico di forma approssimativamente tronco-conica.
-          Fermate questa orribile cosa! – disse rivolta a Tashen e lui prima sorrise, poi si mise a ridere.
-          Non la fermeremo e non la distruggeremo di certo.
-          Ma voi non avete assolutamente idea di quello che…!
-          No. Non hanno idea di cosa sia. E neanche voi – la voce ferma e bella aveva straordinariamente superato la vibrazione della mostruosa macchina. Il sorriso di Tashen morì sulle sue labbra e sebbene vi fosse poca luce, parve impallidire di colpo. Vi fu subito una certa confusione di sguardi tra coloro che li tenevano sotto tiro. La presenza di quell’uomo non era prevista.
Martha intanto aveva sollevato lo sguardo verso chi aveva parlato.
Sul parapetto opposto a quello dove si trovava Tashen, la piccola squadra che aveva inviato nei laboratori per cercare le cavie. Ebbe un evidente gesto di sollievo nel vederli tutti sani e salvi ma spalancò lo sguardo sorpreso sulla figura al centro del gruppo, quell’uomo alto e sottile che fissava ciò che aveva davanti a sé, con grandi occhi lucidi che sembravano brillare di una luce che non era in quella stanza.
-          È il Dottore! – mormorò l’uomo che le era accanto.
-          Il Dottore… chi? – chiese nervosa. L’uomo la fissò un momento, Martha comprese ed assunse un’aria smarrita mentre  lui annuiva – lui è…? Quel “Dottore”? Ma… è… giovane…!
-          No, decisamente non lo è – disse l’uomo – è più vecchio di tutti noi messi insieme.
Martha guardò il suo compagno e poi di nuovo l’uomo con attorno la sua squadra. Vide Lakil a capo scoperto e pensò che da quando lo conosceva, poche volte gli era parso così poco umano, sebbene lo sembrasse quasi del tutto ed in parte lo fosse, dopo la fusione della sua matrice con i resti umani in cui era stata buttata. Proprio quello aveva chiarito definitivamente, come sospettava il dottor Steward, che al Torchwood facessero anche esperimenti su terresti. Martha fissò gli occhi irreali del giovane alieno che brillavano ma non quanto quelli dell’uomo che aveva accanto e sul quale, notò curiosamente, teneva una mano. L’espressione del ragazzo era sconvolta mentre quella del Dottore era strana, immobile, calmissima.
La luce bluastra del laboratorio faceva sembrare così severi i lineamenti di quell’uomo ma scacciò rapidamente il pensiero che fosse davvero molto affascinante.
-          Perché ho l’impressione di averlo già incontrato? – si chiese sforzandosi di non guardarlo.
Intanto Tashen sembrava essersi ripreso dal lungo momento di perplessità che aveva causato l’arrivo del Dottore e della piccola squadra.
-          Dottor Smith… - disse con tono affabile.
-          DOTTORE – lo corresse lui con sguardo fiammeggiante. Tashen ebbe un brivido istintivo. Così tutti coloro che erano in quella stanza. Cercava di ripetersi che si trovava davanti ad un umano ma nessuno riusciva a trovare la cosa tranquillizzante. Non a giudicare dalle espressioni di tutti coloro che erano lì. Sapevano chi lui fosse.
-          Dottore... – Tashen guardò i ragazzi attorno a lui – lei non sarebbe dovuto essere qui.
-          Oh, sì… suppongo non sarei dovuto essere neanche in piedi.
-          Pensavo fosse ancora…
-          Non… ancora – disse ironico con un inquietante sorriso. Martha lo guardò stupita e poi rivolse lo sguardo a Tashen.
-          Dottore, la sua salute è al momento precaria … - disse Tashen e tutti rivolsero lo sguardo su John che rispose con una smorfia di fastidio istintiva – ma stiamo cercando… una cura.
-          Sì… immagino sia così … - Lakil tremò sentendolo dentro eppure dall’esterno parve quasi che il Dottore avesse dato ragione a Tashen.
-          Ad ogni modo lei non dovrebbe essere qui, ora – l’affermazione era stata fatta da un responsabile del laboratorio nel quale si trovavano. John inclinò il capo con un mezzo sorriso.
Ricordava di averlo visto varie volte, nel reparto medico. Lo ricordava e aveva ben presente la pessima impressione che gli faceva e quante volte si fosse chiesto per quale motivo razionale, visto che sembrava non esservene.
Forse doveva ringraziare Donna del residuo di un certo intuito femminile in lui? Il pensiero era divertente e Lakil lo fissò ancora più nervoso, perché tutto in lui era sconvolto e mescolato.
-          Dottore, come è arrivato qui? – Tashen sembrava perplesso sul da farsi e persino indeciso.
-          Avevo lasciato in laboratorio qualcosa di importante su cui lavorare – rispose ironicamente con un lampo negli occhi – loro… mi aspettavano lì – Martha tentò di dissimulare la sorpresa per le sue parole. Non poteva essere vero. Erano diretti nella direzione opposta e di quello ne era certa – tuttavia… ora che sono qui… - il suo sguardo parve spalancarsi – io… sento le urla del passato
-          Cosa…?
-          Non sapete cosa state facendo, non ne avete idea! – ripeté. I responsabili del laboratorio si guardarono confusi – state facendo funzionare un oggetto… che dovrebbe essere distrutto!
-          Non dica assurdità! – disse con un sorrisetto uno di loro. Il Dottore lo guardò severamente.
-          I miei occhi hanno davanti… la cosa peggiore che possa anche solo pensare, un signore del Tempo – disse con tono lugubre ma per un istante parve che della rabbia velasse la sua voce.
Martha però comprese che non era esattamente quello. Si trattava di sofferenza e sofferenza fisica.
Guardò interrogativamente il dottor Steward accanto a lei e lui scosse il capo come per risponderle.
Martha Jones e i suoi compagni, circondati dalle guardie e tra Tashen e il Dottore uno di fronte all’altro, sembravano diventati le comparse di una scena che poco prima aveva loro al centro come protagonisti. La Unit sapeva del Dottore e di John Smith, il Dottore umano in parte.
Sapeva del Tardis, anche se non abbastanza.
Non si era mai interessata a lui se non in modo accessorio: il pozzo era una priorità. Martha conosceva tuttavia le storie sul Dottore e si sarebbe aspettata qualcuno molto diverso da quell’uomo giovane. Sembrava solo un tipo strano. Lo pensò guardando come fosse vestito, pettinato. E si chiese, seccata con sé stessa, perché stesse ragionando su cose così ridicole in quel momento, visto che rischiavano di morire. Poi pensò che il rumore terribile del pozzo poteva renderla meno lucida.
Forse stava danneggiando il suo cervello. Represse il senso di panico che l’opzione stava già generando dentro di lei. Non era il momento neanche per quello.
Il Dottore però sembrava pensarla come loro su quell’oggetto.
-          Dottor Steward, noi pensavamo che il Dottore stesse lavorando con Tashen…
-          Sembra non sapesse di questa cosa, invece – le rispose un po’ inquieto.
-          Mi sembra sincero – osservò Martha.
-          Sinceramente preoccupato – aggiunse l’uomo guardando il Dottore.
Lakil intanto fissava John sempre più inquieto.
Il tremito del suo corpo era più forte, le sue lunghe dita si stringevano forsennatamente alle maniche del vestito, mentre teneva le braccia conserte apparentemente sereno e fermo. Il velo della sua coscienza stava appannandosi ma sentì chiaramente dentro di lui quel pensiero. Azzardato e improvvisato.
… Lakil, So che puoi farlo, l’ho sentito. Fai brillare nella mente di Martha quest’idea…
… Dottore, perché?...
… perché dobbiamo stare in mezzo agli altri e voglio provare a tirarvi fuori vivi da qua dentro…!
Sapeva perché voleva che fossero con la squadra. Glielo aveva detto e lui l’aveva guardato stupito. Lo sapeva solo lui. Era l’unica speranza.
John strinse la balaustra dalla quale si affacciava, con un lungo respiro rabbioso. Lakil si chiedeva davvero come riuscisse ancora ad avere la forza di ragionare con tanta lucidità.
Aveva ragione.
Poteva fare quel che gli aveva chiesto e non era difficile. Martha era molto recettiva, già lo sapeva. Valeva la pena tentare e poi lui era l’essere più vecchio che avesse incontrato nella sua vita, avrebbe fatto tutto quello che riteneva giusto. Lakil si concentrò su di lei e sussurrò nella sua mente quel pensiero.
Martha era confusa.
Confusa e impaurita. Non comprendeva cosa stesse succedendo ma improvvisamente guardò il gruppo dei suoi con il Dottore e Tashen dall’altro lato e le venne in mente che fosse possibile. Ed insieme che non fosse vero.
-          I miei uomini hanno catturato il vostro Dottore! – disse con il tono più convinto possibile, quasi stupita dalle sue parole. Vide che i ragazzi l’avevano fissata con sguardo stupito e infatti quell’uomo non sembrava prigioniero. Neanche lo minacciavano in alcun modo. Martha si morse le labbra come pentita di ciò che aveva appena detto. Non aveva senso.
Ma come le era potuto venire in mente di dire quelle parole?
Vide però che Tashen era rimasto confuso dalla cosa e aveva rivolto lo sguardo sul Dottore.
-          Catturato?
-          Decisamente sì – ammise il Dottore con un tirato sorriso e alzò le braccia. I ragazzi si guardarono per un breve istante, interrogativamente. Lakil però incrociò lo sguardo del ragazzo robusto il quale comprese. Puntò l’arma alle spalle di John e dopo di lui gli altri.
-          È ferito…? – gli chiese una delle guardie.
-          No. Non ancora, almeno. Non sembrano scherzare … - precisò e parve davvero convinto, di quelle parole. Ma non era lì. Non del tutto. E Lakil lo sentiva.
Tremava e la mano del giovane alieno sul suo corpo poteva sentire quanto, sia fuori che nel suo animo.
L’orrendo suono della trivella dentro il signore del tempo in parte umano. Era straziante per lui.
Sia fisicamente che oltre. Ma forse soffrire così tanto riusciva a distogliere la sua mente da quell’orrore. Ironicamente il corpo che si stava distruggendo stava proteggendo la sua coscienza.
Ma nonostante tutto e la mescolanza di ogni cosa, un pensiero riecheggiava in lui sopra ogni cosa. Un pensiero che brillava in lui come una stella ed era l’unico calore che ormai gelido sentiva, dentro.
Lakil allora sentì profondamente quanto quel vecchio signore del Tempo, in procinto di morire, stesse pensando ad una cosa, una sola e in modo così forte e disperato da seppellire ogni altra idea in quel momento, persino quella di quell’orrendo oggetto che lo stava tormentando e che stava ingoiando il presente facendo urlare il passato. Più forte della sofferenza, della paura della fine. Persino della volontà di salvare ogni cosa ma affiancato ad essa perché ne era il motivo. Lakil lo trovò bellissimo e terrificante insieme: in oltre novecento anni di vita, ciò che restava di tutto era solo l’amore per una donna. Per un’umana.
Gli occhi blu del giovane alieno diventarono più brillanti ma lucidi. Di pianto. Rivolse lo sguardo verso Lena e lei verso di lui. Era stato più fortunato. Aveva aspettato molto meno del Dottore, per incontrare qualcuno di cui innamorarsi.
Era stato sfortunato. Per salvare il Dottore avrebbe dovuto perdere ogni cosa. E lei.
Ma Lakil doveva farlo. Era nella sua natura.
… Dottore… tu…
stai morendo…
Lakil glielo disse senza parole, come ormai parlavano e vide incredibilmente le sue labbra piegarsi in uno strano sorriso.
… sì…
Ma non ora, Lakil.
 
**
 
La mappa luminosa era tesa davanti a loro, Catherine restava in attesa e Rose tremava. Tremava di paura, non poteva che ammetterlo. Qualcosa la inquietava fin nel profondo; quella donna. E quella situazione.
La dottoressa aveva detto che sperava che il dispositivo di contenimento dimensionale funzionasse. La mappa tremava, come in attesa; ma ciò che serviva, la sua voce, sembrava esserle morta in gola.
-          Dottore… perché ora? Perché tutto precipita sempre così in fretta? – gli chiese pur sapendo che non poteva risponderle.
-          Rose, dobbiamo fare in fretta! – l’urgenza nella voce della dottoressa le fece inghiottire a stento una saliva troppo densa che sembrava soffocarle quasi il respiro. Ma anche la voce della dottoressa ormai le faceva venire i brividi. Sentiva, il sottofondo della propria. Vedeva, nei suoi occhi, i propri e quelli di lui insieme. Concentrarsi su quel qualcosa che apparteneva al Dottore, la faceva un po’ calmare ma lei faceva davvero venire i brividi. Era sbagliata.
Non era però il momento di pensarci.  Doveva fare quel che John le aveva chiesto.
-          Ho paura… - mormorò e Catherine le rivolse uno sguardo che ammetteva anche la sua. Le venne vicino nell’ombra e le prese la mano. Le prese la mano e la strinse e in quel momento Rose sentì con chiarezza che sembrava lui ad averlo fatto, il Dottore. Inquietante ma in quel momento era quello di cui aveva bisogno. La sua stretta attraverso un’altra persona.
Possibile quello. Possibile anche avere il coraggio di andare a prenderlo attraverso di Lei.
-          Ragazza… vai da lui, ti prego! – sussurrò e stringendo la mano di Catherine, dimenticando per un istante che non fosse quella di John, Rose alzò lo sguardo sulla mappa.
Emise un lieve soffio e tutto parve tremolare troppo.
Rose prese respiro e Catherine invece lo trattenne quasi, al tremito che sentiva in lei.
-          John… - mormorò quasi tra sé e le corde vibrarono più forte. Rose spalancò gli occhi scuri sulla mappa che aveva reagito. Aveva reagito alla voce di Catherine. Ebbe improvvisamente più fiducia in tutto quello che non riusciva a capire. Ripensò a lui. E stranamente ripensò anche alla prima volta che si erano conosciuti, ripensò ancora una volta a colui che era prima e di cui si era innamorata. Era lì, in lui. Lui era stato anche degli uomini che non aveva conosciuto ma la stessa persona. Con un solo nome.
.. DOTTORE…
Lo disse e la sua voce non le parve abbastanza chiara ma il dispositivo reagì immediatamente emettendo una vibrazione che diventò un suono e poi parve perdersi nel nulla, forse perché da loro non più udibile.  Rose lo guardò confusa e cercò conferma nello sguardo di Catherine che continuava però a fissare la mappa. Aveva iniziato a ruotare.
-          L’avevi vista comportarsi così? – chiese a Rose.
-          No… -  il reticolo luminoso iniziò ad orientarsi al di là di qualunque direzione Rose pensava potesse esserci nello spazio. Sembrava che ogni cosa stesse perdendo il verso conosciuto per trovarne un altro. Le linee si intersecavano, univano in modo impensabile, creavano accordi e colori, nella loro mente e lo facevano come scintillassero violentemente nel buio. Era come vedere i fuochi artificiali senza che vi fossero in altro luogo se non in loro. Gli spazi si rivoltavano aprendosi in altre dimensioni, sembravano molte cose insieme.
Un’infinita tela, infiniti nodi, infinite trame di cui sembrava fatto ogni filo.
-          Rose… dillo ancora! – disse Catherine fissando tutto con una consapevolezza maggiore di quella che aveva la ragazza. Lei la strinse ancora.
-          Dottore! – ripeté Rose più convinta e a voce più alta. Il reticolo parve come tirarsi all’infinito e poi spezzarsi in microscopici pezzi che divennero polvere scintillante e poi, insieme, quasi un’aurora boreale allungata verso l’oscurità. Ogni cosa si era frantumata e d’istinto Rose pensò che continuare a respirare nel nulla era un miracolo.
A quel punto entrambe videro apparire davanti un orizzonte, qualcosa che non esisteva un attimo prima. Era una dimensione, quasi un luogo. Dal silenzio assoluto il rumore, spaventoso e fortissimo. Tutto divenne di un blu profondissimo e cupo. E fu con orrore che si resero conto che quella linea lontana si stava incurvando in qualcosa di assurdo e difficile da descrivere, qualcosa di spaventosamente alto e assurdamente simile ad un’onda di maremoto, che puntava dritta nella loro direzione e infinite altre insieme.
Rose emise un singhiozzo che non ebbe suono.
Catherine le rivolse delle parole che non si sentirono.
Forse qualcosa si era spezzato, forse il contenimento non era riuscito.
Guardò Catherine con terrore e lei le rivolse uno sguardo disperato.
Furono travolte, come tutto, troppo spaventate persino per urlare. Ma davanti a quella cosa spaventosamente grande e terrificante, Catherine la prese tra le braccia e la strinse a sé e Rose chiuse gli occhi.
Era la fine.
 
**
 
I ragazzi avevano scortato il Dottore nel gruppo che fronteggiava Tashen e le squadre pronte ad attaccarli. La situazione era sospesa, in stallo. La mente del Dottore però girava vorticosamente su sé stessa cercando di mantenere la calma. Da sotto, dove ora si trovava, fissava la cupa imponenza di quel mostro che avevano definito il pozzo. Lo chiamavano così perché vi avevano tirato fuori di tutto. Non stentava a crederci. Ma nessuno di coloro che era in quella stanza poteva capire cosa proveniva da quel che tornava indietro da loro. Ne era scosso. Ne sarebbe stato scosso in ogni caso ma nelle sue condizioni non iniziare ad urlare era già al di là di quel che avrebbe potuto pensare di riuscire a fare. La trivella.
Non era qualcosa che avrebbe mai pensato di ritrovarsi davanti e soprattutto in funzione. Erano dei folli. Gli impulsi violenti che sentiva dentro, erano a stento trattenuti da una ragione che però gli sembrava sempre più disperata e meno lucida.
Il suono di quella cosa orrenda intanto, si era fatto più cupo e più lento. John aveva notato come stesse facendosi più profondo, perché era proprio una questione di dimensioni che raggiungeva oltre, rallentando. Correva disperatamente il suo cuore, invece. Non erano deboli, gli umani. Erano spaventosamente forti. Fu un pensiero che lo fece sorridere. La maggior parte dei suoi compagni di viaggio erano stati umani, doveva sapere che fossero così resistenti. Ma ciò nonostante, qualcosa gli diceva che era la sua mente a tenere ancora in piedi quel corpo. La sua mente e l’aiuto di Lakil.
Lakil lo teneva per un braccio, non lo lasciava.
Il giovane alieno si ripeteva che doveva resistere.
Ancora un po’ e non sapeva fino a quando ma doveva resistere. Eppure il Dottore stava cedendo ed era inevitabile. Lakil aveva paura. Più paura di lui.
 
Le armi erano puntate su di loro, Tashen era perplesso sul da farsi.
Eliminare il Dottore sarebbe stata la cosa più saggia e fossero stati soli, lo avrebbe fatto fare. Un conflitto a fuoco sarebbe stata un’ottima scusa. Ma le guardie erano rinforzi esterni al Torchwood e John Smith non era un terrorista e non era assolutamente d’accordo con la Unit.
Assottigliò gli occhi.
A meno che il suo ritorno in laboratorio non volesse dire altro. Era però altamente improbabile.
-          Dottore, il dispositivo cui lavorava è ancora al suo posto? – chiese impensierito.
-          Sì… sono così stupidi e malmessi che per la fretta lo hanno ignorato – fece un sorriso ironico. I ragazzi dovettero trattenersi dal rispondere sarcasticamente a parte i soliti due, che d’istinto strinsero più forte le armi.
-          Voglio scaricartela addosso da quando ti ho visto – mormorò Sophia.
-          Lo so – rispose freddamente John, senza guardarla.
Martha Jones alla fine l’aveva avuto vicino e non poteva smettere di guardarlo. Lui era il Dottore.
Era alto e la sua corporatura leggera, ma ciò nonostante sembrava imponente. La cosa però che la colpì più di lui in quel momento, a parte gli occhi profondissimi, fu quel respiro ansante, la percezione assoluta che quell’uomo fosse sfinito e in piedi per qualche strano mistero e molta forza di volontà.
-          Dottore, lei sta male…  – non poté trattenersi dall’osservarlo. Era pur sempre un medico. Lo vide sorridere e sorridere quasi dolcemente prima di guardarla con occhi febbricitanti.
-          Non preoccuparti per me, Martha…  - le disse con un tono strano, indefinibile che però la fece irrigidire d’istinto. Sapeva il suo nome. Il Dottore sapeva come si chiamava. Cosa poteva dire?
Il suo sguardo ansioso non incrociò quello del dottor Steward, anche lui evidentemente colpito dalle condizioni fisiche di quell’uomo.
John fece di tutto per non farsi ancora distrarre dalla presenza di Martha Jones, lì e in quel momento.
Poteva esserci chiunque altro ed invece c’era lei. Entrando, l’aveva vista subito e pensato che davvero le coincidenze erano troppe, continue e che forse, ancora una volta, avevano a che fare con l’assoluta necessità che dovesse accadere qualcosa. Infondo la stessa metacrisi era stata decisa a quel modo, da ragioni incomprensibili ma che davvero sembrava fossero urgenti e impossibili da ignorare per il resto dell’universo.
Dovevano esserci.
Era tutto troppo complesso perché fosse casuale. Doveva essere causale. Se non fosse stato così doloroso, in quel momento, se ne sarebbe meravigliato con piacere. Adorava le coincidenze inesistenti costituite dalle piccole incongruenze che rendevano possibile l’esistenza di una parvenza di perfezione agli occhi di tutti. Erano quelle cose che avvolgevano l’esistenza del mistero che aveva sempre rincorso, tutta la vita.
Una vita lunghissima…
... una vita che era la somma delle vite di uomini diversi e che ora continuava altrove senza di lui.
Mai come in quel momento si era sentito la somma singolare del suo passato.
Sapeva da cosa dipendeva quel senso di distacco: la trivella.
Socchiuse gli occhi e Lakil lo sostenne più forte. Martha Jones gli rivolse un’occhiata preoccupata, nonostante il contesto.
Ad un tratto lo strano strumento del Dottore iniziò a lampeggiare e Lakil vide le sue lunghe dita stringerlo in uno scatto disperato. Poi il fischio.
Fu così acuto che superò ogni altro rumore e costrinse tutti a chinarsi storditi, coprendosi le orecchie. Tutti tranne lui e John Smith che parve improvvisamente svegliarsi da quel sofferto torpore di quegli ultimi momenti, spalancando gli occhi su qualcosa che nessuno vedeva.
-          Dottore! E’ la trivella? – chiese Lakil guardandosi spaventato attorno.
-          No… è LEI…  - gli rispose il Dottore con tono spezzato dall’emozione – sta arrivando! Lei… sta… arrivando…! – gridò con espressione quasi incredula. Lakil sentiva quanto fosse forte quell’emozione e vide che si era portato la mano al petto con una breve smorfia di dolore, subito represso. Il dolore si irradiava fino alla spalla e per tutto il braccio sinistro. John sapeva, sentiva chiaramente cosa stava succedendo.
Ma sorrise di meraviglia estrema e di gioia, con gli occhi lucidi come specchi, quando sopra ogni cosa, anche il rumore sordo della trivella, si sentì quel suono.
Quel suono meraviglioso, quel lungo soffio che era il suo respiro.
Chiuse gli occhi sfinito ma sorridendo.
-          Rose… ce l’hai fatta… - sussurrò quasi tra sé – ce l’hai fatta…!
Il cupo suono della trivella parve farsi più forte.
… Pochi minuti, potrà materializzarsi per pochi minuti la prima volta…
Rivolse all’improvviso lo sguardo al pozzo e dopo qualche istante la sua espressione diventò improvvisamente di terrore, si portò le mani al viso e poi tra i capelli ed emise un gemito di disperazione alzando gli occhi lucidi.
Tutti sembravano essere ancora disorientati, storditi. Lo era anche lui, visto che non ci aveva pensato subito.
John guardò Lakil ma senza la forza di dire una parola.
La trivella dimensionale era in funzione ed aveva raggiunto una profondità. Ma temporale e questo non lo aveva compreso nessuno, tranne lui.
La trivella apriva buchi nelle dimensioni ma soprattutto nel tempo passato.
Spazio e tempo erano le variabili che servivano al Tardis per materializzarsi lì e in quel momento.
La trivella rendeva tutto più instabile.
Fluttuava ogni cosa, lo percepiva nonostante il suo stato.
A quel punto non sapeva, neanche teoricamente, cosa poteva succedere.
 
 
 
 

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Capitolo 27
*** Umanità ***


Il tempo precipitava. Lo sentiva, lo sentiva crollare contro i sigilli degli universi paralleli, contro quei muri che dovevano separarli. I muri dei mondi si rompevano a rallentatore nella sua mente, davanti ai suoi occhi. Schegge, schegge di istanti che esplodevano nella realtà colpendo le cose in modo che nessuno poteva vedere ma lui sì. E davvero sembrava di trovarsi al centro di un’esplosione lenta, silenziosa, ma di qualcosa di tagliente, qualcosa che lo stava aprendo dentro e ogni trasparentissimo coccio di tempo scheggiava la realtà roteando nell’aria che respiravano. Bruciava, tagliava. Si chinò su sé stesso con un cupo gemito, uno tra i tanti attorno. Il dolore era terribile, viscerale. Il suo respiro irregolare ormai, gli occhi spalancati su un disastro che stava avvenendo in tutti i tempi possibili e impossibili. E proprio lì, il suo cuore si stava arrendendo, lo sentiva. Lakil lo fissava inorridito da ciò che sentiva in lui, ma tutti gli altri continuavano a tenersi le mani sulle orecchie ad urlare frasi confuse attorno. Nessuno però riusciva più a tenere sotto tiro l’altro. Unico vantaggio, pensò, reprimendo il dolore mentre la mano che aveva riportato sul braccio si stringeva contemporaneamente al suo piegare il capo a denti stretti.
Cosa poteva fare?
Pensa, Dottore. Pensa…!
Se lo imponeva. Doveva farlo. Pensare e rivoltare il pensiero. Rivoltare ogni cosa, ancora una volta. L’ultima.
Niente era andato come credeva.
Ogni cosa si era distorta in un evento che non avrebbe potuto prevedere in alcun modo. E se prima si era recato in quei laboratori per scoprire cosa venisse fatto agli alieni in quel luogo, convinto di aver modo di stabilizzare il primo ingresso del Tardis nella loro dimensione e sfruttarlo per uscire da là dentro, alla fine si era ritrovato in qualcosa di molto più complicato di quanto credesse.
La piccola squadra alla ricerca dei compagni di Lakil o comunque di alieni prigionieri; il resto della Unit impegnata invece nella distruzione di quella cosa orribile, forse la vera responsabile dello stato dei muri che avrebbero dovuto sigillare ogni mondo per separarlo dall’altro. Lui aveva subito la rigenerazione del suo sé stesso con due cuori, il suo corpo, un complesso paradosso genetico, si era scompensato per qualche misterioso motivo che non gli era ancora chiaro e il Tardis aveva accelerato il suo sviluppo stimolato dal disturbo spazio dimensionale, probabilmente. E però sapeva, avrebbe detto per istinto, che Lei aveva fretta di nascere per salvarlo; misterioso anche quello ma era ciò che Lei gli aveva detto.
E insieme detto che non lo aveva salvato.
Tutto ciò che stava accadendo era dovuto a quello ma ben prima che l’azione fosse presente. Incontrare in un sogno Donna Noble, la Donna unita a lui del tutto e davvero, e vedere il suo passato e il futuro distorcersi in altre possibilità che non erano state, dipendevano da una trivellazione temporale che stava accadendo in quel momento e non prima. Il tempo cambiava in continuazione, confondendosi.
Erano… cose. Forse iniziava a capire il senso delle parole usate da Lei.
Ormai la sua ira sovrastava il dolore, come quando si era recato lì ma decisamente in uno stato migliore. Quella cosa lo stava dilaniando ma stava facendo a pezzi Lei e non sapeva come salvarla. Non capiva come fare.
La trivella scavava, inesorabile. Aveva raggiunto un’altra dimensione e contemporaneamente ecco arrivare il Tardis da altrove. Da un altrove che neanche il Dottore sapeva dove fosse, probabilmente oltre tutto e allo stesso tempo dentro tutto.
Aveva allevato una creatura misteriosa e potente. Un nuovo Tardis non nasceva da millenni. Un nuovo Tardis stava per aprire gli occhi; ed essere distrutto da quella mostruosità. Guardò attorno, tutti continuavano a mettere le mani sulle orecchie, a fissare attorno ogni cosa che sembrava davvero muoversi per un vento improvviso, quello che quel soffio, quel respiro, smuoveva sempre attorno.
Ma ad un tratto lo sentì cambiare, diventare più sordo, più lento. Tremò.
Cosa poteva fare? Come impedire quel disastro? Come fermare quel mostro?
La trivella stava risucchiando il Tardis in una dimensione alternativa in chissà quale tempo?
Il Dottore ascoltava il suo respiro umano come non fosse il proprio ma lo era. Ansimava, era troppo breve, non gli bastava. Cercò un sostegno ma non c’era e si mise dritto con le ultime forze, ancora una volta, gli occhi lucidi che vagavano nervosamente ovunque mentre quella cosa stava spaccando le sue ossa, tutte le sue ossa e anche quello che aveva dentro.
Scintillava? L’anima era una polvere che scintillava nel nulla? Non credeva all’anima, ma qualunque cosa lo tenesse in piedi stava riducendosi a quel modo. Sabbia in una clessidra dal vetro crepato, clessidra che aveva misurato tanti tempi per molto tempo.
Ma si scosse dalla tentazione dell’abbandono. La conosceva, la conosceva per come l’avesse abbracciato sull’orlo dell’abisso appena un attimo prima di caderci dentro. Non conosceva la Morte invece.
Ma l’aveva avuta addosso nove volte. Tutte diverse. Non doveva chiudere gli occhi.
Ma aprirli fino in fondo.
Guardò Tashen stravolto e si accorse che stava indicando qualcosa in modo urgente, fuori di sé dalla rabbia ed era evidente. Era certamente un ordine ad uno degli uomini che gli erano accanto. Seguì uno di loro spostarsi verso una griglia di comando lì vicino, dove vide una leva accanto ad un cilindro trasparente. L’uomo la tirò con forza e John sentì quella cosa rallentare e il suono del Tardis diventare più acuto, strano.
-          Ti prego… resisti! – mormorò. Guardò la strana bottoniera accanto a quell’oggetto trasparente e comprese che sebbene in senso diverso, si trattava di un altro dispositivo di contenimento, un altro oggetto “alieno” che funzionava analogamente a quello da lui progettato, forse; o per lo meno per uno scopo similare: contenere una distorsione spaziale e circoscriverla in un luogo. Ma non era sicuro e decisamente antiquato, come tutta la tecnologia che usavano senza capire.
-          Stanno fermando la trivella! – urlò Steward e John lo fissò stravolto. Lo afferrò con una forza impressionante. L’uomo quasi gemette.
-          Ditemi con che cosa pensavate di fermarla! – gli chiese quasi strattonandolo. Sconvolto dalla situazione ma anche da quello sguardo, Steward ebbe un momento di esitazione che il Dottore lesse nei suoi occhi – me lo dica, si fidi di me … non c’è tempo! – urlò.
Steward non ebbe la forza di dire una parola e preso dalla giacca un oggetto lo porse a John che lo guardò un breve momento e poi lo fece scivolare nella tasca del cappotto. Lui e Steward si scambiarono un’occhiata che non ebbe bisogno di parole.
Il suono intanto continuava e diventò più forte. Stava accadendo, davanti ai loro occhi..
Ma capì subito che non era come pensava, quel che si stava materializzando era...
Silenzio. Nulla. Il soffio cessò di colpo e lui si sentì piegare le gambe. Lakil lo sostenne prontamente e Martha Jones fece la stessa cosa.
Nonostante tutto anche lei non lo aveva perso di vista un istante. John la fissò con un certo stupore perché lei era un’estranea addirittura e non sapendo chi lui fosse avrebbe avuto ottime ragioni per considerarlo anche un nemico. Ma non era così. Non per la donna che lo stava guardando con apprensione.
Ancora una volta, come per Donna, gli universi non sembravano divisi così profondamente come pensavano i signori del Tempo. I loro occhi si incontrarono un lunghissimo momento. Forse sentiva di conoscerlo, almeno in qualche modo. Ma non sarebbe dovuto accadere, non aveva senso.
Non erano uniti da nulla se non da una serie di eventi che lì si erano svolti in modo differente. E tuttavia anche lei, pur senza averlo incontrato, era entrata nella Unit. Era un soldato. Lo era nell’anima, prima che viaggiare con lui glielo avesse rivelato con chiarezza. E di nuovo, sebbene in senso diverso, il Dottore vide in lei l’ombra della possibilità di quel qualcosa che era diventato complicato tra loro. Lo scintillio nei suoi occhi neri lo ammise. Martha Jones lo guardava come se in qualche assurdo modo lo avesse ritrovato e non incontrato la prima volta. E di nuovo, in lei, quel senso di protezione che aveva sempre avuto verso di lui. La sua meravigliosa Martha era la stessa, anche lì. Le sorrise istintivamente, nonostante il dolore e lei lo ricambiò turbata.
Gli uomini vicini sembravano ancora storditi ma John vide che sollevando lo sguardo tutti guardavano nella stessa direzione. Il Dottore alzò gli occhi scuri davanti a sé e Martha e Lakil sentirono il tremito che lo aveva scosso.
Al centro della stanza, vicino a dove si trovava la squadra della Unit, uno strano oggetto. Grande. Sembrava una sorta di…
No. Non lo sembra. Lo era. Davanti a loro si era materializzata una console, un tipo che conosceva benissimo. Una console nuda. Spoglia. Spenta. Vuota.
…Vuota…
Pensò ad un osso. E gemette.
Lakil sentì dentro di lui sorgere una disperazione senza limiti, spalancarsi nel suo animo l’abisso scuro della perdita. Era decisamente quella. Una morte.
-          Dottore… ma cosa…?
-          Chi e non cosa. Era … Lei – sussurrò dolorosamente e Lakil lo strinse più forte, come per sostenerlo dentro. Ma non serviva, una marea buia giungeva da quel dolore disperato ed intenso.
-          “Era”…? – Martha e il dottor Steward, che si era intanto avvicinato a loro, fissavano quello strano oggetto turbati. Lei però rivolse gli occhi su di lui e vide che erano lucidi. Di pianto. L’uomo che sentiva tremare era provato emotivamente da quello che loro fissavano con indifferente incoscienza. Lo notò anche il suo compagno ed entrambi si scambiarono un’occhiata preoccupata.
-          Dottore, non capisco…  – chiese Steward.
-          Non può farlo. Non potete… - la sua voce tremava sull’esitare di un fiato troppo breve ma anche per il pianto che frenava - Era … una bambina… - aggiunse piano e Steward guardò il Dottore e poi quello strano oggetto, sembrava quello, decisamente confuso – era l’ultima della sua specie, antica e gloriosa. E quella cosa  - pronunciò la parola con odio - l’ha uccisa mentre nasceva… –  abbassò il capo e dopo due respiri più profondi, John lasciò chi lo sosteneva e lentamente si avvicinò a ciò che sembrava qualcosa di incompleto, lasciato in sospeso. Tutti gli occhi erano sul Dottore e lui parve risoluto, sicuro. Nonostante fosse sfinito e disperato.
Il bianco tagliente del materiale di cui era costituito scintillava anche in quella luce bassa. Tese una mano e la poggiò delicatamente su quel triste resto di qualcosa che non aveva avuto modo di esistere. Lo accarezzò quindi e in quel momento si sentì mancare. Cadde quasi in ginocchio ma stringendo i denti si sorresse a quella che sarebbe stata una console. Lo era. La console del suo Tardis.
-          Mi dispiace, piccola … mi dispiace … - le sussurrò come potesse sentirlo – non sono riuscito a proteggerti, non sono riuscito a fare quel che mi hai chiesto… - sentì un colpo fortissimo dentro e si chinò sulla console stringendola, disperatamente, per non gridare. Un lungo momento. Uno degli ultimi – … sembra proprio che anche questo… strano signore del Tempo stia morendo. Ma prima deve fare una cosa. Io devo… - disse l’ultima parola con rabbia e fu l’unica che qualcuno sentì. Martha fece per andare verso di lui ma Lakil la fermò scuotendo il capo. John quindi sollevò lo sguardo verso dove si trovava Tashen che con gli altri guardava quella cosa apparsa dal nulla con perplessità e una certa agitazione – voi…  - quasi ringhiò, la sua bella voce piegata nel tono più cupo che avesse mai avuto - con la vostra stupida ignoranza di uomini, avete… ucciso una creatura bellissima!
Tashen assottigliò gli occhi freddissimi e la piega delle sue labbra divenne una smorfia. Gli uomini accanto a lui si scambiarono occhiate inquiete e mezze parole.
-          Oh sì, sì…! – disse il Dottore fissandoli con occhi sbarrati, aprendo le braccia indicando la console  – decisamente è quello che pensate o meglio: lo era. L’avete perduta. Anni di lavoro, quasi sul punto di averla ed invece… l’avete persa per sempre – scosse il capo abbassando lo sguardo, un terribile sorriso – stupido vecchio Dottore…  - rise e tutti pensarono che fosse tremendo sentire quella risata in quel momento. Più di qualcuno rabbrividì perché quell’uomo faceva paura e la faceva a tutti solo con la sua presenza – mi sono fidato di voi. Mi sono fidato e non avrei dovuto. Troppo… confuso, lo ammetto! Mi sono ritrovato in parte umano e  sono rimasto stravolto, da questa nuova vita. Ho sbagliato. Tragicamente ma… - sollevò gli occhi fiammeggianti verso di loro – io rimedio sempre ai miei errori.
-          Dottore, lei sta…
-          Oh, non provate a dire altre idiozie, non a a me! Non ora – disse tagliente interrompendo le parole di uno degli uomini di Tashen – siete stati peggio che incoscienti, siete dei criminali della peggior specie. Siete degli incapaci…! – disse furioso - avete riportato indietro della spazzatura, della tecnologia pessima, sorpassata… distrutta perché pericolosa!
-          Utile! Straordinariamente utile per il nostro progresso.
-          E che tipo di progresso mette in conto questo? Avete preso della gente e l’avete rinchiusa qua dentro per fare esperimenti. Esperimenti su delle… persone.
-          Erano alieni e ostili! – disse un altro uomo accanto a Tashen e altri annuirono. Il Dottore sorrise ancora. Un sorriso con un’ombra di follia. Martha gemette di paura e Lakil la strinse ma continuando a fissarlo, gli occhi sempre più blu.
-          Alieni e ostili. Ovviamente. E gli umani, i vostri simili? Erano solo… ostili? – Tashen si irrigidì. Allora lo sapeva. Si chiese come l’avesse capito, forse la squadra con cui era entrato non lo stava minacciando ma accompagnando. Era certo che non avesse contatti con la Unit però, i controlli su di lui erano continui ma allora come? Poi gli venne in mente una cosa e questo lo fece preoccupare più di ogni altra cosa, anche se non lo avrebbe mai ammesso: quell’uomo era il Dottore. Lo era davvero e del tutto.
-          Non abbiamo mai toccato un umano – disse Tashen con tono sicuro – noi proteggiamo l’umanità.
-          Voi avete fatto a pezzi anche umani! – gridò Lakil rabbiosamente – ed io ne sono la prova vivente! – molti si guardarono confusi. John sorrise a Lakil e annuì.
-          Cosa vuol dire? – qualcuno lo chiese, non si capì chi. Ma era uno di coloro che avevano contro, la voce era stata un’eco.
-          Un alieno è diventato in parte umano perché ha generato un nuovo corpo da dna umano dopo essere stato gettato via con altri resti. Nella rete di riciclo dei rifiuti, non è vero? E… dove è successo, dove sei diventato quel che sei, Lakil…? – gli occhi oscuri del Dottore si alzarono di nuovo verso chi aveva davanti – provate a chiederglielo perché quel ragazzo ha una storia orribile da raccontare ed in parte l’ha dimenticata perché non sarebbe potuto vivere, sarebbe diventato un pazzo. Eppure… - sorrise – lui non è tornato indietro qui per vendicarsi, no. Ma per cercare gli altri. E quali altri c’erano, chi sono… chi erano?
-          Maledetto… perché non sei già morto? – si chiese con odio Tashen fissando John fieramente in piedi davanti a lui e tutti. La mano scivolò sulla pistola che portava sotto la giacca. La sentì, presente e fredda. Sarebbe stato bello sparargli. Lo desiderava. Credeva il Dottore utile quanto pericoloso. Si sbagliava. Che vivesse era ormai privo di significato. Ucciderlo. Sarebbe stato persino piacevole. Ma non poteva, non davanti alle forze di Governo inviate per far fronte a quell’emergenza speciale. Erano legate al Torchwood, che godeva di ogni sostegno ma non fino all’omicidio a sangue freddo di un uomo disarmato. Lo era davvero, nonostante il momento. Fece un mezzo sorriso. Cosa credeva di poter fare, senza neanche un’arma con cui minacciarli? Tashen Cercò di controllarsi. La perdita del Tardis era una tragedia ma in quel momento era preoccupato da quel pazzo che non temeva neanche un esercito contro – Dottore… lei non era qui per caso, non è vero? – John fissò Tashen disgustato.
-          Non sono per caso mai da nessuna parte. Anche le volte in cui sono convinto di sì – lo disse dolorosamente. Perché in fondo era sempre stato così, nei suoi viaggi con Lei. Lei…
Andava vendicata. Andavano vendicati tutti coloro che aveva sofferto ed erano morti, a causa di quella gente.
-          Lei è un traditore, Dottore – il Dottore sorrise e fu terribile.
-          Mi è stato già detto. Molto tempo fa. E forse in un certo senso era vero. Beh… signori, parlavate di alieni ostili? Io sono alieno e ora molto ostile, nei vostri confronti – il Dottore li fissò e parve poterlo fare con ciascuno di loro singolarmente. Tashen vide più di qualcuno indietreggiare per non incrociare quello sguardo, spaventoso. 
-          Il Tardis quindi è perduto…?
-          E’ MORTA! – gridò John, gli occhi sempre più neri – il Tardis è morto del tutto, morto per sempre. UCCISA. Ma non invano – fece un lungo respiro, il dolore era intollerabile. John si rivolse a coloro che vestivano la divisa delle forze speciali del Governo. Li guardò severamente, come fossero poveri ragazzini del tutto all’oscuro degli effetti delle loro azioni e infatti accennò ad un lieve sorriso come fosse di comprensione. Più di qualcuno ne fu stupito – non siate complici della fine del vostro mondo. Potete scegliere, si può sempre scegliere. Fino alla fine.
-          Non dategli ascolto! – gridò Tashen – la cattura era una messinscena! Il dottor Smith era ovviamente un infiltrato della Unit…
-          Avrei voluto esserlo…! – ringhiò John portandosi una mano alla spalla e stringendo il braccio molto forte. Martha notò il gesto. Quadrava con tutto il resto, con il fiato corto, il pallore, l’aria sfinita e i mancamenti. Il Dottore stava avendo un infarto. Di nuovo pensò di muoversi verso di lui e di nuovo Lakil la fermò, senza toccarla.
-          E’ inutile, sta morendo… - le sussurrò e lei sgranò gli occhi su quell’uomo che continuava a combattere, nonostante tutto. Che era così ostinato, giunto alla fine. Non si arrendeva. Era pazzo e coraggioso.
-          Dottore… ! - gemette piano e Steward la guardò un momento, stupito dalla sua espressione e dal tono che aveva usato per pronunciare quella parola.
Davvero non lo conosceva? Non sembrava. Lui la conosceva certamente, l’aveva chiamata per nome.
Ma non era il momento di chiedersi come fosse possibile. Troppe cose non avrebbero dovuto esserlo.   
-          Potete scegliere come farvi ricordare – continuò John imperterrito, nonostante stesse diventando evidente a tutti che soffriva molto – potete scegliere e scegliete la cosa giusta! Siete in un luogo dove questa gente ha commesso delle atrocità che non riuscireste neanche a concepire, mi auguro. E capisco, io lo capisco, che voi possiate avere paura o persino odiare coloro che vengono da altrove, per quel che è stato fatto a qualcuno dei vostri cari. Avete…paura. E’ giusto e anche saggio, averla – gli mancò il fiato per finire la frase che si ruppe. Più di qualcuno lo fissava perplesso mentre cercava di prendere respiro a testa bassa, le armi che dovevano essere puntate non lo erano più contro nessuno. Lo stavano ascoltando e il Dottore se ne accorse e sorrise - la violenza non è la soluzione alla paura, non è da voi. Voi umani siete coraggiosi, impavidi, pazzi. Rifiutate questa violenza preventiva. E’ vigliacca è atroce! Non è rivolta verso chi vi ha fatto del male ma verso persone come voi. Io… sono un signore del Tempo ma ora, almeno in parte… io sono come voi. Lo sono – annuì - ed è la prima volta che lo ammetto – abbassò lo sguardo e sorrise dolorosamente al pensiero, ancora una volta, di Rose, della sua compagna, di colei che amava ed era umana, di colei che stava lasciando – in futuro potreste amare qualcuno che non è nato sul vostro stesso mondo e amarlo come non pensavate possibile – disse a voce più bassa – io… vengo da un altro universo, e in quell’universo, in futuro, voi umani sarete grandi, sarete ovunque! Viaggerete, abiterete in altri mondi, cambierete… vi evolverete e vi unirete a molti di coloro che vi è chiesto di combattere senza conoscere. Non fatelo… - disse con sforzo – e non fatelo per chi non ha esitato ad usare anche umani, per i suoi sporchi scopi, non è vero, Tashen?
Martha si accorse che Lakil era teso, soffriva. Fu stupita dal sentirlo gemere. Lakil ignorò la domanda nei suoi occhi.  Il momento era sempre più vicino e lui aveva paura. Lui e non il Dottore.
Il Dottore si stava chiedendo se la donna che amava stesse bene, se fosse ancora al sicuro nella sua casa.
… per quanto resterai con me…?
… per sempre…
Lakil non riuscì a trattenere le lacrime. Iniziò a piangere. Martha ed altri lo fissarono sconvolti da una reazione così violenta. Ignoravano tutti chi fosse; tranne i suoi compagni, che lo avevano saputo dal Dottore. Un bambino. Impaurito e stravolto. E se Sofia ed il capo della squadra di salvataggio di cui aveva fatto parte non lo degnarono che della solita occhiata ironica e spazientita, il ragazzo robusto e Lena, che lo guardava da lontano restare sempre vicino al Dottore, ebbero un brivido e compresero misteriosamente che quelle lacrime avevano un senso profondo.
Lena lo sentì ad un tratto, come lui glielo avesse in qualche modo confessato sottovoce: Lakil piangeva anche per loro due. Abbassò l’arma che stringeva a sé forsennatamente, dopo essersi ripresa dallo stordimento, l’arma che teneva in mano per paura di quel che sarebbe successo, per paura di ogni cosa; non aveva mai sparato se non contro un bersaglio. Eppure in quel momento qualcosa superò ogni altro timore. Ciò che temeva di più era perderlo. Ne fu certa.
Gli si avvicinò quindi e lo strinse a sé con un gesto risoluto, strano per lei. Lo strinse forte ma Lakil non riusciva neanche a toccarla. Le sue braccia erano tese e stringeva i pugni perché si sentiva incapace di muovere un muscolo, terrorizzato da quello che avrebbe dovuto fare.
Condannato.
Il Dottore era condannato. E lo era anche lui.
Non poteva però lasciare che tutto finisse a quel modo. Non lì, non in quel momento.
Intanto le parole di John non avevano lasciato indifferenti gli uomini venuti a dare man forte alla sicurezza del Torchwood. Forse l’umanità, anche in quel tempo e in quel mondo, non era così marcia.
Non poteva esserlo, pensò il Dottore mentre il dolore lo distraeva dal resto.
-          Davvero sono stati uccisi anche degli umani? – chiese un ragazzo più giovane in uniforme scura. I suoi compagni lo fissarono annuendo. La domanda era di tutti. Volevano sentirlo ancora, di nuovo.
Il Dottore si era stancamente addossato al resto di quella console a testa bassa. Non disse una parola, la mano sul petto, ripiegato su sé stesso.
-          Sono menzogne! – insistette Tashen.
-          Non vedete in che stato si trova quest’uomo? Probabilmente è stato drogato, manipolato… ! – disse uno degli uomini in camice.
-          Anche questo, dopo tutto? – rise sarcastico John – oh no… Sono decisamente in me, per vostra sfortuna!
-          Gli esperimenti non hanno risparmiato esseri umani che erano… di altro avviso rispetto ai rapporti con gli alieni! – insistette Martha.
-          È la verità! – disse il ragazzo robusto che si era fatto più avanti – la sporca verità. Il nostro compagno, Lakil, dimostra che vi erano umani qui!
- E' un alieno! Non credere ad alieno! - disse una voce insistente dal gruppo di Tashen.
-          Allora credete a me. Ero … umana. Prima – un’altra voce su tutte. Il ragazzo robusto accigliò la fronte stupito. Una voce vicina. John si irrigidì e sollevò gli occhi nella sua direzione ma ansioso, il viso contratto dal dolore e dalla disperazione.
… Rose… ?
-          Rose…! – gemette. La vide. La vide e si irrigidì.
Era vicina al cilindro trasparente. Si chiese come fosse possibile. Come fosse arrivata lì…
e poi emise un singhiozzo di stupore. Lei intanto lo guardava, come ci fosse solo lui. I capelli biondi spettinati, l’espressione stravolta. I suoi grandi occhi puntati su John … neri.
-          Dottore… - lo chiamò dolcemente.
-          Rose… - sussurrò lui sfinito. Martha e gli altri videro che piangeva. Lakil si scosse e lasciò Lena per guardare quella donna. La donna del Dottore.
Poi sentì il signore Tempo, sentì che pensava. Capì, unico in quel luogo e in quel momento. E spalancò gli occhi inorridito.
-          Io non sono Rose. Non solo. Non del tutto – disse la donna con la voce che lui conosceva, quella che le aveva chiesto di usare per svegliare il Tardis. La voce di Rose. Ma se avesse potuto guardarla negli occhi, avrebbe visto abissi scuri. Non quelli della donna che era prima e non quelli di colei cui somigliava, ma quelli che John Smith guardava ogni giorno nel suo riflesso e in tutti i suoi riflessi dentro quegli occhi.
Vecchi, scuri. Gli occhi di un signore del Tempo.
-          Dottoressa Lane, lei è qui? – Tashen la guardava stupito e inquitato insieme. Perché non era più la donna che conosceva. E così anche altri accanto a lui.
Lei faceva paura.
E proprio come fosse il Dottore lei ne sorrise e incrociò le braccia.
Stranamente in quell’attimo parve cambiare e somigliava terribilmente all’uomo che si sorreggeva a quell’oggetto apparso dal nulla.
-          Temo che la donna che conoscevate non esista più, ormai – per un istante il suo accento fu lugubre poi un altro sorriso, quasi irreale in quella situazione, strafottente - allora, spiego io ai gentili signori che cos’è una chimera?

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Capitolo 28
*** Un ultimo respiro ***


Il rumore era stato terrificante, come quello di un tuono. Ogni cosa si era scossa, Jackie aveva visto e sentito tremare l’albero di Natale ed un lunghissimo brivido aveva percorso la sua schiena mentre, tenendo in braccio la bambina divertita da quel tintinnio di campanelli e cristalli, si scostava da esso con sincera paura fino ad indietreggiare e uscire dalla stanza correndo. Pete invece aveva sentito la vibrazione quando si trovava in un salotto accanto allo studio quindi aveva accigliato la fronte perplesso cercando di capirne l’origine.
Non da fuori, come pensava. Arrivava dal piano di sopra.
Pensò subito a Rose. A quella cosa che John aveva lasciato per Catherine e che lei era tornata indietro per andare a prendere. O forse no; qualcosa l’aveva lasciato molto perplesso. In ogni caso il rumore aveva attraversato ogni cosa, ogni persona, ogni oggetto nella casa e forse non solo. Non era stato doloroso ma si era sentito toccare fin dentro. Eppure tutto sembrava intatto.
Dopo un istante di comprensibile stordimento il pensiero di Rose aveva superato tutti gli altri. Il suono l’aveva scosso in vari sensi ma stava bene. Ma lei e la dottoressa?
Attraversò le stanze in fretta, quasi travolgendo un paio di cameriere, e poi si trovò ai piedi dello scalone che portava al piano di sopra, all’appartamento di Rose e John. Anche Jackie era lì. Si scambiarono un’occhiata nervosa.
  • Pete! – gemette con gli occhi sbarrati nei suoi.
  • Stai qui – disse cercando di usare un tono rassicurante e corse velocemente su per le scale.
Gli parvero fatte di troppi gradini, troppa strada. Chiamò a gran voce Rose e la dottoressa Lane, spalancò tutte le stanze guardandosi attorno allarmato e per ultima, quella in cui riteneva più improbabile si trovassero entrambe. Non si chiese nulla in quel momento, aprì e basta. E quel che vide gli spezzò il fiato.
Rose giaceva a terra. Gli occhi chiusi, rannicchiata su un fianco, la testa nascosta tra le mani come per ripararsi da qualcosa.
  • Rose… - la chiamò con un filo di voce e si chinò su di lei sfiorando le sue spalle, accarezzandola. Non rispondeva. Sembrava fredda, rigida. Cercò con lo sguardo l’altra donna che doveva essere con lei. Non era lì. Ma non importava, non in quel momento. Pensava solo a Rose. Sentì il suo cuore stringersi, aprirsi un buco nero in petto. Sua figlia. Sua. Figlia. Pete Tyler lo sentì una volta per tutte, lo ammise e con quello anche tutto il male che le aveva fatto pensando fosse necessario. Che cosa era successo? Aveva a che fare con il rumore che avevano sentito, era possibile ma qualsiasi ragionamento sembrava fermarsi davanti a ciò che era lì. Rose. La guardò con occhi fissi e lucidi. Poi la scosse chiamandola per nome, con urgenza crescente. Lei taceva. La prese quindi tra le braccia, rabbrividendo per il suo abbandono. Fissò il suo viso pallido, la accarezzò con dolcezza, la stessa che aveva per Liz e fu allora che la vide bambina, sebbene non l’avesse mai vista e non lo fosse mai stata, con lui.
  • Lei è tua figlia, Pete… - le parole del Dottore. La sua voce nella testa.
Lui dov’era? Perché non era lì? Iniziava ad essere tardi, troppo tardi.
… troppo tardi…
  • Rose…! Ti prego, svegliati! – gemette scuotendola e stringendola a sé – ti prego, Rose…!
 
**
…Rose…
Il Dottore gemette il suo nome cercando di tenersi in piedi, dritto, le mani tremanti poggiate sui resti di quella console morta. E intanto la voce di Catherine Lane. Che non era la sua, non del tutto. Era quella di Rose ma il tono decisamente di un altro, colui che vedeva allo specchio ogni volta che si guardava e che lo guardava con gli stessi occhi che aveva quella donna.
Una chimera. Ecco come definire quello che era diventata Catherine Lane. Non aveva bisogno di guardarsi attorno per capire la perplessità di tutti a quelle parole, non sapevano che significasse; non ne avevano viste altre. Era evidente anche la confusione di coloro che l’avevano trasformata. Lo trovò terribile, come la loro incoscienza.
  • La prima impressione che ebbi di te, quando ti vidi, fu strana – disse il Dottore guardando Catherine Lane – ma le mie percezioni erano confuse, io… umano in parte per la prima volta – sorrise appena, amaramente - ricordi che ti dissi?
  • Mi chiedesti se fossi un clone… - lui annuì.
  • Ed invece…
  • Sono una chimera… - in quel momento la donna aveva gli occhi di un antico signore del Tempo severamente angosciato, a stento sulla soglia dell’ira. Il suo sguardo terribile incrociò quello di coloro che sapevano e divenne ancora peggiore – con quella pessima tecnologia, datata, insufficiente – disse disgustata - avete tentato di riprodurre il Dottore…! Ma non ci siete riusciti e non avete capito neanche il perché - quasi rise - quest’uomo è in condizioni diverse da chiunque altro nell'universo: è una metacrisi, uno stato teoricamente impossibile; lui è unico – Martha fissò spiazzata John. Non sapeva cosa volesse dire ma d’istinto non aveva difficoltà ad accettare il concetto di quanto meno improbabile, per quell’uomo – Ed anche con me! Chiaramente, non potevate che fallire.
  • Avrebbero fallito in ogni caso: la tua condizione… si degrada facilmente – mormorò il Dottore.
  • È vero… - annuì Catherine.
  • Perché fare una cosa simile? – chiese uno di coloro che sembrava essere al comando.
  • Perché il Tardis è una nave spaziale complicata da pilotare ma che ha bisogno di una guida: un signore del Tempo – disse John con tono solenne e poi sorrise – in realtà potrebbe manovrarla anche un umano, sapesse come fare, ma in questa fase Lei ha bisogno di una mente più complicata e forte e soprattutto di qualcuno che la senta dentro.
  • Avete capito subito che controllarlo sarebbe stato impossibile ma soprattutto quando tutto ha iniziato a correre e cambiare, avete preso coscienza che il Dottore era legato al Tardis e che io non avrei potuto sostituirlo come pensavate – Catherine scosse il capo – e così, in me… avete potenziato la traccia di Lei, perché io fossi irresistibile per lui, attraente. Perché tentassi di controllarlo senza volerlo… senza volerlo, John – lui le sorrise tristemente. Lo sapeva – perdonami…
  • Sei solo una vittima.
  • Non del tutto…
  • Può darsi ma hai sofferto abbastanza – disse deciso e poi spostò lo sguardo su Tashen e i suoi - usare Rose Tyler! – mormorò con odio – anche solo per questo io non potrei mai perdonarvi, mai. Ma… - sorrise – come spesso avviene, qualcosa è andato per un verso imprevisto: non avevate considerato che anche per Catherine, come per me, tutto ha iniziato ad andare più… veloce – John la fissò ancora – troppo signore del Tempo, sebbene per un terzo appena.
  • Mio Dio…! – gemette Steward inorridito – ma cosa avete fatto?
  • Semplicemente, dal loro punto di vista, usato nuova tecnologia, vero? Avete stravolto la natura e la natura non si fa dire cosa fare, mai.
  • Ma allora che cosa è stato di… lei? – chiese Martha. Catherine le rivolse un irreale sorriso ma tacque.
  • Rose, Rose! – ringhiò furioso John Smith - ma davvero pensavate che io non avrei capito? Pensavate che io fossi diventato cieco e sordo? Oh, no… non io. NON IO! – mormorò con un sinistro bagliore negli occhi.
Catherine era Rose. Abbastanza da sentirlo fisicamente ma non solo. Quando l’aveva stretta accanto a sé aveva cercato e trovato su di lei quel qualcosa che lo aveva fatto spaventare e riempito di rabbia. La colonna saldata, la traccia della “creazione” in Lei. E quel suo essere sempre più simile alla donna che amava e che era dentro di lei, mescolata a lui in un terribile stato mutevole e precario.
  • Le chimere non hanno una lunga vita – disse freddamente la donna con gli occhi da signore del Tempo – e il fenomeno della camaleontizzazione è dannoso per la coesione della struttura biologica in modo preoccupante. Ogni volta che si manifesta è in intensità maggiore e non senza conseguenze.
  • A cosa si riferisce? – chiese Martha allarmata.
  • Ad un terribile stato di cose che tende a trasformare la persona e ciò avviene in modo progressivo – rispose John – Catherine è sempre più…
  • Sono sempre più Lei e te. E attratta da te…  - il Dottore abbassò lo sguardo mentre lei gli sorrideva con occhi lucidi. Martha accigliò la fronte. Era necessario dirlo in quel momento? E perché la infastidiva? Si chiese come facesse a provare quella sensazione per un uomo appena conosciuto eppure più lo guardava più qualcosa dentro sembrava muoversi e sembrava riguardare un tempo
… che non era lì…  
  • Rose… - sussurrò dolcemente il Dottore guardandola – è… osceno, non avrei mai pensato di potermi trovare di nuovo davanti qualcosa del genere io speravo di no…  - sospirò amaramente scuotendo il capo. La indicò a gli altri, con un gesto stanco, le labbra piegate in un’espressione rabbiosamente infelice – ecco quindi Lei, come è ora. Non più umana, mai più sé stessa. Rose, adesso che la guardo. Tuttavia la parte più forte che la costituisce e che prende il sopravvento, se sono lontano, è quella presa DA ME ed ora …
  • Io sono il Dottore – disse lugubre Catherine e tutti la guardarono sconvolti.
  • Ma com’è possibile? – si chiese Martha in un gemito.
  • Pessima tecnologa aliena usata malamente e senza alcuna coscienza – mormorò John con evidente disprezzo – sono così stupidi che non comprenderebbero l’errore neanche fra cinquecento anni!
  • Hanno usato anche umani per i loro esperimenti – erano le parole che più di qualcuno attorno iniziava a dire. Questo più di altro li stava inorridendo e il Dottore pensò che fosse crudele ma sufficiente, dato il momento. E sebbene non vi fosse altra prova di quel che dicevano, a parte la presenza di quella donna, in quel momento nessuno se la sentiva di dubitare di quel che lei e il Dottore avevano loro spiegato. Gli occhi di lei non erano umani e lei stessa cambiava, davanti ai loro occhi, in modo che percepivano profondamente sebbene non riguardasse qualcosa di apparente. Si resero tutti conto che quel qualcosa riguardava il loro istinto. Sentivano che l’uomo che chiamavano il Dottore non era umano. Lo sentivano anche per Catherine Lane.
E John si chiese come mai tutte le sensazioni fossero così amplificate. Era irreale.
Colpa della trivella? No, non era quello, non c’entrava nulla con le sensazioni. Accigliò la fronte a quel pensiero ma il dolore lo distraeva e così la rabbia per tutto, anche per la morte imminente.
Aveva paura. Paura come mai.
  • Siete delle stupide scimmie! – mormorò il Dottore a denti stretti. Si irrigidì tirandosi più su, lasciando il suo sostegno per rivolgere gli occhi in quelli della donna che sembrava sovrastare ogni cosa là dentro. Non era poi strano che fosse così: lei era il Dottore. Almeno in quel momento.
  • Ma quando lei ricambiò il suo sguardo con i medesimi occhi, essi cambiarono e lei di nuovo.
  • Dottore… - lo chiamò con la voce di Rose e per un istante lui socchiuse gli occhi come l’avesse toccato. Avrebbe voluto; non aveva molto tempo. Ma lei non era lì. Non completamente.
Perché era in quella donna. E lei era Lui, Rose e forse ancora sé stessa, insieme.
  • Catherine…  - la chiamò a voce più alta ma con gentilezza, tradendo il suo dispiacere perché era quello; la compativa ed era quello che l’aveva spinto lì, l’aveva portato in quel luogo a morire, alla fine – Catherine Lane…
  • John… - sentì che gli aveva risposto come lei. Rose lo chiamava sempre Dottore in quei momenti. Ma la dottoressa lo aveva conosciuto con quel nome. Questo gli diede una scintilla di coraggio in più, per quel che doveva fare.
  • Tu ricordi ancora di essere… Catherine? – molti in quella stanza si scambiarono occhiate confuse e persino Tashen parve avere un’esitazione, nella sua espressione immobile e irrealmente calma, pur nella furia crescente che provava verso il Dottore.
  • Io lo sono – disse la donna indecisa – ma non solo. E… non sono più umana.
  • Sì… lo so. Non del tutto – mormorò il Dottore abbassando appena lo sguardo.
  • Che cosa vuol dire? – chiese spontaneamente Martha e fu per tutti. John la fissò un lungo momento.
  • Che lei era morta – gli rispose con tono lugubre e nella stanza calò il gelo. Fece un respiro indeciso portandosi la mano al petto e stringendola forte, soffocando un lamento. Lakil abbassò lo sguardo; piangeva ancora. Il Dottore guardò il bambino alieno con un breve e faticoso sorriso, perché lui comprendeva il dolore. Ma doveva farsi forza, ne aveva bisogno – coloro che avete combattuto …  i cybermen … lasciarono incomplete molte trasformazioni. Parecchi… non erano stati migliorati. Molti morirono ma qualcuno fu trovato ancora vivo. E tra le cose terribili arrivate qui con quella…. mostruosità – ringhiò – c’era… anche una cosa, una… tecnologia in grado di creare qualcosa di nuovo da ciò che era rimasto – guardò con occhi fermi ma lucidissimi la donna che non riusciva a smettere di fissare con ansia l’uomo che amava. E che in parte era – Catherine… se ti avessi trovata io, ti avrei addormentata – le disse tristemente.
  • Lo so… 
  • Non potevi essere… salvata. Non sei stata, salvata – concluse con percepibile angoscia ma più di ogni altra cosa fu evidente che il dolore fisico ormai lo stava straziando.
Con una mano tremante allentò ancora la cravatta, non riusciva a respirare. Non gli bastava l’aria e quella che prendeva sembrava un coltello nei polmoni. La mano ricadde ai lati del busto mentre lui socchiudeva gli occhi addossandosi nuovamente alla console. Catherine Lane lo fissava con angosciata pena e così Martha e coloro che erano stati con lui: Lakil, Lena, il ragazzo robusto. Tutti vedevano il Dottore umanamente a corto di fiato.
  • Hai rovinato ogni cosa, dannato alieno… ogni cosa…! – mormorò tra i denti Tashen. Intanto lui e coloro che gli erano vicini si stavano scambiando gesti e mezze parole dal tono urgente. Il Dottore li osservava.
Sapeva leggere le labbra ed aveva capito cosa intendevano fare. Nella sua mente si susseguivano a velocità impressionante vari pensieri: Dove si trovavano gli alieni che la squadra di salvataggio erano andati a recuperare? C’erano altre chimere? Di che tipo? Se ciò di cui si stava parlando fosse andato oltre le mura di quell’edificio, il Governo avrebbe chiesto spiegazioni e non potevano certo permettersi di far uscire quel marciume. Ma la rete di riciclaggio dei rifiuti del Torchwood era perfetta. Aveva persino contribuito ad ottimizzarla personalmente.
Certo l’ingresso di Catherine aveva sorpreso tutti come la materializzazione della console scheletrita. Fece un sospiro ma neanche un battito di ciglia per quegli occhi le cui pupille si muovevano nervosamente come leggendo qualcosa di invisibile per gli altri.
Doveva riuscire a fare una contromossa ma non aveva nessuna idea.
Catherine certamente stava pensando la stessa cosa. Al momento le era Lui ed era il meglio che potesse sperare in fondo. Il pensiero di Rose però lo tormentava: che era stato di lei? Come era arrivata Catherine lì e proprio in quel particolare momento?
  • Cosa può essere accaduto…? – continuava a chiedersi ricacciando il dolore e facendosi bastare a stento un fiato sempre più corto.
Fissò il cilindro trasparente accanto a Catherine Lane e sfiorò appena la tasca dove aveva fatto scivolare quello che il dottor Steward aveva preparato per fermare definitivamente la trivella. Si trattava di una pessima idea sicuramente e grossolana. Ma non pareva fosse in condizioni di improvvisare di meglio. Sarebbero morti tutti. Non trovava la cosa tragica per sé, non aveva molto tempo, ma il pensiero di sacrificare chi era lì lo amareggiava. A parte Tashen e il suo branco di pericolosi idioti.
Se aveva capito dal rapido sguardo nella confusione, il dispositivo di Steward presupponeva quell’opzione dall’inizio e quindi Martha e compagni si erano recati lì per una missione potenzialmente suicida. Il piccolo gruppo che aveva incontrato, invece, avrebbe dovuto salvare chi Lakil credeva di riuscire a trovare ma niente era andato come doveva. E sinceramente si chiese per l’ennesima volta come avrebbe potuto funzionare, essendo il piano alquanto stupido e Torchwood decisamente troppo protetto per quel piccolissimo gruppo di persone che in quel parallelo definiva sé stesso UNIT.
Avevano però tutta la sua simpatia istintiva in fondo per tutta la vita si era ritrovato in situazioni paradossali e spesso da solo contro eserciti interi.
  • Che sia quindi una buona morte, Dottore – pensò e gli venne in mente che la volta in cui l’aveva detto, si era ritrovato i dalek schierati davanti, la prospettiva dell’annientamento dell’umanità come certezza assoluta e la persona che riteneva più importante, rispedita indietro in un tempo lontanissimo. Rose. Lei. Ora la amava consapevolmente, era un altro uomo. Avevano vissuto quel che aveva desiderato ardentemente, seppur per un brevissimo periodo in fondo. Pensò che lo avrebbe odiato, perché era andato a morire. Pensò che sarebbe rimasta sola ma viva.
Pensò che tutto il dolore che stava provando valeva la pena, per quel che aveva potuto avere.
E tutto quello che pensò, lo sentì Lakil, strozzato dall’angoscia estrema.
Tutti coloro che erano in quell’edificio sarebbero stati scaraventati con esso in una frazione temporale parallela, dove teoricamente Steward pensava di poter spedire quella cosa mostruosa. Tuttavia qualcosa non quadrava. Non tanto nella scelta, alla fine, quanto nella situazione.
La trivella aveva fessurato le dimensioni anche in senso temporale, come non sapevano e non capivano, e quindi la sacca era di fatto come fisicamente instabile in troppi sensi. Ebbe un gesto di stizza che nessuno comprese e strinse ancora più forte la sua giacca ma ad un tratto di accorse di qualcosa.
Fece un respiro e guardò le sue mani. Con espressione vagamente stordita ne sollevò una davanti a sé come sfiorando qualcosa di invisibile, le lunghe dita ad accarezzare il vuoto apparente mentre i suoi occhi si aprivano di più e sembravano ancora più grandi.
Martha e gli altri notarono il suo gesto scambiandosi occhiate interrogative, Lakil invece sollevò il capo e lo fissò. I suoi occhi diventarono più profondi e terribilmente blu. Il Dottore parve toccare qualcosa, la fronte accigliata, quindi spalancò lo sguardo schiudendo le labbra come volesse dire qualcosa e qualcosa sussurrò ma pianissimo e sorrise stranamente, un istante appena. Poi mise giù la mano cercando di controllare l’emozione ma Lakil emise un gemito di sorpresa che tutti percepirono.
  • Lakil… - accennò Lena.
  • Mi nasconde i suoi pensieri. Non completamente ma li nasconde…  - disse piano. Gli occhi di John furono in quelli di Lakil un lungo momento poi si spostarono nuovamente su Catherine Lane, irrealmente immobile apparentemente ma che Lakil percepiva in modo netto, quando lei era LUI.
Il Dottore sorrise ancora, stavolta scopertamente e come divertito. Ma era anche un sorridere alla fine e questo Lakil lo percepiva nettamente. Intanto Tashen faceva sempre più fatica a trattenere la mano dal prendere la pistola. Cosa aspettava a morire? Guardò nervosamente in direzione della dottoressa Lane.
La trivella era stata fermata e si era materializzato quel resto che apparteneva alla nave del Dottore.
Inutile. Totalmente. Lui.
Cosa fare di coloro che si trovavano lì era la preoccupazione di Tashen.
Perché ora avrebbero dovuto eliminare tutta la gente presente perché non fosse aperta un’inchiesta.
Un incidente allora. Quell’uomo aveva rovinato i piani.
La trivella avrebbe aperto la fessura che controllavano con il dispositivo di contenimento e semplicemente inghiottito la piccola squadra di terroristi. I rinforzi alla fine sarebbero stati anche inutili ma avrebbero certo riferito dalla cosa in modo diverso, se non ci fosse stato quell’alieno.
IL DOTTORE.
  • Cosa hai in mente, maledetto? – pensò fissandolo con occhi sempre più freddi. Intanto un uomo gli si avvicinò in modo circospetto informandolo che le comunicazioni con l’esterno erano interrotte e quindi non potevano eseguire l’ordine che aveva dato ossia di mandare una squadra a casa di Pete Tyler per prendere lui e la figlia – com’è possibile? Nessuno dei nostri mezzi alternativi…?
  • Signore, di fatto è come fossimo…
  • Isolati e solo qui – la voce del Dottore completò la frase, Tashen lo fissò stupito e John fece un sorriso e un segno sulle labbra per far capire che aveva seguito il loro discorso da lontano – nessun udito particolarmente sviluppato, neanche prima – puntualizzò – e tuttavia mi sono rimaste le medesime percezioni che hanno sempre caratterizzato i sensi di un signore del Tempo tra cui… beh, l’accorgermi di questo – tese la mano e l’aria attorno parve vibrare. Tutti fissarono la scena interdetti, il dottor Steward preoccupato più degli altri.
  • È un indebolimento del tessuto della realtà… !
  • No… no – il Dottore accennò a ridere e Tashen si irrigidì ulteriormente – è una cosa molto più… divertente. Certo, per merito di questi idioti la realtà è stata danneggiata, fessurata… per colpa di quella dannata cosa tutto è in uno stato precario ma quello di cui ho preso atto ora è qualcosa di inaspettato e ben più eccezionale di un semplice danno … - rivolse gli occhi a Catherine Lane e comprese che lei lo sapeva. Ed era il motivo per cui lei era lì e non lo era Rose.
Il Tardis aveva preso Rose e il Dottore insieme. Catherine, quindi. Eppure anche Rose era nel Tardis. Tutti erano nel Tardis.
Un’entità metasolida che si sviluppa per teoriche dodici dimensioni, definisce concretamente sé stessa per la prima volta a seconda delle condizioni dell’universo in cui ciò avviene. La densità strutturale della materia di prova potrebbe qualificarsi in modo differentemente concreto a causa del dispiegarsi delle dimensioni interne verso l’esterno…
  • Pareti sottilissime, invisibili ma reali – disse con voce debole ma tono trionfante – signori, siamo nel Tardis. TUTTI – mormorò con un sorriso – tutta la Gran Bretagna, in realtà! – rivolse loro un sorriso sofferente ma allegro e Lakil spalancò lo sguardo su di lui, ancora umido di pianto e terrorizzato, non riuscendo però a trattenere un accenno al riso.
  • Ma aveva detto che…!
  • Sì, lo avevo detto, io dico sempre molte cose…  – zittì seccato uno degli uomini di Tashen e poi rivolse a Tashen in particolare un sorriso un po’ folle – ma non avevo considerato il fatto che il dispositivo di contenimento che avevo previsto per la sua materializzazione era settato per un ampio raggio d’azione… molto ampio. Ero molto preoccupato, molto davvero, per la sua prima materializzazione avrebbe potuto… - cercò la parola un istante, sollevando lo sguardo -  sì… rompere la realtà, danneggiarla ma… il Tardis ha fatto diversamente da quanto credessi: ha dispiegato le dimensioni…
  • Cosa? – si lasciò sfuggire Steward.
  • Ci sta proteggendo! Presumevo sarebbe stata ovvia la materializzazione per qualche minuto, in uno stato indefinito magari, pensavo molto piccolo ma… è ovvio che Lei è molto più complessa e cosciente di quanto io stesso ipotizzassi… avessi il tempo me ne scuserei, con… Lei, intendo…  – rise appena, scuotendo il capo, ma una mano artigliò di scatto il cappotto che indossava e strinse i denti con un gemito.
“… oh, è bellissimo… è viva, Lei è viva ma come farà senza di me…?”  Lakil sentì il suo pensiero e la sua angoscia ma troppo mista alla felicità che almeno Lei potesse salvarsi dal disastro. Almeno Lei.
  • Allora il Tardis non è andato distrutto! – Tashen lo fissò incredulo e rivolse lo sguardo a quell’oggetto materializzato al centro – ma quella console, quella…
  • Lei mi parla…  - mormorò – mi parla dolcemente, ha paura di farmi male… oh, povero signore del Tempo così vecchio e malridotto, pensa…  - rise amaramente, con sofferenza – ma… C’è una parola che mi ha ripetuto più volte, che mi ha detto in continuazione – il Dottore sollevò lo sguardo lucido verso chi aveva davanti ma puntando Tashen – sono solo… COSE…
  • Non ha senso!
  • Non è necessario che ne abbia, è una bambina… ! Ha lasciato incompleto il puzzle, non ha finito il disegno, non ha concluso ciò che aveva intenzione di fare ed ora… ho capito, ti ho capita… - disse con un sorriso  - perché… ecco, io credo… credo che avesse un’idea differente ma che abbia, oh… sì, diciamo proprio improvvisato, trovandosi in una situazione anomala e imprevista, quella COSA ORRENDA! Lei… mi somiglia, mi somiglia davvero! – sussurrò stupito, quasi tra sé. Lakil seguiva le sue mani nervose vagare sul suo corpo come cercando qualcosa, chiuse gli occhi un istante più lungo sentendo quella marea di pensieri provenire dal signore del Tempo, pensieri troppo veloci e che non capiva – ecco io… suppongo volesse mostrarsi a me in parte riconoscibile – continuò John con voce nervosa - ma di fronte alla lacerazione della realtà in cui perveniva, ha isolato tutto. Tutto quanto! Ha la trivella DENTRO adesso ma… non può restare in queste condizioni, è ovvio…  - si guardò attorno, tradiva ansia e nervosismo, sapeva cose che gli altri non immaginavano.
  •  Tutto questo è incredibile – disse quello che doveva essere il comandante di una delle squadre di sicurezza governative e si rivolse verso Tashen – le condizioni sono diverse da quelle di cui eravamo al corrente. La squadra della Unit è sotto arresto ma intendo riferire della questione, signor Tashen. E’ evidente che al Torchwood avviene qualcosa di cui il Governo non è messo al corrente.
  • Avete visto che si trattava di una squadra venuta per distruggere… !
  • Per distruggere una cosa che quell’uomo dice pericolosa per tutti noi.
  • Credete ad un loro complice? – un attimo di silenzio e l’uomo incrociò gli occhi fissi del Dottore, su di lui – sì…  - disse sicuro annuendo e ad un suo cenno tutti smisero di tenere sotto tiro gli uomini della Unit.
  • Vi prego… ora… fermate quel mostro – gemette John.
  • Non è fermo?
  • Non lo è – osservò Catherine Lane guardando verso il dispositivo di contenimento accanto a lei – va solo molto più lenta.
  • Cosa possiamo fare? – chiese con urgenza Steward avvicinandosi intanto a lui, con gli altri della squadra. Il Dottore toccò di riflesso quello che l’uomo gli aveva consegnato qualche minuto prima.
  • Possiamo… sfruttare il varco creato dal Tardis per giungere proprio qui… - mormorò con sguardo fisso – non possiamo fare quello che pensavate, non da dentro. Ma possiamo invece spedirla… dall’estremo di partenza…
  • Cosa vuol dire?
  • Che posso mandarla nell’altro mondo dal quale venivo dove… so che il Dottore la troverà, la troverà e saprà che fare, lui… saprà cosa fare… - la sua voce si ruppe e tremante tirò un lungo fiato portandosi la mano al petto, gli occhi spalancati. Fece per afferrare la console ma non vi riuscì. Cadde in ginocchio quindi, con un gemito soffocato a stento. Non così fu quello istintivo di Martha.
  • Quell’uomo sta molto male – disse uno della squadra, mentre Martha, il dottor Steward e il ragazzo robusto cercavano di aiutarlo. Martha sentiva quel battito veloce e irregolare, il suo respiro rotto e scuotendo il capo si rivolse a Steward. John però non si arrendeva.
  • Non posso cadere adesso, oh… no… non adesso! – protestò tirandosi in piedi, le mani poggiate alle spalle del ragazzo robusto che lo teneva su – per favore… aiutami – gli chiese in un sussurro e lui lo fissò in silenzio annuendo.
Catherine Lane fissava il Dottore con occhi immobili. Lo sentiva nella sua testa, ripeterle di stare calma di non avvicinarsi, di spostare il pensiero a quel che poteva fare. Qualunque cosa si potesse fare, dipendeva anche da lei.
Tashen lo fissò tradendo un sorriso e ascoltò le parole di uno dei suoi, sussurrate al suo orecchio in quel momento, con una certa soddisfazione.
Sapere che il Tardis nonostante tutto non fosse perduto, era una grande notizia per loro: era più che mai evidente che dipendesse dal Dottore ma fino ad un certo punto. Poteva essere guidato dagli umani e quindi la sua squadra sarebbe venuta a capo della questione. Era importante, vitale allora, non distruggere quella nave. Non sapeva cosa avesse in mente ma erano pronti all’evenienza della perdita fisica del pozzo e già preparati ad un suo possibile recupero. Ovunque.
La fessurazione della realtà era in tutti i sensi: sapevano come seguirla ma l’importante è che non fosse distrutta e non ne avevano i mezzi.
  • Se la tua nave è integra, allora la prenderemo… - disse piano, sorridendo, mentre vedeva il Dottore soffrire fino ad urlare stravolto. Urlava degli ordini, e lui li sentiva.
Guardò Catherine Lane.
Un essere inutile, dal quale non avevano tratto nulla di quel che pensavano. Avrebbe dovuto aiutarlo, capire tutto, sostituirlo. Cercare di sedurlo e legarlo a sé, ad un certo punto.
Ma non era successo nulla del genere. Si era innamorata di lui come lo era la figlia di Pete Tyler.
Si chiese se sapesse di quel che aveva fatto il Dottore o se l’iniziativa di quell’uomo fosse partita in segreto. Non lo sapeva ed era poco importante. I programmi cambiavano, ovviamente tutto diventava più difficile ma non impossibile: lui stava morendo e quella donna che era lui in parte, non serviva a niente.
  • Preparate il trasporto dimensionale, dobbiamo lasciare l’edificio e trasferirsi sul Captorius
  • Signore… - Tashen fece capire che non aveva tempo per obiezioni su nulla. Non in quel momento. Tutti i componenti della sua squadra attivarono un oggetto in tutto e per tutto simile ad una banale penna. Si scambiarono sguardi preoccupati.
  • Siamo pronti – disse uno di loro.
  • Sequenza di autodistruzione per l’edificio, attivata. Venti minuti – Tashen annuì.
  • Giusto il tempo perché succeda quel che deve – quasi rise – lui sarà costretto a rimandare indietro la sua nave con dentro il pozzo e noi la seguiremo nella fenditura. Tutto il resto che era qui, andrà distrutto  -  mormorò con un filo di voce - ma… prima di andare devo fare una cosa – tolse dalla giacca la pistola guardando fisso il Dottore. Poi con un gesto improvviso, rivolse l’arma contro Catherine Lane e sparò.
Il rumore riecheggiò nella stanza scuotendo tutti i presenti che si voltarono verso di esso cercando di capire cosa accadesse. Nessuno della squadra governativa fece in tempo a fermare Tashen e i suoi uomini che sparirono dalla loro vista con un lampo bluastro.
John aveva rivolto subito gli occhi verso Catherine, aveva sentito qualcosa.
La donna giaceva riversa contro il cilindro trasparente. Gli occhi di lui diventarono istintivamente più lucidi, neri e disperati.
  • No… no! – gemette e disperato fissò Lakil, impietrito e rigido davanti a lui. Lena sentiva che stava per accadere qualcosa di terribile e uno sguardo del ragazzo le fece capire che aveva ragione.
Con uno scatto, Lakil corse verso le scale che portavano alla passerella metallica al livello del dispositivo di contenimento, seguito da altri già arrivati a soccorrere la dottoressa Lane. Intanto qualcuno gridò che un componente della squadra di Tashen era stato lasciato indietro dagli altri, a causa di un malfunzionamento del suo dispositivo di trasporto.
John, stringendo dolorosamente il braccio del ragazzo robusto accanto lui, chiedeva di portarlo da Catherine. Martha intanto radunava i suoi uomini. Il Dottore raggiunse faticosamente la scala, stava per salire ma il militare gli fu davanti con l’uomo di Tashen.
  • Dottore, dice che Tashen e i suoi si sono trasportati in un luogo sempre dentro il Torchwood ma che è stata avviata l’auto distruzione per l’edificio.
  • Co… cosa? – gemette fissandolo stravolto –  dove…?
  • Sono al sicuro nel Captorius è … una nave, una nave modificata…
  • Modificata per cosa?
  • Per attraversare i muri dei mondi…! - insistette l’uomo. Il Dottore spalancò gli occhi e lo afferrò disperatamente per il camice che indossava quindi lo attirò a sé.
  • Non è possibile farlo, forse solo questo Tardis potrà farlo…!
  • Il pozzo giunge in posti in cui è possibile un’esplorazione ma in tempi brevi e senza tornare indietro…! – il Dottore gemette furioso.
  • Oh no… voi… pensavate di usare la trivella anche per andare… altrove, dove neanche possono più i signori del Tempo! E’… peggio di quanto temessi, peggio… – sussurrò rabbiosamente – buchi nei tempi, nei mondi! Ecco cosa ha portato il Tardis a questo veloce sviluppo… - il braccio teso su di lui gli ricadde stancamente e il Dottore abbassò il capo respirando profondamente ma non quanto avrebbe voluto e chiuse gli occhi – cosa posso fare…? Che altra mostruosità c’è qua dentro…? - sussurrò e poi rialzò il viso verso di lui – COSA!  
  • Dottore, un quarto d’ora all’autodistruzione – insistette il militare cercando di stare calmo e John rivolse lo sguardo alla scala.
  • Da dove si attiva? Come fermarla? – sussurrò. L’uomo in camice scosse il capo, era sudato e tremante. Sussurrò qualcosa al proposito di una protezione per la trivella e John fece una smorfia di dolore e fastidio -  pochi minuti, troppo pochi…  immagino abbiate optato per la disgregazione materiale, vero? – chiese senza guardarlo. Quello annuì e il Dottore sorrise – il modo migliore per eliminare tutto senza fare danni.
  • Dottore…
  • Date ordine di uscire di qui, tutti – si rivolse al militare – fatevi scortare in uno dei laboratori, uscite da questa stanza. Se va come spero ci sarà un’esplosione e… non è il caso che siate coinvolti. In caso contrario… oh beh… nessuno saprà quel che è successo qui – poi rivolse lo sguardo verso il ragazzo robusto che da solo lo sosteneva – portami da Catherine e poi trascina via Martha e soprattutto… Lakil, non vorrà andarsene…
  • Lo prenderò di peso, se necessario – John gli diede una pacca sulla spalla con un debole sorriso. Il ragazzo abbassò lo sguardo umido e quindi entrambi presero la scala che portava al dispositivo di contenimento.
Quando il Dottore la vide, Martha Jones era già salita per cercare di soccorrerla e così il dottor Steward ma era evidente che ci fosse poco da fare. Poggiava le spalle contro il cilindro e lo fissava, gli occhi di Rose Tyler nei suoi. Al dolore che provava e alla paura, si unì quello di non aver potuto fare nulla per quella donna ma allo stesso tempo pensò che almeno sarebbe morto con Rose, perché era lei in quel momento. E appena la toccò, chino su di lei, sollevando il suo viso verso i suoi occhi, Catherine Lane cessò completamente d’esistere e John sentì la sua fine come il soffio di un debole vento da una fessura chiusa. Le sorrise con tristezza infinita. Poi guardò gli altri, uno per uno.
  • Andate, mettetevi al riparo. C’è un’ultima cosa che cercherò di fare e la farò con Rose – sorrise alla donna che lo fissava trattenendo il dolore a stento – ora… correte – disse con la voce più ferma possibile – correte – ripeté più forte.
Si guardarono capendo di non avere scelta ma Lakil gridò che doveva restare che non poteva assolutamente lasciarlo solo. Il Dottore lo guardò fisso negli occhi blu cobalto.
  • Ho vissuto abbastanza – gli sussurrò. Il ragazzo robusto scosse il capo e non potendo fare altrimenti per trattenerlo diede al ragazzo un forte pugno che lo fece cadere a terra stordito poi lo prese in braccio e con tutti gli altri, rivolgendo un ultimo sguardo a John e alla donna ferita, scese di corsa la passerella per lasciare urgentemente la stanza ed essere guidati in un luogo vicino, al riparo dall’esplosione.
Ormai soli, nella luce rossastra della stanza, John si addossò con lei vicino al cilindro, tirando fuori dalla tasca del cappotto quel che gli aveva dato Steward. Erano nel Tardis e Tashen aveva capito che non era perduto. Lei stava trattenendo l’azione della trivella perché la realtà si stava lacerando in modo pericoloso. Cosa poteva fare?
  • Il cilindro di contenimento… - sussurrò Catherine – bisognerebbe cercare di disattivare la protezione…  - lui annuì, con il cacciavite stava già cercando di modificare il dispositivo di Steward perché fosse utile in tal senso ma tremava troppo ed aveva paura di non fare in tempo, di sbagliare qualcosa. Non doveva; per l’ultima volta non poteva sbagliare. Ancora qualche istante e poi emise un doloroso sospiro di sollievo.
  • Questo…  - disse stringendolo pronto nella mano - piuttosto che aprire una sacca di vuoto, romperà il contenimento… - mormorò e stringendo i denti si alzò in piedi reggendosi al cilindro e fissando il suo riflesso appannato su di esso. Con le mani cercò quello che sapeva esserci, un pannello e quindi impiegò qualche breve istante a neutralizzare il conto alla rovescia attivato per la distruzione della struttura – Tashen pensa che io manderò il Tardis indietro con questo mostro ma non è quello che farò… il Tardis serve a Rose per tornare… dal Dottore – si rivolse verso Catherine, ormai del tutto la sua Rose – devo sperare che Lei riesca a farlo, che possa portarti da Lui…
  • Ma tu sei il Dottore, sei il mio Dottore… - gemette e i suoi occhi erano umidi di pianto e dolore. Si fece forza per trattenersi dal non rassicurarla perché non c’era tempo, non per fare ogni cosa e lui stesso si forzava a non piangere pensando Rose altrove. Non poteva salvare sé stesso ma il suo mondo e lei. Era il suo ultimo atto d’amore: darle tutto, lasciarle ciò che restava.
  • Manderò questa cosa indietro DA SOLA, attraverso la crepa dimensionale aperta dal Tardis per definirsi in questo universo e la getterò dall’altra parte dei muri … con un messaggio – tolse le mani dal pannello con un sorriso – sulla matrice del Tardis, in una lingua che ormai solo lui capisce… - Catherine lo fissò mordendosi le labbra per il dolore e piano tese una mano verso di lui. John la guardò. Oramai era tutto finito ma aveva qualche istante. Prese la mano di Catherine nella sua e si chinò su di lei che lo accarezzò sul viso.
  • Soffri molto…? – lui le sorrise triste. Soffriva molto anche lei. Rispose stringendola più forte – Dottore… tanto tempo. Tanto tempo e… non ti ho mai avuto – singhiozzò dolorosamente - mai avuto… - lui la fissò schiudendo le labbra sorpreso poi comprese.
I campioni di Rose, presi da prima che lui tornasse indietro con lei. Avevano usato del materiale in archivio e riprodotto i pensieri di colei che era prima. Prima di ogni altra cosa. Ma consapevole che lui era in parte umano. Lei era Rose, la sua Rose. E quello che vedeva nei suoi occhi era sempre lo stesso, non era cambiato. La donna che aveva amato del tutto, anche se per poco tempo, aveva capito davvero chi lui fosse. Sorrise appena, nonostante tutto. Fosse vissuto non avrebbe mai più dubitato di lei. Probabilmente sarebbe stato anche più contento di essere in parte umano ma ormai era finito tutto.
  • Rose… tu mi hai avuto…  - fece un lungo respiro. Valeva la pena soffrire ancora di più per darle quello. Sciolse la mano da quella che stringeva la sua e chino su di lei mise entrambe le mani sulle sue tempie, accarezzandola quindi chiuse gli occhi – guarda… - disse piano.
guarda, Rose Tyler…
E le diede quel ricordo, perché vi era solo un momento. La prima volta che avevano fatto l’amore, la prima volta che per lui era accaduto in assoluto. Lei che gli aveva comprato quel cappotto, che gli aveva chiesto timidamente di provarlo e poi, in piedi davanti a lui, lo aveva fissato con gli occhi lucidi e quindi toccato; lo aveva toccato come entrambi avevano desiderato per anni, negandoselo. Rivide ancora una volta lei, toglierglielo, gettarlo sul letto, aprire i bottoni della sua giacca accarezzandolo, rimproverarlo dolcemente dei troppi strati di vestiti che aveva addosso e lui, immobile per l’emozione, lasciare che lei facesse quel che voleva, che si ritraesse, che si fermasse. Ma non era accaduto.
  • Mi hai avuto, Rose… - le sussurrò aprendo gli occhi, sentendola spegnersi dentro quel ricordo con un sorriso – ed io ho avuto te… - pensò mentre fissava la donna che amava morire. Non gli importava che avesse visto nei suoi occhi anche i propri, la morte era silenzio e fine del dolore – non avevo mai… dovuto soffrire così tanto prima di rigenerarmi…  – disse a voce alta sarcasticamente e finalmente solo poté lamentarsi e il suo gemito di dolore risuonò nella stanza vuota. La trivella andava lenta, vide che il conto alla rovescia sul dispositivo di Steward era quasi concluso e stringendo il corrimano, si alzò in piedi con le ultime forze. Era proprio davanti al cilindro – è stata una buona morte… - sorrise tenendosi su con fierezza. Chiuse gli occhi e pensò, pensò intensamente.
Una parola. Poi vi fu l’esplosione.  

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Capitolo 29
*** Il buio per una stella ***


Rose aprì gli occhi e accigliò la fronte, ancora stordita. Sussurrò qualcosa che le rimase sulle labbra, come appena svegliata da un profondissimo sonno e poi riconobbe il viso di chi era con lei. Gli occhi celesti di suo padre, umidi d’apprensione.
  • Papà…  - sussurrò e lo vide sorridere come mai a lei, se non per brevi indecisi istanti. E continuava a sorriderle apertamente e allora sorrise anche Rose, stringendo con la mano quella di Pete, il cui braccio la sosteneva mentre la teneva poggiata sé.
  • Rose… stai bene?
  • Sì, sto bene… - fece per alzarsi, la sua testa era pesante e tutto girava, come tutto si fosse improvvisamente rimesso dritto ma da un’altra prospettiva. Si guardò attorno smarrita ma ad un tratto ricordò che cosa fosse successo e si irrigidì di colpo, quasi scostandolo  - oddio, non è possibile! – gemette.
  • Cosa … ?
  • Dov’è la dottoressa Lane? Era con me, era qui con me… !
  • Non c’è, Rose.
  • Non so dove sia e… francamente ho pensato a te, solo a te. Ma ora stai bene…
  • Sì…
  • È stato orribile! Non potevamo neanche chiamare aiuto, Rose! – Rose si voltò verso sua madre che la fissava con il volto contratto dalla tensione ancora presente.
  • Non capisco…
  • È successo qualcosa di strano. Non funziona niente! I cellulari, i telefoni, la televisione… Fuori c’è il caos!  - Rose emise un gemito.
  • Non sappiamo dove possa essere John – disse Pete accarezzandola – ma sono certo che se c’è qualcuno in grado di far fronte ad una situazione strana, quello è il Dottore.
  • Ha visto di peggio – mormorò Rose.
  • Ma stava così male, Pete…! - osservò Jackie con voce apprensiva ed era quello che anche Rose stava pensando. Si scambiarono un’occhiata sfuggente. Sapevano dove fosse.
Rose ripensò all’ultima cosa che aveva visto prima che quel qualcosa la travolgesse, stretta alla dottoressa Lane: un’immagine strana, impressa nella sua mente.
Un lupo dal pelo come di scintille e gli occhi grandi, profondi, fermissimi. Terribili ma non su di lei: su di lei erano stati dolci. Rose pensò che conosceva quegli occhi.
Erano gli occhi di John, gli occhi del Dottore.
Voleva andare da lui, doveva andare da lui. Non poteva aspettare ancora: lei non si faceva chiudere dall’altra parte dell’universo, figuriamoci in una casa.
  • Basta, vado a prenderlo – disse risoluta e si mise in piedi tradendo appena un giramento di testa. Jackie la sorresse prontamente fissandola con apprensione. Pete, ancora seduto sul divano la guardò perplesso un istante.
  • Rose, non ti muoverai di qui e posso assicurartelo - lei gli rivolse uno sguardo indeciso – ma se ti riferisci a John sono preoccupato anche io per lui e credo che tu prima mi abbia mentito: dove è andato? - gli occhi di suo padre sembravano tradire sincero sollievo per lei e preoccupazione per John. Ma le parole del Dottore erano ben chiare nella sua memoria: non doveva dire dove fosse.
Una ragazza della servitù entrò con urgenza nella stanza e rivolse a Rose uno sguardo sollevato, evidentemente il suo malore aveva preoccupato tutti.
  • Signorina sta bene? – le chiese spontaneamente.
  • Sì… sono solo un po’… stordita  - la ragazza sorrise appena e poi si rivolse a Pete - signor Tyler, i telefoni hanno ripreso a funzionare regolarmente e così la televisione e…
  • Qualunque cosa sia accaduta è andata oltre… - Jackie e Rose si scambiarono un’occhiata preoccupata. Pete si alzò in piedi davanti a loro e congedò la ragazza con un cenno d’assenso e ringraziandola poi i suoi occhi diventarono severi ma in modo diverso da ogni altra volta – siamo una famiglia, se non ci fidiamo tra noi non ha senso neanche farlo con altri.
  • Va bene…  - disse Rose lasciando Jackie – provami che posso farlo allora e rispondimi sinceramente: cosa hai fatto al Dottore? – Pete si irrigidì e la guardò, gli occhi sgranati dalla sorpresa. Lei sapeva, il Dottore glielo aveva detto alla fine.
  • Alla fine… non è come credi, Rose – mormorò indeciso.
  • Allora spiegaci ogni cosa, Pete. Perché è insopportabile che tu continui a nasconderci tutto! – Jackie l’aveva detto dolorosamente – dimmi se devo proteggere Rose e John da te. Dimmi se devo proteggerli entrambi da qualcosa che stai facendo!
  • Jackie… - gemette Pete confuso.
  • Il Dottore ama mia figlia, la protegge… anche a costo della vita e tu invece? Tu ci ami così? Parla, Pete! Non farmi pensare, per l’ennesima volta in questi giorni, che alla fine ho deciso di vivere con un estraneo sperando fosse un altro! – Pete abbassò lo sguardo dagli occhi lucidi di Jackie. Fu un lungo momento. Parve infinito e infinitamente terribile.
 
**
 
Aveva visto la luce irreale spalancarsi nel buio che lo stava avvolgendo, il cilindro creparsi e poi esplodere in mille taglientissimi pezzi. Uno lo aveva attraversato, da parte a parte, ma non aveva fatto più male di altro. La pioggia di vetri lo aveva investito ma non lo aveva tagliato del tutto, qualcosa lo aveva avvolto e difeso dalle scintille. Aveva sorriso perché aveva capito: era Lei.
Lei che si restringeva attorno a lui, che cercava di proteggerlo da altre offese, per l’istinto che Lei aveva verso di lui e che era amore, lo sentiva. Avrebbe voluto accarezzarla, lo fece con la mente.
La sentiva sussurrare qualcosa ma non riusciva a capire. Non più.
… non ancora…
Forse erano quelle le parole che con voce dolce e familiare gli ripeteva come per fargli coraggio.
Ma non bastava. Non c’era tempo.
Nella sua mente l’immagine del suo riflesso in quello specchio del sogno: aveva combattuto fino alla fine ma era sconfitto. Doveva cadere, come cadevano le schegge trasparenti dal cielo scuro che sembrava essere in quella stanza. Lei lo stringeva, lo sentiva. E tutto il tempo sembrava lentissimo.
… non adesso… 
La voce. Quella di Rose. Sorrise, mentre crollava avvolto dalla pioggia di vetri sottilissimi, che lo sfioravano senza toccarlo e nonostante tutto gli era parso di poterli respirare per il dolore acuto che continuava a sentire ma erano come altrove, lontani; lui stesso lontano da quel corpo che stava abbandonando.
Tutto si spezzò, la lunga crepa che aveva dentro si aprì ancora.
L’aria era appannata e fredda.
Riverso a terra, supino, stringeva ancora il cacciavite sonico. Il suo braccio, ripiegato sul torace, scivolò ai lati del suo corpo e la sua mano si aprì. Rotolò via, giù dalla passerella sulla quale giaceva disteso, le dita aperte che ancora debolmente cercavano di stringere lo strumento appena perduto. Aprì gli occhi perché li aveva tenuti chiusi, sebbene avesse visto tutto e guardato oltre.
Il cacciavite cadde a terra come dopo un tempo irrealmente lungo e fece un suono metallicamente forte, in quel silenzio. Lui fissava Lei, che china su di lui lo guardava.
Una ragazza bionda che le somigliava tanto, che somigliava tanto a Rose. Su di Lei sembrava vi fosse non un soffitto ma un cielo notturno che non c’era; forse rimasto fuori quell’edificio.
Non adesso, non ancora…
  • Io ti amo…  - gli disse Lei in un sussurro tiepido.
  • E’ finita… - le rispose tremando.
… no…
… non ancora.
 
**
Donna ebbe un lunghissimo brivido. La sua pelle si increspò come fosse stata gettata nell’acqua fredda di colpo. Dafne se ne accorse, ancora con le mani sulla cerniera del vestito. Le mise una mano su un braccio, stringendola.
  • Ehi, tutto bene? – le chiese impensierita. Donna annuì, anche se non del tutto convinta.
Non erano certo brividi normali. Febbre? L’avevano avuta in molti, possibilissimo. Pessimo affare, proprio in quel momento e negli ultimi giorni di lavoro al negozio. Poi ripensò a LUI, addirittura così stupito di essersi ammalato. Pallido, strano. Un ragazzo carino, anche più che carino; con quell’aria stranamente assorta in lei e quegli occhi così poco da ragazzo, invece. Si chiese dove fosse. E poi ripensò alla sua brutta cera e l’influenza.
Contagio istantaneo? Forse troppo, anche per la sua sfortuna ma…
  • Certo me la sarei voluta, l’ho pure baciato…! - completò a voce alta il suo pensiero, dimentica dell’amica.
  • Tu cosa? – Dafne le si piazzò davanti con le mani sui fianchi e l’espressione curiosa di chi non avrebbe mollato l’osso facilmente. Donna alzò lo sguardo e scosse il capo – ti riferisci a lui, vero? Al tuo misterioso cavaliere per la festa di domani!
  • Uhm, sì…
  • Oh che bello! – Dafne batté le mani saltellando come una bambina eccitata – siete usciti una volta e già un bacio!
  • Non è la cosa più strana che è successa…
  • Non mi dirai che tu e lui avete fatto… - Donna aggrottò la fronte fissandola con aria quasi offesa.
  • Ehi! Io non sono certo quel tipo di donna!
  • Non ci sarebbe mica niente di male…  - fece spallucce l’amica strizzandole poi l’occhio.
  • Ma non è successo! – ringhiò quasi Donna e Dafne rise del tono e dell’espressione che però subito si stemperò in qualcosa di più quieto, proprio al pensiero di quell’uomo di cui le aveva parlato.
  • Ti ha conquistata però.
  • Lui è meraviglioso… - mormorò Donna – anche se… beh, è…  - neanche sapeva come definirlo e fu disturbata dal suo disagio per la cosa. Ebbe un gesto di stizza – oh, insomma! Aveva anche l’influenza…
  • Stammi lontana allora! – Donna fece una smorfia.
  • Non ho intenzione di baciare anche te!
  • Lo spero…!
  • E in ogni caso… ho capito che non lo farò più – e le sue parole ebbero un accento non propriamente triste ma quasi perplesso. Ancora non aveva compreso quella strana sensazione provata con quell’uomo che sentiva di conoscere e che la conosceva. Ma come? Le aveva detto che si sarebbe spiegato e chissà per quale motivo gli aveva subito creduto. Lei, la diffidente per definizione.
Aveva trovato un uomo a cui credere del tutto e fino in fondo. Come credeva a suo nonno.
Fece un sospiro. Perché continuava ad associarli? Era addirittura innaturale, a ben pesarci. Eppure era la cosa più giusta nei suoi confronti. Come faceva ad ammettere di tenere tanto a lui senza neanche sapere chi fosse?
  • No… non credo lo bacerò mai più – concluse.
  • Accidenti! – disse Dafne con aria stupita – dev’essere stato atroce! – rise scuotendo il capo. Donna la guardò un attimo, con aria quasi seccata.
  • Se lo vedessi…
  • Così brutto davvero?
  • Lui? – sbarrò gli occhi - no, decisamente no. Anzi! Lui è… un bel tipo – aggiunse più piano e poi si avvicinò allo specchio spiando il suo riflesso – ed è… il Dottore
  • Il Dottore? Il Dottore… chi? – Donna la guardò schiudendo le labbra, l’espressione sorpresa che però rapidamente ricompose dandosi un certo contegno. Strano. La stessa domanda che le aveva fatto la madre. Sapeva il suo nome ma le parve stranamente appropriata. In fondo non sapeva chi fosse.
Non del tutto. Non davvero…
  • Oh, Volevo dire che lui è un dottore. In ogni caso si chiama John Smith – disse con tono vago e Dafne fece un sorrisetto.
  • E quindi l’uomo misterioso è un medico. Quindi è carino, gentile, educato… Magari anche benestante!
  • Pare di sì…
  • E nonostante tutte queste bellissime cose tu non lo bacerai mai più?
  • Già… - mormorò Donna fissandosi.
  • Ma perché!!! – protestò quasi Dafne.
  • Anche solo perché… - Donna sorrise appena – ecco, non ho mai visto un uomo così innamorato della compagna.
  • Non è libero quindi.
  • No. Ma non mi importa! – disse decisamente – lui è così interessato a me! E non per… quello, insomma… - Dafne comprese che la cosa non dispiaceva per nulla alla sua amica, che non ne era ferita nell’amor proprio. Per una volta sembrava averla presa diversamente. Le sorrise e Donna a lei – sai, Dafne, è incredibile ma io ho avuto la certezza, ho la certezza, di essere… molto importante per lui. E so che mi crederai pazza ma lui è … importante per me – la guardò un po’ indecisa per un momento – sono pazza, non è vero?
  • Non più de solito – la canzonò Dafne e Donna la guardò fisso negli occhi azzurri.
  • Bell’amica!  Avresti dovuto dire di no! – disse con tono finto offeso. Dafne scoppiò a ridere.
  • In ogni caso, chiunque lui sia… dev’essere speciale – disse con tono più caldo e Donna le rivolse un breve sorriso indeciso inclinando il capo.
  • Sì…  – Donna si guardò ancora allo specchio dell’armadio.
L’abito blu profondo che indossava le stava benissimo, oggettivamente. Dafne portava la sua stessa taglia, per fortuna. Tornando a casa e non trovando quel che cercava, le era venuto in mente che la sua amica aveva di recente partecipato ad un matrimonio. Aveva quindi un abito da damigella nell’armadio, inutilizzato. Non le sarebbe costato davvero nulla, prestarglielo per l’evento.
Un altro brivido la scosse, più forte. Iniziò nervosamente a scuotere le braccia e sfregarle con le dita, come per cacciare via qualcosa.
  • Donna, cosa c’è? – chiese Dafne inquietata.
  • Non so… ! Mi sembra di avere qualcosa di tagliente addosso. E fa male… ! – protestò mettendosi di profilo, guardando il vestito dietro. Fece una smorfia di dolore portandosi la mano al fianco. Dafne fece per sorreggerla e Donna la guardò stravolta.
  • Mi sento strana … - sussurrò Donna mentre Dafne la aiutava a sedersi sul letto.
La luce andò via per un istante.
Quando tornò, la radio accesa sul fondo emetteva un sinistro fruscio e così la televisione. Donna poggiò la mano sulla trapunta stringendola. Un dolore acutissimo, mai provato fino a quel momento.
Si era spaventata ma non quanto Dafne che la guardava preoccupata.
  • Donna, che succede?
  • Non lo so…
  • Vuoi che ti porti in ospedale?
  • No… è stato un attimo, ora va meglio…  - sussurrò perplessa. Non sentiva niente di strano, non più dopo quell’istante tutto era andato scemando nella normalità. Ma sempre perplessa si guardò le mani. I palmi le bruciavano. Come fossero feriti, come fosse ricoperta da qualcosa di tagliente. Dentro.
Dafne intanto si era avvicinata al televisore cercando di capire quale fosse il problema. Non si vedeva nessun canale e la radio, fino a quel momento in sottofondo, era muta. Armeggiò qualche minuto con entrambe, perplessa, e prese in mano il telefono quindi la guardò e le si avvicinò agitando il cordless in mano.
  • Lo sbalzo di corrente deve essere stata una cosa grave…
  • Ah sì?
  • Non c’è neanche linea del telefono… - mormorò.
  • Ma cosa sta succedendo? – si chiese Donna.
  • Non ne ho idea – Donna si alzò in piedi spazientita quasi e attraversò il salottino della casa dell’amica con passo rapido. Aprì la porta sul cortiletto a ridosso della strada. Più di qualcuno passandole accanto la guardò perplesso, uscire con indosso un abito elegante e le scarpe da ginnastica ai piedi, tenendo sollevata la gonna con aria indispettita perché non si sporcasse di neve grigiastra.
  • Mi scusi… - una signora anziana fece capolino dalla porta – a lei funziona la tv?
  • No, non funziona…  - la donna si ritirò velocemente dentro lamentandosi per un poliziesco che stava guardando, interrotto sul più bello.
Donna si guardò attorno, brevemente. La strana sensazione restava sospesa in lei. Non soffriva ma sentiva qualcosa di terribilmente strano e una brutta sensazione.
Tutto sembrava normale a parte il cielo. A parte il cielo…
Sembrava esserci stata una schiarita.
  • Donna…! – si sentì chiamare da Dafne, subito uscita con un cappotto da metterle addosso. C’era freddo. Ma lei in quel momento lo sentiva.
  • Ma dove sono finite le stelle? – si chiese inclinando lo sguardo con gli occhi aperti rivolti in alto. Dafne guardò il cielo con lei, perplessa.
Donna si rispose che erano sparite e poi che la cosa era impossibile.
Ma erano sparite davvero, pensò.
  • Vieni, torniamo dentro. Questa situazione mi rende nervosa – disse Dafne. Quasi la trascinò per mano, spingendola in casa. In effetti poteva essere accaduto di tutto, poteva trattarsi di una di quelle stranezze che in passato erano già accadute. Proprio di quei tempi, pensò Donna; ma come saperlo?
Entrambe si scambiarono uno sguardo inquieto.
Dafne girò la chiave della porta dietro le loro spalle, Donna la prese per mano con decisione, per confortarla. Le parve il gesto migliore da fare, spontaneamente.
 
 
**
 
Avevano sentito l’esplosione e si erano preparati al peggio, tutti insieme e confusi come mai avrebbero pensato di essere. Il laboratorio più vicino aveva le pareti spesse e sembrava studiato per far sì che un eventuale incidente all’interno non procurasse danni alla struttura. Doveva essere anche il contrario. Martha Jones tremava di rabbia e non riusciva a togliersi dalla testa lui, il Dottore.
I suoi occhi e quelle ultime parole:
Correte.
Steward inquieto stava discutendo con altri della squadra governativa e valutando l’eventualità di uscire. Tutto sembrava confuso poi una voce sopra le altre, urlare di rabbia.
  • Devo uscire, lasciatemi andare! – era Lakil, rinvenuto da qualche istante. Il ragazzo robusto e Lena gli erano vicini, così anche gli altri due che avevano fatto parte di quella piccola squadra di soccorso che inviata per uno scopo aveva finito col portare con sé il Dottore, colui che aveva rivoltato la situazione con la sua presenza – devo andare, non posso restare qui, non ho molto tempo! – ripeteva ossessivamente. Martha si avvicinò, scostando altri che pure lo fissavano inquieti, chiedendosi a cosa si riferisse.
  • Lakil, calmati… - accennò chinandosi su di lui che però le rivolse uno sguardo inquietante.
  • Devo uscire! – le disse in un singhiozzo – devo farlo ora, farlo prima che sia troppo tardi…!
  • Tra poco usciremo tutti, dobbiamo essere certi che non vi siano…
  • Ha più di novecento anni! Ha più di novecento anni! – urlò e Martha smarrita guardò i suoi compagni che comprese sapevano.
  • Cosa sta dicendo?
  • Il Dottore… - accennò Lena – il Dottore aveva…
  • Lui ha ! – disse Lakil e si alzò in piedi del tutto. Martha guardò il dottor Steward. Gli aveva detto che era vecchio ma sentire esattamente quanto la disorientò. Ripensò a lui, come era. A quell’uomo così sofferente. Credeva fosse morto, doveva esserlo.
  • Lui è vivo? – chiese a Lakil.
  • Sì! – gridò il ragazzo.
  • Allora andiamo a prenderlo, usciamo di qui… ! – Martha fu bloccata da uno dei suoi uomini e poi dal comandante della squadra inviata come rinforzo al Torchwood. Fissò ostilmente la divisa, lo fece istintivamente, e poi il viso di coloro che aveva davanti.
  • È stato detto che stava morendo, non può essere sopravvissuto e in ogni caso potrebbero esserci delle conseguenze, radiazioni, residui di…
  •  Io ho intenzione di tornare là dentro, voglio vedere cosa è successo e se lui, come dice Lakil, è ancora vivo allora voglio…
  • Stava morendo! – protestò stizzita Sophia – vi stava agonizzando davanti da quanto? Un pezzo! – disse freddamente e Martha fu impressionata dal tono – io non intendo uscire di qui e rischiare la vita…
  • In realtà credo che non vi siano pericoli di questo tipo – intervenne Steward rivolgendosi anche ai comandi della squadra governativa – avete della strumentazione per controllare le radiazioni ma sono sicuro che in tal senso, fuori sia sicuro.
  • Questo posto in effetti non ci avrebbe protetto da molto…
  • I laboratori sono molto ben isolati, in realtà – intervenne un altro guardandosi attorno.
  • Io non intendo muovermi da qui! – disse Sophia – e sono sicura di non essere l’unica ad aver paura.
  • È questa la pietà umana che il Dottore ha cercato di suscitare? – Lakil la fissò inorridito. Lei lo guardò freddamente – è questo che vi ha portato a tanto odio! E soprattutto a quel che si è rivelato essere il Torchwood! – mormorò rabbioso scuotendo il capo.
  • Lakil, stava morendo! – insistette – e capisco pure che vi siate capiti, tra di… voi…
  • Più di quanto tu possa anche solo concepire – disse rabbiosamente Lakil.
  • In ogni caso, sarà morto – Martha l’aveva guardata fisso per tutto il tempo. Stupita della crudeltà che quella ragazza riusciva a dimostrare nei confronti di chi li aveva salvati. Loro lottavano per i diritti degli alieni e contro le crudeltà preventive del Torchwood. Ma tristemente non erano diversi come credevano. Non tutti.
  • Certo, Sophia. Forse hai ragione – disse Martha con un sorriso addolorato – ma… se il Dottore è vivo, ancora vivo… Deve almeno sapere che ce l’ha fatta e ci ha salvati. TUTTI – concluse e con un rapido cenno radunò parte della sua squadra. Gli altri, che pure avrebbero dovuto tenere sotto controllo il gruppo della Unit erano ormai più istintivamente inclini ad assecondarli. Più di qualcuno infatti pensava pur essendo male in arnese e pochi, avessero capito del Torchwood più di chiunque altro, trovandosi dalla parte giusta. Ammettere che il Torchwood era più simile all’inferno che ad un istituto per la protezione globale era molto duro. Ma in quel momento l’importante era capire che stava succedendo e se il Dottore, prima di morire, fosse riuscito per lo meno nel suo intento.
Tutti speravano di sì, ma in silenzio.
 
Quando tornarono nella stanza dalla quale erano usciti pochi minuti prima, stentarono a riconoscerla. Al posto del pozzo un enorme vano vuoto,  buio e profondo. La trivella, come l’aveva chiamata il Dottore, era del tutto sparita. Molte delle passerelle metalliche erano state colpite da residui dell’esplosione, almeno così sembrava. Vi era una fuga di qualcosa che rendeva l’aria come nebbiosa ma i rilevatori dissero loro che si trattava di una fuga d’aria fredda da qualche condotto di refrigerazione danneggiato. Cercarono con gli occhi, in giro. Vi erano frammenti sparsi ovunque e fra questi, alcuni di vetro.
Martha trovava terribile quel suono rotto di passi, sapeva di disastro e di morte.
Lakil intanto entrato nella nebbia, disorientato dai fumi, cercava di riprendere l’orientamento in quel luogo. Poi quasi contemporaneamente tutti alzarono lo sguardo sul grande cilindro metallico praticamente in pezzi e poi, sulla passerella metallica sotto di esso. Il ragazzo robusto urtò qualcosa con il piede e si chinò a prenderlo. Vide che si trattava dello strumento del Dottore, lampeggiava come segnalando qualcosa. Chiamò a gran voce gli altri e Lakil quindi sollevò lo sguardo sulla scala, miracolosamente intatta, che portava su. Dalle grate, gocciolava del liquido, sui frammenti di vetro sottostante. Era sangue. Lakil scuotendo il capo salì la scala e Lena con lui. La seguirono Martha, il ragazzo robusto e il dottor Steward.
Il cadavere di Catherine Lane, era riverso quasi contro il corrimano. Era in condizioni terribili e sebbene fosse ormai abituata a vedere di tutto, Martha distolse lo sguardo da lei per pietà. Lena invece ebbe un fremito d’orrore ma fermò lo sguardo sul cumulo di vetri sparso in modo irrealmente ordinato che era proprio davanti a loro. Un uomo, riverso sui cocci ma come vi fosse stato deposto sopra.
Il Dottore.
Lena portò la mano alla bocca istintivamente e Martha gemette piano guardandolo. In quel disastro, dopo ogni cosa e circondato da quei frammenti taglienti, sembrava risplendere in modo sinistro e irreale. I suoi occhi erano aperti, fissi in qualcosa che non era in quel luogo. Appariva però calmo, il suo viso più dolce nonostante la sofferenza e Martha pensò che il Dottore, così vecchio, appariva un uomo giovane in quel momento.
I suoi occhi si riempirono di lacrime. Per lui. Lo conosceva appena ma era qualcosa di diverso dalla pena per un estraneo e questo la riempiva di angoscia. Avrebbe voluto fare qualcosa.
… avrei dovuto difenderlo…
Perché pensava a questo? Per altro non sarebbe stato possibile fare niente.
Non pareva fosse stato toccato da nulla apparentemente ed era incredibile. Eppure doveva essere stato travolto dall’esplosione. I frammenti taglienti ricoprivano i suoi vestiti ma vide che le sue mani erano ferite e che una scheggia lunga come una lama, era profondamente conficcata nel suo corpo. Lakil era chino su di lui che guardava il frammento che lo aveva ferito. Steward rivolse lo sguardo a Martha.
E diceva tutto, senza parole. Ma Lena, avvicinandosi mormorò qualcosa sul vetro che lo aveva trafitto.
  • Non ha colpito organi vitali, l’emorragia è bloccata dalla scheggia – disse Steward con un velo di voce – ma… lui ha… - leggeva i dati dal dispositivo medico che aveva in mano. Completamente alterati per un uomo. Ciò nonostante i danni erano evidenti e fatali. In parte umano, lo aveva detto; ma molto più forte ed ostinato di un uomo comune: era ancora vivo. E cosciente. Purtroppo.
Steward fece una smorfia addolorata e poi scosse il capo chiedendosi quanto quell’alieno dovesse soffrire per riuscire a morire.
Lakil prese delicatamente il Dottore per le spalle e lo sollevò un po’ dai vetri, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Martha lo guardò.
  • Mi sente? – chiese e Lakil annuì. Martha allora si chinò su di lui e lo vide rivolgerle uno sguardo molto umanamente sofferente. Respingendo le lacrime che sentiva bagnare le sue ciglia fece un sorriso a quell’uomo – siamo… vivi, Dottore – gli sussurrò e prese la sua mano tagliata come non era il suo viso, come nient’altro – grazie… - lo sentì stringerla appena, Lakil intanto scostava il suo cappotto e la sua giacca in modo strano, come dovesse toglierli e a quel punto Martha vide che il Dottore si sforzava di dire qualcosa.
  • Ho fatto la mia scelta… - disse Lakil severamente mentre poggiava la mano alla base della schiena di John – Dottore…  - il ragazzo fece un lungo respiro e lo guardò con sguardo fermissimo - ora muori…
  • Lakil! – gemette Lena, tremante – come puoi…?
  • Tu non puoi capire, Lena…  - sussurrò Lakil senza guardarla, gli occhi fissi in quelli di John Smith – avanti, muori… ! – disse con tono più duro. John socchiuse gli occhi appena, un istante.
Il ragazzo robusto era appena più lontano da loro. Si era voluto avvicinare al corpo di Catherine Lane e quindi constatato la situazione con una certa freddezza che però aveva perso davanti al Dottore che agonizzava circondato da vetri rotti. John Smith sembrava molto umano, completamente umano in quel momento. Ma non lo era che fosse ancora vivo dopo tutto.
  • Addormentati, vecchio testardo… - disse quasi tra sé, fissandolo con gli occhi lucidi. Perché resisteva ancora? Poi rivolse lo sguardo a Lakil, a quelle parole.
… muori…
La sua voce parve svegliarlo da quello strano senso di torpore causato dalla caduta di tensione. Si chiese cosa stava per succedere perché gli fu evidente, dallo sguardo del suo giovane compagno, che l’alieno bambino stava per fare qualcosa. Lakil sentiva il Dottore e lui aveva chiaramente percepito quanto fossero legati in quel momento. Il Dottore poi, gli aveva chiesto di allontanarlo da lui come temesse qualche sua intenzione.
  • Lakil… allontanati da lui.
  • Mai…  – mormorò il ragazzo. Il compagno ebbe un brivido. Sembrava che tutto fosse sospeso, loro a parte. Le voci degli uomini che si aggiravano per la stanza, sotto di loro, erano lontanissime.
  • Lakil… - lo chiamò Martha ma il ragazzo non rispondeva. Lena intanto lo fissava stravolta, così Martha. Il dottor Steward invece guardava solo il Dottore gemere piano e non arrendersi.
Con pena vide l’uomo tra le braccia del ragazzo stringere i denti come stesse tirando con forza, con le ultime forze, qualcosa che non voleva cedere. Nei suoi occhi vide la disperazione. Ma anche in quelli di Lakil ed ebbe un brivido perché pensò che sembravano allo specchio. Lo comprese anche Lena senza averne razionale coscienza del tutto, ma era evidente una cosa: Il Dottore aveva paura. Quell’uomo che aveva affrontato tutto quel dolore con fierezza impressionante, aveva paura ed essa si rifletteva chiaramente in uno sguardo fermissimo, fisso negli occhi del ragazzo che gli stava dicendo di morire. Eppure non era quello che temeva, non del tutto.
Fu allora che, dopo il ragazzo robusto, anche tutti gli altri presenti capirono che Lakil non doveva essere lì e ricordarono che John Smith aveva chiesto di allontanarlo da lui.
  • Lakil, cosa vuoi fare? – gli chiese il ragazzo robusto avanzando appena verso di lui.
  • Quello che devo – rispose con tono incolore il ragazzo e poi si rivolse a John – no, tu non puoi impedirmelo, Dottore. Non sei abbastanza forte – gli sussurrò Lakil con più gentilezza – non puoi… Puoi solo morire… – Martha gemette quando con un gesto repentino John la lasciò per afferrare il braccio di Lakil e poi far scivolare stancamente la sua mano su quella che il ragazzo teneva sul suo cuore. Il Dottore sussurrò qualcosa ma Martha comprese solo che le parole di Lakil lo stavano portando ad una disperazione impressionante, tale da avergli fatto trovare la forza per stringerlo a quel modo, sebbene un istante appena. Soffriva, soffriva moltissimo.
  • Sarebbe meglio che gli dessi il colpo di grazia… – mormorò Steward amareggiato – perché lo stai torturando?
  • Lakil, basta… ! – lo implorò Martha e mise quasi una mano sulla sua spalla per scuoterlo via ma Lakil rivolse verso di lei degli occhi di un blu così profondo da dare le vertigini e lei si ritrasse istintivamente – Lakil, cosa stai facendo?
  • Io lo salvo – disse deciso e quindi Martha vide che aveva afferrato, tagliandosi, la scheggia dentro il corpo del Dottore e iniziato a muoverla provocando a John un dolore atroce che sopportava lamentandosi sfinito, i lineamenti contratti da una sofferenza che cercava di trattenere.
  • È inutile, basta! – gridò Martha – non vedi come soffre?
  • Non può averla dentro – concluse Lakil con tono cupo e la tirò fuori con uno schizzo sangue. John gridò e tutti quelli che erano nella stanza lo sentirono. Lakil gli rivolse uno sguardo comprensivo mentre Steward e Martha lo fissavano inorriditi da quel che aveva fatto – Dottore, scusami. Speravo non avresti sentito quasi nulla ormai… - sussurrò Lakil e John gli rivolse uno sguardo disperato e stanco. Il sangue inzuppò la sua giacca e cadde sui frammenti di vetro colorandoli di rosa, come il cielo dell’alba che non avrebbe visto. Una cosa così terribile e una così bella, avevano qualcosa in comune, pensò Martha. John si sforzò di parlare ma cercò di prendere invano respiro due volte, la mano sui vetri che piano si strinse, vuota. Ebbe un singulto, Lakil lo fissò con ansia – avanti… fallo..! – gli sussurrò. Il Dottore fu scosso da un lungo tremito che il ragazzo parve trattenere ed ascoltare attraverso il suo corpo. Sfinito, spalancò gli occhi in quelli di Lakil ed emise un terribile sospiro, di resa. Fu l’ultimo.
Il ragazzo robusto distolse lo sguardo da entrambi e scosse il capo, Steward fece lo stesso mentre Lena guardava sia lui che Lakil con occhi lucidi.
  • Povero Dottore…  - disse Martha fissando John con tristezza infinita e poi il ragazzo alieno che aveva compiuto quel gesto così inutile, alla fine – perché…?  - gli chiese in un sussurro.
Lakil non la guardò, fissava gli occhi scuri di John persi nel nulla, umani come mai. Poi irrealmente sorrise. Chiuse i suoi occhi facendogli una carezza su una spalla, come per calmarlo, quindi si irrigidì scosso da un lunghissimo brivido che increspò la sua pelle. E non solo la sua.
Martha accigliò la fronte e in una frazione di secondo passò dal dubbio al terrore. Rivolse lo sguardo a Steward, accanto a loro, che lesse i valori del dispositivo medico prima usato sul Dottore per capire le sue condizioni. I suoi occhi si aprirono in un’espressione sorpresa e impaurita insieme.
Fissò quindi Lakil e poi Martha. Impallidito, esitava a parlare.
  • Non è possibile…  - gemette.
  • Lakil… ! – gridò Lena. Il ragazzo robusto la prese per le spalle trattenendola, fissando la scena con sguardo attento.
  • Cosa sta succedendo? - Martha fissò stravolta Lakil che stringeva John come lo tenesse saldamente fuori da qualcosa che lo stava trascinando altrove. Ed era quello.
  • Il Dottore è…  
  • Il mio cuore batte per entrambi, io sono entrambi – disse Lakil e Martha vide che gli occhi blu del ragazzo si stavano progressivamente scurendo. Chinò il capo premendo la mano sul petto di John e l’altra stretta alla base della sua schiena. Il corpo di Lakil iniziò a cambiare.
“… Dottore, figlio di Gallifrey…”  il Dottore emise un leggero respiro.
Martha gemette per la sorpresa e Lena spalancò lo sguardo su di lui, incredula. Lakil chiuse gli occhi. Le vene delle sue mani parvero diventare rami color dell’ombra e così lui impallidire. Martha e Steward videro le ferite sul corpo del Dottore chiudersi e invece aprirsi su quello di Lakil che sembrava soffrire terribilmente. Gemettero entrambi, insieme. Le mani di John erano guarite per prime e poi la ferita che aveva inzuppato di sangue la giacca stava rimarginandosi. Ogni graffio, ogni offesa, passava su Lakil. Quando toccò alle ferite più profonde Lakil sussultò e lo strinse più forte. Piangeva per il dolore ma continuava a stringerlo.
“ LAKIL, NO. NON FARLO!” la voce del Dottore fu nella mente del ragazzo limpidissima e forte. Lo era rimasta fino alla fine; ma alla fine non aveva potuto impedire che lo prendesse.
“… signore del Tempo… tu conosci la mia gente e sai che probabilmente… ora sono l’ultimo, come hai pensato di esserlo tu per molto tempo. Noi proteggiamo la conoscenza, proteggiamo i vecchi. I giovani servono a proteggere gli anziani, gli anziani sono tutto e tu sei antico, antico e giovane insieme…
Oh ma tu… sei anche così giovane… non avevo capito! Sì, è meraviglioso e tremendo!...
io… leggo i tuoi pensieri vedo… vedo tutto di te, fino in fondo e non è spaventoso come credi, non è buio come credi ma è UN ABISSO …
…è tantissimo tempo…”
“… LAKIL, NO!” ma il bambino alieno non ascoltava, incantato e impaurito insieme, nel dolore che lo stava consumando. Ma non gli importava: era più di quanto avrebbe sperato di sapere in una vita intera e il popolo di Lakil venerava il tempo e la conoscenza. Il Dottore sentì questo pensiero in lui, limpidissimo. Non poteva fare nulla, Lakil dominava il suo corpo, del tutto. E lo stava curando, distruggendosi.
Gli si opponeva ma non riusciva a far altro che subire quel che stava accadendo.
Emopatico. Lakil era tale. Ma non poteva curare la morte se non morendo lui stesso.
“… ti prego, non farlo!...” quasi lo implorò nella sua mente. Lakil aprì gli occhi e lo fissò. Erano scurissimi, con i suoi stessi occhi.
“ … Io VEDO E SENTO TUTTO IL TEMPO…!  E tu fai paura, sei il più terribile di tutti coloro che sei stato e tu stesso lo sai… ! Per questo ti sei chiuso qui?
… Sì… ma…
 … CON ROSE … ” non poteva impedirgli di sentire ogni cosa che avesse dentro, di provare su di sé anche quello. Lakil fu travolto da quel che percepiva e poi vide quel che il Dottore non poteva vedere, perché andava oltre la fine che aveva attraversato. Tremò di paura e lo guardò stravolto, più che per il dolore.
“… Dottore… mi dispiace…
… sarà spaventoso, alla fine… così pare ma…
LEI dice che sono “Cose”… sono solo cose…”  LEI…
  • Lasciami, Lakil… - Martha sentì appena quel sussurro sulle labbra livide del Dottore.
  • Non posso… è irreversibile – gli rispose Lakil che si forzò di non piegarsi per il dolore.
  • Lakil! – gridò Lena facendo per avvicinarsi ma il ragazzo robusto la trattenne – lasciami…! Tentò di divincolarsi ma il suo compagno era risoluto a tenerla lontana da Lakil. Lena si lamentò per il dolore e la stretta, gemette nel pianto, guardando Lakil con gli occhi che quasi non lo vedevano per le lacrime. John si lamentava per il dolore che sembrava provare con il ragazzo mentre sembrava riprendere lentamente un po’ di colore. Lakil invece impallidiva  – No… Lakil, no…!
  • Lui è più importante di me. E’ vecchio… - disse Lakil rivolgendo verso di lei uno sguardo addolorato ma scuro, scurissimo e differente da prima.
Martha restava loro accanto, scossa ma completamente immobile e così Steward.
Il Dottore gridò ancora e Lakil scosse piano il capo.
  • Se tu… fossi stato del tutto umano avrei potuto guarirti per sempre ma… non posso fare quel che vorrei sei... impossibile, sei impossibile davvero… - irrealmente rise.
  • Perché? …  - chiese John con un velo di voce.
  • Perché tu sei il Dottore… - mormorò con voce tremolante mentre la sua pelle sembrava farsi sempre più sottile e trasparente e i suoi abiti si inzuppavano di sangue. Lena iniziò ad urlare e il ragazzo robusto, con gli occhi lucidi, la afferrò ancora più saldamente per evitare che gli sfuggisse e si avvicinasse ad entrambi. Lakil gli sorrise riconoscente – mi dispiace… mi dispiace veramente… - sussurrò con sforzo delle parole che non parvero neanche sue e i suoi occhi furono del tutto come quelli che aveva avuto la donna morta che giaceva non lontano da loro e come erano quelli del signore del Tempo che sembrava costretto a riprendere vita, contro la sua volontà.
“… ora so ogni cosa… so tutto di te e tu di me. Ti resterà la traccia della mia vita dentro e qualcosa di tuo resterebbe a me, non fosse necessario morire…”
“LAKIL!...” gridò nella sua mente il Dottore.
  • Lakil… - fu un sussurro appena percepibile mentre stringeva i denti.
“… ora… per ora…
… il dolore passerà…”
L’essere che tra le grida inorridite e il pianto di Lena stava consumandosi, ebbe appena il tempo di un ultimo sguardo a lei, prima di perdere gli occhi in due vuoti neri. Ma quell’istante fu carico di amore, di sentimento totale e inespresso. Non aveva mai avuto modo di dirglielo, per paura di non poter restare con lei per sempre; ma ora, quello che Lakil era stato, era completamente aperto all’esterno, come il suo corpo.  Le sue emozioni e ogni cosa che aveva ascoltato per ultima, parve risuonare nelle menti di tutti i presenti e poi, tutto si spezzò come in cocci taglienti.
I cocci taglienti su cui ricadde un cadavere vuoto e irriconoscibile. Un involucro che parve somigliare ad una fragile foglia secca rimasta ai piedi di un albero morto, dopo l’ultima tempesta.
E tacque ogni cosa, come fosse stata fermata da una volontà più forte.
Chi era loro vicino, contemplava i resti di quel che era appena accaduto con espressione impietrita, persino il pianto di Lena si era fatto più profondamente silenzioso. E fu proprio lei a fissare per prima il Dottore, tra quei cocci taglienti ancora inzuppati del suo sangue. Martha e Steward si rivolsero un’occhiata turbata e indecisa. Tutti tacevano smarriti e come soli.
  • Lui è vivo… ? - chiese Lena ad un tratto, con le lacrime agli occhi.
Martha la guardò e annuì con un veloce cenno. Spiò il suo respiro, regolare ma affaticato.
  • Dottore… - provò a chiamarlo. L’uomo restava con gli occhi chiusi. Steward allora, vincendo la propria reticenza istintiva lo toccò appena.
Il Dottore emise quindi un profondo respiro, come dopo una lunga apnea e spalancò gli occhi.
Blu cobalto scuro.
 
 
 

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Capitolo 30
*** L'Uomo impossibile I ***


 
Donna era letteralmente fuori di sé. Se c’era una cosa che detestava fino in fondo era non capire e quello che stava succedendo era decisamente confuso, strano. Le spiegazioni avrebbero offeso l’intelligenza di un bambino e non sembrava qualcuno avesse intenzione di darne di migliori. Tutto quel mistero la stava facendo impazzire. Le chiamate alla polizia, appena i telefoni avevano ripreso a funzionare, avevano praticamente messo in strada tutte le forze dell’ordine della città, almeno così sembrava. Avevano un bel dire che non si trattava di niente.
A Londra non si perdeva certo la testa per una stupidaggine e quel che vedeva attorno era molto nervosismo.
  • Black out un bel niente! – mormorò tra i denti. Che razza di black out aveva lasciato le luci nelle strade e nelle case ma fatto perdere i contatti telefonici e messo fuori uso radio e televisione? – tutte balle, questa cosa non mi quadra affatto!
Nonostante le insistenze della sua amica, aveva preferito fare ritorno a casa, non prima di aver chiamato sua madre per sapere come stava o se avesse notizie al proposito dell’accaduto, rimediando solo un ulteriore appunto per il suo essere fuori casa a fare chissà cosa.
  • Dalla tua amica un corno, Donna! – le aveva detto con tono acidamente rabbioso – immagino dove tu sia e a fare cosa! – era convinta che fosse con il dottore di cui Sylvia aveva già deciso fosse l’amante. Con lui. Donna scosse il capo con una smorfia al pensiero di come l’avesse apostrofata.
Era inutile parlare con sua madre. La sua vita era davvero tremenda. Ma non aveva mai avuto la percezione di quanto sarebbe potuta essere diversa se non dopo aver incontrato … lui.
Ed era a lui che il pensiero era andato subito e non certo per le parole di sua madre.
Più ragionava su quel che provava nei suoi confronti, più si rendeva conto di quanto assurdo potesse essere, ma certo non si trattava di un sentimento della natura di cui parlava sua madre. Non del tutto. Scosse il capo infastidita a quel pensiero istintivo su di lui: le piaceva.
Le piaceva molto, moltissimo. Nonostante fosse troppo esile, troppo bisbetico, troppo strambo, invadente, inopportuno, sarcastico, sottilmente offensivo, irritante …
Niente; Donna non poteva che ammetterlo: Lo adorava.
E poiché qualcosa gli diceva che quelle stranezze piombate a catena nella sua normalissima vita di precaria erano legate a quell’eccezionale individuo, Donna decise che era il caso di chiedergli spiegazioni. Non era qualcosa di logico in realtà ma nonostante il suo essere costretta ad agire in modo pragmatico, Donna non lo era di natura. Non come ostentava per proteggere sé stessa dal giudizio degli altri. La parte irrazionale spostava il suo pensiero su piani eccentrici che però considerò serenamente dopo molto tempo. In quel caos, che l’istinto le diceva essere decisamente più problematico di quanto non apparisse, Donna ammise che aveva bisogno di lui.
Le aveva detto che altre spiegazioni sul loro strano incontro e il suo sapere tanto di lei, le avrebbe avute alla festa ma non poteva attendere.
  • Dovrai anticipare un po’ la cosa, tesoro – mormorò mentre andava verso la macchina con in mano il pacco con il vestito da damigella avuto in prestito dall’amica. L’ora non era certo la più adatta ma si trattava di una serata speciale, visto l’accaduto.
Sapeva dove viveva, lo aveva accompagnato. Bellissima casa quella dei Tyler. Chissà che sontuosa festa stavano organizzando. Ma vedendo passare tutte quelle auto militari per la strada, Donna ebbe un altro forte presentimento: che tutti i programmi che aveva fatto per le settimane a venire non avrebbero avuto più molto senso.
Sollevò lo sguardo alle stelle.
Almeno c’erano. Erano tornate. In quel momento il pensiero di John Smith e di suo nonno si mescolarono di nuovo nella sua mente in modo irreale. Era quel sognatore cui troppo somigliava, secondo sua madre, ad averle messo dentro quell’ansia verso l’infinito. Per un periodo però aveva cercato di dimenticarsene, di cercare surrogati dell’avventura che desiderava per poi accontentarsi dell’ordinario. Smettere di guardare le stelle con curiosità e ansia, smettere.
Troppo vecchia per i sogni, si diceva trascinando sé stessa lungo le stesse strade ogni giorno. Troppo vecchia, le ripeteva sua madre.
  • Tu mi avresti detto che non è vero, nonno – disse a mezza voce. Sì, ne era sicura.
Eppure quel che guardava in quel momento somigliava incredibilmente a qualcosa che aveva avuto molto più vicino. Lui, il Dottore. Era così nella sua mente, più che “John Smith”.
Quel cielo così misterioso e profondo, così pauroso e bello insieme.
  • Somiglia così tanto ai suoi occhi… - pensò guardando l’abisso oscuro nel quale tutto sembrava sospeso miracolosamente.
 
 
 
**
 
I suoi occhi avevano gelato il sangue dei presenti.  Erano bellissimi e terribili insieme. Non umani.
Diversi da quelli che aveva prima eppure gli stessi. Sul fondo di essi, i bagliori irreali color blu cobalto, scintillavano come fiamme apparendo più o meno evidenti. Martha lo guardava con timore ma non la paura degli altri che erano in quel momento con lei.
  • Dottore… - sussurrò su quel silenzio irreale, rotto solo da qualche movimento che proveniva da sotto. Per qualche minuto tutto si era come staccato dalla realtà in cui erano, ma vi erano tornati di colpo ed in fondo dove erano sempre rimasti: in un laboratorio del Torchwood devastato da un’esplosione che però era avvenuta in un senso diverso da come avrebbero temuto.
Li aveva salvati. Li aveva salvati tutti ma non solo in quell’edificio.
La portata di quell’oggetto, decisamente peggiore rispetto a quanto aveva teorizzato Steward, era devastante in sensi che neanche avrebbero sospettato e che però erano fino troppo noti al Dottore. Il Dottore però era riuscito ad averne ragione anche per merito di quell’altra cosa cui lavorava e che credevano fosse “altro”, un’arma: il TARDIS.
Che fine aveva fatto? Che cos’era, alla fine, quell’oggetto che si era materializzato al centro del laboratorio e che non era più lì, neanche ridotto in frantumi? Era stato più che mai evidente che anche il Dottore non si aspettava quel che poi era accaduto ma tutto restava ancora misterioso, assurdo. La mente scientifica di Martha chiedeva spiegazioni, le pretendeva. Ma come non arrendersi davanti a quel che avevano visto dopo? Cosa vi era di più incredibile dal tornare indietro dalla morte?
Tutto sembrava scomparire davanti a Lui. Il suo pensiero era al centro della sua mente. Senza saperlo, Martha stava sorridendo, commossa. La sopravvivenza del Dottore era costata il sacrificio di chi conosceva più di quell’uomo, il povero Lakil; ma Lui era vivo e Martha non riusciva a non essere addirittura irrealmente felice per quello. Ancora una volta la sensazione di conoscerlo. Tutti i suoi pensieri su di lui, inopportuni e del tutto immotivati vista la situazione, erano più forti, sempre più nettamente definiti in un senso assurdo.
Poteva accadere qualcosa del genere?
Aveva salvato tutti. Lui aveva salvato tutti. Era ammirata riconoscenza, la sua? No. Non lo era.
Intanto il Dottore restava immobile e in silenzio, gli occhi fissi davanti a sé. Non batteva le ciglia, come fosse congelato. Il pallore della morte non era più sul suo viso, vi era solo stanchezza.
I suoi occhi splendevano in quella luce e lui stesso pareva avvolto da un riverbero irreale, freddissimo, qualcosa che sembrava essere dentro di lui da prima, quando lo avevano ritrovato tra i cocci, ma che era diventato molto più forte dopo quello che avevano visto accadere.
Il respiro era veloce ma regolare, stava normalizzandosi come prendesse semplicemente fiato dopo una lunga corsa. Sembrava inconsapevole di dove si trovasse.
Accanto a lui le spoglie di Lakil, irriconoscibili avanzi di un essere che si era distrutto per restituirgli la vita e il Dottore era indifferente ad ogni cosa. Martha rivolse uno sguardo a Steward che aveva ritratto la mano dal corpo del Dottore quando lui si era sollevato a sedere senza sforzo o dolore apparente.
Come tutti gli altri, lo guardava con paura. Lena continuava a piangere tra le braccia del ragazzo robusto ma senza smettere di guardare gli occhi di chi amava in quell’uomo che avevano visto morire. 
Il Dottore ad un tratto chiuse lentamente gli occhi portandosi lentamente una mano al fianco, dove era stato trafitto dalla scheggia che Lakil aveva rimosso dal suo corpo facendolo gridare.
Il suo terribile urlo. Lo aveva ancora in testa.
Martha si scosse.
  • Dottore… - lo chiamò di nuovo ma con voce più decisa e il tono di chi aspetta una risposta. Non l’ebbe ma lui aprì gli occhi e Martha si scosse indietro istintivamente quando l’uomo prese tra le mani uno dei frammenti di vetro che aveva attorno e si alzò in piedi, senza esitazione. Cosa voleva fare?
    Lo guardarono tutti, intimoriti perché sembrava affilato come una lama o uno dei cocci su cui prima giaceva e sui quali vi era ancora il suo sangue. Aveva fronteggiato Tashen così fiero, come appariva in quel momento e come lo era solo il suo stare in piedi. Ma diversamente da prima appariva gelido, distante. Il Dottore era lì? Era Lui?
    Martha allora ebbe improvvisamente il dubbio e fece cenno agli altri di mettere le mani alle armi. Prudenza. L’aveva dimenticata, smarrita da quelle strane sensazioni nei suoi confronti.
Il Dottore sembrava però non badare a nessuno di loro. Lo vide muoversi con passo lento e misurato, calmissimo, diretto vero qualcosa che aveva proprio davanti a sé. Capirono subito.
Il cadavere di Catherine Lane.
Era in condizioni orribili e ciò nonostante, e questo fece allentare la presa di Martha sull’arma, lo vide chinarsi su di lei ed avere verso quel corpo dilaniato un gesto dolce. Una carezza. Poi accadde una cosa che li fece rabbrividire. Il Dottore rivoltò la donna morta di schiena con un gesto che parve stridere terribilmente con quello avuto un secondo prima e poi lo videro conficcare con forza il coccio dentro di lei. E poi tagliare, lentamente e in profondità.
  • Mio Dio…!  - gemette Steward inorridito, vedendo le mani del Dottore sporche di sangue e lui del tutto indifferente, estrarre qualcosa da dentro il corpo e metterlo da parte.
  • Ma cosa sta facendo? – mormorò il ragazzo robusto. Lena invece fissava la scena con una calma strana, shoccata forse. Così pensavano gli altri. Nessuno poteva sapere che lei stava ascoltando qualcosa. Non delle parole ma una sensazione. Una strana sensazione e un pensiero rivolto limpidamente a lei soltanto. Il Dottore si alzò in piedi senza voltarsi verso di loro ma Lena si sciolse dalla stretta del ragazzo robusto rivolgendogli uno sguardo umido di pianto ma più calmo. Martha la fissò preoccupata.
  • Lena… - la voce del Dottore. Lei annuì ma il ragazzo robusto la riprese per un braccio. Lei scosse il capo facendogli capire con un cenno di stare tranquillo e non preoccuparsi. Il giovane allora annuì lasciandola andare del tutto seguendola alzarsi in piedi, indecisa e andare vicino al Dottore. Quando furono vicini e lui la guardò con gli occhi che aveva avuto Lakil, Lena non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire una lacrima ma senza un singhiozzo – Lena… - ripeté il Dottore ma con un tono più gentile – cosa saresti risposta a sopportare, se io potessi restituirtelo? – la ragazza quasi gemette.
  • Tu… Puoi…?
  • Sì – disse il Dottore con tono deciso – ma cambierà e avrà bisogno di te. Quanto puoi accettare che sia la stessa persona ma non del tutto…?
  • Mi riconoscerà…? - lui annuì.
  • Quello che ha avuto da me, gli consentirà di trattenere meglio la sua memoria, le cose fondamentali. E i suoi sentimenti per te saranno intatti. Ma non sarà lo stesso, purtroppo questo non posso farlo – Lena sentì che le stava chiedendo qualcosa che in qualche modo l’aveva riguardato. Non poteva sapere in che senso e fino a che punto. Il Dottore la fissò profondamente per un lungo momento, quindi fece per avvicinarsi a lei mentre tutti stringevano più forte l’arma che si erano preparati ad usare, su cenno di Martha. Il Dottore si accorse del loro gesto e non reagì. Si chinò sulla ragazza e sussurrò all’orecchio di Lena qualcosa. Poi si allontanò da lei un passo e la guardò ancora, come fosse in attesa. Lena aveva schiuso le labbra per la sorpresa a quelle parole che non avevano sentito e l’aveva guardato incredula. Il Dottore continuava a guardarla e Martha vide che sembrava farlo in un altro modo, persino con dolcezza. E in quello sguardo rivide ancora Lakil e così fissò con pena quel che ne restava, ancora accanto a quel cumulo di cocci taglienti. Le venne in mente allora un dubbio atroce e spiazzata fissò Lena.
  • Puoi accettarlo? – il Dottore continuava ad aspettare la risposta. E così tutti videro Lena persino accennare ad un sorriso, che parve davvero assurdo in quel momento e fece loro gelare il sangue.
  • Fallo – disse la ragazza con tono deciso e poi videro sorridere anche lui. Ma a quel punto Martha Jones tolse del tutto la mano dalla sua arma. Era stato un sorriso umano, quello del Dottore.  
 
***
 
C’erano militari ovunque. Sparsi per le strade. La gente chiedeva del blackout delle comunicazioni, più preoccupata dall’interruzione dei programmi televisivi che altro. In effetti, pensò mentre camminava con in mano la busta con il vestito da damigella che le era stato prestato, Donna ricordò di aver perso l’ultima puntata di quello sceneggiato che seguiva da due mesi ormai. Con una smorfia di disappunto al pensiero, ormai con la macchina di fronte, fece per entrarvi ma qualcosa attrasse la sua attenzione. Nonostante la luce e la posizione,  si accorse che nel vicolo che aveva davanti c’era qualcosa di strano. Non capì subito poi vide meglio. Qualcuno era a terra.
Si irrigidì e si guardò attorno allarmata.
Chiaramente vi era anche troppa gente per altre strade ma non lì. E non poteva certo lasciare quel poveraccio lì. Corse verso di lui trascinandosi la busta con il vestito.
  • Ehi, lei…!  – lo chiamò a voce alta. L’uomo non ebbe reazione e Donna scosse il capo – signore…! – quasi gridò. Non ebbe risposta.
L’uomo era riverso a terra, su un fianco. Nonostante il momento, Donna non poté fare a meno di notare come fosse singolare il vestito che indossava. Pensò al fatto che potesse essere diretto ad una festa in maschera. Qualcuno le organizzava visto il periodo. Sperò che fosse ubriaco e quindi svenuto o addormentato, ma mentre lo girava verso di sé si accorse che qualcosa le aveva bagnato le mani. Sbarrò gli occhi perché comprese subito che era sangue.
Non si perse d’animo e girò supino l’uomo. Vide che aveva una brutta ferita ad un fianco che aveva inzuppato totalmente la giacca ottocentesca che indossava. Era un uomo giovane, capelli lunghi, bei lineamenti e grandi occhi chiari aperti nel vuoto. Donna ebbe un tremito davanti a lui.
  • E’ morto… - gemette a voce alta e guardandosi attorno, senza però trovare ancora nessuno. Ebbe paura. E se per caso l’avessero scambiata per la responsabile dell’omicidio? Era poi un omicidio? Era ferito ma non aveva idea di cosa potesse essere successo. Lo fissò con pena, sebbene fosse agitata. Non aveva mai visto un uomo morto. Solo suo nonno.
Era stato investito da un’auto in corsa che aveva svoltato dalla parte sbagliata, a destra e non a sinistra e così, in modo banale, suo nonno le era morto davanti. Non aveva fatto in tempo a trattenerlo accanto a sé, si era voltata altrove e neanche ricordava per quale motivo. Un attimo dopo, era tutto finito.
Gli occhi di Donna si fecero più lucidi. Sperò che l’uomo che aveva di fronte fosse morto in fretta.
Si alzò in piedi cercando di controllare il panico che si stava nuovamente affacciando in lei. Non poteva lasciarlo a quel modo, c’erano tanti poliziotti in giro, l’esercito persino. Doveva solo trovare qualcuno, incontrare qualcuno…
Lasciò il vicolo con un’ultima occhiata all’uomo e con ancora la busta con il vestito dietro, ripercorse la strada indietro, correndo. Fortunatamente, anche per provare il vestito, aveva deciso di tenere le scarpe da ginnastica. Era una cosa che faceva spesso, notò. Come dovesse tenersi pronta a... Correre. Un pensiero che l'accompagnava sempre più spesso. Nonostante il passo veloce, le parve di fare una strada più lunga della medesima in senso opposto ma finalmente, sul fondo della strada, vide un’auto e due poliziotti circondati da alcune persone che stavano ancora chiedendo del black out. Donna ebbe un gesto di stizza ma la donna in divisa notò il suo atteggiamento.
-  Signora, ha qualche problema? – Donna pensò che non fosse il momento di precisare che non era affatto una signora.
-  Sì, sì! – disse con urgenza – vi prego, dovete venire con me. Andavo in fondo alla strada, dove ho parcheggiato l’auto e in un vicolo di fronte ho trovato un uomo morto.
- Che cosa? – la poliziotta intanto cercò di attirare l’attenzione del collega che era impegnato in una discussione con una signora alquanto insistente – Adam….! – lo chiamò con urgenza e poi gli fece cenno di avvicinarsi. L’uomo si scusò con la signora e subito fu loro accanto.
Donna quindi raccontò che cosa era accaduto cercando di mantenere la calma e le parve persino irreale il tutto, la situazione, il fatto di non avere voglia di urlare come al solito. Aveva invece una terribile angoscia addosso ma di tipo differente; qualunque altro sentimento stava provando prima, si stava trasformando in altro. Una cosa molto strana.
Mentre Donna quasi stava per chiedersi, incredibilmente, perché fosse tornata indietro a cercare qualcuno, invece di mettersi in macchina e andare rapidamente a casa del “Dottore”, i due poliziotti convennero che era il caso di seguirla dove aveva visto la persona che aveva definito “ferita a morte”. Li guidò allora, persino seccata dalla cosa, guardando l’orologio e sbuffando con impazienza che turbò molto uno dei due che per il breve tragitto la osservò con scoperto disappunto. Quando giunsero nel vicolo, Donna fece un gesto indicandolo. I due si guardarono ed addentrarono per la via fino in fondo. Qualche minuto dopo uscirono entrambi con espressione indefinibile sul viso.
  • E allora? – chiese Donna con tono petulante.
  • Non c’è nessuno.
  • Ma nessuno chi? – chiese Donna meravigliata e li guardò arrabbiata. Perché l’avevano seguita, cosa era successo? Che volevano da lei?
  • Signora, lei ci ha detto che c’era un uomo morto in quel vicolo – disse la donna in divisa.
  • Cosa?  - esclamò lei con espressione incredula - Io? Ma non dica sciocchezze!  - i due si guardarono un istante.
  • Signora, è la sua macchina?
  • Certo che è la mia macchina! L’ho appena aperta con le chiavi, vede? – mostrò il mazzo con il portachiavi quasi agitandolo davanti agli occhi del poliziotto che fece un sorrisetto.
  • Strano oggetto. Non ne vedevo da quando ero bambino. Un portachiavi a forma di vecchia cabina della polizia!
  • Una cosa che mi ha regalato mio nonno, anni fa… - disse Donna che intanto aveva gettato la busta con il vestito sul sedile e stava per entrare in macchina. Il poliziotto la fermò scuotendo il capo.
  • No, no – lei lo guardò stupita - temo che prima di salire debba dimostrarci il suo stato fisico.
  • Ossia?
  • Se è sobria – Donna gli rivolse un’occhiata furente.
  • Ma come si permette…?
  • Signora, o lei è ubriaca oppure il suo è procurato allarme consapevole ed è un reato. Spero per lei che sia in uno stato alterato altrimenti… - una chiamata sulla radio della collega interruppe il discorso del poliziotto. La donna fece capire al collega l’urgenza e quindi l’uomo staccò la mano dalla portiera della macchina di Donna con un gesto quasi di stizza. Lei lo fissò perplessa.
  • È una serata particolare è molto fortunata.
  • Oh, buono a sapersi! – disse Donna sarcasticamente ma si accorse che doveva trattarsi di qualcosa di molto preoccupante a giudicare dall’espressione della donna che aveva risposto alla chiamata – che cosa è accaduto?
  • Un incidente grave al Torchwood… sembra vi sia stata un’esplosione – Donna impallidì. Era dove aveva detto di lavorare lui. Ebbe la limpida e irrazionale certezza che avesse a che fare con John Smith e lo stomaco le si strinse. Fu in quel momento che di colpo ricordò.
L’uomo morto. Come le era passato di mente? Come era possibile? Rivolse lo sguardo alla via dove si erano addentrati i due poliziotti. Non avevano trovato niente. Era impossibile. Donna ricordò anche che lo aveva toccato e doveva avere la mano bagnata di sangue. La guardò e per sicurezza anche l’altra. Nulla. Niente. Ma era accaduto. O non era accaduto?
  • Pare che ci sia un morto – aggiunse la donna e fece cenno al collega di lasciarla andare.
  • Chi?
  • Un dottore, qualcuno che lavorava nei laboratori dove si è verificato l’incidente ma… insomma, non è affar suo!
  • Sono una cittadina e lo è! – protestò Donna. Entrambi, scuotendo il capo, si allontanarono velocemente da lei forse intuendo che una discussione sarebbe stata lunga e difficile da gestire, con quella donna. In fondo che importanza poteva avere? Nessuna: era una comunissima squilibrata e quella sera c’era ben altro da gestire.
Donna, al volante della sua macchina, indecisa per un attimo se mettere in moto, ebbe per un istante lo stesso pensiero. Stava impazzendo? Il ricordo di quel viso era tornato limpidamente davanti ai suoi occhi, come presente. Ma non c’era più.
Cosa poteva portare qualcuno a vedere qualcosa che non c’era e persino dimenticarsi di averlo visto, per poi ricordarsene di colpo?
Una luce che si accendeva e spegneva. Ecco cosa sembrava.
Le parole del poliziotto però risuonavano nelle sue orecchie e quel presentimento la stava facendo soffrire, come quel dolore poco prima a casa della sua amica.
Forse era sintomo di qualcosa di grave. Forse era qualcosa al cervello. Pensò ad una battuta ironica di sua madre al proposito. Ormai se le faceva da sola, recitandole con la sua voce. Fece un sospiro spazientito.
Sì, aveva bisogno di un dottore ed era una cosa urgente.
Non si sarebbe però recata al pronto soccorso più vicino ma dove intendeva andare prima che le accadesse anche quella stranezza. Il Dottore che le occorreva non lavorava in ospedale e sperava che stesse bene. 

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